Il nostro fortuito incontro in aeroporto

di Christa Mason
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


I personaggi presenti nella mia storia non sono le persone a cui essi fanno riferimento, in altre parole: tutto quello che segue è falso e mai accaduto. Se non conoscete Julian Casablancas vi prego di googlarlo, non ve ne pentirete, è il cantante di un'ottima band, che sono i The Strokes. Gli Arctic Monkeys nascono proprio come cover band degli Strokes, Casablancas e Turner si sono realmente incontrati in qualche occasione! Per il resto, enjoy. 


Julian, 
  ti scrivo perchè devo assolutamente scusarmi con te. Ripenso al nostro fortuito incontro in aeroporto qualche giorno fa e mi sento un vero stupido per le cose che ho detto. Più probabilmente non avrei dovuto neanche permetterti di ascoltare la narrazione di tutti i contorti capovolgimenti della mia vita: la verità è che non ci capisco più un cazzo, né di quello che sto facendo, né di quello che dicono debba fare. Stai un po’ zitto, Alex. avresti dovuto dirmi mentre blateravo dei miei problemi, ma invece sei stato lì, con quel tuo sguardo perso che non ti avevo mai riconosciuto. Ti ringrazio per avermi ascoltato, anche se ciò che avevi da dire tu era chiaramente più importante. Oggi ti chiedo di dimenticare tutto: io sto bene, davvero. 


  La tempesta newyorkese ci aveva fottuto. Il tour degli Arctic Monkeys era stato inevitabilmente interrotto, dopo che si era rivelato impossibile viaggiare con qualsiasi mezzo coperto da un’assicurazione ragionevole. Già, perchè non si parla altro che si assicurazioni ultimamente. Dobbiamo assicurare quello, quest’altro, dobbiamo farti una bella assicurazione sulla vita, Alex, perchè il tourbus potrebbe schiantarsi e tu potresti morire. Sai che c’è? Firma qui, così ti togli il pensiero. Ogni tanto penso che sarebbe meglio se morissi davvero, che tutte le scimmie morissero davvero e che i nostri strumenti affondassero romanticamente nell’oceano. Con tutte quelle assicurazioni qualcuno si farebbe un po’ di soldi, e il mondo avrebbe un problema in meno. Ogni giorno penso di lasciare gli Arctic Monkeys, poi non lo faccio, perchè in realtà amo essere negli Arctic Monkeys. Sta di fatto, che lo scorso trenta dicembre la neve di New York ci aveva fottuto, e non ci rimaneva che festeggiare il Capodanno nella caotica metropoli, coperta di neve e di tassisti arrabbiati. All’inizio accettai, anzi invece di dire il solito Fate voi, non me ne frega un cazzo, contribuii alla scelta del locale per passare la notte: qualcosa di discreto, un posto pettinato con grandi jazzisti e belle ragazze. Poi però pensai che sarebbe stato molto meglio tornare a Sheffield, a casa. Di stare a New York e vedere la fine di un altro anno, proprio non me ne importava niente. Sarei finito completamente ubriaco in qualche stretto bagno, con qualcuno che bussa alla porta, Alex, Alex stai bene?. Quando comunicai di volermene andare, tutti si allarmarono. Pensavano giustamente che avrei preso un aereo per l’Inghilterra, nel mezzo del tour (momentaneamente interrotto dalla neve newyorkese) senza più tornare, Questo se ne torna a casa, e poi non torna più a finire il tour, è sicuramente questo il piano dello stronzo, e ammetto che per un attimo è stata quella la mia idea. Dopo un po’ di raccomandazioni e rassicurazioni mi lasciarono andare, rassicurati dal fatto che comprai anche un biglietto per il ritorno. 
