Tyler
Delarto era uno sbirro
Little
Italy è grande, chiassosa e sporca.
A meno
che tu non sappia dove andare, ti perderesti in un attimo,
peggio… verresti ucciso.
Questo quartiere è casa
solo per i
malviventi, è sicuro solo per alcuni di loro: i capi-clan.
Per la gente
normale, è il covo di Satana, è la linea che ti
accorgi di aver sorpassato un
secondo in ritardo e sai già di non avere speranza,
è il punto di non ritorno.
Per me, è il luogo in cui lavoro.
Nessun
interesse a essere parte di uno dei clan, ma ormai parte integrante
della
famiglia Gambino, pur non avendolo chiesto.
Sono
Tyler Delarto, la guardia del corpo di John Joseph Gotti junior, e la
mia vera
esistenza è iniziata il 25 novembre 1978. Il resto della mia
vita non me lo
ricordo più… forse.
Era
il
16 novembre 1978 quando il capitano Simon Kess mi convocò
nel suo ufficio, era
scuro in volto e aveva lo sguardo afflitto di chi non vorrebbe compiere
ciò che
sta per fare.
“L’autodifesa
è una buona cosa, così come lo sono i tuoi
riflessi, Tenente, però…” Non sarebbero
state necessarie le parole seguenti che pronunciò, quel però significava che il mio
servizio come poliziotto finiva in quel
momento e la frase “si tratta di un congedo
temporaneo” che sentii dopo mi
sembrò talmente falsa, che lo guardai con fare derisorio,
mentre mi passavo una
mano tra i capelli neri, allora tagliati corti da perfetto soldato; in
gergo temporaneo voleva dire che
eri fuori,
che potevi evitare di attendere inutilmente di essere richiamato e
cercarti un
altro lavoro.
Un
errore… no, l’istinto di sopravvivenza mi era
costato la carriera, fortunatamente
non tutti i miei colleghi, ma questo allora non lo sapevo.
Posai
la
pistola di ordinanza sulla scrivania, insieme al distintivo.
-Mi
devo
svestire, qui o posso portarvi la divisa in seguito?!- pensai,
sarcasticamente.
Mi morsi la lingua un attimo prima di pronunciare realmente quella
frase; non
volevo rendere la situazione più complicata di quella che
era, né rischiare di
finire dentro per offesa a pubblico ufficiale; il capitano non era mai
stato un
individuo dotato di grande senso dell’umorismo, me
l’avrebbe fatta pagare.
Non
ero
mai stato una persona particolarmente solare, che si rallegra per ogni
piccola
cosa e vede sempre il bicchiere mezzo pieno, ma quella giornata si era
rivelata
essere buia e vuota. La mia vita sembrava essere finita: non ero
preparato, non
c’era un piano B e, senza uno stipendio, di lì a
poco non mi sarebbe rimasto
neanche un posto dove vivere. Ero solo, anche per colpa mia, lo sapevo,
ma… i
rapporti interpersonali non erano mai stati il mio forte. Andavo
d’accordo solo
con Jack Xandley, il mio partner in polizia: un ragazzo di venticinque
anni, sei
in meno di me, appena salito di grado, che nessuno degli altri aveva
avuto la
voglia di prendere sotto la sua ala. Errore loro, avevo pensato sin da
subito: Jack
era sveglio, simpatico e molto capace nel nostro campo. Mi sarebbe
mancato, ma
non ero il tipo da addii strappa lacrime o lettere di scuse fasulle.
Chi volevo
prendere in giro? Jack doveva essere stato il primo a essere informato
e non
aveva fatto nulla, neanche un ultimo saluto prima che la mia vita
finisse. Forse
mi ero illuso che la nostra fosse amicizia, forse ero solo un collega,
neppure
un mentore, per lui.
