Aut mihi aut nihil

di Adeia Di Elferas
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Perchè, Pompeo, perchè mi hai tradito? ***
Capitolo 2: *** Prima di tutto ci servono un tappeto e una cinghia ***
Capitolo 3: *** Un dono per Cesare ***
Capitolo 4: *** Uno scambio equo ***
Capitolo 5: *** La persona giusta ***
Capitolo 6: *** L'Egitto avrà finalmente la sua legittima regina ***
Capitolo 7: *** Sotto assedio ***
Capitolo 8: *** Siamo gli eredi degli Dei ***
Capitolo 9: *** ...nando per ducentos passus euasit ad proximam nauem... ***
Capitolo 10: *** L'attesa ***
Capitolo 11: *** Rosso di sangue ***



Capitolo 1
*** Perchè, Pompeo, perchè mi hai tradito? ***


~~L'aria era calda ed irrespirabile, pregna di odori e spezie, tanto carica d'umidità che a Cesare sembrava di respirare acqua e sudore.
 Si passò con lentezza una mano sulla fronte madida, quando arrivarono in vista del palazzo. Non li capiva, quegli Egiziani. Avevano una terra fatta di sabbia, costruzioni enormi e colorate, ricchezze di ogni tipo, eppure erano così strani, così ossessionati dall'idea della morte... Era come se tutto quello che costruivano non fosse altro che un modo per arrivare prima nell'aldilà.
 Forse era lui a non essere abbastanza timorato degli Dei, forse erano loro ad avere ragione. Anche se gente che idolatrava un Dio con la testa di sciacallo non poteva essere molto normale...
 Il palanchino che lo portava ebbe un piccolo tremore. Cesare non se ne curò. La sua tunica era talmente bagnata da restare attaccata alla pelle, dandogli la sgradevole impressione di essere appena uscito dalle terme.
 Il clima impietoso gli fece tornare in mente un pomeriggio d'estate di tanti anni prima, a Roma. Sua figlia Giulia stava giocando con una serva e di quando in quando lo chiamava per fargli vedere quanto era brava.
 Lui non aveva molto tempo, per sua figlia, non ne aveva mai avuto. L'aveva amata, tanto, più di qualunque altra persona avesse mai amato. Eppure se l'era lasciata scivolare via. Quando avrebbe potuto stare con lei e conoscerla meglio, la sua mente era sempre impeganata e più di una volta aveva dovuto assentarsi per troppo, troppo tempo. Si diceva che ci sarebbero stati anni interi, per godersi la compagnia della figlia.
 Si diceva che, una volta sistemata la cosa pubblica, avrebbe avuto modo di passare momenti di gioia con tutto ciò che gli restava della sua vera famiglia.
 E invece non era stato così.
 Quando le aveva fatto sposare Pompeo sembrava che la vera felicità fosse a portata di mano. Si ricordava ancora l'orgoglio che gli aveva quasi fatto esplodere il petto, quando aveva saputo che a breve sarebbe nato suo nipote.
 Poi la tragedia, tutta di un colpo. Giulia e il piccolo erano morti entrambi, al momento del parto e a lui non era rimasto altro se non la propria disperazione e la ragion di stato.
 Pompeo, lui avrebbe avuto le carte in regola per essere la sua nuova famiglia, e invece l'aveva tradito. Da alleato a traditore.
 Eppure Cesare su questo era sempre stato molto chiaro. Più di una volta, quando erano più giovani, gli aveva detto, davanti a un bicchiere di vino: “La fedeltà è una cosa sacra, fratello mio. La si dà a una persona e basta. A uno stato e basta. A un'idea e basta. La tua fedeltà, riponila bene. O a me, o niente. Ricordatelo: o a me, o niente.”
 Pompeo aveva avuto la memoria corta.
 “Siamo arrivati, Cesare.” disse una voce fuori dal palanchino. Cesare tentò di asciugarsi con la mano la testa quasi pelata e deglutì un paio di volte, mentre scendeva dal suo mezzo di trasporto.
 Il caldo quasi lo soffocò e si chiese quando mai in Egitto facesse veramente freddo. Ricordava la Gallia e il gelo che lo prendeva al mattino presto, quando le gambe sembravano fatte di ghiaccio e la mente lavorava a rilento.
 Allargò le spalle e si sforzò di assumere una posa decisa e marziale. Mentre faceva uno ad uno gli immensi gradini del palazzo si chiese cosa mai volessero fargli vedere di così importante. Erano stati vaghi, i messaggeri, troppo.
 Strinse il morso, mentre una guardia egiziana gli faceva strada lungo un corridoio altissimo. In terra c'era piccoli cumuli di quella che pareva polvere. La sabbia era tanto fine che si infilava dappertutto... Era una cosa insopportabile. Non vedeva l'ora di recuperare Pompeo e tornarsene a Roma.
 Quando arrivò nella sala in cui doveva tenersi l'incontro, Cesare cominciò ad agitarsi. Aveva lo stomaco vuoto e non gli piaceva essere in mezzo a tanti potenziali nemici.
 Le parole di Tolomeo erano sempre state pacate e gentili – o almeno, così erano state riferite – ma il più grande dei traditori di solito si cela proprio dietro alle lusinghe. Così come aveva fatto Pompeo...
 “Cesare.” una voce da ragazzino che Cesare non conosceva aveva echeggiato nel salone, facendolo girare alla ricerca della persona che l'aveva emessa.
 “Tolomeo.” rispose il romano, quando vide l'egiziano entrare a passi lenti, seguito da quello che poteva essere un eunuco.
 “Ti presento il mio fidato consigliere, Potino.” disse Tolomeo, voltando il lungo naso verso quello che era di certo un eunuco. Doveva esserlo. Cesare non ne aveva visti molti, ma sapeva riconoscere il viso paffuto e la fisionomia del corpo. E soprattutto uno strano luccichio negli occhi. Era qualcosa di impalpabile che faceva capire subito la verità.
 “Cosa vuoi, Tolomeo?” chiese Cesare, cercando di non mostrare la sua agitazione. “Voglio solo dimostrarti la mia amicizia.” disse a voce bassa l'egiziano, parlando un latino appena comprensibile: “Voglio farti capire che la nostra fedeltà è rivolta a te e a te soltanto.” 'A me o niente' pensò Cesare, con rammarico crescente al ricordo di Pompeo che era stato suo amico e suo genero.
 “E cosa avete per me, per dimostrare questa vostra grande amicizia?” domandò Cesare, inarcando un sopracciglio: “Oro? Pietre preziose? Credete che sia così semplice comprare la mia benevolenza?”
 Tolomeo fece allora un gesto ampio con un braccio e disse in fretta qualcosa a Potino che Cesare non capì.
 L'eunuco annuì compiaciuto e richiamò a voce alta un servo che entrò nel salone portando una specie di cesta.
 Cesare sentì il sudore scivolare sulle tempie e sulle guance, ma non voleva asciugarlo. Finse di non esserne infastidito e riprese: “Cosa può esserci in una cesta così piccola? Davvero qualcosa che dimostra la tua fedeltà?”
 Tolomeo sorrise: “Giudica tu stesso, Cesare.”
 Così, non senza una brevissima esitazione, Cesare si avvicinò alla cesta, che era ancora tenuta alta dal servo. Sollevò con cautela il telo bianco e azzurro di lino che celava il contenuto. Per un brevissimo istante temette che dalla cesta sarebbe balzato fuori un serpente velenoso che l'avrebbe ucciso sul colpo. Ma non fu così.
 Aveva visto molte teste mozzate, nell'arco della sua vita. Alcune le aveva recise egli stesso in battaglia. Eppure quello che vide lo fece indietreggiare.
 Sconvolto, strabuzzò gli occhi e poi cercò lo sguardo di Tolomeo e di Potino, come ad accertarsi che fosse tutto vero.
 “Visto, Cesare? La nostra fedeltà è rivolta a te e a te soltanto.” disse Tolomeo e battè le mani. A questo suo gesto, un altro schiavo portò a Cesare un piccolo pacchetto di stoffa.
 Agendo in automatico, senza davvero capire che quello che stava accadendo era la realtà e non un brutto incubo, Cesare prese il paccheto tra le mani e lo aprì.
 Era un anello con sigillo. Cesare lo passò tra le dita, lasciando cadere il panno. Lo osservò con attenzione, rifiutandosi in un primo tempo di riconoscerlo. Eppure conosceva quel leone che teneva tra le zampe una spada. Lo conosceva così bene...
 Non riuscì a trattenersi. Le lacrime cominciarono a rigargli le guance, mescolandosi con il sudore, creando rigagnoli e poi fiumi.
 Le spalle del romano erano scosse da tremiti e nessuno dei presenti sapeva come reagire ad un simile spettacolo.
 Cesare pianse ancora a lungo, stringendo in pugno l'anello che era stato di Pompeo. Si avvicinò di nuovo alla testa mozzata ed imbalsamata e finalmente riuscì a distinguere con chiarezza quel viso amico che era stato per lui così caro...
 Cercò di parlare, ma la voce gli si spense in gola. Il dolore cominciava ad unirsi alla rabbia.
 Le sue dita ormai dolevano, per la forza che ci stava mettendo nello stringere quel leone inciso nel metallo. Quel fastidio pungente gli ridiede lucidità.
 In un secondo solo capì quello che avrebbe fatto. Si rivolse ai pochi soldati che lo seguivano e fece segno di prendere la cesta contente la testa di suo genero.
 “Chi ha avuto l'idea di decapitare Gneo Pompeo?” chiese, con la voce ancora incerta.
 Tolomeo, che ora dimostrava appieno i suoi tredici anni, malgrado la veste sontuosa e i gioielli regali, sopraffatto da un panico improvviso, esclamò: “Potino! Il mio consigliere! È stato lui!” agitandosi tutto ed indicando l'eunuco come se avesse paura che la sua sola vicinanza fosse un pericolo mortale.
 Cesare si avvicinò allora a Potino, su cui il panico aveva invece un effetto paralizzante. Lo schiaffeggiò in pieno volto, più di una volta e poi gridò: “Che venga arrestato! Ha ucciso un cittadino romano senza avere il consenso di Cesare! Che venga condannato a morte!”
 I suoi soldati si affrettarono a prenderlo in custodia con la forza, mentre Cesare si rivolgeva a Tolomeo: “Che il corpo di Pompeo mi venga consegnato al più presto, affinché io possa far celebrare un degno funerale! Un cittadino romano non può essere ucciso in questo modo!”
 Tolomeo era finalmente senza parole. Guardava Cesare senza vederlo, tremando.
 “Comunicherò al più presto una data. Dobbiamo urgentemente parlare dell'amministrazione dell'Egitto.” fece Cesare, stando a pochi centimetri da Tolomeo: “Troppe cose non vanno, da quando Tolomeo XIII è sul trono.”
 
 Quella sera, rimasto solo, Cesare guardò la testa imbalsamata di Pompeo. Come avevano fatto ad arrivare a quel punto? Com'era potuto accadere?
 Si schiacciò gli occhi con i palmi delle mani. Non voleva più piangere. Quello che era stato era stato e l'Egitto avrebbe pagato. Tolomeo e le sue sorelle si sarebbero pentiti di quell'affronto. Li avrebbe uccisi uno per uno e sul trono d'Egitto sarebbe salito un romano.
 Con delicatezza, Cesare coprì di nuovo la testa dell'amico con il panno di lino. Quando avrebbe avuto anche il corpo, allora avrebbe consegnato tutto a Cornelia e lei avrebbe riportato il povero Pompeo in patria, come era giusto.
 Con un ultimo gemito di tristezza e dolore, Cesare appoggiò la cesta accanto allo scrittoio. 'Perchè, Pompeo, perchè mi hai tradito?' chiese, nei suoi pensieri. L'immagine di Pompeo, com'era stato da giovane, gli apparve nella mente.
 Avevano passato assieme giornate così entusiasmanti, avevano vissuto uno accanto all'altro le loro primavere ed avevano condiviso le gioie e le pene dell'essere uomini di stato. E poi tutto si era perso ed ora Cesare si sentiva finito.
 La sua prima moglie, l'unica donna che avesse amato sinceramente come un marito deve amare una moglie, era morta. Sua figlia Giulia, la sua preziosissima figlia, era morta. Ed ora anche Pompeo, il fratello, l'amico, l'alleato, il genero, era morto.
 Non avrebbe mai più trovato un momento di pace. Si era costruito una gabbia dorata, si era immolato per la gloria di Roma. La sua vita non gli apparteneva più. Non ci sarebbero mai più state giornate e notti di gioia e di calore, per lui. Mai più.
 Si sedette sullo sgabello dello scrittoio e si prese la testa tra le mani. 'Oh, Pompeo... Perchè, perchè mi hai dovuto tradire?' si chiese ancora, senza trovare risposta.
 
