Figlia della Tempesta

di Eilan21
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


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Ottobre 1063

Winchester Castle, Wessex, Inghilterra

 

Una bambina. Solo una bambina minuta e dall'aspetto insignificante. E agli occhi di chi non la conosceva a fondo, Gunhild sarebbe potuta apparire perfino una bambina beneducata e rispettosa; ma chi le era vicino sapeva bene che sotto la sua pelle infuriava un fuoco pronto ad eruttare come un fiume di lava in piena, impossibile da prevedere o frenare. Era la maledizione del sangue vichingo, era il dono che sua nonna Gytha le aveva portato in eredità.

Ed era quello che sua nonna le ripeteva sempre, le sere in cui, di fronte al fuoco, le raccontava dei suoi antenati; del suo bisnonno Thorgil, e della penisola di ghiaccio e neve dove era nata e cresciuta, prima di attraversare il mare per sposare suo nonno. Raccontava anche a sua sorella Gytha, che la seguiva con occhi adoranti illuminati dal bagliore del fuoco, seduta su una pelliccia stesa a terra. Ma era lei che sedeva sulle sue ginocchia, lei che aveva il permesso di interromperla con le sue domande impertinenti; sua sorella portava il nome della loro nonna, ma era lei, Gunhild, la sua preferita, la piccolina di casa. Era stata chiamata così in onore della sorella di suo padre, Gunhilda, una monaca.

Quella sera d'inverno dell'anno 1063, nella sala grande del castello di Winchester si stava svolgendo questa esatta scena, con la differenza che era presente anche il fratello di Gunhild, Magnus, seduto di spalle su uno sgabello di legno. Fingeva di essere troppo grande, con i suoi dodici anni, per ascoltare ancora storie attorno al fuoco, ma in realtà non perdeva una parola. Sua madre Edith ricamava in un angolo del grande salone insieme alle sue ancelle e alla sua dama, e guardava fuori, scrutando il buio fitto della notte attraverso le strette feritoie che si parivano nei muri di pietra massiccia del castello. Gunhild intuiva cosa stesse aspettando sua madre: aspettava il ritorno del Conte di Wessex. A dispetto della sua giovane età, Gunhild si rendeva conto che sua madre amava suo padre, lo amava ancora moltissimo, nonostante stessero insieme da più di quindici anni. La madre di Gunhild possedeva una bellezza fuori del comune: Edith la Bella, o Edith Collo di Cigno, questi erano i soprannomi con cui era conosciuta Lady Edith del Wessex. E in effetti sua madre ricordava davvero un cigno, con la sua pelle candida, il lungo collo elegante, gli occhi color acquamarina e i capelli di un biondo molto chiaro: era facile, guardandola, comprendere perché suo padre non avesse mai voluto un'altra donna.

“Nonna Gytha!”, esclamò Gunhild scendendo dalle ginocchia della nonna, non appena questa ebbe terminato il suo racconto. “Un giorno sarò come nonno Thorgil: un vero guerriero vichingo”. E, dicendo questo, la bambina si mise in una posa che a lei sembrò marziale, la mano sul fianco e l'altra a reggere un immaginaria lancia. Magnus non resistette e scoppiò a ridere.

“Tu sei una femmina”, la sbeffeggiò, con una punta di malignità, “le femmine non vanno in guerra, non combattono, non portano armi... stanno solo a casa a partorire figli!”

Gunhild sapeva bene che Magnus amava stuzzicarla e sapeva anche che non avrebbe dovuto prendersela, ma l'umiliazione di essere stata derisa era troppo forte. Il suo sangue vichingo, la sua maledizione, prese il sopravvento e la bambina si gettò contro il fratello, che improvvisamente cessò di ridere. Gunhild era solo una bambina, è vero, ma Magnus sapeva che la sorella minore era capace di procurargli molti fastidi quando era arrabbiata. I due rotolarono sul pavimento tra gli strilli di Edith, che mandò subito la sua dama a separarli, proprio mentre Gunhild tentava di graffiare Magnus. Edith non amava sporcarsi le mani, era una perfetta signora lei, anche se era figlia di un semplice signorotto di campagna. Emma, la dama di compagnia, divise i due bambini rimproverandoli per il loro comportamento.

“Soprattutto voi, Lady Gunhild! Vergogna! Voi che dovreste essere un esempio di come si comporta una signora...”, stava dicendo l'anziana dama, il tono irato e scandalizzato.

“Lasciatela stare”, ordinò nonna Gytha a voce bassa, ma in tono talmente autorevole che Emma lasciò immediatamente il braccio di Gunhild. “Dio sa che soprattutto le donne devono essere combattive, forti e determinate se vogliono proteggere se stesse in questo mondo.” Gunhild si rifugiò in braccio alla nonna, umiliata ma non sconfitta, incrociando le braccia all'altezza del petto. Ora sapeva che lei era dalla sua parte, che sua nonna le avrebbe permesso di essere ciò che era. Sua madre, che aveva seguito la scena con occhi preoccupati, ora osservava la suocera. Era consapevole che, anche se Gunhild era sua figlia, non poteva competere con lei. Gytha proveniva da una stirpe di nobili e reali, era una gran dama, una signora. Ed Edith non aveva polso, né autorevolezza: era solo la figlia di un piccolo Lord di campagna e Gytha aveva il sangue dei vichinghi nelle vene. Al sicuro tra le braccia di sua nonna, Gunhild fece una boccaccia al fratello, mentre Edith riprendeva a guardare dalla finestra con un sospiro, gettando indietro le trecce bionde. Suo marito non poteva essere lontano.

 

Il padre di Gytha, Harold, Conte di Wessex, dell'East Anglia e di Hereford era il nobile più potente d'Inghilterra. Il suo primo titolo, Conte di Wessex, lo aveva ereditato alla morte di suo padre Godwin dieci anni prima; il secondo titolo, Conte dell'East Anglia, gli era stato concesso in virtù del matrimonio di sua sorella maggiore Edith con Re Edoardo, quasi vent'anni prima. E l'ultimo gli era stato assegnato qualche anno prima, quando avevo preso il posto di suo padre a capo dell'opposizione alla crescente influenza normanna in Inghilterra.

Tutte queste cose a Gunhild le avevano spiegate con pazienza i suoi fratelli maggiori, i gemelli Godwin ed Edmund, che avevano quattordici anni. Lei era la piccolina di casa, ultima di cinque figli, e tutti avevano molta pazienza con lei, tranne forse suo fratello Magnus, che era sempre stato di carattere difficile e con cui Gunhild si scontrava spesso.

 

Il conte Harold tornò pochi giorni dopo e al castello si tenne un grande banchetto per festeggiare il suo ritorno e la sua vittoria. Dopo un anno di campagna militare in Galles, Harold era tornato vincitore, avendo sconfitto e ucciso il sovrano del Galles, Gruffydd ap Llywelyn. Gunhild, nonostante i suoi otto anni, si chiese come si potesse festeggiare la morte di un uomo che non aveva fatto altro che difendere il proprio paese, ma non trovò risposta né la chiese. Lei e sua sorella Gytha se ne stavano nella loro stanza, sotto la sorveglianza della loro balia, che però dormiva della grossa su una sedia. I bambini erano considerati troppo piccoli per prendere parte alla festa che si teneva nella sala dei banchetti. Perfino i gemelli erano stati condotti via dal loro pedagogo. Anche da lassù, dalla loro stanza nella torre, Gytha e Gunhild udivano la musica e le risate provenienti dal basso e non riuscivano a dormire.

“Dormi, Gunhild?”, chiese improvvisamente Gytha, alzando la testa dal cuscino.

“Non ci riesco”, ammise lei, intenta a fissare il soffitto ad occhi aperti. “Credi che mamma sia contenta del ritorno di nostro padre?”

“E' contenta soprattutto di poter restare in Inghilterra.”

“Che vuoi dire?”

“Tu non eri ancora nata e nemmeno io, ma per nostra madre è stata dura lasciare l'Inghilterra al seguito di nostro padre e di nostro nonno, dodici anni fa. Era incinta di Magnus allora e infatti lui è nato in esilio, in Irlanda...”

“Sono stati via molto?”

“Solo un anno. Nonno era troppo potente perché potessero tenerlo lontano dall'Inghilterra per molto tempo.”

Il loro nonno Godwin aveva avuto un violento scontro con suo genero, il re Edoardo, quando si era rifiutato di obbedire all'ordine di punire gli abitanti di Dover che si erano rivoltati all'arrivo di Eustachio II di Boulogne, cognato del sovrano. Edoardo aveva reagito esiliando Godwin che aveva dovuto lasciare il paese nel settembre del 1051, accompagnato dalla moglie e dal figlio Harold con tutta la sua famiglia. Era stato Harold ad aiutarlo, un anno più tardi, a rientrare nelle grazie del re e a riottenere tutti i titoli e le terre che gli erano stati tolti.

“Nostra madre non vuole più andare in esilio, vero Gytha?”, domandò Gunhild, dopo un attimo di riflessione.

Gytha le sorrise al buio, dall'alto dei suoi dieci anni.

“Certo che no, sciocchina! Mamma, è un'inglese tutta d'un pezzo. Non sta bene da nessun'altra parte. Non è come nonna Gytha.”

 

La notte del ritorno di suo padre dal Galles, Gunhild comprese finalmente che la sua non era una famiglia come le altre, e che di conseguenza la loro vita – la vita di tutti loro - non sarebbe stata tranquilla e normale come quella degli altri. Suo padre deteneva un potere secondo solo al re in Inghilterra; aveva sposato sua madre, sì, ma solo secondo la More Danico, la legge danese, e il loro matrimonio non era riconosciuto dalla Chiesa. Tuttavia Godwin, Edmund, Magnus, Gytha e Gunhild erano considerati figli legittimi e Godwin era l'erede di suo padre. La loro zia, Edith, era la regina d'Inghilterra, e per finire c'era il sangue della loro nonna, metà danese e metà vichingo, a complicare il loro retaggio, e le sue connessioni con la monarchia danese, perché suo fratello Ulf aveva sposato la figlia del re di Danimarca Sweyn I divenendo il padre dell'attuale re Sweyn II. No, decisamente non erano una famiglia come le altre, e negli anni a venire Gunhild avrebbe maledetto più d'una volta il suo rango, il suo titolo, le sue parentele reali.






Angolo Autrice: Ciao a tutti! Ci ho pensato molto prima di pubblicare questa storia che avevo in mente da un po'. Come avrete capito parlo di personaggi storici realmente esistiti, a parte alcuni personaggi minori che per forza di cose ho dovuto immaginare, quindi spero di essere riuscita a renderli in maniera rispettosa (dopotutto trattandosi di personaggi reali ci tengo molto a non stravolgerli). Ovviamente data la scarsità di notizie sulla mia protagonista, Gunhild, molte cose ho dovuto inventarle. Ma laddove ho trovato un avvenimento storico potete stare certi che gli sono rimasta fedele.^^ Spero che la storia possa interessarvi e di tornare presto con il secondo capitolo. Se vi va lasciatemi una recensione, anche negativa se credete... le critiche costruttive sono sempre bene accette!

 

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


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Maggio 1064

Winchester Castle, Wessex, Inghilterra

 

Gunhild aveva sempre odiato la prospettiva di essere debole. Non voleva essere come sua madre, sempre lì a struggersi per un uomo che era via sei mesi l'anno e, quando ritornava, portava con sé storie di guerra e di morte, la spada insanguinata in un mano, lo scudo nell’altra. Era per questo che fin dalla più tenera età aveva cominciato a disertare le lezioni di buone maniere e di musica dell'istitutrice, e a sgattaiolare nel cortile del castello per osservare di nascosto le lezioni che i suoi fratelli maggiori prendevano dal maestro d'armi. I primi tempi era così piccola e minuta che, standosene acquattata dietro un mucchio di scudi o un carro di fieno, nessuno l'aveva notata e aveva potuto assistere a diverse lezioni indisturbata.