Nel
mio
appartamento in Canal Street, nella Lower Manhattan, a due passi dal
quartiere
italiano, mi fermai poco; il tempo di prendere la mia arma di riserva,
la Colt
M1911, e di bere un bicchiere di Grignolino, il preferito di mio padre,
acquistato nel giorno della sua morte e intoccato da allora. Erano
già passati
cinque anni, eppure mi sembrava che, a volte, fosse ancora
lì a parlarmi: della
traversata per arrivare negli Stati Uniti, quando aveva otto anni,
della vita
difficile, del lavoro dei nonni, dell’incontro con la mamma,
della mia nascita,
del matrimonio veloce e obbligato, ma felice e di quanto io fossi
fortunato a
non aver sofferto nulla della sua miseria, di essere nato dopo. Non mi
aveva
mai accusato di essere stato un peso, anche se lo ero stato, mi
rimproverava
solo di essere un po’ pessimista e cinico nei confronti della
vita, poi
scuoteva la testa e diceva: “Non è colpa tua, mio
padre era così. Un gran
lavoratore, certo! Ma vedeva sempre tutto nero.”
Mi
mancava, la sua morte mi aveva segnato, nonostante me la aspettassi;
aveva un
cancro allo stomaco, sarebbe sopravvissuto per ancora qualche mese in
ogni
caso. Era l’ultima persona cara che mi era rimasta e mi ero
preso cura di lui
fino all’ultimo, me ne era grato, anche se non me lo aveva
detto, io lo sapevo.
Guardai la foto in bianco e nero, incorniciata, che ritraeva i miei
genitori il
giorno del matrimonio: potevo vedermi sullo sfondo, in lontananza, di
pochi
mesi, in braccio alla nonna mentre dormivo tranquillo, inconsapevole di
quello
che mi accadeva intorno.
Mi
tolsi
la divisa e la infilai in uno scatolone, poi presi una camicia azzurra
e un
paio di pantaloni neri dall’armadio, li indossai e mi rimisi
il cappotto.
Uscii
di
casa, con passo veloce, cercando di allontanarmi il più in
fretta possibile da
Canal Street: in quei giorni, a Little Italy, a due passi da casa mia,
due clan
si stavano sfidando: c’erano state diverse sparatorie. Non
era più un problema
mio!
Mi
diressi veloce verso il centro di Manhattan, facendo forza su me stesso
per non
tornare indietro a vedere l’accaduto; non ero più
uno sbirro, non dovevo più
risolvere la faccenda! Non che qualcuno ci avesse provato veramente: il
distretto della parte bassa della città sembrava
l’unico pilastro rimasto, che
non aveva ancora ceduto alla generosità
di
una delle famiglie.
Un
colpo
di sparo, due, tre… il quarto fu talmente vicino che quasi
lo sentii fischiare
nelle orecchie, ma non mi fermai.
“Togliti!”
ricevetti una spallata in piena regola, che però non mi
spostò di un
millimetro. Un energumeno abbronzato dalla aria truce, armato, mi
passò davanti
e ghignò nella mia direzione. Poi si fermò, alzai
lo sguardo, mentre caricava
il fucile e le vidi: due macchine nere si fronteggiavano in un tipico
scontro
tra mafiosi, i conducenti che tentavano di non sbandare e i passeggeri
che si
sparavo a vicenda.
Successe
tutto in un attimo, l’individuo che mi stava vicino aveva
caricato il suo
Remington 870 e prendeva la mira verso il finestrino posteriore
dell’automobile
più lontana, più di 800 metri di distanza e un
solo colpo prima di scatenare
l’inferno, la mia mano destra scattò sulla Colt
carica e il secondo successivo
la nuca dell’uomo sanguinava e lui si ritrovava a terra,
ormai morto. Non seppi
dire perché lo avessi fatto, forse per tutti i civili che
vivevano in quelle
case e che si trovavano vicino a quel luogo? Non ero mai stato
così nobile, né
misantropo. Probabilmente lo feci per me, perché ne avevo
bisogno.
“Veloce!
