Cuore di un buco Nero

di Amethyst10
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Avviso ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


~~Capitolo 1

 

Quando una stella collassa per effetto della forza di gravità si trasforma in un minuscolo punto di densità infinita, dove anche il tempo stesso si ferma, si crea una “singolarità”, il cuore di un buco nero.
All’ inizio di tutto anche l’universo doveva essere stato una singolarità, lì il tempo si era fermato, si era raggiunto il vero inizio di tutto. Non esiste passato in cui l’universo poteva aver avuto una causa.
Si è spontaneamente creato nel Big Ben.
Stephen Hawking.

 

 

Ogni istante che si ripete diventa eterno, le nostre scelte comportano la nostra effimera vita.
Spesso ci chiediamo perché siano sempre le stesse, medesime cose, a gravare su di noi, che siano ricche di gioia o meno, la risposta è una sola, perché compiamo sempre la stessa tipologia di decisioni, convinti che siano le migliori, non possiamo sfuggirvi, e non ci soffermiamo a pensare, che effetti queste avranno su di noi, figuriamoci sulle persone che ci stanno accanto.

Eppure le conseguenze si riversano come un’onda infinita, che provoca minime variazioni in quegli istanti, che tanto propensi siamo a celebrare, sempre alla ricerca di una definizione, con cui poter rievocare l’emozioni, nella nostra memoria, che abbiamo assaporato.
La mia vita era ormai, però, collassata, gli stessi eventi giorno dopo giorno si replicavano, senza che io potessi realmente far nulla per arrestare quel processo.
Una solita frase, che mi madre mi ripeteva, era di come l’umanità avesse ormai compreso che la felicità perfetta non esistesse, ma quasi nessuno si rendesse conto che neppure la sua considerazione opposta fosse realmente attuabile; tuttavia, in quel periodo più che mai, il peso delle responsabilità si faceva sentire, come una spada di Damocle, cadente con fare minaccioso e infausto sul mio capo.
Avevo diciassette anni, e se qualcuno mi avesse chiesto qual era la più grande difficoltà, che stavo affrontato in quel momento, non avrei saputo da dove cominciare.
Di certo, comunque, la mia risposta non sarebbe caduta in uno dei quattro ambiti, dove la maggior parte dei problemi adolescenziali nasceva, ovvero: scuola, amicizie, amore e famiglia.
In realtà, avrebbero ben potuto rientrare in quest’ ultima, ma in modo molto amplificato.
Quel giorno, al momento, per l’esattezza, stavo rimuginando, a come saremmo riusciti, a pagare la bolletta dell’elettricità, dopo la batosta dell’affitto.
Nel frattempo camminavo in direzione della scuola, poco lontana.
La realtà e l’indifferenza erano l’unica certezza a cui davvero potessi far affidamento, scudo quotidiano verso ogni azione che potesse minare quella poca tranquillità che ancora mi restava.
I mie sogni erano capitolati, assieme ad ogni speranza, un fatidico giorno dei miei undici anni, quando mi ero ritrovata improvvisamente con una famiglia a cui badare.
Per cui mi sembrava più che normale non aver aspirazioni, che andassero al di là di ciò a cui davvero potessi giungere. Non c’era spazio per errori di quel tipo, o almeno io non avevo la facoltà di poter sperimentare qualcosa, che avrebbe potuto rivelarsi inutile, uno spreco di energie senza nessun rendimento, che non comportasse nessun aiuto.
Con queste convinzioni, dettate dalla mia situazione, era logico pensare che non avessi nessun rapporto con i miei coetanei. Per cui, neppure quella mattina, mi sorpresi nello scoprire di non ricevere nessun saluto.
Mi sedetti al mio banco, mentre il chiacchiericcio dei miei compagni andava smorzandosi con succedersi dei minuti.
Essendo la scuola e i libri di testo gli unici mezzi da cui potessi attingere sapere, quell’ istituto era diventato il mio tempio.
Cercavo di non saltare mai una lezione, ero sempre attenta, o almeno ci provavo, anche quando la stanchezza cercava di prendere il sopravvento, ogni parola, che ritenessi avesse, una qualche importanza, veniva scritta sul quaderno, per non essere più dimenticata.
Avevo quindi uno strano legame con lo studio rispetto alle persone delle mia età, che parevano respingerlo, soffocarlo, attraverso passatemi e divertimenti.
Passavo le ore a leggere e prendere appunti, seduta in fondo all’ aula, all’ estremità opposta di dove si trovavano le finestre, per non distrarmi, affianco al termosifone, in modo che anche in inverno, quando i miei vestiti non erano abbastanza pesanti, non avessi freddo.
Il tema abbigliamento, il mio per essere chiari, era ancora molto discusso all’ interno della classe. Non passava giorno senza che ricevessi qualche occhiata scettica, o disgustata.
Ma a me per prima non piacevano i miei vestiti. Il mio armadio, difatti, era un insieme di tute rattoppate, che cercavo di consumare il meno possibile.
Oggi ne indossavo una grigia, nulla di sorprendente dato che la metà erano di quel colore e l’altra metà erano nere.
Su di me giravano le più disparate voci, dal fatto che fossi la figlia di un mafioso, a quella che ero stata venduta da piccola a un calzolaio, quest’ultima non avevo proprio idea da dove nascesse. Comunque la più accreditata era che riportassi tutti i segreti e i difetti dei miei compagni su un diario segreto, durante le lezioni, che passassi ad osservare, spiare e origliare i presenti.
Non avevo fatto nulla per smentire le loro, infondate, opinioni.
Passai anche quel giorno, dopo cinque ore di lezioni a mangiare da sola, un panino al formaggio, sfogliando il giornalino del quartiere con le offerte dei vari super mercati.
Finita la pausa pranzo presi gli altri libri, facendo ben attenzione, da sotto al banco.
In alcune pagine, infatti, c’ erano scritti diversi insulti, i più disparati, che andavano dal criticare la mia montatura degli occhiali, troppo spessa a dimostrare quanto alcune mie compagne fossero gelose dei miei capelli biondo cenere, sempre raccolti in uno chignon disordinato.
In altri vi era polvere mischiata a fuliggine, che rendeva le pagine nere e illeggibili, l’unico modo, era passarci uno straccio appena umido, più volte, che avevo imparato a portare sempre con me in borsa, ma bisognava stare attenti a non bagnare il libro o a cancellare l’inchiostro.
Poi c’ erano i peggiori, in ogni pagina, su tutti i lati, con il nastro adesivo, erano state attaccate graffette, che rendevano pericoloso anche il solo sfogliare il volume, inutile precisare, che mi ero tagliata più volte, e che ogni volta che rimuovevo i pezzetti taglienti di ferro questi, il giorno dopo ricomparivano magicamente.
