Cinque secondi per Spyro

di Mannu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Cinque secondi per Spyro
1.

Il trillo dell'allarme di prossimità lo ridestò di soprassalto. Bestemmiò in silenzio: si era riproposto di non addormentarsi. Resistette all'impulso di frenare manualmente e controllò tutta la telemetria, cercando disperatamente di sgombrare il cervello dal torpore che lo aveva invaso.
La stazione era ancora lì. Piattaforma, si corresse subito. Era di poco più piccola di Niharra, da dove si era lanciato circa cinque ore prima. Ma sugli strumenti appariva molto grande a causa della distanza ridotta. Lanciò il segnale di richiesta di aggancio cui fece subito eco quello di conferma. Si rilassò sentendo la cimice animarsi di vita propria. Telecomandata dai sistemi della piattaforma che l'avrebbero portata a un ancoraggio dove sarebbe stata disassemblata e scaricata. Mahmet me la farà pagare cara, pensò con poco rammarico ma contento di essere uscito da una situazione che minacciava di diventare davvero brutta.
Credeva d'aver capito come funzionava la cimice, quello sgraziato veicolo dalla vaga sembianza d'insetto con un ventre spropositato, usato per raccogliere l'idrogeno dall'atmosfera di Giove. Quello era il suo ottavo salto, termine usato dai j-diver, come venivano chiamati i piloti di cimici, per indicare una missione di raccolta. Normalmente ogni salto prevedeva sia l'andata che il ritorno e proprio quest'ultimo aveva rischiato di venire meno. Poco dopo essere transitato attraverso la tropopausa, dove la stratosfera muta in troposfera e dove si comincia a trovare l'idrogeno migliore, la sua cimice era stata investita da correnti fortissime. La deriva era stata notevole: se l'era vista brutta. Aveva consumato gran parte della sua riserva di energia per non farsi travolgere e cercare di stare in quota. La manovra, il calore, la tensione e la paura l'avevano spossato. Quando finalmente il serbatoio si era riempito, raccattando chissà quali schifezze, aveva dovuto lottare anche per riemergere nella più tranquilla termosfera. Alla fine la deriva era risultata tale che Niharra era tramontata, divenendo irraggiungibile con l'idrogeno che gli era rimasto per alimentare il motore nucleare.
Gli spartani strumenti della cimice segnalarono l'inizio della fase finale dell'approccio alla piattaforma. Subito dopo sentì i rumori a cui stava cercando di abituarsi, deducendo di volta in volta da essi le diverse attività del veicolo: dall'orientamento degli ugelli degli scarichi vettoriali fino alla sonora botta della flangia di attracco che veniva agganciata e pressurizzata. Pensò con nostalgia al Raja, la sua nave, così grande da permettergli di ascoltare il lieve ronzio degli strumenti e il sospiro del climatizzatore anche durante il volo FTL.
Iniziò le procedure per uscire dalla cimice rassegnato a subire ogni conseguenza. Non aveva avuto contatti con nessuno della piattaforma: non avevano risposto a nessuna delle sue chiamate. Stanco, indolenzito e discretamente puzzolente: nonostante gli abiti succinti, la temperatura raggiunta nell'abitacolo della cimice lo faceva sudare abbondantemente. Gli avevano più volte assicurato che era tutto normale e che non c'era altro che si potesse fare, ma aveva ancora parecchie remore ad andarsene in giro così conciato. Aveva notato che i forti odori corporei a bordo della Niharra erano perennemente presenti e abbondantemente tollerati, ma non era certo che fosse così a bordo di ogni altra piattaforma. Quando dal portello in fase di apertura penetrò nell'abitacolo un getto di aria gelida e stantia, puzzolente di polvere e di lubrificante, pensò che forse nessuno si sarebbe accorto di lui. O forse abituati a questo odore se ne accorgeranno più facilmente, si disse puntando i piedi sui gradini della scaletta che conduceva fuori dell'abitacolo.
Si strinse le braccia al petto e unì subito le ginocchia: il freddo era micidiale. Aveva di fronte a sé un tunnel di collegamento, almeno così sembrava, terminante con un portello stagno chiuso. Non era certo vestito adeguatamente per quella temperatura ma sospettò che nemmeno se avesse avuto la sua bella uniforme da secondo ufficiale sarebbe stato meglio. Corse come poté fino al portello che si aprì stentatamente. Deve essere un bel po' che non usano questo approdo, pensò attendendo ansiosamente che il portello scorresse di lato. Quando ci fu spazio a sufficienza passò, senza attendere il completamento dell'apertura: aveva troppo freddo.
Comprese l'origine di quel rumore sferragliante alle sue spalle un istante dopo che uno strano congegno penzolante dal soffitto si fu fermato a pochi centimetri dalla sua testa. Qualcosa ronzò al suo interno e un braccio meccanico si abbassò, terminante con quella che sembrava una gruccia appendiabiti rotta. Dopo pochi secondi il braccio storto si ritrasse e il congegno ripartì sferragliando nella monorotaia incassata nel soffitto. Notò che alcune parti interne si erano staccate e penzolavano attaccate ai cavi di collegamento attraverso un pannello mancante. Il lampeggiatore che per legge doveva segnalare il meccanismo in movimento, accompagnato da un segnale acustico intermittente, non funzionava.
Domato il batticuore per lo spavento diede uno sguardo intorno. Si trovava in un corridoio palesemente curvo, apparentemente un anello. Era da decenni che non si facevano più in quel modo i moli di attracco: erano pericolosi e poco affidabili, oltre a non consentire l'attracco di navi grandi. Molte delle lampade erano guaste e l'ambiente, freddo e puzzolente di aria filtrata male, era anche piuttosto buio. Pensando molto male degli occupanti, così svogliati da trascurare anche i più elementari compiti di manutenzione, cercò una porta che conducesse fuori dall'attracco, nella porzione abitata della piattaforma. Gli parve chiaro infatti che non vi era un vero e proprio hangar come su Niharra. La tecnologia e i materiali impiegati per la costruzione di quella struttura apparivano parecchio datati. Tutte le piattaforme e le stazioni più piccole erano ora modulari: più economiche, più rapide da assemblare, più facili da riparare, da espandere e da rimpicciolire a seconda delle esigenze. Quel posto invece pareva realizzato tutto in un blocco solo.
Trovò le estremità della monorotaia: il congegno scassato che penzolava da quella si era fermato a qualche metro dal fine corsa e giaceva immobile. Dalle condizioni in cui versava il paracolpi di gomma, era facile intuire cosa avesse ridotto il meccanismo in quelle pietose condizioni in cui versava. C'erano ancora i pezzi per terra, lì intorno. La monorotaia che evidentemente percorreva per intero il soffitto del corridoio anulare, si infilava attraverso una paratia stagna. La rotaia era fatta in modo tale da non ostacolarne la chiusura.
Anche quel portello faticò a scorrere di lato per farlo passare, rivelando però un ambiente un poco più caldo. Lo stato di abbandono era il medesimo: polvere a fiocchi ovunque, armadi svuotati, tavoli spostati, oggetti abbandonati. C'era un computer sventrato su un tavolo, un vecchio schermo piatto con un adesivo su cui si leggeva ancora la scritta “guasto”, un calendario appeso alla parete. Quest'ultimo richiamò la sua attenzione per via dell'ologramma piatto che ritraeva una procace donna completamente nuda. Occupava l'intera pagina confinando il calendario vero e proprio in un angolo. Era vecchio di tre anni.