Ma l'istitutrice era infine andata a lamentarsi con la Contessa Edith, e sua madre aveva reagito ordinando alla sua balia di sorvegliarla da vicino per assicurarsi che prendesse parte alle lezioni femminili. Allora Gunhild era andata a chiedere aiuto a sua nonna, e la Contessa Vedova aveva interceduto personalmente presso la nuora perché Gunhild potesse seguire la sua vera vocazione. Così si era giunti ad un compromesso: dopo che aveva eseguito diligentemente tutti i compiti assegnati dall'istitutrice Gunhild poteva andare a seguire la lezione di tiro con l'arco.

Gunhild ci si era talmente appassionata, e aveva talmente tanto talento, che il maestro d'armi lo aveva personalmente segnalato al Conte Harold.

La bambina ricordava con timore reverenziale il giorno in cui, all'età di sette anni, suo padre, grande e terribile, quel padre che a volte le incuteva quasi timore, l'aveva chiamata nel suo studio privato per farle i complimenti. Harold le aveva fatto una carezza sui capelli e l'aveva esortata a coltivare il suo dono, senza però dimenticare i suoi doveri di donna.

“S-sì padre”, aveva balbettato Gunhild, con le guance in fiamme, per poi essere portata via dalla balia.

 

All'età di nove anni Gunhild sarebbe stata in grado di battere molti arcieri professionisti, se solo li avesse potuti sfidare in una competizione. Non avrebbe mai rinunciato alle sue lezioni.

“Non capirò mai cosa tu ci trovi di interessante!”, commentò un giorno Gytha scuotendo il capo, lo sguardo fisso sul ricamo che stava finendo. Gunhild aveva appena terminato il suo lavoro e stava già per scendere in cortile alla sua lezione di tiro con l'arco.

Alzò il mento altezzosamente, e non degnò la sorella di una risposta. Voleva molto bene a sua sorella, erano molto unite, ma avevano caratteri diversi. Gytha era l'orgoglio della loro madre, la vera immagine di una dama, ed era chiaro a tutti che avrebbe presto fatto un buonissimo matrimonio. Gunhild invece era la pupilla della loro nonna, che rivedeva in lei il proprio retaggio vichingo. C'era solo una cosa che a Gunhild interessasse quanto il suo arco: l'amore per la conoscenza. Amava la letteratura, il latino, la poesia e seguiva attentissima le lezioni del pedagogo di casa. Padre Leofric era fiero della sua piccola allieva, che a differenza della sorella maggiore e di tutti i fratelli maschi messi insieme, divorava un libro dopo l'altro e parlava il latino meglio di Cicerone. Tuttavia sapeva che tutta quell'intelligenza e quell'istruzione sarebbero andate perse quando la bambina si fosse sposata. L'unico modo perché una donna potesse continuare il percorso di studi e mettere a frutto le proprie abilità, sarebbe stato entrare in convento e prendere il velo.

 

“Nostro padre ti farà frustare!”, sibilò Gunhild all'indirizzo del fratello maggiore. La risposta di Magnus fu una risata spavalda. Continuò a camminare a passo deciso verso le stalle, mentre Gunhild gli andava dietro con passo saltellante.

“Sai bene che non hai il permesso di cavalcare uno stallone. Sei troppo piccolo!”

Magnus si bloccò e si girò a squadrarla dall'alto dei suoi tredici anni. Non la degnò nemmeno di una risposta, mosse semplicemente le labbra in un borbottio di sufficienza.

“E va bene, fai come vuoi!”, gridò Gunhild frustrata.

“Certo che faccio come voglio!”, gridò Magnus di rimando. E poi dandole una leggera spinta per scostarla si diresse verso il cavallo di Harold, un magnifico stallone color crema.

“No, non quello di nostro padre!” mormorò Gunhild inorridita.

Ma Magnus non la stava più a sentire e, aiutandosi con uno sgabello, salì in groppa all'animale.

Afferrò le briglie e diede tentativamente di sperone. Il cavallo partì al passo e Magnus lo guidò fuori dalle stalle. Fece un paio di giri del cortile, poi si girò verso Gunhild con aria trionfante, pronto a stuzzicarla di nuovo. Ma Gunhild era rimasta impietrita, perché in quel momento un gruppo di oche che dovevano essere sfuggite al guardiano attraversarono il cortile starnazzando, proprio davanti agli zoccoli del cavallo. L'animale si imbizzarrì e Magnus, che non era pronto a reggersi, cadde sulle pietre del cortile.

“Magnus!”, gridò Gunhild correndo verso il fratello. Per fortuna in quel momento arrivarono anche il guardiano delle oche e uno stalliere, che calmò lo stallone e lo allontanò da Magnus. Poi sia lui che Gunhild si chinarono sul ragazzino. Per fortuna Magnus sembrava cosciente e si rialzò quasi subito.

“State bene milord?”, chiese l'uomo preoccupato.

Magnus fece un sorrisetto forzato, cercando di nascondere il dolore alla testa che l’urto gli aveva procurato. Aveva anche il capogiro, ma per nulla al mondo se lo sarebbe lasciato sfuggire di fronte alla sorella minore. “Sto bene. Mi ci vuole altro che un cavalluccio per procurarmi danni!”

Lo stalliere sembrava arrabbiato e aveva tanto l'aria di voler raccontare tutto al conte, ma aveva anche paura di venire punito per aver lasciato i cavalli incustoditi. “Non dirò nulla a vostro padre, ma voi dovete promettermi di non fare mai più una cosa del genere. Potevate restare ucciso!”

Magnus corse via senza rispondere. Gunhild scosse la testa e gli gridò dietro. “Mi preoccuperò io stessa di dirlo a nostra madre Magnus! E nostro padre ti farà frustare!”

 

Il giorno seguente Gunhild si stava allenando sodo in cortile, concentrata sul bersaglio di paglia che le stava di fronte. Scagliava una freccia dopo l'altra con precisione e determinazione. Piccole gocce di sudore le imperlavano la fronte. Poco più in là poteva udire distrattamente i gemelli che si allenavano con il loro maestro d'armi. Sentiva la voce tonante del maestro, e le risposte concise di Edmund e Godwin a turno. Ma qualcosa stonava. Mancava qualcosa, anche se Gunhild, concentrata sul bersaglio, non era in grado di rifletterci sopra. Ma sentiva che c'era qualcosa di dissonante. Quella sensazione le faceva pizzicare la pelle e tentava di portare via la sua attenzione dal bersaglio, finché infastidita la bambina si voltò verso quel lato del cortile.

Con aria irritata fissò i suoi fratelli e il maestro d'armi, poi di nuovo i fratelli. Come se contasse tra sé e sé, Gunhild fece vagare lo sguardo dall'uno all'altro. Poi un campanello le squillò nella testa: dov'era Magnus? Perché non era presente alla lezione? Di solito non ne mancava una. Alzò le spalle e accantonò il pensiero in un angolino della sua mente.

Se ne ricordò durante il pasto di mezzogiorno, che consumò insieme a sua sorella e alla balia nelle loro stanze. Stava per addentare un pezzo di coniglio, quando alzò lo sguardo sulla balia e chiese: “Balia, dov'è Magnus? Oggi non l'ho visto a lezione.”

La donna si sporse a guardare sia Gunhild che Gytha. “Non lo avete saputo?”, sussurrò costernata.

“Cosa?”, balzò su immediatamente Gytha.

“Vostro fratello è a letto, malato. Mi dispiace, bambine”, concluse la donna, scuotendo il capo.

“Dobbiamo andare subito da lui”, esclamò Gytha con decisione, prendendo Gunhild per mano. Insieme uscirono in corridoio e volarono verso la camera di Magnus.

Quando entrarono, la stanza era in penombra. I servitori e perfino le dame di Edith si muovevano con passo furtivo. La Contessa era seduta al capezzale del figlio, stringendogli una mano fra le sue. Alzò lo sguardo quando vide entrare le figlie, e aveva gli occhi lucidi. Gunhild e Gytha le furono subito accanto ed Edith le abbracciò entrambe.

Gunhild lanciò uno sguardo a Magnus, che giaceva immobile sotto le coltri, il respiro affannoso, gli occhi cerchiati di scuro.

“Cos'è accaduto, madre?”, chiese infine Gytha dopo aver guardato il fratello per una manciata di secondi.

Edith si asciugò gli occhi e, alzandosi, fece cenno alle figlie di fare altrettanto. Poi le guidò nella stanza accanto, ordinando alle cameriere di non lasciare mai Magnus da solo, neanche per un attimo, e di avvertirla se si fosse verificato qualsiasi cambiamento.

Una volta che ebbe chiuso la porta alle sue spalle, Edith spiegò: “Ricordate quella caduta da cavallo che ha fatto ieri, quando ha preso dalle stalle quello stallone che non avrebbe dovuto montare?”

Gunhild e Gytha annuirono all'unisono.

“Ma sembrava stesse bene!”, aggiunse Gytha immediatamente. “Si è rialzato subito e ne ha riso.”

“Sì, e vostro padre gli ha fatto anche una bella ramanzina”, continuò Edith. “Ma stamane ha cominciato ad accusare capogiri, ha rimesso la colazione ed ora ha anche perso conoscenza. Il cerusico ha detto che potrebbe avere un'emorragia interna, ma non è riuscito a capire dove sia. Ha detto che crede sia in testa...” Edith concluse con voce tremante, le spalle che le si accasciavano.

Gytha l'abbracciò. “Non ci resta che aspettare e pregare, madre”, disse.

 

I funerali di Magnus si tennero nella Cattedrale di Winchester, all'alba di un giorno nebbioso. Magnus non aveva mai ripreso conoscenza prima di morire. Gunhild si era sentita in colpa per la prima volta nella sua breve vita. Non era mai andata d'accordo con Magnus, ma lui era comunque suo fratello e lei gli voleva bene. Si sentiva in colpa perché forse lui era morto senza saperlo, credendo di essere odiato dalla sorella minore. Gunhild aveva provato a dirglielo il giorno prima che morisse, ma lui non era mai uscito dal suo stato di incoscienza, e la bambina non poteva sapere se l'avesse sentita o no. Poi aveva dovuto farsi da parte, perché padre Leofric era venuto a somministrare i sacramenti a Magnus.

Lo aveva chiesto la sera del funerale, a sua sorella Gytha, mentre erano intente alla toeletta serale nelle loro stanze.

“Gytha, credi che Magnus sapesse che gli volevo bene?”

Sua sorella era seduta davanti allo specchio, intenta a pettinarsi meccanicamente la lunga chioma. Quando si girò verso Gunhild, aveva gli occhi lucidi, ma ingoiò le lacrime.

“Certo che lo sapeva, sciocchina”, l'apostrofò come suo solito.

“Ma noi litigavamo sempre. Non credo di avergli mai detto una parola gentile, né lui a me”, protestò Gunhild con la sua logica infantile.

“Ti voleva bene, credimi”, replicò Gytha con dolcezza.

Gunhild sentì qualcosa che le si gonfiava nel petto, divenendo sempre più opprimente, finché le lacrime finalmente vennero. La bambina corse in avanti e abbracciò la sorella con tanta foga da farle quasi perdere l'equilibrio.

“Ehi!”, protestò Gytha, colta di sorpresa. Ma poi abbracciò la sorellina di rimando.

“Ti voglio bene, Gytha”, disse Gunhild. “Lo ricorderai se mai dovessimo essere separate?”

“Certo che lo ricorderò. Ma non saremo mai separate, sciocchina... perché dovremmo?”






