Il mare per sbaglio

di Emerlith
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima: per sbaglio. ***
Capitolo 2: *** Parte seconda: per scelta. ***
Capitolo 3: *** Parte terza: per antiche promesse ***
Capitolo 4: *** Parte quarta: per un attimo ***



Capitolo 1
*** Parte prima: per sbaglio. ***




 
Ai viaggiatori sui treni
Che guardano il mare dai finestrini
E sognano, sognano.

(24 Luglio 2014)
 
E adesso, dimmi.
Che cosa si prova a sparire?
 
 
La prima volta in cui la vide era seduto con le ginocchia al petto, nascosto fra le dune. I granelli di sabbia sospinti dal vento lo costringevano a sbattere ripetutamente le palpebre, le lacrime che gli rigavano il viso si confondevano con la distesa dell’oceano all’orizzonte, i suoi singhiozzi si mischiavano allo scrosciare ritmico delle onde contro le pareti delle bianche scogliere, la voce di suo fratello Rodolphus era solo un’eco indistinta, sospinta dal vento.
Sarebbe stato così facile perdersi in quella distesa di mare immenso e lasciarsi scivolare, abbandonarsi alla corrente e non fare ritorno a casa, mai più.
-Rabastan! Rabastan!-
Rabastan non rispose, si sdraiò e abbassò la testa desiderando di poterla sotterrare come uno struzzo.
Rimase ad ascoltare la voce di suo fratello allontanarsi, gli sghignazzi di Bellatrix e i richiami accorati di Andromeda.
Non si mosse. Ventre a terra, dita ancorate tra quegli effimeri granelli, labbra secche e gola riarsa per la sete e i singhiozzi trattenuti. Restò immobile in quella piccola fossa di fortuna, chiedendosi se avrebbe mai trovato il coraggio necessario per prendere a cazzotti suo fratello, e continuò a serrare i denti, a scrutare torvo i cespugli rinsecchiti e le canne ritte verso il cielo terso di Agosto.
 
Fu allora, mentre si chiedeva cosa avrebbe fatto del resto della sua inutile vita, che li scorse fra i ciuffi d’erbaccia incolta.
Sussultò.
I due occhi più blu che avesse mai visto. Non azzurri, blu.
Come se il mare che stava contemplando appena un secondo prima vi ci fosse improvvisamente riversato dentro e lo stesse osservando e chiamando, da chissà quanto tempo.
 
-Stanno cercando te?-
Rabastan si riscosse. Notò che i due occhi erano incorniciati da lunghi capelli biondi, incastonati in un viso dolce. Fin troppo dolce, pensò.
-Ehi. Dico a te, sai.-
-Ah. Ciao. Cioè, sì. Cioè…-
La ragazza rise ed uscì allo scoperto, sollevandosi sugli avambracci. Poi tornò improvvisamente seria.
-Perché piangevi?-
-Non stavo piangendo.- Ribatté immediatamente Rabastan, passandosi freneticamente le mani sugli occhi.
-È questa maledetta sabbia. Mi dà fastidio. Si infila dappertutto.-
La ragazza rimase imperturbabile, continuando a fissarlo, assorta.
Rabastan si infastidì. Non era un ragazzo molto paziente. O almeno, gli piaceva pensarlo.
-Ma che diavolo vuoi? Cosa facevi tu invece, mi stavi spiando?-
Il tono che assunse sembrò offenderla, o quantomeno sorprenderla.
-Ti faccio notare che sei tu quello nascosto in un canneto, non io.- Replicò gelidamente.
-Come sarebbe a dire? Ma se sei a due passi da me!- Bofonchiò Rabastan.
-Leggevo.- Rispose placidamente lei, mostrando uno di quei tomi che Rabastan scacciava con la sola forza del pensiero e che infatti gli fece storcere la bocca in una smorfia piuttosto eloquente.
-E perché leggevi proprio qui?-
-Posso leggere dove mi pare, per quanto ne so.-
Rabastan si rimise a sedere, sentendo però la necessità di dover distogliere l’attenzione da quelle iridi.
Troppo blu, così blu.
 
-Lo sai che non è educato non guardare in viso la persona con cui si sta parlando?-
La sentì picchiettare con le unghie sulla rigida copertina del libro.
Notò che la spiaggia si stava velocemente spopolando e che il sole era calato a picco sull’orizzonte, come a voler aprire uno squarcio sulla vellutata coltre dell’oceano.
-Non sembra che sanguini? – Le sentì sussurrare un attimo dopo, come se gli avesse letto nel pensiero.
Ma non appena si girò per risponderle, con la fronte aggrottata dallo stupore, la ragazza si era già alzata, sollevando un altro fastidioso mulinello di sabbia che lo costrinse a richiudere gli occhi.
-Devo andare. I miei genitori si staranno chiedendo dove sia andata a finire.-
Rabastan tossì sfregandosi nuovamente le palpebre.
-Aspetta!-
-Devo proprio andare, non mi ero accorta fosse così tardi.-
Rabastan si tirò in piedi, ma solo in tempo per vederla correre a perdifiato giù lungo le dune, verso il mare aperto. Si mise una mano sulla fronte, accecato dal riverbero dei raggi sulle increspature delle onde.
-Ehi!- Gridò ancora, ma la ragazza non si voltò neppure per fargli un cenno.
-Ehi.- Continuò, abbassando le braccia lungo i fianchi e sbuffando alla sabbia. -Hai dimenticato il libro.- Terminò, raccogliendolo e soffiandoci sopra delicatamente.
 
-Adesso parli da solo?-
Sobbalzò, di nuovo rosso per la vergogna.
Bellatrix sbirciò oltre le sue spalle, sogghignando perfidamente.
-Con chi parlavi, piccolo Rab?-
-Con nessuno.-
Bellatrix inarcò un sopracciglio, mandandolo di nuovo su tutte le furie.
La spintonò in maniera poco garbata per far sì che distogliesse l’attenzione dalla ragazza in lontananza.
-Dì un po’, Rab, il sole ti ha fritto il cervello? Io la lascerei andare, se fossi in te.-
Suo fratello Rodolphus afferrò la mano di Bellatrix, trascinandola a sé.
-Va’ al diavolo anche tu, Rod.-
Oltrepassò i due infilando velocemente il libro sotto alla maglietta.
Continuò a camminare verso riva imprecando a mezza voce, e quando Andromeda lo raggiunse aveva di nuovo gli occhi arrossati.
-Rab, non dovresti fare così.-
-Non abbiamo più dieci anni, Meda. Sto benone. Sei tu che dovresti smetterla di provare a farmi da balia.- Bofonchiò, scostandosi bruscamente, provando a troncare la conversazione sul nascere.
Andromeda incassò il colpo senza ulteriori repliche, e per un po’ continuarono a camminare verso casa in silenzio, provando a sincronizzare i reciproci passi senza rendersene conto.
-Sai com’è fatta mia sorella, Rab. Perché te la prendi tanto?-
Rabastan scattò in avanti, come se fosse stato uno di quei curiosi pupazzi a molla dentro ad una scatola.
-Lascia perdere, Andromeda.-
-No, invece. Mi dispiace vederti reagire in questo modo alle sue continue provocazioni, io…-
-Ti ho detto di lasciar stare.-
Andromeda gli sfiorò gentilmente il braccio, e Rabastan scosse la testa, rassegnato.
Si voltarono contemporaneamente, giusto in tempo per vedere Bellatrix salire sulle spalle di Rodolphus, che rideva e si voltava per provare a baciarla.
-Mi danno il voltastomaco.– Mormorò Rabastan, tornando a fissare l’orizzonte.
Andromeda sorrise mesta, ravviandosi i capelli e cingendogli le spalle.
-A volte lo danno anche a me.-
Rabastan rise nervosamente.
-Da quanti anni venite in vacanza qui da noi?- Chiese, ignorando le risate fastidiose alle proprie spalle.
-Mmh. Direi almeno cinque, sai. Da quando abbiamo iniziato la scuola tu ed io. Perché?-
-Niente, così. Facevo due calcoli.-
Non poté fare a meno di girarsi una seconda volta, anche se ormai la spiaggia era completamente deserta e della ragazza non vi era più nemmeno l’ombra.
-Cerchi qualcuno?-
-No, no. Pensavo e basta.-
-Direi che sei parecchio pensieroso oggi.-
Rabastan alzò le spalle, fermandosi alle scale d’ingresso e guardando la graziosa villetta dove trascorreva gran parte delle sue estati.
-Ho incontrato una persona, una ragazza. Prima, quando sono salito sulle dune.-
Andromeda non fece commenti, ma con un cenno gli indicò i gradini del portico.
Sedettero, aspettando Rodolphus e Bellatrix, che però sembravano non aver nessuna intenzione di affrettarsi per cena.
-Che c’è di tanto strano?- Continuò Andromeda.
-Niente.- Mormorò Rabastan, passandosi una mano fra i ricci. –Niente. Solo che non l’avevo mai vista qui, prima d’ora, e nemmeno…- Ma si interruppe, ricordandosi del libro che teneva ancora nascosto fra i pantaloncini e la maglia.
-Lasciamo stare.- Disse ancora, con un mezzo sospiro.
-Come vuoi.-
Aveva gli occhi blu come il mare. Esattamente dello stesso colore cangiante del mare. –Avrebbe voluto aggiungere.
Ma non lo fece. Non fece niente, se non restarsene seduto lì, ad ascoltare il frinire dei grilli e il mormorio sommesso dell’acqua.
-Non ti irrita mai?-
-Chi? Bellatrix? Certo che mi irrita.-
Rabastan rise di gusto, scuotendo la testa.
-No. Intendevo dire il mare. Il rumore del mare.-
Andromeda sembrò sorpresa, sorrise guardando le onde sul bagnasciuga.
-No, in realtà è un suono che mi piace molto. Mi concilia il sonno, persino. Adoro dormire qui.-
-Io no.-
Bellatrix urlò qualcosa che non capirono.
-Litigano un’altra volta.-
-Li conosci, Rab.-
Rabastan scosse di nuovo la testa, incrociando le braccia al petto.
-Un minuto prima sta lì a fargli le fusa come una gatta. Un attimo dopo lo guarda come se volesse ucciderlo a mani nude e se lo rivolta come un calzino. Non capirò mai mio fratello, non capirò mai…-
Andromeda gli accarezzò la mano. Non si era accorto neppure di averle chiuse a pugno.
-So quello che vuoi dire.-
-No. Non lo sai.-
Sulla riva, osservarono Rodolphus rincorrere Bellatrix, per poi tirarla nuovamente verso di sé e baciarla con foga.
Andromeda sospirò, continuando a guardare i due cadere sulla sabbia, incuranti del resto del mondo.
-Invece capisco esattamente ciò che vuoi dire.-
-Non sono geloso di Bellatrix, Meda, sono solo…-
-Esterrefatto? Arrabbiato? Risentito? Ti senti messo da parte?-
Rabastan boccheggiò, come un pesce fuor d’acqua.
-Non è che io voglia… non voglio che lui e Bella si mollino, non mi interessa, e poi ci sono abituato, dico solo che…-
-Che vorresti maggiore considerazione, ogni tanto. Che non ti piace che tuo fratello non prenda mai le tue parti. Che…-
Rabastan la zittì nuovamente.
-È che almeno per una volta, una sola dannatissima volta, vorrei essere ascoltato. Vorrei che … -
-Che ti guardasse come guarda Bella?-
Rabastan si accigliò.
-Di chi stiamo parlando adesso?-
Andromeda distolse lo sguardo dai due, con la bacchetta si annodò i capelli sulla nuca.
Rabastan aspettò una risposta che però non ottenne.
-Dio mio. Ti piace mio fratello? Da quando?- Mormorò poi, senza sapere se dovesse provare compassione o fastidio o peggio ancora, disgusto.
Andromeda ridacchiò, ma nel suo sguardo perso e spaurito Rabastan intravide ben altro.
-Promettimi solo, Rab, che al loro matrimonio mi farai ubriacare talmente tanto da non farmi ricordare neppure come mi chiamo. Soprattutto, come mi chiamo.-
Rabastan alzò le spalle.
-Come vuoi.- Sospirò. –Entriamo in casa. Se mi fai da palo, posso fregare un paio di bottiglie di vino.-
 
***
 
Dopo cena, senza neppure aspettare il dolce, Rabastan corse su per le scale ignorando i richiami di sua madre e i brontolii dell’elfo domestico.
Durante la villeggiatura estiva, era costretto a condividere la stanza con suo fratello, e nella peggiore delle ipotesi, se Bellatrix aveva deciso di dargli il tormento, anche con lei.
Finalmente solo, tirò fuori il libro che aveva nascosto nel cassetto del comodino. Se lo rigirò tra le mani, poi sedette sul letto e lo aprì con circospezione. Non fece neppure in tempo a capire di cosa trattasse, che sentì dei passi lungo il corridoio. Lo sfogliò in fretta, e appena prima che venisse aperta la porta, trovò un nome fra le prime pagine del romanzo.
Dorcas Meadowes.
Si graffiò il dorso delle mani dalla fretta con cui infilò il libro tra il materasso e la rete del letto. Trattenne un’imprecazione aspettandosi una serie di domande indiscrete sul perché se ne stesse inginocchiato sul pavimento, ma quando si voltò trovò soltanto Bellatrix, poggiata placidamente allo stipite della porta e con indosso soltanto la biancheria intima.
Rabastan sbuffò e si rialzò, distogliendo lo sguardo.
-Mi serve l’accappatoio.- Strascicò Bellatrix, mentre lui alzava gli occhi al cielo.
-E quindi?- Le rispose fra i denti.
-Uhm, non è in questa stanza? Oh, pazienza. Passami quello di Rod, allora.-
Rabastan serrò la mascella e si diresse a falcate verso il letto del fratello. Agguantò l’accappatoio lasciato in disordine e lo lanciò verso la porta con furia, colpendo Bellatrix in viso.
Lei finse di essersi fatta male, irritandolo talmente tanto che iniziò a gridarle contro in maniera decisamente poco garbata, come avrebbe detto sua madre.
-Allora sei diventato completamente pazzo!- Rodolphus entrò e lo spintonò, mandandolo a sedere sul letto. Gli tenne la testa contro la parete, pareva volesse strozzarlo. Rabastan annaspò, ma non disse nemmeno mezza parola, rimase a fissarlo, mentre Rodolphus continuava a ringhiare come un cane rabbioso.
Dopo quello che gli parve un tempo sufficiente lo lasciò andare, facendogli cozzare la nuca sul muro. –Copriti e vattene, Bellatrix. Adesso.-
Rabastan tossì, mentre Bellatrix richiudeva la porta dietro di sé, come se nulla fosse.
I due fratelli rimasero a scrutarsi torvi, ognuno provando a colmare il silenzio e il profondo astio celato negli occhi dell’altro.
-Giuro che se vi ritrovo ancora una volta in una situazione del genere, vi ammazzo, tutti e due.-
-Rodolphus.- Si voltarono entrambi verso Andromeda, che se n’era rimasta sulla soglia. Pallida e con una porzione di torta in mano.
-Ti… ti avevo portato il dolce, Rab.- Mormorò, mentre Rodolphus si risistemava i vestiti ed usciva gettando un cuscino contro l’armadio.
-Che è successo?-
Rabastan si alzò, malfermo, e andò alla finestra.
Era una notte decisamente buia. Non si scorgeva neppure una stella. Rabbrividì mentre Andromeda posava il piattino sulla scrivania e sedeva sul letto, in attesa di una spiegazione esaustiva.
Rabastan strinse di nuovo i pugni, serrando le palpebre ed evocando con prepotenza l’immagine della ragazza conosciuta sulla spiaggia.
-Ti sarei grato se facessi in modo di costringere tua sorella a restare nella vostra stanza, stanotte.-
Andromeda sospirò, lisciando il lenzuolo.
-È strano che Bella venga a dormire con voi due. Non le piace dormire di fianco a qualcuno, mi chiedo se…-
Rabastan se ne restò aggrappato alla tendina di raso bianco, annaspando come se stesse annegando.
-Non lo fa per il piacere di stare accanto al suo fidanzato, se è questo che pensi. Lo fa solo per dare il tormento a me. Lo fa solo per… per provocarmi. Per, per…- Ma non finì la frase. Sentì che Andromeda si era alzata ed era alle sue spalle, ma non osava toccarlo. Per paura di una sua reazione, forse.
-Che cosa è successo con Bella?-
Rabastan chiuse gli occhi e tornò indietro di diversi anni, rincorrendo una melodia dimenticata da tempo, la sensazione di quei tasti bianchi e neri levigati sotto le dita, due guanti di raso posati di fianco ad uno spartito.*
Aggrappato alla tenda, lo stomaco contratto in una spiacevole morsa gelida, sorrise e mentì, stando ben attento a tenere gli occhi chiusi.
-Non è successo niente che tu non abbia già visto, Meda. È mio fratello. È lui che finge sempre di non vedere.- Sussurrò poi, impercettibilmente, richiudendo la finestra.
 
