Steel Wings

di Merkelig
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Conosci il nemico ***
Capitolo 2: *** Spirito perduto ***
Capitolo 3: *** Un lungo cammino ***
Capitolo 4: *** Finalmente liberi ***



Capitolo 1
*** Conosci il nemico ***


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Capitolo I
Conosci il nemico

 
 
- Aladiah…
La voce paziente di Jophiel finisce per distogliere il giovane angelo dalle sue riflessioni.
- Che cosa c’è? – chiede quello, fissando il compagno con i grandi occhi ambrati.
- Dobbiamo andare. Damabiah ha suonato il corno. Siamo stati convocati. -
L’angelo lancia un’ultima occhiata al paesaggio sotto i suoi piedi.
Una foresta lussureggiante si stende per miglia e miglia, prima di precipitare in direzione di alcune rocce a strapiombo su un dirupo.
Aladiah adora quel luogo. Non solo perché è uno dei pochi posti dove la guerra sembra non essere passata, ma anche perché la cocciutaggine con cui quei poveri alberelli si aggrappano alla parete rocciosa lo fa sorridere. Sono piante sottili, fragili ad una prima occhiata. Ma emanano una volontà ferrea di sopravvivere, laddove esse sono sempre state. Non hanno scelto il luogo in cui venire al mondo e svilupparsi. Non possono sottrarsi al vento, alle frane, ai rovesci. Scelgono però di aggrapparsi alla vita con tutte le loro forze, invece di recriminare per dove Dio le ha posate.
Sagge, effimere piante.
- Aladiah…
- Si. – sospira il giovane.
I due angeli distendono le grandi ali d’acciaio e si innalzano verso il cielo.
 
 

 
 
- Guarda Giona. Lassù.
Il piccolo Giona, dalle felci dove si è acquattato pochi minuti prima, alza il nasino spruzzato di efelidi verso il cielo.
Due immense sagome alate stanno volando sopra di loro, in quel momento. Gli scuri profili minacciosi si stagliano nettamente contro l’azzurro del cielo.
Sua sorella gli fa cenno di restare nascosto, finché i due angeli non superano la loro posizione, sparendo alla vista.
Quando è certa che le due creature non li abbiano visti, la ragazza si solleva a sedere con un sospiro.
- Serafina… - chiama il bambino, strofinandosi le manine l’una contro l’altra per pulirle dal terriccio umido del sottobosco.
La ragazza riesce a malapena a trattenere una risata. Quando il fratellino assume quell’espressione corrucciata significa che sta per porle una domanda seria. Il fatto è che Giona è un bambino. Un bambino estremamente giudizioso e precoce, ma pur sempre un bambino. Di conseguenza, il contrasto tra l’atteggiamento di matura serietà e quel volto infantile fa sempre sorridere la ragazza, più di tenerezza che di divertimento. Serafina comunque si impone di trattenere ogni reazione e di rispondere con altrettanta serietà, sforzandosi di andare oltre la sembianza di ingenuità del fratello.
- Si?
- Perché gli angeli sono malvagi?
Lentamente il sorriso della ragazza si sbiadisce in una piega mesta.
- Non lo so, piccolo.
- Ma tu mi hai raccontato delle storie su di loro. Dicevi che un tempo erano buoni e proteggevano gli uomini. E avevano grandi ali bianche, fatte di piume!
- È vero, un tempo era così.
- E che cosa è cambiato?
- Giona…
- No! – interrompe improvvisamente il bambino – Voglio saperlo! Per favore, Serafina. È l’unica storia che ancora non mi hai raccontato.
- Cavolo, Giona! – Serafina si alza in piedi bruscamente. – Sei solo un bambino! Io c’ero quando è successo, sai? Ero più piccola di te. E sono cresciuta con quelle immagini addosso. Maledizione, sei fortunato a non sapere nulla. Questa non è come una di quelle storie che ti racconto la sera per farti addormentare. Questa storia ti farà venire gli incubi! -
Giona tace. La sorella lo vede stringere i pugnetti e abbassare il viso, ora tutto rosso.
Senza dire una parola la ragazza lo guarda, finché lo smeraldo dei suoi occhi si incatena a quello molto più limpido e sincero in quelli del fratello.
Gli porge la mano.
- Torniamo a casa, dai. – sospira.
 
 

 
 
 
Luce. Luce ovunque. I raggi solari entrano da interstizi invisibili e vengono riflessi all’infinito da specchi nascosti. Nel palazzo dorato al di sopra delle nuvole la luce regna incontrastata. Le pareti, interamente rivestite con il prezioso metallo, scintillano liquide. Le linee pulite di angoli e scale non servono a ridurre il senso di smarrimento che prende il cuore, causato dall’architettura paradossale di quel luogo.
La struttura sembra seguire un infinito nastro di Möbius, che dà l’impressione di attorcigliarsi su se stesso con un impercettibile movimento ipnotico.
La profondità perde significato. I profili degli spigoli a tratti si piegano in angoli impossibili, conservando comunque il loro contorno rettilineo.
Scale. Numerosissime scale, che non conducono in alcun luogo. I gradini, tutti perfettamente identici, costruiscono un percorso che termina nel vuoto. Alcune scalinate si interrompono bruscamente, laddove un parete si frappone lungo il loro cammino. Altre invece continuano all’infinito per poi tornare a chiudersi su se stesse, proseguendo ciononostante a salire o a scendere.
Porte, minuscole o gigantesche, si schiudono su pareti cieche, mentre archi altissimi si aprono su immensi cieli stellati e su territori vasti ed estranei.
Ogni corso perseguibile, a piedi o con lo sguardo, termina al centro di quel luogo, dove una luce purissima si irradia dal centro della stanza.
I due angeli avanzano lentamente.
Mantenendo il più perfetto silenzio, essi ripiegano le grandi ali scintillanti e chinano il capo in direzione della luce.
Una voce bronzea risuona all’improvviso. Sembra provenire da ogni angolo, da ogni parete, da ogni colonna, e allo stesso tempo sembra non avere origine da nessun luogo.
- Andate, e perlustrate il versante roccioso delle colline a ovest.
Una frase brevissima, che risuona limpida nel silenzioso atrio dorato.
Jophiel china il capo con deferenza, lasciando che i lunghi capelli argentati gli coprano il volto.
Aladiah osserva il compagno mentre si inchina a sua volta, con l’impressione di compiere un monotono rituale divenutogli ormai estraneo. Si sente lontano da quel luogo, con la mente e con il cuore. Si sente sperduto, in uno spazio che non gli è possibile riconoscere. Si sente sospeso in una realtà che non considera tale, come se vivesse in un sogno e non ne avesse coscienza.
Jophiel avverte che il giovane è irrequieto e distante. Apre i limpidi occhi cerulei e lo osserva con uno sguardo senza tempo, che non lascia trasparire alcuna espressione. Lo guarda per un tempo che è difficile da determinare.
Lentamente, si volta e cammina silenzioso verso la grande terrazza sulla quale sono atterrati pochi momenti prima. Quando percepisce che il compagno è al suo fianco, distende le ampie ali e si alza in volo.
 