  Per questo mi trovasti lì, imbronciato e triste, con in mano una copia di Trappola per topi che avevo trovato in albergo e che non avevo davvero intenzione di leggere. Tu sembravi al tuo meglio, spavaldo e felice, con i tuoi occhiali da sole e la custodia rigida di una chitarra che sbattevi a destra e a sinistra senza controllo. Ci guardammo per un momento, senza riconoscerci, due belve che si studiano prima di staccarsi le orecchie a morsi. Quando comprendemmo chi avevamo di fronte, ci rilassammo. Tuttavia ammetto che, nella mia disperata voglia di solitudine, sperai non ti sedessi vicino a me, so bene che avrei cominciando a sproloquiare sullo schifo che mi cadeva addosso, ed ero il primo che non aveva voglia di ascoltarsi. Invece ti sfilasti gli occhiali e ti lasciasti cadere al mio fianco. Alex, sospirasti, quasi non riconoscevo il tuo brutto muso. Lasciasti cadere la tua chitarra mentre ti sedevi vicino a me, la quale sbattè a terra sonoramente: non capivo la briga di compilare moduli su moduli per farla passare come bagaglio a mano per poi trattarla in quella indelicata maniera. 
  - Ciao, Julian. - dissi io. 
  - Cos’è quella roba che stai leggendo? - 
Non aspettasti neanche la mia risposta, semplicemente mi strappasti dalle mani il volume di Trappola per topi e lo guardasti facendo un sorriso. Fosse successo al liceo, tu saresti stato quello che mi avrebbe preso in giro per almeno una settimana per una lettura del genere. Noi siamo persone di quelle troppo cool per leggere Agatha Christie, nonostante a suo tempo anche lei fosse stata una britannica molto cool. Se avessi saputo del nostro incontro avrei speso qualche dollaro per un anonimo thriller, di quelli che ci si aspetterebbe nel nostro bagaglio durante un viaggio, allora mi avresti strappato di mano un libro che avresti apprezzato e avresti annuito compiaciuto. 
  - L’ho trovato in albergo. - mi giustificai. Non capii perchè, ma ero terribilmente in imbarazzo. Fu probabilmente allora che compresi che dovevo fare una bella impressione su di te, perchè quel senso di imbarazzo provocato dall’avere tra le mani una consunta copia di Trappola per topi, libro poco macho e più adatto a casalinghe annoiate, mi aveva fatto capire quanto la tua opinione contasse, quanto sarebbe stato bello che tu avessi potuto dire Ho incontrato Alex Turner in aeroporto, non sapete che tosto sia quel ragazzo! Cazzo se è uno tosto!
  - Che ci fai qui, Alex? - mi hai restituito il libro, senza fare commenti. 
  - Beh… Devo prendere un aereo. - mi pareva piuttosto ovvio. 
  - Voglio dire… Cosa fai qua, solo? Voi scimmie non siete in tour? - 
  - Oh sì, siamo in tour. Ma sai, la neve ha mandato tutto a puttane, siamo bloccati a New York per i prossimi tre giorni almeno, e ho deciso di tornare a casa… - gesticolavo come uno scemo. 
  - Senza più tornare, magari. - 
Perchè eravate tutti convinti che non sarei tornato?
  - No, credo che dovrò tornare, alla fine. - 
  - Non hai pensato che con questa neve nessun aereo sarebbe riuscito a partire? - 
  - Beh… - ammetto di non averci neanche minimamente pensato, e nonostante i numerosi avvisi che venivano lanciati a intervalli costanti (avvisi che a quanto pare ignorai del tutto), prima di incontrarti l’idea di essere bloccato in aeroporto non mi aveva minimamente sfiorato. Mi voltai per dare un’occhiata al catastrofico cartellone delle partenze. Cazzo
  - Neanche io ci avevo pensato. - mi consolasti tu. 