Era chiaro che quella porzione di piattaforma non veniva più usata, ma cominciarono a venirgli i primi dubbi. Gli strumenti della cimice erano piuttosto elementari e non potevano certo analizzare a distanza tanto in profondità da capire in anticipo come poteva essere fatta la piattaforma. Se fosse stato a bordo del Raja avrebbe potuto eseguire una termografia, analizzare le emissioni magnetiche, usare il radar per capire forma, dimensioni e livello di attività della struttura molto prima di attraccare. Aveva anche un bel telescopio a bordo che era tornato utile già più di una volta: spesso l'osservazione diretta era rivelatrice. Ma quella piattaforma, per quanto grande potesse essere, non poteva essere sotto organico fino al punto da smantellare completamente la zona di ricezione delle merci, uffici compresi. E se quel calendario era stato aggiornato fino all'ultimo, la situazione era invariata da tre anni abbondanti.
Le conseguenze gli piovvero addosso pesantemente una dopo l'altra. La struttura poteva essere abbandonata: nessuno l'avrebbe rifornito, nemmeno a pagamento. Non avrebbe più lasciato l'ormeggio dove gli automatismi di bordo lo avevano agganciato. Senza equipaggio la piattaforma era priva di manutenzione e quindi pericolosissima; ma soprattutto era abbandonata all'abbraccio di Giove, un rottame tra le dita del grande spazzino del sistema solare. Famoso per non scartare nulla di ciò che gli capita a tiro che non abbia velocità a sufficienza per sfuggirgli. Concludendo: era seduto su una bomba a orologeria in caduta libera verso Giove. Si sarebbe messo a ridere per quell'immagine che gli aveva appena attraversato il cervello, se non fosse stato per il fatto che la situazione era davvero quella.
Decise di attraversare la zona degli uffici per vedere se riusciva a tornare nel corridoio ad anello: voleva cercare gli altri approdi per vedere se vi erano navi o veicoli di qualche genere ormeggiati. Ignorò una sorta di salotto dove erano rimaste solo due sedie rotte, una zona ristoro con i tubi dell'acqua chiusi da cappucci improvvisati col nastro isolante e i segni dei mobili sulle pareti a ricordare la disposizione originale dell'arredamento. Ignorò anche una scala a chiocciola e un montacarichi spento, limitandosi ad annotare mentalmente la presenza di un livello superiore e di uno inferiore. Tutti i locali erano stati svuotati, i mobili traslocati, gli oggetti rotti o inutili abbandonati.
Tossì. Aveva la gola irritata. Perché stava respirando con la bocca? Non riusciva a inspirare abbastanza dal naso che prudeva. Polvere. Polvere ovunque. Si voltò indietro e vide distintamente alla luce azzurrastra dei tubi sopravvissuti che la polvere galleggiava nell'aria, sollevata dai suoi movimenti. Il suo sguardo cadde sul pavimento, seguì a ritroso le proprie impronte nella polvere e nella sporcizia accumulate sul pavimento. Un tuffo al cuore, il respiro paralizzato per un lunghissimo istante di spavento. Le impronte si incrociavano con altre che uscivano da un locale dove era certo di non aver messo piede. Si avvicinò con cautela, osservando le tracce. Le impronte lasciate dalle suole lisce delle sue ciabatte sembravano rimpicciolire di fianco a quelle di uno stivale da combattimento. La polvere era così fine da recare impresso il simbolo dei marine coloniali, ben riconoscibile.
Militari, si disse serrando le labbra per il disappunto. Non poteva sapere se l'impronta era recente o no: non era in grado di valutarlo. La sua sensazione di impotenza lo tormentava sempre più: si trovava su una piattaforma orbitale presumibilmente del tutto abbandonata, abbigliato come se si trovasse in vacanza al mare ad al-Idun, esposto a temperature polari e ai veleni di un'aria non filtrata. Nudo e indifeso e da qualche parte, forse, c'erano perfino dei soldati. Si drizzò in piedi strofinandosi le braccia per cercare calore. Dopo qualche istante di riflessione decise di seguire la sua idea originale: capire se vi fosse un altro veicolo ormeggiato. Solo negli olofilm il protagonista si sarebbe messo a seguire le impronte lasciate da estranei, finendo inevitabilmente in mezzo ai guai. Non aveva bisogno di ulteriori problemi: gli bastavano quelli che già aveva.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Cinque secondi per Spyro
2.

Vagò cercando di fare meno rumore possibile fino a quando si imbatté in un portello stagno. Esitò con la mano sul pulsante di apertura: il meccanismo avrebbe fatto molto rumore. Gli altri due portelli stagni avevano addirittura faticato ad aprirsi a causa del prolungato inutilizzo, gemendo e stridendo per la mancanza di lubrificazione. Se c'erano militari a bordo sarebbero accorsi senza dubbio. Dubitava che vedendolo abbigliato in quel modo poco appropriato avrebbero colto il lato umoristico della situazione. I militari spesso dimostravano di possedere lo stesso senso dello humor delle armi che impugnavano. Lo sapeva bene: era stato lui stesso un soldato.
Premette il pulsante. Doveva trovare il centro di comando di quel posto, o almeno il ponte di controllo delle strutture di ormeggio. Con un po' di fortuna sarebbe riuscito a rifornire la cimice e a ripartire. O a lanciare un segnale di soccorso. Con la speranza che, se avesse incontrato i soldati, gli permettessero di spiegarsi senza prima ridurlo a un colabrodo.
Come previsto sbucò nel corridoio anulare. Subito di fronte a lui trovò un portello stagno diverso dagli altri, più grande. Già aperto. Si vedevano il vano illuminato di un montacarichi e i primi gradini di una rampa di scale: un chiaro invito a esplorare in quella direzione. Non si fece pregare: salì le scale in silenzio ignorando il montacarichi che pure sembrava attivo.
L'aveva trovato. Se fosse il centro di controllo dell'intera piattaforma o solo della porzione riservata agli attracchi non poteva dirlo. Anche quei locali avevano subito la stessa sorte di quelli che aveva già visitato: un trasloco pressoché completo. Istintivamente si guardò intorno e poi volse gli occhi al pavimento. Qui le tracce erano tali che la polvere era scomparsa dalla porzione centrale del pavimento: c'erano tracce di scarponi ovunque, e solchi di ruote. Recenti, avrebbe detto: si vedeva bene la superficie di gomma consumata.
Si riscosse dal torpore che l'aveva invaso. Chiunque avesse lasciato quelle tracce avrebbe potuto comparire da un momento all'altro. Rimpianse di non aver più praticato nemmeno i rudimenti delle più elementari tecniche di difesa che aveva appreso durante il servizio militare. Ma quello che gli avevano insegnato era come usare il fucile d'assalto una volta esaurite le munizioni, e lì intorno non c'era nulla che faceva al caso suo: nemmeno un pezzo di tubo. Non avrebbe potuto fare nulla contro un avversario armato.