***

Quando, diverse ore dopo, Rodolphus rientrò in camera, Rabastan fece finta di dormire. Andromeda mantenne la promessa. Bellatrix non fece la sua furtiva comparsa, e lui rimase assorto a fissare le ombre rincorrersi sul soffitto e poi scivolare lentamente nel suo subconscio, mentre prendeva finalmente sonno.
Fece sogni agitati, incubi sfocati nei quali la ragazza lo chiamava in suo soccorso, immersa nella nebbia, sulla riva dell’oceano in tempesta sotto ad un cielo plumbeo. Si svegliò sudato e con i brividi addosso e ancora attorcigliato nelle lenzuola si accorse che il rimbombo dei tuoni che lo aveva accompagnato durante la notte era estremamente reale. Si mise a sedere e scorse fuori dalla finestra un mare identico a quello spaventoso nel suo incubo.
Suo fratello era già sceso di sotto per colazione. Doveva essere abbastanza tardi.
Tese le orecchie all’acciottolio dei piatti in sala da pranzo e alle lamentele di sua madre riguardo al disordine e ai bagagli ancora tutti da preparare. Un altro brivido lo percosse, facendolo scattare in piedi. Era l’ultimo giorno di vacanza e lui doveva assolutamente trovare quella ragazza prima di sera. Si vestì in fretta, indossò le scarpe da ginnastica e avvolse il libro nella prima maglietta che gli capitò sotto tiro. Con il curioso fagotto in braccio discese le scale acquattato alla parete nella speranza di passare inosservato. Miracolosamente, riuscì nell’impresa.
Quando fu nel giardino sul retro si accorse però che pioveva a dirotto. Era impossibile che qualcuno si avventurasse in spiaggia, quella mattina. Calandosi un berretto sulla testa decise comunque di tentare il possibile. Avrebbe fatto una corsa lungo la riva, e se non l’avesse trovata avrebbe portato il libro ad Hogwarts con sé. Anche se non era certo che la ragazza frequentasse la scuola. Non l’aveva davvero mai vista. Se ne sarebbe di certo ricordato, altrimenti.
Il nome Meadowes, però, non gli era nuovo.
 
Doveva essere senza dubbio una strega, rifletté, corrucciato. Quella parte nascosta e abbastanza impervia della costa, essendo quasi impossibile da raggiungere senza l’ausilio della magia, era frequentata quasi esclusivamente dalle famiglie di maghi più altolocate. Gli stessi maghi avevano contribuito personalmente a raccontare frottole in giro dicendo quanto il luogo fosse infestato, e di come tutti i Babbani che vi avevano messo piede fossero poi morti nelle sabbie mobili oltre le dune.
Starnutì mentre si allontanava e scrutava il paesaggio cupo e desolato.
Sua madre avrebbe dato di matto non appena fosse rientrato in casa conciato a quella maniera. Stranamente, però, si accorse di temere di più la possibilità di non incontrare la ragazza rispetto ad una strigliata.
Appena due minuti, ed era già completamente zuppo, fino al midollo. Accelerò il passo cercando di ricordare il punto preciso del suo nascondiglio, ma con tutta quell’acqua e quella foschia sarebbe stato estremamente difficile riuscire a ritrovarlo.
Si diede dell’imbecille appena si rese conto dei suoi pensieri completamente sconnessi e privi di una qualsiasi logica.
Quale ragazza al mondo se ne sarebbe andata in giro sotto a un temporale, con la vana speranza di recuperare un libro su una spiaggia? Sbuffò, piegandosi sulle ginocchia, affranto e affannato.
Non ci stava con la testa, era evidente. Forse aveva ragione suo fratello, dopotutto.
Pensò alle risate di scherno che lo avrebbero accolto una volta rientrato, anche se ovviamente non avrebbe dato spiegazioni riguardo alla sua corsetta mattutina.
Arrivò alle grotte in fondo alla spiaggia, e anche se gli davano i brividi da tempo immemore, fu costretto ad entrarvi per ripararsi.
Se solo avesse potuto accendere un maledettissimo fuoco, o almeno asciugarsi con un incantesimo. Sconvolto e sfiduciato, si rigirò la bacchetta tra le mani, lasciandosi cadere a sedere e scrutando la volta della grotta buia. Rabbrividì agli stridii sinistri dei gabbiani e decise di aspettare almeno il tempo necessario affinché la pioggia diminuisse d’intensità.
 
Per diversi minuti non mosse un muscolo, intorpidito e sempre più sconvolto dalle sue stesse azioni. Dettate da cosa, poi? Dall’indifferenza di suo fratello nei suoi riguardi, ovviamente. Anche se non aveva il coraggio di ammetterlo neppure a se stesso, Rabastan soffriva immensamente. Non avrebbe neppure saputo rispondere in maniera chiara se qualcuno gli avesse chiesto realmente come si sentisse, ma in realtà percepiva –avvertiva, conosceva profondamente le ragioni del suo stato d’animo inquieto e del suo comportamento all’apparenza sempre più indecifrabile.
Le conosceva da anni. E a ben pensarci erano sotto il naso di tutti, ma proprio tutti.
 
Perso nelle proprie elucubrazioni mentali, non la sentì arrivare.
Quando gli toccò gentilmente una spalla, soffocò un grido balzando in aria, e facendo sobbalzare anche lei, che, come se fosse uscita per magia proprio dalle pagine di un libro, adesso gli stava di fronte.
-Scusami.- Si affrettò a dirgli, sorridendogli in una maniera che lui avrebbe ricordato per sempre meravigliosa, -Scusami. Ti ho chiamato… pensavo mi avessi sentito.-
Rabastan prese un lungo respiro, rilassandosi improvvisamente alla sola vista di quel colore azzurro rincorso in sogno tutta la notte.
-Scusami tu. Ero… ero troppo assorto nei miei pensieri e non ti ho sentita arrivare.- Riuscì a buttare fuori, con le orecchie pericolosamente scarlatte.
La ragazza continuò a sorridergli, gettando un’occhiata speranzosa al libro ancora infagottato sotto alla maglietta.
Rabastan ne intercettò lo sguardo e si affrettò a porgerglielo.
-Ero venuto a cercarti, in realtà, per riportarti questo. Lo hai dimenticato ieri sera, e non ho potuto correrti dietro. Io…- Si fermò, notando riverberare nelle iridi cobalto una scintilla di quella che interpretò come gratitudine.
–L’ho messo nella maglietta perché si sarebbe bagnato, altrimenti, e quindi rovinato. Ripensandoci forse avrei dovuto usare un asciugamano, ma se avessi potuto avrei fatto un incantesimo per…-
-Grazie.- Lo interruppe lei, prendendo il libro con la stessa delicatezza che avrebbe riservato ad un bambino. –Grazie davvero. Non ho parole per ringraziarti. Non pensavo che mi avresti cercata per farmelo riavere.- Poi lo guardò, sorridendo ancora –Sei completamente zuppo. Mi dispiace.-
Rabastan le guardò i capelli lunghi e altrettanto bagnati –desiderò sfiorarli all’istante, ma represse l’impulso. –Anche tu, a quanto vedo.- Si limitò ad aggiungere.
-Ma il libro era mio. Sono stata io a dimenticarlo, non avresti dovuto preoccupartene tu. Sei stato così gentile che non so come…-
-Che sciocchezza.- La interruppe, aprendosi in un sorriso.
-Cosa?-
Rabastan si passò nervosamente una mano fra i capelli, continuando a sorridere –Niente, pensavo stessi per dire che non avresti saputo come sdebitarti… e non è proprio il caso. Voglio dire, per così poco.- Arrossì violentemente e si fissò la punta delle scarpe, dondolandosi sul posto senza accorgersene. Dopo qualche secondo di crudele imbarazzo vide la mano di lei tesa proprio sotto al suo naso, e rialzò la testa.
-Sono Dorcas, comunque. Dorcas Meadowes.-
-Lo so. Cioè, voglio dire, Rabastan Lestrange- Gracchiò, come i gabbiani inquietanti di poco prima.
Vedendola incuriosita, si affrettò a spiegare. –Ho letto il tuo nome nel quaderno. Cioè, nel libro, insomma. Non ho letto il libro, ma ho letto il tuo nome.-
A questo punto la ragazza esplose in una sonora risata, che lo fecce vergognare ancora di più, se possibile.
-Tranquillo.-
-Beh, sì, tanto voglio dire, non è mica un diario. Se fosse stato un diario personale sarebbe stato diverso, ma non lo è, giusto?-
-Giusto.-
-Bene. Quindi anche se lo avessi letto tu non avresti potuto offenderti, e quindi…-
-Va bene così.-
-Certo.-
-Certo.-
-Pensi che mi restituirai anche la mano?-
-Oh. Scusami. Non mi ero accorto…- Rabastan sciolse la presa fin troppo salda e con la mano ora libera salì a grattarsi l’orecchio. Notò i braccialetti che la ragazza portava al polso, pietre dai colori molto simili a quelli dei lapislazzuli, si intonavano agli occhi perfettamente. Notò anche l’eccessiva trasparenza del vestito -troppo leggero per una pioggia torrenziale come quella che stava ancora  cadendo. Era pur sempre un galantuomo, dopotutto. Si chiese se non fosse il caso di prestarle la giacca, e fece anche per chiederglielo prima di ricordarsi di non avere indosso proprio nessuna giacca.
-Ehi. Ti senti bene?-
-Cosa? Sì, sto bene. Perché?-
Dorcas fece un passo indietro, le mani dietro la schiena.
-Ah. Non so, è che alle volte ti assenti e fissi il vuoto. Nel bel mezzo dei discorsi, intendo. Cioè…-
Rabastan sorrise, annuendo con aria colpevole e incrociando le braccia al petto.
-Hai ragione, scusa. Non sei la prima persona che me lo dice. È che…-
-Ma no, dai. Non intendevo offenderti, è una cosa simpatica.-
Rabastan rimase a sorridere come un ebete per qualche altro secondo. Il gran caldo alle orecchie non accennava minimamente a passare.
-Adesso però dovrei andare.-
Rabastan cercò di ritrovare un po’ di contegno –se ne era rimasto, da qualche parte, e annuì vigorosamente come a voler ribadire un concetto di estrema importanza.
-D’accordo. Allora noi… ci vedremo in giro, immagino.- Non trovò nemmeno qualcos’altro di più appropriato da dire per congedarsi.
-Già. Magari nei prossimi giorni, qui sulla spiaggia, se…-
-Temo di no. Siamo in partenza. Sono con la mia famiglia. Io e mio fratello trascorriamo qui un paio di settimane prima dell’inizio della scuola.-
-In realtà, ecco, sapevo…so chi sei. Intendo dire che già ti conosco, di vista. Te e tuo fratello Rodolphus. I fratelli Lestrange… non passate del tutto inosservati ad Hogwarts e … e invece tu non hai la minima idea di chi sia io.- Constatò alla fine.
Il sorriso le si smorzò. Rabastan osservò nuovamente quegli occhi mutare espressione e sfumature. L’accenno di delusione che vi lesse lo colpì in pieno petto, come una secchiata d’acqua gelata. Avvertì l’immediato bisogno di profondersi in scuse.
-Scusa, davvero… forse sei più piccola di me. Io non ti ho mai vista prima di ieri, lo giuro. Me ne ricorderei altrimenti.- Ammise, avvicinandosi di qualche passo, piantando gli occhi nocciola nei suoi.
Si accorse delle efelidi delicate sugli zigomi, sul naso. Forse era troppo vicino. Ma Dorcas non si scansò. Fissò invece il profilo delle sue labbra. Lui se ne accorse. Improvvisamente avvertì di nuovo un gran caldo.
-Sono in Grifondoro. E abbiamo la stessa età.-
-Sì?- Mormorò Rabastan in risposta, lasciando che le sue mani scivolassero attorno ai suoi fianchi morbidi. Troppo morbidi. Salì a scostarle una ciocca bagnata dietro l’orecchio.
-Non conosco nessuno dei Grifondoro. A parte Sirius Black. Quello spostato.-
-Sirius non è uno spostato. - La sentì replicare, ma badò maggiormente al profumo del suo respiro.
Deglutì.
-Perché, conosci Sirius?-
Per Salazar, stava davvero parlando di quel moccioso di Sirius?
Le dita della mano sinistra strinsero più forte le pieghe del vestito sottile.
Troppo sottile.
-Certo che lo conosco. È nel gruppetto dei ragazzi più piccoli. Quelli che fanno sempre casino.-
Rabastan tornò a cingerla con entrambe la mani, sfiorandole la punta del naso con il suo.
-C’è pure un tizio occhialuto che urla dichiarazioni d’amore ad una ragazzina rossa?-
Dorcas rise, le labbra a toccarsi per un secondo.
-Potter. Sì.-
-E a te nessuno urla dichiarazioni per i corridoi?-
Tornarono a fissarsi negli occhi. Il mondo esterno sembrava essersi volatilizzato nel più profondo del nulla. Anzi, sembrava non fosse mai esistito.
-No.- Rispose Dorcas, in un soffio.
-No.- Replicò Rabastan. -Me ne sarei accorto, altrimenti.-
Il tocco tremante delle sue dita sottili contro il suo torace gli fece trattenere il respiro.
-Ascolta. Io devo…-
-C’è…c’è un’altra grotta qui dietro, una specie di baia nascosta con una pozza di mare azzurro…-Tornò a guardarla negli occhi, -Con quelle cose… le stalattiti, stalagmiti o come diavolo si chiamano…-
-Lo so. La conosco. Ci… ci vado spesso. A leggere.-
-Ah.- Ora Rabastan aveva la gola completamente secca e le labbra in fiamme –Io invece non ci entro da un po’. Ci sono quasi annegato là dentro. Mio fratello e la sua ragazza pretendevano di insegnarmi a nuotare. Non ho più toccato il mare nemmeno per sbaglio, da allora.-
Dorcas lo fissò sgomenta per qualche secondo, poi gli sorrise allontanando però il viso dal suo, sfiorandogli una guancia con l’indice.
-Mi dispiace.-
Rabastan si strinse nelle spalle con noncuranza.
-L’ho superata.-
-Non direi, se non hai mai più fatto un bagno in mare.-
-Beh. Ho fatto un sacco di cose. E vorrei farne altre. Con il tuo permesso, si intende.-
Si rese conto che stava dondolando sul posto, tenendola stretta. Sembrava ballassero.
-Devo andare sul serio. Non posso restare.-
Rabastan abbassò la testa al libro infagottato che Dorcas teneva ancora stretto a sé.
-D’accordo. Se proprio devi.-
La sentì sciogliere delicatamente la presa in cui l’aveva serrata e nell’istante in cui perse il contatto con il suo corpo avvertì una dolorosa fitta al centro del petto.
-Io… vado da questa parte. C’è un breve passaggio che porta alla strada che è quassù, lungo la collina.- Indicò con l’indice l’entrata angusta verso le grotte minori.
 