 

 
 
 
Dall’alto è impossibile rilevare l’effettiva presenza umana che, quando il cielo è sgombro dalle grandi ombre alate che di tanto in tanto lo attraversano, anima il piccolo spiazzo erboso.
Solo un esame attento e paziente consente di scorgere le piccole capanne di legno grezzo, disseminate sotto gli alberi in un semicerchio. Le pareti sono di grossi rami, dalla forma irregolare, e il tetto è coperto da uno spesso strato di fogliame che viene cambiato regolarmente.
I due fratelli arrivano al campo quando le cime degli alti pini sono lambite a malapena dagli ultimi, tiepidi, raggi del sole.
Una ventina di adulti, tra uomini e donne, sta raggruppando il cibo raccolto durante il giorno. Tre anziane, aiutate da alcuni ragazzi, sistemano un grosso pentolone pieno d’acqua sul fuoco acceso al centro dello spiazzo. Alcuni bambini corrono sull’erba, facendo la spola tra i loro genitori e le donne che si occupano del fuoco.
- Piccolo Giona! Siete tornati!
Il bambino non si fa chiamare una seconda volta e corre verso una donna anziana che lo sta aspettando a braccia aperte.
Serafina lo osserva con un mezzo sorriso, prima di incamminarsi nella loro direzione.
Quella donna è nonna Rachele. È una donnina minuta, con un grande scialle logoro sulle spalle e un paio di grossi occhiali da vista, con una lente incrinata. Nessuno sa con chi sia davvero imparentata, probabilmente nemmeno lei lo sa con certezza. Nel dubbio, si prende cura di tutti i bambini del campo. Quando gli adulti la biasimano perché badando ad ogni bambino spesso si ammala per la fatica, lei risponde loro che chiunque dei piccoli potrebbe essere un suo nipotino. Perciò ama e alleva con la stessa cura tutti i bambini.
Spesso, durante il giorno, molti dei bambini devono restare al campo. Così Rachele gioca con loro, disegna con loro, dà loro da mangiare e insegna loro a leggere, scrivere e contare. Quando i piccoli hanno paura lei racconta loro delle storie fantastiche, che per un secondo li fa viaggiare lontano.
È, insomma, la nonna di tutti. Anche molti adulti vanno da lei per un consiglio. Magari hanno paura per i propri mariti, le proprie mogli, i propri figli o i propri genitori. Nonna Rachele riesce sempre a tranquillizzare gli animi. Forse gli adulti che lei ha aiutato non le corrono incontro festosi come i loro figli o i loro fratellini minori, però si vede quando una persona ha parlato con lei. Quella persona ha una sorta di calore nello sguardo e il sorriso che dura di più che negli altri giorni.
Rachele si è affezionata molto a Giona, soprattutto da quando i genitori dei ragazzini sono scomparsi durante un giorno come tanti. La mattina sono partiti, salutando i figli con un bacio, e non sono più tornati.
Serafina si è presa cura del fratello come poteva, con l’aiuto delle donne del campo e con quello specifico di Rachele. Ben presto cominciò a portarselo dietro dovunque andasse, nonostante le insistenze delle donne più anziane affinché lasciasse il bambino al campo insieme ai suoi coetanei. Serafina aveva testardamente rifiutato ogni volta, finché Rachele non aveva detto alle donne di lasciare in pace quella povera ragazza e di tornare a farsi gli affari di qualcun altro, che diamine.
Forse Rachele aveva capito che la ragazzina viveva nel terrore quotidiano di vedere sparire anche il fratellino, da un momento all’altro. Forse comprendeva che non era tanto l’egoismo, quanto il senso di responsabilità a muovere le azioni di Serafina nel suo rapporto con Giona. Forse fu l’unica persona a preoccuparsi e a prendersi cura di entrambi i fratelli, non soltanto del piccolo. Forse fu l’unica a rendersi conto che gravare una quindicenne con le responsabilità di una donna non la rende adulta.
Serafina è maturata in fretta. Eppure il suo cuore si alleggerisce ogni volta che vede Rachele venire loro incontro con la sua andatura traballante.
- Sai nonna che oggi abbiamo visto due angeli?
- Ah si? E com’erano? – chiede la vecchietta, prendendo il bambino in braccio.
- Stà attenta, Rachele. Alla tua veneranda età bisogna evitare gli sforzi. – la canzona Serafina.
- Non rompere, ragazzina. – brontola la donna, aggiustando la presa per sostenere meglio Giona.
- Erano giganteschi, e non si vedevano bene. Le ali scintillavano. Volavano velocissimi!
- Lo immagino. Tua sorella ti ha raccontato di loro?
- Si. Mi ha detto che c’è stato un tempo in cui erano buoni e vegliavano sugli uomini.
- È tutto vero. Quando ero più giovane, per dire che un uomo era molto buono si usava l’espressione ‘ un uomo nato angelo, intrappolato al suolo ’. – ricordò la donna, posando a terra il bambino con un sospiro. – Adesso fa il bravo, và a lavarti un po’ il visetto. Tra un’ora si mangia.
Il bambino annuisce e prende per mano la sorella.
La ragazza sorride alla donna e si avvia verso il loro capanno.
 