Il problema più grosso era un altro, però: se quello era stato il centro di comando, come suggerivano le matasse di cavi dati tranciati, le botole nel pavimento che ostentavano scatole di alimentazione disattivate e i fori nelle pareti per il montaggio di schermi di grosse dimensioni, ora non lo era più. Non c'erano più nemmeno le pareti divisorie: poteva immaginare com'era stato suddiviso quell'ambiente guardando i segni per terra, le impronte lasciate negli anni dai mobili, i tratti di pavimento consumato dal passaggio delle persone.
Gli sembrò di udire qualcosa sferragliare. Subito dopo il montacarichi si animò. Ma c'era qualcos'altro. Una voce, profonda. Cantava.
- ...sulla cassa del morto, oh oh oh, e una bottiglia di rhum...
Mentre decideva se tentare di nascondersi o aspettare lì qualunque cosa fosse successa, il montacarichi mugolò salendo dal livello sottostante a velocità insospettabile. Ne uscì un rumoroso carrello metallico, spinto da due mani grosse e un po' pelose. Anche le braccia che uscivano da una sgargiante camicia a fiori gialla, rossa e bianca erano grosse e pelose.
- Quindici uo.... tu?
Lo riconobbe immediatamente. Basso, tarchiato e panciuto, robusto al punto di riempire con i bicipiti le maniche corte della camicia a fiori. L'espressione luciferina e canzonatoria, anche nella sorpresa di quell'incontro inatteso, lo rendeva inconfondibile.
- Se stai cercando il solarium ho brutte notizie per te: quella zona è decompressa.
Si era ripreso prima lui. Lo ricordava dotato di una certa prontezza di spirito. Era quell'amico di Miki, quello che la chiamava “tette di zucchero”. Quello con due manipolatori cibernetici attaccati alla schiena. Quello tra tutti che meno gli piaceva: Morgan.
- Che cazzo ci fai qui? - pronunciarono quella frase quasi all'unisono.
- L'ho chiesto prima io – aggiunse subito Morgan, sorridendo ma conservando un atteggiamento di sospettoso distacco. Glielo disse, raccontandogli in modo estremamente sintetico ciò che gli era successo, omettendo la maggior parte dei dettagli significativi come la presenza della cimice ormeggiata. E inventandosi il resto.
- Bravo, Zebrinsky... l'ultima cosa che avrei detto di te è proprio che ti avrei visto diventare un j-diver.
Si rese conto di conoscere solo il soprannome di quell'uomo. E che non si era ancora abituato al fatto di essere tatuato.
- Non è solo il tatuaggio... i j-diver sono gli unici a scendere così dalle loro cimici... e arrivare qui a bordo di una di quelle tombe volanti è l'unico modo di attraccare coi sistemi automatici. Non mi trattare da coglione, eh? Come sta Miki? Lei sa di questo tuo nuovo passatempo?
Inutile innervosirsi, si disse con l'amaro in bocca. Me la sono cercata.
- Lascia perdere Miki... dimmi piuttosto come posso fare a togliermi da questa situazione! - il pensiero volò fugacemente su Niharra dove Miki lo stava aspettando. In quale stato d'animo, si chiese. Lo aveva di certo seguito nel suo volo e doveva anche averlo visto sparire dagli strumenti. Gli si strinse il cuore per il dispiacere, serrò i pugni per la frustrazione.
- Hey, non ti scaldare, eh! Perderesti quel bel colorito bluastro che hai ora...
Si trattenne dal replicare a tono. Lo stava provocando. Ignorarlo era la soluzione migliore. Decise di giocarsi l'ultima carta che gli era rimasta.
- Smettila di fare lo spiritoso... com'è la situazione qui? Cosa sai dei soldati?
- Soldati? - Morgan corrugò la fronte in segno di preoccupazione, per distenderla subito dopo – Ah, avrei dovuto immaginarlo che un bravo ragazzo come te non poteva non aver fatto parte degli scout... hai visto le impronte, eh?
- Certo, e... - indicò intorno a sé, intenzionato a comunicare l'urgenza di trovare una scappatoia.
- Questi soldati?
Morgan posò rumorosamente un piede sul ripiano del carrello vuoto. Uno stivale da combattimento, allacciato a metà.
- Non contare sulla carica finale dei nostri, scout... siamo soli io e te qui.
Si sentì ridicolo. Morgan si stava apertamente facendo beffe di lui ormai.
- È proprio una giornata no, eh? Coraggio, capita a tutti...
Morgan si lisciò la testa lucida e riprese a spingere il carrello vuoto. Non rispose quando gli chiese dove stesse andando, non lasciandogli altra scelta che seguirlo. Attraversarono diversi altri locali, tutti spogli e abbandonati. E sporchi, molto sporchi. I piedi e le mani erano ormai intorpiditi dal freddo e cominciava a non poterne più davvero. Tremava. Era insensibile al punto che solo guardandosi i piedi si accorse di avere le ciabatte piene di sporcizia grigiastra raccolta camminando. Morgan si diresse verso un grosso portello stagno: si leggevano ancora i segnali che lo indicavano come l'hangar. Tirò un sospiro di sollievo: c'era davvero un'altra nave ormeggiata, quindi.
- Dai uno sguardo dalle finestre della stanza qui a destra, ma non fermarti troppo che fa freddino.
Fece come gli era stato detto, per istinto o per curiosità, e aprì la porta. L'aria fredda sembrò tagliargli la cassa toracica e raggiungere i polmoni per la via più breve. Dopo pochi respiri gli doleva la testa. Era la stanza di osservazione: solo una spessa vetrata incrostata di ghiaccio lo separava dal vuoto dello spazio. Davanti ai suoi occhi c'era un ampio hangar mezzo smantellato, aperto sul nulla interplanetario. Si precipitò fuori prima di congelare davvero. Quello è pazzo! Per un pelo non ci lascio la pelle, si disse infuriato. Avrebbe voluto gridare, ma gli facevano male i polmoni e la mascella non riusciva a stare ferma. Batteva i denti senza potersi fermare. Scese la rampa, seguendo il clangore del carrello vuoto. Era l'altra metà dell'hangar, ancora intatta.
- Di là c'era il collegamento alla raffineria – disse Morgan da dietro una montagnetta di materiale eterogeneo ammucchiato su una delle piazzole di carico – quando l'hanno smontata e portata via non si sono preoccupati di tappare il buco.
Buco, si chiese lui. Sono rimaste due pareti monche e un pezzo di pavimento, io la chiamerei voragine. Ma non riuscì a proferire parola: era troppo impegnato a cercare un briciolo di calore stringendosi su se stesso.
Morgan frugava tra gli oggetti ammucchiati alla rinfusa. Ne estrasse con soddisfazione una tuta da meccanico lacera e sporca fino all'inverosimile. Gliela porse.
- L'avevo messa da parte per farne degli stracci: fanno sempre comodo, sai? – la sua smorfia sempre allegra rasentava l'insolenza. Sembrava divertito, ma soprattutto che si divertisse alle sue spalle.