 

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Capitolo 2
*** Prima di tutto ci servono un tappeto e una cinghia ***


~~ 'Perchè mai questo romano dovrebbe volermi incontrare a palazzo?' si stava chiedendo Cleopatra, mordendosi l'unghia del pollice.
 Avrebbe avuto molto più senso convocarla nei suoi alloggi. Il palazzo era territorio di Tolomeo, non di Cesare...
 Lasciò perdere il pollice, prima di farsi del male e cominciò a misurare la sua stanza a lunghi passi. Passava accanto al fuoco muovendone le propaggini e sentendo quasi con fastidio il loro calore.
 Se era Cesare a volerla vedere, lei si sarebbe presentata direttamente da lui.
 Una convocazione a palazzo era troppo rischiosa. Il pericolo che si trattasse di uno stratagemma di Tolomeo per imprigionarla o per ucciderla era troppo alto.
 Come poteva fidarsi a fondo di quel fratello che qualche mese prima aveva provato a mandarla in esilio per deporla?
 Non poteva, ecco tutto.
 Se non fosse stato per la sua prontezza e la sua capacità di vedere le cose nella giusta prospettiva, sarebbe stata mandata ad Alessandria e di lei non si sarebbe saputo più nulla. Per fortuna suo padre, quel grande re e uomo che era stato – ai suoi occhi – Tolomeo XII Aulete, le aveva insegnato come si fa a sopravvivere in un mondo di serpi.
 Certo, anche lui aveva commesso l'errore di farle sposare Tolomeo XIII, all'epoca un ragazzino di dieci anni, ancora col moccio al naso ed incapace di distinguere il giusto dallo sbagliato, ma a tutti poteva capitare un errore simile. In fondo, farle sposare Tolomeo XIII era l'unico modo per permetterle di arrivare al trono in modo legittimo, alla morte del padre.
 Un bambino di dieci anni sembrava facile da manovrare, per una giovane donna di diciassette. Così lo aveva visto, il padre, come un decenne che avrebbe fatto tutto quello che la sorella maggiore gli avrebbe detto di fare. A quell'età non era facile scorgere in lui quella vena di pazzia che Cleopatra vedeva. Forse era l'unica a pensare una cosa simile del fratellastro – perchè era bene che se ne ricordasse, il loro sangue era lo stesso solo per metà – e forse era l'unica a conoscerlo bene.
 L'eunuco Potino aveva poi combinato il disastro maggiore, trasformando quello che poteva restare un pericolo minore in un cataclisma. Gli aveva montato la testa, convincendolo a prendere decisioni assurde, spingendolo a tentare di deporre Cleopatra...
 Nessuno dei due si era reso conto del nemico che si erano scelti.
 Quando lei aveva radunato l'esercito, per contrastare il fratellastro, nessuno poteva credere alla sua dimostrazione di forza. Quando poi era riuscita a tenersi stretto il titolo e a rispedire indietro i soldati di Tolomeo, molti avevano finalmente riconosciuto la sua forza ed il suo valore. Aveva mostrato a tutti il suo vero volto.
 Lei era Cleopatra VII, figlia di Tolomeo XII e sua unica vera erede e a breve l'avrebbe capito anche quel romano, quel Cesare di cui tutto il mondo aveva paura.
 “Mia regina...?” chiese con discrezione la sua ancella, in egiziano, entrando nella stanza: “Apollodoro è qui fuori che vi aspetta.”
 Cleopatra smise di camminare ed annuì: “Fallo entrare. E portaci qualcosa da bere. Per me dell'acqua. Chiedi a lui cosa desidera. Se vuole cibo, che venga accontentato.” rispose, parlando anch'ella in egiziano. A volte la faceva ridere il fatto che di tutta la sua famiglia, lei fosse l'unica a conoscere l'egiziano. Pur essere sul trono d'egitto, i suoi parenti avevano sempre preferito il greco, la lingua delle loro origini. Era una cosa semplicemente grottesca.
 L'ancella chinò appena il capo ed uscì di nuovo. Cleopatra sospirò un paio di volte, tornando a pensare all'invito di Cesare ed alla possibilità che si trattasse di un inganno di Tolomeo.
 “Mia regina.” salutò Apollodoro, entrando con uno strano sorriso sulle labbra. “Cosa c'è di così divertente, dimmelo, ho bisogno di sorridere, oggi.”
 Apollodoro ghignò: “Mi è stato riferito che Cesare è apparso furente davanti alla testa mozzata del suo caro Pompeo e che Potino è stato condannato a morte.” “Hai notizie che non mi sono già state riferite?” chiese Cleopatra, quasi annoiata.
 Apollodoro prese uno sgabello dalla seduta in pelle e si sistemò davanti al tavolino che stava in mezzo alla stanza: “Non credo. Immagino tu sappia già dell'invito perentorio di Cesare. Vuole che tu e tuo fratello andiate a palazzo, per discutere...” disse l'ultima parola con un tono strano, che fece capire a Cleopatra che l'amico la pensava esattamente come lei.
 La donna prese a sua volta uno sgabello e si mise di fronte ad Apollodoro: “Credi che non dovrei andare?” domandò. Apollodoro sporse un po' le labbra in fuori: “Se l'invito fosse vero e se tu non ti presentassi, allora sarebbe un bel problema.”
 Cleopatra si rabbuiò un istante. Quanto avrebbe voluto che suo padre fosse ancora vivo... Lui sapeva sempre cosa fare, anche quando la vita lo aveva messo di fronte a scelte orribili. Aveva perfino giustiziato una delle sue figlie, pur di mantenere l'ordine e la giustizia e di preservare la propria vita. Anche in questo caso avrebbe saputo come muoversi...
 L'ancella tornò con una brocca d'acqua e due bicchieri. Aspettarono entrambi che se ne fosse andata, prima di parlare di nuovo e, quando lo fecero, le loro voci si coprirono l'una con l'altra.
 Apollodoro allora fece segno con la mano a Cleopatra di cominciare per prima, così la regina chiese: “Come mai anche tu acqua, amico mio?” Apollodoro scrollò le spalle: “Mi piace essere lucido, quando si complotta.”
 Cleopatra sollevò un sopracciglio e si sistemò la tunica sulle spalle. Era di un bianco stanco, intaccato dalla polvere di sabbia e dal tempo. Non indossava nemmeno gioielli. Si era tenuta comoda, perchè in fondo anche lei sapeva che sarebbe stata una notte lunga e difficile.
 “E tu cosa stavi dicendo?” chiese poi, guardando l'amico che versava da bere per entrambi. “Volevo solo dirti che questa sera sei davvero bellissima.”
 Cleopatra gettò gli occhi al cielo ed accettò il calice d'acqua: “Se mi avessero concesso un pezzo di terra grosso quanto questo tavolino ogni volta che mi hai adulata a torto, adesso sarei regina di tutto il mondo.” commentò, con uno sbuffo.
 Apollodoro si fece serio: “Sbagli a dire così. Non capisci la tua forza. Devi usare la tua bellezza a tuo favore. Devi imparare a sfruttare l'ascendente che hai sugli uomini.”
 Cleopatra stava per arrabbiarsi, ma venne interrotta dall'ingresso dell'ancella, che era tornata portando con sé un vassoio d'oro pieno di cibo, da frutta a pezzi di carne.
 Quando la serve fu sparita, Cleopatra commentò: “Vedo che complottare ti mette appetito.” Apollodoro afferrò un pezzo di carne: “Sono solo previdente. Troppe ora a stomaco vuoto non sono utili, soprattutto in una situazione come questa.”
 Cleopatra si trovò d'accordo e prese anche lei un boccone. Deglutì e poi bevve un sorso di acqua. Mentre rimetteva sul tavolo il bicchiere, si specchiò nella propria immagine riflessa dal metallo. Era distorta e non veritiera, e comunque le bastò per tornare sull'argomento da poco abbandonato: “Apollodoro, ma cosa ci vedono gli uomini in me?”
 Apollodoro fece un sorriso incredulo ed imbarazzato, ma quando capì, dall'espressione della regina, che la domanda era tutto fuorché retorica, cercò di spiagarlo.

 “Devo andare da Cesare, da sola, non a palazzo e senza che nessuno lo sappia.” disse Cleopatra, gli occhi fissi sul vassoio vuoto.
 Si stava specchiando in quel metallo da tempo, intravedendo nella sua figura qualcosa che prima non vedeva.
 “Tu mi devi aiutare, amico mio. Devo poter arrivare negli appartamenti di questo Cesare da sola. Devo convincerlo a schierarsi dalla mia parte. Che il suo aiuto e la sua fedeltà siano rivolti a me. A me o niente.”
 Quando alzò lo sguardo ed incrociò quello ormai stanco, ma ancora vigile di Apollodoro, Cleopatra vide che qualcosa balumava nelle sue iridi scure illuminate dalle torce.
 “Credo di sapere come fare.” disse l'uomo, stringendo poi le labbra e facendosi pensieroso. “Come?” chiese Cleopatra, con un filo di apprensione.
 Apollodoro si schiarì la voce e premise: “Lo sai, però, che quando sarai da lui probabilmente non basterà promettergli riconoscenza e qualche cesto pieno d'oro e pietre preziose...”
 Cleopatra si afflosciò sullo sgabello, la schiena ormai dolorante e la testa pesante per il sonno: “Lo so.” ammise, non senza avvertire uno spiacevole brivido lungo la schiena: “Ma l'hai detto tu. Devo imparare a sfuttare l'ascendente che ho sugli uomini. Quale miglior banco di prova di questo Cesare che sta tenendo il mondo nel suo pugno?”
 Apollodoro la fissava combattuto: “Basta che alla fine nel suo pugno non ci finisca anche tu.” “Mi conosci davvero così poco?” lo punzecchiò lei: “Avanti, spiegami questo piano.”
 “Forse stiamo sbagliando tutto, forse è meglio risolvere ancora una volta le cose con l'esercito...” tentò Apollodoro, retrocedendo. Cleopatra lo zittì subito: “Ormai ho deciso. Cesare farà quello che vorrò io, questo romano prenderà ordini da una regina d'Egitto.”
 Apollodoro si passò una mano sulla fronte: “Va bene, se hai deciso così. Renditi conto, però, che non potrai tornare indietro.” “So anche questo. Avanti.” lo incitò nuovamente Cleopatra: “Spiegami il piano.”
 “Prima di tutto – cominciò Apollodoro – ci servono un tappeto e una cinghia.”

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Capitolo 3
*** Un dono per Cesare ***


~~ “Mi raccomando, mia regina, non uscire finché non sarai certa di essere completamente sola con lui.” stava dicendo Apollodoro, con voce febbrile, mentre cominciava ad arrotolare il tappeto attorno a Cleopatra.
 “Finché non saremo soli, lo so, non preoccuparti.” lo rassicurò lei: “Adesso l'importante è che tu svolga il tuo compito al meglio, amico mio, del resto si occupa la sottoscritta.”
 Soffocando un sospiro di agitazione ed incertezza, Apollodoro finì di avvolgere la sua regina nel tappeto e prese la cinghia. “Dimmi se ti faccio male.” fece, mentre assicurava la cinghia con cautela.
 Siccome Cleopatra non disse nulla, Apollodoro capì che stava andando tutto bene e quindi si affrettò a chiamare due servi, per poter cominciare davvero a mettere in atto il piano.
 
 Cesare stava guardando una serie di scartoffie che parlavano di conti confusi e leggi poco chiare e si diede dello stupido per non essere intervenuto prima.
 L'Egitto versava in una condizione pietosa, amministrativamente parlando, e la guerra che i due figli di Tolomeo XII si erano mossi di certo non aveva migliorato la situazione. Era assurdo: due ragazzini governavano uno stato del genere. Tolomeo XIII, Cesare aveva ben avuto modo di vederlo, era poco più che un bambino che faceva la voce grossa, ma che poi aveva paura della sua stessa ombra. Mentre quella che chiamavano Cleopatra VII doveva avere... Quanti anni? Diciotto? Venti?
 Cesare scosse il capo. Era una donna, era giovane e si diceva fosse anche molto impulsiva. Come aveva fatto a cavarsela fino a quel momento, era un mistero per lui.
 Conosceva le donne di quell'età. Si ricordava com'era la sua Giulia, a vent'anni. Anche se nelle fattezze era un'adulta, sotto molti aspetti non era ancora abbastanza matura, per fronteggiare il mondo. Di certo questa Cleopatra di cui tutti parlavano non poteva essere molto diversa.
 Aveva avuto fortuna, quello era probabile. Magari aveva dei consiglieri che erano stati in grado di farla restare a galla, nella speranza, un giorno, di averla come unica regina e di poterla manovrare a loro piacimento.
 Il potere che viene dato, rende schiavi. Quello che si prende con le proprie forze, invece, permette più libertà.
 Con un gesto stizzito, Cesare gettò parte dei documenti in terra e si passò una mano sugli occhi stanchi. Nulla, in quella terra, era di suo gradimento. Era una tortura. Se non fosse stato il portavoce di Roma, sarebbe tornato a casa subito.
 E invece era un uomo potente. E forse, ragionò, il potere rende comunque schiavi, sia che venga dato sia che venga preso.