Angolo autrice: Ecco il secondo capitolo, mi dispiace che non sia dei più allegri, ma purtroppo ci tocca anche questa! :( Se può consolare però, nel prossimo ci saranno avvenimenti sicuramente più positivi. Grazie a tutti quelli che hanno letto, e a chi ha lasciato o lascerà una recensione.

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


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Dicembre 1065

Westminster Palace, Londra, Inghilterra

 

Londra era un mondo tutto nuovo per una bambina di dieci anni che non si era mai allontanata dal Wessex. E tale era apparsa agli occhi di Gunhild, già nel momento in cui le carrozze che un mese addietro avevano portato la famiglia del Conte di Wessex a Palazzo Reale si erano fermate davanti alle sue porte. Ufficialmente i nobili del regno si erano riuniti a Londra per le tradizionali celebrazioni di Natale e dell'Epifania, ma c'era anche un'altra ragione, conosciuta a suo padre Harold e a pochi altri nobili: Re Edoardo stava morendo. La regina Edith aveva mandato a chiamare il fratello, perché la questione della successione era a dir poco spinosa. La coppia reale non aveva avuto figli, ma questo era una piccola parte del problema, perché la corona inglese non si tramandava di padre in figlio. Era l'assemblea dei nobili, la Witenagemot, che sceglieva colui che avrebbe cinto il serto regale.

Gunhild sapeva che suo padre Harold era il favorito, sebbene dall'altra parte del mare, in Normandia, ci fosse chi non sarebbe stato d'accordo. Il cugino di re Edoardo, Guglielmo di Normandia, aspirava anch'egli alla corona inglese, dimenticando che la sua parentela con il re non significava nulla, dal momento che la corona inglese non era ereditaria, e i nobili inglesi avrebbero preferito morire che assegnare la corona ad uno straniero.

Oltretutto, qualche mese addietro, Harold aveva rinforzato la sua pretesa sul trono mettendosi perfino contro suo fratello Tostig, il Conte di Northumbria, pur di proteggere il paese. Tostig aveva raddoppiato le tasse nei suoi domini; il popolo si era ribellato e l'Inghilterra rischiava di precipitare nella guerra civile a causa delle scellerate azioni di Tostig. Suo padre aveva appoggiato i ribelli del Northumbria contro il suo stesso fratello e l'aveva rimpiazzato con Morcar, figlio minore del Conte di Mercia. Questo aveva evitato la guerra civile e rafforzato la posizione di Harold come erede di re Edoardo, ma aveva spaccato la loro famiglia e Tostig aveva giurato vendetta contro il fratello. Neppure le lettere che la Contessa Vedova di Wessex Gytha scrisse a quel figlio irresponsabile riuscirono a far ragionare Tostig, che aveva nel frattempo lasciato il paese.

A palazzo, il re aveva assegnato degli ampi appartamenti alla famiglia del Conte e numerosi servitori.

I festeggiamenti del Natale furono fastosi, sebbene un po' sottotono a causa della malattia del re. Gunhild non venne giudicata abbastanza grande per parteciparvi, ma Gytha sì: con i suoi dodici anni era ormai in età da fidanzamento, e trovarle un marito sarebbe stato particolarmente facile viste la sua ricca dote e la sua bellezza sempre più sfavillante.

Il 31 dicembre il re cadde in coma. Cinque giorni più tardi riprese brevemente conoscenza. I molti nobili e alti dignitari del regno che lo attorniavano poterono testimoniare che non si pronunciò chiaramente su un suo possibile successore, ma nei suoi ultimi momenti di lucidità raccomandò sua moglie Edith e il regno nelle mani di suo cognato Harold. Poi morì.

Non era difficile immaginare quale sarebbe stata la decisione della Witenagemot, che si riunì il giorno dell'Epifania. Elessero Harold, Conte di Wessex, Re d'Inghilterra.

 

Gunhild era rimasta confinata nelle sue stanze per la maggior parte del tempo, perciò aveva saputo poco di tutto quello che era successo. Sapeva solo che suo zio, il buon re Edoardo, era morto. Ma non seppe il resto finché, nel giorno dell'Epifania, dopo aver assistito alla Messa, Gytha si precipitò nelle loro stanze, accompagnata da Edmund, Godwin e dalla loro madre Edith.

I gemelli e Gytha erano decisamente euforici, cominciarono a parlare tutti assieme, accompagnando le parole con espressioni e gesti di gioia e incredulità. Edith si sedette su una sedia, quasi inosservata, silenziosa e cupa in viso.

“Che succede? Che succede?”, continuava a chiedere freneticamente Gunhild, tirando a turno l'abito della sorella e le tuniche dei fratelli, sperando di attirare la loro attenzione.

I tre si voltarono quasi all'unisono, e ricominciarono a parlare tutti insieme.

“Uno alla volta, per favore!”, strillò Gunhild esasperata.

“Nostro padre è stato eletto re”, esclamò Edmund. “Siamo ufficialmente principi d'Inghilterra!”

“Oh, mio Dio”, mormorò Gunhild, portandosi le mani al viso.

“Ci pensi, sorellina?”, disse Gytha prendendole le mani. “Probabilmente ora sposerò un re.”

I quattro fratelli continuarono i loro commenti euforici, sovrapponendosi l'uno all'altro nel parlare; sempre più audaci nel fare progetti per il futuro e sognare ad occhi aperti.

“Avranno già informato nonna Gytha che suo figlio è re?”, stava dicendo Gunhild, incapace di dimenticare l'adorata nonna rimasta a casa.

“Figli miei”, si levò piano la voce di Edith, talmente piano che dapprima i figli non la sentirono. Solo quando la Contessa ebbe ripetuto la sua invocazione, Edmund, Godwin, Gytha e Gunhild si sedettero accanto a lei, intorno al grande tavolo del salotto. Sarebbero potuti sembrare un'autorevole assemblea riunita per prendere una decisione vitale.

Quando Edith parlò di nuovo si sforzò di alzare un poco il tono della voce.

“Figli miei, ora siete tutti principi e principesse d'Inghilterra, e vedo davanti a voi un futuro pieno di prospettive. Ma io non sono, e non sarò mai, regina di questo paese...”

“Madre! Cosa dite?”, protestò immediatamente Godwin. “Voi siete la moglie del re!”

“Solo per la legge danese, Godwin”, proseguì Edith facendogli segno di tacere. In quel momento, guardando il volto distrutto, sebbene ancora bellissimo, di sua madre, Gunhild pensò che non si fosse mai veramente ripresa dalla morte di Magnus, e che fosse da allora che il turbamento avesse cominciato a scavare in lei. Magnus era sempre stato il suo preferito e perderlo a quel modo all'età di tredici anni l'aveva distrutta.

“Ma la Chiesa non riconosce il nostro matrimonio, ed ora che è re, vostro padre avrà bisogno di una moglie che anche il Clero possa accettare. Avrà bisogno del matrimonio con una donna di alto rango che gli porti una preziosa alleanza.”

Zittì un'ulteriore protesta da parte dei figli e continuò: “So quello che dico, figli miei. E ve lo dico affinché siate preparati. Fidatevi di me quando vi dico che non passerà molto tempo prima che vostro padre riprenda moglie e io sia allontanata da questa corte. Io sono la figlia di un membro della piccola nobiltà, della nobiltà terriera: non sono una moglie di rango sufficiente per essere regina, e questo vostro padre l'ha sempre saputo. Perché credete che non mi abbia mai sposato anche davanti ad un prete? Ma, badate bene, non lo biasimo per questo. Vostro padre mi ha amata veramente, in questi vent'anni mi ha dato tutto ciò che potessi desiderare. Mi ha sposata davanti alla legge quando tutti gli consigliavano di prendermi solo come amante... ”

“Io non lo permetterò!”, dichiarò Gunhild con aria di sfida. “Non permetterò che siate messa da parte per un'altra!”

Edith sorrise con amarezza, ammirata dal coraggio di quella figlia che, caratterialmente, non assomigliava per niente a lei e tutta a sua suocera Gytha.

Sospirò e allungò le mani verso Gunhild per mettersela in braccio. Le scostò dolcemente una ciocca che le era sfuggita dalle trecce e sospirò di nuovo.

“Tu non farai niente, piccola mia”, le disse guardandola negli occhi. “Le cose devono andare in questo modo, ed è giusto così. Ho avuto vent'anni di felicità accanto a vostro padre e cinque splendidi figli. Sono pronta a farmi da parte. E la vostra vita sarà così piena di opportunità che non avrete tempo di rimpiangermi.”

Quello fu il momento, a memoria di Gunhild, in cui si sentì più legata a sua madre da quando era venuta al mondo.

 

L'incoronazione di Harold si tenne il giorno stesso in cui venne eletto re, il giorno dell'Epifania. I nobili avrebbero presto lasciato Londra e, prima che questo avvenisse, l'incoronazione doveva avere luogo. I preparativi furono a dir poco frenetici. Anche se re Edoardo era morto da poco la corte non avrebbe portato il lutto, fatta eccezione per la regina vedova. La regola era questa: il re era morto, lunga vita al re. Era morto un uomo il giorno precedente, non la corona che egli simboleggiava. Non c'era tempo di confezionare abiti nuovi, così Gunhild e Gytha tirarono fuori dai bauli di viaggio gli abiti migliori che avevano. Gytha indossò un abito rosso ed un velo bianco, entrambi con gli orli ricamati con lo stesso motivo, e Gunhild un abito più adatto ad una bambina, verde scuro con ricami celesti, e una sopratunica color sabbia, stretta in vita da una cintura con gli stessi ricami dell'abito. Niente velo, perché era ancora piccola per dover sottostare all'obbligo di coprire i capelli. Gytha mise anche una coroncina di bronzo, lavorata a intreccio, a cingerle la fronte, ed un ciondolo al collo. Gunhild, considerata troppo piccola per i gioielli, dovette accontentarsi del cerchio di stoffa intonato all'abito intorno alla fronte. Le ancelle pettinarono loro i capelli in due trecce, poi si ritirarono.

L'incoronazione si svolse all'Abbazia di Westminster, affollata di nobili di ogni rango. Gunhild, Gytha, Edmund e Godwin vi assistettero seduti nelle prime file. Edith non venne: già sapeva, che nel nuovo ruolo che suo marito rappresentava, non c'era più posto per lei. L'Arcivescovo di York Ealdred posò solennemente la corona sul capo di Harold, che da quel momento divenne Harold II, re d'Inghilterra. Non c'era una regina da incoronare al suo fianco, ma presto ci sarebbe stata, e tutti sapevano che non sarebbe potuta essere Edith la Bella.

 

Le previsioni di Edith si rivelarono esatte. Il matrimonio tra Harold e Ealdgyth di Mercia venne organizzato in tempi davvero brevi. Gunhild aveva assistito alla partenza di sua madre mano nella mano di Gytha, cercando di resistere alla tentazione di scoppiare in lacrime. Neanche il fatto che a Londra nel frattempo fosse giunta la Contessa Vedova di Wessex, nonna Gytha, riusciva a consolarla.

Suo padre si era chiuso per un giorno intero nelle sue stanze dopo la partenza di Edith, chiedendo di essere lasciato solo. Per lui era stato veramente difficile lasciare andare la sua amata, la donna che gli era stata accanto fedelmente e ubbidientemente per tutta la vita, ma aveva dovuto farlo. Le aveva assegnato un titolo e dei possedimenti, così che non le mancasse mai nulla, ma l'aveva lasciata andare via. Edith si era messa in viaggio verso la sua nuova casa nello stesso momento in cui Ealdgyth lasciava il Galles per raggiungere Londra, dove avrebbero avuto luogo le nozze con re Harold.

La nuova moglie di suo padre non era altri che la vedova del principe di Galles Gruffydd ap Llywelyn, lo stesso uomo che Harold aveva ucciso solo tre anni prima. Gunhild era rimasta sconcertata nell'apprenderlo, ma evidentemente questo dettaglio era poco importante dal momento che Ealdgyth, figlia del Conte di Mercia e vedova del sovrano del Galles, portava a suo padre l'alleanza della casata di Mercia.