Non esitò nemmeno un istante. Era stretta di spalle, sottile e non migliorò di molto la situazione, ma nonostante tutto era decisamente meglio che stare in mutande. Pensando al lungo, caldo bagno di schiuma che si sarebbe concesso una volta rientrato su Niharra, ignorò lo sporco e la puzza e si strinse in quella consumata tuta da meccanico.
- Volevi sapere qual'è la situazione? - lo vide cacciare una mano in una tasca sformata come il resto dei pantaloni di foggia militare. Ne estrasse un bracciale olo rotto che proiettò a mezz'aria un conto alla rovescia.
- È presto detto: ti trovi su CA-C/SH1, altrimenti nota come Jenny's Folly, una vecchia piattaforma di estrazione gioviana abbandonata, ora in piena fase di decadimento orbitale. Se ti stai chiedendo quanto tempo rimane prima del botto...
Gli mostrò l'ologramma col conto alla rovescia: tredici giorni, due ore e spiccioli.
- E tu che ci fai qui? - non riuscì a evitare di balbettare per il freddo.
- Torniamo di là che fa un po' più caldo.
Si stava divertendo, era evidente. Lo seguì come un cucciolo: non aveva scelta. Si fermarono a poca distanza da dove si erano incontrati per la prima volta, usando un mobile rotto e rovesciato come sedile. Era gelido ma non c'era altro.
- Che cazzo ti ha detto il cervello per decidere di attraccare qui...
- Allora non hai capito – sbottò, meravigliandosi della grandezza delle nuvolette bianche che si formavano davanti alla sua bocca – non ho avuto scelta. Sono a secco!
- E pensavi di rifornirti qui?
- Non sapevo nulla di questo posto... visto da fuori è uguale agli altri. E non mi hai ancora detto cosa ci fai tu qui su questo rottame in caduta.
Morgan si strinse nelle spalle e spostò lo sguardo in giro, come se potesse trovare gli argomenti sulle lontane pareti spoglie che li circondavano.
- Faccio... cose...
Reticente, si disse. Glielo si leggeva in viso a chiare lettere. Lo incalzò e senza troppi sforzi riuscì a tirargli fuori qualcosa di più vicino alla verità. Era sbarcato da una nave col compito di razziare tutto il possibile mentre i suoi compagni, o per meglio dire complici, andavano a rifornirsi di protomateria lì vicino per tornare indietro.
- Ho trovato un sacco di roba ancora utilizzabile, sai? Ho pescato perfino un motivatore che si può interfacciare a una IA, roba che costa. Peccato che la porzione abitativa sia decompressa: chissà quante cose ci sono ancora lì dentro.
Estrasse di nuovo il bracciale olo e mostrò un secondo conto alla rovescia, a un paio d'ore appena dallo zero.
- Non manca molto ormai e i miei soci passeranno a prendermi: caricheremo tutto e arrivederci.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Cinque secondi per Spyro
3.

All'interno della cimice le cose andavano meglio a patto di tenere il portello chiuso. Il momento peggiore era stato quando la circolazione era ripresa: mani e piedi avevano formicolato dolorosamente per un bel po', al punto che aveva dovuto trattenersi dal gridare per il dolore.
Naturalmente non c'era motivo per illudersi: solo le condizioni ambientali erano migliorate. La situazione era tuttora molto preoccupante e non dava cenno di poter cambiare in meglio. Quello svitato di Morgan stava accumulando un discutibile bottino saccheggiando la piattaforma mentre quella cadeva lentamente verso Giove. La sua cimice aveva meno di mezzora di autonomia dopodiché il reattore si sarebbe spento per mancanza di idrogeno. Dieci minuti dopo la bobina accumulatrice avrebbe esaurito la carica e il suo veicolo sarebbe diventato un inerte pezzo di metallo. Nonostante l'isolamento termico e la scorta d'aria non sarebbe sopravvissuto a lungo.
Estrasse il bracciale olo di Morgan da una tasca della lurida tuta che aveva preferito non togliersi. Era un modello abbastanza comune: un bracciale di plastica rigida al cui interno era installato una semplice CPU, una batteria, qualche chip di memoria e un proiettore di ologrammi a bassa risoluzione. Era poco più che un giocattolo e serviva a far contenti i ragazzini. Quello in particolare conteneva anche un semplice transponder programmato per assolvere chissà quale funzione. Sfiorò il pulsante del proiettore e le cifre del conto alla rovescia tremolarono davanti ai suoi occhi, numeri tridimensionali di uno sbiadito color salmone. Secondo quel giocattolo, mancavano poco meno di venti minuti all'arrivo dei soci di quel discutibile individuo. Non gli andava giù che avesse incontrato Miki e che si considerasse abbastanza intimo da permettersi tutto quello che lo aveva sentito dire e visto fare in occasione della festa di compleanno. Non gli era affatto piaciuto: si era offerto di sbatterlo fuori, ma Miki glielo aveva impedito. Ciò lo aveva infastidito parecchio. Quasi quanto lo infastidiva dover fare affidamento sul quel medesimo losco personaggio per uscire da quella spinosa situazione.
Si rimise in tasca il bracciale rotto (aveva notato che si era spezzata una delle due cerniere, per quello che ne mancava la metà) e malvolentieri uscì dalla cimice, al freddo. Attraversò i medesimi locali e trovò una via alternativa per giungere all'hangar, starnutendo per la polvere e rabbrividendo. Trovò Morgan alle prese col suo bottino che non pareva essere aumentato rispetto a prima. Gli restituì il bracciale e lui guardò subito il conto alla rovescia: mancavano pochi minuti. Chiacchierarono nell'attesa: si accorse che per essere un poco di buono quel Morgan sapeva un sacco di cose. Aveva servito come astronauta a bordo di navi di cui lui aveva solo sentito parlare e, da quello che gli parve di capire, c'erano ancora cose da scoprire sul suo conto.
Durante la conversazione lo aveva visto diventare via via più nervoso: guardava continuamente il conto alla rovescia che ora mostrava cifre verdi, per segnalare che lo zero era stato raggiunto e superato. Indicava un ritardo di ottantacinque minuti quando Morgan sbottò.
- Ma dove cazzo sono finiti? - la sua smorfia irriverente sembrava incrinarsi sotto la pressione dell'ira e della preoccupazione. Nemmeno il suo sguardo furbo e le sopracciglia all'insù riuscivano a impedire che quel viso simile a una maschera teatrale mutasse espressione.
- Avranno avuto un contrattempo – suggerì preoccupato. Magari poco di buono, forse criminali, ma i soci di Morgan rappresentavano la salvezza per lui.
- Chi lo sa? Basta che passino... - cercò di dissimulare la sua ansia ma glielo si leggeva sul viso che qualcosa lo preoccupava. Qualcosa stava andando storto e desiderava ardentemente sapere cosa.
- In quale... campo operate tu e i tuoi soci? Traslochi?
Morgan gli rivolse uno sguardo appuntito come un dito spinto sul petto.
- Più o meno... il nostro è un settore molto ampio. Perché?
- Curiosità... - mentì. Doveva trovare il modo di far parlare Morgan. Era un gran chiacchierone, poteva indurlo a tradirsi.
- Eseguite anche recuperi tecnologici vedo – era un eufemismo per dire che raccattavano rottami. Morgan non sembrò abboccare.