Non che mi importasse molto, ma forse, era proprio questo a dar loro fastidio, e che per quel motivo portò Jonny Andersen a confessarsi a me, durante la ricreazione pomeridiana, davanti a tutti.
Si avvicinò di soppiatto, prendendomi alla sprovvista, dato che come io evitavo i miei compagni, loro, sotto tacito accordo, evitavano me.
Alto, molto robusto, ricoperto di acne e con un inizio di barba, me lo ritrovai davanti, intento passarsi una mano trai corti capelli, unti, castani.
Mi guardava con uno strano sorrisetto, mosse impercettibilmente il naso, alzandosi di un poco la montatura degli occhiali, marrone, e iniziò a scrutarmi con quei suoi piccoli occhietti scuri.
Non parlava, mi osservava e basta.
Tornai alla spiegazione di come avvenisse la trascrizione di proteine, all’ interno del nostro corpo, e per tutta risposta lui sbatte una mano sul mio banco, ricevendo attenzione non solo da parte mia, ma anche di tutti gli altri.
Sapevo che tipo di reputazione avesse: nerd, che si divertiva con le primine, ricattandole o semplicemente facendole cadere nella sua rete in cambio di qualche favore.
Non avevo intenzione di cedere o tirarmi indietro, così presi a fissarlo, finché non si decise a parlare.
<< Sai ho riflettuto attentamente sulla tua situazione, e ho deciso di farti un favore… >> si fermò e fece un respiro profondo.
Per tutta risposta io alzai un sopracciglio, continuando a tenere tra le mani il libro di scienze.
<< ti concedo di diventare la mia ragazza, per un mese di prova, e se seguirai i miei ordini allora potrei pensare, forse, di farla diventare una cosa permanente. >>
 Era serio? O era una burla messa in atto per vedere la mia reazione?
Chi accidenti si credeva di essere? Un volontario alla ricerca di un caso humanitas, per mettersi in mostra?
<< Ti ringrazio, per il gentile titolo, di cui vuoi farmi dono, ma credo che declinerò, se non ti spiace >> detto ciò tornai a leggere, ignorandolo.
Probabilmente era rimasto di stucco, data la mia impertinenza, che raramente arrischiavo a mostrare all’ infuori di casa.
Sembrò però non perdersi troppo d’animo.
<< Come se potessi permettertelo, di rifiutarmi, quando lo sanno tutti, in quale situazione ti ritrovi a sguazzare, dopo quello che ti è successo >>
Ora aveva tutta la mia attenzione.
Che sapesse la verità? Difficile da constatare e credere, dato che le voci su di me ne erano ben distanti, doveva trattarsi, dell’ennesimo pettegolezzo, messo in giro.
 << Ovvero? >> chiesi lapidaria.
Lui, dal canto suo, vedevo che stava rivalutando il modo in cui tutti mi avevano inquadrato. Lo vidi farsi coraggio.
<< Vuoi davvero che lo dica davanti a tutta questa gente? >> domandò, con un gesto teatrale, per indicare l’ambiente circostante.
Gli spettatori dal canto loro, portavano avanti un ottimo comportamento, non preferivano parola, ne parevano arrischiarsi a intervenire.
<< Dato che ormai hai sottolineato, che si tratta di un fatto di pubblico dominio, perché non mettere al corrente anche la diretta interessata? >>
<< Dicono, che la tua famiglia ti abbia ripudiata, perché sei rimasta in cinta di Andrew Tyanne, e che adesso sei al secondo mese. >>
Restai a bocca aperta, chi cavolo era Andrew Tyanne?
<< Quindi le tue azioni sono mosse dalla pietà? >> ero curiosa di sapere quale fosse il motivo di tutta quella farsa.
<< Ovviamente no, ma è indiscutibile il fatto che tu abbia bisogno d’ aiuto >>
Si era avvicinato, e non di poco, sentivo l’odore acre del suo alito.
<< Non sono in cinta, non ho bisogno di nessun aiuto, ora per cortesia vattene. >>
Non dette nessun segno di cedimento.
<< Lo so che sei timida, ma arrivare al punto di risultare fredda e maleducata, non mi sembra opportuno. >> mise una mano sulla mia spalla, che per quanto cercassi di spostarla, continuava a premere, provocandomi un dolore sempre più acuto.
<< Lasciami immediatamente, non ho nessuna intenzione di accettare la tua finta dichiarazione >>
Sospirò, senza mollare la presa.
<< Meglio così, almeno non ci saranno malintesi, il mio scopo è tutto un altro >> cominciò lui.
Vale a dire mettermi le mani addosso il prima possibile pensai.
<< non ti conviene continuare ad aspettare il principe azzurro, o morirai seriamente sola, senza un soldo anche, probabilmente, quindi io, ti sto offrendo l’opportunità di acquisire uno status sociale più alto >>
<< Vuoi che diventi la tua… concubina? >> dissi schifata e scioccata, cercando però di non cadere nel volgare.
Sorrise, mostrando i denti storti.
<< Esatto, dato che non troverai mai nessun altro ragazzo, che si degnerà di prenderti in considerazione. >>
Iniziavano a prudermi le mani, ma una serie di immagini, che mostravano quello che sarebbe, facilmente, accaduto dopo averli tirato un pugno o peggio, mi facevano desistere.
La tranquillità scolastica che mi ero costruita in quattro anni non sarebbe crollata per via di un idiota, decerebrato.
<< Preferisco morire sola, che con uno come te. >> risposi acida guardandolo negli occhi.
<< Senti, io ti sto solo mettendo al corrente, quel che voglio me lo prendo >> iniziò  << questo è solo un momento di noia per me, quindi ti sto informando che tu sei la mia prossima preda, ma visto che sei un caso senza speranza, se troverai un modo, per farmi comprendere quanto realmente stia sprecando il mio tempo, con una sfigata, riprovevole, repellente ragazza come te all’ ora ti lascerò in pace. Hai tempo un giorno. >> detto questo se ne andò, probabilmente mosso da qualche istinto di sopravvivenza che ancora aveva dato che non mi diede il tempo di mandarlo a quel paese o mollarli una sberla in pieno volto.
Nella classe tornò caotica e io mi rimisi a studiare.
Ma non riuscivo più a concentrarmi, continuavano a venirmi in mente voci di alcune studentesse degli anni passati.
Foto di amiche, di mentre si cambiavano negli spogliatoi o in casa, che finivano su internet e social network, appese alle bacheche, e inviate ai cellulari di tutti i ragazzi.
Alcune ancora circolavano, ma seppur nessuno avesse mai indicato il colpevole, tutti sapevano chi fosse.
Solitamente preferiva ridurre psicologicamente una persona sua serva, attraverso minacce, ma forse ora si era stufato, proprio come aveva detto, andando a pescare dal cilindro, il coniglietto indifeso, che poteva sempre tener d’ occhio dato che sedeva solo a cinque banchi, per fortuna in diagonale, da lui.
Avrei trovato una soluzione, anche se il panico in quel momento pareva scorrere nelle miei vene, la mia mente era bianca, ma meno di quanto pensassi, dato che una strana, folle, idea stava già prendendo forma.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