 Apollodoro Siciliano stava sudando copiosamente, mentre saliva i pochi gradini che lo separavano dalla parte più delicata del suo piano – almeno, per quanto lo riguardava strettamente. La parte più difficile, di certo, spettava a Cleopatra.
 In spalla portava il grande tappeto arrotolato e chiuso da una cinghia, dentro al quale, nessuno l'avrebbe mai potuto dire, si nascondeva la regina.
 “Fermo lì! Chi sei? Cosa vuoi?” chiese un soldato romano, scattando in avanti e sguainando il gladio.
 Apollodoro alzò istintivamente una mano e per poco non fece cadere il tappeto: “Sono un servo. Devo portare un dono a Cesare. Da parte della regina Cleopatra VII. Si tratta di un tappeto.” disse piano Appolodoro, ostentando un latino molto farraginoso e con un forte accento.
 “Lo vedo anche io che è un tappeto!” ribattè la guardia, infastidita. Con lo sguardo chiese appoggio all'altro soldato che presidiava l'entrata. Questi sporse in fuori il labbro e buttò lì: “Un tappeto non può fare nulla di male.”
 Allora la prima guardia rimise la spada al suo posto e disse: “Bene, servo, ti porto agli alloggi di Cesare, dove potrai lasciare il dono della regina.”
 Apollodoro ringraziò la sua buona sorte e chinò un po' la testa in segno di rispetto. Seguì la guardia lungo il corridoio, cercando di non sballottare troppo la sua regina e di non suscitare in alcun modo eventuali sospetti nel romano che gli cammainava davanti, mettendo una gamba storta davanti all'altra a ritmo di marcia.
 Quando finalmente furono agli alloggi di Cesare, la guardia si accertò che il console fosse presente e poi dichiarò: “C'è un servo della regina d'Egitto con un tappeto in dono.”
 La voce di Cesare, che arrivò ovattata, permise l'ingresso alla guardia e ad Apollodoro.
 Il romano non era visibile, dall'ingresso. Era dietro ad una tenda, forse tirata tra la sala e la zona in cui era solito riposare. Di lui si intuiva solo il profilo. Non sembrava molto alto, doveva avere pochi capelli ed un naso abbastanza importante.
 Apollodoro ebbe un vago fremito di indecisione, quasi non fosse conscio del fatto che ormai non poteva più tirarsi indietro. Doveva consegnare il tappeto con dentro Cleopatra e basta. Andarsene, portando via quello che era stato annunciato come un dono sarebbe stato impensabile.
 “Lascia lì il tappeto.” disse Cesare, sempre senza mostrarsi: “E poi lasciatemi solo, non ho voglia di compagnia.” concluse.
 La guardia, allora, condusse fuori Apollodoro, dopo che egli ebbe sistemato il tappeto in un angolo della stanza, con una cura che – ad un occhio più acuto di quello del soldato dalle gambe storte – avrebbe potuto sollevare dei dubbi.
 Cleopatra credeva di essere prossima a soffocare, dentro a quel tappeto. Aveva voglia di tossire, ma sapeva che era cruciale presentarsi al meglio ed al momento giusto.
 Attese di sentire i passi dell'amico e della guardia allontanarsi e poi si prese ancora del tempo, tanto per vedere, o meglio, per cercare di intuire quale fosse l'atteggiamento di Cesare nei confronti dei regali.
 Cesare scostò la tenda e diede uno sguardo distratto al tappeto. Non gli sembrava nulla di che. Ne aveva avuti di migliori, ne aveva visti di eccezionali. Questo era un tappeto ordinario. Un regalo ben scarso, visto che arrivava da colei che pretendeva di essere la regina d'Egitto.
 Fece uno sbuffo e si ridiede ragione da solo: quella ragazza doveva essere ancora una bambina inesperta della vita e del mondo, se sperava di comprarlo con così poco.
 Svogliatamente, andò alla luce della torcia più grande e ricominciò a leggere un resoconto che non lo aveva convinto.
 Cleopatra sentì che il momento era arrivato. Apollodoro le aveva spiegato come srotolare il tappeto nel modo corretto, sì da far scattare la cinghia e liberarsi in modo leggiadro.
 Cesare alzò gli occhi e fece un passo indietro, quando vide il tappeto muoversi. In un lampo di lucidità, afferrò la spada che aveva appoggiato al muro e la puntò verso quel movimento che non capiva.
 Cleopatra, accaldata e tesa, riuscì finalmente a liberarsi dal tappeto e quello che vide di fronte a sé era diverso da quello che si era aspettata.
 Cesare aveva passato i cinquant'anni, ma il suo fisico era ancora asciutto, nascosto da una tunica chiara che lasciava scoperte le braccia ancora forti, il collo pulsante e parte delle gambe, che parevano in tensione e pronte allo scatto.
 Le puntava contro una spada e il suo respiro era accelerato, i suoi riflessi pronti e Cleopatra era certa che alla minima mossa falsa, l'avrebbe attacata.
 Il suo volto era un insieme di incredulità e sospetto, i suoi occhi cercavano in lei qualcosa, facendola sentire improvvisamente nuda. Quel romano emanava una forza che Cleopatra non si sarebbe aspettata. Era una forza che andava oltre la politica e la guerra, era la forza di un uomo che la guardava come nessuno aveva mai osato fare.
 Cesare era senza parole e non capiva. Malgrado tutto, non riusciva a staccare gli occhi dalla donna che era uscita dal tappeto.
 Non sapeva cosa pensare. Era una schiava, era lei il dono vero? Era una spia? Un'assassina?
 Cesare sapeva solo che quella donna indossava l'abito più stretto e trasparente che lui avesse mai visto e tutti i monili e le pietre più preziose che si potevano trovare in Egitto. Nulla era lasciato all'immaginazione, eppure nulla era chiaro, come se qualcosa gli avesse offuscato la mente...
 Lentamente, come in un sogno, la donna si mosse verso di lui e lui abbassò piano la punta della spada, fino a farle toccare terra.
 Non era bella, no, non era affatto ciò che uno scultore avrebbe definito come modello di perfezione. Però c'era qualcosa... Era come se in lei si fossero unite tutte le etnie del mondo e anche quelle degli Dei.
 Aveva qualcosa di... Era come se dalla sua persona si alzasse uno strano calore, un qualcosa che riempiva la stanza, permeava ogni angolo e colmava la testa di ebbrezza.
 Un fascino quasi rude, in quegli occhi scuri e affusolati, quasi crudele, in quel naso imporante e in quelle labbra piene, quasi selvatico, in quei capelli mossi come un mare in tempesta che le lambivano le spalle nude... Era un fascino contro cui non si poteva far altro se non arrendersi senza aver nemmeno provato a lottare.
 “Chi sei?” chiese Cesare, in latino. Cleopatra sorrise, mostrando grandi denti bianchi e si avvicinò ancora un po'. Strinse una mano attorno all'elsa della spada di Cesare e l'uomo gliela lasciò prendere.
 Cleopatra impugnò con forza la spada e sussurrò, con la voce resa roca dal lungo silenzio: “Io sono la donna che aspetti da tutta la vita.”

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Capitolo 4
*** Uno scambio equo ***


~~ “Chi sei?” chiese di nuovo Cesare, con la gola secca, mentre la donna gettava la spada in terra, lontano da loro.
 “Io sono la soluzione ai tuoi problemi.” disse Cleopatra, addolcendo il proprio tono e accennando un sorriso.
 Il peso dei monili che indossava la stava sfiancando. Non si era mai resa conto di quanto pesassero quegli aggeggi. Il vestito le sembrava troppo stretto ed era come se in quella stanza non ci fosse abbastanza aria per respirare e parlare allo stesso tempo.
 Il romano continuava a guardarla con quella strana espressione dipinta sul volto severo. I suoi occhi neri e vigili la stavano passando in rassegna con la meticolosità di quelli di un animale braccato che osserva l'avversario in modo da poterne saggiare la validità.
 “Te lo chiedo per l'ultima volta.” fece Cesare, come spazientendosi: “Chi sei?”
 Sempre sfoggiando il suo miglior latino, Cleopatra fece un passo indietro dicendo: “Io sono la figlia di Tolomeo XII, la regina Clopatra VII Thea Philopator.”
 Cesare fissava i riflessi e le ombre creati dalle fiamme delle torce sulla pelle ambrata di quella che, scopriva ora, era la sorella e la moglie di Tolomeo XIII.
 “Cosa ci fai qui?” chiese, improvvisamente ruvido, abbassando gli occhi. Tutto si era aspettato, fuorchè una simile donna. Gli Dei sapevano quanto aveva immaginato di trovarsi davanti una ragazzina senza carattere, una bambinetta mossa da un qualche individuo simile all'eunuco che tanto aveva a cuore Tolomeo XIII...
 “Volevo assicurarmi che il nostro ospite fosse sistemato a dovere.” disse Cleopatra, muovendosi per la stanza, come controllando lo stato in cui versavano quegli appartamenti.
 Cesare stava per rispondere con una frase acida, ma si trattenne. 'Ricordati – si disse – che è questa donna ad aver guidato l'esercito contro Tolomeo XIII. Ricordati chi era suo padre e ricordati che lei è figlia di suo padre.'
 “E basta?” chiese Cesare, grattandosi il mento. La giovane aveva terminato la sua ispezione: “Non volevo incontrarti nel salone di un palazzo, in una sede così formale.”
 Cesare doveva sforzarsi di levare gli occhi da quel corpo, che sembrava fatto apposta per trarre in tentazione anche l'uomo meno focoso della terra. Alla fine alzò appena il lato del labbro: “Diciamo, cara regina, che non volevi incontrare tuo fratello.”
 Cleopatra si bloccò un momento. Soppesò l'espressione del romano, senza però capire cosa nascondesse davvero.
 Quel Cesare era un enigma che la feceva impazzire e che pure la intrigava tanto da farle desiderare che il gioco che stavano mettendo in piedi durasse per sempre. Stavano entrambi cercando di mettere in trappola l'altro. Entrambi cercavano di non lasciarsi influenzare da ciò che l'altro suggeriva. Entrambi tentavano in ogni modo di vincere quello che sembrava davvero uno scontro ad armi pari.
 “Non è una novità che io preferisca non vedere mio fratello.” fece Cleopatra, con fare leggero: “Nemmeno tu, romano, vorresti incontrare un fratello che ti voleva in esilio.”
 Cesare non si mostrò né concorde né discorde, semplicemente andò a sedersi sullo sgabello da campo che teneva accanto allo scrittoio.
 Cleopatra avrebbe voluto sedersi come lui. Avrebbe voluto o mettersi a trattare normalmente di affari di stato con quel console che tutti temevano, oppure avrebbe voluto...
 “Perchè sei venuta qui?” chiese Cesare. “Mi pare di averti già risposto.” disse la donna, andando al tavolo ed accarezzandone il bordo con una mano.
 “No, mi hai solo voluto far capire che non avresti risposto.” spiegò Cesare.
 Cleopatra continuava a passare la mano sul legno, con lentezza, mettendo in mostra le dita aggrazziate, ma piene di forza.
 Cesare deglutì e sentì la fronte riempirsi di gocce di sudore. Quella donna lo stava mettendo in difficoltà in molti modi diversi.
 “Hai una moglie che ti aspetta a casa, console?” chiese Cleopatra, guardando in terra. Non attese la risposta, perchè sapeva che una moglie c'era. Riprese subito: “Io ho un marito. Ma quanto la tua donna vuole vederti tornare a casa sano e salvo, tanto il mio adorato fratello non che marito mi vorrebbe vedere divorata dagli scorpioni in riva al Nilo.”
 Mentre ancora guardava in terra, Cleopatra sentì una mano salda e un po' ruvida afferrare la sua, che ancora stava accarezzando il bordo dello scrittoio.
 Quando osò alzare gli occhi, le sue pupille si scontrarono con quelle di Cesare, che erano accese di quella che sembrava rabbia. Il romano la strattonò, avvicinandola a sé: “Faccio uccidere Potino, sciolgo l'esercito egiziano e muovo guerra a Tolomeo. Poniamo che tutto questo sia esattamente quello che tu vuoi da me e io lo faccio... In cambio che ricevo? ”
 “In cambio ti darò l'Egitto.” bisbigliò Cleopatra.
 Cesare la lasciò andare di colpo, facendola quasi cadere in terra. Le sue labbra erano così serrate da sembrare bianche. Le vene del suo collo pallido erano così gonfie da sembrare d'acciaio.
 Cleopatra si concentrò sui pochi capelli del romano, che erano stati tenuti un po' lunghi, in modo da poter coprire le zone calve e cambiò tono. Alzando sensibilmente la voce e raddrizzando le spalle, sentenziò: “Lo so che dell'Egitto non ti importa nulla. So che ci ritieni inutili e troppo diversi da voi romani. Ma so anche che a te serve il nostro grano, più ancora delle nostre biblioteche e dei nostri snodi commerciali. E so anche che se tornerai a casa senza il nostro grano, il tuo popolo ti fa farà a pezzi.”
 Cesare si alzò in piedi tanto repentinamente da far cadere in terra lo sgabello su cui si era seduto: “E io so che a te importa la mia protezione, perchè se non dovessi accettare di proteggerti, tuo fratello ti farà a pezzi!” sbraitò Cesare: “Dimmi, regina d'Egitto, è peggio essere smembrati da un popolo affamato di pane o da un fratello assetato di potere?! Scommetto che se tuo padre fosse qui, si vergognerebbe di te e della tua debolezza!”
 Cleopatra non ragionò più, muovendosi rapida verso Cesare. Aprì la mano e lo colpì in pieno volto.
 L'uomo di chinò su se stesso, portando entrambe le mani alla guancia. Cleopatra deglutì a fatica, la bocca arida e il cuore che batteva all'impazzata.
 Aveva rovinato tutto, lo sapeva. Con Apollodoro ne avevano parlato a lungo. Il piano era semplice: una volta sola con Cesare, Cleopatra avrebbe dovuto tastare il terreno e poi proporre un'alleanza al romano, seducendolo, se fosse stato necessario. Si era aspettata di trovare un uomo ormai anziano, checché ne dicessero tutti, un qualcuno che un tempo aveva avuto fascino, ma che ora aveva solo ricordi e riflessi di un'epoca migliore. Un uomo reso impacciato dagli anni, un uomo semplice da soggiogare con poche occhiate lanciate al momento giusto.
 Non avrebbe mai creduto di trovarsi di fronte qualcuno che la facesse sentire così...
 Stava quasi per correre verso la porta e cercare di scappare al sicuro, quando Cesare tornò a guardarla, volgendo verso di lei la guancia arrossata.
 Ne aveva di forza in quelle mani, non c'era dubbio. Cesare sentiva il dolore pulsare e si chiese se forse quella donna non fosse davvero un'assassina mandata nei suoi alloggi sotto mentite spoglie...
 “Cosa vuoi da me?” chiese Cesare, avvicinandosi perentorio. 'Non lo so più' pensò Cleopatra, mentre le iridi scurissime del romano la prendevano: 'Non lo so più...'
 Cesare le afferrò i polsi, ma subito Cleopatra si divincolò: “Voglio un'alleanza con te. Voglio che tu mi metta su un trono stabile. Voglio essere la regina dei re.”
 “E in cambio?” chiese Cesare, sempre sospettoso. “In cambio avrai me e tutto ciò che è mio.” rispose Cleopatra: “Ma se mi lascerai, perderai ogni cosa, romano.”
 Cesare era serio, non capiva dove tutto ciò l'avrebbe portato. Si rendeva conto solo di una cosa: quella donna gli serviva.
 E poi...
 Lasciandosi dominare dal fuoco che gli ribolliva nel fondo dello stomaco, Cesare tentò di afferrare di nuovo i polsi della donna, che si divincolò e lo strinse in una morsa che ricordava quella di un seprente.
 Cesare quasi non respirava più, la sua guancia dolorante premuta contro quella rovente e soffice di Cleopatra, che stava arrossendo forse per la prima volta in vent'anni, per la prima volta da che era nata...
 “Avevano detto che Cesare era un uomo molto cauto e misurato, nella sfera privata. Malgrado tutto, un uomo che non perde la testa davanti ad una donna.” sussurrò Cleopatra.
 “Di me dicono tante cose.” ammise Cesare, lasciandosi stringere dalla morsa sempre di più: “E fino ad oggi avevano ragione.”
 Cleopatra lo liberò appena dalla sua stretta, tanto da poterlo guardare negli occhi: “Allora, abbiamo un patto?” Cesare si accigliò, indeciso. Aveva capito che con Cleopatra non si poteva scherzare. La risposta che avrebbe dato sarebbe stata quella definitiva.
 “Mi sembra che i termini del nostro patto siano vantaggiosi per entrambi.” fece il romano, diplomatico. “Sì. È uno scambio equo.” concordò Cleopatra, mentre esplorava la schiena dritta di Cesare, cercando un varco nella tunica.
 “Accetto.” concluse Cesare, mentre il suo respiro accelerava, e il corpo di Cleopatra, appena velato dal vestito succinto, gli sembrava l'unica cosa che esistesse al mondo.
 Reprimendo una risata di vittoria, Cleopatra fissò Cesare negli occhi, trovandoli colmi di desiderio ed urgenza.
 Senza attendere ordini o permessi, la regina d'Egitto premette le proprie labbra carnose contro quelle esili e severe del romano.
 Lentamente, come fosse la prima volta, Cesare forzò le labbra di Cleopatra fino ad aprirle e quando sentì che ella non faceva alcuna resistenza, si gettò alle spalle ogni dubbio ed ogni perplessità e lasciò che quel momento riempisse ogni angolo del suo essere.
 Quando Cleopatra sentì che Cesare la stava conducendo verso il suo giaciglio, non potè far altro che provare un inatteso senso di gioia. Si era immaginata di doversi sacrificare per il bene suo e del suo popolo, mentre ora le pareva di aver vinto due guerre con una sola battaglia.