Gunhild non sapeva se avrebbe mai rivisto sua madre, e quel peso le rimase sul petto per settimane. Era stata sua nonna Gytha, alla fine, a scuoterla, un giorno in cui non riusciva a smettere di piangere.

La Contessa l'aveva presa delicatamente per le spalle e le aveva intimato di smetterla. A sentire sua nonna usare un tono duro con lei, che era sempre stata la sua preferita e con cui non aveva mai alzato nemmeno un poco la voce, Gunhild smise immediatamente di piangere e fissò l'anziana donna con occhi sgranati.

“Quello che ha fatto tua madre è stato un atto di coraggio e forza, Gunhild. Te lo già detto una volta: sono le donne quelle che devono essere forti e determinate per sopravvivere in questo mondo. Un giorno toccherà anche a te dimostrarlo. Riuscirai ad essere forte, bambina mia?”

“Sì, nonna”, mormorò Gunhild, asciugandosi gli occhi con la manica.

“Me lo prometti, mia piccola guerriera vichinga?”, insistette Gytha.

“Te lo prometto”, disse la bambina con più convinzione. In realtà si vergognava di se stessa per aver pianto, ma era stato più forte di lei. Gunhild non piangeva quasi mai; solo una volta nella vita le era successo: quando era morto Magnus. Odiava piangere, lo considerava un segno di debolezza.

“Ora sei una principessa, bambina mia”, continuò la Contessa Vedova. “Devi sempre comportarti come tale. Ricordalo.”

Gunhild aveva cercato di fare suo l'insegnamento di sua nonna. Nonostante la vita al palazzo reale di Westminster fosse nuova per lei, con stanze più grandi, decine di cameriere personali e perfino una dama di compagnia per lei e sua sorella Gytha, Gunhild cominciò pian piano ad abituarvisi. Alla fine di gennaio si celebrarono le nozze fra re Harold e Ealdgyth, e Gunhild e i suoi fratelli cominciarono presto a familiarizzare con la loro nuova matrigna.

In primavera Ealdgyth era già in attesa del primo figlio, e la vita di Gunhild subì una svolta decisiva.

Il nuovo pedagogo di corte, incaricato dell'istruzione delle principesse, rimase ancor più colpito dell'intelligenza fuori del comune di Gunhild di quanto lo fosse stato Padre Leofric. Andò a parlarne con il re e, dopo quel colloquio, Harold convocò la figlia minore nel suo studio.

“Padre”, disse rispettosamente Gunhild con un inchino, quando fu alla presenza del re.

“Gunhild, bambina mia”, le sorrise Harold. “Devo parlarti del tuo futuro. Potete lasciarci, mia cara”, aggiunse all'indirizzo della regina Ealdgyth. Questa annuì in silenzio, sorrise a Gunhild facendole una carezza sui capelli e uscì dalla stanza.

Per un terribile momento Gunhild pensò che suo padre volesse fidanzarla a qualcuno. Il pensiero del matrimonio la terrorizzava, perché mai nella sua vita avrebbe voluto fare la fine di sua madre, malata d'amore per un uomo, totalmente dipendente da lui. Su questo la principessa aveva avuto le idee ben chiare fin da quando era in fasce: non voleva sposarsi, né tantomeno innamorarsi. Perché questo le avrebbe fatto perdere il controllo sulla propria vita, l'avrebbe fatta divenire debole. E lei odiava essere debole.

“Il vostro insegnante mi ha detto del vostro amore per lo studio e, su suo suggerimento, ho deciso di permettervi di coltivare questo dono. Vi piacerebbe studiare all'Abbazia di Wilton?”

Dapprima Gunhild credette di aver frainteso le parole del padre: non le pareva possibile che avesse parlato seriamente. Poi la gioia prendette il sopravvento, e la ragazzina provò l'impulso di mettersi a saltellare dalla contentezza. Fece uno sforzo per controllarsi e si limitò ad abbracciare il padre.

“Oh padre, sarebbe... sarebbe meraviglioso!”, balbettò emozionata. Non poteva credere che il suo sogno si sarebbe veramente avverato.

 

La prima persona a cui diede la bella notizia fu ovviamente sua sorella Gytha, che l'abbracciò felice.

“Sorellina!”, esclamò con un gran sorriso. “Non posso credere che andrai a Wilton!”

“Nostro padre ha detto che partirò fra una settimana, e io...”, si bloccò al pensiero che non avrebbe rivisto i suoi fratelli per moltissimo tempo. Il suo sguardo si incupì, ma una mano di Gytha raggiunse la sua. Sua sorella dovette indovinare i suoi pensieri, perché disse: “Non devi pensare a noi, Gunhild. Hai la possibilità di avere l'istruzione migliore d'Inghilterra, non devi esitare. E poi non mi hai sempre detto che non vuoi sposarti? A Wilton potrai diventare monaca se lo vorrai, e vivere e lavorare in mezzo ai libri, senza che alcun uomo possa chiederti in moglie o nostro padre sceglierti un marito.”

Era vero. Era quello che aveva sempre voluto. Forse non aveva la vocazione necessaria per prendere i voti, ma preferiva di gran lunga farsi monaca e poter trascorrere la vita ad imparare, leggere, tradurre opere dal latino, piuttosto che buttarla via per uno squallido matrimonio, costretta a sfornare figli uno dopo l'altro.

“E tu?”, chiese improvvisamente a Gytha. “Che ne sarà di te, sorella mia? Vuoi davvero sposarti?”

“Non dipende da me, lo sai”, mormorò Gytha abbassando lo sguardo. “Sono una principessa d'Inghilterra. Se nostro padre decide che devo prendere marito per cementare un'alleanza è mio dovere ubbidirgli. Io non sono intelligente e dotata come te, sorella. Il mio destino è sposarmi, ed è anche ciò che voglio, in fondo. Ormai ho tredici anni, ed è probabile che entro l'anno sarò fidanzata...”

“Lo so. È ciò che ho temuto anche io in questi ultimi mesi: che ora che sono una principessa, nostro padre volesse trovarmi marito. Per questo sono così felice che voglia mandarmi a Wilton. È il mio sogno, è ciò che voglio davvero.”

“Allora ti auguro di essere molto felice, Gunhild”, mormorò Gytha abbracciandola.

“Anche tu, sorella. Ti scriverò ogni volta che mi sarà possibile.”

 






Angolo Autrice: Ed eccoci qui con il terzo capitolo, abbastanza ricco di avvenimenti. Ringrazio tutti colori che leggono, e chi ha inserito la storia tra le preferite/ricordate/seguite..... significa davvero moltissimo per me! Se vi va lasciatemi una recensione, ci tengo molto al vostro parere. ;)

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


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Aprile 1066

Abbazia di Wilton, Wessex, Inghilterra

 

“Siamo arrivati finalmente! Quella laggiù è l'abbazia. Siete contenta, principessa?”, disse con entusiasmo la grassoccia dama di compagnia di Gunhild, Blythe, incaricata dal re di fare da chaperon alla figlia per il viaggio.

Gunhild sorrise in risposta, stanca per il lungo viaggio, ma felice.

L'abbazia di Wilton si ergeva su un colle, a poca distanza dalla città di Searesbyrig. Era quasi il tramonto di una bella giornata primaverile, e il disco arancione del sole declinava lentamente dietro il colle. Gunhild era arrivata nel luogo in cui voleva essere, e tutto le sembrava perfetto. Il capitano della scorta fece cenno ai soldati di rimettersi in marcia, e Gunhild diede di sperone al proprio cavallo quasi distrattamente, con lo sguardo ancora perso nel sole al tramonto che gettava un'ombra infuocata sui muri di pietra dell'abbazia.

Sarebbe stata una visione pressoché perfetta, se solo Lady Blythe avesse smesso di chiacchierare.

“Sapete che fu vostra zia, la nostra cara Regina Vedova, a far ricostruire l'abbazia in pietra dopo che l'usurpatore danese Sweyn distrusse quella in legno, più di sessant'anni fa? E anche vostra zia la Regina Vedova è stata educata qui... oh, ma ovviamente voi questo lo sapete, principessa. Chiedo perdono...”

“Siete perdonata, Lady Blythe”, rispose stancamente Gunhild.

Come Dio volle, la scorta della principessa giunse presto alle porte dell'abbazia. Le monache la accolsero con tutti gli onori dovuti al suo rango. Le mostrarono la sua camera e alloggiarono anche la sua scorta e la sua dama di compagnia, che avrebbero intrapreso il viaggio di ritorno a Londra il mattino seguente. Con lei sarebbe rimasta solo un'ancella personale per tutto il periodo della sua educazione.

La giovane novizia che le mostrò la sua stanza era davvero gentile. Si chiamava Margaret e non poteva essere più grande di lei di più di un paio d'anni. Anche lei entro due anni avrebbe preso i voti e indossato l'austero cappuccio bianco?

La stanza che le era stata assegnata dava sul chiostro, e si trovava nell'ala dove alloggiavano le altre nobildonne che il convento ospitava. Era accogliente, anche se non molto grande, con solo un letto a baldacchino nel mezzo e un comò dove riporre gli abiti. Mentre la cameriera disfaceva i bagagli, Gunhild fece un bagno nella tinozza di legno che due servitori portarono nella stanza. Indugiò a lungo nell'acqua tiepida, ad osservare distrattamente i suoi eleganti abiti venire riposti nei cassetti di legno scuro del semplice mobile. Finché non avesse deciso di iniziare il noviziato avrebbe indossato i suoi abiti di sempre. Se avesse deciso di iniziare il noviziato, pensò Gunhild, ma in cuor suo sapeva che era altamente probabile. Non voleva tornare indietro come aveva fatto sua zia Edith. Cosa l'aspettava lì fuori se non un marito, per cui la sua intelligenza e istruzione non avrebbero contato nulla? Un odiato marito che l'avrebbe usata come una pedina sullo scacchiere politico, costringendola a scodellargli i suoi brutti figli, rendendola debole e patetica? No, promise di nuovo a se stessa Gunhild, come un'eco delle parole di sua nonna, non sarebbe mai stata debole.

 

 

 

Novembre 1066

Abbazia di Wilton, Wessex, Inghilterra

 

L'Inghilterra in cui Gunhild era nata, che aveva conosciuto e amato, era finita per sempre. Era finita nel peggiore dei modi, nel sangue. Era finita su un campo di battaglia, 7 miglia a nord-ovest della cittadina di Hastings, nel Sussex. La data della sua fine era il 14 ottobre dell’Anno del Signore 1066, e in quello stesso giorno, e in quella stessa battaglia, era morto anche suo padre.

Re Harold era morto e la corona ora era sul capo dell'usurpatore normanno, Guglielmo il Bastardo; la resistenza sassone era stata spazzata via come le spighe di grano da una falce affilata.

Gunhild tremava di rabbia al solo pensiero. La sua gente, suo padre, il suo paese... tutto finito.

Più d'una volta, in quei giorni che seguirono la battaglia di Hastings, Gunhild provò l'impulso di prendere le armi e andare lei stessa a combattere, fremeva per agire, il sangue vichingo che scorreva in lei stava prendendo il sopravvento. Poi l'istinto si placava, e la sua parte razionale prevaleva. Gunhild cercava allora di respirare a fondo e calmarsi, ma ogni volta che ripensava agli avvenimenti di quell'autunno si sentiva ribollire.

Le notizie che giunsero all'Abbazia furono frammentarie all'inizio, poi sempre più precise e complete, finché Gunhild non fu in grado di mettere insieme ogni più piccola informazione e dettaglio riguardo la fine dell'egemonia sassone in Inghilterra.