~~Capitolo 2

La scuola era finita e io tra un “buongiorno” e un “arrivederci” ad ogni cliente, continuavo a rimuginare sulla situazione, in cui Jonny Andersen mi aveva cacciata. Senza che neppure me ne rendessi conto un seme di puro odio era sbocciato in me, nei suoi confronti, tanto che quando le lezioni erano terminate, mi ero trattenuta, non poco, a correre nella sua direzione, per cominciare a insultarlo o peggio picchiarlo.
Il panificio – pasticceria, in cui lavoravo, tre pomeriggi a settimana, più la domenica mattina, era più gremita del solito, la mia collega Anne, se ne stava alla cassa con uno sguardo annoiato, intenta ad osservare una vecchia signora, alle prese con la conta delle monete più piccole.
Il negozio era in tipico stile rustico, abbastanza grande, riportava alle pareti finte tegole e crepe, tutti i dettagli erano in legno, proprio come le assi di legno antico, grigie spioventi sul soffitto.
Vi erano dipinti che percorrevano tutto il bancone, dal lato dei clienti, e ve ne erano altri appesi alle pareti color latte; raffiguravano momenti di raccolta, o di vita quotidiana dei contadini.
In quell’ ambiente caldo e accogliente, non mancavano mai chiacchere e aneddoti, riguardante qualsiasi cittadino, alcuni compratori poi, più di altri, parevano sempre voler spendere qualche parola, come se la moneta non fosse sufficiente per comprare il pane, ma bisognasse offrire qualcosa di più personale, qualcosa che gli aveva stupiti nell’ arco di quella settimana.
In quel momento la mia attenzione era focalizzata su un gruppo di ragazze, una di loro piangeva. Dalle poche parole, che riuscì ad ascoltare, capì che era stata rifiutata dal ragazzo che le piaceva.
Io avevo il problema opposto, e mi stava letteralmente perseguitando.
L’ avevo rifiutato, mi ero completamente dimostrata disinteressata, cosa potevo fare di più? Avevo escluso a priori l’idea di un finto fidanzato, ma non sapevo realmente cosa fare.
Nello sconforto più totale mi ritrovai a servire le ragazze, che guarda caso, indossavano la stessa divisa del liceo, che frequentava mio fratello.
<< Cosa posso servirvi? >> domandai loro sorridendo.
<< Mezzo chilo di pane, il più morbido che avete >> rispose lei, la ragazza col cuore spezzato e le lacrime agli occhi, mentre le sue due amiche erano intente a cercare un fazzoletto probabilmente.
Era bassa, magrolina, coi capelli corti castani e gli occhi dello stesso colore.
<< Ti piace il cioccolato? >> chiesi, passandole il sacchetto del pane, mossa da una solidarietà anche per me inaspettata.
Lei mi guardò un attimo persa, senza capire e poi annuì.
Andai, velocemente sul retro, e presi i una manciata dei nuovi biscotti, che il cuoco stava testando, assaggiandone prima uno.
Finalmente una buona sfornata! ci lavorava da mesi, lamentandosi delle dosi di farina e cioccolato.
Erano tondi, alla nocciola e al cioccolato, con sopra marmellata al lampone.
<< Sei all’ allergica alle nocciole o ai lamponi? >> mi informai, tornando.
Lei scosse la testa, e lei passai quindi la piccola busta.
<< ma… >> cominciò lei spaesata.
<< non devi pagarlo, è omaggio della casa, e per chi unque tu stia in questo momento soffrendo, sono sicura che non ne valga la pena. >>
Come se io potessi dispensare consigli o declamare sentenze in quell’ ambito, quando le mie esperienze erano dello 0 %, pardon dello 0,5% grazie alla dichiarazione di oggi.
Lei mi rivolse un piccolo sorriso e scosse la testa.
<< Ho una cotta per lui, dal primo giorno che l’ho visto a scuola, e oggi che finalmente ho preso il coraggio di confessarmi, lui non mi ha neppure degnato d’ attenzione, mi ha solo ringraziato in modo sbrigativo e se n’è andato. >>
Stava per rimettersi a piangere, dietro di lei avevo ancora due persone da servire, per finalmente poi poter chiudere il negozio.
Sospirai, feci segno ad Anne, che doveva occuparsi lei degli ultimi acquirenti. Questa sbuffando si alzò dallo sgabello e con una scrollata di spalle iniziò a prendere gli ordini.
La ragazza castana intanto mi guardava, come se aspettasse da me qualche perla di saggezza, mangiando i dolci che le avevo dato.
<< Come ti chiami? >> domandai, sfilandomi il grembiule.
<< Madlyn >>
Notai solo all’ ora che delle sue amiche non c’era più traccia. Lei parve leggere i miei pensieri.
<< Sono andate via, devo aspettare l’autobus, la fermata è quella qui di fronte, arriva tra cinque minuti, ma fuori ha iniziato a piovere e … >>
<< Tranquilla, puoi restare, tanto non dobbiamo ancora chiudere. >>, nel frattempo presi la scopa, e iniziai a racimolare tutte le briciole.
<< Tu ti sei mai dichiarata? >> mi chiese dopo un po’.
No, ci pensai un attimo, quella però era la risposta sbagliata da dare adesso, così la mia mente si mise ad elaborare una storia o quanto meno una bugia che potesse raggere, a fin di bene.
Ma non volevo neppure risultare un’ipocrita.
<< Si una volta l’anno scorso, anche la mia non è andata a buon fine, ciò messo un po’ a superare la cosa, ma poi è passata >> più vaga di così non potevo essere << però, se davvero lui ti piace, non demordere, se per te lui è diverso, insisti, anche se può essere difficile, o più straziante, sarà più semplice poi dimenticarlo, perché non avrai rimpianti >> poi la guardai un attimo, forse tutto sommato quella situazione poteva tornare a mio favore << che parole ha usato per insomma… >>
Madlyn chinò la testa << “mi dispiace, ho già una ragazza che mi piace, ora devo andare” >>
Io non avrei potuto dare una risposta del genere, primo perché: non avevo nessuno che mi piacesse, secondo: sarei stata costretta quindi a rivelare un nome falso, per poi andarmi a confessare, passando dal danno alla beffa, perché senz’ altro avrei ricevuto un sonoro diniego.
Ma forse era proprio il sonoro diniego a servirmi, in modo da poterlo riutilizzare su Jonny…
In quel attimo arrivò l’autobus, vidi Mad scattare, come una molla.
<< Grazie per i biscotti, erano davvero buonissimi, spero di rivederti presto >> disse arrossendo, per poi scappare e imboccare la porta.
Ero rimasta stupita, mi pareva un secolo dall’ ultima volta che avevo avuto un dialogo del genere con una coetanea.
Mi rimisi a pulire, chiusi successivamente il negozio, salutando poi Anne.
Nella strada verso casa, due chilometri a piedi, mi fermai al supermercato, ancora con la testa tra le nuvole.
Quando finalmente arrivai a destinazione, erano le otto passate, ero sfinita e piena di borse.
 Aprì la porta e subito James mi corse incontro, abbracciandomi.
<< Ciao piccoletto >> dissi, passandoli una mano trai ciuffi ribelli, che li cascavano sul viso.
James aveva sei anni, i capelli biondi, ma più scuri dei miei, e gli occhi verdi.
Era alto un metro e venti, probabilmente qualche centimetro in meno e in quel momento mi stava sorridendo.
<< Hai bisogni di aiuto Offly? >> mi domandò, ma senza aspettare risposta, un po’ come sempre d’altronde, iniziò a sfilarmi i vari pacchetti di mano, andando a depositarli sulle sedie in cucina.
Con la coda dell’occhio vidi che la luce della sala era accesa.
<< Ehi, Christopher conosci mica una ragazza di nome Madlyn? >> chiesi a voce alta, in modo che potesse sentirmi, dato che stavo togliendo gli avanzi, che ero riuscita a portare a casa da lavoro, dalle buste, per metterli a scaldare.
James intanto mi trotterellava accanto, continuando a guardarmi.
<< Può darsi, perché? >> concesse lui poco dopo.
Cambiai tattica.
<< Nulla, oggi per caso qualche ragazza si è dichiarata a te? >>
Misi le posate e i tovaglioli in tavola, mancava solo l’acqua, mi girai per prenderla, quando sentii la sua voce dietro di me.
<< Sai quante ragazze vengono tutti i giorni a confessarsi? >>
Mi voltai, a torso nudo, con in mano, parte del bucato piegato, c’era Chris.
Non stentavo a credere alla sua risposta, dato il fisico che si ritrovava, che gli era valso anche, da poco, un contratto, con una casa di moda, ma era ancora agli inizi, perciò stava ore a posare, per uno stipendio di poco conto.
Era la versione adulta di James e aveva un anno in meno di me, ma aveva iniziato prima la scuola, così frequentava la mia stessa classe.
<< Quindi chi è questa Madalin? >> chiese, mettendosi una maglia, che aveva in mano, e appoggiando le altre su una sedia libera, per poi sedersi a tavola.
<< Madlyn >> lo corressi, << una ragazza, che era oggi in negozio, piangeva perché il ragazzo che le piaceva, non solo la rifiutata, ma l’ha fatto anche in modo freddo e distaccato. >>