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Capitolo 5
*** La persona giusta ***


~~ Cesare guardava il soffitto della stanza, cercando di riconoscere qualche forma nelle ombre ondulate gettate dalle torce.
 Gli sarebbe piaciuto scorgere una previsione di quello che sarebbe stato, anche solo una piccola anticipazione. La sua vita aveva continuamente preso pieghe inaspettate e a cinquantadue anni cominciava a sentirsi stanco.
 Sospirò e si mosse lentamente tra le coperte, nel tentativo di non svegliare la donna che dormiva al suo fianco.
 Ora che il suo compagno era il sonno, Cleopatra sembrava ancora più giovane. Sul suo volto i lineamenti erano distesi, le sue labbra appena dischiuse. I capelli erano sparsi, onde indisciplinate che profumavano di oli e fragranze speziate.
 Cesare avrebbe voluto svegliarla e parlare con lei o anche solo farsi concedere un altro bacio. Non era mai stato così tanto coinvolto da qualcuno. Forse solo dalla sua prima moglie, ma era stata comunque una cosa diversa.
 Le ciglia di Cleopatra ebbero un fremito e per un istante Cesare temette – o sperò – che ella si svegliasse e lo scoprisse lì, intento a fissarla rapito.
 E invece non si svegliò.
 Cesare allungò lentamente una mano fino a sfiorarle la spalla liscia e tiepida con la punta delle dita. Sembrava così fragile, adesso che era lì al suo fianco. Non era lo stesso aspetto che aveva avuto mentre lo faceva capitolare ai suoi piedi. Non sembrava la regina d'Egitto.
 Quelle labbra semichiuse, come se stessero per spillare parole d'amore, attiravano i suoi occhi come l'acqua attira chi si è perso nel deserto. Erano carnose, calde e sapevano quello che facevano. Cesare avrebbe voluto baciarle ancora e ancora, solo per poter sempre sentire il suo sapore selvaggio e ferale.
 Sì, Cleopatra ai suoi occhi, quella notte, era stata come una belva dall'intelligenza infinita, una fiera in grado di intrappolare la preda non solo con le sue doti fisiche.
 Il suo volto, si trovò a riflettere di nuovo Cesare, non era bello, non come l'avrebbe voluto uno scultore. Il suo viso non era del tutto proporzionato, il suo naso troppo grande e lungo, le guance un po' troppo piene, i capelli troppo mossi... Eppure tutti quei difetti creavano una perfezione che Cesare non aveva mai incontrato in nessun luogo, e lui ne aveva visti molti, di angoli di mondo.
 Con la coda dell'occhio vide il tappeto, accasciato in terra, in cui si era avvolta Cleopatra per arrivare indisturbata fino nei suoi appartamenti. Aveva dimostrato un certo coraggio, oltre che una certa astuzia. Per quello che ne sapeva, avrebbe potuto trovarsi dinnanzi un pazzo o un uomo così pavido da ucciderla sul colpo.
 Era stato solo un caso che Cesare fosse proprio Cesare. Anche se la sua prima reazione era stata quella di imbracciare la spada per difendersi, non sarebbe mai stato in grado di colpirla davvero, se non apertamente minacciato.
 Dopo un po', Cesare si rimise supino, ripensando a quello che era successo e a quello che sarebbe accaduto di lì in avanti.
 Cleopatra era molto colta, lo doveva ammettere. Avevano parlato poco, ma si era reso conto che la donna conosceva molte lingue e bene e sapeva alla perfezione giostreggiarsi nella politica internazionale. Era decisamente sopra le righe, diversa da tutte quelle che aveva conosciuto.
 Forse, pensò Cesare, Cleopatra era la persona giusta per unire una volta per tutte Roma e l'Egitto sotto un'unica guida.
 Mentre ancora ragionava sul futuro, Cesare scivolò in un sonno pesante e privo di sogni, come gli capitava sempre, quando pensava troppo prima di chiudere gli occhi.
 
 Stava quasi per albeggiare, quando Cleopatra si svegliò di colpo. Aveva fatto un sogno orribile, in cui comparivano sia suo padre, che le intimava di vergognarsi, sia suo fratello, che la costringeva a vivere incatenata ai suoi piedi.
 Ci mise qualche secondo, prima di mettere a fuoco la stanza in cui si trovava e l'uomo che stava dormendo al suo fianco.
 Le ci volle ancora un minuto per ricordare meglio quello che era accaduto e tutto quello che era stato detto e deciso.
 Cleopatra fissò il volto dell'uomo, che, nel sonno, dimostrava la sua età molto più che non durante la veglia. Aveva rughe abbastanza profonde ai lati della bocca e sulla fronte. I suoi capelli radi non erano più tirati in avanti per coprire la chiazza pelata. Però il suo torace era ancora asciutto e muscoloso.
 La regina sorrise tra sé, rimirando il corpo glabbro del suo amante. Dunque molte delle chiacchiere su di lui erano vere. Non aveva creduto ai pettegolezzi che riferivano che il grande console fosse solito depilarsi alla perfezione e invece era tutto vero.
 Con un sospiro lieve, Cleopatra si alzò. Si scompigliò i capelli, mentre l'aria fresca ed al contempo umida dell'aurora egiziana le strappava un brivido, colpendole la pelle nuda.
 Non cercò nulla con cui coprirsi, men che meno l'abito quasi inesistente con cui si era presentata la sera prima.
 Si aggirò per la stanza con fare curioso. Anche se aveva preteso di controllare gli appartamenti di Cesare, ore prima, in realtà mentre muoveva i primi passi in qualla camera era così agitata da non vedere nulla.
 Osservò con attenzione le cose che stavano sullo scrittoio, leggendo qualche frase e qualche calcolo. Poi andò a guardare i vestiti di Cesare. Ne trovò alcuni molto pretenziosi e lussuosi, con frange e colori sgargianti. Si chiese quanto fosse vanitoso quell'uomo all'apparenza così frugale e dalla ferrea morale.
 'Ferrea morale...' pensò, reprimendo una risatina. La sua ferrea morale non gli aveva impedito di amarla come se fosse stato un uomo libero e non un uomo sposato.
 Forse anche il pettegolezzo più crudele era vero... “Marito di tutte le mogli e moglie di tutti i mariti...” sussurrò Cleopatra, soprappensiero.
 Alle parole di Cleopatra, Cesare si girò tra le coperte, restando prono alla luce crescente che filtrava dalla finestra. Tuttavia, non si svegliò.
 Cleopatra tornò al letto e guardò con un'espressione strana la pelle straordinariamente liscia della schiena del romano. Era stato un soldato eppure le lame altrui avevano lasciato ben pochi segni su di lui. Di certo era un grande segno di valore. L'assenza totale di cicatrici sarebbe stata segno di codardia, ma averne poche era segno di abilità e destrezza, questo lo sapeva bene anche Cleopatra.
 La donna si andò a sedere sul lenzuolo che era leggermente umido di sudore e strinse le braccia al petto. Doveva rivestirsi ed andarsene. Apollodoro di certo voleva sapere quello che era successo.
 Con una certa riluttanza, Cleopatra andò a recuperare il vestito che era ancora in terra, da quando Cesare ve l'aveva gettato.
 Quando glielo aveva quasi strappato di dosso, Cleopatra si era sentita strana. Era come essere lontana dal mondo, da sola con quel romano che profumava di sabbia, sudore e potere. Era un aroma inebriante, che le aveva fatto perdere del tutto il controllo.
 Si infilò la veste, sentendosi più spoglia di quando era nuda. Afferrò una bisaccia vuota che stava in un angolo insieme ad altre piccole borse da viaggio e ci gettò dentro i suoi gioielli. Si diede un ultimo sguardo alle spalle e poi, in punta di piedi, si avvicinò all'uscita.
 Avrebbe fatto piano, approfittando dell'ora e della scarsa attenzione delle poche guardie che sarebbero state presenti. Alla peggio, si sarebbe finta una serva. Di certo, in caso di bisogno, Cesare l'avrebbe aiutata.
 Non resistette e guardò un'ultima volta in direzione di Cesare, del console romano di cui tutti in Egitto sembravano aver paura.
 'Sì – pensò – lui è l'uomo che mi eleverà ai vertici del mondo, lui è quello che mi farà diventare la regina dei re. Lui è la persona giusta.'

 Attraversando silenziosamente, ma di corsa, il corridoio che c'era tra l'ingresso e l'appartamento di Cesare, Cleopatra sentì il cuore farsi sempre più pesante ad ogni passo.
 Era una reazione irrazionale, la sua. Se erano alleati, si sarebbero rivisti.
 Eppure... Eppure una paura che lei stessa sentiva come ridicola la stava prendendo. Temeva che il destino le avrebbe impedito di rivederlo.
 Il rumore di sandali che battevano svogliati contro il pavimento la fecero fermare di colpo. Si nascose dietro una delle colonne, tenendo ferma la bisaccia con i suoi ori, che minacciavano di tintinnare proprio nel momento meno opportuno.
 Una guardia passò lì accanto con passo strascicato, sbadigliando. La spada che batteva contro il gambale faceva un rumore metallico ritmico che le mise addosso ancora più ansia.
 Attese forse più del dovuto, prima di uscire allo scoperto e mettersi a correre, senza più voltarsi, verso il luogo stabilito con Apollodoro.

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Capitolo 6
*** L'Egitto avrà finalmente la sua legittima regina ***


~~ “Allora? Stai bene? Com'è andata?” chiese Apollodoro, appena riconobbe Cleopatra nel buio. Ella annuì rapida e prese le briglie che l'amico le stava tendendo.
 La regina salì a cavallo e lo fece subito partire, senza rispondere ad Apollodoro, che non potè fare altro che seguirla nella luce crescente dell'alba.
 Quando finalmente furono tranquilli presso la dimora di Cleopatra, la donna lasciò che Apollodoro la seguisse nella sua stanza.
 “Allora, vuoi dirmi com'è andata?” domandò Apollodoro, con una certa apprensione, non riuscendo a decifrare del tutto l'espressione dell'amica.
 Cleopatra non rispose subito. Prima appoggiò la bisaccia coi suoi monili in terra, cercò un vestito per cambiarsi, poi si tolse quello che indossava, senza curarsi della presenza dell'amico, ed infine guardò Apollodoro.
 Stava per rispondere, ma sentì le guance arrossarsi, così gli voltò la schiena e finse di voler controllare i suoi gioielli. Li tirò fuori uno per uno dalla sacca, appoggiandoli con cura sul tavolo.
 “Mia regina, non mi pare irragionevole da parte mia chiedere se l'alleanza con Cesare è stata stretta.” fece Apollodoro, con un filo di voce, deglutendo rumorosamente.
 Cleopatra si lasciò scappare un breve sorriso, mentre alla mente le tornava prepotente un'immagine: Cesare che la teneva ferma, tenendo le sua mani contro le sue spalle, inchiodandola al letto, come se avesse paura di lasciarla scappare.
 Scosse appena il capo, per togliersi di testa quegli occhi scuri e famelici che le parlavano di posti lontani, battaglie eroiche e sanguinose, imprese fuori dall'ordinario: “Sì, abbiamo stretto un accordo.”
 Apollodoro si morse il labbro, accigliandosi. Cleopatra, non sentendo commenti, gli rivolse un'occhiata interrogativa: “E allora? Non sei fiero della tua regina?”
 Apollodoro socchiuse le labbra, ma non disse nulla. Cleopatra gli si avvicinò: “Era quello che volevamo, no? Avere il potente Cesare dalla nostra parte.” “E come hai fatto a convincerlo?” chiese Apollodoro, tagliente.
 Cleopatra lo guardò davvero per la prima volta da quando erano rientrati in casa. L'uomo aveva profonde occhiaie scure e una profonda riga gli solcava la fronte. Forse era solo colpa della notte insonne.
 “Gli ho proposto uno scambio equo.” tagliò corto Cleopatra. “Posso immaginare.” mormorò a denti stretti Apollodoro, facendosi ancora più scuro in volto.
 “Sapevi benissimo cosa sarebbe successo.” disse Cleopatra, con voce piatta: “Non fingerti sorpreso o scandalizzato.”
 Apollodoro fece uno strano rumore, una specie di risata mascherata da sbuffo. La regina finse di non sentire e scelse un paio di bracciali d'oro, tra quelli che aveva allineato sul tavolo.
 “E comunque – fece Cleopatra, indossando i monili – dobbiamo tenerci pronti, perchè Cesare organizzerà presto il mio ritorno al potere e sai quanto me che non sarà un momento facile.”
 Apollodoro le era arrivata alle spalle silenziosamente: “Bene... Ma adesso hai Cesare a proteggerti, non hai più bisogno di me.”
 Cleopatra si girò di scatto, trovandosi davanti Apollodoro, molto più vicino di quel che credeva. Era molto più alto di lei. La sovrastava. L'irruenza che l'aveva portata a voltarsi, pronta a rimetterlo al suo posto, era scomparsa nel momento stesso in cui si era misurata con la loro differente forza fisica.
 “Mi chiedo perchè dovrei ancora...” cominciò Apollodoro, ma poi parve sgonfiarsi. Si incurvò appena e mosse due passi indietro: “Cesare è un uomo potente. Era l'unica cosa che si poteva fare.” disse, come se fosse di colpo ritornato in sé.
 Cleopatra annuì e fece, appena udibile: “Lo è e ci serve.” Apollodoro annuì, guardandola di sottecchi.
 Passarono alcuni minuti di silenzio, carichi di tensione, che Cleopatra non riusciva a interpretare. Apollodoro era strano. Prima l'aveva gettata tra le braccia del romano ed ora pareva pentito. Eppure avevano ottenuto quello che volevano...
 “È stato gentile con te?” chiese improvvisamente Apollodoro, rompendo il pesante silenzio.
 Cleopatra rivisse un momento la sensazione di Cesare che la stringeva a sé, passando con delicatezza le labbra sul suo collo. Inclinando appena la testa, maledicendosi per il calore che le risaliva fino alle guance, rispose, quasi mangiandosi le parole: “Sì, è stato molto gentile, ma la cosa più importante è che ha accettato l'alleanza.”
 Apollodoro ormai non respirava più. Prima aveva avuto il dubbio, mentre ora ne aveva la certezza. Aveva sperato fino alla fine che il tutto si sarebbe risolto per il meglio, ma comunque e sempre – malgrado i mezzi – come un affare di politica, non come un affare di cuore. Con mille spine che gli chiudevano la gola, riuscì sì e no a domandare: “Ti sei infatuata di lui?”
 Cleopatra spalancò gli occhi e strinse il morso. Per Apollodoro era un'ammissione di colpa.
 Lento, abbattuto, ma sempre cercando di mantenere un contegno, Apollodoro raddrizzò la schiena: “Devo avvisare tutti della nostra nuova alleanza?”
 Cleopatra tentennò un momento, non tanto per via dell'atteggiamento di Apollodoro, che comunque l'aveva sorpresa, quanto perchè ebbe un fugace dubbio su Cesare. Quell'uomo dagli zigomi alti e dalla risata pungente avrebbe mantenuto il loro patto?
 “Sì. Vai pure a dire a tutti che abbiamo ufficialmente un alleato in Cesare e che grazie a lui l'Egitto avrà finalmente la sua legittima regina. E fai venire qui uno scriba. Voglio scrivere una missiva da mandare al console di Roma, per accordarci sui dettagli di cui non abbiamo parlato questa notte.”
 Apollodoro abbozzò un inchino ed uscì.