L'Inghilterra era stata attaccata su due fronti. All'inizio di settembre il re norvegese Harald Hadrada aveva invaso il nord del paese con una flotta di trecento navi e quindicimila uomini. Le forze di Harald si erano incrementate quando a lui si era unito il fratello di suo padre Harold, il traditore Tostig, ancora fedele ai suoi propositi di vendetta, con il suo esercito.

Il Conte Edwin di Mercia e il Conte Morcar di Northumbria, alleati di re Harold, nonché fratelli della sua regina, avevano provato a respingerlo, ma erano stati sconfitti nella battaglia di Fulford il 20 settembre; di conseguenza il re di Norvegia era riuscito ad occupare York.

Anche se i due conti erano sopravvissuti alla battaglia, le loro forze erano state spazzate via. Dopo aver preso degli ostaggi tra i notabili della città, i norvegesi si erano spostati verso est il 24 settembre, installandosi nel piccolo villaggio di Stamford Bridge. Suo padre Harold, che aveva saputo dell'invasione a metà settembre, si era precipitato con il suo esercito a Nord, attraversando l'Inghilterra in soli nove giorni. Giunto a York il re aveva appreso che i norvegesi si erano già messi in marcia e, cogliendoli di sorpresa, li aveva sconfitti nella battaglia di Stamford Bridge.

Re Harald e Tostig erano rimasti uccisi, e le perdite tra i norvegesi erano state tali che erano state sufficienti appena ventiquattro navi delle originarie trecento per riportarli a casa. Ma la vittoria era costata molto anche a suo padre Harold, e aveva lasciato il suo esercito sfiancato e ridotto di numero.

Gunhild non provò pietà alla notizia della morte di suo zio Tostig, pensò, davvero ferocemente per una ragazzina di undici anni, che suo padre avesse fatto bene ad uccidere un tale vigliacco traditore. Si chiese come avesse preso la notizia sua nonna Gytha.

Mentre re Harold stava tornando verso Londra con il suo esercito, gli era giunta la notizia che l'esercito normanno del Duca Guglielmo di Normandia era approdato sulla costa sud dell'Inghilterra. Harold aveva fatto tappa a Londra, ripartendo una settimana più tardi. I due eserciti, quello normanno e quello sassone, si erano scontrati ad Hastings il 14 ottobre, dando vita ad una battaglia sanguinaria. Lo scontro era durato circa nove ore, ma suo padre Harold aveva resistito fino alla fine, ed era stato ucciso da una freccia nell'occhio verso il termine della battaglia. Con la morte del re i soldati sassoni rimanenti erano andati allo sbando, tranne per la guardia reale, che aveva circondato il corpo di Harold e combattuto fino alla fine. Nella battaglia erano morti anche altri due zii di Gunhild, i fratelli del re Gyrth e Leowfine. Non soddisfatto della vittoria schiacciante, Guglielmo il Bastardo – e questo soprannome era ben rimarcato nella mente di Gunhild, ogni volta che pensava a lui – aveva fatto orribilmente mutilare il corpo di suo padre. Nonna Gytha aveva pregato il Duca Guglielmo di restituirle il corpo del suo adorato figlio, e si era offerta persino di pagare il suo peso in oro, ma i normanni avevano rifiutato.

Il giorno successivo alla battaglia sua madre Edith, che era stata catturata dai normanni prima dello scontro, era stata portata sul campo di battaglia per riconoscere il corpo di suo marito. Edith aveva potuto farlo perché era stata sua moglie per vent'anni e conosceva ogni singola cicatrice e neo del corpo di Harold. Quando alla fine lo aveva trovato, era quasi svenuta e aveva pianto a lungo. Grazie al suo riconoscimento, Guglielmo aveva potuto ordinare che il corpo del suo rivale venisse gettato in mare, nonostante anche i monaci dell'abbazia di Waltham, di cui Harold era stato il fondatore, avevano chiesto di poter dare al re d'Inghilterra una sepoltura cristiana nella loro abbazia.

 

Gunhild rimase sveglia diverse notti al pensiero di tutto quello che era accaduto, degli eventi che avevano distrutto la sua famiglia. Avrebbe voluto essere accanto ai suoi fratelli, a sua madre e a sua nonna. Ma era lontana da tutti loro. Cosa sarebbe successo quando i normanni fossero giunti a Londra? Cosa avrebbero fatto alla sua famiglia? Per brevi, folli momenti desiderò di non essere mai venuta all'abbazia di Wilton, di essere ancora a Westminster con i suoi cari. Rimase all'oscuro della loro sorte, a rigirarsi le mani nell'angoscia, finché verso la fine di dicembre, non le giunse una lettera di sua sorella Gytha.

Quando il messo la consegnò alle monache, suor Margaret andò personalmente a portargliela e ad assicurarsi che stesse bene. Gunhild l'aveva ringraziata con un filo di voce, poi l'aveva aperta con mani tremanti.

 

 

Exeter, 9 dicembre 1066

 

Mia adorata sorella,

Spero che questa mia ti trovi in buona salute e al sicuro. Dio lo sa che di questi tempi non è affatto scontato. Credo che tu sappia ciò che è successo appena due mesi fa: nostro padre è in Cielo e il bastardo usurpatore è sul trono. L'Inghilterra che conoscevamo è morta, e non ci sarà più pace per gli inglesi, perché saremo governati da uno straniero, un usurpatore che non sarà mai il vero re d'Inghilterra. Guglielmo credeva che gli sarebbe bastato vincere ad Hastings per piegare l'Inghilterra al suo volere, ma i nobili, il clero, ancora resistono all'invasore e la Witenagemot ha eletto un nuovo re sassone, il giorno dopo la battaglia di Hastings, un legittimo successore di nostro padre. Si tratta di Edgar, nipote di re Edmund II. È lui ora il vero re d'Inghilterra, e dovrebbe essere così per qualsiasi sassone che abbia ancora un po' di amor proprio e un cuore nel petto. Chissà che un giorno le cose tornino a posto, questi invasori siano ricacciati in mare e la felicità torni a lambire le nostre sponde.

Ti scrivo dal castello di Exeter. I fratelli della nostra matrigna, Edwin il Conte di Mercia e Morcar il Conte di Northumbria, sono corsi a Londra una volta avuta la notizia della morte del re. Sono venuti a mettere al sicuro la regina e l'hanno portata a Chester, nei loro possedimenti. Nonna Gytha ed io siamo fuggiti ad Exeter, insieme a metà corte. Godwin ed Edmund sono riusciti a scappare dalla battaglia ad Hastings e sono fuggiti in Irlanda con pochi fedelissimi. Zia Edith è rimasta a Londra; come regina vedova di un re che Guglielmo non considerava un nemico e rispettava, è al sicuro e nessuno la toccherà. Nostra madre è stata fatta prigioniera, ed ora è sotto la protezione del normanno che le ha rubato terre e titolo, un compagno di Guglielmo, un certo Alan il Rosso. L'unico figlio maschio superstite di nostra nonna, nostro zio Wulfnoth, è stato catturato da Guglielmo il Bastardo, che non intende rilasciarlo nonostante i molti messaggi supplichevoli di nonna Gytha. Ha solo ventidue anni e rischia di passare il resto della vita in catene!

Ci è giunta notizia che, tre settimane or sono, sono venuti al mondo gli ultimi figli di nostro padre, i nostri fratellastri Ulf e Harold. Sono anche loro gemelli, e Eadelgyth, non aspettandosi un evento simile, aveva scelto un solo nome nel caso fosse stato un maschio: Harold, in onore di nostro padre. Per il secondo gemello il nome lo ha suggerito nonna Gytha in una lettera che le ha scritto: Ulf, come suo fratello, e Eadelgyth ha accettato. Per ora rimarremo ad Exeter, che è ancora un luogo sicuro, almeno finché i normanni non giungeranno fin qui. Cercherò di farti avere notizie al più presto. Prego per il tuo benessere.

Tua sorella,

Gytha

 

La lettera di Gytha aveva in parte rassicurato Gunhild, lasciandole però anche un desolante senso di vuoto. La sua famiglia era veramente distrutta: il suo povero padre era stato dato in pasto ai pesci, le spoglie di Magnus riposavano a Winchester, sua madre Edith era prigioniera di un qualche vigliacco normanno, i suoi zii erano morti tutti, tranne uno che era prigioniero di Guglielmo; delle sue zie, Gunhilda era monaca in un convento e Edith, l'unica che avesse mantenuto un po' di potere in Inghilterra come Regina Vedova, era rimasta a Corte; sua nonna e gli altri suoi fratelli erano ad Exeter, in attesa che giungessero anche lì i normanni... era sola. Veramente sola per la prima volta nella vita e non aveva che undici anni.

Cosa ne sarebbe stato di lei? Cosa ne sarebbe stato dei suoi cari?

La vita di Gunhild a Wilton riprese a scorrere come era stato fino a quel momento, tra le lezioni, i vespri e i mattutini con le monache, i pasti nel refettorio insieme alle novizie e alle altre allieve. Gunhild aveva fatto diverse conoscenze tra le allieve dell'abbazia, ma non poteva dire di avere avuto delle vere amiche nei primi mesi. Con le altre ragazze si trovava bene, a suo agio, chiacchierava volentieri con tutte e loro con lei. Ma da quando suo padre era morto era stata troppo taciturna e nervosa per curarsi veramente di coltivare delle amicizie; le altre allieve lo comprendevano e cercavano di starle vicino come meglio potevano. E stranamente, proprio quando ne aveva avuto più bisogno, era nata un'amicizia tra lei ed un'altra ragazzina sua coetanea. Si chiamava Cathryn, ed era una protetta del Vescovo di Bath, che era stato precedentemente cappellano di re Edoardo. Tra le ragazze si mormorava che Cathryn fosse una figlia illegittima del vescovo, anche se ufficialmente era un'orfana, figlia di un suo parente, che lui aveva preso sotto la sua ala. Cathryn era stata da sempre destinata alla vita monastica, e non ne faceva mistero. Era contenta di prendere il velo.

Aveva affascinato Gunhild perché, in un certo senso, era il suo esatto opposto: calma, dolce, remissiva, timida; non si arrabbiava mai e il suo tono di voce era normalmente pacato... quasi inudibile. Una delle rare volte in cui mostrò un tono euforico accadde un pomeriggio di febbraio. Gunhild stava attraversando in fretta il chiostro, stringendosi nel mantello foderato d'ermellino, tra le mani inguantate, nascoste sotto il mantello, teneva delle pergamene e un volume dei Commentaria in Iohannem Evangelistam. Il quadrato al centro del chiostro, dove si trovava il pozzo e l'unico tetto era il cielo aperto e sconfinato, era ammantato di neve; le piante nelle aiuole, ridotte ormai a dei gambi striminziti, erano sepolte da una distesa di bianco. Quando sarebbero di nuovo fiorite, in primavera, avrebbero offerto uno straordinario spettacolo variopinto.

Cathryn corse verso di lei, col mantello che le svolazzava attorno al corpo, incurante del freddo che le penetrava attraverso gli abiti.

“Gunhild!”, chiamò, agitando la mano. “Gunhild!”

Cathryn rallentò solo quando si trovò di fronte all'amica, con il fiato grosso che a contatto con l'aria si trasformava in piccole nuvolette di vapore bianco.

“Per tutti i Santi, Cathryn!”, mormorò Gunhild. “Cosa è successo?”

Cathryn si fermò un momento, appoggiandosi ad una colonna e facendo segno all'amica di attendere che avesse ripreso fiato.

“Una notizia fantastica”, esclamò ansante. “Exeter si è rivoltata contro Guglielmo!”

“Cosa? Dici davvero?”

Cathryn annuì, entusiasta. “Grazie a tua nonna. È stata la sua semplice presenza a spingere Exeter a ribellarsi!”