- È un'attività secondaria, direi collaterale – disse seccato. Proiettò le cifre del conto alla rovescia per l'ennesima volta.
- Te ne occupi tu?
- A volte... - risposta immediata, secca e asciutta. Morgan sapeva che c'era un amo dietro il verme.
- Sempre da solo?
Ancora quello sguardo penetrante e nessuna risposta. Segno che aveva toccato un tasto dolente o che semplicemente aveva smesso di stare al gioco?
- Vi capita spesso di abbordare stazioni abbandonate?
- Non raccolgo l'insinuazione! - sbottò Morgan. Poi ficcò le mani nel mucchio del suo bottino e si mise a trafficare per estrarre qualcosa.
Tattica sbagliata, si disse. Lasciò passare qualche secondo di silenzio con la speranza che quel pancione peloso avesse altro cui pensare. Sembrava davvero intento nell'opera di estrarre un oggetto dalla catasta.
- Credi che i tuoi soci possano darmi uno strappo?
- Non saprei, bisognerà chiederlo a loro. Farò del mio meglio perché ti prendano a bordo ma non posso garantirti nulla.
- Basterebbe che lanciassero un SOS al posto mio.
- Sì, basterebbe – un istante dopo Morgan ebbe finalmente liberato l'oggetto. Si trattava di una sezione di console modulare: un tipo di pannello di controllo molto in voga fino a una decina di anni prima. Era irta di pulsantiere e non aveva schermi MFD. Da quel brandello di tecnologia antiquata pendeva un groviglio di cavi: molti avevano ancora il connettore ma il resto era stato tranciato senza riguardi.
- Forse riesco a interfacciami alla CPU con questa – si incamminò deciso verso la rampa che l'avrebbe portato all'ex centro di controllo. Era facile intuire che avrebbe cercato di usare i cavi mozzati che spuntavano dalle botole del pavimento, laggiù.
- Non c'è corrente elettrica – obiettò.
- Non è vero: le porte funzionano e le luci si accendono.
Lo seguì volentieri. Per quanto polveroso e puzzolente, il vecchio centro di controllo degli ormeggi era più caldo dell'hangar e a lui stavano di nuovo congelandosi mani e piedi. Morgan si sedette a terra di fronte a una botola scoperchiata, incurante della sporcizia, e con le sue mani tozze e robuste estrasse i cavi mozzati e aggrovigliati. Poi, con sua grande sorpresa, da un taglio nascosto lungo il fianco sinistro della camicia a fiori uscì silenzioso un manipolatore meccanico, uno dei due arti cibernetici dell'uomo. Sapeva che c'erano: glielo aveva detto Miki. Ma vederli in azione era tutta un'altra cosa: odiava ammetterlo ma quella vista lo preoccupava. Con le tre dita dell'arto rimuoveva rapidamente l'isolante colorato dei fili, li intrecciava e li collegava a quelli della console recuperata dai rottami, incastrandoli nei connettori con una rapidità e precisione impressionanti. In pochi minuti ebbe sistemato così decine di cavi diversi, alcuni anche molto sottili.
- Hai presente quelle situazioni che ti fanno desiderare una terza mano? - sventolò l'arto cibernetico facendo ciaociao col manipolatore a tre dita. Si dedicò alla porta più vicina e in un baleno aveva smontato diversi pannelli alla ricerca di corrente elettrica.
- La tensione di alimentazione sarà sicuramente diversa – obiettò lui, di nuovo pessimista. Ma Morgan continuò imperterrito fino a strappare un cavo nero. Si sentivano le fascette di plastica spezzarsi una dopo l'altra mentre strattonava fuori dal pannello d'ispezione un paio di metri di cavo sporco e polveroso che gli lasciava sulle mani luridi segni neri. Sempre usando il manipolatore, che doveva avere qualche estremità tagliente, aprì facilmente la guaina isolante e, con maggiore cautela, mise a nudo il conduttore. In meno di tre minuti riuscì ad alimentare la vecchia console che si animò rivelando un piccolo e antiquato schermo a colori.
- Modestamente! - Morgan indicò la console attivata: la sosteneva con i due manipolatori per poter usare entrambe le mani sulla tastiera. Si avvicinò, incuriosito. Interpretando i messaggi sullo schermo, dedusse che c'erano problemi di connessione. Rivelando una conoscenza insospettabile di quei sistemi Morgan aggirò i problemi scovando un paio di apparati ancora attivi.
- Come temevo... – cominciò Morgan e lui intuì il resto: tutte le funzioni del centro di controllo del molo erano state trasferite al centro di comando principale che si trovava nel settore decompresso. Lì sembrava che ci fosse energia e che gli apparati funzionassero correttamente, ma la zona era decompressa e irraggiungibile.
- Non puoi aggirare i sistemi di protezione?
- Potrei provare – rispose secco quello picchiettando freneticamente sulla tastiera – ma non ho con me la mia scorta di software magico. E poi mi servirebbe un deck e mezzo chilo di adattatori vari... questa anticaglia è andata fuori produzione almeno una decina d'anni fa.
Lo vide provare a forzare una password semplicemente procedendo a tentativi, indice del livello di disperazione a cui era arrivato. La cosa più sorprendente era che il sistema remoto gli consentiva di tentare senza chiudersi a riccio dopo le prime tre password sbagliate. Insieme convennero che si trattava di una cosa folle ma che faceva molto comodo.
- Evidentemente è un sistema messo in piedi con troppa fretta, o da un incompetente.
- Forse entrambe le cose – aggiunse Morgan, tentando e ritentando senza sosta.
Lo lasciò bollire qualche secondo nel suo brodo, poi riprese a stuzzicarlo. Doveva saperne di più sui suoi “soci”.
- Non c'è proprio alcun modo per contattare i tuoi colleghi?
- No, senza un sistema di comunicazione – una risposta vagamente seccata come quella che si darebbe a un bambino insistente.
- È tanto che lavorate insieme?
Era sempre più deciso a instillare il dubbio in Morgan. Si era fatto una sua idea: quel panciuto filibustiere spaziale gli stava nascondendo qualcosa di importante. Metterlo contro i suoi presunti compari forse avrebbe potuto portargli un vantaggio.
- Abbastanza – una risposta secca, reticente, senza nemmeno alzare gli occhi dalla tastiera. Ora stava cercando di accedere a un apparato di rete: quello che gli consentiva il collegamento al sistema principale.
- Fammi capire... ti hanno lasciato qui a raccogliere rottami mentre loro si riforniscono a una delle piattaforme qui intorno a Giove. Fai sempre così?
Morgan si tolse la console dalle braccia cibernetiche e la sbatté a terra col rischio di romperla o di fare un corto circuito memorabile, visti tutti i cavi scoperti. Senza alzarsi da terra si torse verso di lui per guardarlo bene in faccia. La pelle del viso era arrossata di rabbia e il sangue affluiva fino alla cute pelata che luccicava. Gli puntò contro entrambi gli arti di sinistra, quello cibernetico che emulava tutti i movimenti della più grossa e pelosa controparte in carne e ossa.
- Risparmia il fiato, Zebrinsky: ho capito dove vuoi arrivare. Ti prude il culo, eh? Resta a vedere!