 Cesare si stava massaggiando la fronte, tormentato da un terribile mal di testa. Quel clima non era proprio adatto a lui.
 Aveva passato nove anni a dormire in una tenda gelida in Gallia, in guerra, eppure non aveva mai avuto nulla, mentre ora, dopo poche notti del caldo umido e appiccicoso dell'Egitto, era in crisi.
 Forse era colpa dell'età...
 “Cesare.” disse una guardia entrando nella stanza: “Le nostre legioni sono arrivate ad Alessandria.” annunciò.
 Cesare annuì e gli fece segno di andarsene. Quando fu solo sistemò le carte sulla scrivania e si alzò in piedi. Il capo gli pulsava come se volesse scoppiare e la luce del sole che filtrava dalle finestre era come una pugnalata nel centro del cranio.
 Doveva riprendersi prima di apparire davanti ai suoi soldati. Doveva accoglierli al meglio e non farsi vedere debole, né provato in alcun modo.
 Il momento era cruciale. C'era da organizzare il ritorno ufficiale di Cleopatra sul trono e ogni cosa doveva essere pianificata nei minimi dettagli per evitare insurrezioni. 'L'Egitto avrà finalmente la sua legittima regina' pensò: 'e Roma avrà di nuovo il grano e le ricchezze dell'Egitto.'
 Andò alla bacinella di acqua fresca che si era fatto portare poco prima. Si bagnò la faccia più e più volte, senza averne un grande beneficio.
 Si controllò la tunica, assicurandosi che fosse ben indossata e senza macchie. Infine si sistemò i capelli, spostandoli il più possibile in direzione della fronte, per coprire quell'orrendo chiazza pelata che sembrava farsi ogni giorno più grande.
 Prima di uscire dalla stanza, l'occhio gli cadde sul letto, appena nascosto da una tenda. Da quando Cleopatra era stata lì, ogni volta che lui si stendeva, risentiva il suo odore, risentiva il corpo caldo e guizzante di lei sotto il suo peso, risentiva la sua voce che si strozzava mentre lui la prendeva, tenendola stretta a sé.
 Non poteva più aspettare di vederla. Il giorno dopo il loro incontro, lei gli aveva fatto recapitare un messaggio, in cui lo pregava di attendere, prima di vedersi di nuovo.
 Perchè voleva mettere del tempo tra loro? Di certo anche lei voleva vederlo ancora. Cesare era certo di non aver frainteso la passione che lei aveva messo nell'amarlo. Negli anni aveva avuto la compagnia di molte persone diverse, e ormai capiva quando era desiderato sinceramente e quando solo per dovere.
 O Cleopatra era la bugiarda migliore del mondo, oppure aveva un altro motivo per rimandare il loro secondo incontro.
 Quando Cesare uscì dalla stanza, due guardie lo stavano aspettando per scortarlo dai soldati. Camminarono a lungo, sotto il sole cocente d'Egitto, sudando e maledicendo quella terra che non aveva altro se non sabbia e problemi.
 Anche nel momento in cui Cesare si trovò di fronte i suoi soldati romani e cominciò il suo discorso, sì, anche in quel momento, l'unica cosa a cui riusciva a pensare era il ventre liscio di Cleopatra, la sua bocca esigente ed audace e i suoi occhi, due braceri pronti a dar fuoco al mondo intero.

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Capitolo 7
*** Sotto assedio ***


~~Cesare si sentiva agitato, le mani sudavano e non riusciva a stare fermo un momento. Quel maledetto Tolomeo aveva agito in fretta...
 Alessandria era circondata e lui aveva portato pochi soldati... Ma cosa aveva pensato? Come aveva potuto fare un simile errore di valutazione?
 Certo, nei suoi piani non c'era lei. Era stato un imprevisto che aveva cambiato tutto.
 “Cesare...?” disse piano il soldato che gli stava accanto: “Non è necessario comparire in pubblico...” buttò lì.
 Cesare lo guardò storto e contrasse la mandibola: “Invece lo è. Tutti i notabili di Alessandria devono sapere che adesso qui comando io. Cornelia ha riavuto le spoglie di Pompeo. Tolomeo è stato invitato a sciogliere l'esercito. Gli assassini di Pompeo sono stati puniti.”
 “Con tuo permesso, Cesare...” disse il soldato, sempre più sommesso: “Tolomeo non ha sciolto l'esercito e non tutti i responsabili sono stati puniti...”
 Cesare non volle sentire oltre. Tacitò il soldato alzando una mano. Sistemò la toga, badando bene che il drapeggio cadesse bene e poi entrò nella sala in cui tutti lo stavano aspettando.

 “Devo vederlo.” disse Cleopatra alle due guardie: “Avanti, sapete benissimo chi sono. Lui non mi aspetta, ma devo vederlo.”
 I due soldati fingevano di non riconoscerla, anzi, fingevano che proprio non fosse lì. Tenevano gli occhi dritti davanti a sé e i loro visi non tradivano la minima espressione. Eppure la capivano, perchè stava parlando nella loro lingua.
 “Chi sei?” chiese un uomo vestito bene, con indosso sandali tanto puliti da sembrare nuovi. Cleopatra si appigliò a lui: “Devo vedere Cesare.”
 L'uomo fece un sorriso serafico che forse nascondeva una conoscenza profonda della verità, o forse era solo un modo per confondere le acque.
 “Cesare sta tenendo un discorso molto importante.” “Lo so. Sta annunciando ai suoi generali quello che è davanti agli occhi di tutti.” annuì Cleopatra: “L'assedio.”
 “Tu devi essere Cleopatra.” sentenziò l'uomo: “La regina di cui tutti parlano. La stessa che Cesare vuole dichiarare essere la sua ufficiale concubina.”
 Quella parola ferì Cleopatra, ma la donna riuscì a non darlo a vedere: “Sono io.” ammise: “Ora portami da lui.
 Le due guardie non davano segni di vita, così l'uomo si sentì in dovere di prendere in mano la situazione: “Puoi aspettarlo, se vuoi. Vieni con me.”
 Cleopatra si lasciò guidare nel palazzo, attraverso corridoi che conosceva bene. Non diede a vedere quanto li ricordava alla perfezione.
 Finalmente, quando furono davanti ad una porta, l'uomo allargò le braccia: “Aspettalo quanto vuoi.” E la lasciò sola.
 
 Dalla stanza arrivavano voci strozzate, accenti romani e grida che sarebbero state capite da chiunque, latino o meno.
 Cleopatra riconobbe raramente la voce di Cesare, ma sapeva che in quelli che sembravano lunghi silenzi, il romano teneva banco. Aveva un tono sempre deciso, ma alzava raramente la voce, se non era strettamente necessario per farsi udire.
 In effetti, le stesse parole possono essere molto più incisive, se sussurrate...
 Quando la porta venne aperta, Cleopatra non se l'aspettava. Cesare uscì da solo, lasciando gli altri ad accapigliarsi e litigare su una decisione già presa.
 Quando il console vide la regina, si fermò. I loro occhi si incontrarono per un lungo istante e le loro voci restavano chiuse in gola, incapaci di uscire.
 A farli muovere fu il suono opprimente delle feroci arringhe di un paio di latini, che stavano abbandonando la sala.
 Cesare, senza parlare, le prese la mano e la trascinò via. La stava per condurre nei suoi alloggi, mentre Cleopatra aveva un'altra idea. Non si fidava di quel covo di romani...
 All'inizio impercettibilmente e poi con sempre maggior decisione, cominciò a guidarlo da tutt'altra parte. Cesare non capiva cosa stesse accadendo, ma, dopo una brevissima esitazione, si lasciò condurre verso l'ignoto.
 Ecco, finalmente erano nel piccolo vicolo che Cleopatra ricordava. Era quasi completamente buio, eccezion fatta per una strisciolina di luce che arrivava dal corridoio secondario dal quale erano giunti loro.
 “Non avevo mai visto questo...” cominciò Cesare, non sapendo come descrivere quello stranissimo corridoioetto.
 “Era un passaggio segreto.” spiegò Cleopatra: “Poi è stato aperto. Mio padre aveva paura che qualche assissino potesse usarlo come nascondiglio.”
 Cesare inarcò un sopracciglio, concordando tacitamente con il defunto Tolomeo Aulete. Era un angolo così buio e negletto che sembrava studiato apposta per nascondere gli assassini agli occhi del mondo.
 “Quanti sono i tuoi soldati, Cesare?” chiese Cleopatra, senza mezzi termini. L'uomo cercò gli occhi della regina, che brillavano, fiocamente illuminati dalla luce filtrante.
 Sospirò, e, mentre inspirava lentamente, sentì il profumo della donna che gli stava davanti: “Pochi. Non abbastanza. Non siamo in una bella situazione.”
 Cleopatra gli appoggiò una mano sul petto. La tunica di Cesare era fradicia di sudore e la sua pelle era rovente.
 “Aspetto rinforzi, ma spero di risolvere in modo diplomat---” “Come? Dicendo a tutti che sono la tua concubina?” domandò Cleopatra, con astio, senza però allontanare la mano.
 Cesare deglutì, in difficoltà: “Si tratta solo di un modo di legittimarti agli occhi di Roma.” Cleopatra fece una risata gutturale: “Bel modo di essere legittimata.”
 “Sei ancora sposata con tuo fratello ed io lo sono con mia moglie.” fece notare Cesare: “Cosa proponi di fare?”
 A Cleopatra a situazione pareva grottesca. Erano assediati. Non solo in città, ma anche nella vita privata.
 “Fosse per me li ucciderei tutti.” si lasciò scappare. Cesare l'allontanò appena da sé, spingendola contro il muro e cercando di guardarla in volto nell'ombra.
 “Tuo fratello troverà la morte, non devi temere. Alla fine avremo la sua testa.” assicurò Cesare. “Ma tua moglie non si tocca.” disse Cleopatra, con un filo di tragica ironia.
 “Ti farò sposare il tuo altro fratello, così sarai legittimata anche per la tua gente.” proseguì Cesare, senza sentirla nemmeno: “E quando avremo pacificato l'Egitto, ti porterò a Roma con me.”
 A quelle parole, gli occhi scuri di Cleopatra cercarono quelli del romano. Ci fu un lungo silenzio in cui lei pensò a come sarebbe stato lasciare per sempre il suo Egitto, quella che era stata la sua casa da quando era nata e lui pensò a come potesse essere così importante una donna così giovane ed apparentemente fragile.
 “A Roma mi odieranno.” ammise con amarezza Cleopatra, dopo essersi permessa un breve istante di sogno.
 “A Roma hanno paura di me. Saranno obbligati ad amarti.” ribatté Cesare: “E poi... Credo sia impossibile non amarti.”
 E così dicendo Cesare chinò il capo e la baciò. Cleopatra lo allontanò subito: “Romano, noi abbiamo un alleanza, ricordatelo sempre. Oltre a quello che può accadere nelle nostre stanze, quando siamo soli... Noi siamo prima di tutto alleati.”
 Cesare non capiva il senso di quelle parole. Non voleva nemmeno rifletterci, perchè l'unica cosa a cui riusciva a pensare era Cleopatra, la sua pelle che sapeva di sole e il suo respiro che sembrava il fiato rovente del deserto stesso.
 “Aspetta, Cesare...!” lo bloccò Cleopatra, mentre lui tornava all'attacco, mordendole il collo. Insofferente, Cesare si lasciò allontanare una seconda volta.
 Cleopatra gli prese il volto tra le mani, trovandolo un po' ruvido per la barba non rasata: “La tua fedeltà la dovrai rivolgere solo a me. E non sto parlando solo della fedeltà tra le lenzuola. La tua fedeltà in ogni cosa. O a me o niente.”
 Cesare prese a baciarle le mani che gli incorniciavano il viso: “O a te o niente...” ripetè, a voce bassa.
 Cleopatra permise che le labbra del romano proseguissero il loro viaggio su per le sue braccia e poi lungo il collo fino alla bocca. Si lasciò premere contro il muro ruvido freddo. Aiutò il romano a toglierle il vestito.
 Quando le tornò alla mente quella frase... 'la sua ufficiale concubina'... Un ruggito di rabbia le partì dal petto. Cesare lo interpretò come un segno di passione e non fece obiezioni, quando la giovane donna gli levò di dosso la tunica strappandone un lembo.
 In breve fu lei a condurre la battaglia, a tenerlo sotto il proprio controllo. Gli faceva fare quello che voleva e per convincerlo, nei momenti in cui sembrava restio ad ubbidire, gli torceva il collo, o gli metteva una mano sul volto.
 L'uomo non aveva più una propria volontà il suo piacere era sentire il piacere crescente di Cleopatra, avvolta attorno a lui. Erano come un'unica immagine, ormai... Se qualcuno fosse passato di lì in quel momento non avrebbe visto un uomo ed una donna che si amavano, ma un unico corpo che si muoveva sospinto da un unico respiro.
 Cleopatra non gli dava requie e lo portava all'eccesso solo per potersi sentire potente, per mettere a tacere quella parte di lei che le suggeriva quanto sbagliato fosse quello che stava accadendo... Per qualche momento si sentì potente, incredibilmente potente... Ma quando Cesare, ormai stremato eppure ancora ardente di desiderio, l'avvolse con le sue braccia asciutte e forti, lei non poté evitare di sentirsi ancora e di nuovo sotto assedio...