Poi fu questione di un attimo. Un paio di secondi, o anche meno.
Rabastan sentì un rumore. Lieve, appena percettibile, ma ben distinto dallo scrosciare della pioggia e dal fragore dell’oceano. Un rumore che associò ad un lieve scalpiccio. Non riuscì ad elaborare un paragone più dettagliato perché non appena lo percepì ed ogni suo senso si acuì per identificarne la natura e la provenienza, era già cessato.
 
Chiuse gli occhi per un altro, lungo, interminabile secondo, ma non udì nulla al di fuori del respiro, ora più affannato e agitato, di Dorcas.
-Perché hai preso la bacchetta?-
Riaprì gli occhi e portò un dito alle labbra, facendole cenno di tacere.
Dorcas intercettò il suo sguardo e si ritrovarono a fissare il cunicolo buio.
-Non ho paura ad entrarci, se è questo che stai cercando di chiedermi.-
-Ho sentito un rumore.-
Dorcas ridacchiò, riavvicinandosi a lui.
-Se vuoi mettere alla prova il coraggio di noi Grifondoro, beh…-
Rabastan sbuffò, la scansò e andò a sbirciare lungo il tunnel.
-Ho sentito un rumore, ti ho detto.-
-Sta tuonando là fuori, e siamo su una spiaggia, e queste grotte saranno piene di pipistrelli.-
Rabastan puntò la bacchetta verso il fondo della galleria, incapace però di muoversi. Immobilizzato. Con una sensazione orrida che pareva risalire dal profondo delle sue viscere. Un terrore ancestrale. Un avvertimento che in qualche modo già conosceva.
 
-Non è stato un pipistrello.- Decretò infine, con assoluta certezza.
-Ascolta, io vado. È tardi per davvero. Mio padre vuole trovarmi a casa per pranzo.-
Dorcas arginò l’ostacolo costituito dal braccio di Rabastan -teso a toccare la roccia, passandovi sotto. Imboccò la galleria, voltandosi a guardarlo, ridacchiando.
-Non vedi quanta luce filtra?- Alzarono entrambi la testa. –Siamo sotto al pendio che collega la spiaggia alla strada ... –
-Ti accompagno.- La zittì, intascando la bacchetta e andandole vicino.
Ma lei lo fermò, premendogli entrambe le mani contro il torace. Il libro cadde in terra, i loro respiri affannati si fusero assieme per la prima volta.
-Non è necessario. È un tragitto molto breve. L’ho fatto un sacco di volte.-
-Posso almeno aspettarti all’uscita?- Biascicò Rabastan.
Dorcas sorrise. Un guizzo negli occhi prima di chiuderli e baciarlo. Delicatamente.
Fu la sensazione più delicata che Rabastan avesse mai provato –e che provò, nell’arco della sua intera vita.
Non forzò nemmeno un contatto più approfondito. Ne assaggiò solo i contorni del labbro inferiore, carezzandole lentamente la schiena.
-Perché non vuoi che ti accompagni a casa?-
Lei scosse lievemente la testa, passandogli le dita sulle guance, sulla fronte –come stesse ripassando i contorni di un disegno immaginato troppe volte e mai colorato.
-Non preoccuparti.-
Rabastan posò la fronte sulla sua, spingendola indietro, contro la parete dello stretto cunicolo.
-Posso chiederti almeno di mandarmi un gufo, questa sera?-
Dorcas annuì.
Rabastan si rilassò, godendosi la sensazione di quelle dita intrecciate fra i suoi ricci, dietro la nuca.
-Devo andare a casa. E tornare al mio libro che…-
-Che oramai penso sarà irrecuperabile. Questo lo sai, sì?-
-Non è un gran dramma… tanto lo avevo già letto.-
Rabastan si accigliò, giocherellando con uno dei suoi orecchini.
-Sì?-
-Sì, tre volte.-
Abbassarono lo sguardo al fagotto inzuppato che giaceva ai loro piedi.
-Mi dici che senso ha rileggere una storia di cui si conosce già la trama e il finale?-
 Lei alzò le spalle. Poi la sentì scivolare via, sciogliere senza fretta l’abbraccio e chinarsi per raccogliere il libro. La lasciò fare, anche se avrebbe dato qualsiasi cosa per frantumare il tempo e ritagliarne una scheggia solo per custodire quei preziosi momenti, e la frase che lei sussurrò dopo. Impacciata, arrossendo, indietreggiando con gli occhi bassi.
-Esistono cose che possono esistere e vivere in eterno soltanto in un libro.-
 
Il tragitto di ritorno verso casa gli sembrò infinitamente lungo. Il temporale era cessato e cumuli plumbei si stavano allontanando velocemente dalla costa, verso il mare aperto, ancora agitato. Rabastan era inquieto. Non riusciva a fare tre passi senza voltarsi indietro ad osservare le proprie orme che restavano impresse sulla sabbia bagnata per poi venir cancellate dalla ritmica danza macabra -non poté far a meno di pensare, delle onde.
Si affrettò più che poté, alternando la corsa a passi svelti e impauriti, senza una ragione apparente.
Quando arrivò al portico della villa, si accasciò sulle scale d’ingresso per riprendere fiato.
Varcò la soglia affannato e tremante, ma i suoi tentativi di passare inosservato si rivelarono del tutto vani non appena inciampò nell’elfo domestico che stava rannicchiato all’ingresso. Ruzzolò in terra con un gran fracasso e imprecò.
-Per Salazar, stupido essere!-
-Crab si scusa, padrone. Crab stava pulendo le scarpe della signorina Bellatrix, Signore…-
-E devi lucidarle proprio sullo zerbino d’ingresso? Idiota!-
Afferrò una delle scarpe di Bellatrix e la lanciò contro il muro.
-Rab!-
Andromeda gli mollò uno scappellotto e gli si inginocchiò accanto, porgendogli una tazza di tè fumante.
-Va’ di sopra e bevi questo. È bollente. Crab, sii gentile, pulisci questo casino.-
Lo aiutò a rimettersi in piedi, porgendogli un asciugamano pulito.
-Cerca di non sporcare ulteriormente, per favore… ci sono i miei genitori e i colleghi di tuo padre a pranzo, è il suo compleanno, ma come hai fatto a scordarlo!-
Rabastan biascicò qualcosa, provando ad inventare una scusa plausibile, ma Andromeda non sentì una parola, troppo occupata a dare istruzioni al vecchio elfo, che pareva piuttosto confuso.
-Ma Crab deve pulire prima le scarpe della signorina o deve lavare il pavimento?-
Rabastan fissò le orecchie dell’elfo abbassarsi e poi rialzarsi, come ipnotizzato.
-Oh, per amore del cielo!- Sbottò Andromeda a bassa voce. –Ma che diavolo ci ha fatto con gli stivali in agosto? È completamente fuori di testa…- Borbottò. –Lascia stare Crab, li pulisco io, questi… Rabastan, va’ di sopra!-
Lo afferrò per il gomito e lo trascinò su per le scale, poi lo lanciò letteralmente verso la porta del bagno, inarcando le sopracciglia e facendogli segno di tacere.
-Fatti una doccia. Renditi presentabile entro due minuti e scendi. Tua madre era troppo impegnata con il pranzo per dare peso alla tua escursione solitaria. Muoviti! Che fai ancora là? Stai gocciolando sul parquet! -
Rabastan sorrise –il sorriso più ampio di tutta l’estate, e sillabò un grazie muto.
Andromeda agitò la mano con noncuranza e lui entrò in bagno, accasciandosi contro la porta.
Bevve una lunga sorsata di tè caldo per calmare i brividi e tirò un sospiro di sollievo.
Ce l’aveva fatta.
 

  *La scena che Rabastan rievoca alla memoria, e che io ho inserito come piccolo flashback, è ripresa da una Shot di Katekat, Quel pianoforte. Per ulteriori dettagli a riguardo, vi rimando perciò alla sua storia :)

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Capitolo 2
*** Parte seconda: per scelta. ***


Parte seconda:
per scelta



Miracolosamente, Rabastan era rimasto illeso.
Il pranzo e la presenza degli ospiti si rivelarono una benedizione. Sua madre non ebbe il tempo di chiedergli dove fosse stato, e lui si guardò bene dal rivolgere attenzioni eccessive ai commensali presenti. Mangiò con lentezza e rispose cautamente ad ogni domanda che gli venne posta, sorridendo più del suo solito e mantenendo un contegno impeccabile. Rodolphus fu persino gentile e gli propose una partita a scacchi nel pomeriggio, cosa che capitava sempre più raramente. Andromeda se ne restò accoccolata sui divani del salotto con i suoi libri, Narcissa non gli diede fastidio e non gli chiese ininterrottamente di accompagnarla ad uno dei prossimi balli; persino Bellatrix non lo stuzzicò.
Ne prese coscienza soltanto alla fine della partita a scacchi, quando il sole era ormai tramontato e le ragazze avevano portato di sotto i loro bagagli per ripartire alla volta di casa con i propri genitori.
Al momento dei saluti Rabastan strinse forte Andromeda, bisbigliandole che le avrebbe raccontato tutto sull’espresso per Hogwarts e si accinse a sfiorare con riluttanza le guance di Bellatrix, che gli sorrise placidamente. Rabastan si bloccò, la mano a mezz’aria. Un brivido –un altro, gli corse giù lungo la schiena. Era un comportamento normale, da parte di Bellatrix?
 
-Oggi non mi hai parlato nemmeno, Bella.- Le disse, mentre gli adulti facevano sparire i bauli.
Nessuno ascoltò la breve conversazione.
-Ma davvero, Rab? Scusami, non lo avevo neppure notato.-
Uno scintillio sinistro, -sempre lo stesso, le illuminò gli occhi neri.
-Come no…- continuò Rabastan, -Non mi hai nemmeno preso in giro.-
Bellatrix rise, mentre Rodolphus le cinse la schiena.
-Pensavo mi detestassi, no? Non è quello che hai detto ieri pomeriggio? Non mi hai mandata al diavolo almeno un paio di volte?-
-Lascialo perdere, Bella. Lo sai com’è, questo qui. È uno screanzato. Dice che non ti sopporta, ma poi non appena gli si negano un po’ di attenzioni, ecco che viene a cercarsele…-
-Oh, no, no.- Rabastan alzò le mani. –Sono contentissimo così. È stato un piacere averti qui con noi, Bellatrix. Come sempre.- Le prese la mano e gliela baciò con garbo, da vero gentiluomo. Bellatrix non aggiunse nessun commento e lasciò che Rodolphus l’accompagnasse alla carrozza.
Non appena la casa si svuotò, Rabastan corse in terrazza con il cuore in gola.
Detestava aspettare, in questo era uguale a Rodolphus. Voleva tutto e lo voleva subito. Le aspettative -e le ipotesi, gli creavano una sorta di ansia incontrollata. Lo mandavano su di giri, finiva per sentirsi braccato in una morsa letale. Detestava la posta via gufo proprio per queste ragioni. Non amava scrivere e non amava restare con il fiato sospeso nell’attesa di ricevere notizie, da chiunque fosse.
Soffiava vento freddo da nord e il mare era ancora in burrasca. Fulmini cadevano all’orizzonte e lampi accecanti illuminavano la notte. Le prime gocce di pioggia iniziarono a sferzargli il viso, mentre socchiudeva le palpebre nel buio, e camminava avanti e indietro in compagnia della sua sola ombra.
Avvistò il barbagianni dopo almeno una decina di minuti d’ attesa. Prese il biglietto con mani tremanti e ringraziò il volatile con delle carezze. Se avesse potuto vedersi dall’esterno, non ci avrebbe creduto: erano passati almeno dieci anni dall’ultima volta in cui aveva apertamente mostrato tenerezza verso un qualsiasi animale. Verso qualsiasi cosa, in effetti.
Srotolò la pergamena con un senso di ansia sempre più crescente, come fosse stato sull’orlo di un precipizio. Tornò a respirare solo quando posò gli occhi sulla sua ordinata calligrafia.
 
Sana e salva.
Ci vediamo a scuola, D.
 
Ripiegò il biglietto e se lo ficcò in tasca, rientrando in casa prima di prendersi un secondo acquazzone. Scese le scale lentamente, confuso e un po’ deluso, anche se non lo avrebbe mai ammesso; si aspettava un biglietto un po’ più nutrito.
Dopotutto le aveva restituito un libro che avrebbe potuto benissimo lasciare lì sulla sabbia e si era anche offerto di riaccompagnarla a casa.
Forse voleva solo farsi beffe di lui.
Lui, un Lestrange? Probabilmente la ragazzina non aveva proprio capito con chi avesse a che fare.
Sedette sul letto togliendo le scarpe e gettandole per aria con noncuranza e si sdraiò a fissare il soffitto. Rodolphus avrebbe sicuramente dormito nel letto lasciato vuoto da Bellatrix, e lui, almeno per una notte, avrebbe riavuto una stanza tutta per sé e forse ritrovato un po’ di ristoro.
Questo non gli impedì di aprirsi comunque in una smorfia.
Si ripromise di non cadere mai e poi mai in una trappola simile, come quella in cui era finito suo fratello. La morte, piuttosto.
Sbadigliò e cominciò a rigirarsi fra le lenzuola, ma non dormì fino alla prima luce tenue dell’alba, quando finalmente i tuoni cessarono.
L’ultima cosa cui pensò, prima di crollare, fu che avrebbe dovuto aspettare ancora un’intera settimana prima dell’inizio dell’anno scolastico e che, per la prima volta, gliene dispiaceva.
Temeva di fare la fine di suo fratello, ma fino ad allora non aveva mai desiderato che le vacanze terminassero in anticipo. Forse era già troppo tardi.
 