Gli occhi di Gunhild brillarono dalla gioia. Poi furono percorsi da un lampo di preoccupazione. “E la mia famiglia come sta?”

“Mi dispiace, Gunhild. Non si hanno altre notizie.”

La ragazzina rimase in silenzio, lo sguardo perso nel vuoto. Quella primavera avrebbe compiuto i dodici anni, e la sua figura si stava lentamente trasformando in quella di una donna. Ma il suo sguardo era già quello di una donna, completamente svuotato dell'innocenza dei suoi anni.

 

Il silenzio del mondo esterno si protrasse per un altro mese, dopo la notizia della rivolta di Exeter. Infine, a metà marzo, giunse un'altra lettera di Gytha. Questa volta fu la badessa in persona a portargliela, accompagnata da una novizia. Questo per riguardo a lei, che era in ogni caso l'allieva di rango più elevato dell'abbazia.

 

Exeter, 27 febbraio 1067

 

Cara Gunhild,

Questa è probabilmente l'ultima lettera che ti scrivo su suolo inglese. L'assedio con cui Guglielmo ha cinto Exeter è durato un mese, poi la resistenza della città è stata spezzata. Sapevamo che sarebbe finita così, ma il gesto stesso che la città ha compiuto verso l'usurpatore è stato toccante, considerando che inglesi più eminenti, ovvero re Edgar, l'Arcivescovo Ealdred, i Conti di Mercia e Northumbria, si sono arresi a lui a Berkhamsted a metà dicembre, poco dopo averti scritto la mia prima lettera. È stata una grande delusione per nonna Gytha, che sperava in questo nuovo re. Ha cominciato a inveire contro di lui e contro i codardi che non meritano di essere chiamati inglesi; ha detto che Edgar era solo un poppante che non meritava la corona che era stata di suo figlio, e che molto meglio per il paese sarebbe stato se fossero stati Godwin o Edmund a salire al trono. Abbiamo saputo che i nostri fratelli maggiori sono giunti sani e salvi in Irlanda, e sono stati accolti con tutti gli onori dal grande re d'Irlanda. Ci hanno scritto che vogliono mettere insieme un esercito con cui tornare a riprendersi il trono. Posso solo pregare per loro, e sperare che tornino sani e salvi. Ora che l'esercito normanno si prepara a prendere la città, io e nonna Gytha dobbiamo andarcene. Siamo venute a sapere che Guglielmo ha confiscato tutti i nostri possedimenti, quindi in Inghilterra non abbiamo più niente: niente denaro, niente amici, nessun posto dove rifugiarci. Stanotte fuggiremo con una piccola scorta e le mogli e vedove dei nobili sassoni che ci hanno seguite ad Exeter. Ripareremo in Danimarca, presso la corte del nipote di nonna Gytha, re Sweyn. Anche per la nostra matrigna le cose non si mettono bene, lì a Chester. Così ci ha inviato un messaggio chiedendoci di poter venire con noi, insieme a Harold e Ulf. Hanno solo tre mesi, ma sono forti e in salute, e perfettamente in grado di viaggiare. E comunque non abbiamo molta scelta al momento. Li incontreremo lungo la strada per l'imbarco. Non sai che dolore ci dia il pensiero che tu sia laggiù, lontana da noi, ma non possiamo fare niente. Nonna Gytha piange ogni notte per te, ma confidiamo che sarai al sicuro al monastero, molto più che se stessi qui con noi. Lì sarai sotto la protezione della Chiesa e nessun normanno, per quanto io li disprezzi, oserebbe violare la legge di Dio e della Chiesa. Anche nostra zia Gunhilda rimarrà in Inghilterra, al sicuro nel suo convento. Lasciarti mi dilania il cuore, credimi sorella mia. Ma adesso dobbiamo fuggire, abbiamo poco tempo e non abbiamo alcun modo di viaggiare fino al Whiltshire. Resta al sicuro al monastero, sorella, non muoverti di lì e non ti accadrà nulla. Speriamo di poterti mandare a prendere in un secondo momento, quando saremo arrivate sane e salve in Danimarca.

Nonna Gytha ti bacia e ti abbraccia con tutto il cuore, e anche io.

Sempre tua sorella affezionatissima,

Gytha Haraldsdatter, Principessa d'Inghilterra

 

Se avesse avuto modo di rispondere a sua sorella, se avesse avuto un luogo in cui spedirle una lettera, Gunhild le avrebbe scritto di non preoccuparsi. Nonostante tutto quello che era successo, Gunhild aveva deciso che voleva comunque restare a Wilton, anche nell'evenienza che lì non fosse stata del tutto al sicuro. Voleva completare la sua istruzione e poi, una volta che l'avesse fatto, forse avrebbe raggiunto la sua famiglia – o quel che ne restava – in Danimarca.

La terza lettera di Gytha le venne portata da una monaca, che gliela porse con un solenne “Per voi, principessa.” Gytha le raccontava che erano giunti in Danimarca, lei, nonna Gytha, Eadelgyth e i gemelli. Alla corte di Sweyn II, figlio del fratello di nonna Gytha, erano stati accolti calorosamente e con tutti gli onori. Non mancava loro nulla e sua sorella le chiedeva di raggiungerli in Danimarca. Fu col cuore in mano che Gunhild le rispose, dicendole che non sarebbe partita finché non avesse terminato gli studi, e che a Wilton non correva alcun pericolo. E c'era anche un'altra ragione, più profonda: Gunhild sapeva che alla corte danese il re avrebbe presto trovato un marito a sua sorella, e avrebbe fatto lo stesso con lei se si fosse trovata sotto la sua protezione. Un marito illustre, certo, ma pur sempre un marito, che Gunhild non voleva. A Wilton avrebbe potuto proseguire la sua educazione, e forse, se davvero la sua intenzione era di non essere mai sottomessa a nessun uomo, prendere i voti. Avrebbe avuto ciò che desiderava all'abbazia, così come Gytha lo avrebbe avuto alla corte danese.






Angolo Autrice: Grazie a tutti voi che siete arrivati a seguirmi fin qui, e alle fantastiche ragazze che hanno recensito. Succedono un bel po' di cose in questo capitolo, molte delle quali Gunhild può vivere solo da spettatrice. In ogni caso non sarà così per molto, come vedrete già dal prossimo capitolo. A presto! E.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


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Marzo 1070

Abbazia di Wilton, Wessex, Inghilterra

 

Il gelo dell'inverno aveva ormai allentato la sua morsa di ghiaccio sui campi intorno a Wilton e sulla città di Searesbyrig, i cui tetti ancora innevati si potevano ammirare dalle grandi finestre dell'abbazia.

Gunhild aveva festeggiato il suo quindicesimo compleanno, e la bambina scialba e insignificante aveva lasciato il posto a una giovane donna la cui bellezza era infine sbocciata.

Era senza alcun dubbio la degna figlia di Edith la Bella. Quando si guardava allo specchio Gunhild non poteva fare a meno di rivedere in se stessa i fulgori della bellezza materna: gli occhi blu come il mare, la pelle d'alabastro, le labbra simili a un bocciolo di rosa. Solo il colore della chioma era un chiaro segno della discendenza paterna, di un castano splendente, ricco delle stesse sfumature di un bosco in autunno. Era sua madre che le aveva donato quella bellezza, ma era a sua sorella Gytha che Gunhild assomigliava come una goccia d'acqua. Oramai lei non faceva più caso al suo aspetto, né agli sguardi ammirati che i pochi uomini che frequentavano l'Abbazia - gli stallieri, i servi e i mercanti - puntualmente le indirizzavano, abituata com'era a nascondere la sua bellezza con il velo da novizia. Una novizia piuttosto anziana in realtà, perché a quindici anni quasi tutte le giovani che avevano deciso di restare a Wilton avevano concluso il noviziato e preso i voti. Cathryn aveva affrontato quel grande passo già due anni prima. Ma Gunhild aveva accettato il noviziato più per mantenere la propria indipendenza che per vocazione. Herman di Flanders, Vescovo di Sherborne e Ramsbury, nella cui diocesi e sotto la cui autorità viveva l'Abbazia, aveva preso a cuore il cammino spirituale di Gunhild. L'aveva conosciuta da bambina, quando era stato cappellano di suo zio Re Edoardo, e si era sentito in dovere di prendere la giovane sotto la propria ala e farne la sua pupilla. Era rimasto colpito dall'intelligenza e disciplina della giovane principessa e l'aveva lodata personalmente con la Madre Superiora. La riteneva anche – cosa che lasciò decisamente perplessa Gunhild – piena di “Santa Vocazione”, insistendo perché intraprendesse la vita monastica. Scriveva spesso alla Madre Superiora per informarsi dei progressi negli studi della sua regale protetta. Ed i progressi erano stati in effetti notevoli, in quei quattro anni. Ma se Gunhild voleva continuare a studiare e lavorare in mezzo ai libri doveva compiere il passo successivo, il passo che rimandava ormai da un paio d'anni. Quella primavera sarebbe stata anche lei consacrata alla vita monastica, non appena le strade fossero state libere dalla neve e il Vescovo di Sherborne avesse potuto mettersi in viaggio per celebrare personalmente le cerimonia durante la quale, oltre a lei, altre cinque figlie della nobiltà sassone e normanna avrebbero preso i voti.

Col passare del tempo Gunhild aveva cominciato ad accettare con serenità questo prossimo grande passo, spinta dall'esempio di gioia e devozione che vedeva nella sua amica Cathryn; in fondo non poteva dire di non essere stata felice al monastero, in quegli ultimi quattro anni. L'unico rimpianto che non riusciva a scacciare era stato di dover abbandonare il tiro con l'arco. Dopo tutti quegli anni dubitava anche solo di riuscire a impugnare l'arma come si deve e questo pensiero la intristiva, come se avesse dovuto rinunciare ad una parte di sé per coltivare l'altra; una sorta di tradimento del corpo a beneficio dello spirito. Ma ormai ci aveva messo una pietra sopra. Solo lì sarebbe potuta essere se stessa, solo con la protezione che il velo le avrebbe garantito. Era ingiusto, ma era così.

Lei e sua sorella Gytha si scrivevano molto spesso. Come Gunhild aveva predetto, re Sweyn era in cerca di un marito per la sorella. Nella sua ultima lettera Gytha le aveva scritto che già alcuni pretendenti si erano fatti avanti e il re stava vagliando le proposte. Voleva trovare il giusto partito alla cugina, che fosse degno del suo rango, possibilmente un regnante.

Di sua madre Edith invece, Gunhild non aveva più notizie dirette da più di cinque anni. Sapeva di lei solo le poche voci che giungevano all'Abbazia. Aveva saputo che viveva nei suoi possedimenti e che, sebbene i suoi titoli fossero ancora legalmente suoi, le sue tenute erano amministrate da quel normanno, Alain il Rosso, che ne era di fatto il padrone.

I suoi fratelli Godwin ed Edmund avevano organizzato l'esercito promesso ed erano sbarcati in Inghilterra due anni prima, con il Grande Re d'Irlanda Diarmait Mac Mail al loro fianco, nel tentativo di sconfiggere Guglielmo; ma avevano fallito ed avevano dovuto far ritorno in Irlanda. Già un anno dopo, nel 1069, avevano fatto un secondo tentativo, questa volta alleandosi con re Edgar, deciso a riprendersi il trono perduto. Grazie anche alle pressioni di nonna Gytha, anche re Sweyn si era unito alla causa di Edgar, mettendo a disposizione il suo esercito. Ma, dopo aver conquistato York con successo, Sweyn aveva accettato del denaro da parte di Guglielmo per disertare Edgar. Senza più il sostegno di Sweyn l'invasione era fallita. Due comandanti di Guglielmo, Brian e Alain di Penthiévre - lo stesso Alain che teneva prigioniera sua madre Edith - erano riusciti a sconfiggere una forza di sessantaquattro navi della flotta del grande re d'Irlanda, comandata da Godwin ed Edmund, alla foce del fiume Taw nel Devon, il giorno di mezza estate del 1069. Edgar era fuggito in Scozia, dove viveva in esilio; Godwin ed Edmund erano ritornati in Irlanda lividi di rabbia, giurando a loro stessi che un giorno sarebbero tornati.