  - Ma a New York non sono abituati, non sono attrezzati per queste situazioni? - 
  - Rassegnati ad almeno un paio d’ore di ritardo, amico. Il tuo è quello per Londra? - 
  - Sì, quello per Londra. - non so perchè non ti chiesi subito dove saresti andato tu. Il tuo chiamarmi amico mi disorientò. So che gli americani chiamano amico chiunque gli capiti sotto tiro, ma quella tua confidenza democratica mi stava stretta, sapevo che avrei dovuto essere anche io simpatico, disponibile, americano quanto lo eri tu. Sapevo anche che non ci sarei mai riuscito. Osservai il tuo viso, che si piegava in sorrisi gentili, di quelli che sembrano psicoanalizzarti, largamente usati dagli psicologi di tutto il mondo. Avanti, Alex, parlami dei tuoi problemi, dimmi cosa ti affligge. Problemi, problemi, voglio sapere tutti i tuoi problemi. Dico davvero, amico, sembravi davvero uno con cui era possibile parlare di tutto, e che anzi, voleva sentirsi raccontare tutto. Notai che tenevi una sigaretta tra le mani, che picchiettavi dalla parte del filtro sul ginocchio, nervosamente; l’astinenza dalla nicotina tradiva il tuo approccio da amico
  - C’è un’area fumatori da qualche parte, Julian. - ti dissi, sicuro che avresti risposto con l’entusiasmo di un drogato che si appresta a farsi un’altra dose. Perdona l’infelice metafora, ma mi aspettavo davvero che tu scattassi in piedi. Dove? Dove l’ha vista? Dove sta l’area fumatori? 
  - Ah no, odio le aeree fumatori. Sto cercando di smettere, tra l’altro. - fu la tua composta risposta.
  - Capisco. - 
Rimanemmo qualche attimo in silenzio, senza guardarci in faccia, contemplando l’uno le mani dell’altro. Tu fremevi, nonostante la sala d’aspetto fosse eccessivamente riscaldata, fremevi come stessi congelando. Avrei dovuto chiederti se c’era qualcosa che non andava, ma mi anticipasti.
  - Cosa ti affligge, Alex? - 
  - Niente, voglio solo andare a casa. - 
  - C’è qualcosa che ti aspetta a casa che non può aspettare la fine del tour? - 
  - No… - non lo sai, ma quella domanda mi diede davvero da pensare, perchè compresi che non era quello che c’era a casa che volevo, ma quello che non c’era. - No, solo casa. - 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Caro Julian, 
  ho interrotto bruscamente la prima lettera perchè ho realizzato improvvisamente quanto fosse inutile scriverti. Ci siamo incontrati quella volta, e non succederà più per molti anni ancora, e quando riaccadrà saremo saturi di imbarazzo e faremo finta di essere stati entrambi ubriachi e troppo tristi per ricordare davvero ciò che abbiamo detto e fatto ciò che abbiamo fatto. Quel trenta dicembre mi hai chiesto come stavo, se c’era qualcosa che m’affliggeva. E il verbo affliggere mi sembra oggi così esagerato, privo di significato, ma è esattamente quello che abbiamo usato nella nostra conversazione. Eravamo due eroi romantici che si apprestavano a scambiarsi le avventure vissute, le donne amate che la sorte ci aveva crudelmente rifiutato. Ti raccontai di quella stronza di Arielle, quel nome suona così ridicolo anche quando lo scrivo, non la vedo da più di due anni e ancora continua a tormentarmi, ogni mio pensiero è in realtà indirizzato a lei, e te lo dissi. Tu dicevi che mi capivi, mi hai posato una mano sulla spalla. Andiamo a sbronzarci, Alex. 