Si allontanò di qualche passo: Morgan aveva ripreso a picchiettare chissà cosa sulla console e il suo lavoro febbrile non accennava a diminuire d'intensità. Sembrava insensibile al freddo e allo sporco che li circondavano. E proprio il freddo era la sua seconda più importante preoccupazione: lo stava di nuovo stringendo in una morsa dolorosa, facendolo starnutire e provocandogli dolorose fitte alla testa. Decise di tornare alla cimice: non era di nessuna utilità lì e temeva che stuzzicare ulteriormente quell'individuo potesse peggiorare la propria situazione. Almeno nell'abitacolo del suo veicolo da j-diver poteva stare al caldo.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Cinque secondi per Spyro
4.

- Era ora!
Era lì seduto, con le spalle alla parete del corridoio anulare. Stava aspettando che lui uscisse dalla cimice.
- Che è successo? - domanda inutile, si disse. Glielo si leggeva in faccia, nonostante l'espressione spavalda.
- Non fare lo spiritoso... - si sollevò in piedi. Non c'era traccia dei suoi manipolatori: evidentemente li aveva retratti nel loro alloggiamento sulla schiena. Si chiese se Miki non avesse esagerato descrivendola come una delle cose più schifose che avesse mai visto. Evidentemente non aveva mai avuto a che fare con una protesi ortopedica militare.
- Non sono riuscito a fare molto oltre a...
In quel momento Jenny's Folly fece sentire la sua voce. Tutto intorno a loro il metallo della struttura emise un gemito prolungato, cavernoso. Un pauroso incrocio fra un ruggito e un rutto, con sinistri scricchiolii e colpi come se qualcuno stesse prendendo a martellate le strutture portanti. Quando cessò entrambi erano pallidi e spaventati.
- Che cazzo è stato? - nonostante la sua smorfia luciferina, Morgan era palesemente allarmato.
- Assestamento – gli rispose cercando di sembrare tranquillizzante. Stava cercando di tranquillizzare se stesso ma senza riuscirci affatto in realtà.
- Assestamento un cazzo – ribatté subito l'astronauta panciuto.
La consapevolezza di quanto stava succedendo lo colse all'improvviso, spaventandolo.
- Chi ti ha detto il periodo di decadimento orbitale? Un'altra stronzata dei tuoi soci? - allarmato, fece un minaccioso passo verso l'altro.
- Se pensi che mi abbiano messo...
Non finì la frase. Non era sicuro di quello che stava per dire, evidentemente. Non era sicuro che i suoi “soci” non avessero mentito di proposito sulla velocità di caduta della piattaforma.
- Bastardi figli di cani... - ringhiò tra una bestemmia e l'altra. Era forse riuscito a far aprire gli occhi al suo involontario compagno di sventura. Forse ora si sarebbe davvero dato da fare per uscire da quella situazione. Magra vittoria, si disse sforzandosi di non sorridere. Non c'era proprio nulla da ridere.
- Hey, aspetta un momento! La tua cimice... è a pieno carico?
- Non si può usare l'idrogeno appena raccolto. Dovresti saperlo.
- Non sto parlando di quello! La tua fottuta cimice è a pieno carico o no?
Certo che lo era. Glielo disse e mentre lo faceva capì di colpo cosa Morgan voleva dire. La massa della cimice col gigantesco serbatoio di raccolta dell'idrogeno molecolare colmo fino all'orlo aveva alterato ancora di più l'orbita discendente della piattaforma, accelerandone la caduta. Gli venne anche l'atroce sospetto che ormeggiarsi lì avesse minato l'integrità strutturale di Jenny's Folly, già messa a dura prova dallo smantellamento parziale, dall'abbandono e dal degrado. E dalla presa sempre più stretta di Giove. Ma non lo disse a Morgan.
- Cazzo! - esclamò quello e voltate le spalle subito dopo, si incamminò a passo spedito quanto glielo consentivano le sue tozze gambe. Gli chiese se aveva qualche idea da mettere in pratica e quello, senza voltarsi né fermarsi, rispose che non ne era certo.
- Mentre tu te ne stavi al calduccio dentro la tua bella cimice sono riuscito ad accedere a un sistema che era stato spento. Uno di quegli impianti che non sono stati smantellati perché obsoleti o poco convenienti da rimuovere e portare via per venderli usati o per farne dei ricambi.
- E sarebbe?
- Uno scandaglio atmosferico.
Cercò di rammentare cosa fosse ma dovette chiedere aiuto. In poche parole Morgan gli disse che si trattava di un radar per esaminare l'atmosfera gioviana. Venivano usati agli albori dell'attività di estrazione dell'idrogeno quando la mortalità tra i piloti era al limite dell'accettabile e l'idrogeno molecolare costava il triplo del prezzo attuale. Con essi si tentava di individuare il punto migliore per il salto della cimice per cercare di raccogliere l'idrogeno di qualità.
Raggiunsero la console di fortuna abbandonata sul pavimento mentre Morgan stava ancora spiegando cos'aveva intenzione di fare.
- Puntare il radar alla cieca non produrrà risultati apprezzabili in poco tempo – obiettò lui.
- Hai un'idea migliore? - acido e iroso, il suo panciuto compagno di sventura sembrava trasformato.
Strinse i denti prima di rispondere. Non sapevano se il radar funzionava ancora. Non c'era neppure la certezza che una piattaforma attiva investita da un fascio di onde radar fosse in grado di accorgersene. Ancora meno certo era che avrebbero indagato sulla fonte delle emissioni: Giove era una fontana di radiazioni di tutti i tipi e lui dubitava che qualcuno si sarebbe preso il disturbo di controllare.
Ma no: non aveva un'idea migliore al momento.
- Orienta bene il radar: non ci serve puntarlo verso Giove.
- Lascia fare a zio Morgan...
Si alternarono alla tastiera per trasmettere impulsi radar tutto intorno alla piattaforma nella speranza che qualcuno venisse raggiunto e si insospettisse abbastanza da indagare. Per questo inviavano impulsi secondo una precisa sequenza: uno, uno-due, uno-due-quattro. Poi spostavano l'antenna del radar e ricominciavano da capo, senza nemmeno sapere se il radar stava effettivamente emettendo qualcosa. Ma avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di tenere lontana la mente da quello che sarebbe successo.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Cinque secondi per Spyro
5.

Era al caldo nell'abitacolo della cimice quando successe. Aveva lasciato Morgan alla console col compito di continuare a trasmettere col radar e si era appena riscaldato un po' quando il sedile di pilotaggio si mosse sotto di lui. Era Jenny's Folly che aveva ondeggiato sensibilmente. Era la terza volta che la vecchia piattaforma si faceva sentire, ma per la prima volta s'era udito un colpo di quella potenza seguito da una palese oscillazione di tutta l'installazione.
Deve essersi staccato un pezzo tutto d'un tratto, si disse pensando alla tensione cui le strutture erano sottoposte a causa della gravità gioviana. Assicuratosi che ci fosse ancora atmosfera nel corridoio del molo, corse da Morgan. Forse lui ne sapeva di più. Lo trovò che si precipitava fuori della sala di osservazione dalla cui porta aperta usciva un gelo formidabile.
- Che cosa è successo?
- Direi che siamo stati colpiti ma non ho capito né dove, né da cosa.