Nell'apprendere quelle notizie Gunhild, che aveva per un attimo nutrito la speranza di veder ricacciare in mare i normanni, era rimasta delusa e scoraggiata, anche se ugualmente fiera dei suoi fratelli maggiori. A re Sweyn invece non aveva risparmiato alcun tipo di maledizione, cosa che l'aveva costretta a confessarsi subito dopo.

 

Mancavano due settimane alla consacrazione di Gunhild e la primavera stava sbocciando in tutta l'Inghilterra, come a Wilton, in un tripudio di colori che scaldava gli occhi e il cuore.

Dopo le preghiere del mattino, Gunhild, Cathryn ed altre due giovani monache, si recarono a raccogliere erbe medicinali nel cortile esterno dell'abbazia per sorella Wulfhilda, la farmacista. La farmacia del monastero era sempre ben rifornita, grazie alle erbe che venivano raccolte in quantità in primavera e in estate, e in parte essiccate in previsione dell'inverno. Di solito il compito di raccoglierle era delegato alle monache più giovani, con l'ammonizione a non oltrepassare mai il piccolo cancello di ferro che era l'unica uscita dalle mura del cortile.

Quella mattina Gunhild aveva quasi riempito il cesto e si era allontanata di poco insieme a Cathryn per cercare dell'artemisia, che sorella Wulfhilda aveva richiesto specificatamente.

“Non dovremmo allontanarci troppo”, disse Cathryn, gettando uno sguardo alle spalle e alle altre due ragazze, chine su un cespuglio di ginepro con il coltello in mano.

“Non ti preoccupare, rimarremo entro le mura del cortile. E poi sorella Wulfhilda mi ha chiesto di trovare assolutamente l'artemisia. Con tutte le febbri che abbiamo avuto quest'inverno al monastero, per non parlare poi dei bambini di Searesbyrig che vengono da noi con tagli, ferite e vermi nello stomaco! Questa pianta è utile in ognuno di questi casi, per questo è indispensabile in farmacia, non lo sapevi?”

Cathryn le fece un sorriso che mise in mostra due fossette sulle guance. “Santo Cielo, no! Non potrei mai lavorare in infermeria, lo sai. Oltretutto non distinguo una margherita da un papavero!”

Gunhild scosse la testa e rise. “Dai vieni con me, l'artemisia l'ho vista vicino quel gruppo di alberi laggiù.”

Come aveva previsto Gunhild, un bel cespuglio di quella pianta dallo stelo robusto e dai piccoli fiorellini giallognoli era lì ad aspettarle. Entrambe le ragazze tolsero il coltello dalla cintura. Cathryn che lo aveva macchiato raccogliendo del Gallio, lo pulì sul grembiule. Gunhild si accovacciò e tagliò il primo ramo, quando sentì uno scricchiolio alle sue spalle, come se qualcuno, nel tentativo di camminare furtivamente, avesse spezzato un rametto secco. Si voltò di scatto e il coltello le cadde di mano per la sorpresa. Si trovò faccia a faccia con un bambino, che teneva le mani strette sulle sbarre del cancello. Era magro, denutrito e vestito di stracci. Cathryn gli sorrise tendendogli una mano, con quel suo sorriso dolce e rassicurante che Gunhild non sarebbe mai stata in grado di imitare.

“Ciao piccolo. Sei venuto qui per un pasto caldo?”

“No, sorella”, rispose il bambino. Doveva avere circa otto anni. “Sono venuto per portare un messaggio a lei.” E puntò il dito verso Gunhild.

“Un messaggio per me?” ripeté Gunhild, incredula.

“Due cavalieri mi hanno incaricato di darvi questo, sorella”, disse il bambino, tirando fuori dalla tasca una piccola pergamena arrotolata.

Gunhild la prese da quelle piccole mani che gliela porgevano attraverso le sbarre del cancello. Sciolse la fettuccia e la srotolò. Sembrava un messaggio di Godwin ed Edmund, e Gunhild sentì il cuore farle una capriola nel petto.

 

Cara sorella, siamo sbarcati di nuovo sulle coste inglesi, ma questa volta in incognito. Vorremmo incontrarti nello stesso punto in cui hai ricevuto questo messaggio stanotte, un'ora dopo il tramonto. Lascia il cancello sul retro aperto, e per l'amor di Dio, non dire a nessuno che siamo qui. Ne va della nostra vita.

I tuoi fratelli,

Godwin ed Edmund.

 

Gunhild si voltò di scatto, per chiedere spiegazioni al ragazzino, ma quello si era già volatilizzato. Senza una parola, col volto trasformato in una maschera di pietra, passò il messaggio a Cathryn, che lo scorse velocemente.

“Oh, per la Santa Vergine, Gunhild! Ma... credi che sia autentico?”

“Perché non dovrebbe? I miei fratelli hanno sempre detto che sarebbero tornati, no?”

“Sì, ma...”

“Devo vederli”, mormorò Gunhild, stringendo l'amica per le braccia. “Non capisci che sono ciò che resta della mia famiglia? Questa potrebbe essere la sola e unica occasione che il Cielo mi concederà mai in questa vita!”

“Andrai all'appuntamento? Ma, non puoi lasciare il cancello aperto! E' pericoloso, e se ne accorgeranno!”

“No, se lo accosto solamente. In questa parte del giardino non viene mai nessuno. Chi vuoi che ci faccia caso?”

Cathryn stava per ribattere, quando le altre due giovani monache le chiamarono per rientrare. Lei e Gunhild si incamminarono verso la farmacia per consegnare le erbe a sorella Wulfhilda.

Più tardi, mentre si stavano recando nella cappella per i vespri, Cathryn sussurrò all'amica.

“Stanotte non ti lascio sola. Vengo con te!”

“No”, scosse risolutamente il capo Gunhild. “Devo andare sola. E' una cosa tra me e i miei fratelli.” E non accettò repliche né proteste da parte dell'amica.

 

Nonostante la primavera incipiente, dopo il tramonto l'aria diventava fredda e umida; così Gunhild si avvolse nel mantello e, nascosta dal manto della notte, scese in cortile. Si calò il cappuccio sulla fronte e si mise ad attendere poco fuori del piccolo cancello, che aveva lasciato precedentemente accostato. Attese per alcuni minuti, rabbrividendo nel mantello, prima che una voce la chiamasse inducendola a voltarsi. Prima che potesse accorgersi di qualcosa due uomini, due soldati a giudicare dall'aspetto, le furono alle spalle. Un grido le salì alla gola, ma fu bloccato quando uno dei due l'afferrò e le mise una mano sulla bocca. L'uomo teneva saldamente Gunhild che scalciava e si divincolava con tutte le sue forze. L'altro le legò le mani e la imbavagliò, dopodiché se la caricò in spalla ed entrambi corsero ai loro cavalli, lasciati a brucare appena fuori del cancello.

“Presto!”, esclamò uno dei due in francese. “Le monache non hanno sentito niente.”

Un’altra voce, più autoritaria, chiaramente abituata a comandare, s’intromise.

“Sei sicuro che sia la ragazza giusta?”

L'altro uomo salì a cavallo, mettendo Gunhild davanti a lui. Con un gesto secco, ma non violento, le tolse il cappuccio e il velo bianco da novizia, scoprendo una cascata di capelli castani che si sciolsero sulle spalle di Gunhild.

“E' lei, corrisponde alla descrizione”, disse il terzo uomo, che solo in quel momento Gunhild poté vedere. Sembrava un cavaliere, ad occhio e croce, non un semplice soldato.

“Ora sbrigatevi, prima che qualcuno all'Abbazia si accorga di qualcosa!” abbaiò l’uomo, anch’egli in francese.

E, imitato dai due soldati normanni, diede di sperone al suo cavallo; in un attimo l'Abbazia di Wilton scomparve dietro la prima collina.

Dopo aver urlato con tutte le sue forze, morso il bavaglio, e perfino cercato di buttarsi dal cavallo, Gunhild capì che i suoi tentativi erano vani. Non poté fare altro che rimanere ferma e sopportare i legacci e i sobbalzi della sella. In compenso fece lavorare la mente: chi erano quegli uomini? Cosa volevano da lei? L'unica certezza era che fossero normanni, e non fossero dei semplici balordi. Il primo sembrava un gentiluomo, e i due soldati non erano certo due sbandati che se ne andavano in giro a violentare giovani donne.

Per quello c'erano prede più facili, sguattere e contadine che avrebbero avuto meno conseguenze delle monache e delle novizie, soprattutto se erano nobili o di sangue reale. Inoltre se avessero voluto approfittarsi di lei lo avrebbero già fatto, senza prendersi tutto quel disturbo. E poi sembravano organizzati, coordinati, con un piano preciso in mente. Sembravano agli ordini di qualcuno. Proseguirono quel viaggio tormentato per altri due giorni. Si vedeva che quegli uomini non erano abituati a trattare con una donna ma, probabilmente ubbidendo a degli ordini ricevuti, cercavano di trattarla nel migliore dei modi. Le davano da mangiare e da bere in abbondanza. Non le sciolsero mai i legacci, perché sapevano che alla minima occasione Gunhild avrebbe cercato di fuggire; ma glieli tenevano lenti, in modo che la corda non sfregasse più del dovuto sulla carne morbida dei polsi.

Erano rimasti muti a qualunque invettiva la principessa potesse lanciar loro addosso, e quando si fu calmata, rimasero muti anche di fronte alle sue domande insistenti.

Finalmente, all'alba del terzo giorno di viaggio, giunsero presso un maniero di pietra, che spuntava fra due vallate simile ad un fungo fra la bruma dell'alba. Aveva poche torri sparse, ed era circondato da un fossato.

Ad un segno di uno dei rapitori di Gunhild la sentinella abbassò il ponte levatoio, e presto gli zoccoli dei cavalli risuonarono sul legno del ponte e sul pavimento in pietra del cortile esterno. Già da un paio di giorni Gunhild aveva smesso di parlare, preferendo mantenere un atteggiamento calmo e dignitoso. I suoi occhi però fissavano i presenti con odio, mandando lampi e scintille talmente evidenti che sembrava potessero sul serio incenerire qualcuno.

Attorniato da alcuni soldati si fece loro incontro un uomo, seguito dal suo svolazzante mantello blu. Gunhild lo osservò con freddo disprezzo dall'alto del cavallo su cui sedeva, le mani ancora legate in grembo. Intanto il cavaliere era smontato e, inchinatosi al suo signore, parlottava con lui a bassa voce. Di tanto in tanto l'uomo dal mantello blu alzava lo sguardo a studiare Gunhild.

La mente di Gunhild era affollata da mille domande, in continuo tumulto, il suo cuore batteva come un martello, nonostante lei si imponesse di stare calma.

Il cavaliere che aveva ordinato il suo rapimento era un uomo sulla trentina, non molto alto, la pelle chiara, i capelli e la barba dello stesso colore del fuoco. Non indossava l'armatura, ma una casacca con uno stemma nobiliare: una serie di gigli dorati e dei quadrati bianchi e blu. Portava la spada al fianco.

“Principessa”, esordì tendendole le braccia per farla scendere da cavallo. Con poco sforzo la prese tra le braccia e la mise a terra, fece un cenno ad uno dei suoi uomini perché le tagliasse i legacci e in pochi secondi Gunhild si ritrovò a massaggiarsi i polsi doloranti.