Quando si ritrovò finalmente in stazione, dopo una settimana, aveva guadagnato diverse ore di sonno arretrato, due occhiaie a scavargli il viso e una madre angosciata che ogni due minuti insisteva affinché facesse dei controlli al San Mungo. Alla terza supplica nel giro di un quarto d’ora, Rabastan indossò un paio di vecchi occhiali da sole rimediati in un cassetto e si congedò, per restarsene impalato poco più in là, con le braccia conserte e le labbra serrate a fissare di sottecchi i ragazzini più piccoli che gli passavano davanti.
-Sembri uscito dal reparto Lesioni permanenti da incantesimi del San Mungo- Gli bisbigliò Andromeda all’orecchio, affiancandolo e fissandolo sgomenta.
-Non avete mai tardato eppure per un tè, e ti viene in mente di farmi aspettare proprio oggi?- L’accusò Rabastan, porgendole un secondo paio di occhiali.
-Mettili. È estremamente divertente. Avanti, fa’ come me. Altrimenti non potrai calarti nei miei drammi esistenziali. -
-Dicono che i pazzi vadano assecondati.- Mormorò Andromeda, indossando con cautela e riluttanza gli occhiali.
-Ora che li ho, che dovremmo…-
-Guarda fisso davanti a te. Non così, Meda, incrocia le braccia. Assumi un atteggiamento sicuro di te, suvvia. Perfetto. E adesso continua a fissare questa folla di idioti.-
-L’unico idiota qui mi sembri tu, se posso fartelo notare.-
-Ho bisogno di informazioni.-  Bisbigliò Rabastan.
-Di che genere?.-
-Informazioni su una ragazza. Tu le dovresti conoscere meglio di me, e poi sei un’enciclopedia ambulante.-
-Che razza di discorsi… e poi perché stiamo sussurrando? -
Si guardarono di sbieco, riflessi l’uno nelle lenti dell’altra.
-Meda, mi devi ascoltare.-
-Io ti ascolto, ma non mi stai dicendo niente! Ti faccio notare che il treno parte tra due minuti esatti e che…-
-Eccola!- Rodolphus le afferrò il braccio, facendola ruotare su se stessa nella direzione opposta.
-Ecco chi, Rab?-
-Il mio dramma esistenziale.- Le bisbigliò contrito all’orecchio.
-Sta’ ferma, non muoverti, ecco, continua a guardare verso quel gruppo di Grifondoro…-
-Ti farei anche riflettere sul fatto che questi occhiali non ci rendono invisibili, Rab.-
-Sta’ zitta. La ragazza bionda, con i capelli sciolti sulle spalle, lunghi e lisci. Quella con un barbagianni nella gabbia. L’hai vista?-
Andromeda portò gli occhiali sulla fronte e si alzò sulle punte dei piedi.
-Ma chi, Dorcas Meadowes?-
Rabastan sussultò e le tappò la bocca sgranando gli occhi.
-Non urlare!-
Andromeda gli mollò un calcio nello stinco, facendolo saltellare sul posto e facendogli cadere gli occhiali in terra.
-Ma sei matta!-
Rodolphus reclamò l'attenzione dei due ed inarcò un sopracciglio in attesa che suo fratello riacquistasse una posizione eretta.
-Il tuo distintivo da prefetto, Rab. Lo stavi dimenticando.- Gli disse poi.
Rabastan prese la sua nuova spilla e l’ appuntò di malavoglia sul petto. Al contrario del fratello, non ci avrebbe fatto mai l’abitudine.
-Pensi che, data la mia posizione di caposcuola, tu possa… non so, tentare di fare meno il cretino?- Chiese poi Rodolphus, socchiudendo le palpebre.
-Cercherò. Non vorrei farti sfigurare, caro fratello.-
Andromeda soffocò una risata, spingendo Rabastan verso il vagone e togliendolo a tirata di bacchetta da Rodolphus.
-Lascia perdere e muoviti a salire. I prefetti hanno degli scompartimenti riservati. E dovrebbero essere questi qui, in fondo al treno.-
Rabastan sbuffò.
-E con questo? Perché fai quella faccia?-
-Sono abbastanza sicura di poter affermare che il tuo dramma esistenziale condividerà la carrozza con noi.-
Rabastan sobbalzò.
-Le tue affermazioni hanno delle solide fondamenta?-
Andromeda alzò gli occhi al cielo, ridacchiando. -Per Salazar, sembra tu non sia mai salito su questo treno in vita tua! Ti sei preso una cotta con i controfiocchi…guarda come arrossisci!- Rabastan la spintonò sulle scalette per entrare in carrozza.
-Smettila di dire scemenze e limitati a esplicare le tue teorie!- Abbaiò, salendo e richiudendo lo sportello dietro di sé.
-Non è una teoria, è una certezza, Rab. Girati un po’.-
Dorcas era a pochi passi da lui. Tentava di sistemare la gabbia del gufo sul portapacchi, mentre chiacchierava animatamente con una piccola folla che l’attorniava.
-Salazar.-
-Ehi.- Andromeda lo strattonò, facendolo voltare nuovamente verso di lei.
-È la ragazza della spiaggia? È lei che hai incontrato di nascosto quella mattina?-
-Sì. Cioè, no. Cioè…Ma tu la conosci?-
Andromeda lo trascinò di peso in uno scompartimento ancora vuoto e lo spinse sul sedile, schioccandogli le dita davanti agli occhi.
-Rabastan, smettila. Ritrova il tuo savoir-faire. Sei un Lestrange, ti è innato.- Gli disse poi, prendendo posto di fronte a lui.
Rabastan sprofondò sul sedile, indossò nuovamente gli occhiali da sole e rimase a guardare fuori dal finestrino. Il treno si mise in moto ed iniziò lentamente a scivolare lungo la Bretagna inglese, lasciandosi alle spalle la caotica Londra con sbuffi bianchi di fumo.
-Qual è il problema?- Chiese gentilmente Andromeda.
Rabastan sospirò. –Lo sai qual è. Avanti, dimmi tutto.-
Andromeda tornò a guardarlo, il bel sorriso ora incrinato di colpo.
-Rab. Non l’hai vista che una volta. Andiamo, ti piace già così tanto?- Si sporse a toccargli un ginocchio, cercando di scuoterlo. Dopo qualche minuto, quando il treno prese velocità, Rabastan si decise a parlare.
-Nella biblioteca di casa non ho potuto controllare a fondo, perché mio padre si sarebbe insospettito troppo, e comunque non ho avuto il tempo sufficiente per farlo. Ma… da quello che sono riuscito a racimolare qua e là, ho letto che i Meadowes erano molto rispettati nella nostra comunità. Ricoprivano importanti cariche al Ministero…-
Andromeda annuì, guardandolo fissamente, e prese a parlare lei.
-Ma poi le ultime generazioni hanno sposato dei Babbani. Ora sono mischiati. Non so di più. So che però suo padre, il padre di Dorcas, anche lui lavora al Ministero, e di questo ne ho la certezza.-
Rabastan inchiodò lo sguardo al pavimento, l’aria corrucciata.
-Per quanto riguarda il resto, non so dirti molto di più, perché non la conosco bene. So che è una delle migliori in Incantesimi, ricordi? Che è nel gruppetto che attornia anche Sirius… andiamo, Rab, come fai a non ricordartene? Eravamo in classe con i Grifondoro in quasi tutte le lezioni fino al terzo anno.-
Rabastan sbuffò, continuando a giocherellare con gli occhiali.
-Non la ricordo affatto, Meda!- Sbottò, alzandosi bruscamente. –Vado in bagno!-
Andromeda mostrò le mani aperte in segno di resa.
-Okay, d’accordo! Sta’ calmo!-
-Ho la nausea. E non provare a seguirmi o… merda! -
Prima che potesse accorgersene, si ritrovò disteso lungo il corridoio, sconfitto da un baule lasciato incustodito davanti alla porta dello scompartimento.
-Che diavolo avete in testa?- Ruggì, scalciando violentemente e provando a massaggiarsi la fronte.
-Mio Dio, scusa! Ti sei fatto male?-
-Eh, la prossima volta faresti meglio a metterlo dove deve stare!- Sbraitò.
Si rialzò con un balzo, pronto ad affatturare il malcapitato di turno, ma tramutò la formula dell’incantesimo in un Ciao balbettante.
Dorcas arrossì, mentre cercava di eludere le occhiate curiose delle sue compagne di dormitorio.
-Io non… non c’è posto, davvero, sono dieci minuti che tento di sistemarlo.-
Rabastan aggiustò il cravattino e spolverò la camicia bianca, poi si schiarì la gola indicandole il proprio scompartimento. -Qui c’è posto, se vuoi.-
Dorcas ravviò furiosamente una ciocca dietro l’orecchio, aspettando che il rossore sulle gote si attenuasse, probabilmente. Rabastan si aprì in un sorriso divertito.
-Io… beh, se non ti dispiace…-
-Non mi dispiace.-
Rabastan prese il baule della ragazza e lo sistemò nel proprio scompartimento. Sentì Andromeda alzarsi e prese un profondo respiro prima di ritirarsi su e tornare di nuovo a guardarla.
-Allora io vado dagli altri, Rab. Ci vediamo dopo.-
Andromeda salutò Dorcas, che però rispose solo con un sorriso sforzato, continuando a restare zitta.
Rabastan si accigliò, richiuse la porta dello scompartimento e tirò le tende. Notò che la ragazza si era spostata indietro, verso i finestrini.
-Dovrei tornare anch’ io dagli altri. Grazie per…-
Rabastan l’afferrò –le mani sui fianchi, e la spinse verso il sedile.
-Quanta fretta.-
-No, davvero, io non …-
Rabastan le sollevò il mento con l’indice, corrugando la fronte.
-Non mi devi qualcosa?-
-Ah, giusto. La tua maglietta. Mi spiace, me la sono portata dietro senza accorgermene. È nel baule. Posso prenderla anche adesso se vuoi…-
-Non mi ero nemmeno accorto della prematura scomparsa della mia maglietta, Dorcas.-
Era la prima volta che la chiamava per nome. Smise di sorridere allo scatto improvviso di lei -si era tirata indietro e aveva abbassato il viso; sembrava molto meno a suo agio rispetto al loro incontro precedente.
-Ho detto qualcosa che non va?-
Lei scosse la testa, intrecciò i capelli fra le dita e disse nuovamente di dover tagliare la corda.
Rabastan l’afferrò per il polso, mentre stava sgusciando via dallo scompartimento.
-Sei sicuro di quello che vuoi fare?- Si sentì chiedere poi, in risposta alla stretta salda sul suo polso esile.
La lasciò andare e rimase in silenzio, non riuscendo ad interpretare bene la sua domanda e fissando quella lunga cascata di capelli biondi.
-Che cosa intendi?-
-Sei sicuro?-  Ripeté Dorcas una seconda volta, continuando a dargli le spalle.
Rabastan frizionò i capelli con le nocche, lei continuò a guardare fisso davanti a sé.
-Io… direi di sì.-
-Sì.- Ripeté poi con più convinzione.
Passarono alcuni secondi durante i quali Rabastan cercò di ripercorrere tutto il suo repertorio di conversazioni avute con il genere femminile, per cercare di capire dove lei volesse andare a parare, ma per fortuna la vide voltarsi, e finalmente, sorridergli. –anche se in maniera triste, perduta. Ricambiò giusto in tempo, prima di ritrovarsi con le labbra di lei sulle sue. Sgranò gli occhi, dalla sorpresa si tirò indietro e cozzò contro il vetro del finestrino. Non le diede il tempo né per ridere né per fare alcunché, ignorò il dolore sordo e prese a baciarla a sua volta, con foga. Non si staccò da quelle labbra per minuti interi, durante i quali però si sforzò di ragionare e capire cosa gli stesse accadendo, ma con scarsi risultati. Si ritrovò seduto, con lei a cavalcioni su di lui.
Si concentrò sugli schiocchi dei baci. Probabilmente era passato parecchio tempo da quando non baciava una ragazza –o era lei che baciava divinamente. Intrecciò le dita ai suoi capelli così lisci e decise in quell’istante che avrebbe sempre amato i capelli lisci.
 
Avrebbe potuto starsene così fino all’arrivo del treno ad Hogwarts, ma un accenno di tosse e l’improvviso distacco di Dorcas lo costrinsero a tornare alla realtà.
-Professor Lumacorno, Signore.- Biascicò, cercando di rimettersi in piedi, con una pericolosa sfumatura color melanzana sul viso.
Il professor Lumacorno squadrò entrambi e poi ammiccò, in un modo tremendamente imbarazzante per tutti. Guardò in tralice Dorcas che si era rintanata sul sedile opposto.
-Signor Lestrange, cominciavo a temere il peggio!-
Rabastan tornò a frizionarsi i capelli.
-Che intende dire, Signore?-
-Oh, caro ragazzo, hai dimenticato l’invito al mio tè inaugurale per il nuovo anno accademico? Ero certo che il mio gufo…-
-Oh, no Signore, voglio dire, sì, Signore, ho ricevuto il suo gufo come tutti gli anni…- Fece un sorriso tirato –E verrò, sì, scusi se non le ho dato conferma, pensavo l’avesse fatto mio fratello per entrambi, ma, ma…-
Lumacorno rise di gusto, come se avesse appena assistito ad un numero comico eccezionale.
-Non preoccuparti, ragazzo!- Gli diede una sonora pacca sulla spalla. –A questa sera, allora! Devi aggiornarmi sugli sviluppi degli affari di tuo padre, anche se mi ha scritto personalmente raccomandandomi di tenervi d’occhio…- Ammiccò nuovamente e smise di strattonarlo, senza neppure finire la frase o darle un senso più compiuto.
Parve ricordarsi all’ultimo secondo della presenza di Dorcas. -Arrivederci, signorina Meadowes-
La congedò con un sorriso tirato e richiuse lo scompartimento senza ulteriori richieste.
-Arrivederci…-  Mormorò Dorcas, fissandosi le scarpe.
 