 
 

 
 
 
 La sera, limpida e frizzante, stende il suo fresco manto sulle colline brunite. Tutti i colori si oscurano, mano a mano che il sole cala dietro al profilo roccioso.
Aladiah scandaglia i territori circostanti con occhi attenti.
Un fruscio.
Jophiel atterra lieve al suo fianco.
- Ho perlustrato tutta la cresta montuosa. Non ho trovato nulla.
Il giovane si limita a restare in silenzio. Sente che il compagno lo sta fissando, attento. Se gli occhi soprannaturali di Jophiel potessero esprimere emozioni, probabilmente riuscirebbe a scorgervi della preoccupazione nei propri confronti.
- Aladiah… i tuoi sogni sono tornati?
- Si. – sospira l’interpellato. – All’improvviso delle immagini si sovrappongono alla realtà e mi scorrono davanti agli occhi.
Jophiel si siede a gambe incrociate su un grande sasso, raccogliendo la tunica candida sotto di se e ripiegando ordinatamente le ali sulla schiena.
- Raccontami.
Aladiah si prende un momento per osservare il profilo dell’orizzonte diventare un tutt’uno con l’inchiostro del cielo notturno.
- Fiori. Centinaia di fiori. Ricoprono gli alberi, le case, invadono la strada. Avvolgono tutto con i loro petali rosati, con i quali sembrano voler sommergere la Terra. Evitano tuttavia due file di binari ferroviari, di metallo opaco, che continuano fino all’orizzonte. Sopra la mia testa ci sono i fili dell’alta tensione e quelli di un’alta funivia, che sembra galleggiare nell’aria. Il cielo è blu scuro, quasi nero, e sfuma nel grigio tenue, mentre le nuvole disegnano tante forme bianche. L’atmosfera sembra sospesa, raggelata. Poi la scena sbiadisce lentamente, come se i colori che fino ad un momento prima avevo davanti agli occhi scivolassero via silenziosi. Il rosa fiorisce prepotente e mi copre la visuale. In mezzo a tutti quei fiori appena sbocciati scopro una piccola altalena rossa, con le corde bianche. Sopra all’altalena c’è una bambina, con dei buffi codini biondi, che si sta dondolando. Il vestitino blu che porta è schizzato di fango sull’orlo, ma lei non se ne preoccupa. Ride felice.
L’angelo tace, con aria mesta. Dopo qualche momento Jophiel interloquisce cautamente.
- Aladiah… sembra uno scenario anteguerra.
- No, Jophiel. A me sembra tanto un ricordo.
- Un ricordo? – l’angelo corruga la fronte.
- Si.
- Non è possibile.
- Perché, tu non hai ricordi del mondo di prima?
- Certo, - risponde Jophiel – ma non sono così specifici. È più una sensazione. Una sensazione di pace infinita. Di appagamento completo. Di felicità perfetta.
- Anche adesso provi queste sensazioni?
L’angelo, per qualche momento, tace confuso.
- Non è così, vero?
- No. – si ritrova a rispondere quello.
- Allora…cosa è cambiato?
Un silenzio senza risposta cala lento sui cuori dei due soldati. Silenziosamente, l’oscurità lo segue.
 
 

 
 
 
La piccola lampada a nafta disegna intorno a sé un cerchio di luce calda, familiare. Serafina aiuta il fratellino a infilarsi nella ruvida branda arrugginita e lo copre con una spessa coperta da campo di lana grezza.
- Serafina?
- Si?
- Mi dici di nuovo quella frase? Quella che ti diceva la mamma?
- Quella sugli altri mondi?
- Si.
- Beh, la mamma diceva sempre ‘Ognuno di noi ha altri mondi a cui aspirare. Sono i nostri luoghi sicuri, in cui rifugiarsi. E io sogno per me un mondo tutto all’inverso. Un mondo in cui il cielo sta sotto i piedi e in cui la paura non esiste. Vorrei poter ricreare l’universo tutto daccapo. Vorrei poter andare nel mondo più perso, per inventare un altro universo. ’ 
- E tu cosa le dicevi?
- Io le dicevo ‘mamma, non ti capisco ’, lei allora rideva, e mi scompigliava i capelli. Poi diceva di non darle retta, che era un po’ pazza. Aveva idee tutte sue, la mamma.
- Adesso invece hai capito quello che voleva dire?
- Credo di si. – afferma la ragazza, pensierosa – Credo volesse dire che tutti hanno bisogno di un luogo remoto, in cui andare con la mente capisci? Un luogo che sia solo nostro, un luogo di pace e silenzio in cui riposare. A volte è necessario andare molto lontano per poter raggiungere questo luogo. Però la mamma voleva fare di più. Voleva raggiungere il punto più lontano dell’universo, in cui poter ricostruire una vita per tutti. In cui noi quattro potessimo vivere serenamente.
- E tu? Qual’è il tuo posto sereno, sorellona?
Serafina sorride.
– Quando ero molto piccola, io, mamma e papà siamo andati al mare. Ti ricordi che ti ho raccontato del mare?
Il bambino annuisce, attento.
- Una notte sono uscita di nascosto dalla casa in riva al mare e sono corsa in spiaggia. Era bellissimo. Il cielo era di un nero perfetto, senza nuvole. Le stelle erano tantissime, riempivano tutto quanto con la loro luce bianca. Il mare rifletteva quella luce mille volte e i riflessi sembravano danzare sul pelo delle onde. Uno spettacolo stupendo.
- E dopo?
- Sono rientrata quasi all’alba. Mamma e papà non l’ hanno mai scoperto, anche se la mattina dopo mamma si è arrabbiata molto per tutta la sabbia sui pavimenti di casa. Ma, non avendo scoperto il colpevole, l’arrabbiatura le è passata presto.
La ragazza ride, divertita dal ricordo. Poi da un bacio in fronte al fratello.
- Buonanotte, Giona.
E in quel momento un grido d’allarme infrange l’aria tranquilla della sera.
 