<< Ah >> disse lui addentando una fetta di torta di verdure, che James aveva tolto dal microonde, per poi passarla a lui e lasciandosene un’altra fetta nel piatto.
Io presi una fetta di torta di riso.
<< A fine scuola, una ragazza magra, piuttosto bassa, coi capelli corti castani… >> provai a insistere.
Christopher mi fissò e per un attimo sprofondai in quegli occhi verdi, che aveva preso da nostro padre.
<< Può darsi… >> rispose dopo un po’ << ma perché è così importante? >> ribadì curioso.
Scrollai le spalle << sento che potrebbe diventare un’amica, tutto qui >>
Lui alzò il sopracciglio, doveva essere anche quella un’espressione genetica.
<< Si insomma, ci ho parlato, poco, ma mi sembrava…gentile? >> chiarì incerta.
<< Wow, un’amica, un’avventura sociale per la mia sorellina, finalmente! Domani andrò a cercare questa ragazza, se davvero si è dichiarata a me, e sono stato maleducato come dici, mi scuserò, se no mi limiterò a captare qualche informazione sul suo conto >> affermò sorridendo, per poi tornare alla sua cena.
Feci per ribattere, ma James iniziò a parlare, e quando iniziava nessuno poteva farlo smettere.
<< Io invece oggi ho preso un voto altissimo di italiano, perché so scrivere meglio degli altri… >> doveva, presumibilmente, essersi sentito poco considerato, perciò lo lasciammo parlare, delle lodi che aveva ricevuto dalla maestra, della lotta per riuscire ad utilizzare il gesso blu al posto di quello bianco sulla lavagna e del fatto che Chris gli avesse insegnato a scrivere il suo nome in corsivo, con una bellissima “J” maiuscola, a suo dire.
Finito di mangiare sparecchiammo, guardai i quaderni, che il mio fratellino mi mostrava orgoglioso, con una “J” davvero impeccabile, e poi lo misi a letto.
Quando tornai in salotto trovai Christopher seduto sul divano ad aspettarmi.
<< Su, togliamoci questo cerotto anche oggi >>
Sorrisi, e mi sedetti accanto a lui.
<< tanto lo so che ti piace >> affermai, voltandoli poi le spalle.
La sala era, l’ambiente più grande della casa, vi era solo una lampada, un divano, una libreria, una radio, e una piccola televisione. Comunicava con la cucina, il bagno, che si trovava affianco alla mia camera da letto, vicino a quella dei miei due fratelli.
Tutte le stanze erano pressoché spoglie, non avevamo abbastanza risparmi per comprare mobili, ma le pareti erano arredati con alcuni miei quadri e delle planimetrie di Chris.
Intanto sentivo che le mani di mio fratello ero finalmente riuscite a disfare il disordinato chignon, facendomi ricadere i capelli sulla schiena.
Aveva poi iniziato a pettinarli.
Mi arrivavano ormai quasi fino alla vita, dato che lui, mi aveva dato l’ordine tassativo di non tagliarli, e a me non dispiaceva.
Partivano dalla cute, con una radice scura, che subito però si schiariva, diventando di un biondo che andava via via a diventare più pallido, così che le punte risaltassero, quasi avere, sfumature sul platino.
Sentivo le sue dita ora iniziare ad intrecciare diverse ciocche. Col passare degli anni era diventato sempre più bravo, e questo momento era diventato un’occasione, dove parlare e rilassarci tra di noi.
Con lui potevo parlare di tutto, lo sapevo, perciò mi feci coraggio.
<< Oggi un ragazzo si è confessato a me >>
Lui a quella frase si arrestò.
<< ma è… >> cominciò a dire.
<< …una tragedia >> terminai per lui, << ha una reputazione orribile, non è il mio tipo, e in più non sembra volersi dar pace, anche se gli ho detto chiaro e tondo che non voglio stare con lui. >>
Silenzio, decisi di proseguire.
<< Non so cosa fare, mi ha dato tempo sino a domani per trovare un modo convincente per scaricarlo, ma non ho la minima idea! >>
<< Se ha davvero una reputazione così negativa perché non lo dici ai professori, magari potrebbero… >>
Mi girai verso di lui.
<< Christopher quanto pensi ci metterebbero gli insegnati a interessarsi maggiormente della nostra vita? Sanno già che non sono un animale sociale, ma grazie ai buoni voti me la cavo, ma se venissero a sapere che viviamo senza genitori, che tiriamo avanti a stento, avendo due lavori part- time a testa, e con un bambino di sei anni sulle spalle, pensi che non farebbero niente? >>
Lui, senza proferire parola mi abbracciò. Restammo in quella posizione per un po’, finché non sentii le sue braccia scivolar via dal mio corpo.
<< Potrei spacciarmi come tuo finto fidanzato >> propose dopo un po’.
<< Hai troppe ammiratrici, scommetto che qualcuna ti pedina già fino a casa. Non ci metterebbero molto a fare due più due. >>
<< digli che ti piace un altro >>
<< Non funzionerebbe, non dopo tutta la storia che mia fatto sul principe azzurro e via dicendo >>
Vidi gli occhi di mio fratello inscurirsi, io mi limitai a scuotere la testa.
<< Digli che ancora non hai dimenticato il tuo ex >> disse tornando all’attacco.
<< Ma io non ho mai avuto nessun ex! In più mi direbbe sicuramente, che con lui riuscirei meglio a scordarmi del mio amore passato. >> esclamai, con diversi toni acuti.
Feci un respiro profondo.
<< Senti Christopher, se io mi dichiarassi a te, che cosa diresti per respingermi >>
<< possibilmente non con fare troppo sbrigativo e assolutistico>> aggiunsi poi dopo.
Vidi la sua espressione addolcirsi.
<< Io non potrei mai respingerti Ophelia >> cominciò lui.
<< Chris … >>Non era questo che volevo.
<< Hai degli occhi stupendi, di un colore, che si vede raramente in giro, identico a quello della mamma, grigio-ghiaccio. Una pelle diafana, senza imperfezioni. Dei capelli che farebbero invidia persino a una principessa delle nevi, che ricordano tanto i raggi del Sole, che si intravedono, quando questo viene oscurato dalla Luna. >> nel dirlo ne prese una ciocca.
<< Sei maledettamente imparziale, lo sai? >> constatai sorridendo.
Anche lui sorrise.
<< Ovvio sono il tuo fratellino preferito. >> disse con uno strano ghigno.
<< Hmm, non saprei… >> comincia, ma non riuscì a finire che lui diede inizio a una vera e propria battaglia di solletico.
Lui non lo soffriva quanto me, perciò cercai di difendermi coi cuscini, ma con scarso successo.
<< No, no, no, basta >> dissi tra una risata e l’altra, ormai sfinita, << chiedo tregua >> con le lacrime agli occhi.
<< Uffa, va bene >> asserì, mettendo su un finto broncio.
<< Ti ho già detto quanto ti voglio bene? >> chiesi scompigliandoli i capelli.
<< No, non me lo dici mai abbastanza, anzi per essere precisi, ti tieni tutto dentro la maggior parte delle volte >>
Mi limitai ad alzare gli occhi al cielo. << Ti voglio bene >>
<< Anche io Offly, Notte >>
<< Notte >>
Mi diede un bacio sulla fronte, e andò nella sua camera.
Io feci altrettanto.
Quella notte dormì serena, probabilmente complice della stanchezza, e pertanto non feci troppa fatica ad alzarmi il mattino seguente.
Erano le due, i capelli mi ricadeva sciolti e un po’ annodati, li tastai e ritrovai la treccia della sera precedente.
Mi alzai, con la sola vestaglia, andai alle finestre e le scoprì delle tende, facendo filtrare la tenue luce di un lampione, che illuminava così non solo la strada, ma anche la mia camera.
Al cavalletto, quasi mi aspettasse, c’era il dipinto che da un po’ di mattine portavo avanti. Si trattava della mia personale idea di oblio.
Era una tela molto grande, che avrei poi voluto appendere in sala, ma l’immagine era ancora molto abbozzata.
 Così tra una pennellata e l’altra, i miei pensieri scorrevano fluidi, acquisendo le stesse tonalità di colori che adoperavo, e facendosi chiari.
La luce mi avvolgeva, la mia mano, quasi si muovesse da sola, tracciava linee ancor prima che il mio cervello le concepisse o le ritenesse giuste, lasciando al caso, in che modo il dipinto sarebbe sbocciato.
Quella era la mia valvola di sfogo, che rubava sonno alle mie notti, perché oramai ero consapevole della dipendenza che questa aveva su di me. Passavo la giornata con l’unico scopo di arrivare a quelle quattro ore, in cui realmente mi sentivo me stessa. Le preoccupazioni diventavano trasparenti, via via lontane, intoccabili, intangibili, e le soluzioni apparivano nella mia mente come il disegno sul foglio, senza che io davvero le ricercassi, o mi sforzassi di giunger a loro.
In quel momento infatti presi atto che forse, la prima idea, quella folle, che avevo da subito scartato, non lo era poi più di tanto, o forse lo era a una così massima potenza che non ero realmente coscia della strada che stavo per intraprendere.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Grazie a:
Leana per aver recensito,
ai 12 compagni di avventura,
e al capo guida TheVampireDiares4ever