  Ci siamo rifugiati in un finto pub rintanato in un angolo della sala d’aspetto, tra i gate 20 e 21. Era davvero la bevuta più triste che mi apprestavo a fare, su quel bancone di legno finto-sporco con le luci smorzate che sembravano dire Hey, ragazzi, siete davvero in un pub, anche se alle vostre spalle c’è un aeroporto con le luci a neon, immacolato e bianco. Ci prendemmo una birra, e poi un’altra, poi cominciai a perdere il conto. So che eravamo arrivati al punto in cui il barista, se fossimo stati in un pub normale, ci avrebbe chiesto le chiavi dell’auto. Ti parlai del fatto che non sopportavo più le scimmie, i loro finti e pensanti moralismi, il fatto che si comportavano come se una valanga di soldi non avesse cambiato loro la vita. No Alex, anche se abbiamo un conto in banca da capogiro, noi siamo gli stessi di dieci anni fa, gli stessi. I soldi mi hanno profondamente cambiato, e non capisco perchè gli altri si sono dimostrati così testardi ad ammetterlo. Fingono di essere ancora i bravi ragazzi fuggiti da Sheffield, ma intanto si apprestavano a passare l’ultimo dell’anno in un piccolo strip-club mascherato da jazz club, mascherato da tipico ritrovo per finanzieri e agenti di borsa. Non sopporto che abbiano da ridirei su qualsiasi cosa io faccia, su qualsiasi donna che io scelgo, sono passati due anni e ancora parlano di Arielle. 
  - Forse perchè sei tu a parlarne ancora. - hai commentato tu. 
  - Forse hai ragione. Ma vedi… non è solo il fatto di Arielle, è tutto un mondo dal quale non riesco a liberarmi. Indosso un paio di jeans da settecento dollari, capisci cosa intendo? - 
  - Capisco cosa intendi. - 
  - E poi non va mai bene niente di quello che faccio. Mi chiedono il significato dei testi che scrivo come se dovessero avere una morale, una morale per tutte le ragazzine che li ascoltano. - 
  - E non ce l’hanno una morale, immagino. - 
  - Cazzo, no. - 
Scoppiamo a ridere come degli idioti, in quell’orribile finto pub in un aeroporto in cui tutti sembravano immobilizzati dalla neve, sopra di noi un grosso schermo annunciava i ritardi inevitabili che avremmo dovuto prevedere. Proprio questo intendevo, una volta ero una persona che si preoccupava della neve e dei ritardi degli aerei, adesso continuo a venire colto di sorpresa, come se l’interruzione di un tour o un disagio all’aeroporto, come se cose del genere fossero tutto sommato impossibili per chi è una scimmia artica.
  - Credo di essere terribilmente ubriaco, Julian. - 
  - Non ancora, Alex. - hai detto facendo segno al barista di riempirci i bicchieri di scotch, perchè nel frattempo eravamo stupidamente passati dalla birra allo scotch. 
  - Non te la vuoi proprio fumare quella sigaretta, Julian? Si vede che non aspetti altro… Stai iniziando a sudare. Io me ne faccio una, se mi fai compagnia. - 
  - Non sto tremando perché voglio fumarmi una sigaretta. - hai risposto, distante. 
  - No? - 
Lì ho capito molte cose. Ero così stupido e preso dai miei complicati quanto inutili problemi da trentenne sfondato di soldi che non avevo saputo spiegare la tua aria più stanca e persa del solito. Non ti chiesi cos’era che il tuo corpo bramava così tanto da farti fremere, era come se fossi colto da un freddo intenso. Sapevo dei tuoi trascorsi con la droga, Dio solo sa quale, e ci eri evidentemente ricascato, forse solo per un momento nella fredda New York che non ha mai fatto sconti e nessuno, testardamente volevi uscirne di nuovo, il più velocemente possibile. 
  - Adesso passa, Turner. - buttasti giù il tuo bicchiere di scotch. 