- Angeli!
 
 

 
 
 
Quando un riverbero di luce pallida gli sfiora il viso, Aladiah volge lo sguardo verso il disco lunare. Damabiah scivola lieve sui raggi luminosi, come solo lui riesce a fare. I lunghi capelli corvini danzano lievi nell’aria e sembrano duettare con i lembi dell’impalpabile tunica verdeazzurra. Il viso dall’ovale perfetto è privo di espressione.
Il messaggero si posa senza rumore sulla cresta montuosa, al cospetto dei due angeli. Piega ordinatamente le ali bronzee sulla schiena e interloquisce con voce formale.
- I vostri ordini sono cambiati. Un gruppo di umani si nasconde nel folto del bosco vicino al fiume, a tre ore di volo in questa direzione. Andate e purificate la Terra.
Jophiel annuisce e, imitato dal compagno, spiega le ali e si alza in volo.
 
 
 

 
 
 
- Angeli! – grida la sentinella una seconda volta.
Serafina si precipita fuori dal capanno. Il campo è in subbuglio. Un gruppetto di adulti sta togliendo i teloni da sopra gli spara arpioni d’acciaio, mentre tutti gli altri corrono a cercare riparo, strattonando nella fretta i bambini che piangono disperati.
Due ombre scure si delineano minacciose nella polvere che turbina nell’aria. 
La ragazza trattiene il respiro. In un silenzio irreale, le due creature planano al suolo.
Avanzano lentamente sul terreno polveroso, mentre le loro sagome diventano più chiare ogni secondo che passa.
Alla fine emergono dalla foschia.
Sono due giovani.
Il primo è alto, ha lunghi capelli chiari e uno sguardo gelido. Il secondo sembra appena un ragazzo, con una massa ribelle di ricci ramati. Solo gli occhi, di un colore innaturalmente dorato, rivelano la reale assenza di ingenuità in lui.
Avanzano silenti, inarrestabili. Senza esitazioni, senza coscienza. Senza pietà.
- Adesso!
A quel grido l’incantesimo si rompe.
Le lunghe fiocine argentee si lanciano sibilando contro gli aggressori, che si separano rapidamente. Uno dei due raggiunge con un salto il cannone più vicino e lo fa a pezzi assieme al suo artigliere, mentre l’altro lancia enormi macigni sulle casupole di legno.
Serafina si volta e corre verso il capanno dove ha lasciato Giona. Il piccolo è sceso dalla branda e si sta sbracciando sulla porta, non osando uscire. Il rumore tremendo copre la sua voce e quella della sorella, che gli sta gridando di scappare. Riesce a raggiungerlo e a prenderlo in braccio, poi comincia a correre nella direzione opposta. Una grossa pietra si schianta nel punto dove pochi secondi prima il bambino si era fermato.
Senza guardarsi indietro Serafina corre, lasciandosi alle spalle la carneficina che sta avvenendo nel piccolo spiazzo erboso
.  

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Capitolo 2
*** Spirito perduto ***


Capitolo II
Spirito perduto

Dovettero passare quattro giorni prima che Serafina trovasse la forza necessaria a tornare sui suoi passi. Per quattro giorni lei e Giona hanno vissuto dentro una caverna umida, mangiando le poche bacche commestibili sopravvissute al freddo, bevendo dalla cascata vicina. Nascondendosi tutte le volte che sentivano un rumore di ali venire nella loro direzione.
Alla fine la ragazza si è fatta forza, ha preso per mano il fratellino e, tremando, è uscita allo scoperto, dirigendosi verso il campo.
La vista che gli si presenta davanti è atroce.
Cadaveri.
Cadaveri di uomini, donne, vecchi, ragazzi. Bambini. Gli stessi bambini che la settimana prima giocavano con Giona.
Tutte le persone che non sono riuscite a scappare in tempo.
Serafina prende in braccio il fratellino, perché non rivolga lo sguardo a quello spettacolo tremendo.
- Se qualcuno è sopravvissuto non ha avuto il coraggio di tornare qui. – dice più a se stessa che al bambino. Il silenzio la opprime, rafforza quel senso di nausea e stordimento che l’ ha assalita assieme al tanfo dei corpi insepolti.
Quasi a volerle dare torto di proposito un lamento soffocato raggiunge il suo orecchio.
La ragazza si volta di scatto verso la fonte del suono e comincia a cercarne l’autore, come un segugio che ha puntato un coniglio. Si distrae solo quando sente la sua scarpa scivolare su qualcosa di viscido. Abbassa lo sguardo con un brivido.
Sangue. Una lunga striscia scarlatta disegna un macabro percorso che svolta l’angolo.
Quando la ragazza aggira i poveri resti di una capanna distrutta non può fare a meno di fare un brusco passo indietro.
Perché davanti a lei, accasciato al suolo e con gli occhi chiusi, c’è l’angelo dai ricci di rame.
 