1 - Aandyy 
 2 - Alex15 
 3 - Cressida
 4 - Evatica_lovegood 
 5 - gabrilisa
 6 - geggegiggi 
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Capitolo 3

Avevo passato le ore precedenti a pensare, se la scelta che avevo deciso di intraprendere, fosse davvero la più giusta che potessi portare avanti.
Mi sarei confessata e anche se non era una vera confessione, mi sudavano le mani, ero alquanto agitata.
Il cuore batteva a mille, lo stomaco era sotto sopra, e la mia testa mi sembrava leggera e pesante allo stesso tempo.
Non che fossi scossa per le parole che avrei dovuto pronunciare, no, era tutta la missione suicida che volevo portare avanti che rasentava la follia.
Mi sarei dichiarata, e dopo essere stata rifiutata, in modo esaustiente, avrei portato testuali parole a Jonny, se non fosse bastato, non mi sarei arresa, ma non avrei cercato neppure rifugio negli insegnanti, l’avrei affrontato e avrei chiarito la cosa, una volta per tutte.
Il ragazzo, meglio dire il mio bersaglio, era il ragazzo più popolare della scuola, Cole Beckett, famoso per il suo cuore di ghiaccio, oltre che per la sua bellezza, non aveva mai accettato una ragazza in quattro anni.
Si diceva giocasse divinamente a calcio e che il suo sorriso fosse in grado anche di sciogliere i ghiacciai artici.
Non mi ero mai interessata direttamente a lui, le uniche volte che davvero avevo preso in considerazione il suo nome era stato quando mi aveva superato in graduatoria, per via dei voti.
Era successo solo due volte.
Avrei agito all’ora di pranzo, sapevano tutti infatti, persino i muri probabilmente, che in quel frangente di tempo si trovava infondo al corridoio a nord, insieme ai suoi amici. Se una ragazza voleva confessarsi a lui, doveva andare là.
I minuti passavano, Jonny continuava a guardarmi, considerandomi già sua, con ogni probabilità.
Continuavo a fissare l’orologio, sperando più che mai che questo si bloccasse, che un allarme anti- incendio risuonasse o che la terra tremasse sotto i miei piedi.
Ma ciò che accadde, fu soltanto il banale proseguire degli eventi.
La campanella suonò, portando nell’ aria il suono di quel leggero ticchettio metallico, che solitamente ascoltavo con piacere.
Pensavo che l’ansia si sarebbe impossessata di me, invece mi ritrovai sin troppo calma, con le mani ghiacciate, il respiro lieve e normale.
L’ indifferenza era finalmente sopraggiunta, o al meno una facciata di questa, che sarebbe, forse durata, per mezz’ora, per poi sfociare in un irrazionale panico.
Mi alzai dal mio posto, e mi diressi verso il corridoio nord.
Mi sembrava di camminare da ore. Era pieno di studenti, il loro vociare, mi dava sui nervi, poiché loro non dovevano affrontare situazioni come le mie.
Ma in quel momento non volevo sentirmi una vittima, accondiscende degli eventi. Volevo sentirmi bella, spavalda e sicura di me.
Tre aggettivi che in quel momento non mi si addicevano affatto.
Probabilmente quello che provavo doveva essere alla pari di 1/100, di quello che aveva provato Maria Antonietta, nell’ incamminarsi a testa alta al patibolo. Solo che lei senz’altro era bella, risaltava sicura di se stessa e sapeva a che conseguenze sarebbe andata incontro.
Sarei voluta tornare in classe di corsa, ma ormai ero arrivata al vicolo cieco.
Vi erano impilati diversi banchi, in modo disordinato, accatastati gli uni sugli altri, e su questi vi erano gli amici di Cole e Cole stesso.
Erano intenti a mangiare, a ridere e chiacchierare.
Una fila di nove ragazze, mi si prospettava davanti, la maggior parte di queste era accompagnata da un supporto psicologico, un’amica.
Alcune avevano lettere d’amore in mano, che consegnavano per poi scappare via. Anche io ci avevo pensato, ma non avrei avuto un’immediata risposta, per cui, anche se era un’alternativa più semplice, vi avevo rinunciato.
Notai che le ragazze che si dichiaravano in modo diretto, venivano prima guardate attentamente, dopo che si erano presentate, e non ricevevano mai un sonoro no, o una risposta sbrigativa. Come se ricercasse in loro qualcosa.
Sapeva rifiutare con tatto, constatai.
Avevo ascoltato cinque perfette negazioni.
Poteva bastare, mi ero fatta un’idea di come avrei potuto rispondere a tono a Jonny.
Stavo quindi per fare dietro front, quando la ragazza prima di me scappò via, prima che potesse dir qualcosa.
Così mi ritrovai davanti al bersaglio.
Mi ritrovai ad osservarlo.
Aveva zigomi alti, capelli di un nero così intenso da risaltare blu alla luce del neon, occhi chiari, che s’ intravedevano tra i ciuffi disordinati, e lunghe ciglia.
La sua corporatura era magra, ma si scorgevano le forme dei muscoli, che si era forse procurato giocando a calcio.
Le labbra erano di un rosso non troppo carico, ma che avrebbe di certo fatto invidia a qualsiasi ragazza.
Una mano reggeva un succo di frutta, mentre l’altra pareva riprodurre, sul legno, il ritornello di qualche canzone, che però non riconoscevo.
Sapevo che lui mi stava squadrando a sua volta.
E poi i nostri sguardi giunsero a incrociarsi, inevitabilmente.
I suoi occhi erano di un’indefinibile tonalità verde-castano.
Mi rivolse un tenue sorriso. E io mi riscossi, ora toccava a me.
<< Mi piaci >> dissi semplicemente, immaginandomi di parlare con un pomodoro, intento a darmi lezioni di samba e norvegese allo stesso tempo, per riuscire a non imbarazzarmi, o assumere ridicole espressioni.
<< Hmm >> rispose soltanto.
<< Non so neppure il tuo nome >> sentenziò chinando la testa da un lato, senza però smettermi di studiarmi. Per un attimo mi parve un gatto.
Giusto, le altre avevano dato una breve descrizione di se stesse, quasi si trovassero a un provino, come se avrebbe potuto far la differenza.
<< Mi chiamo Ophelia >> vidi di aver catturato completamente la sua attenzione, anche se non mi spiegavo come, andai avanti << frequento la quarta A, la mia materia preferita è storia … >> non sapevo che altro aggiungere, non volevo cadere nel banale, certo, ma non volevo neppure rivelare tutto a un perfetto sconosciuto.
Per fortuna venni interrotta.
<< Okay >>
Mi accigliai un attimo.
<< Come scusa? >> domandai.
<< Ho detto okay, accetto i tuoi sentimenti >>
Sentivo mille occhi trafiggermi, da ogni direzione.
<< No >> pronunciai solo.
Ero nella più totale confusione. Aveva appena, seriamente accettato la mia dichiarazione? E io avevo appena risolto un problema per ficcarmi in uno più grande, come avevo ben capito?
<< Non puoi accettare i miei sentimenti >> continuai imperterrita << devi rifiutarmi come hai fatto con le altre. >>
Ora era lui a guardarmi con un’espressione aggrottata in fronte.
<< Soffri di una doppia personalità o sei semplicemente masochista? >> chiese cauto.
<< Non ho nessun problema psicologico! >> esclamai indignata.
<< Davvero? Perché giurerei averti sentito dire che ti piaccio. >>
L’avevo detto certo, ma non per diventare la sua ragazza, decisi di cambiare tattica.
<< Perché io? Scommetto che ogni giorno vengono a dichiararsi a te persone più belle e intelligenti. In più mi era parso di capire che tu non accettassi realmente nessuna. >>
Infatti se no non sarei venuta qui, conclusi tra me e me.
<< Non capisco >> disse lui dal canto suo.
<< Bene allora siamo in due >> sentenziai sollevata, era tutto un malinteso.
<> ribadì indicandosi, tanto per essere sicuro che capissi << e io ho risposto che per me, va bene, vorrei che tu, diventassi la mia ragazza. Ora tu non dovresti, non so, essere …felice >> constatò dubbioso.
Dovevo farmi coraggio, non stava davvero accadendo.
<< ma io non sono felice, perché sono venuta qui >> dissi indicando il luogo con un ampio gesto << per essere rifiutata, non per diventare la tua fidanzata >>