- A me è sembrato che si sia staccato un pezzo. La console?
- Funziona tutto... quel poco che vedo da lì, almeno – Morgan si precipitò giù dalla rampa nell'hangar, diretto ai pannelli di controllo dei portelloni a tenuta stagna. Se ci fosse stata una perdita di atmosfera da lì se ne sarebbe accorto. Si voltò a fargli un cenno, il pollice alzato. Tutto bene per il momento. Se il sistema di controllo ambientale dell'hangar avesse rilevato una consistente perdita di atmosfera avrebbe tentato di isolare l'ambiente chiudendo le paratie. Meglio essere altrove in quel momento. Morgan era giunto a circa metà della rampa quando il suo blaterare a proposito di una decompressione fu interrotto dal frastuono di un clacson. In molti punti dell'hangar si accesero lampeggiatori gialli.
- Decompressione! - esclamò lui, precipitandosi verso il vicino portello stagno. Non appena Morgan ebbe attraversato la soglia, calò con rapidità e decisione la mano sul pulsante a fungo che comandava la chiusura di emergenza. I due battenti si incontrarono con un tonfo che pose fine al rantolo sofferente dei motori e i cilindri idraulici, ben visibili, si tesero come muscoli d'acciaio garantendo la tenuta stagna del portellone.
- Ma che decompressione! - lo aggredì subito, sventolando la mano con le tozze dita serrate a carciofo.
- Sentiamo cos'hai da ridire, stavolta! - lo aggredì. Non ne poteva più.
- Jenny's Folly è stata progettata almeno trent'anni fa... ai tempi si usava ancora segnalare il funzionamento della camera d'equilibrio con un segnale sonoro, oltre che uno visivo. Questo perché trent'anni fa le camere d'equilibrio non erano affidabili come quelle attuali, genio!
A quel punto non aveva più importanza se Morgan aveva ragione oppure no. Si voltò verso la serratura cercando di capire se al di là del portellone stagno chiuso in emergenza ci fosse ancora aria da respirare o no.
- Che cosa cerchi di fare, ora? - lo incalzò Morgan.
- Cerco di capire cosa sta succedendo. Se ci fosse una telecamera...
- Non la trovi certo lì, la telecamera... come te lo devo dire che questo posto è vecchio?
Tornarono alla console e da lì cercarono di collegarsi al sistema delle telecamere a circuito chiuso. Erano certi che ce n'erano in abbondanza: le vedeva anche lì, intorno a loro. Per qualche ragione incomprensibile non le avevano smontate e portate via. Per il pirata panciuto erano troppo in alto, ma per chi aveva smontato apparecchiature, mobili, pareti divisorie e tutto il resto, non lo erano di certo. Pensando che una telecamera è pur sempre un oggetto di qualche utilità si avvicinò a una di esse, incuriosito. Si accorse subito di qualcosa di sbagliato. Aguzzò la vista e poi tese una mano. Ci arrivava quel tanto che bastò a togliere un po' di polvere con la punta delle dita.
- Lascia perdere le telecamere, è fatica sprecata.
- Perché? - volle sapere quello, sorpreso.
- Questo posto è vecchio, no? I cavi sono coassiali.
Sul viso di Morgan apparve un'espressione indecifrabile, a metà fra lo sgomento e lo sconforto. Doveva essere l'effetto che gli faceva non riuscire ad avere l'ultima parola dopo essersi visto ritorte contro le sue stesse battute. La telecamera, e presumibilmente tutte le altre a bordo della piattaforma, erano ancora analogiche e molto probabilmente del tutto indipendenti dal sistema informatico di bordo.
- Che taccagni incompetenti... tutto questo tempo con telecamere analogiche... - si alzò in piedi, abbandonando la console.
- Vado a vedere. Magari sono i miei soci.
Gli tenne dietro, temendo che fosse davvero così. Era il momento della resa dei conti: era molto probabile che fossero i complici del panciuto saccheggiatore di stazioni abbandonate. Non gli piaceva ammetterlo, ma erano la sua sola speranza di uscire da quel guaio e, ora che quella possibilità sembrava d'un tratto divenire concreta, non gli sembrava più così disdicevole salire a bordo di una nave di criminali. Se fosse riuscito a salirci, ovviamente.
Col cuore accelerato osservò il movimento dei cilindri idraulici che bloccavano la porta, in grado di esercitare qualche quintale di pressione ciascuno nei pochissimi centimetri della loro corsa. Poi fu la volta dei motori che animavano le due semiporte, della loro sofferenza meccanica dovuta alla prolungata assenza di manutenzione. Quando l'apertura fu completa cercò di gettare uno sguardo dentro l'hangar alla ricerca di cambiamenti, di pericolo. Non ne trovò. Seguì Morgan che si dirigeva verso la rampa alla sinistra, per scendere nell'hangar. Quando lui si bloccò di colpo andò a sbattere contro la sua schiena. Fu allora che si rese conto di quanto era grande l'innesto cibernetico che quello si portava attaccato alla spina dorsale. Aveva ragione Miki: suo malgrado, quel breve contatto con la protesi di quel pancione lo disturbò.
E quasi non si accorse della tuta. Stava lì, in cima alla rampa. Era una vecchia tuta leggera, arancione e bianca, sporca e consumata, con le giunture a soffietto e la visiera riflettente. Aveva la pulsantiera sul petto e un ingombrante zaino di supporto vitale appeso alla schiena. Un modello piuttosto datato: perfino il casco presentava pericolosi segni di usura, visibili a occhio nudo. Mentre la osservava cercando di trovare un indizio qualsiasi, il grosso guanto con la punta delle dita rigide per i rinforzi salì alla pulsantiera e toccò un tasto. Dopo diversi secondi la visiera scattò e si aprì.
Un viso scurissimo, il bianco degli occhi che spiccava. Un sorriso abbagliante si distese lentamente. Zarha.
- Che due bei maschioni, come sono fortunata. Venite con me?

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Cinque secondi per Spyro
6.

Sapeva che sarebbe finita così.
Si rotolò nella branda, al buio, per cambiare posizione alla ricerca di un benessere introvabile. La febbre era quasi passata ormai, ma a torturarlo ci pensava la stanchezza e l'incendio che aveva in gola. Starnutì, e le fiamme minacciarono di salirgli fin dentro il naso per arrivare al cervello. Stava da cani. Questo è il minimo che mi poteva capitare passando in continuazione dal caldo al freddo, si disse. Teneva gli occhi chiusi nel tentativo di appisolarsi ma il bruciore alla gola allontanava il sonno. Giunse perfino a rimpiangere la febbre: almeno con quella avrebbe dormito, dimenticando il dolore.
Per un istante ebbe la sensazione di non essere più solo. Un retaggio dell'istinto primordiale da uomo delle caverne, forse; il raziocinio dell'uomo moderno, pilota di astronavi e avvezzo alla tecnologia più avanzata non riuscì a reprimere un tuffo al cuore. Un istante dopo una mano calda gli si posò sulla fronte.
- Sei sveglio?
Rispose con un mugolio nasale. Parlare era fonte di dolore. Sentì il peso caricarsi cautamente sulla branda, poi la percepì con la pelle della schiena: calda, morbida. Caldissima. Si sdraiava con lui.