 

 
 
 
Serafina è pietrificata. Non riesce a muovere un muscolo. Il respiro che stava prendendo resta sospeso a metà, nell’aria gelida.
- Serafina…- la chiama il fratellino.
È come un segnale. Al suono di quella voce flebile l’angelo apre gli occhi.
Per lo shock la ragazza cade all’indietro, seduta. Impiega tutte le forze che le sono rimaste per costringere la propria mano sinistra ad uscire dall’ipotermia e a posarsi sulla testa arruffata del fratellino, nella vana illusione che quel semplice gesto basti a proteggerlo.
- Tranquilla. Non voglio farvi del male.
È la prima volta che sente un angelo parlare. Non credeva neppure che sapessero farlo. La sua voce è cristallina. Sembra il suono delle prime acque primaverili che, dopo un lungo letargo invernale, tornano a zampillare festose sotto forma di cascata.
- Stai scherzando?
Lo sguardo della ragazza scorre sulla figura riversa al suolo. Osservandolo, osservando un angelo come mai prima d’ora le era stato possibile, Serafina si rende conto delle numerose ferite aperte sulle sue spalle, sulle sue braccia e sul suo viso, delle macchie, brune e vermiglie, presenti sulla tunica candida e delle numerose scheggiature sulle sue ali scure.
L’angelo la studia per un lunghissimo momento, senza sbattere le palpebre.
- No.
- E gli altri? – l’intonazione è tremolante mentre domanda.
- L’ordine era di fare pulizia, ed è stata fatta.
- Pulizia… - ripete la ragazza tra se e se. Finalmente si azzarda a posare a terra il bambino che ha stretto in braccio finora.
Giona osserva l’angelo ad occhi spalancati. Lo fissa a lungo, senza parlare, mentre l’oggetto della sua curiosità sostiene l’approfondito esame senza battere ciglio.
- Perché mi guardi così? – si ritrova infine a chiedere l’angelo.
Giona, interpellato, sobbalza prima di rispondere.
- Ti immaginavo diverso.
- Diverso come?
- Non lo so. – dice il bambino impacciato – diverso.
L’angelo resta in silenzio, osservando attentamente il bambino.
- Tu prima…forse eri buono?
- Giona! – lo riprende bruscamente la sorella.
- Buono? – l’angelo corruga le fini sopracciglia, confuso.
- Si…forse tu prima proteggevi gli uomini e vegliavi su di loro.
- Io non… non ricordo nulla di “prima”.
- Come sarebbe? – chiede Serafina, forse più aspramente di quello che avrebbe voluto.
L’angelo posa il suo sguardo dorato su di lei.
- Io non possiedo ricordi di prima della guerra.
La ragazza resta costernata.
- Cioè, tu non… non ricordi nulla? Come è possibile?
- Tu sai che cosa è successo, non è vero? – il suo sguardo si accende all’improvviso, così all’improvviso che la ragazza sussulta per il cambiamento repentino del suo atteggiamento. – Tu puoi dirmelo.
Serafina resta in silenzio per un po’, fissando l’angelo scossa.
- Ma tu chi sei? – si ritrova a chiedere a mezza voce. L’angelo le fa paura. Solo pochi giorni prima lo ha visto lanciare blocchi di roccia sui capanni di legno del campo dove viveva. Ha rischiato di uccidere suo fratello. E ora, quello stesso ragazzo – creatura, si corregge, - intrattiene una conversazione con loro come fosse la normalità.
Non riesce a vedere niente nel suo sguardo. Sono occhi vuoti quelli che si posano ora su di lei, ora su suo fratello.
Non riesce a comprendere la situazione, essa le sfugge di mano lasciandole solo un senso di irrealtà e confusione. 
Chi è lui?
Che cosa è?
Che succede?
L’angelo la guarda. Quando si decide a ricambiare lo sguardo, la ragazza si rende conto che, per la prima volta da quando li ha osservati, quei soprannaturali occhi ambrati sembrano aver acquisito un’espressione vera. Sembrerebbero quasi gli occhi di un umano ora, se non fosse per la tonalità così inusuale. 
- Mi chiamo Aladiah. – dice l’angelo. – Tu sei Serafina, giusto?
La ragazza tace. Si limita ad annuire brevemente.
- Puoi aiutarmi, Serafina?
Improvvisamente lo sguardo della ragazza si raggela.
- Vuoi sapere che cosa è successo?
Il piccolo Giona guarda la sorella, spaventato. Non l’ ha mai sentita usare un tono di voce così gelido.
L’angelo annuisce.
- L’Apocalisse.  

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Capitolo 3
*** Un lungo cammino ***


Capitolo III
Un lungo cammino
 

 
- Ero molto piccola quando è successo ma ricordo tutto perfettamente. Il cielo si fece rosso e cominciarono a piovere pietre infuocate. Epidemie, carestie e conflitti di portata mondiale iniziarono a diffondersi sulla Terra. Strane bestie salirono dal mare e dal sottosuolo, e presero a nutrirsi e a riprodursi. La morte aleggiava su tutta quella distruzione, come una macabra foschia che si diffondeva in ogni luogo. Per quattro, forse cinque anni gli uomini e le donne continuarono a morire.
Poi un giorno voi arrivaste sulla Terra.
Temendo un nuovo flagello gli uomini vi tirarono giù dal cielo, uno ad uno.
I credenti gridarono al sacrilegio, ma ormai il danno era stato fatto. Eravate scomparsi. Gli uomini già inneggiavano alla fine delle sofferenze. Poi siete ricomparsi all’improvviso, sette anni fa. E avete cominciato a dare la caccia ad ogni singolo essere umano che era scampato a quasi nove anni di Apocalisse.
Il resto della storia lo conosci. –
 