Avevo parlato con calma e voce pacata, persino James avrebbe afferrato il concetto.
Sentii qualche suo amico scoppiare a ridere.
<< Ehi Cole >> esclamò uno << mi sa che sei tu quello che è stato rifiutato >>
Altre risate.
Cole, dal canto suo se prima aveva lo sguardo confuso, ora era scoppiato a ridere come gli altri.
Aveva una bella risata, pulita, spensierata.
A quel pensiero mi ricordai che ancora avevo una lunga giornata, prima di poter tornare a casa e dipingere, più di dodici ore.
Sospirai, stavo perdendo tempo, non avevo ancora mangiato e dovevo parlare con Andersen e chiudere lì la faccenda, prima che diventasse di dominio pubblico, più di quanto già non fosse, e ingestibile.
Feci per andarmene, ma lui mi afferrò il polso.
<< Dove credi di andare? Io sono serio >> dichiarò, continuando a guardarmi.
Di nuovo silenzio.
<< Allora rispondi alla mia domanda >> dissi senza sottrarmi al sua sguardo, che pareva cercar di intravedere la mia anima, talmente era profondo.
Lui mi guardò un attimo interdetto.
<< Perché io >> chiesi allora nuovamente.
Parve pensarci un attimo, come se fosse indeciso se dirmi la verità o no.
<< Perché sei carina? >> provò.
Non mi stava dicendo la verità.
<< Hai visto come sono vestita, come sono i miei capelli, qualsiasi ragazza che era in fila era più “carina” di me >>
<< Probabilmente anche quella era una tattica per riuscire a ricevere un rifiuto da parte mia >>
Non risposi.
<< perché sei intelligente? >> ritentò.
<< in che posizione ero a fine quadrimestre in graduatoria? >> domandai sondando il terreno.
Lui si guardò in torno, come in cerca d’aiuto, ma non arrivò nessun suggerimento.
<< decima? >> si arrischiò.
<< seconda >> dissi liberandomi dalla sua stretta.
Lui rimase un attimo sorpreso, per poi sorridere.
Quando sorrideva aveva le fossette.
Non era il momento di pensare a questo!
<< Vedi sei intelligente >> rispose lui vittorioso.
<< e tu un bugiardo >> decretai liberandomi dalla sua stretta.
Un coro di fischi accompagnò il mio passo svelto, verso l’altro corridoio.
Una parte di me avrebbe voluto arrischiarsi a stare ancora lì, con lui, un’altra voleva solo sfuggire al suo sguardo.
A metà strada, orami certa di esser fuori pericolo, quasi saltai quando sentì le sue parole appena sussurrate al mio orecchio.
<< hai lo stesso nome dell’amante di mio padre >>
Mi girai, constatando, che il ragazzo che aveva davvero pronunciato quelle parole, fosse realmente Cole.
Restai a guardarlo, un poco imbarazzata, per la sua vicinanza e confusa dalle sue parole, che da un momento all’ altro aspettavo lo facessero scoppiare a ridere, indicandomi che si trattava di una presa in giro.
Non potei però constatare i miei sospetti, ma anzi il mio grado di stupore non fece che aumentare, dato che le sue guance iniziarono a sfumarsi di alcune graduazioni di rosso.
Quindi o era un bravissimo attore, o mi stava dicendo la verità, anche se non capivo come potessi far parte io di quest’ ultima. Decisi di mettere le cose subito in chiaro, cercando in tal modo di non creare nuove voci che portassero il mio nome.
<< Non sono l’amante di tuo padre, non so cosa tu abbia sentito sul mio conto, ma… >>
<< Lo so che non sei lei >> m’ interruppe lui.
<< Okay, allora se si tratta solo del mio nome, credo che la maggior parte delle ragazze, comprese quelle che in questo momento ci stanno osservando, farebbero carte false per essere la tua ragazza e credo che se tu le chiamassi in altro modo, chiedendolo ovviamente prima a loro, non ammetterebbero repliche >>
Detto questo mi ritrovai a sorridere, sorridere al fatto che avevo avvalorato pienamente la mia tesi e avevo respinto un ragazzo, con tatto, pensai.
Mi girai e mi diressi in classe, senza più voltarmi.
L’ insegnante ancora non c’era e l’aula era piena con due terzi degli studenti.
Andersen invece era lì confabulava con altri due studenti che non conoscevo.
Andai da lui, non ero esattamente calma, ma ero determinata e convinta, che potevo farcela. Avevo dieci minuti prima che le lezioni riprendessero.
<< Mi dispiace, ma non posso essere la tua fidanzata >>
Lo vidi sollevare gli occhi da quello che pareva un netbook.
<< E hai trovato un modo per convincermi? >>
<< Credo che un tipo come te non riscontrerebbe fattori concordanti nel suo carattere nel mio, che per questo non potremmo andare d’accordo.
In secondo luogo, credo di riuscire ancora a capire quando un ragazzo mi piace, e anche se non provo questi sentimenti in questo momento verso qualcuno non vedo perché debba abbassarmi a uscire con una persona che non ricambio. Senza contare poi che questo individuo ha già anche chiarito di essere solo interessato al mio corpo. >>
Non emise una sola parola per almeno dieci secondi, poi si alzò e con falcate ampie ma lente, mi raggiuse, seppure non distassi che pochi metri da lui mi sembrava che stesse mutando.
Letteralmente, più si avvicinava più si ingrandiva la sua ombra su di me, e il suo aspetto pareva prendere una piega sinistra e cupa.
Ma i suoi occhi ridestavano maggiormente in me una paura, lontana, sopita nel mio cuore da anni, che avevo giurato a me stessa che mai avrei rivisto.
Avrei preferito mille insulti, che nell’ udire il suo respiro gorgogliante avvicinarsi.
Era avvolto come da una cappa di tanfo, l’aspro sudore e l’alito pesante per via del pranzo, cominciarono a nausearmi, inconsapevolmente, indietreggia, mostrando paura.
Quel solo passo, mi portò nella abisso più nero, in cui mai avrei voluto risprofondare.
Andai a colpire un banco dietro di me.
Vidi il suo sogghigno prender forma sul suo volto.
Gli occhi grandi come aghi, bramavano un contatto, che ripugnante, arrivò strisciando lungo il mio braccio e risalì sino alla spalla.
Dovevo restare lucida, le miei corde vocali sembravano impossibilitate dall’ emettere un qualsiasi suono, e un nodo pesante e doloroso era nato proprio a dimostrarlo.
Vidi una via di fuga sulla destra, e cercai di scansarmi in quella direzione per andare alla porta.
Lui afferrò il mio braccio e iniziò a torcerlo, riportandomi con uno strattone, nuovamente intrappolata tra lui e il banco.
<< Lasciami >> cercai di urlare, ma t quello che mi fuoriuscì dalle labbra pareva più una supplica.
<< Tu sei mia, l’unica ancora non l’ha capito sei tu, che ancora opponi una così stupida e ridicola resistenza. >>
Con una mano teneva ora entrambi i miei polsi dietro di me, in una presa tanto dura, da provocarmi dolore, a ogni movimento che provavo a fare.
L’ altra mano invece, si era insinuata sotto i miei vestiti, superando l’altezza dell’ombelico.
Questa volta riuscì a urlare.
Nessuno dei miei compagni si girò nella mia direzione, era come se non fossi lì.
Era come se per loro non esistessi.
Le lacrime iniziarono a solleticare e farmi prudere gli occhi, quasi stessero anch’ esse cercando di far la loro parte nella lotta che stavo portando avanti.
Mi ritrovai a pregare, mentre, sotto di lui, cercavo di tirargli colpi con le gambe, ma con scarso successo.
Mi stava slacciando il reggiseno.
Stavo entrando in panico.
Il mio corpo non voleva muoversi come comandavo. Si stava paralizzando.
I miei occhi cominciavano, di nuovo, a perdere i contorni degli oggetti che mi circondavano, mostrandomi forme sfocate, allungate.
Le vecchie ferite del mio cuore riemersero in tutta la loro forza, provocandomi un dolore al petto, radicato nel mio passato
Una porta in lontananza si aprì.
C’era una sorta di scompiglio nell’aria.
Un profumo, che oggi avevo già avuto modo di sentire.
Cole.
Come un principe su di un cavallo bianco era arrivato. L’ unico problema stava nella semplice costatazione che non era il mio principe.