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Capitolo 8
*** Siamo gli eredi degli Dei ***


~~ “Non possiamo nasconderci qui in eterno.” disse piano Cleopatra, facendosi aria con un lembo del lenzuolo.
 Il sole filtrava dalla finestra interna, che dava su un piccolo cortile, e l'afa sembrava portare con sé il sentore dei tremila uomini che stavano davanti alle porte del palazzo.
 “E cosa dovremmo fare?” chiese ruvido Cesare, mettendosi a sedere di scatto: “Resistiamo finchè possiamo. Cercare di forzare il blocco è un suicidio.”
 Cleopatra non disse nulla, stringendo le labbra. Non erano isolati nel palazzo da molto tempo, ma era già troppo.
 Non si intravedeva una via di salvezza e Cesare era cauto, così tanto cauto... Invece di tentare il tutto e per tutto, si era messo a costruire fortificazione e ad aspettare l'arrivo di rinforzi che sembravano essersi persi per strada.
 “Potremmo provare via mare. Abbiamo ancora qualche nave.” disse piano Cesare, dopo un po'.
 Cleopatra smise di farsi aria e restò in ascolto. Il romano soffiò, poi riprese: “Provare qualche sortita. Sappiamo che c'è quel tale, Achilla è a capo dei nostri nemici...”
 “Ma dietro c'è Arsinoe IV, ricordatelo.” fece improvvisamente Cleopatra.
 Cesare si voltò verso di lei, con lo sguardo duro. Se non fosse stato per l'espressione che gli distorceva il volto, sarebbe stato quasi comico, lì, mezzo svestito e con i suoi pochi capelli dritti in aria.
 Quando parlò, la sua voce era intrisa di rabbia: “Hai ragione. Tua sorella è una serpe. Sarebbe pronta a far uccidere tutti i popoli della terra pur di batterci.”
 “Siamo sorellastre.” gli ricordò Cleopatra, facendosi anche lei scura in volto.
 “Sorelle o sorellastre, avete lo stesso padre! Avete lo stesso modo di ragionare!” sbottò Cesare, esasperato.
 Cleopatra si irrigidì, incapace di ribattere ad una simile accusa. Capiva come si sentiva Cesare, sì, lo capiva. E temeva anche che quell'uomo così affascinante ed esperto avesse il dubbio di essere caduto in una trappola. Temeva che il romano più potente del mondo si stesse pentendo di una scelta azzardata e svantaggiosa...
 Cesare non ne poteva più, di tutte quelle congetture. Restare inattivo, chiuso in un palazzo, non era una cosa che poteva sopportare.
 Come un leone in gabbia, il romano cominciò a vagare per la stanza, misurandola a lunghi passi, fino ad arrivare alla finestra. Appoggiò i palmi delle mani al muro e lo trovò caldo, come tutto in quella stanza maledetta. Si era chiuso in trappola da solo e ora che cosa poteva fare?
 Cleopatra si alzò, in un impeto di insicurezza afferrò il lenzuolo e lo usò a mo' di tunica. Si sitemò  e raggiunse Cesare.
 Gli appoggiò una mano sulla schiena e disse, con voce bassa e suadente: “Non possono tenerci sotto assedio per sempre. Achilla cadrà. Arsinoe cadrà. Tolomeo cadrà. Tutti i nostri nemici cadranno di fronte alla nostra forza.”
 Cesare la guardò di striscio, perplesso, ma tentato di crederle. Sembrava così facile, a sentirglielo dire in quel modo...
 La luce del pomeriggio lambiva la pelle ambrata della regina d'Egitto e riluceva nei suoi occhi scuri.
 “Di chi ti fidi a Roma?” chiese improvvisamente Cleopatra, lasciando cadere la mano che aveva appoggiato alla schiena di Cesare e mettendosi di fronte a lui.
 Il romano strinse il morso, pensandoci. Alla fine concesse, non senza qualche titubanza: “Pochi. Marco Antonio, lui credo di sì.”
 “Marco Antonio?” domandò Cleopatra, prendendo Cesare per mano. Le piacevano le sue mani. Erano forti e salde. Gliele aveva viste tremare solo un paio di volte e trovava che per un uomo di quell'età fosse una cosa accettabile.
 “Parlamene.” lo invitò, cominciando a riportarlo verso il letto: “Chi è?”
 “Un soldato che sa quello che fa, quando ha in mano una spada. È stato al mio fianco in Gallia.” fece Cesare, lasciandosi guidare dalla giovane egiziana: “Più giovane e più impulsivo di me.” continuò: “Di certo più alto e più prestante.”
 “Non ti stai facendo una buona presentazione.” lo rimbrottò Cleopatra, con un sorriso: “A sentire te, questo Marco Antonio è preferibile a Cesare, l'uomo più desiderato del mondo.”
 Il romano la fissò come faceva sempre di fronte a simili affermazioni. Come se ne fosse lusingato, ma non ci credesse davvero.
 La regina lo fece accomodare sul letto e si sedette al suo fianco: “E poi? Che altro puoi dirmi di lui?”
 Cesare si accigliò: “Gioca ai dadi e ama la vita sregolata, benché sia un soldato.”
 “E questo tu non lo approvi.” aggiunse Cleopatra, ben interpretando la ruga che si era impressa in mezzo alla fronte del console.
 “Usa la sua bellezza come fosse un merito.” spiegò Cesare: “E si caccia in più guai di quelli che riesce a gestire.”
 “La bellezza non è un merito, certo...” soppesò Cleopatra: “Ma è di certo un'opportunità. Non potrai che essere d'accordo con me.”
 Cesare sbuffò: “Come preferisci. Per quel che mi riguarda, non sono d'accordo con chi approfitta di un bel sorriso o di due buone spalle per far fare agli altri quello che desidera.”
 Cleopatra deglutì, aspettandosi, da un momento all'altro, una critica diretta nei suoi confronti. In fondo anche lei aveva sfruttato il suo ascendente per tirare il romano dalla sua parte. Lo aveva convinto a schierarsi con lei, piuttosto che con uno qualsiasi dei suoi fratelli usando solo ed esclusivamente la sua immagine...
 
 La serva lasciò loro la brocca di vino e se ne andò dicendo ancora qualcosa in un dialetto molto particolare. Cleopatra rispose usando la medesima lingua e cominciò a versare il liquido color sangue a sé e al suo compagno.
 “Quante lingue conosci?” chiese Cesare, prendendo il suo calice.
 “Abbastanza per farmi capire da quelli che comando.” rispose Cleopatra, con un sorriso sibillino.
 “Quindi comandi anche sui romani?” chiese Cesare, senza inflessione, riferendosi al latino perfetto della regina.
 Cleopatra bevve il primo sorso di vino, che le raschiò la gola e le ustionò lo stomaco: “Mi pare che a volte ti piaccia, che io prenda il comando.” disse, allusiva.
 In altre occasioni, con altre donne, Cesare sarebbe esploso in uno scatto d'ira, ad una simile insinuazione, ma con lei non riusciva ad arrabbiarsi per certe cose.
 Si limitò a bere un breve sorso di vino rosso, che gli sembrava troppo caldo e troppo amaro e buttò lì: “È sorprendente trovare un regnante egiziano che sappia davvero parlare in egiziano.”
 “Come ti ho detto, romano, mi piace farmi capire e capire quello che mi viene detto.” ribadì Cleopatra, svuotando il suo bicchiere.
 Restarono a lungo in silenzio, con le carte geografiche sul tavolo, tra i calici, e i loro pensieri a dividerli.
 Erano due giorni che cercavano di capire come muoversi, come forzare la resistenza di Achilla e non erano ancora giunti ad una decisione definitiva.
 Non sopportando più il silenzio, Cleopatra chiese: “Caio Giulio Cesare. Mi è stato detto che i tuoi romani pensano che tu discenda dalla vostra dea Venere. È così?”
 Cesare sollevò appena il labbro superiore, senza allegria: “Così dicono. Che sia vero, è tutto da dimostrare.”
 Cleopatra si versò ancora un po' di vino: “Per noi egiziani, invece, la regina è la reincarnazione di Iside. Io sono la reincarnazione di Iside.”
 Cesare stava guardando una mappa, distrattamente, annuendo in automatico, con il calice ancora pieno.
 “Per la nostra legge, è la donna a legittimare il faraone, il re. Se non si sposa una donna legittima, una figlia di re, una reincarnazione di Iside, non è un re legittimo.”
 Ancora una volta Cesare non rispose, limitandosi a fare un breve cenno col capo e a lasciar vagare gli occhi per la stanza e sulle cartine.
 “Non te ne importa nulla, vero?” sospirò Cleopatra.
 Cesare capì che una sua interazione era richiesta, così borbottò: “Io rispetto il vostro credo, anche se idolatrare degli Dei con volto da animale mi sembra un po' strano...”
 “No, la realtà è che non te importa nulla.” concluse Cleopatra, scuotendo il capo. Solo per non ripiombare nel silenzio di poco prima, la donna ricominciò a parlare della sua religione, tentando di far capire a Cesare quanto fosse importante per mantenere lo stato unito.
 Quando ritornò a parlare del culto di Iside non potè resistere e ribadì il concetto della legittimazione del re: “Se tu mi sposassi, saresti a tutti gli effetti il legittimo re d'Egitto.” sottolineò Cleopatra: “Perchè avresti sposato me.”
 “Io sono già sposato.” le ricordò Cesare, dando finalmente un segno di interessamento.
 “Potresti divorziare.” fece notare la donna, finendo un'ennesima volta la sua coppa di vino.
 “Stai bevendo troppo.” la riprese Cesare: “Forse è per questo che non sai quello che dici.”
 “Credo di saperlo, invece.” si irritò Cleopatra.
 “Se divorziassi da mia moglie e ti sposassi – disse lentamente Cesare – una volta a Roma mi aspetterebbe la mia fine. I miei concittadini non sono molto amanti di questa terra.”
 “Ma lo sono del nostro grano, vero?” ribattè Cleopatra.
 Cesare diede segni di impazienza, che si tradussero in una stizzita affermazione: “Se non fosse che il rischio è eccessivo, me ne andrei immediatamente da Alessandria solo per non doverti più sentir parlare!”
 Si fissarono qualche secondo, prima di distogliere lo sguardo, entrambi a disagio e senza parole.
 Quello che stavano costruendo insieme stava per essere completamente distrutto da quella situazione orribile.
 Essere sotto assedio li aveva costretti all'immobilità, all'attesa, all'ozio forzato. Aspettare dei rinforzi o un colpo di fortuna, li aveva resi inattivi, costringendoli in una condizione che per entrambi equivaleva all'inferno.
 Se il loro rapporto fosse sopravvissuto a una tensione del genere, sarebbe durato per sempre, di questo Cleopatra era sicura.
 Solo che non era così semplice passare sopra a tutti quei momenti terribili e dimenticarli...
 Ormai cominciavano a conoscersi, e lo stavano facendo nel modo più infallibile. Si stavano conoscendo in un momento di grandissima difficoltà. Erano nudi, l'uno di fronte all'altro, erano senza difese. Stavano lottando per la propria sopravvivenza. Erano quello che erano, senza schermi, senza recite.
 Cesare aveva visto di Cleopatra non solo il lato fascinoso, quello che piaceva a tutti gli uomini che l'avevano conosciuta. Aveva visto di lei la determinazione quasi ossessiva, la voglia di prevalere, l'attitudine al comando, il terrore di venir prevaricata dai fratelli, e, quando lo scontro era stato proprio davanti ai loro occhi, la sua capacità di restare insensibile anche davanti alle peggiori brutture.
 Cleopatra aveva visto di Cesare non solo la patina luccicante dei successi di un uomo forte e famoso. Aveva visto di lui le paure, i primi cedimenti del fisico, le ansie e i fantasmi del passato, gli spettri che si portava dietro ogni notte e che lo svegliavano ogni mattina, la vanità e la calma che celava una rabbia costante e talmente accesa da poter bruciare e radere al suolo il mondo intero.
 “Cosa ti ha reso così?” domandò Cleopatra, senza riuscire a trattenersi.
 Cesare trasalì. Si rese conto che entrambi stavano pensando all'altro, elencando silenziosamente tutti i difetti e le distorsioni dell'animo che avevano notato e che avevano giudica, come la più severa delle giurie.
 “Allora, romano, cosa ti ha reso così? La guerra o i dolori del cuore?” richiese Cleopatra, alzando il mento, ma tenendo gli occhi bassi sul calice vuoto.
 “L'una e l'altra cosa.” rispose egli, chiudendo le mani a pugno e tenendole rigide sulle ginocchia: “E tu? Cosa ti ha reso quella che sei?”
 Cleopatra si accigliò e si versò ancora del vino: “Sono figlia di un re e di una donna, dicono fosse una schiava egiziana o una concubina, che è morta poco dopo la mia nascita, probabilmente per mano di mio padre. Sono cresciuta in un ambiente in cui dovevi sospettare di tutti, sempre. Ho visto mio padre mandare a morte una delle mie sorelle e avvelenarne un'altra. Mi hanno costretta a sposare un ragazzino che era anche il mio fratellastro. Ho dovuto guidare un esercito contro il suo per salvarmi la vita. Ho dovuto avvicinare un romano che tutti dicevano essere spaventoso, l'uomo più potente e più pericoloso del mondo.” raccontò, con un filo di voce: “Ho conosciuto la paura, Cesare. E ho conosciuto il dolore, e ho visto la morte da vicino. Avrò meno della metà dei tuoi anni, ma ho conosciuto la cattiveria dell'uomo. Potevo restarne distrutta o rafforzata, non c'erano vie di mezzo.”
 Cesare l'aveva ascoltata rapito, in silenzio, cercando di rendersi davvero conto che quel viso da bambina, quegli occhi scuri e grandi, quelle labbra piene e quelle guance piene erano le stesse che avevano dovuto frontaggiare tutte quelle cose. Era straordinario pensare che fosse davvero lei, quella che aveva affrontato tutte quelle prove.
 “Siamo gli eredi degli Dei.” commentò piano Cesare: “Se non siamo forti noi, chi altro può esserlo?”
 Cleopatra alzò finalmente lo sguardo verso di lui e si sforzò di sorridere.
 Cesare alzò il calice in direzione della donna e dichiarò: “Attaccheremo con quello che ci resta della flotta. Ce ne andiamo da qui. Roma ci aspetta.”
 