La ragazza tace. Osserva il fratellino che, con gli occhi sbarrati,  non ha smesso di guardarla neanche per un secondo durante il racconto. Gli mette un braccio intorno alle spalle con fare rassicurante.
Anche Aladiah è rimasto ammutolito dalla portata delle sue scoperte.
- Gli angeli… - domanda in tono titubante dopo un lungo momento – quelli come me insomma…che cosa facevano prima? Prima di tutto questo? Tu lo sai?
Serafina lo guarda, senza espressione.
– Per quelli che ci credevano, voi restavate al fianco delle persone per poterle proteggere. Viaggiavate pacifici attraverso la Terra nascondendovi sotto spoglie mortali. Vegliavate su di noi in pratica. Portavate con voi la parola di Dio.
- La parola di Dio…- l’angelo assapora il suono di quelle parole che gli risuonano inspiegabilmente familiari.
- Si. Stendevate le vostre ali piumate su coloro che erano meritevoli.
- Piumate?
La ragazza annuisce.
- Le vostre ali erano fatte di piume bianche ed erano grandi e soffici…
L’angelo osserva stranito le ampie ali d’acciaio che porta sulla propria schiena. Inspiegabilmente ora gli sembrano più pesanti rispetto a qualche momento prima, come se ne avvertisse l’estraneità. Si accorge che la ragazza le sta fissando. Non può biasimarla, sono davvero minacciose con le linee appuntite come lame e le piastre di metallo brunito simili a rasoi affilati. 
- Devo scoprire che cosa è successo dopo. – la voce dell’angelo, che si era incrinata mano a mano che le sue certezze venivano sconvolte, è tornata ad essere limpida e solida, come una lastra di ghiaccio.
La ragazza lo guarda fisso, senza fiatare.
- Esiste un luogo…insomma un luogo per quelli come me?
- Una specie. – pronuncia lei enigmatica.
- Dove?
- Senti…
- Ti prego. – la interrompe. – Dimmi soltanto dov’è. Poi me ne andrò via.
Lei per qualche momento lo scruta, con uno sguardo difficile da interpretare. Poi si alza in piedi.
- Da quella parte. – dice indicando con il braccio teso un punto alle spalle dell’angelo.
– Non è molto lontano. Lo riconoscerai appena lo vedrai.
Aladiah non replica. Si alza in piedi faticosamente e china brevemente il capo in direzione dei due umani, in segno di riconoscenza. Poi, appoggiandosi ai tronchi degli alberi ai margini della strada, si mette in cammino un passo alla volta.
 
 
 

 
 
 
La foresta termina bruscamente su un ampio spiazzo polveroso. L’angelo, sorpreso di trovarsi all’aperto così all’improvviso, si porta una mano davanti al viso e tossisce, infastidito dal pulviscolo finissimo che si insinua in bocca e nel naso.
I resti di numerose catapecchie sono disseminati un po’ ovunque, in mezzo a numerose macerie e detriti di altra natura. L’angelo si fa strada con difficoltà attraverso le povere rovine di vite distrutte.
Al centro di tutta quella desolazione spicca un edificio ancora in piedi.
È minuto, messo a confronto con le montagne di pietre che lo circondano, modesto, con le pareti chiare e il tetto brunito. Una singola, malinconica, torre si protende per quanto le è possibile verso il cielo.
Zoppicando, Aladiah varca lo spesso portone della piccola costruzione.
All’interno, un povero assortimento di oggetti vecchi e impolverati. Qualche panca di legno, un altare in marmo, poche candele bianche consumate. Un grosso crocifisso appeso in fondo, nella penombra.
Uno spicchio di luce, proveniente probabilmente dal buco lasciato da una tegola caduta, illumina il volto di una donna in un quadro.
L’angelo si avvicina silenzioso, per poterlo osservare meglio.
Una giovane donna bruna con una lunga veste turchina è stata interrotta durante la lettura di un pesante tomo dorato e guarda sorpresa una figura angelica che si inchina di fronte a lei.
Aladiah osserva rapito l’angelo nel quadro.
Non lo colpiscono più di tanto la carnagione chiara, i ricci scuri o il fatto che sopra la testa ha dipinto un cerchio luminoso. Il particolare che assorbe completamente l’attenzione dell’osservatore, fermando il suo respiro a metà, sono le ali che l’artista ha rappresentato sulla schiena del messaggero.
Sono bellissime. Sono straordinarie.
Le piume che le costituiscono sono bianchissime, di un bianco che sembra quasi rilucere debolmente nella penombra.
- Bello vero?
Aladiah sobbalza, all’inaspettato suono di una voce sconosciuta.
Mentre si spegne il debole eco di quelle parole rimandato appena dalle pareti dell’edificio, l’angelo si volta lentamente.
Un giovane uomo lo sta osservando, seduto su una panca.
Due occhi scuri lo osservano sagaci, seguendo ogni suo più piccolo movimento, da sotto una massa ribelle di corti ricci castani.
Indossa una tunica verde scuro, con riflessi dorati.
La sua postura, benché composta, ha qualcosa di impertinente.
Il giovane sconosciuto lo osserva tranquillo, con una lieve sfumatura di ilarità ad attraversargli gli occhi e ad incurvargli quasi impercettibilmente l’angolo delle labbra piene. 
- È l’Annunciazione.
L’angelo tace, studiando il suo interlocutore.
- Dio rivela agli uomini la salvezza. – azzarda l’altro.
Niente, Aladiah non raccoglie. Si limita ad osservarlo, impassibile.
Improvvisamente la sua attenzione viene catturata da un guizzo, un rapido riverbero alle spalle del giovane. Accortosi del suo sguardo, lui sorride e si china in avanti, appoggiando i gomiti sullo schienale della panca davanti a lui. La luce che prima lo illuminava ora scivola lieve sulle sue spalle e sulle sue candide ali piumate.
Aladiah trattiene il respiro.
Il ragazzo sorride misteriosamente.
- Chi sei? – riesce infine a sussurrare il giovane angelo rimasto ammutolito dallo stupore.
- Sono uno dei tuoi fratelli, Aladiah. Il mio nome è Gabriele.
 