Rabastan tirò un profondo sospiro e andò a tirare giù il finestrino.
-Fa davvero caldo con queste divise indosso, non ti sembra?- Allentò il cravattino e sbottonò il colletto. -Conosci Lumacorno, no? Si comporta sempre così. Una gran seccatura, in realtà, ma se non accettassi i suoi inviti sarebbe capace di abbassare la mia media, e mio padre inizierebbe a dire che sono un figlio degenere e che…- Si interruppe, notando l’assenza di repliche. Le si avvicinò e le si sedette accanto, prendendole d’impulso una mano e intrecciando le dita alle sue.
-Cercavo di dire che mi dispiace per l’interruzione.-
-No, dispiace a me.- Dorcas sollevò lo sguardo.
-Non avrei dovuto saltarti addosso così, io non so che cosa mi sia preso, sinceramente, è che…-
Rabastan rise e la baciò in risposta, tirandola nuovamente a sé e facendola salire sulle sue ginocchia.
-Ascolta, aspetta…-
-Che c’è?- Mugugnò infastidito, baciandole il collo.
-Le tendine. Potresti… chiuderle, ecco, perché il professore…-
Rabastan armeggiò per recuperare la sua bacchetta sul fondo della tasca.
-Non possiamo ancora usare la magia…-
Sbuffò, leggermente frustrato, e l’allontanò da sé per guardarla negli occhi. Lei resistette per qualche istante al contatto visivo, ma poi si girò verso il finestrino.
-Non dovremmo, sai…-
-Non dovremmo, no, però sei ancora in braccio a me.- Le fece notare Rabastan, gentilmente.
Dorcas scosse leggermente la testa, ma non si spostò.
Rabastan si schiarì la gola.
-Che stai guardando?- Chiese, sporgendosi al finestrino a sua volta.
-L’oceano.- Mormorò lei.
Rabastan fissò lo sprazzo azzurro incastonato fra le alte scogliere verdi.
-Non pensavo si vedesse l’oceano sul tragitto verso Hogwarts. Non… - Tornò a fissarle le iridi cobalto –Non lo avevo mai notato.-
-Non noti un bel po’ di cose, a parer mio.-
-Hai ragione.- Ribatté, incassando il colpo e trascinandola nuovamente giù, a portata di labbra.
-Mea culpa.-
Dorcas non replicò.
-Hai le iridi dello stesso identico colore del…-
Dorcas gli mise una mano sulla bocca, scuotendo la testa.
Rabastan cercò di mordergliela, ma lei premette ancora più forte. Lo lasciò andare quando lui iniziò a scalciare.
-Che stavo dicendo di male?- Si lamentò, massaggiandosi il labbro.
-Stavi dicendo la stessa cosa che mi dicono tutti.-
Rabastan parve offeso. Si rimise a sedere, agguantò gli occhiali da sole rimasti sul sedile e li inforcò, incrociando le braccia al petto.
-Bene. Adesso non sono più blu, direi che hanno assunto una sfumatura sul grigio-topo, se ti fa sentire meglio.-
Dorcas scoppiò a ridere, ma Rabastan mantenne il controllo ostentando quel cipiglio serio.
-No?- Chiese poi, mentre lei continuava a ridere. –Lo hai detto tu che non vuoi che li guardi.-
Dorcas protestò. –Non ho detto questo!-
-Beh, poco importa. Se non vuoi che io ti faccia notare il colore dei tuoi occhi, mi terrò addosso questi da ora in avanti. Sono mortalmente serio, perciò smetti di ridere. Per Salazar, farò l’amore con te con questi indosso, parola di …-
Tacque improvvisamente e Dorcas smise di ridere.
Allora Rabastan tolse gli occhiali, rimettendoli in tasca.
-Intendevo dire che…-
Dorcas si alzò.
-Senti. Non offenderti, d’accordo? Mi è sfuggito. Mi piaci, d’accordo? Mi rispondi?-
-Non mi sono offesa. Sospirò Dorcas, sistemando la camicia sotto la gonna delle divisa.
-Devo andare a controllare che i ragazzini del primo anno stiano bene. Cosa che dovresti fare anche tu, per inciso.-
Rabastan si alzò a sua volta, innervosito.
-Non mi piacciono i tuoi repentini cambiamenti di umore, sappilo.-
Dorcas inarcò entrambe le sopracciglia chiare.
-Parli sul serio?-
-Certo che parlo sul serio. Prima sei tutta timorosa, poi mi salti addosso, poi sembri offesa se ti faccio un complimento, poi…-
-Nessuno ti costringe a stare in questo scompartimento con me.-
Rabastan assottigliò lo sguardo. -Sei tu che ci sei entrata.- Sibilò.
Dorcas sussultò. Si ravviò i capelli con entrambe le mani e chinandosi prese il maglione abbandonato ai suoi piedi.
-No, ascolta, non volevo dire che…-
-Lascia perdere… smettila di strattonarmi, sei…-
Rabastan pensò che fosse del tutto irrazionale che delle labbra potessero attrarlo così tanto, come fosse stato una calamita inanimata. E Dorcas si maledisse per la quinta volta nel giro di un quarto d’ora, ma non oppose resistenza nemmeno per mantenere un minimo di quella che Emmeline avrebbe tranquillamente definito come dignità.
Finirono di nuovo sul sedile, le mani di lui sotto la camicia di lei, le mani di lei sotto al maglione di lui, per sentirne la frequenza cardiaca. Quell’ultimo pensiero le fece torcere lo stomaco in una maniera poco piacevole. Staccarsi dalla Labbra di Rabastan Lestrange era già diventato troppo doloroso.
Schiarì la gola riprendendo fiato e si rialzò dalle sue ginocchia –anche questo sarebbe diventato rapidamente doloroso.
-Ora devo proprio andare.-
-Lo dici da almeno mezz’ora.-
-Sei sgradevole.-
-Beh, mi ci costringi.-
-Nessuno ti costringe a far niente.-
-Stasera a mezzanotte, corridoio del quinto piano, dopo la ronda.- Ribatté asciutto Rabastan, alzandosi a sua volta e incrociando le dita ad entrambe le mani di lei, inermi.
-D’accordo.-
-D’accordo.-
-Prima che io diventi il pettegolezzo del nuovo anno, fammi andar via. Ti prego. Ho la sensazione di essere stata spiata per tutto il tempo. E non mi piace per niente.-
Rabastan le aprì la porta e guardò lungo il corridoio, a destra e a sinistra.
-Sono tutti indaffarati. E anche se ci avessero visti, qual è il problema? Non stavamo mica facendo sesso.- Puntualizzò, di nuovo divertito.
Dorcas lo spintonò e filò via senza aggiungere altro.
Rabastan la guardò allontanarsi sospirando, scuotendo la testa.
 


 

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Capitolo 3
*** Parte terza: per antiche promesse ***


Parte terza:
per antiche promesse

-Non m’interessa.-
Rabastan arrestò i suoi passi e si nascose dietro ad una delle armature.
-Come sarebbe a dire che non ti interessa, Cas? Avevi detto che saresti stata in grado di controllarti. Avevi detto che… ah, lo sapevo. È colpa mia. Non avrei mai dovuto lasciartelo fare…-
-Non è colpa tua, Em. Lo sai benissimo che…-
-Devi usare il cervello.- La interruppe nuovamente la ragazza che Rabastan identificò come Emmeline Vance.
-Io lo uso, il cervello!-
-Sì? E guarda come ti ritrovi. I Lestrange sono noti per essere… quello che sono.-
-Non lo conosci.- Bisbigliò Dorcas.
-Perché, tu sì? Davvero credi di conoscerlo, Dorcas?-
-Magari non sono affari tuoi.-
Emmeline e Dorcas si voltarono di scatto, sobbalzando. Rabastan percorse il corridoio buio a grandi falcate.
-Stavi dicendo?- Chiese poi, rivolgendosi ad Emmeline.
-Stavo dicendo che non è carino origliare le conversazioni altrui, per esempio.-
Rabastan tirò a sé Dorcas, in una maniera fin troppo possessiva e parecchio simile a quella utilizzata da suo fratello con Bellatrix, ma non se ne rese conto. Dorcas, dal canto suo, cercò di fare resistenza, ma si arrese ancor prima di provare realmente a ribellarsi alla sua presa salda. C’era qualcosa, in quella presa, che le faceva completamente abbandonare la parte razionale di sé.
Emmeline si aprì in una smorfia, fissando il suo polso inerme nella mano di Rabastan.
-Sappi solo che la responsabilità di quanto accadrà sarà solo tua, Cas. Io me ne tiro fuori.-
-Nessuno ti ha chiesto di entrarci.- Replicò Rabastan, gelido.
-E adesso, se vuoi scusarmi, avrei cose da fare che non contemplano in alcun modo la presenza di una …- Riuscì a zittirsi, rafforzando la presa sul polso di Dorcas. Chiuse gli occhi e sbuffò, ma quando li riaprì di Emmeline Vance non c’era più traccia.
Senza indugio, afferrò Dorcas di peso e la trascinò contro il muro. Non voleva che avesse neppure il tempo di pensare. Di ragionare.
La sentì irrigidirsi e provare a scansarsi, ma la bloccò contro la parete incastrando un ginocchio fra le sue gambe.
-Dove vorresti andare?-
-Mi stai facendo male.-
Rabastan guardò il luccichio argenteo riflesso nelle sue iridi. Improvvisamente si sentì così vuoto.
Meschino. Ma durò solo un attimo. Si costrinse ad eludere le proprie emozioni, a tenerle fuori. Altrimenti sapeva –ne era certo, sarebbe stato perduto. Scosse la testa, un ringhio soffocato, e si avventò sul suo collo. La sentì gemere, provare inutilmente a scansarsi un’ultima volta prima di cedere e permettere alle sue labbra e alle sue mani di fare il loro lavoro.
Affondò il viso nei suoi capelli –che profumo era, esattamente? E prese dei profondi respiri, quasi fosse rinato una seconda volta. Liberò la camicia dalla dannata costrizione di quella gonna così casta –le detestava, e affondò le mani tra le sue gambe. La sollevò completamente da terra e fece in modo che le allacciasse alla sua vita. Riaprì gli occhi solo quando si rese conto del tremito pressoché incontrollato di lei.
-Che c’è?- Poggiò la fonte alla sua. –Guardami. Non te lo chiedo una seconda volta.-
Cos’era? Un’ammonizione? Un ordine implicito?
Lei distolse lo sguardo. Rabastan lo intercettò e vide la porta di un’aula. Con un’imprecazione la sollevò fra le braccia, aprì la porta con una spallata e la gettò –senza nessun riguardo, avrebbe pensato poco dopo, su un banco.
Le sfuggì un ahi mentre lui trafficava con i propri vestiti. Non badò a quello che aveva intorno, ma a giudicare dall’odore di chiuso dovevano trovarsi in una delle aule vecchie e ormai in disuso. Si avventò nuovamente sulle sue labbra e finalmente la sentì rispondere pienamente e consapevolmente al bacio. –Dio, non era passato neppure un giorno intero dal viaggio, ma quelle dita sottili tra i suoi capelli e quelle gambe tremanti di nuovo attorno ai suoi fianchi misero immediatamente a tacere quel pensiero.
Mise a tacere anche i suoi ansiti non appena entrò in lei, mordendole le labbra e sussurrandole di riaprire gli occhi un secondo, solo un secondo.
Non scorse appieno l’azzurro. La luce che filtrava dalle pesanti tende alle finestre era troppo gentile mentre lui aveva fretta, sete, urgenza di stringere e sentire e respirare ogni parte di quel corpo gracile e caldo, completamente alla sua mercé.
Smise di baciarla solo per poterla guardare in viso, e continuò a guardarla per tutto il tempo, anche quando dagli occhi chiusi sgorgò una lacrima, anche quando lei gli tirò violentemente i capelli per costringerlo ad una resa – ma i Lestrange non si arrendono mai, Mai.
 
Crollò su di lei esausto, sfinito, come se avesse corso avanti e indietro per mille miglia.
La sollevò –aveva la schiena ancora inarcata, e le scostò i capelli dal viso arrossato.
Rimase a guardarla alla tenue luce diafana.
-Stai bene?- Chiese dopo quelli che parvero secondi troppo lunghi, -interminabili.
Dorcas annuì, scese dal banco con un balzo che a Rabastan parve forzato, e si ricompose dandogli le spalle. Lui rimase con i pantaloni alle caviglie, a guardarla. Solo quando lei legò i capelli si decise a darsi una mossa per non dover conversare –non avrebbe saputo che cosa dire, si accese una sigaretta. Notò una striatura vermiglia sul banco e fu come se il fumo caldo inalato si tramutasse in qualcosa di gelido. Tirò una profonda boccata sperando che Dorcas scivolasse via dall’aula, silenziosamente, come aveva fatto in quella grotta buia.
Vigliacco.
Schiarì la gola più volte, rincorrendo le sillabe.
-Tu non avevi mai…? Avresti potuto dirmelo.-
Lei alzò le spalle, agitando la bacchetta. La macchia sparì.
-Sarebbe cambiato qualcosa?-
Rabastan quasi sussultò nel sentirla parlare di nuovo. Si accorse che in effetti non aveva detto neppure mezza parola da quando l’aveva sollevata contro la parete. La vide riabbassare la testa e lisciare la gonna.
-No.- Le disse poi, lo urlò quasi. -No. Solo avrei cercato di essere più…-
-Non ti preoccupare. Sto bene.-
Raccolse la bacchetta che aveva gettato in terra e le andò vicino, prima che potesse sgattaiolare via. Le prese di nuovo il polso.
-Ci rivediamo, domani notte?-
Perché doveva essere molto chiaro, su questo punto. Una parte di lui, chissà poi perché e chissà come, si aspettava lo sguardo ferito che lo perforò e sembrò scuoterlo fin nelle viscere.
-Io non… non voglio imbarcarmi in una relazione seria. Vorrei essere chiaro fin da ora.-
Ma farei un’eccezione se potessi avere una storia d’amore con i tuoi occhi. Solo con quelli.
-Immaginavo.-  Scandì Dorcas, lentamente. Molto lentamente.
Rabastan sorrise e le passò la mano sui capelli, facendo ricadere alcuni ciuffi in avanti.
-È la cosa migliore per entrambi.-
Lei morse il labbro inferiore prima di prendergli delicatamente la mano e scostarla. La lasciò fare.
-Vuoi che ti riaccompagni alla torre?-
-So ritrovare la strada da sola.-
Rabastan annuì senza fermarla. Non le raccolse il maglioncino da terra, non le aprì la porta e non le augurò la buonanotte.
Non lo fece neppure la notte seguente e neanche quella dopo ancora.
Passarono mesi fatti solo di buio, parole strozzate e ansiti trattenuti fra le quattro mura di un’aula fredda.