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Capitolo 9
*** ...nando per ducentos passus euasit ad proximam nauem... ***


~~ La vista non lo ingannava, dunque. I numeri erano veri, anzi, erano peggio di quello che gli era stato riferito.
 Cesare deglutì e si passò una mano sulla piastra pettorale. Le cose sarebbero potute finire male, ora lo capiva. Aveva agito troppo di impulso, punto nel vivo...
 Aveva ascoltato anche le voci che nella sua testa lo rincorrevano, facendolo pentire di ogni sua mossa, riempiendolo di rimorsi e dubbi... Le stesse voci che lo facevano vergognare di sé, quando era solo e che lo interrogavano su cosa sarebbe successo, una volta di ritorno a Roma, la capitale del mondo...
 E poi aveva ascoltato le parole che Cleopatra gli sussurrava al buio, nell'orecchio, mentre il suo respiro si mescolava agli odori grevi e opprimenti degli oli profumati e delle spezie...
 Ecco dove stava la pericolosità di quella donna, di quella ragazzina. Lei sapeva fargli cambiare idea, giocava con lui, con la sua mente e lo portava a credere che le idee che lei gli aveva instillato fossero le uniche idee possibili... Lo aveva soggiogato e se ne rendeva conto solo quando erano lontani. Bastava rivederla un momento, e tutte queste certezze sparivano nel nulla...
 Se solo Pompeo non l'avesse tradito, ora Cesare non sarebbe sul ponte scivoloso di una nave scalcinata, al comando di quella che – in tutta onestà – non si poteva chiamare flotta.
 Forzare il blocco... Che idea folle.
 Mosse qualche passo avanti, sul legno che scricchiolava e per poco non scivolò. Si aggrappò all'ultimo minuto a un suo soldato, che restò immobile, fingendo di non essersi accorto della difficoltà del suo comandante.
 Il mare era arrabbiato, gettava acqua fredda sul ponte, sui suoi soldati e sulla sua faccia, senza rispetto, come se non fosse in presenza dell'uomo più potente del mondo.
 Erano gli Dei che si prendevano gioco di lui? Erano loro, a muovere quel muro di legno che si stava facendo loro incontro?
 Cesare strinse gli occhi, per fare una stima più precisa delle forze nemiche. Mescolate a navi egiziane c'erano navi che erano state di Pompeo.
 Era come se il fantasma di suo genero lo inseguisse e lo volesse trascinare a fondo con lui. E per farlo, aveva ben pensato di lasciare le sue robuste navi lì, ad uso e consumo di quei cani rabbiosi che ancora si facevano chiamare Tolomei...
 Un'onda diede uno scossone alla nave. Cesare, come molti altri accanto a lui, si trovò in ginocchio.
 Chiuse un istante gli occhi, mentre la testa gli girava a causa del colpo. Capì in quel momento che se fossero stati speronati, il colpo sarebbe stato tanto forte da sbalzarlo fuori e, nella peggiore delle ipotesi, da distruggere la nave.
 Con le mani che tremavano, ancora in ginocchio, cominciò a slegare i lacci della piastra pettorale. Voleva fare in fretta, perchè sapeva che, con il vento a favore del nemico, lo scontro sarebbe stato a breve.
 Quando finalmente anche l'ultimo nodo smise di opporre resistenza, Cesare si rialzò, scoprendo di essere stato l'ultimo a essersi rimesso in piedi in piedi.
 I suoi occhi corsero febbrili al muro di legno che ormai era tanto vicino da sembrare la cinzioni di una città, e le sue gambe agirono prima che la sua mente potesse dare ordini.
 Corse in coperta e recuperò quello che aveva di pià caro, le sue memorie. Le aveva caricate a bordo nell'assurda speranza di riuscire a forzare il blocco.
 I fogli erano ruvidi, sotto le sue dita e parevano voler scappare, come se sapessero cosa attendeva, sopra il ponte.
 Prese anche il suo mantello, solo per non lasciarlo alla mercè del nemico, per non dare loro la soddisfazione di averglielo fatto perdere.
 Risalendo all'aria aperta con fatica, tenendo il blocco di appunti con entrambe le mani, Cesare sentì nettamente l'odore del sale e il sapore del vento.
 Era tanta, l'acqua di mare che si alzava dalle creste ondose, che per un momento pensò che si fosse messo a piovere.
 Non fece in tempo a mettere l'ultimo piede sul ponte, che la nave fu percossa da un tremito strano, come se avesse cercato di fare una manovra repentina e disperata.
 Lanciò uno sguardo al timoniere e lo vide cercare con tutte le forze di tenere la rotta, ma era evidente che i suoi muscoli non avrebbero retto.
 Sentì gridare. Un insieme di urla di paura e urla di furore, in parte nella sua lingua in parte nella dura lingua della terra egiziana.
 Non voleva vedere, ma si costrinse a farlo. Quando girò il capo verso quelle voci che si spandevano nel fracasso delle onde e del vento, ebbe il tempo di vedere il rostro enorme di una nave di Pompeo irrompere sul fianco della sua.
 Come aveva previsto, il colpo fu tanto forte che tutti gli uomini che si trovavano vicino al parapetto caddero subito in mare.
 Lui cadde in ginocchio, di nuovo, incapace di parare il colpo anche coi palmi delle mani a causa dei fogli che stringeva al petto.
 Teneva ormai il mantello stretto tra i denti, nella paura irrazionale di farlo cadere e di perderlo per sempre.
 Sentì uno strano suono, come di un albero che si spezzava... Ero lo scafo che si stava aprendo in due.
 Intanto, dal rostro nemico, cominciavano a piovere insulti e armi da lancio, lance e grida di guerra.
 Cesare si rimise in piedi, mentre sentiva le lame sfiorarlo e sfilargli accanto, sempre più temibili e vicini.
 Corse fino al bordo della nave. Ebbe una breve esitazione, ma quando una punta di lancia gli passò così vicino da sfilacciargli una frangia della tunica, non trovò altri motivi per indugiare.
 Fece per saltare, ma ormai il mare si stava avvicinando inesorabile, mentre l'imbarcazione si inabissava.
 Chiuse gli occhi e trattenne il fiato, stringendo i denti per non perdere il mantello, tenendo alti i suoi amati appunti, le sue memorie, tutto quello che lui era stato e sarebbe stato per i posteri.
 Il mondo girava attorno a lui, sbatteva contro cose pesanti, contro corpi che si contorcevano, contro teloni e tuniche...
 La prima boccata d'aria fu come nascere di nuovo. Gli infiammò i polmoni e gli ridiede la luce degli occhi.
 Però aveva perso il mantello. Lo trovò ancora lì, che galleggiava al suo fianco. Lo riafferrò coi denti, non badando alla difficoltà di prendere fiato, né alla fatica che avrebbe fatto per non lasciarlo scappare di nuovo.
 Teneva le braccia alte, per tenere il più possibile all'asciutto le sue pagine di vita e storia. Nuotare così era difficilissimo.
 I sandali lo impacciavano ancora di più e mentre cercava di farsi largo tra i detriti e di non fasi risucchiare dalla corrente causata dalla nave in affondamento, si pentì di non esserseli tolti come aveva fatto con il pezzo di armatura.
 Si dirigeva, alla velocità massima permessa dalla sua condizione, alla sua nave più vicina, che distava almeno duecento passi.
 Mentre lottava contro le onde e contro gli spuntoni di legno che si trovava davanti da un momento all'altro, cercava di ordinare la ritirata, ma, ogni volta, come se il Dio del mare in persona lo stesse zittendo, l'acqua salata gli entrava in bocca, mettendolo a tacere, così come faceva la stoffa, ormai pregna di sale, del mantello.
 Alla fine, stremato, arrivò accanto alla nave. I suoi lo avevano visto da un po' e lo aiutarono a salire a bordo.
 Cesare diede subito i fogli e il mantello a un marinaio, ordinando: “Portali subito al coperto e asciugali!”
 Dopo di che si rivolse al più alto in grado e ululò: “Torniamo in città! Ritirata! Torniamo in città!”
 E mentre tutte le poche navi rimaste facevano manovra, dichiarandosi momentaneamente sconfitte, le navi egiziane restarono in attesa, forse indecise se dare o meno il colpo di grazia.
 Cesare, bagnato fradicio e ferito nell'onore anche se non nel corpo, guardò il muro di legno contro il quale il suo sogno di scappare si era infranto allontanarsi sempre di più.
 Respirava affannosamente e sentiva dolere ogni singolo muscolo del suo corpo. Almeno era ancora vivo, di questo avrebbe dovuto rallegrarsi.
 Una volta al sicuro, Cleopatra lo avrebbe di certo consolato. E poi lo avrebbe convinto a riprovarci...
 Strinse gli occhi e scosse il capo. Non doveva più permetterle di influenzarlo così tanto. Doveva ricominciare a pensare solo con la sua testa.
 Una nuvola solitaria coprì un momento il sole. Cesare guardò in cielo e si chiese se mai ci fosse un significato nascosto, in quell'avvenimento.
 Non si curò più delle navi nemiche. Voltò loro le spalle e andò a vedere come procedeva l'asciugatura del suo mantello e dei suoi scritti.
 In fondo, pensò, aveva perso una battaglia, non la guerra.
 L'unica cosa che lo tormentava, a riguardo, era pensare a come sarebbe stata ricordata quella giornata. Avrebbero parlato di una grande sconfitta? Di una scaramuccia finita male? Di una semplice prova per saggiare la forza del nemico?
 Oppure avrebbero solo ricordato un Cesare infantile e caparbio che era saltato giù da una nave, nuotando per duecento passi con un mantello tra i denti e le braccia alzate per tenere all'asciutto i suoi amati libri?
 

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Capitolo 10
*** L'attesa ***


~~ Il rumore ovattato della suola dei suoi sandali sul pavimento levigato dalle migliaia di passi che aveva dovuto sopportare nel corso degli anni riempiva ogni angolo della stanza.
 Non c'erano notizie certe. Si sapeva solo che la fuga non era riuscita, che il blocco non era stato sfondato. E Cesare ancora non tornava.
 Le voci erano pessime. Si parlava di navi distrutte, navi colate a picco tra le onde, altre ancora rimaste integre, ma catturate dal nemico e quindi perse.
 E nessuno le aveva ancora detto che ne era stato di Cesare. No, nessuno le voleva dire nulla di quello che era successo a Cesare.
 Era vero, non si poteva dire cosa gli fosse accaduto di preciso solo guardando lo scontro da lontano. Nessuno aveva occhi tanto fini da poter vedere un solo uomo in mezzo al sangue e al sale, tra i legni che si spezzavano e le grida che assordavano più della risacca.
 E quindi poteva solo aspettare.
 Aspettare, esattamente come facevano le mogli o le amanti dei soldati comuni, come quelle donne alle quali nessuno di prendeva la briga di andare a riferire notizie sul proprio amato.
 L'uomo tornava? Allora se l'era cavata.
 L'uomo non tornava? Allora non se l'era cavata.
 Per tutte loro non c'erano celeri messaggeri o attendenti solerti, pronti a tutto pur di rassicurare o consolare chi era rimasto a casa.
 C'era solo l'attesa. Un'attesa che a volte finiva in pochi giorni e che altre volte non finiva mai.
 Lei aveva visto coi propri occhi donne aspettare fino a diventare vecchie e grigie, fino a non avere più fiato in corpo, fino ad essere così decrepite da non riuscire più a ricordare nemmeno chi o perchè stavano aspettando da tutta la vita.
 Le più fortunate non sopravvivevano all'attesa e un bel giorno il loro cuore smetteva di battere.
 Cominciava a credere che anche a lei sarebbe toccata la stessa sorte. O, se il fato fosse stato tanto crudele da volerla condannare a una vita lunghissima, allora ci avrebbe pensato lei a porre fine al proprio dolore. Conosceva molti veleni, ne avrebbe scelto uno dolce, di quelli che fanno addormentare lentamente e così avrebbe raggiunto negli inferi il motivo del suo patire e sarebbe finalmente stata guarita.
 “Mia regina...” la voce di Apollodoro Siciliano risvegliò Cleopatra dal buio dei suoi pensieri.
 “Dimmi.” fece lei, senza guardarlo.
 Lo schiavo entrò e si prese il suo tempo, prima di dire: “Sostengono che la nave di Cesare sia una di quelle affondate.”
 Cleopatra non commentò, guardando in terra. Il cuore le batteva con forza, ma qualcosa le diceva che non poteva già essere tutto finito.
 “Di lui non ci sono notizie certe per ore. Possiamo solo...”
 “Aspettare.” concluse Cleopatra, con la voce roca e la testa pesante.
 Congedò subito Apollodoro, perchè sapeva bene che se si fosse fermato troppo a lungo avrebbe finito per dirle cose che lei non voleva sentire.
 Le avrebbe detto che, comunque, avevano ancora qualche soldato e qualche nave di Cesare. Avrebbe detto che, in ogni caso, i sostenitori di Cesare a Roma le avrebbero garantito il loro appoggio. Le avrebbe detto che, anche senza Cesare, l'Egitto sarebbe sempre stato il suo regno.
 Erano tutte cose che lei voleva con tutta se stessa, l'esercito e le navi, il sostegno degli alleati romani, il Regno d'Egitto... Ma ormai le bastavano più.
 Lei li voleva a patto di poter avere anche Cesare.
 I secondi divennero minuti e i minuti ore. Quando la notte cominciò ad affacciarsi sul giorno portando un'agognata frescura – che da troppe notti mancava – Cleopatra oramai non aveva più speranze.
 Non aveva mangiato nulla per tutto il giorno ed aveva appena assaggiato la coppa di garum che Apollodoro le aveva premurosamente portato.
 Le era bastato quel sorso per pensare a Cesare e alle sue memorie belliche di quando aveva combattuto in Gallia...
 Quello era il sapore che aveva il vino che lui aveva sorbito durante le lunghe attese pria della battaglia o mentre aspettava la risposta di questo o quel nemico a questa o quella richiesta di un patto?
 Forse no. Eppure per lei era così, quella sera.
 Era tanto sicura che di lì  poco qualche soldato sarebbe entrato a dirle che Cesare era morto, che nemmeno si voltò quando udì alle sue spalle il suono di passi stanchi e dell'elsa di un gladio che batteva contro il cintola di un romano.
 “Sono qui.” disse l'ultima voce che Cleopatra si sarebbe attesa.
 Non riuscì subito a voltarsi e fu un bene, perchè ciò le diede il tempo di asciugarsi una furtiva lacrima e chiudere la bocca, che si era spalancata per la sorpresa e l'incredulità.
 Quando finalmente riuscì a girarsi, si ritrovò di fronte Cesare.
 Cesare. Il suo Cesare. Vivo. Sì, vivo...
 Le parve invecchiato di almeno dieci anni, ma ancora vitale e vigile. Era spettinato, con quei pochi capelli che di solito coprivano la sua calvizie ritti in piedi. Indossava una semplicissima tunica di lino con il gladio al fianco e un plico voluminoso sotto al braccio.
 “Sono quasi morto oggi – disse lui, senza intonazione – ma non potevo permettere che le mie memorie morissero con me.” aggiunse, a mo' di spiegazione, porgendole i fogli.
 Erano stropicciati e un po' umidi.
 Cleopatra li prese con delicatezza, come se temesse di danneggiarli ulteriormente e li poggiò con cura sul tavolo più vicino.
 Poi tornò a guardare Cesare: “Credevo di non rivederti più...” disse, parlando in egiziano, come ogni volta in cui era soprappensiero, troppo stanca o troppo sconvolta per qualcosa.
 Tradusse subito in latino, in modo che il romano capisse bene cosa gli aveva detto.
 Cesare non aveva espressione. Anche dopo aver udito quelle parole, il suo volto restava impassibile e vuoto. I suoi occhi scuri e profondi la squadravano come se non la conoscesse.
 “Anche io credevo di non rivederti più.” ammise il romano, dopo un po'.
 “Siediti. Riposati...!” disse lei, rendendosi improvvisamente conto di quanto lui dovesse essere stanco e stremato, sfinito, dopo una giornata del genere, dopo essere quasi morto: “Ti faccio portare qualcosa... Un po' di cibo, magari, del vino, una brocca d'acqua...”
 Gli occhi di Cesare ebbero un guizzo divertito che la lasciò interdetta.
 “Di acqua, per oggi, ne ho già bevuta troppa.” fece il romano, mentre il suo viso stravolto si apriva in un sorriso sincero e sollevato.
 Anche Cleopatra, dopo qualche secondo di smarrimento, sorrise e poi rise e infine scoppiò a piangere tra le risate, correndogli tra le braccia e stringendolo forte a sé.
 “Non credevo di avere così tanta voglia di rivederti.” disse lei, soffocata dal misto di emozioni che provava in quell'istante.
 “E io non credevo di avere così tanta paura di non poterti più vedere...” confessò il romano, in un sussurro bisbigliato contro l'orecchio liscio e perfetto della sua Cleopatra, della sua Regina dei Re.
 