  - Cosa fai in aeroporto, Julian? - 
  - Raggiungo Juliet, è entrata in travaglio un’ora fa. - 
Sputai lo scotch, colto di sorpresa. 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Julian, 
  persino a scriverlo mi sento stupido. Mi sono costruito addosso una montagna di frasi depresse da rockstar fallita che ti snocciolavo con aria sconsolata, Non mi sento capito, Julian, non sono più un’artista, voglio cambiare qualcosa nella mia vita, sento che gli Arctic Monkeys non mi rappresentano più…, mentre tu stavi attraversando una crisi d’astinenza e tua moglie era chiusa in una clinica in Italia per partorire il vostro secondo figlio. Tu ci saresti andato prima in Italia, quel tanto che bastava per tenere la mano a Juliet mentre vedevate la nuova vita a cui avevate dato inizio nascere. Ma il vostro secondo bambino stava nascendo un tre settimane di anticipo, per quello ti trovavi in un aeroporto a sera tarda, aspettando un volo notturno che forse non sarebbe mai arrivato. Un secondo figlio, un secondo inizio per un matrimonio che avevo sempre creduto più che stabile. Leggevo ogni tanto di voi, online e sui giornali, con la giusta discrezione avevate fatto intuire che tutto stava andando alla grande: in un mondo dove nessuno sembrava aver trovato l’amore, ecco che la famiglia Casablancas sorrideva alle macchine fotografiche e faceva quelle pacifiche e timide interviste, quasi noiose per quanto sembravate felici. 
  - Perchè in Italia, non abitate a New York? - 
  - Lì fanno le cose con una certa cura, a quanto pare, e forse voleva starmi lontana per un po’, quel tanto che le basta per capire che in fondo mi ama e che ne vale ancora la pena. Poi l’Italia le piace molto, voleva scappare per un po’ e ha scelto l’Italia.- 
  - Pensavo foste felici. - 
  - Lo siamo. Lei è molto felice, felice abbastanza per tutti e due, io non troppo, normale. -
  - Si può essere felici in modo normale? -
Hai allargato le braccia come per dire Eccomi, sono qui, la prova che si può essere felice in modo normale. Non avrei saputo che altro dire, osservavo le tue mani, segnate di inchiostro come quelle di ogni songwriter al lavoro, che tremavano lievemente tenendo il bicchiere in mano, notai la linea del tuo profilo, i tuoi capelli che si accumulavano dietro le orecchie e uno sguardo stanco che mi dedicavi di tanto in tanto. 
  - Potevi dirmelo, intendo prima che passassi un’ora a parlare di quanto facesse schifo la mia vita. - 
  - Avevi bisogno di parlare, Turner. E la mia vita non fa schifo. - disse l’uomo che sudava freddo perchè gli mancava una dose e aveva una moglie dall’altro capo del mondo che stava per partorire.
  - No? - 
  - Un figlio è una cosa bella. - 
  - Okay. -
  Mi guardasti, con il tuo sguardo abbastanza indecifrabile, inquietante. Eravamo ancora seduti sul bancone del falso pub dell’aeroporto. Nel corso della serata avevamo parlato spesso senza guardarci in faccia, con il viso rivolto allo schermo delle partenze (o dovrei dire non partenze) di fronte a noi. In quel momento avevamo preso ad osservare le nostre arie stanche ed esauste. 
  - Odio i tuoi capelli. - hai concluso infine, togliendomi gli occhi di dosso ed allungando la mano oltre il bancone per prendere l’intera bottiglia di scotch. Non potevo credere che avessi detto una cosa del genere, non dopo che avevamo deciso di parlare di ciò che di privato non avremmo mai condiviso con altri. 