***
 
-Stai mugugnando da un quarto d’ora ed Evan ti ha rivolto per tre volte la stessa domanda.-
Rabastan alzò la testa dal suo dessert, come se stesse riemergendo da una lunga apnea.
Andromeda, di fianco a lui, lo guardava e batteva il piede in terra, l’aria preoccupata.
-Stavo pensando.-
Andromeda scosse il capo, tremendamente infastidita.
-Questo lo avevo notato. Posso essere così indiscreta da chiederti a cosa?-
Rabastan sorrise.
-D’accordo, ma ricordati che lo hai chiesto tu. Facevo una lista delle ragazze che mi sono portato a letto.- Ammiccò in direzione di Narcissa, che gli sorrise dolcemente.
Andromeda sputò il succo di zucca che stava bevendo sulla tovaglia.
Rabastan scoppiò a ridere.
-Ti-affatturo-in-due-secondi.- Scandì lei tra un colpo di tosse e l’altro, livida.
-Scherzavo. Respira.-
Adromeda si ricompose, e gli puntò la bacchetta alla gola.
-Parliamo del tuo amore proibito, piuttosto.- Rabastan sussultò, le afferrò la bacchetta e scattò a controllare che nessuno li avesse sentiti.
-Sei pazza!-
–Te lo meriti.- Sussurrò Andromeda, socchiudendo le palpebre. –Tranquillo, si sono già alzati tutti. Smettila di far scattare il collo in avanti come un tacchino, Rab.-
Rabastan salutò i suoi compagni di squadra con un cenno, promise ad Evan Rosier che gli avrebbe corretto il tema per il giorno successivo, e solo quando si assicurò di non essere più osservato da nessuno tornò a rivolgere l’attenzione ad Andromeda.
-Ti sarei grato se la prossima volta…-
Andromeda gli fece cenno di tacere.
-È pallida, Rab.-
Rabastan inarcò così tanto le sopracciglia tanto da farle arrivare a sfiorare l’attaccatura dei capelli sulla fronte.
-Ma chi, Dorcas?!- Bisbigliò, allungando di nuovo il collo in direzione della tavolata dei Grifondoro.
-No, mia madre.- Bofonchiò Andromeda. –Dorcas, chi altri? Non è lei che ti stai portando a letto da mesi?-
Rabastan si passò le dita sotto al mento, assottigliando lo sguardo.
-Tecnicamente, non abbiamo un letto….-
-Rab, per la miseria! Non voglio saperlo!-
- Che diavolo vuoi sapere, allora? E smettila di gracchiare come un’oca!
Andromeda gli afferrò i capelli e li tirò con forza, il viso a due centimetri dal suo.
-Riesci a fare la persona seria per un minuto o due?-
-Sì.- Bisbigliò Rabastan, paonazzo. –Lasciami… tu non hai più un cervello!-
-Io, eh? La tua ragazza non sta bene, imbecille.-
Rabastan nascose il viso tra le mani, poi si alzò da tavola e trascinò Andromeda con sé verso l’ingresso. Si fermarono dietro ad una colonna.
-Punto primo, non è la mia ragazza.- Precisò, inarcando nuovamente le sopracciglia.
–Punto secondo, parla di nuovo ad alta voce e ti schianto. Ti faccio fare un volo che ricorderai a vita, parola mia.-
-Sei diventato aggressivo, vedo.-
-Io sono sempre stato aggressivo.- Sbottò Rabastan, continuando a stringere le dita attorno alla bacchetta.
Andromeda alzò gli occhi alla volta stellata della Sala Grande.
-Guardala un po’. Non noti niente?-
Rabastan sbirciò attraverso la sala. Dorcas era ancora seduta a tavola, in mezzo alla combriccola di Sirius, che stava brandendo una coscia di pollo in mano.
-Non noto niente di strano, eccetto tuo cugino, come sempre…-
-Non stiamo parlando di Sirius, perciò vedi di piantarla immediatamente.-
Rabastan sospirò. Dorcas ora parlava sotto voce con quella sua amica, Emmeline.
-Arriva al punto, Meda.-
-D’accordo. Se proprio non vuoi arrivarci da solo… non ti sei accorto che è un po’ giù di tono? Sembra spenta.-
Rabastan spintonò due ragazzini che si erano intrufolati fra loro, imprecando a mezza voce.
-Spenta?  Ti dispiacerebbe essere più precisa, se possibile? Forse sarò un po’ tardo, ma non mi piacciono i discorsi poco chiari, le metafore o le frasi lasciate a metà.-
-Senti chi parla! Sei un maestro nel lasciare i discorsi a metà!-
Rabastan fece per uscire in corridoio, ma Andromeda lo trattenne.
-D’accordo, d’accordo. L’ho sentita parlare con le sue amiche ieri mattina, dopo la lezione di Divinazione…-
-Solo tu frequenti ancora Divinazione …-
-Rab.- Andromeda gli prese il braccio e lo guardò fissamente negli occhi. –Le sue amiche le chiedevano in continuazione cosa avesse, e lei tergiversava dicendo di non avere nulla, ovviamente. Non so quante persone sappiano della vostra… come definirla? Tresca, ma non credo che lei la stia vivendo nel migliore dei modi.-
-Finora non si è mai lamentata.- Soffiò Rabastan, compunto –Al contrario, direi…-
Andromeda non diede cenno neppure di aver colto il sarcasmo.
Rabastan si passò freneticamente la mano tra i capelli, evitando di guardare nuovamente verso il tavolo rosso e oro.
-A parte con il sesso, mi spieghi come impiegate il tempo?-
Rabastan alzò le spalle. -Facciamo sesso più volte.-
-Ci rinuncio.- Decretò Andromeda, mettendosi la borsa in spalle. –Io ci ho provato, Rab.-
Rabastan la rincorse fino alla scalinata d’ingresso, nell’atrio.
-Aspetta. Va bene, la smetto con le battute squallide, solo… ti dispiace scendere di un gradino?-
Andromeda gli diede dell’imbecille e si mise a sedere. Rabastan seguì il suo esempio.
-È fastidioso stare qui, con tutti quanti che salgono e scendono…-
-Ma è ottimo se vuoi che questa conversazione rimanga privata. Ed immagino sia la tua priorità.-
Rabastan annuì, l’aria tetra.
-Parlate mai, Rab?- Chiese dopo un po’, osservando una coppia intenta a baciarsi spudoratamente.
-Parlare è sopravvalutato. - Bofonchiò Rabastan.
-Avevi detto che saresti stato serio.-
-Oh, va bene! No, non parliamo molto. Nel senso, ogni tanto le chiedo dei corsi… non seguiamo nessun corso insieme. Quest’anno le uniche materie che abbiamo in comune con i Grifondoro sono quelle dove non sono iscritto. Che diavolo…- Corrugò la fronte. –Non mi chiederai di iscrivermi a Divinazione o a Cura delle Creature Magiche, spero.-
-C’è anche Storia della Magia, o Rune Antiche, lei le frequenta tutte …-
-Andromeda. Ora sei tu a non esser seria.-
-Va bene, lasciamo perdere le materie. Ti interessi mai a lei? Intendo dire, smettila di sorridere, intendo dire alla sua vita. A lei.
Rabastan scosse nuovamente la testa, iniziò a battere ritmicamente sullo spigolo del gradino con la bacchetta.
-Ma cosa vuoi che faccia, eh, Meda? Ti aspetti davvero che la porti al ballo di Natale o che la baci qui sulle scale, davanti a tutti?- S’infervorò e le sue orecchie presero una sfumatura scarlatta.
-Io… non è che non mi interessi, ma ho le mani legate… e non guardarmi come se fossi un mostro, perché sai perfettamente come funzionano le cose a casa! E … devo dirlo, Meda, sono io che mi stupisco di te.-
Andromeda assottigliò le labbra.
-Ah, però…-
-Sei tu che prendi le parti di una, una…-
-Sei tu che te la scopi.-
Rabastan rimase con la bocca spalancata, la bacchetta a mezz’aria. Andromeda sorrise e si ravviò i capelli, drizzando la schiena.
-Non è così, forse?-
Rabastan soffiò aria dalle narici.
-Davvero non ti interessano minimamente i suoi sentimenti nei tuoi confronti?-
-Porco mondo, ma su quale pianeta vivi! Anche se fosse così, ti ripeto che l’unica cosa che posso fare per sopravvivere è ignorare questa parte della faccenda. D’accordo, Meda? Io non posso fare di più, e lei lo sa questo.-
Andromeda rise, scuotendo nuovamente il capo.
-Credi davvero, Rab?-
-Sono stato chiaro fin dall’inizio. E poi non vedo come possa anche solo pensare che a me interessi avere una sorta di relazione pubblica con lei. Non vedo come possa pensare… andiamo, sua madre è una Babbana! Per Salazar, non lo posso permettere!-
-Invece lo hai permesso eccome.-
Rabastan si alzò di scatto, e così fece anche Andromeda. Gli afferrò il polso –proprio come lui era solito fare con Dorcas, e lo tenne ben saldo.
-Rab, io ti conosco. Sarai pure andato a letto con dieci ragazze diverse nell’ultimo anno, ma da quando vedi lei hai perso colpi. Tu… ascoltami. Io ti ho visto quando sei tornato dalla spiaggia, quella mattina. Ti ho visto, e potrai riuscire ad ingannare tutti, ma non me. Non me.-
-E che cosa avresti visto, sentiamo.-
Andromeda sorrise, allentando la presa.
-Io ti ho visto felice. Felice, e totalmente perso in un altro mondo.-
-Queste sono fesserie, Meda.-
-Non sono fesserie. Ma non ti rendi conto che abbassi gli occhi e sorridi, non appena la nomino? Ecco, lo hai fatto di nuovo.-
Rabastan lasciò cadere le braccia lungo ai fianchi, sconsolato. Ogni traccia di rabbia completamente sparita.
-Ero felice. Forse, sì. Mi piace, Andromeda. Lei è così diversa, è così…è dolce. Io non so neppure che cosa sia, la dolcezza. E non era questo il piano, non doveva andare a questa maniera. Io non avrei mai dovuto neppure conoscerla. È cominciato per sbaglio. È tutto un enorme sbaglio.- Serrò gli occhi, pigiandoci sopra pollice e indice.  -Se solo potessi portarla a casa, io sarei…-
Andromeda gli strinse la mano, guidandolo di sopra per evitare la seconda ondata di studenti ritardatari.
-Va tutto bene, Rab.-
Rabastan rise amaramente, le lasciò la mano.
-Cosa ti sembra che vada bene, per inciso? Ti sembra che vada bene? Ora che mi hai fatto confessare i miei crimini come l’ultimo dei condannati al patibolo…-
-Io non voglio torturarti, Rab. Voglio solo che tu sia onesto con te stesso. E con lei.-
-Perché ti sta così a cuore lei e tutta questa dannata faccenda?-
Andromeda fece per rispondere, ma poi incrociò le braccia al petto e fissò le fughe delle piastrelle.
-C’è qualcosa che dovrei sapere anch’io, Meda?-
-Non c’è niente.- Tagliò corto Andromeda. –Si è fatto tardi e devo finire di studiare Pozioni. Quello che tentavo di dirti, era che… che io penso che lei tenga molto, a te. Ho visto come ti guarda ed ho visto come non parla minimamente di te. Nessuna ragazza accetterebbe una situazione simile se non fosse … se non nutrisse qualcosa di importante per te, ecco. Perciò, il minimo che tu possa fare è esser chiaro con lei. Sorriderle per una volta alla luce del sole, Rab. Renditene conto. Nessuno può sopportare una vita relegato nei confini dell’ombra. -
Rabastan si accasciò nuovamente a sedere, tenendosi il volto fra le mani.
-È tutto molto poetico.-
Andromeda gli scompigliò affettuosamente i capelli.
-Io vado.-
Rabastan sollevò la testa.
-Potrei portarla al mare.- Disse tutto ad un tratto, timoroso.
-Al mare? A Dicembre, Rab?-
Rabastan si alzò e cominciò a camminare su e giù, sorridendo fra sé.
-Ma sì. I miei genitori andranno in Francia. Rodolphus… beh, lui e Bella avranno sicuramente degli eventi a cui dovranno partecipare… perciò, è fatta.-
-Vuoi portarla alla villa estiva?-
-Beh, è la migliore delle soluzioni. Mi porterò uno degli elfi dietro, per riordinare. Solo una notte, un paio di giorni al massimo. Nessuno lo saprà mai.-
-Rabastan. Volevo che le parlassi, non che …-
Rabastan rise e le scoccò un bacio sulla guancia, abbracciandola. Per un attimo parve essere tornato bambino. Stringendolo Andromeda sentì un tuffo sordo al cuore. Gli occhi le si riempirono di lacrime che –come quelle di Dorcas, erano condannate a restare nell’ombra.
-Va’ a dirglielo. E fallo per bene.- Gli sussurrò all’orecchio, prima di vederlo correre di nuovo giù per le scale.
Asciugò il viso con la manica ruvida del maglione.
Non c’era nulla di dolce nelle gote graffiate a furia di scacciar via le lacrime.
Andromeda lo sapeva da sempre.
 
***

Quando Rabastan quella sera in biblioteca le aveva proposto di passare un fine settimana con lui, nella residenza estiva dei Lestrange, Dorcas era sbiancata e quasi caduta dalla sedia.
Aveva tergiversato, riordinato libri e pergamene fino allo sfinimento, riso, poi balbettato. E alla fine lo aveva guardato negli occhi –dritto negli occhi, tanto da far abbassare per una volta i suoi, e gli aveva detto semplicemente Sì.
Rabastan aveva sorriso, si era voltato a destra e a sinistra, le mani affondate nelle tasche, e poi le aveva detto che le avrebbe scritto per comunicarle il giorno e l’orario in cui sarebbe andato a prenderla. Dorcas aveva continuato a guardarlo fino a quando non aveva lasciato la biblioteca. Sudato e nervoso.
 
Nervoso lo era anche quando si ritrovarono in piedi nel salotto della villa. La prima occhiata la riservò allo specchio che non aveva mai avuto il permesso di toccare –è troppo antico, urlava sua madre. Si guardò e guardò lei di fianco a lui. Spaventata come un uccellino fuori dal nido, con il viso coperto di fuliggine e le gambe malferme in quelle scarpe e quei jeans –decisamente troppo babbana. Rabastan aveva sbuffato, si era tolto il mantello e lo aveva gettato sui divani coperti da lenzuoli bianchi, ordinando all’elfo di accendere un fuoco, immediatamente. Dorcas se n’era rimasta in silenzio, a osservare l’orologio a pendolo, e tutto quel mobilio che dava alla casa un’aria piuttosto tetra. Del mare si sentiva soltanto il rumore, la solita eco che in quel pomeriggio d’inverno era ancora più lugubre del solido. Rabastan rabbrividì, riscuotendosi da quei pensieri. In fondo non gliene importava proprio niente, del mare. Sbuffò. Accese i lumi ad olio e aprì le tende, rischiarando la stanza.
-Così va meglio.- Borbottò fra sé e sé.  Di nascosto, osservò il riflesso di Dorcas sul vetro. Se ne stata impalata a guardarsi attorno. Non si era presa la briga neppure di levarsi di dosso il mantello. Gli occhi vagavano fra le pareti, sui quadri, sulle fotografie di famiglia incorniciate e messe in bella mostra. Sembrava profondamente a disagio. Del resto lo era anche lui. E la cosa non gli piaceva, per nulla. Avrebbe dovuto rassicurarla, darle un bacio, prenderle gentilmente il mantello e chiederle se volesse salire di sopra a rinfrescarsi prima di cena. Avrebbe dovuto far tutto questo e anche più di questo, ma stranamente, in quel preciso momento, non ne aveva alcuna voglia. Tutto quello che vedeva, in quel riflesso sulla finestra, era una perfetta estranea.
Certo, avrebbe saputo descrivere perfettamente le espressioni del viso mentre faceva sesso con lui, avrebbe saputo descriverne il profumo e la sensazione di seta che i suoi capelli lasciavano fra le dita. Forse, con un po’ di sforzo, sarebbe persino riuscito a ricordare quale fossetta fosse la più marcata, quando e se sorrideva, ma per il resto, tutto il resto, avrebbe fatto scena muta.
 