 







 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


~~Capitolo 4

Forse era normale. Talmente normale, da apparire sfacciatamente irrazionale.
Per Cole Beckett il mondo si era distratto.
Come il cielo reggeva sopra di noi l’unica bellezza che potesse considerarsi eterna, alla vista del nostro breve ciclo vitale; le stelle avevano fatto nascere un secondo, dalla loro essenza celestiale, un attimo di ostentazione, panico, confusione, che per queste era un semplice dono, per me un puro miracolo illogico.
Cole era entrato con semplicità disarmante, ascoltando musica, nella nostra classe.
O almeno questo era quello che avrebbe visto una ragazza aderente al suo fan club, per poi massimizzare il tutto con frasi del tipo: la classe è stata improvvisamente illuminata da un’entità divina discesa in Terra, il risveglio dal sonno mentale è arrivato, il Sole che ci ha onoratoti qualche suo raggio nella tempesta eccetera.
Insomma un sacco di cose del genere sarebbero state scritte nell’ edizione del giorno dopo, del volantino della scuola, insieme all’ esatte parole pronunciate dall’ idolo dell’Istituto.
In un secondo una ventina, se non di più, di ragazze, lo circondarono. I ragazzi lo raggiunsero, per parlargli delle nuove partite di calcio, che si prospettavano imminenti con il nuovo torneo interscolastico.
Persino Andersen, si voltò nella sua direzione, bloccandosi.
Fu come se il mio cuore fosse venuto in contatto con un defibrillatore.
Una carica elettrica attraversò il mio corpo, risvegliando dai ricordi del passato.
Avevo ancora la vista al quanto offuscata, la testa leggera, ma volevo agire.
Era come se un turbine iroso stesse prendendo forma, generandosi da quella speranza assopita dai modi meschini, che parevano guidare tutti gli uomini che avevano osato sfiorarmi, toccarmi, senza il mio consenso.
Dovetti fare uno sforzo disumano, per trovare un minimo di lucidità.
Focalizzai lo scompiglio, la stanza, la luce che filtrava, i pochi banchi vuoti, l’orologio, che pareva dirmi di sbrigarmi, il viso del mio aggressore, che ancora non prestava attenzione nei miei riguardi e infine la mia posizione.
Avevo i polsi bloccati, le gambe avevano smesso di scalciare, la mano di quell’ individuo era ridiscesa al mio ventre e tutto il mio peso poggiava al banco.
Il mio.
Quello era il mio posto.
Il libro di geometria era lì appoggiato in malo modo contro il calorifero.
Era questione di attimo.
Un attimo che mi era stato concesso, un attimo per attuare un desiderio sinistro, che sempre più spazio pareva occupare nel mio cuore, con un semplice nome: Vendetta.
Vendetta per aver riaperto ferite che avevo impiegato anni a nascondere, per avermi fatto sentire impotente sotto i suoi sguardi e le sue mani, per avermi indirizzato a queste azioni.
L’ elemento di disturbo era ancora in atto, ma sarebbe durato ancora poco.
Troppo poco, per permettersi di pensare ad altro, per esitare.
Lo presi in contro piede, liberando un polso, dalla sua stretta, non dandogli neppure il tempo di girarsi e prontamente reagire.
Afferrai il libro e lo brandì come arma, rivolgendo a lui le pagine, nelle quali i nostri compagni avevano applicato sottili lame taglienti.
Mi morsi un labbro e con un gesto fluido traccia una linea netta sul suo volto.
Lui rimase perplesso, aprì la bocca per emetter parola, ma nulla si udì da lui, dato che una copiosa scia di sangue era discesa sulla sua guancia, da quelli che dovevano essere almeno una decina o più tagli sottili.
Si toccò il volto.
Io corsi alla porta, tenendo ancora in mano il libro come scudo e arma allo stesso tempo.
Sussurrò qualcosa.
Poi iniziò a tremare, era l’odio che scaturiva da ogni poro del suo corpo, che emergeva nei miei confronti, come un fiume di lava.
Strisciava lento e inesorabile verso di me, cercando d’ insidiare il germe della paura, del panico irrazionale e folle.
Raddrizzò la schiena, rivolgendomi uno sguardo furente.
<< Come ti sei permessa? >> urlò.
Sentì le orecchie ronzare, la testa leggera in un’apnea più totale, le mani gelate, la gola secca.
Sapevo che se mi avesse attaccata di nuovo non avrei resistito. Avrei voluto appoggiarmi al muro dietro di me, ma non avrei fatto altro che sottolineare la mia debolezza. Così chiesi un ultimo sforzo al mio corpo.
Alzai la testa. Non avrei ceduto, non avrei staccato lo sguardo da lui.
Non mi sarei arresa.
<< Stai lontano da me >> l’avvertì con tutto il fiato che mi era rimasto.
Dovevo vincere questa battaglia, o non mi sarei mai liberata di lui.
I suoi passi lenti e strascicanti si avvicinavano a me.
Notai su quello sfondo che stava prendendo tonalità sempre più innaturali li sguardi che già da prima bramavo, sguardi che testimoniavano quello che stava accadendo.
Ma era tardi, non riuscivo più a mettere a fuoco nulla.
I suoni, le immagini, li odori, si confondevano, inebriandomi e cullandomi verso l’oblio che tanto agognavo di poter tracciare su una tela, ma che stavo ricalcando su me stessa.
<< …tu non sei nessuno , tu… >>
Si avvicinava.
<< Non sono tua… >> dissi.
Era vicino, vicino, troppo vicino.
Altre parole che non riuscii a cogliere.
<< Non sono tua >> ripetei.
Come una coltre di nebbia che ridiscende da una montagna l’oscurità mi stava coprendo come un manto, che impossibile da sfilare, maneggiare.
Le mie ciglia infine andarono a ricongiungersi alle amate lacrime, che avevano iniziato a ridiscendere, portando un sapore salato alle mie labbra.
Infine permisi al buio di abbracciarmi e portarmi lontano con se.

 