 
 

 
 
 
- Gabriele…- pronunciandolo, Aladiah avverte una certa familiarità nel suono di quel nome.
- Si. – afferma l’altro in tono rassicurante. – Sono qui per portare un messaggio.
Per pochi momenti entrambi tacciono. Lo sguardo carico di stupore dell’angelo eretto in mezzo alla navata è ricambiato dalla tranquillità e dal calore negli occhi di quello seduto, come un bizzarro specchio asimmetrico.
Alla fine Aladiah trova la forza per domandare.
- Che messaggio?
- Tu devi conoscere la verità, Aladiah. Le buone intenzioni di un’anima persa hanno portato enormi sofferenze nel mondo. Devi riportare te stesso e i tuoi fratelli smarriti su un cammino giusto.
- Che significa? – chiede il giovane, confuso.
Prima di rispondere l’altro si alza e, aggirando la panca, gli si avvicina.
- Và al palazzo dorato e chiedi apertamente quello che vuoi sapere. E porta con te i tuoi fratelli, perché anche loro vedano e comprendano. – pronunciando le ultime parole  Gabriele gli posa una mano sulla spalla.
Una sensazione di fresco benessere si irradia nel corpo di Aladiah. Quando l’angelo abbassa lo sguardo si accorge che tutte le sue ferite sono scomparse.
Stupito, riporta lo sguardo sul viso dell’altro, che sta cercando di dissimulare con un sorriso un’ombra di malinconia.
- Devo andare, adesso. Il mio compito è finito. – fa quello, abbassando il braccio.
Aladiah resta in silenzio, attonito.
- Addio, fratello.
- Aspetta. – pronuncia l’angelo più giovane, con un’improvvisa nota dura nella voce – Perché adesso? Perché non intervenire prima?
L’altro lo osserva, con una piega mesta ad increspargli le labbra.
- Aspettavamo.
- Che cosa?
- Te.
La piccola stanza si riempie di luce. Quando Aladiah, abbagliato, riesce ad aprire gli occhi l’altro angelo è sparito.
 
 

 
 
 
Aladiah vola veloce, fendendo le nubi con le grandi ali d’acciaio.
Ben presto scorge all’orizzonte l’enorme palazzo dorato. Atterra sull’ampia terrazza e si inoltra per il lungo corridoio a passo spedito.
Quattordici angeli sono raccolti intorno alla luce al centro della stanza, con il capo chino.
Alla vista di tanti colori e tante ali scintillanti, così simili alle proprie, il giovane angelo prova una fitta di disagio.
- Aladiah! – lo accoglie la voce sorpresa di Jophiel.
A quel segnale tutti gli angeli gli si fanno incontro, febbrili. Jophiel si fa strada attraverso la piccola folla  per raggiungerlo.
- Aladiah! Dove sei stato? – gli domanda.
Il giovane angelo prende tempo prima di rispondere. Osserva i tanti occhi luminosi che lo circondano. Verde brillante, come la foresta sotto il sole. Blu profondo, degli abissi ciechi. Grigio pallido, che parla di una fredda mattina invernale. Azzurro tenue, del colore di un cielo gentile.
Mai prima d’ora, osservandoli con sguardo consapevole, aveva avvertito gli occhi dei suoi fratelli così vuoti. Mai prima d’ora aveva sentito i suoi simili così distanti.
Guarda l’amico di fronte a sé.
- Per qualche giorno sono rimasto sulla terra. Ho incontrato due umani. E… - esita un momento prima di proseguire, come se stesse cercando le parole adatte – ho un messaggio importante da riferire.
La voce bronzea risuona improvvisa.
- Che messaggio porti?
Titubante l’angelo guarda verso la fonte di luce, in direzione della quale tutti hanno voltato il viso.
- Io…io devo porre una domanda.
Il silenzio cala bruscamente. Gli angeli trattengono il fiato.
Aladiah percepisce il senso di disagio crescere esponenzialmente, tuttavia avanza imperterrito verso la luce.
- Non avvicinarti! – la voce, solitamente profonda e calma, risuona improvvisamente in modo stridulo, addirittura sgradevole. L’angelo trema ma prosegue.
- Mi è stato suggerito di chiedere ciò che avessi voluto sapere…- ormai è arrivato al basso basamento di marmo chiaro che delimita la grossa fonte di luce. – e ciò che voglio sapere è…
Aladiah è ormai di fronte alla grande, luminosa, entità dalla voce di bronzo. Tiene gli occhi bassi, per evitare di venire accecato, e non è ben sicuro di ciò che fa.
Poi all’improvviso capisce ciò che deve fare, mentre le parole giuste gli sbocciano nella mente.
- Voglio sapere chi sono.
E, con gesto deciso, cala il pugno chiuso verso il pavimento, direttamente nella grande fonte di luce.

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Capitolo 4
*** Finalmente liberi ***