L’elfo entrò con due tazze di tè e lui si voltò per indicargli dove poggiarle. Dorcas non si era mossa di un millimetro, ma sembrava aver colto ogni suo pensiero.
Rabastan si schiarì la gola.
-Lo vuoi, il tè?- Chiese sgarbatamente. -E puoi anche spogliarti, sai. Improvvisamente sei diventata pudica?-
Dorcas sussultò.
Lui morse l’interno delle guance, mandando al diavolo il tè e raggiungendola.
-Qual è il problema adesso? Guardami, Dorcas.-
-Devi… devi aiutarmi. Perché io non so cosa fare.- Sussurrò impaurita, le labbra tremanti.
Tutto il rancore di Rabastan evaporò all’istante. Si sentì prosciugato.
-Io,,, io credevo di saperlo, in realtà. Ma la verità è che per la prima volta in vita mia, io non so assolutamente cosa fare, Rabastan.-
Rabastan le slacciò il mantello, un tremito del tutto sconosciuto nelle mani. Dorcas le afferrò e cercò di tenerlo fermo, scuotendo il capo, piangendo. Rabastan si bloccò. La gola improvvisamente riarsa, sempre più man mano che gli occhi di lei si bagnavano, come se le lacrime di Dorcas stessero sgorgando in qualche modo anche dal più profondo della sua anima.
Non l’aveva mai vista piangere, ma in quel momento si rese conto che era insopportabile.
Si accorse dell’esistenza di un’altra parte di sé, che adesso scalciava, con prepotenza, per venire alla luce. Posò la fronte alla sua, ascoltando il suo respiro accelerato, accogliendo i singhiozzi spauriti, le sillabe sparse tra un respiro profondo e un colpo di tosse.
-Guardami, Cas, guardami.- Era la prima volta che la chiamava in quel modo, e il constatarlo fu come una pugnalata, e quello che disse dopo uno stillicidio di sangue.
-Ti prego. Sono spaventato anch’io.- La strinse a sé, le baciò la fronte, i capelli, le guance bagnate e fredde; tenne le labbra contro le sue, a tamponare una ferita invisibile.
I raggi di un tramonto scarlatto lo colpirono in viso. Trafissero gli occhi di entrambi, lo scintillio di una lama venuta dal nulla. Dorcas portò le mani al suo viso, ne tracciò i contorni, lo schizzo del suo amore in una pagina già scritta da qualcuno e dimenticata in un libro qualsiasi.
Rabastan seguì il suo esempio senza notarlo. Le sfiorò le ciglia, la punta più chiara.
-Mi brucia la gola.-
Rabastan si aprì in un sorriso, buttando giù altre lacrime amare, altri desideri taciuti.
-Hai parlato, finalmente.-
Dorcas sorrise, uno di quei sorrisi incerti, che non sanno come venire al mondo.
Il suo mantello finì per terra, lei abbassò lo sguardo.
-Ascoltami, Cas. Non dobbiamo farlo se non vuoi. Non dobbiamo per forza. Vuoi uscire sulla spiaggia, vuoi?-  Lei non rispose, continuò a singhiozzare, impaurita, fra le sue braccia,
Rabastan la strinse forte a sé, la sollevò da terra e Dorcas allacciò con forza le gambe alla sua vita, la testa nell’incavo del suo collo.
Del resto, era uno dei pochi gesti convulsi che aveva ripetuto per mesi, quasi ogni notte. Rabastan la tenne saldamente, andò ad aprire la porta con un calcio.
Respirò a pieni polmoni le sferzate fredde di aria salmastra, e a fatica, con Dorcas fra le braccia, arrancò verso le dune, che in quel tramonto sembravano di carta, la carta colorata con cui da bambino decorava i suoi disegni e costruiva castelli traballanti.
 

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Capitolo 4
*** Parte quarta: per un attimo ***


Parte quarta:
per un attimo
 

Avvolto in una spirale di surreale calma, Rabastan contemplava le onde del mare in burrasca.
Ne ascoltava il tumulto, stringeva al petto nudo la schiena di Dorcas e distrattamente carezzava le lisce ciocche dei suoi capelli, impigliati fra le coperte.
Lei giocava con la sabbia; ne faceva mucchietti, per poi lasciarla scivolare fra le dita, in silenzio, senza prestare attenzione né a Rabastan né al mare. Sembrava persa, e a guardarla ci si chiedeva se sarebbe mai ritornata indietro.
Rabastan rabbrividì. Constatò che fare l’amore su una spiaggia deserta in pieno inverno non fosse stata poi una grande trovata, ma poi pensò anche che –nonostante il freddo patito, fosse stata probabilmente la volta più bella di tutta la sua vita. Tirò su la testa quel tanto che bastava per scorgere il viso di Dorcas, ma non riuscì, di nuovo, a pronunciare parola.
La ragazza non sembrava né triste, né felice, né aveva l’aria di desiderare d’essere al caldo, magari in un letto. Se ne stava semplicemente così, inerme, sdraiata sulle dune con addosso solo un’esigua coperta rimediata all’ultimo momento, e non sembrava neppure accorgersi della presenza di Rabastan.
Lo strascico di luce violacea del tramonto stava rapidamente lasciando il posto al buio, e le prime stelle già facevano capolino all’orizzonte. Rabastan tossicchiò, ma Dorcas non parve cogliere nessuna allusione. Confuso, si tirò a sedere e le carezzò piano la schiena. Lei si voltò, e lui si rese conto che in realtà stava piangendo, -di nuovo.
 
Rammaricato, sbuffò. Non era abituato a quel genere di cose. Non era usuale, per lui, rendere palese qualsivoglia forma di sentimento, fosse stata anche rabbia era abituato a mascherare, nascondere, sopportare in silenzio, far buon viso a cattivo gioco. Per cui, non poteva essere biasimato più di tanto se, mentre Dorcas piangeva e singhiozzava accartocciata su se stessa, lui restava impalato come uno stoccafisso, la testa fra le mani, l’espressione ebete di un ragazzino impacciato.
Fu il mare a venire in suo soccorso; un’onda arrivò a bagnare le gambe di entrambi, e l’acqua gelata li costrinse ad alzarsi. Istintivamente, come aveva sempre fatto, Rabastan tirò Dorcas a sé, ma stavolta lei non lo abbracciò, né parve gradire lo stretto contatto fisico. Senza fare appello a richieste esplicite, né ad espliciti divieti, Rabastan fece l’unica cosa che gli parve sensata: la riprese in braccio e arrancando tornò in casa, gridando all’elfo di raccattare i vestiti e ravvivare il fuoco.
 
Non si fermò in salotto, ma si diresse direttamente al piano superiore, sorridendo suo malgrado al familiare scricchiolio dei gradini malconci. Aprì con un calcio la porta della sua stanza e con poco garbo gettò Dorcas sul letto, lasciandosi cadere dopo di lei, le gambe penzoloni e sporche di sabbia pronte a scappar via –per andare poi dove, non avrebbe saputo dirlo.
Passarono alcuni minuti interrotti solo dai singhiozzi sommessi della ragazza e dagli sbuffi secchi di Rabastan, che poi si rialzò, e stavolta la cosa che gli sembrò più ovvia da fare fu anche la più sbagliata.
-Si può sapere cos’hai da piangere? È tutto il pomeriggio che ascolto le tue lamentele, non ti sopporto più!-
Aveva urlato, e nel farlo aveva anche scaraventato contro la finestra un cuscino, ma almeno era riuscito a zittirla, o almeno così gli parve –anche se al buio non era così facile intuire l’espressione del viso di Dorcas, che ora era rannicchiata nell’angolo superiore del letto, le ginocchia serrate al petto, gli occhi zaffiro sbarrati. Frustrato, Rabastan raccolse il cuscino e in un altro impeto d’ira lo lanciò nuovamente; nel breve e azzardato volo verso il letto di Rodolphus, però, il cuscino urtò qualcosa, che cadde nel buio e si schiantò contro il pavimento con un fracasso tale da far ricominciare il pianto angosciato di Dorcas.
-Smettila di frignare, ragazzina! Ho detto smetti di piangere!- Non attese di calmarsi, non pensò lucidamente –non pensò affatto. Arrancò verso di lei e le assestò uno schiaffo in pieno viso.
Uno schiaffo violento, da farle girare la testa e rendere il buio ancora più buio, il freddo ancora più freddo e paralizzante.
-Sc-scusami.- Riuscì a balbettare dopo quelle che parvero ore. –Scusami, Dorcas, per Dio.-
Arrancò in cerca di un lume. Lo accese, lo portò al comodino e s’inginocchiò ai piedi del letto.
Le afferrò le braccia, poi il viso; la costrinse a voltarsi verso di lui, e avvicinò il viso al suo.
Si specchiò nelle sue lacrime che alla luce fioca parevano ambrate. Un’improvvisa e straziante voglia di piangere pervase anche lui, e per fingere, mascherare ancora una volta, tentò goffamente di baciarla, ma lei tremava così violentemente che urtò la fronte alla sua, e lui non riuscì a fare altro se non maledirsi, imprecare, e metterle la coperta sulle spalle per poi prenderla nuovamente in braccio.
-Ti prego.- Biascicò, cercando di cullarla. –Ti pregò, dì qualcosa. Sembri una bambola, fa’ qualcosa, altrimenti divento matto. Io non… io non volevo, Dorcas, guardami, per favore, Dorcas, fa’…-
-Ho tanto freddo.-
Rabastan sobbalzò. Tirò indietro la testa per vederla in viso. Finalmente lei ricambiò il suo sguardo. Aveva le labbra violacee e la pelle bianca come l’avorio. Sembrava morta. Rabastan scosse violentemente la testa per scacciare quell’orribile pensiero che gli si era affacciato alla mente e sedette nuovamente sul letto, tenendola ancora fra le sue braccia le cinse la vita, le sfiorò piano la guancia arrossata.
-Scusami. Vuoi che… vado a prenderti delle altre coperte e qualcosa da mettere indosso,
d’accordo? -
Dorcas annuì debolmente, ma Rabastan rimase dov’era. Dopo un attimo di trance fischiò, e l’elfo apparve dal nulla. Con un cenno Rabastan indicò l’armadio; velocemente apparve una pila di coperte e camicie da notte. Ne afferrò una senza badarvi e Dorcas lasciò che l’aiutasse ad infilarla. Poi si lasciò avvolgere da una pesante coperta di lana, e si distese sul letto con lui, mantenendo il contatto visivo. Rabastan raccattò un altro plaid e lo mise sulla testa di entrambi, una tenda improvvisata per farla sentire più al caldo, più protetta.
-Mi vergogno di me stesso.- Confessò, sfiorandole ancora la guancia. Il fiato caldo di lei gli annebbiò i pensieri per un momento. Sentì il cuore battergli con forza nel petto, arrossì all’improvviso, per la rabbia che lo rendeva incapace di agire nella giusta maniera, incapace di comunicarle quanto stesse male anche lui in quel momento, e quanto desiderasse solo stringerla a sé, per dimenticare il resto del mondo.
Dorcas, timidamente, annuì.
-Scusami.- Sussurrò, protendendosi verso le sue labbra. –Scusami, Cas.-
Lei non fiatò, lui la baciò delicatamente, salì fino alla fronte, intrecciò le gambe alle sue e la sentì tremare.
-Hai paura?_ Le domandò.
Lei annuì.
-Hai paura di me? Hai paura di… Cas, non ti farei mai del male.-
Finalmente Dorcas parlò, anche se ogni sillaba sembrò costarle un’immensa fatica.
-Lo hai appena fatto.-
Rabastan contrasse la mascella, serrò le palpebre.
-Lo so. Ma io… io non volevo, non avrei dovuto, tendo ad innervosirmi se…-
-Lo hai fatto. Lo hai sempre fatto.-
Rabastan riaprì gli occhi, sconcertato. Scacciò via la coperta, ma Dorcas ne riafferrò un lembo e lo strinse forte.
-Cosa vorresti dire?- Le chiese, sollevandosi sull’avambraccio. -Non ti avevo mai colpita prima di questa sera.-
Dorcas sorrise tristemente, asciugò gli occhi con il lembo della coperta. Poi li riaprì, e tornò a guardarlo fissamente, riprendendo a parlare piano, quasi si stesse rivolgendo ad un’altra parte di se stessa.
-A volte, quando fai… quando fai l’amore con me, mi fai male.-
Rabastan cercò di ribattere, ma lei lo zittì premendogli la mano sulle labbra.
-Usi la forza…non te ne rendi conto, ed io non ti dico nulla, perciò è anche colpa mia. Ma… mi fai male. E mi ferisci anche nei corridoi, quando ci incrociamo e tu…- La voce le si incrinò, fermò il tremore del labbro con un morso e riprese a sussurrare -E tu fingi di non conoscermi neppure…quando parli con altre ragazze, e chissà, magari te le porti anche a letto e… non lo so, magari è giusto che sia così, magari è colpa mia, perché anch’io sono, sono solo una …-
Rabastan la zittì con un altro bacio. Disperato, violento quasi quanto lo schiaffo precedente. Dorcas fece resistenza, ma lui le diede un morso e riuscì a calmarsi solo quando sentì il sapore dolce del sangue sulla sua lingua. La stese dolcemente sulla schiena e continuò a baciarla, per minuti interi, mentre lei piangeva. Ne sentiva ogni singulto, ogni lacrima s’impigliava alle sue ciglia ed ogni ansito strozzato moriva fra le sue labbra, ma se davvero un giorno fosse sopravvenuta la morte, allora avrebbe voluto morire così, con quelle lacrime a far da pioggia sulla sua salma nuda e priva di scopo, con quei singulti a far da ninna nanna per la sua anima persa –e dannata.
 
-Cas, sono io quello sbagliato, non tu.- Mormorò, non appena si slacciarono per riprendere fiato.
Dorcas si arrese, cominciò ad accarezzargli i capelli, giocare con i suoi riccioli, toccare ogni centimetro del suo viso.
-Scusami se… se sono stato quello che sono.- Abbassò la testa, fissò i piedi di entrambi, sporchi di sabbia, e ricordò i rimproveri apri di sua madre, ogni qualvolta lui e suo fratello rientravano dalla spiaggia e magari dimenticavano di ripulirsi a dovere prima di rientrare in casa. Il ricordo vivido delle sgridate, e dell’umiliazione provata nel ricevere senza tante cerimonie un bel paio di ceffoni, lo rese, se possibile, ancora più avvilito –ed ebbe il potere di farlo sentire ancora più in colpa.
Ora era Dorcas che lo scrutava; il pianto si era fermato, le guance avevano ripreso colore.
-Non hai niente da dirmi?- Chiese, con tono più fermo.
Rabastan scosse piano il capo. Cosa avrebbe potuto dirle, per giustificare le sue azioni?
Tutto ciò che Dorcas gli aveva appena fatto presente era vero. Spesso l’aveva trattata come un oggetto, una bambolina alla sua mercé, infischiandosene dei suoi sentimenti. Aveva minimizzato la questione persino con Andromeda, non era riuscito ad essere del tutto sincero neppure con se stesso, perché esserlo avrebbe significato ammettere qualcosa di molto più grande –e lui non era pronto per questo. Ammettere d’esserne innamorato –la sola parola gli procurava spavento, equivaleva a dire d’essere caduto in trappola, d’essere null’altro se non un debole, un vulnerabile fantoccio condizionato dalle manie d’onnipotenza della sua famiglia. Rabastan se ne rendeva conto, ma come avrebbe potuto spiegarglielo, senza farla soffrire ancora una volta?
Iniziò a passarsi furiosamente le mani fra i capelli, sentendo i granelli di sabbia solleticargli fastidiosamente la fronte. Si contorse fra le coperte, agitato –avrebbe preso a calci qualsiasi cosa. Dorcas rimase immobile, mentre il respiro di Rabastan diventava sempre più affannoso, smorzato, -pareva stesse annegando, e non c’era nessuno pronto a salvarlo dalla marea, tranne, forse, le labbra di lei. Con sua enorme sorpresa, Dorcas si sollevò piano e riprese ad accarezzargli il viso, lo tenne fermo mentre si contorceva, avvicinò la guancia alla sua e respirò lentamente, a pieni polmoni.
-Respira con me.- Gli sussurrò, tenendolo stretto a sé.
Rabastan cacciò indietro le lacrime, il pianto avrebbe dato libero sfogo a quei pensieri che dovevano necessariamente restare nascosti in un angolo buio della sua psiche, e tentò di seguire il respiro di lei, anche se era difficile, lo era dannatamente, -la morte sarebbe arrivata e lo avrebbe colto così, -e lei, lei non sarebbe stata al suo fianco.
Rimase a vagliare l’ipotesi di morire così, in quel letto, per un bel pezzo, finché il sonno non sopraggiunse per offrirgli ristoro.
 