Sali!” sentii una voce urlare nella mia direzione. Ebbi
appena il tempo di
muovermi verso la macchina che mi aveva affiancato, prima che un
proiettile
scheggiasse una piccola parte della portiera. L’auto
partì a tutta velocità,
mentre l’uomo di fianco a me, che non avevo avuto ancora il
tempo di guardare,
rideva a squarcia gola. Con il cuore che batteva a mille e
l’indice ancora sul
grilletto mi chiedevo che cosa mi fosse saltato in mente: come avevo
potuto
mettermi così platealmente contro un clan? Mi avrebbero
sciolto nell’acido,
probabilmente da vivo.
Mentre
pensavo a come sarebbe avvenuta la mia dipartita, mi accorsi che mi
trovavo su
una delle due auto, coinvolte nello scontro e che l’uomo,
sedutomi vicino, mi
fissava tra l’incuriosito e il beffardo.
“O
sei
pazzo o sei masochista.” Disse tranquillo, accendendosi un
sigaro e fumandolo
con calma, come se l’attimo prima qualcuno non avesse tentato
realmente di ucciderlo.
Non era stato la sua voce ad avermi chiamato, ma di sicuro era stato
un suo
ordine “Comunque sia, sei stato bravo, utile. Oserei
dire!” Solo in quel
momento misi a fuoco la figura che avevo davanti e il mio cervello mi
mandò una
risposta: John Gotti, capo-clan della famiglia Gambino; ecco chi era la
vittima, ecco chi avevo salvato.
La
mia
parte di poliziotto si rivoltò, causandomi una smorfia, che
dovetti celare
immediatamente. Se Gotti la vide, non ci fece caso o pensò
che fosse dovuta
alla paura.
“Mi
serve uno come te.” Disse, poi, con tono piatto, incolore.
“La mia guardia del
corpo, Beppe, un brav’uomo, ha subito una ferita grave, nello
scontro di due
giorni fa. Potrebbe riprendersi, ma non posso rischiare. Mi serve
qualcuno che
abbia l’istinto.” Mi guardò di sbieco,
quasi consapevole che io stessi leggendo
tra le righe. “Mi capisci, vero?” chiese un attimo
dopo, facendomi sghignazzare
i due uomini davanti, che fino ad allora non avevo calcolato.
“Ci
stai?” chiese poi diretto, facendo sparire
quell’espressione bonaria di un
attimo prima.
Repressi
il bisogno di deglutire a vuoto e annuii debolmente.
Non
si
usciva vivi dal rifiutare un’offerta del genere, chiunque ne
era conoscenza, e
avevo disperatamente bisogno di un lavoro. L’etica non era
più parte della mia
persona e non mi avrebbe fermato; avevo delle priorità e le
avrei messe dinanzi
a un’ideale.
Sono
le sette meno venti di mattina
e mentre mi dirigo verso il numero 22 di Mott Street, mi fermo davanti
a una
buca delle lettere. É l’undici del mese. Tiro
fuori dalla tasca del mio lungo
cappotto nero una busta bianca e la imbuco. Riprendo a camminare verso
l’edificio dove abita Gotti. Sono ormai due mesi che
lavoro come sua guardia
del corpo: la paga è buona e finora non mi ha fatto troppe
domande, spinge solo
sul fatto che io stia aspettando troppo a trasferirmi più
vicino a lui, in modo
che mi sia più facile raggiungerlo, ho ignorato
l’argomento per un po’,
fingendo di averne tutte le intenzioni, ma non potrò tirare
ancora la corda per
molto.
Anche
se il fatto non mi va a
genio: dovrò lasciare Canal Street.
Entro
dal portone principale e
salgo due piani di scale, ormai conscio che il capo sia già
in piedi, così come
la sua famiglia. Busso tre volte alla porta del suo ufficio e vedo uno
dei suoi
vice aprire la porta e spostarsi per farmi entrare. Come immaginavo
Gotti è già
in compagnia del suo consigliere e dei due vice, più altri
due uomini che non
ho mai visto, forse degli scagnozzi con un compito simile al mio.
Sorride e
fanno cenno di avvicinarmi.
“Delarto,
vieni, vieni.” La sua voce
accondiscendente e fintamente bonaria mi fa accapponare la pelle, come
ogni
volta. Non porta nulla di buono, ne sono ormai consapevole.