  Sorrisi. - Sì, beh… Sai cosa? Io odio i tuoi. - 
  Fu allora che mi baciasti. Fu veloce, inaspettato, strano. Il mio bicchiere cadde a terra in mille frantumi. Mi avevi preso, avvicinato a te, e baciato in quel modo tutto irruente e sgarbato come si faceva con le compagne di classe al liceo. La tua mano s’era infiltrata nei miei capelli, quelli che avevi detto di odiare. Potevo vedere il barista scuotere la testa. Questi vengono qui, in uno stupido pub all’aeroporto e pensano di potersela spassare come a Las Vegas. Mi scuso se in quel momento rimasi fermo, immobile e impassibile. Ancora non ho capito cosa ti aspettassi da me in quell’istante, che ricambiassi quell’attenzione ubriaca, che ti allontanassi violentemente giurando che non ero un frocio qualsiasi che puoi rimorchiarti in una sala d’aspetto? Cosa t’aspettavi Julian? Rimasi semplicemente lì, era la ciò che avrebbe fatto un codardo, ed era ciò che stavo facendo io. Certo, le cose si fecero ancora più strane quando sentii la tua lingua sulla mia, e la tua disperazione che cercava conforto nella mia, la tua insistenza e la mia assenza. Io non c’ero, ero annebbiato e distante, sono convinto che se m’avessi accoltellato non avresti udito un lamento e non mi sarei accorto di niente.
  Mi lasciasti e ritornasti alla tua bottiglia. Senza dire una parola. 
  - Julian? - 
  - Cosa? - e non c’era scontrosità nella tua voce, come se quel bacio fosse stata la cosa più giusta da fare in quel momento, come se non te ne fossi neanche accorto. Non mi guardavi.
  - Guardami, Julian. - 
  Mi guardasti con l’aria colpevole di chi ha perso un amico, un confidente, e che probabilmente non ha più niente da parte, devi aver pensato proprio questo perchè ti ributtasti su di me, aggrappandoti alla mia giacca di pelle mi tiravi verso di te, arrogante, prepotente. Le nostre lingue si scontrarono ancora. Eravamo in un triste pub deserto, in un aeroporto saturo di gente rassegnata dai ritardi causati della neve newyorkese, e noi eravamo lì, inaspettati amanti, decadenti rock star. Probabilmente con la mia giacca di pelle e i miei jeans da settecento dollari devo esserti sembrato una pagina di Vogue - Uomo ambulante, un personaggio ridicolo che si portava dietro una copia di Trappola per topi e che è troppo orgoglioso per ammettere che in fondo la sua vita non è poi così male. Questo ti volevo dire insomma, che mi dispiace per tutte le cose che ho detto, e che in fondo non sono vere, sono così abituato al fatto che debba lamentarmi di qualcosa che non riesco a non farlo. Io sto benissimo e sono felice, felice della valanga di soldi che mi ha cambiato, di quella stronza di Arielle che mi ha lasciato e di quelle stronze scimmiette che hanno deciso di raddrizzarmi. 
  Ricambiai il tuo bacio, eravamo veramente patetici, complici del fatto che il nostro finto amore sarebbe potuto funzionare solo all’interno di un finto pub. Eravamo impetuosi, per nulla delicati, non avevamo paura di sembrare affrettati o troppo passionali, tra di noi non c’era questo genere di riguardo. Contenevo il tuo viso, e ti ho ho amato per quei cinque minuti, dico sul serio. Poi cominciai a pensare, pensavo a tua moglie in Italia, al tuo primo figlio che non ricordo come si chiama, e al secondo in arrivo che spero davvero tu non chiamerai Alex in ricordo di quella notte in cui ti eri ubriacato in un aeroporto mentre tuo figlio stava per nascere. Sentivo la tua pelle, il sudore di un corpo che bramava una dose e me, incontrollabile. Ti baciavo, sentendo il sangue pulsare alla base del tuo collo, tu baciavi me infiltrandoti con una ambigua e violenta passione nella mia bocca. Pensavo ancora a tua moglie, pensavo a te che te la scopavi dolcemente, per non farle del male, e poi pensavo a te che scopavi me, senza la gentilezza che riservavi a lei. 
  Ci siamo fermati. 
  - Forse potremmo andare da un’altra parte, ce l’avrà un bagno questo posto… - mi hai detto aggiustandomi la giacca. Forse non te lo ricordi, ma facevi sul serio. 
  - No, Julian, sei ubriaco. - 
  - Lo so, scusami. - 
  - Hai smesso di tremare, però. - 

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