Si svegliò con i raggi del sole che gli colpivano il viso. Aprì piano le palpebre e non ricordando dove si trovasse sobbalzò, rischiando di cadere fuori dal letto. Ma una rapida occhiata alla stanza gli bastò per sentire il sapore amaro dei suoi tentativi: il mare, il voler trascorrere un fine settimana con Dorcas –e il completo disastro che invece era riuscito a combinare. Si voltò di scatto in cerca della ragazza. Dormiva, gli dava le spalle e abbracciava un cuscino. Rabastan fu nuovamente pervaso da una profonda tristezza. Non ricordava d’essersi addormentato. Non ricordava neppure di averle spiegato le ragioni del suo comportamento meschino, anzi, a ben pensarci non ricordava d’aver parlato affatto. Si stropicciò gli occhi, esausto nonostante le ore di sonno profondo.
L’intera casa era immersa nel silenzio. Lasciò vagare lo sguardo vacuo lungo le pareti sbiadite e macchiate d’umidità. I suoi libri d’avventura, assieme ai pochi giocattoli in legno della sua infanzia, erano ordinatamente impilati sulla libreria. Un orsacchiotto, sul letto di Rodolphus, pareva fissarlo. Rabastan guardò sotto al proprio, di letto. Provando a non svegliare Dorcas, tirò verso di sé il baule dove teneva i suoi vecchi vestiti e iniziò a tirar fuori maglioni e camicie, in cerca di qualcosa di pulito da mettere. Stava giusto iniziando a vagliare l’ipotesi di una colazione, e anche quella di una conversazione –non avevano praticamente parlato, quando sentì Dorcas che, piano, faceva il suo nome. Lasciò cadere i maglioni e si voltò, cautamente mise una mano sulla spalla della ragazza.
-Sono qui.- Lei si voltò, di scatto, l’espressione spaventata e confusa.
-Dove sono?-
-Sei a casa mia, siamo nella mia residenza… al mare, siamo al mare, ricordi?- Tentò di sorriderle per rassicurarla, ma lei in risposta tirò su le coperte fino al mento, e strinse nuovamente il cuscino al petto. Rabastan sospirò, si chinò piano su di lei e scostò le coperte, infilandovisi dentro.
-Tu non… non avresti un libro, per caso?-
Rabastan si accigliò nuovamente, strinse le labbra.
-Tu vuoi… un libro?- Chiese, grattandosi furiosamente i capelli.
-Sì. Mi aiuterebbe. Sai, per calmarmi… io leggo molto, soprattutto quando sono agitata.- Pigolò Dorcas, arrossendo e tirandosi le coperte fino al mento. Se avesse potuto Smaterializzarsi, lo avrebbe fatto all’istante.
Rabastan decise di prendere in mano la situazione.
Invece di correre a prendere un libro, sedette, e con calma le scostò le coperte dal viso.
-Di libri ne ho, lo studio al piano di sotto ne è pieno. Ma… sinceramente, non vorrei che tu leggessi, stamattina. Invece di leggere, potresti, potremmo…-
-Non prenderla male, ma io… se mi chiedi ancora di fare sesso fingerò di avere un’emicrania. Sono esausta.- Confessò, senza però abbassare lo sguardo.
Rabastan sorrise, sinceramente. Scosse la testa, e fece un cenno con la mano per farle capire che le sue intenzioni erano, per la prima volta, più nobili.
-In realtà non volevo chiederti di fare sesso. Volevo chiederti di… di parlare, semplicemente. Potremmo parlare, per una volta. Che cosa ne dici? Ti piace, come programma?-
La ragazza non rispose. Continuò a guardarlo come se non credesse a ciò che aveva appena udito, o come se stesse cercando di decifrare l’enigma di un sogno. Rabastan però intravide un nuovo barlume nei suoi occhi, non più offuscati dal pianto, e ciò lo pervase nel tentare l’ardua impresa.
Si distese nuovamente, abbracciò il secondo cuscino e passandole l’indice sul naso rimase a fissarla.
Dorcas deglutì, il fiato corto.
-Vuoi baciarmi?- Gli sussurrò un secondo dopo, suscitando un secondo sorriso divertito da parte di Rabastan.
-Baciarti non è una cosa che mi dispiace, e questo… questo credo che tu lo sappia. Invece ci sono altre cose, cose che mi incuriosiscono e vorrei…-
-Vorresti cosa?-
-Vorrei chiederti qual è il tuo colore preferito, ad esempio. O il tuo libro preferito. Anche la tua materia scolastica preferita, e quando sei caduta dalla scopa la prima volta. Vorrei chiederti a cosa pensi, quando hai lo sguardo assorto, all’ora di pranzo, e guardi al di là delle vetrate. Vorrei essere nella tua testa, a volte, per sapere se pensi mai a me, quando non ci vediamo. E adesso vorrei essere persino nei tuoi occhi, proprio qui –allungò l’indice a sfiorarle le palpebre, sul fondo delle tue iridi azzurre, e vorrei sapere perché senti ancora il bisogno di piangere.-
Prese un profondo respiro, mentre raccoglieva con delicatezza una lacrima dalla punta delle sue ciglia. Dorcas cercò di ricomporsi.
-Non ti sembra di voler sapere troppo, in una sola volta?-
Rabastan rise, poi l’abbracciò, tirandola a sé, e le stampò un bacio, delicatamente.
-È troppo?- Sussurrò, giocando con le sue labbra.
-È il verde.-
-Cosa?-
-Il mio colore preferito. Ed il libro… questo non lo so, perché ne ho letti troppi. Storia antica, checché ne dicano tutti, è una materia meravigliosa. E la prima volta in cui sono andata su una scopa avevo tre anni; cadendo ho urtato la fronte contro lo spigolo di marmo della scalinata di casa, credo che sia per questo che non ho mai amato particolarmente il Quidditch. Sono spesso assorta, me lo dicono tutti, ma non sempre penso a qualcosa in particolare. E se…se davvero vuoi saperlo, spesso penso a te. Penso a te sempre. Continuamente. Non riesco a smettere di pensare a te da almeno due anni, e…-
 
Rabastan non le diede il tempo di continuare, la sollevò e prese a baciarla con foga, con il cuore che pareva dovesse scoppiargli nel petto. Non avrebbe saputo spiegare come si sentisse, sapeva solo che stava bene, che aveva caldo, che i raggi del sole nella stanza illuminata non erano mai stati più belli di così, e per un attimo, cullato in quel morbido abbraccio e dal ritmo scandito di quei teneri baci, ebbe la certezza assoluta che quel momento fosse unico e irripetibile: l’attimo per cui era valso tutto il resto. Si sorrisero, timidi e impacciati come se si trovassero in quella situazione di intimità per la prima volta.
-C’è dell’altro che vorresti sapere?- Mormorò Dorcas, giocando con i suoi riccioli.
-Qual è il tuo piatto preferito? Avrei un discreto appetito… non abbiamo mangiato nulla da quando siamo arrivati.- Dorcas rise come se Rabastan avesse detto la cosa più spassosa del mondo, e lui si lasciò contagiare da quella risata tersa come una giornata d’estate. Rotolarono fra le coperte facendosi il solletico, mordendosi le orecchie, giocando come due bambini alla mattina di Natale.
Le risate riecheggiavano giù, lungo le scale: ma non se ne preoccuparono. Non c’era nessuno, per testimoniare quello sprazzo d’amore e d’azzurro. Solo il mare ne sarebbe stato l’eterno custode, e con lui il suo brusio.
 
Rabastan riuscì a trascinare Dorcas giù dal letto, e continuando a ridere la fece girare su se stessa, improvvisando un Walzer privato. L’atmosfera cupa della notte precedente pareva essere solo un lontano ricordo, quando improvvisamente la ragazza smise di ridere e con una smorfia di dolore si arricciò contro il petto di lui.
-Cosa c’è, che hai?-
Rabastan le sollevò il viso, nuovamente bagnato di lacrime.
-Cosa c’è, cos’ho fatto, hai… cos’è tutto questo sangue?!-
Dorcas si accasciò su di lui, che la sorresse prontamente e la mise a sedere sulla scrivania.
-Cas, dov’è he ti fa male, che cosa…-
-Il piede, ho, devo essermi…-
-Ti sei tagliata.- Constatò Rabastan, più confuso che mai. –È una brutta ferita… no, non guardare, altrimenti svieni, io non…-
-Ma con chi credi di parlare, perché dovrei svenire?- Bofonchiò Dorcas, chinandosi verso il suo piede grondante copiosi rivoli di sangue. Rabastan si inginocchiò.
-C’è una scheggia, devi…-
-Devo toglierla? Ma…ma è conficcata in profondità, potrei chiamare…dove diavolo si è cacciato quell’essere obbrobrioso?-
-Smettila, Rab. So estrarla anche da sola.- Ribatté seccamente Dorcas.
Un attimo dopo la scheggia era sullo scrittoio, e quello sul punto di svenire pareva essere proprio Rabastan, che per distrarsi dalla vista del sangue, mentre l’elfo puliva, si preoccupò di andare a prendere degli asciugamani puliti nel bagno. Di ritorno, calpestò un’altra scheggia, ancor più grossa della precedente. Per fortuna aveva avuto l’accortezza d’indossare delle ciabatte, ma si mise nuovamente carponi all’altezza del pavimento e prese a scrutarlo con attenzione.
-Riesce a far danni anche quando non c’è.- Disse poi, il tono spensierato di prima volato via dietro alle raffiche di vento.
-Cosa, di chi parli?- Rabastan sbuffò, rialzandosi gettò gli asciugamani in direzione di Dorcas.
-Pulisciti, anzi, vieni, ti accompagno in bagno, sarebbe meglio lavarla…-
-Chi è che fa danni?-
 
A Rabastan non piaceva particolarmente la vista del sangue, ma non si considerava un ragazzo superstizioso e facilmente impressionabile. Crescendo in casa Lestrange, era stato abituato ad una certa quantità di stranezze e macabre usanze. Eppure, un brivido freddo, lo stesso di tanti mesi prima, quando era in quella grotta e aspettava Dorcas, lo percorse interamente fino alla punta dei capelli. Rabbrividì, e per mascherarlo si chinò ancora per raccattare le altre schegge di vetro.
-Mi spieghi da dove arriva questo…-
-È questa.- Rabastan sollevò una cornice completamente spaccata, con dentro un ritratto di una perfetta Bellatrix Black che sorrideva in tutto il suo splendore.
Dorcas saltò giù dalla scrivania, prima che Rabastan potesse far qualcosa per impedirglielo afferrò la cornice e la portò vicino al viso, in silenzio.
-Lei è…-
-È Bellatrix Black, la fidanzata di tuo fratello. Non è così?-
Rabastan si mise sulle difensive; il tono di Dorcas pareva leggermente accusatorio.
-Dev’essere caduta ieri notte, quando ho lanciato il cuscino… ma sì, quando stavamo discutendo.-
-Vorrai dire quando tu mi stavi picchiando.-
Rabastan arrossì violentemente.
-Ora non ti sembra di esagerare un po’? Per un tallone perforato da una scheggia da cinque centimetri non fai una piega, e per uno schiaffo invece fai cascare il mondo…-
-La scheggia non ha deliberatamente deciso di farmi del male.-
-Se quel vetro custodiva una fotografia di Bella, io non ci giurerei troppo.-
Voleva essere divertente, ed invece ottenne l’effetto contrario; ebbe il potere di suggestionare ulteriormente perfino se stesso.
-Dammi qua.- Bruscamente, riafferrò la cornice in pezzi e la rimise sulla scrivania, a faccia in giù.
-Non la ripari?-
-E come faccio, senza usare la magia? E poi, a malapena se ne accorgerà, mio fratello, visto che…-
Solo ora Dorcas parve notare veramente la stanza in cui si trovavano. Se non fosse stata sicura d’essere in camera di Rabastan, avrebbe potuto giurare di essere in quella di una ragazza. Non una qualunque, bensì Bellatrix Black. Tutti i quadri alle pareti, eccetto uno, che raffigurava una nave in tempesta, ritraevano lei.
Lei da bambina, lei con Rodolphus, lei con le sue sorelle. Di un ritratto del povero Rabastan, neppure l’ombra.
-Ma è…- Si strinse nelle spalle, l’esigua camicia da notte frusciò sul pavimento.
-Patetico? Inquietante? Come definiresti l’ossessione di mio fratello nei confronti di Bellatrix?-
Dorcas abbassò lo sguardo, ravviandosi i lunghi capelli dorati.
-Magari ne è semplicemente innamorato.- Si limitò ad aggiungere.
Rabastan rise, ma fu una risata senza la minima traccia di gioia.
-Sarà quello che vuoi, io continuo a sostenere che non è da persona sana di mente…-
-Tu non hai neppure una mia fotografia.-
Cadde nuovamente il silenzio.
Rabastan cercò di ribattere, ma si rese conto che la constatazione della ragazza era vera e, cosa ancor più grave, si rese conto di non averci mai pensato.
-Io, io…- Dorcas indossò uno dei maglioni finiti in terra.
-Lascia perdere. Non avrai mai una mia fotografia, né ci sarà mai un mio ritratto incorniciato alle pareti di casa tua.- La voce le si incrinò di nuovo. Rabastan maledisse Bellatrix ancora una volta.
-Non ci sarà mai un mio vestito appeso al pomello di un tuo armadio, o un mio orsacchiotto sul tuo letto, non …-
Rabastan sussultò, e in uno scatto andò a cingerle la vita, il viso affondato nei suoi capelli.
-Tranquilla, Cas. Non ricominciare, adesso, non piangere, non lo sopporterei un’altra volta…-
Dorcas si voltò, liberandosi dalla presa.
-Ma sto dicendo la verità! Che c’è, non vuoi sentirtela dire? Perché, perché mi hai portato qui, se non riesci a vedere un futuro per noi? Se non hai il coraggio di raccontare di me neppure a tuo fratello…-
-Sssh! Smettila!- Svelto le tappò la bocca con una mano, intimandole con gli occhi di non muovere un muscolo.
-Lo hai sentito anche tu?- Bisbigliò, concitato.
Dorcas aggrottò la fronte, lentamente scostò la mano di Rabastan e la strinse nella sua.
-Cosa, sentito cosa?-
-Un… qualcosa, era… sembrava una risata, e poi… un rumore di passi.-
In un attimo afferrò la bacchetta –Dorcas non sapeva neppure dove fosse finita la propria, e la puntò contro la porta spalancata.
-Chi c’è?- Urlò poi, continuando a tenere la ragazza per mano. Frog, sei tu?-
Dorcas gli strinse il braccio, cercò di strattonarlo verso di sé.
-Andiamo Rab, così mi spaventi. Non può esserci nessuno di sotto, c’è solo l’elfo, sarà stato lui…-
-Frog è fuori, l’ho mandato a raccogliere della legna da ardere. E poi riconosco i passi degli elfi…e soprattutto gli elfi non ridono a quella maniera.-
-Se vuoi spaventarmi, sappi che non attacca…-
Rabastan le tappò nuovamente la bocca e il frastuono di un tuono scosse l’intera casa. L’ultimo raggio di sole si allontanò fugacemente, e all’orizzonte apparvero nubi bluastre, cariche di pioggia.
-Non sto scherzando.- Sussurrò Rabastan, mortalmente serio.
-Non siamo soli in questa casa.-
 
Un lampo illuminò le impronte del sangue di
Dorcas sul parquet tirato a lucido. 

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