Il cancro uccide solo d'inverno

di Farytales_catcher
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Opaco ***
Capitolo 2: *** Camilla ***
Capitolo 3: *** Buio ***



Capitolo 1
*** Opaco ***


Siamo abituati all’ipocrisia, perché noi tutti siamo ipocriti.
Ogni giorno ci svegliamo, e nonostante tutti i buoni propositi, tutti i cambiamenti che ci eravamo proposti di attuare, ritorniamo esattamente come eravamo.
Con gli stessi identici difetti dei giorni, mesi, anni prima.
Ci godiamo il giorno spensierati, facendo cose su cose, e poi ,senza accorgercene, arriva sempre la sera.
 Ed è proprio quando il cielo inizia ad imbrunire che ci facciamo promesse che non manterremo.
Lo facciamo per sentirci meglio.
Perché in questo modo, dormire diventa più facile. Perché addormentarsi con la prospettiva illusoria di un futuro migliore, con il falso obiettivo di diventare persone migliori, è sempre più facile.
Nonostante tutto, io adoro i sogni. E non per questo che io non possa essere conformista, anzi,  ai giorni d’oggi, il sogno è il sentimento, l’ idea, l’illusione  più comune nelle persone.
Forse è l’unica cosa che ci accomuna, e ci permettere di essere umani.
Perché ognuno di noi sa’ perfettamente che i sogni non sono reali, che è la nostra immaginazione che li produce , eppure non conosco persona che non sogni e non continui a credere nei sogni.
A me piacciono quei sogni dove magari sai pure di star sognando, perché sono palesemente irreali . Dove si può volare senza ali, e si può parlare con gli occhi, senza parole.
Quei sogni che ti costringono a staccarti dalla realtà in modo brusco, che quando ti svegli provi dispiacere per l’esserti svegliato, perché avresti voluto vedere come si sarebbe concluso.
Quei sogni dove quella vecchia signora che abitava vicino casa tua e che è morta, è ancora seduta sulla sua sedia a dondolo a ricamare, o a fare delle scarpette di maglia per il suo nipotino.
Sono questi i sogni che amo.
E, a volte – troppe volte – spero che sia la realtà, e poi quando mi sveglio sento uno strano senso di oppressione al petto, che non è delusione, ma è qualcosa di molto simile al dolore.
Ad ogni modo, mi dicono che dovrei incominciare a vivere, perciò proverò a farlo.
Ora sono ancora qui, ma spero che tutto questo possa finire in fretta.
La luce della stanza è bianca, e fa sembrare tutti gli oggetti al suo interno opachi.
Persino le piastrelle celesti che rivestono completamente le pareti, non riflettono la luce.
Sembra tutto così buio, eppure la luce c’è . Forse è perché oggi il sole è coperto da pesanti nuvole grigiastre, o almeno così sembra dalla piccola finestra .
L’unica cosa che ha una parvenza di vita è una piccola pianta verde in un angolo.  Chissà se anche lei sente il buio qui dentro.
E in questa mia vita, in questa mia storia, non c’è neanche la principessa dai lunghi capelli biondi, perché i miei capelli non sono biondi, ed in verità non ho neppure i capelli.
Ma non solo i capelli. Non ho i peli, le ciglia le sopracciglia e anche le mie unghie non sono il massimo.
Mia madre ha sempre insistito per farmi indossare una parrucca, ma io ho sempre rifiutato.
In fin dei conti io non ho nulla di cui vergognarmi.
E ho anche paura.
E’ Novembre, e si sa’: il cancro uccide solo d’inverno.

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Capitolo 2
*** Camilla ***


                                                                                                                           
Ci sono cose, situazioni, attimi, che sono belli o semplicemente stupendi, a prescindere che abbiano un seguito o che finiscano nell'attimo a seguire. Comunque eterni nel ricordo.                                                                  - Stefano Andreani