Capitolo IV
Finalmente liberi
 
 
La grande sala è immersa nella penombra. La luce accecante al centro si è ora spenta.
Il silenzio è tale da stordire.
Aladiah apre lentamente gli occhi. Il suo sguardo si ferma sul pugno chiuso e su ciò che di frantumato c’è sotto le sue dita.
Uno specchio. Un enorme specchio rotondo, tanto grande da toccare il basso basamento marmoreo da ogni lato, che rifletteva ogni raggio del sole che lì andava a cadere creando l’illusione di un’unica, gigantesca, fiaccola di luce.
L’angelo alza cauto gli occhi.
Un omino, basso e stempiato, lo guarda dall’alto verso il basso con espressione terrorizzata. Trema tanto che il piccolo paio d’occhiali che porta sulla punta del naso traballa pericolosamente.
L’angelo si alza in piedi lentamente. Osserva sgomento, dall’alto dei suoi due metri e passa, il minuscolo ometto al centro di tutti quei vetri rotti. L’ometto, con le mani tremanti, si toglie una strana cuffia nera dalla testa e un apparecchietto che portava appeso al collo e li posa a terra.
- Tu…tu hai rovinato tutto. – farfuglia. – Andava bene, era perfetto, e ora…
- Che cosa andava bene? – domanda stranito l’angelo. Sentendo che il suo tono di voce è più simile al disorientato che al furioso, l’omino sembra prendere coraggio.
- Che cosa, mi domandi? Tutto! Tutto stava andando bene! Stavo adempiendo alla mia missione! E ora tu hai mandato a monte ogni cosa!
- Quale missione? – indaga l’angelo, sempre più inquieto. Ma l’omino non lo ascolta più, troppo preso a farfugliare tra sé e sé.
- È la mia missione, la mia missione… dopo che li ho raccolti, riparati… io, io l’ ho fatto…sono stato io…- dice camminando nervosamente in tondo, all’interno del piccolo spazio circolare.
- Aspetta… - Aladiah fa un passo avanti e afferra l’omino per le spalle, forse più bruscamente di quanto avesse voluto – Tu ci hai fatto questo? – inclina le spalle con uno scatto nervoso per mostrare le ali – Tu ci hai fatti così?
- Ma cosa ho fatto poi? – l’omino è troppo infuriato per spaventarsi del piglio aggressivo dell’angelo e si libera dalla sua stretta con uno scatto irritato – io vi ho riparati! Vi ho raccolti, quando nessuno vi voleva più, quando dei porci miscredenti vi hanno tirato a forza giù dal cielo e vi hanno abbandonati sulla terra a morire! Vi ho curati, vi ho riparati…era la mia missione, la missione che mi è stata affidata da Dio…finire ciò che lui ha iniziato portando l’Apocalisse… purificare il mondo da ogni singolo essere umano perché esso potesse rinascere! – nello sguardo dell’uomo brilla la follia – Ero solo un misero ingegnere aerospaziale prima di tutto questo…ma quando vi ho trovato ho capito chi fossi davvero e quale fosse il mio compito…tutto mi fu chiaro. Compresi che ogni scelta nella mia vita era stata presa per adempiere ad uno scopo. Completare l’opera di Dio…
L’omino pronuncia frasi sconnesse a bassa voce, con sguardo quasi febbricitante.
L’angelo lo guarda per un momento lunghissimo.
Poi gli volta le spalle e, lentamente, facendosi strada attraverso i suoi fratelli che stanno convergendo minacciosi e silenti verso l’omino, raggiunge la terrazza.
Si affaccia al parapetto per sentire la frescura delle dolci raffiche di vento che spirano a quell’altezza.
Si sente…inspiegabilmente vuoto.
Non ha ottenuto alcuna risposta.
Non sa chi è.
Non sa da dove venga.
Non sa perché sia in quel luogo.
La sua realtà è stata capovolta, ma curiosamente questo non lo sconvolge. Piuttosto lo lascia alquanto impassibile.
Si rende conto che la sua indifferenza è sbagliata. Dovrebbe provare sgomento, collera, disperazione, angoscia, vergogna.
Il fatto è che anche la presa di coscienza della sua mancanza di interessamento lo lascia indifferente.
Una presenza conosciuta lo raggiunge silenziosa.
- Cosa faremo adesso, Jophiel? – chiede all’amico.
L’interpellato sospira a bocca chiusa.
- Credo ci toccherà ricostruire ciò che abbiamo distrutto.
- Come? – Aladiah sa che il compito sarà immenso e molto gravoso. Ci sono tante cose da aggiustare, tanti torti da riparare, tante cose da capire ancora.
- Non lo so. – Jophiel si stringe nelle spalle – ma sai una cosa? I tuoi sogni…ora succede a molti, anche a me, da quando hai infranto lo specchio. È come se cominciassi a riscoprire chi fossi. Magari, scoprendo chi siamo stati, possiamo capire quello che dobbiamo fare, non credi? Serve solo avere fede, Aladiah.
Pronunciata l’ultima frase l’angelo ammutolisce. Sono parole nuove, che non ricorda di aver mai pronunciato prima. Non comprende appieno il loro significato. Ma hanno un sapore così familiare…
Aladiah sorride silenzioso.
- C’è molto da fare. - sentenzia a mezza voce.
Il compagno lo scruta per qualche momento.
- Tu non resterai, vero?
Il giovane annuisce con un sorriso obliquo, guardando verso l’orizzonte.
- Prima c’è una cosa che devo fare.
L’altro sospira brevemente.
Aladiah osserva l’amico a lungo, come se fosse l’ultima volta che lo vede e volesse portare via con sé il suo ricordo. Poi si avvicina alla terrazza e fa per spiccare il volo. All’ultimo momento un pensiero improvviso lo trattiene.
- Jophiel…
L’interpellato gli rivolge la sua attenzione.  
- Ci sono due ragazzi… una ragazza bruna, di nome Serafina. E un bambino, con gli occhi verdi e le lentiggini. Si chiama Giona.
L’angelo dopo un momento annuisce. – Ho capito.
Aladiah gli sorride brevemente e si lascia cadere di sotto, le ali spiegate, una corrente gentile pronta a sorreggerlo.
 
 
 

 
 
 
La chiesetta è ancora come l’ ha lasciata. Le panche rovesciate, gli spiragli di luce polverosa che attraversano obliqui la navata, la grande croce di legno pesante che emerge per metà dalla penombra. Il quadro dai colori brillanti ammicca muto da un angolo.
Aladiah supera i robusti battenti della porta e va a sedersi silenziosamente su una panca ancora in piedi.
Con un sospiro si appoggia allo schienale ligneo. Il suo sguardo vaga per le raffigurazioni sbiadite sulle pareti e raggiunge il soffitto. Tanti putti alati lo guardano con i sorrisi screpolati dall’erosione del tempo e i colori ormai sbiaditi.
L’angelo, con la testa riversa sullo schienale della panca, porta una mano al petto.
Sente un grande vuoto dentro di sé.
Fuori da sé ci sono solo confusione e caos.
Poi il suo sguardo si incaglia su una minuscola porzione di affresco, quasi invisibile nella penombra.
Un cielo stellato.
E Aladiah capisce.
Se non ci sono risposte per lui sulla Terra, vorrà dire che le andrà a cercare altrove.
Forse troverà qualcuno che saprà dirgli chi sia.
Che saprà spiegargli il senso di tutto.
Che potrà donargli ali con le piume bianche come quelle di una colomba. Ali leggere come una nuvola.
Ali soffici, accoglienti e vaporose.
Vive.
 
 
 
 
Fine

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