“Vorrei farti
alcune domande, se permetti.”
“Certo,
capo.” Rispondo, sicuro e
lui ghigna.
“Siedi,
allora.” Mentre mi
accomodo, chiedendomi quali saranno i quesiti che vuole pormi, fa un
cenno agli
altri uomini di andarsene. Rimaniamo in tre nella stanza: Gotti, il suo
consigliere, Frank LoCascio, e io. Lo sento, questo è il
momento in cui verrò
giudicato: se sarò giudicato affidabile e utile
farò parte della famiglia, in
caso contrario… morirò, perché pur non avendo
collaborato quasi per nulla, per il capo
so già troppo.
“Tyler
Delarto, di origini
italiane, quindi. Da parte di padre, immagino?” Mi aspettavo
fosse Gotti a
parlare, per questo sono incerto quando la domanda mi viene posta da
LoCascio
Annuisco.
“Mio padre, sì, italiano
di nascita, era Giorgio Delarto. Originario del nord Italia. Mia madre,
Janet
Jemson, era statunitense, di Brooklyn.”
Il
consigliere annuisce, scrivendo
poche righe e comincio a chiedermi se ci sia una qualche politica di
cui non
ero a conoscenza; forse Gotti non accetta essere circondati da
americani?
Oppure bisogna essere italiani di origine per essere integrati nel
clan?
Comincio a rendermi conto che, forse, il mio precedente lavoro mi
sarebbe
riuscito meglio se avessi osservato più da vicino il mio
nemico e considerato
dettagli che mi erano sembrati irrilevanti.
Gotti
sorride e l’altro uomo
continua a parlare: “Dovevi fare un lavoro piuttosto
pericoloso prima, a
giudicare da come ti trovi a tuo agio con le armi?”
Occhieggia la Colt,
all’interno del cappotto, che ho dovuto appoggiare alla
sedia: se ne vede solo
l’impugnatura. Poi sposta lo sguardo sulla mia caviglia
destra, appoggiata sul
ginocchio sinistro e mi pare quasi che possa vedere il piccolo pugnale,
legato
con due fibbie al polpaccio; deve essere solo un’impressione.
“Facevo
lo sbirro.” Mi sembra inutile
mentire, lo scoprirebbero comunque e non me ne vergogno. Il modo in cui
lo dico
deve piacere a Gotti che scoppia a ridere e parla, precedendo il
sottoposto.
“Distretto
12, ragazzo?”
Faccio
segno di diniego: “Distretto
14.” E ghigno, quando batte le mani e esclama:
“Finalmente qualcuno del 14,
sono fin troppo duri quelli lì.”
Per
essere il
capo di una famiglia mafiosa è meno crudele di quello che
pensavo, sembra
essere quasi simpatico; ma non siamo in una situazione da manuale, come le chiamava il capitano
Kess. Sono sicuro se ci fosse
l’orgoglio della famiglia o la vendetta di mezzo diventerebbe
anche lui un
carnefice.
So
che mi ha
detto qualcos’altro nel momento in cui mi chiede se lo sto
ascoltando. Mi
scuso. “Dovresti stare ad ascoltare, Tyler. Vi dico solo cose
importanti, a
tutti voi.” Fa un gesto ampio con il braccio sinistro, come a
indicare una
moltitudine di gente, che in realtà non
c’è e poi mi chiede: “Hai degli amici
in polizia, non è così, Tyler?” Il suo
tono e il suo sguardo mi comunicano che
se non darò la risposta che si aspetta, non mi
riterrà necessario.
Do
il
beneficio del dubbio sia a me stesso che a lui e sorride complice.
Mi
fa cenno di
alzarmi e raggiungerlo e so che ho passato la prova, che
vivrò ancora qualche
giorno.
La
mia mente
lavora febbrilmente, mentre Gotti parla con LoCascio: la prima cosa che
farò
arrivato in Canal Street sarà pensare a come contattare
Jack, sperando che non
mi abbia già chiuso fuori dalla sua vita.
|