CAPITOLO 1 
L’odore delle orchidee non mi solletica più il naso, ormai. 
Sento soltanto la fredda temperatura del gel sulla mia pelle. Mi hanno detto di restare immobile, ma non so per quanto tempo riuscirò a restare così.
Mi scoppia la testa.
 Ci mettono così tanto per fare un’ecografia.
Mi guardo le braccia, ed è solo un istante.
Sembrano aride, senza vita.
Proprio come quelle di un morto.
Che ironia.
Io lo sono per metà e ... ah già, non devo dire così.
La psicologa non vuole.
Lei dice che sto attraversando una piccola fase di rifiuto che passerà, prima o poi, ma qui, l’unica vera cosa che è passata irrimediabilmente è il tempo.
Tanto, tantissimo tempo.
Due interminabili anni.
Ero e sono così.
Proprio come quella ragazzina di quattordici anni che, origliando, scoprì di non poter mai avere figli.
Proprio come lei, che pianse per mesi, prima di farsene una ragione e capire che, nel migliore dei casi non avrebbe neanche avuto una vita decente.  Ecco perché ho trovato conforto nell’apatia.
Me lo hanno raccontato, qualche volta. Si rischia molto nell’isolarsi.
Si perde la sensazione di essere ancora vivi. Ogni tanto penso di essere già sottoterra, dove magari posso restare in pace per un po’.
Dove non devo pensare alla chemio o a tutto il resto. Alle facce dei miei genitori ogni volta che l’oncologa ci mostra le radiografie , o le TAC .
Alle sue parole quando, qualche giorno fa ha detto che non vivrò a lungo.
Sono terminale.
Se prima riuscivo ad aggrapparmi alla speranza, ora non c’è più nulla.
Ho solo sedici anni, e morirò.  
Una bella voce calda, all’improvviso, mi risveglia dall’incubo che sono diventati i miei pensieri.
“Camilla, puoi ritornare in stanza”
Non dico nulla, prendo il pezzo di carta che la dottoressa mi porge e mi asciugo il ventre, abbasso il camicione bianco e mi trascino dietro l’asta metallica della flebo.
Per passare da radiologia ad oncologia, bisogna per forza fare un po’ di strada, o ,in alternativa, si può prendere l’ascensore.
Ma, per una volta che posso camminare senza che qualcuno mi venga dietro con una carrozzella, voglio guardare come ci si sente fuori dal reparto con più morti dell’ospedale.
Il pavimento del corridoio è a mattoncini bianchi, mentre le pareti sono rosa pastello, e ci sono dei bei disegni per bambini. Ci sono così tante finestre, che sembra quasi che la camera non esista.
Ad un certo punto, arrivo vicino a delle grandi porte bianche, segno che oltre quella barriera inizia un nuovo reparto.
Alzo lo sguardo e leggo di quale si tratta : psichiatria.
Gli riabbasso in fretta .
Nessuno è mai felice di venire qui. Neanche gli infermieri.
Metto una mano sul vetro della porta, e la spingo.
Ed è … esattamente come tutti gli altri.
Chissà che mi aspettavo.
Ma, all' improvviso qualcuno mi ha detto "Ciao" , ed io sono sobbalzata.
Mi sono girata e un ragazzo dai capelli bruni mi scrutava con i suoi grandi occhi. E’ divertito, lo vedo dalla sua espressione
Non gli rispondo, lo guardo soltanto. Nessun ragazzo mi ha più rivolto la parola da un po’ , ma non perché mi disprezzino, per carità, ma per il semplice motivo che, dopo aver iniziato la chemio, ho lasciato la scuola.
“Non parli? Ti faccio paura?” mi domanda.
Sorrido. Sembro davvero così tanto spiazzata?
“No” dico gracchiante, e schiarendomi la voce “No, mi chiedevo soltanto cosa ci facessi qui”
“Perché, non si può essere belli ed essere in psichiatria?” mi risponde e sorridendo mostra due ampie fossette ai lati della bocca.
“Non intendevo questo” replico con voce sommessa.
“Lo so” ribatte  “ E tu che ci fai qui?”
“Sono di passaggio”
“Bhe, allora ti saluto ragazza di passaggio. Comunque io sono Andrea” si presenta dandomi la mano.
Gliela stingo, e sorrido daccapo.
Non ricordo quanto tempo è passato da quando avevo sorriso così tanto.
Quando sono ritornata in oncologia, la mia stanza mi è apparsa meno buia.
Che assurdità.