***
 


Avevo freddo.
La testa mi doleva cercai di toccarla, rannicchiandomi su di un lato.
Cosa…
Dov’ ero? Come ero scampata a quella situazione?
Non volevo aprire gli occhi. Non volevo sapere.
Ma era inevitabile.
Avvertì le mie palpebre alzarsi. Era tutto bianco intorno a me, ci misi qualche secondo a capire che ero in un letto, sotto un lenzuolo.
Mi misi a sedere, calcolando ogni movimento.
Era tutto bianco.
Le pareti, i mobili, le finestre. L’ odore di disinfettante arrivò all’ improvviso, stordendomi un poco.
Ero in un ospedale.
Ero in una stanza singola di un ospedale, avevo almeno tre flebo collegati al mio braccio sinistro, e indossavo una maglia bianca a maniche corte, che mi faceva da vestito.
Chi avrebbe pagato le spese sanitarie?
Non era il tempo né il luogo si pensarci dissi a me stessa.
Trovai il mio cellulare e i miei occhiali sul comodino affianco a me.
Sbiancai nel vedere che ore fossero.
Le tre e un quarto.
Era pieno pomeriggio, e io dovevo andare a prendere James a scuola fra un’ora e mezza, circa, dato che Cristopher era a un servizio fotografico, senza neppure sapere in che parte della città mi trovassi.
Di certo mi trovavo ancora vicino alla scuola, di solito non ti trasportano lontano se non per determinate operazioni.
Decisi di alzarmi e andai a guardare alla finestra. Riconobbi i centri commerciali che si trovavano dall’ altra parte della città.
Se prima avevo perso un po’ di colore adesso dovevo apparire proprio un cencio.
Calma, dovevo riprendermi e pensare.
Prima di tutto mi vesti, meno davo l’idea di essere malata, dato che non lo ero, meglio era.
Infilai velocemente la tuta, per poi leggere cosa riportava la mia cartella clinica, che era stata appesa alle sbarre del letto.
Nome, cognome, feci scorrere lo sguardo finché non arrivai alla parola prognosi.
Impiegai cinque minuti solo per capire, che quel che c’era scritto era solo un giro di parole per affermare che avevo subito uno shock e un maltrattamento fisico che aveva comportato dei lividi sulle mie braccia.
Feci un respiro profondo, seguito da un altro, per poi andare in bagno a rinfrescarmi viso ed idee.
Quello che era successo mi aveva in parte sconvolto, nell’ attimo in cui l’azione si era ripercossa su di me in modo troppo veloce, imprevedibile e violento.
Ma ora era finita, ed ero pronta ad archiviare il tutto, dato che non era successo nulla d’ irreparabile.
Certo se Mr. Andersen avesse anche solo provato a rivolgermi la parola, gli avrei prima lasciato un segno a cinque dita sul viso, per poi passare dalla presidenza a riferire l’accaduto, che non sarebbe stato insabbiato, grazie che qualche anima pia, decisamente troppo pia, mi aveva portato sino a qui, col consenso della scuola, e se non fosse bastato avrei denunciato il tutto.
Certo se avessi avuto una famiglia alle spalle, o un minimo di soldi in più non ci avrei pensato due volte a metterci di mezzo un avvocato, ma al momento era da escludersi.
Uscì dal bagno e non feci in tempo a riflettere sulla mia prossima decisione, che mi ritrovai tra le braccia di qualcuno.
Cole.
Cole mi aveva avvolto con un braccio la vita, stringendomi a sé, e con l’altro, aveva portato il mio viso all’ incavo della sua spalla, dato che si era inchinato su di me.
Sentì il mio cuore perdere un battito per poi accelerare.
<< Mi dispiace, mi dispiace, io non mi sono accorto di nulla sino all’ ultimo, mi dispiace, io… >>
Un tocco di legno sarebbe stato più mobile di me in quel momento.
Poi percepì una scia di lacrime bagnare il mio collo. Stava piangendo.
<< Cole? >> domandai titubante.
Nulla, solo altre lacrime. Doveva davvero essersi preoccupato e in più si sentiva in colpa.
<< Cole. Va tutto bene, io sto bene, senza contare che tu non centri nulla con ciò che è successo. >>
Lo vidi alzare lo sguardo verso di me.
Appena quattro centimetri ci separavano.
I suoi occhi erano di un intenso blu, sembrava di specchiarsi nell’ oceano.
Senza distogliere lo sguardo iniziai ad asciugargli il volto, con la manica della felpa.
Ad un tratto lui blocco la mia mano.
<< Perché non mi hai detto nulla? >> volle sapere.
Mi accigliai.
<< E con che pretesto avrei potuto farlo? Noi non ci conosciamo, sei venuto a conoscenza della mia esistenza solo qualche ora fa, e sei tanto sconvolto appunto per questo. Una delle tante ragazze che a te si è dichiarata, ma allo stesso tempo non ha voluto iniziare una relazione con te, perché non trovava convincenti le tue motivazioni. Sei scombussolato perché tu eri in quella stanza, e sei stato inconsciamente testimone di quello che accadeva. >>
Lo stavo accusando, vidi i suoi occhi offuscarsi, e diventare sempre più tristi, ma non mi diedi per vinta ed andai avanti, << ti trovavi solo nel posto sbagliato al momento sbagliato, tu non hai colpe. Anzi se non fosse stato per te non voglio neppure immaginare quello che mi sarebbe successo, >> sorrisi, cercando di fargli capire quanto gli fossi grata << hai distratto tutti compreso Andersen, dandomi il tempo di allontanarlo >>
Lui continuava a fissarmi, probabilmente cercando una qualche risposta da darmi alla confusione che le miei parole dovevano apparentemente aver creato in lui.
Sospirai.
<< Non provare pena per me >>
Fu come se gli avessi dato il colpo di grazia.
Si allontanò da me di qualche passo, per poi scuotere la testa.
In quel momento pensai realmente che si sarebbe girato per poi voltarsi e non tornare più indietro.
Ma quando incrociai nuovamente il suo sguardo, mi sembrò di osservare quasi un’altra persona.
<< Non so cosa provo per te al momento >> chiarì risoluto, << ma senza dubbio non è pena >>
Si passò una mano trai capelli, scompigliandoli maggiormente. Pareva in imbarazzo.
<< Oggi ero venuto nella tua classe per parlare con te. Volevo chiederti di darmi basta l’opportunità di provare a conoscerti. >>
Mise le mani in tasca e poi sospirò a sua volta.
<< Forse a questo punto è troppo >> constatò.
Feci per protestare ma non me diede il tempo.
<< Non so cosa mi porti a comportarmi in questo modo nei tuoi confronti, e tengo a precisare che non penso si tratti solo del tuo nome, ma voglio davvero interessarmi di più a te, se non come ragazza al momento, anche se non pensare che mi darò per vinto facilmente, almeno come amica. >>
Forse mi ero alzata un minuto troppo tardi, avevo calpestato col piede sbagliato una pozzanghera, alzato gli occhi al cielo quando non era stato il caso e rivolto parole che al mio ascoltatore erano risultate vane, perché avevo scelto quelle sbagliate, quelle che non erano riuscite a fare breccia in lui.
Insomma qualcosa era indubbiamente andato storto.
Perché ora non riuscivo a resistere a quello sguardo, all’ offerta che avanzava?
Perché in fondo da qualche parte, la bambina di undici anni quella dall’ aria spensierata, che sembra vestire solo di argento vivo, ancora persisteva.
Esisteva e rinasceva in ogni pennellata, che andava a ricreare quei desideri che in segreto, per sino a me stessa tacevo.
Così mi ritrovai a cercare di pronunciare quelle parole, che non avrebbero fatto altro che far capitolare solitudine scolastica, dato che a quanto sembrava avevo appena trovato un amico, se non qualcosa di più a dire di qualcuno.
Scrollai quindi le spalle con distacco, << fai come vuoi, ma non venirti poi a lamentarti con me se mi trovi noiosa e scopri di aver sprecato tempo >>
Al che distolsi lo sguardo, per non fargli notare il rossore che si stava espandendo sulle mie guance, feci però in tempo a notare che le sue labbra si erano increspate in un sorriso.
<< Accetto la sfida, ma che succederebbe se mi incuriosissi a te più del dovuto? >> chiese con fare malizioso.
Okay, non sarei mai riuscita a gestire tutto questo. Pensieri che evaporavano, farfalle che spiccavano il volo e un cuore che era partito direttamente per un’altra orbita, tutto per una sola banale domanda.
<< Credo inizierei a dubitare delle tue facoltà mentali come tu hai fatto con me sta mani >>
Se avessi ricevuto più attenzioni in questi ultimi tempi, mi sarei sentita decisamente più preparata a tutto questo.
E poi eccola la mia fidata alleata, che veniva a bussare proprio nell’ attimo giusto.
Indifferenza. E compostezza, non potevo rischiare di fargli capire quanto mi stesse scombussolando, perché non ero io per prima pronta ad ammetterlo.
Il suono di una sirena rimbombò nell’ aria, riscuotendomi completamente.
<< Devo uscire da questo posto, puoi aiutarmi? >>
Lui sembrò d’ improvviso impacciato.
<< è solo che devo svolgere delle commissioni urgenti e non ho nulla che davvero possa legarmi a questo posto >> mi ritrovai a precisare, come se dovessi dare una spiegazione.
<< Non puoi andartene >>
<< perché? >>
Ero confusa, cosa stava dicendo.
<< Non puoi e basta >>
Non mi guardava più, ma il suo viso era divenuto serio.
<< cos’ è che non mi stai dicendo? >>
<< Ophelia sul serio resta qui. Qualsiasi cosa tu debba fare rimandala, rimani qui almeno una notte in osservazione. >>
Mi avvicinai a lui e constatai che il suo corpo mi sbarrava la strada per la porta.
<< Sto bene, davvero, non ce n’è bisogno >>
<< Non lasciare l’ospedale, non oggi, non ora. >>
Mi stavo innervosendo, dovevo andare, o James sarebbe rimasto là ad aspettare da solo, dato che le maestre non davano il consenso, giustamente, ai bambini di andare a casa da soli.
<< Senti, io devo andare… >>
Cercai di avvicinarmi all’ uscita, ma lui mi afferrò.
<< Cole cosa non vuoi dirmi maledizione? >>
Prima si sentiva in colpa, poi mi chiedeva di diventare suo amico e ora questo.
Cosa mi stava nascondendo?
Come a rispondere alla mia domanda, la sua testa si inclinò, fin ché la sua fronte non tocco la mia spalla.
<< è successo un casino. Andersen è morto. >>


Autrice space

Vorrei ringraziare tutti quelli che seguono leggono e hanno fino ad ora recensito la storia : )
Grazie a Leana, aurorab96 e soulscript per il sostegno.
Spero di riuscire a pubblicare presto il prossimo capitolo (settimana prossima), e non quasi a un mese di distanza, come questo…scusate…
A presto,
A.

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Capitolo 5
*** Avviso ***


Scrivo questo avviso scusandomi con tutti i lettori e in seguito con :
- Le 23 persone che seguono questa storia
- Le 2 che la ricordano
- Le 2 che l’hanno messa tra le preferite
- E tutti coloro che si sono fermati un istante e hanno lasciato una recensione.
Questa storia è momentaneamente sospesa. Vi sarete accorti che è anche mezzo secolo che non aggiorno..., comunque sia se volete scrivermi, mi sono trasferita qui: http://www.wattpad.com/user/LadyLamperouge , dove sto al momento pubblicando due storie. Spero di poter ancor leggere le vostre opinioni, Baci A.

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