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Capitolo 11
*** Rosso di sangue ***


~~ Dopo l'arrivo dei rinforzi, giunti a Pergamo, Cesare passò giorni interi preda della più irrefrenabile frenesia.
 Era il momento di forzare davvero l'assedio e distruggere ciò che restava dell'esercito dei fratelli di Cleopatra.
 Quando ricevette la notizia della fuga di quei due, non potè fare a meno di sentire quello strano formicolio che lo prendeva ogni volta che una vittoria era a portata di mano.
 Senza aspettare oltre, malgrado Cleopatra, proprio in quel momento, mostrasse qualche perplessità, Cesare si decise a sferrare l'attacco decisivo.
 “Mi raccomando, romano.” disse Cleopatra, mentre Cesare si preparava a salpare per forzare una volta per tutte il blocco navale messo in piedi da Arsinoe IV e Tolomeo XIII: “Cerca di non farti uccidere.”
 Cesare rise piano, come se trovasse incantevole il candore con cui la sua amante gli aveva parlato.
 Tanto bastò ad accendere l'animo di Cleopatra, che gli afferrò i polsi, distogliendo la sua attenzione dalla daga che si stava sistemando al fianco: “Non sto scherzando. Se tu muori, io sono finita. Mi sono compromessa troppo.”
 Cesare non rise più: “Bene, vedo che finalmente hai davvero paura.”
 Cleopatra gli lasciò andare i polsi. Che ne sapeva lui, della paura che lei aveva provato per tutto il tempo, fin da quando era nata?
 “Vedi, Cleopatra...” riprese Cesar, tornando a sistemarsi l'arma al fianco, leggermente pentito per la durezza con cui aveva parlato: “Questa è una guerra e se cè una cosa che ho capito, nei molti anni che ho passato in guerra, è che nessuno può non avere mai paura mentre è in guerra. Chi sostiene di non averne, o delira o mente. E a paura, assieme al dolore fisico, sono i tuoi migliori alleati, mentre sei sul campo, ricordatelo.”
 “Anche io ho fatto una guerra, se l'hai dimenticato.” disse Cleopatra, irritata dal tono paternalistico che Cesare aveva usato: “Anche se col mio fratellastro non volevo arrivare a tanto, prima che tu arrivassi, avevo mosso un esercito contro di lui.”
 “E avevi avuto paura?” chiese Cesare, ormai pronto per partire.
 “Sì. E non immagini quanta.” rispose Cleopatra: “E sono sopravvissuta, quindi sappi che non è per me che provo paura. Se è questo che pensi, devo essermi espressa male, prima.”
 Cesare chiuse il morso e la fissò a lungo.
 “Adesso devi andare.” disse l'egiziana: “I tuoi uomini ti aspettano.”
 Cesare la strinse a sé, senza trovare resistenza, ma nemmeno entusiasmo.
 “Qualcosa non va?” domandò, gli occhi a pochi centimetri da quelli della donna che l'aveva convinto a salvare l'Egitto per salvarle la vita.
 Cleopatra scosse appena il capo e gli diede un veloce bacio sulle labbra, per poi allontanarsi da lui con un semplice: “Non farti uccidere.”
 
 Il Nilo si tinse di rosso e l'acqua salmastra del mare si mescolò al sangue di vincitori e vinti, formando un'onda impetuosa che inghiottì per sempre Tolomeo XIII e i suoi sogni di gloria.
 Le navi romane avevano distrutto la flotta del sedicente faraone e veleggiavano verso Roma, gonfie le vele di patria e libertà.
 Ora l'azzurro del mare sembrava una tavola tranquilla e accogliente e il sale che si alzava col vento si posava sulle labbra di Cesare come l'ultimo bacio che aveva ricevuto da Cleopatra.
 L'uomo non vedeva l'ora di toccare terra e mandare dei messaggi alla sua donna, e dirle di correre subito a Roma, di raggiungerlo e si prepararsi a essere accolta come una vera regina.
 Però sapeva che la cautela era tutto, quindi prima si sarebbe sincerato sulla situazione della repubblica e solo dopo le avrebbe scritto di partire.
 Era stato via troppo tempo, per i suoi gusti, e non poteva essere certo di trovare la stessa Roma che aveva lasciato. Senza contare che a casa lo attendeva una moglie. Moglie che forse lo detestava già, ma che comunque l'avrebbe di cert disprezzato, dopo aver saputo la verità sulla sua campagna egiziana.
 Prima di partire, Cesare aveva fatto in modo che Cleopatra sposasse il suo fratellastro minore, inoffensivo e malleabile, in modo tale da essere completamente legittimata agli occhi del suo popolo.
 Avendo annientato l'esercito di Tolomeo XIII, non gli restva che assicurarsi della propria posizione a Roma e poi era fatta. Era riuscito laddove molti prima di lui avevano fallito: aveva creato un impero sconfinato, che prendeva il legno dalle foreste del nord e il grano dalle pianure al di là del mare.
 Cesare si passò la lingua sulle labbra, assaporando la salsedine con lentezza, perdendosi nei ricordi dei giorni passati pigramente tra le mura del palazzo di Cleopatra.
 “Cesare – lo chiamò uno dei soldati – stiamo aspettando ordini!”
 Cesare annuì, passandosi il dorso della mano sulle labbra e ritornando a concentrarsi sui problemi immediati.

 “Ne siete certi?” chiese Cleopatra, immobile, guardando i due soldati che le stavano davanti in un modo che avrebbe fatto cedere anche il più abile dei bugiardi.
 Uno dei due uomini accennò un sorriso: “Ne siamo più che certi. Ora Cesare è in mare, alla volta di Roma.”
 “E di mio fratello cosa mi dite? Davvero è rimasto ucciso?” domandò la donna, accigliandosi appena.
 “Così sembra, mia signora.” fece il secondo soldato: “Dicono che si sia inabissato e che non sia più tornato a galla.”
 Quella sì che era una fine adatta al suo fratellastro. Con il suo corpo, quell'acqua avrebbe cancellato anche il suo nome, per sempre. Cleopatra voleva fare in modo che il mondo intero non sapesse mai che una volta un certo Tolomeo XIII aveva camminato sulla Terra.
 “Quando avrete altre notizie, tornate da me.” ordinò Cleopatra, congedando con un gesto rapido della mano i due soldati.
 Si mise seduta su uno sgabello da campo, lasciato lì da Cesare e cominciò a pensare a cosa sarebbe accaduto nei mesi a venire.
 Lei era la Regina d'Egitto, sposata ufficialmente al suo fratellastro minore, ma tutti sapevano che si trattava solo e unicamente di una copertura.
 Voleva andare da Cesare il prima possibile, anche se lui a Roma aveva moglie e impegni, anche se i romani non l'avessero subito accettata. Sarebbe stata capace di farsi amare, come sempre. E se non ce l'avesse fatta, allora avrebbero conosciuto una faccia ben diversa, che mostrava a pochi. Avrebbero conosciuto tutti la Cleopatra capace di testare i veleni sui condannati a morte, quella che li ascoltava lamentarsi per il dolore, cercando di capire quale veleno fosse più rapido, quale causasse più tormenti, quale...
 “Chi è?” chiese Cleopatra, scattando in piedi, quando sentì dei passi alle sue spalle.
 Apollodoro era entrato senza annunciarsi e ora se ne stava a un paio di metri da lei in silenzio. La guardava di sottecchi, il volto scuro e le mani strette l'una nell'altra.
 “Sei tu...” soffiò Cleopatra, tornando a rilassarsi. Da quando Cesare era partito, ogni rumore la faceva sobbalzare. In fondo, finché il romano era stato con lei, aveva potuto contare di una protezione in più che ora le mancava.
 Apollodoro ancora non diceva nulla, mentre nei suoi occhi si affacciavano nuvole ch Cleopatra non vedeva da tempo.
 “Come mai sei qui?” chiese allora la giovane, facendogli segno di accomodarsi accanto a lei sul tappeto steso accanto al tavolo basso: “Ci facciamo portare qualcosa da bere?”
 “Partirai anche tu per Roma, vero?” chiese Apollodoro, senza muoversi di un millimetro.
 Cleopatra alzò lo sguardo verso di lui e aggrottò la fronte: “Lo dici come se non l'avessi saputo fin dall'inizio. Vuoi che ti ricordi chi ha avuto l'idea vincente che mi ha fatto entrare nelle grazie di Cesare nel giro di una notte?”
 “Entrare nelle grazie...” ripeté Apollodoro, con una specie di ghigno che si faceva largo sul suo volto.
 Cleopatra si rimise in piedi e cercò di raddrizzare il più possibile la schiena, mentre si poneva proprio di fronte a quello che era sempre stato il suo più fidato consigliere e amico.
 Quella sera la Regina dei Re indossava una tunica di lino bianca, semplice, fermata in vita da una sottilissima cintura di cuoio. Apollodoro cercava di non guardare le sue forme, più che intuibili sotto la stoffa leggera, tentava con tutto se stesso di non lasciarsi distrarre dal profumo speziato e dolce che la circondava e si sforzava di non lasciarsi sciogliere dalla voce un po' roca che le usciva dalle labbra.
 “Tu lo sapevi dall'inizio come sarebbe andata a finire.” gli disse Cleopatra, tanto vicina che quasi lo sfiorava: “Lo sapevi forse più di me.”
 Detto ciò, Cleopatra si sentì sopraffare da tutto quello che era successo negli ultimi tempo e le braccia lunghe e sicure di Apollodoro le parvero l'unico rifugio possibile. L'abbraccio, sperando di trovare conforto, invece sentì solo freddezza e distacco. Così, con la morte nel cuore, si staccò e si allontanò appena.
 Apollodoro strinse il morso e si specchiò nei suoi occhi scuri e infiammati: “Hai ragione, sapevo quello che avreste fatto, però... Credevo che però non te ne saresti innamorata.”
 Cleopatra abbassò lo sguardo: “Non sono discorsi che un servo deve fare davanti alla sua padrona.”
 Apollodoro, allora, si irrigidì e disse, veloce e velenoso: “Hai ragione. Un servo non deve provare sentimenti, né dare consigli. Altrimenti ti direi che è tutto un gigantesco errore e che non devi andare a Roma, se non vuoi finire in una trappola che ti porterà alla rovina.”
 Cleopatra alzò una mano, ma non lo colpì. Si fermò perchè la rabbia che provava era tale che non si sarebbe placata con un semplice schiaffo.
 “Sei stato un ottimo servo, Apollodoro.” sussurrò Cleopatra, facendo con enfasi un passo indietro: “Ma a Roma non mi sevrirai.”
 “Parli per rabbia – la contraddisse l'uomo – aspetta a prendere certe decisioni.”
 “Tu mi hai fatta arrabbiare e non credo che in futuro eviterai di farlo di nuovo. Non mi serve uno come te.” scosse il capo Cleopatra.
 Apollodoro chinò il capo e sospirò in modo lento e carico di risentimento.
 “Ti ringrazio per gli anni che hai trascorso al mio fianco, sei stato un vero amico.” concluse Cleopatra, a mo' di congedo.
 “Dicono che il mare e il Nilo si siano tinti di rosso, oggi.” fece Apollodoro, con un tono molto strano: “Attenta a giocare coi romani, o la prossima volta potrebbe essere il tuo sangue a tingere di rosso le nostre acque.”
 “Meglio che tu non dica più niente, per stasera.” disse Cleopatra, irritata, indicandogli la porta col braccio e accompagnandolo all'uscita.
 Apollodoro le afferrò il braccio che teneva teso e la guardò a lungo negli occhi. Cleopatra non si era mai resa conto appieno della forza di quell'uomo. Improvvisamente, ne aveva paura.
 “Hai ragione, mia regina.” fece Apollodoro, quasi ringhiando: “E complimenti per i tuoi successi.”
 Le lasciò il braccio di colpo e uscì di corsa dalla stanza, lasciando Cleopatra sola a chiedersi cosa mai fosse successo quella sera tra loro due.

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