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Capitolo 3
*** Buio ***


Capitolo 2 
Non mi è mai piaciuto il buio, e non so neanche il perché.
Da piccola costringevo mia cugina, Elisa, a dormire con me quando andavamo in campeggio vicino Latina.
“Vieni qui, ho sentito che ci sono i fantasmi” le dicevo, e lei con i suoi occhi colmi di paura si rannicchiava vicino a me. Non lo facevo per essere sadica, ero solo una bambina che aveva il terrore dell’oscurità.
Non pensavo che diventando più grande ci sarei cascata dentro, fino ad immergermi completamente in un abisso senza luce.
Ricordo che quando c’era vento, e gli alberi proiettavano la loro ombra sul terreno umido, io mi divertivo a fissarle e a raccontare delle storie assurde su principesse segregate in torri alte come grattacieli, e di principi tanto belli da mozzare il fiato a chiunque.
Mi piaceva raccontare le storie, e mi piace tutt’ora, solo che non lo faccio più.
Non trovo mai l’ispirazione.
Sospiro e guardo fuori dalla finestra.
 Non c’è dubbio: Milano è molto grande.
Industrializzato al massimo, con i suoi bei palazzi di vetro, il panorama si mostra limpido e perfetto ai miei occhi. Non c’è nulla di lasciato al caso: sembra di trovarsi in uno di quei film che ipotizzano su come il futuro potrebbe essere, con tanto di uomini d’affari che camminano tra le vie del centro con la loro ventiquattrore nera.
Tuttavia, qui alla periferia della grande città della moda, la realtà è completamente diversa .
Milano, da qui, sembra quasi il miraggio di una povera persona nel deserto del Sahara.
Le uniche persone che camminano spensierate, o quasi, per i corridoi, sono i medici con i loro bei camici bianchi, e con le cartelle cliniche in mano dei pazienti, e, manco a dirlo, adesso stanno arrivando nella mia stanza.
“Buongiorno Camilla” mi saluta la dottoressa Stefania Morelli con il suo sorriso sempre così radioso.
Lo vorrei tanto anch’io.
“Mh …” mugolo facendo finta si essermi appena svegliata.
“Ah, sei diventata la bella addormentata?” mi domanda.
La guardo storto imbronciandomi, come faccio solitamente.
“Si, ma arrabbiata” aggiunge il dottor Armenise, il primario.
“La fate facile voi” biascico e mi scopro il torace, sapendo che mi ascolteranno il cuore ed i polmoni.
Fatto tutto, ricevo una pacca sulla spalla dal primario.
“Ah, Camilla, potrei chiederti di fare amicizia con la ragazza nella stanza affianco? E’appena arrivata e …”
“No, dottoressa” le rispondo. Ed è un “no” categorico.
Non aiuterò nessuna ragazza con un tumore, ne tantomeno ne diverrò amica.
Non ho amici, non ne voglio e non mi va di dare false speranze a qualcuno .
No.
“Come vuoi” ribatte, prende la cartella clinica e se ne va.
Quando nel pomeriggio, arrancante, mi trascino la flebo per i corridoi dell’oncologia, mi viene spontaneo guardare nella stanza accanto alla mia, un po’ per curiosità, un po’ perché volevo scoprire il volto della ragazza che mi ero imposta di non conoscere.
E quando la vedo, resto immobile.
Lei si gira, mi vede e mi sorride.
E’ magra, magra da morire.
Crederei che fosse anoressica se non sapessi che, per essere in questo punto dell’ospedale, ha un cancro.
Non le sorrido. Mantengo lo sguardo dritto verso le ossa appuntite che spuntano dalle sue spalle, sulla mascella, dappertutto.
Non sento la sua voce quando mi saluta, poiché corro via disgustata.
Non sono cattiva, ma la vista di quelli come me, mi ricorda di essere più di là che di qua.
Trovo rifugio in un bagno infondo al reparto.
Appena entro, mi accascio contro la porta del gabinetto, incastrandomi perfettamente tra quest’ultima ed il water, solo l’asta della flebo fa un po’ resistenza, ma io la strattono abbastanza da far entrare anch’essa.
All’improvviso ho un conato e mi accingo al water in procinto di rimettere, e il vomito non si fa aspettare molto.
Arriva impetuoso, svuotandomi da qualsiasi cosa, anche dai pensieri.
Il mio piccolo segreto.
Era arrivato come un vizio, ed ora vive con me.
 La flebo ormai si è staccata dal mio braccio andando fuori vena, e facendomi sanguinare abbondantemente, ma il dolore non lo sento neppure.
Esco da quel piccolo posto, e vado vicino al lavandino per lavarmi il viso. Mi fisso allo specchio per qualche secondo, mentre sento il sangue picchiettare insistentemente sul pavimento.
Anch’io ho le ossa in bella vista sulle spalle e sul resto del mio corpo.
Le lacrime scendono calde sulla pelle già infiammata delle mie guance, ma ad un certo punto non sento più niente.
Soltanto la spiacevole sensazione del pavimento gelido sulla mia schiena.

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