- Come va? - anche la sua voce era calda e morbida.
- Meglio... - si costrinse a rispondere, non senza che la gola protestasse vivamente. Sentì la mano di lei scivolare asciutta sul fianco, poi sul ventre e su verso il petto, inseguito da un braccio di morbida seta tiepida. Si serrò su di lui, saldamente.
- Abbiamo appena impacchettato e spedito Morgan – gli sussurrò piano – sai che Zarha non gli ha tolto gli occhi di dosso nemmeno per un minuto? Credo che le piaccia... gli ha offerto di fermarsi anche se Mahmet non sembrava d'accordo.
Mahmet e Zarha spesso bisticciavano, nonostante una fosse la più anziana e una j-diver espertissima e l'altro la IA che governava la stazione. Avrebbero dovuto dare l'esempio, dato che ogni j-diver era una testa calda potenziale fonte di problemi. E i j-diver a bordo di Niharra non facevano eccezione.
- Non te ne frega niente, eh? - il silenzio aveva parlato al posto suo. Miki aveva ragione: non gliene importava nulla di Morgan. Anzi: più lontano era quel pancione pelato, più tranquillo si sarebbe sentito. C'era qualcosa nel tono della voce di Miki, quando parlava di quel discutibile individuo, che non gli piaceva affatto. Qualcosa di... morbido e dolce. Di inappropriato. E dire che tra noi due quella gelosa è lei, pensò.
- Ho ancora male alla gola – disse più piano che poté – e sprecare parole per quel tipo...
- Oh, poverino – ridacchiò lei – ti ho portato un po' di endorfine... girati, dai...
Miki lo aveva abbracciato a bordo del Coyote e da quel momento lo aveva lasciato solo ben poco. Lo aveva lavato, accudito, gli aveva portato le medicine per la febbre e lo aveva vegliato a lungo. Gli aveva raccontato tutto, con un entusiasmo tale sottolineando parola per parola l'ansia che l'aveva tormentata dal momento in cui la cimice era scomparsa dal radar.
Proprio un radar doveva ringraziare. Non quello attivato da Morgan: com'era stato facile prevedere, a bordo della Niharra nessuno si era accorto di nulla e non c'erano indicazioni che a bordo delle altre stazioni di estrazione gioviane fosse andata diversamente. Il radar che gli aveva salvato la vita era quello di Niharra. Quasi cinque secondi di registrazione che mostravano una traccia non classificata che usciva con un'orbita insolita dall'atmosfera di Giove. Cinque secondi dopo la stazione tramontava dietro il gigante gassoso, perdendo visibilità su quel settore. Miki era davanti allo schermo, ovviamente. Non c'era voluto molto a convincere Mahmet, ma a installare un serbatoio di emergenza sul Coyote sì. Ore e ore che lei aveva passato col cuore in gola e l'animo congelato, il cervello che si rifiutava di pensare ad altro che a pilotare. Mentre era in volo con Zarha che le dava una mano, Mahmet le aveva inviato i risultati di alcuni calcoli statistici secondo i quali era molto probabile che la cimice fosse attraccata a Jenny's Folly, un rottame in caduta che avrebbe dovuto trovarsi da quelle parti. Zarha era sbarcata, aveva rifornito la cimice col serbatoio di emergenza montato nella stiva del Coyote e trovato i naufraghi. Il resto era noto a entrambi.
- Dai...
La mano prese ad accarezzarlo, a perlustrare i pettorali alla ricerca dei capezzoli da strizzare e da stuzzicare. Miki sapeva bene che avrebbe scatenato un'ovvia reazione a catena: era proprio quello che voleva. Non aveva ancora finito di girarsi sulla schiena che lei era già scivolata su di lui, le gambe strettamente intrecciate. Ricambiò tanto affettuoso ardore accarezzandole la schiena attraverso la maglietta che lei indossava, scoprendo l'assenza del reggiseno. Espresse un brontolio di assenso mentre lei gli mordicchiava il mento, le labbra, il lobo dell'orecchio. Seguì con le dita le soffici curve giù sui fianchi, sulle natiche. Anche le mutandine mancavano all'appello.
- Oh, ma allora è una festa... - mormorò mentre lei spingeva l'inguine contro il suo, già ben teso. Le afferrò l'orlo inferiore della maglietta e cercò di sfilargliela, ma lei strinse i gomiti sui fianchi, impedendoglielo.
- Aspetta – sospirò, ansimando già di passione – voglio prima farti vedere una cosa.
La sentì tendersi tutta verso qualcosa. Il cuore le batteva forte, lo sentiva sopra il proprio. Un bagliore azzurrastro ritagliò bruscamente il viso di lei dall'oscurità. Gli sembrò bella come mai lo era stata, la pelle chiara, i voluminosi capelli ricci sommariamente legati sulla nuca per non arrecarle fastidio. Gli offrì il piccolo datapad, un modello vecchio con lo schermo ridotto e antiquati pulsanti al posto della pur superata piastra sensibile al tocco. Mise a fuoco l'immagine strizzando gli occhi per contrastarne la luminosità. Era un'immagine di Giove, della sua turbolenta atmosfera. Una sequenza video ripresa da vicino, molto vicino. Così tanto da vedere i vortici scuri arrotolarsi su se stessi ai limiti delle fasce più chiare, di cui sembrava di poter scorgere ogni fuggevole dettaglio. Così tanto vicino da vedere una minuscola sagoma nera stagliarsi contro l'atmosfera nel momento in cui sorvolò una zona molto chiara. La sequenza procedeva, centoventicinque fotogrammi al secondo come recitava l'indicazione del timecode in basso; un secondo dopo l'altro, dopo l'altro. Poi all'improvviso qualcosa di bianco e opaco si frappose per un istante fra la telecamera e la sagoma scura. Poi ancora e ancora. Infine la sagoma scomparve nel candore lattiginoso. Riapparve per un istante, poi il video terminò. Cinque secondi e tre fotogrammi. Gli ultimi di Jenny's Folly.
- Due ore fa – disse Miki spegnendo il piccolo datapad e abbandonandolo con poca grazia sul pavimento. Lasciò cadere la maglietta nella stessa direzione.
Strinse fra le braccia il dolce peso che gli gravava sul torace. Inspirò profondamente l'odore della sua pelle, dei capelli, le afferrò la nuca e cercò le labbra di lei con le proprie, ma gli sfuggivano.
- Sembra che io abbia salvato il tuo bel culo, signor Zebrinsky – mormorò, l'alito caldo e umido di lei gli entrò nell'orecchio, le labbra lo sfiorarono appena.
- Che dire...? - le soffiò di rimando mentre le scorreva il collo palpitante con la punta della lingua, inebriato.
- Cento di questi giorni... c'è altro che posso fare per lei, signor Zebrinsky?
Ridacchiava, sentiva gli addominali contrarsi sopra i propri. Lo morse tra la spalla e il collo ma limitandosi a fargli sentire i denti e non a sangue come l'ultima volta.
- Facciamo duecento, eh? E vorrebbe sciogliersi i capelli per favore, signorina?
Pochi istanti dopo una cascata di ricci odorosi li avvolse.

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