Come se fossero stati appena presentati ad una festa a corte, il cavaliere le prese una mano e se la portò alle labbra dicendo: “Permettetemi di dire che le voci che circolano sulla vostra bellezza non vi rendono affatto giustizia.”

Nel cortile di pietra risuonò secco e chiaro lo schiaffo che Gunhild gli diede per tutta risposta.

L'uomo rimase sbalordito per alcuni secondi, massaggiandosi la guancia offesa. Poi scoppiò a ridere, imitato dai suoi uomini.

“Bé, suppongo che ne abbiate tutte le ragioni. Mi rincresce che il nostro incontro sia stato tanto... precipitoso.”

“Precipitoso?”, sbottò Gunhild fremente di rabbia. “Chi siete voi? E come avete osato rapire la figlia di re Harold? Come avete osato infrangere la legge di Dio e violare la Sua abbazia?”

“Mi permetto di farvi notare che non oserei mai violare la legge di Dio. Siete stata voi, di vostra volontà, a lasciare la protezione del suolo sacro dell'abbazia”, rispose l'uomo con scherno.

Lo sguardo di Gunhild fiammeggiava d'odio. “Voi mi avete teso una trappola! Mi avete indotto ad uscire dall'abbazia, spacciandovi per i miei adorati fratelli! Ditemi chi siete e cosa volete da me!”

“Mi chiamo Alain di Penthiévre, Lord di Richmond. Ma tutti mi conoscono come Alain il Rosso... ne capirete certo il motivo guardandomi…”

A Gunhild occorsero soltanto pochi secondi perché un nome le tornasse alla mente, con tutto il carico di odio e rancore che recava con sé.

“Voi!”, sibilò. “Voi siete il cane bastardo che ha rapito mia madre!” E senza pensare si gettò addosso a lui. Ma Alain la bloccò prontamente per le braccia, rimanendo glacialmente calmo.

“Dov'è mia madre, normanno? Dov'è?”

“Non è questo il momento per discutere questioni tanto delicate. Per ora sarete mia ospite. Permettete che il mio scudiero, Benoit, vi accompagni alla vostra stanza”, concluse facendo un cenno all’uomo che aveva guidato il suo rapimento, che si avvicinò e la prese sottobraccio. Gunhild gridava e inveiva contro Alain il Rosso, ma Benoit, aiutato da due guardie, la condusse via. Entrarono nel mastio e le fecero percorrere gli stretti corridoi di pietra, illuminati solo dalle torce e da poche feritoie sparse. La fecero entrare dentro una stanza e chiusero la porta dietro di lei. Gunhild batté i pugni sulla porta di legno massiccio per diversi minuti, prima di arrendersi ed accasciarsi al suolo.

Infine si costrinse ad alzarsi e ad osservare la stanza dove l'avevano rinchiusa. In fondo, se voleva tentare di fuggire, doveva studiare il luogo in cui si trovava. La stanza che le avevano assegnato era una delle camere padronali. Era illuminata da diversi candelabri, e al centro troneggiava un letto a baldacchino. Una cassapanca di legno stava ai piedi del letto, e accanto ad esso un tavolino da toeletta con un specchio non molto grande.

Improvvisamente Gunhild si rese conto che quei tre giorni di viaggio in quelle condizioni erano stati massacranti, e il grande letto morbido era troppo invitante per essere ignorato.

Doveva recuperare le forze, rifletté Gunhild, lasciandosi letteralmente cadere tra le morbide coltri. Pochi minuti dopo era già immersa in un sonno profondo.

 

Quando aprì gli occhi, la luce che penetrava attraverso le due feritoie della stanza le comunicò che era prossimo il tramonto. Trasalì quando si accorse che nella stanza c'era una donna, che aspettava silenziosamente che lei si svegliasse. Gunhild si tirò a sedere sul letto di scatto, immediatamente vigile e diffidente. Ma il viso della donna era aperto e sincero, e si avvicinò a lei con un sorriso. Non doveva essere di molto più grande di lei; indossava un abito di lana grezza e un cappuccio bianco che le lasciava scoperto solo il volto, abbigliamento che indicava il suo status di serva. I suoi occhi scuri, dalla forma un po' allungata, erano pieni di calore e gentilezza.

Le sorrise. “Ben svegliata, principessa. Io sono la vostra cameriera personale, Arleigh. Sono qui per prendermi cura di voi per stasera.”

“Stasera?”, chiese Gunhild con un filo di voce.

“Lord Alain vi vuole a cena con lui nei suoi appartamenti.”

Il primo impulso di Gunhild fu di gridare che non ci sarebbe mai andata, ma poi rifletté che doveva comunque saperne di più su tutta quella situazione. E soprattutto doveva sapere dov'era sua madre, e Alain sembrava l'unico che al momento potesse rivelarglielo.

Così lasciò che Arleigh le riempisse la tinozza di legno con secchi di acqua calda che altre due ancelle portarono dalle cucine; Gunhild si immerse nel suo bagno con sollievo, mentre la donna lavorava per accendere il fuoco nel camino. Quando uscì dall'acqua indossò una sottoveste che Arleigh le porse e si sedette di fronte al camino per far asciugare i lunghi capelli castani. Gunhild fissava le guizzanti fiamme arancioni del fuoco, e trasalì quando Arleigh le si sedette accanto con un di unguento in mano.

“Per i vostri polsi”, spiegò semplicemente. Poi procedette a spalmare l'unguento sulle escoriazioni.

“Arleigh hai detto, giusto?” chiese Gunhild dopo un minuto di silenzio. “Devi essere una sassone.”

“Sì, principessa”, mormorò la donna senza smettere il suo compito.

“Perché sei al servizio di questi porci normanni?”

“Avevo forse altra scelta? Il nostro popolo ha avuto altra scelta che sottomettersi agli invasori? Non oserei mai parlare così del mio padrone con qualcun altro, ma so che voi potete capirmi meglio di chiunque, principessa.”

“Lo so. Siamo stati invasi e non abbiamo potuto fare nulla per impedire che un usurpatore sedesse sul trono d'Inghilterra. Tutti i sassoni hanno sofferto per mano loro, tutti abbiamo perso qualcosa. Io non sono stata vicino alla mia famiglia quando è successo tutto questo. Sono stata mandata a studiare in convento proprio alla vigilia dell'invasione di Guglielmo. A volte mi sento in colpa per questo.”

“Non dovete, non avete nessuna colpa” questa volta Arleigh la guardò dritta negli occhi. “Mi dispiace tanto per voi, mia signora. Siete così giovane...”

Gunhild non fu sicura di comprendere appieno cosa intendesse la donna, ma quella si alzò asciugandosi gli occhi, e andò ad aprire la cassapanca di legno intagliato. Ne estrasse un abito di stoffa verde.

“Che ne pensate di questo, mia signora? E' molto bello.”

“Per me un abito vale l'altro. Non ho intenzione di acconciarmi per quel normanno.”

Arleigh l'aiutò a indossarlo senza ulteriori commenti. Era un abito dallo scollo rotondo, che donava molto alla figura snella di Gunhild. Le maniche strette si chiudevano con una fila di bottoni lavorati, ed erano ricamate con dei motivi dorati. Lo stesso ricamo ornava il corpetto nero che stringeva l'abito in vita.

Infine Gunhild si sedette al tavolo da toeletta per permettere ad Arleigh di acconciarle i capelli in una lunga treccia morbida, e di fissarle sul capo il velo bianco.

 

Fu un servitore mandato da Alain a scortarla a cena. L'uomo, anch'egli chiaramente sassone, sembrava quasi intimorito dalla presenza della figlia del defunto re, e le si presentò con un inchino quasi fino a terra.

La cena era stata allestita per due nell'anticamera degli appartamenti di Alain, illuminati da molte candele e dal bagliore proveniente dal grande camino acceso. Bagliore che riflettendosi sui capelli e la barba rossi del normanno li rendeva quasi incandescenti.

Alain era già seduto a tavola, con un grosso cane da caccia accucciato ubbidientemente ai suoi piedi. Quando Gunhild entrò si alzò, le fece un inchino e le indicò il posto all'altro capo della tavola. Il servitore si allontanò per tornare subito dopo con un vassoio di frutta e cacciagione.

Sebbene la sfiorasse per un attimo l'idea di non toccare cibo per protesta, Gunhild si scoprì ben presto affamata e, cercando di controllarsi per non dare soddisfazione al suo rapitore, cominciò a mangiare.

Alain la imitò con un sorriso, e per alcuni minuti i due non scambiarono una parola. Quando la tavola venne sparecchiata, Alain si avvicinò a Gunhild e le versò del vino nella coppa. Gunhild la prese e sorseggiò, mentre l'uomo la guardava, le mani poggiate sul tavolo.

“Mia signora”, mormorò. La sua gentilezza sembrava veramente poco adatta alla singolare situazione in cui si trovavano. “Vorrete di certo sapere perché vi ho fatto condurre al mio castello...”

“Vorrei sapere perché mi avete rapita, sì!”, ribadì Gunhild sarcastica.

“Che lo vogliate o no, voi sarete mia moglie”, continuò il normanno con tranquillità.

Gunhild balzò in piedi, quasi rovesciando la sedia. “Cosa?”, esclamò aggressiva. “Io non sarò mai vostra moglie! La moglie di un farabutto normanno? Mai! Preferisco morire!”

“Sì, mi avevano avvertito che odiate i normanni, e ne capisco bene la ragione. Ma temo che non abbiate scelta, mia signora. Come ben sapete vostra madre è nelle mie mani e un vostro rifiuto potrebbe costarle molto caro.”

Gunhild continuava a scuotere la testa, mormorando “No”, quasi tra sé e sé. Quando Alain le si avvicinò, lei incominciò a indietreggiare.

“Sarete mia moglie entro domani. Scegliete: potete partecipare alle nostre nozze o al funerale di vostra madre.”

Gunhild toccò il muro con la schiena e dovette fermarsi. Era troppo sconvolta per parlare, per muoversi, per reagire. Alain le si avvicinò fino a trovarsi a pochi centimetri da lei.

La guardò in viso. “Siete bellissima. Non sarà un sacrificio essere sposato con voi.” E detto questo, allungò la mano e le tolse il velo dal capo, rivelando la sua lussureggiante chioma castana. Quel gesto, così sfacciato e audace, infiammò d'ira la giovane sassone. Come osava quel rosso bastardo mettere le mani sulla figlia di re Harold? Ma era pietrificata, le membra rigide, la lingua incollata al palato. Non riusciva a costringere il suo corpo a reagire. Dopotutto era solo una ragazza, e Alain era un uomo fatto, con quindici anni di esperienza in più sulle spalle. Era un uomo vissuto, mentre Gunhild, nonostante tutto il suo temperamento, aveva trascorso metà della vita in un monastero.

Alain le sfiorò i capelli con il dorso della mano, l'espressione quasi assorta. Non era un gesto particolarmente sfrontato o dettato dalla crudeltà. Al contrario, l'espressione del normanno sembrava sfiorare la reverenza mentre compiva quel gesto. Tuttavia fu in quel momento che in Gunhild si accese la vera fiamma dell'odio; non verso un popolo, non verso i normanni, non verso l'ingiustizia che le era toccata in sorte... ma verso quell'uomo, verso di lui e nessun altro. Un odio che non si sarebbe mai del tutto estinto.

Quando Alain abbassò la mano e fece un passo indietro, Gunhild, ancora aggrappata al muro di pietra come se fosse l'unica cosa al mondo in grado di sostenerla, si sentiva ribollire dalla rabbia. Lui si avvicinò ad uno scrittoio posto dall'altra parte della stanza, e ne prese uno scrigno. Lo aprì di fronte a Gunhild, permettendole di vederne il contenuto.

“Come dono di nozze per voi”, disse.

Nello scrigno c'erano una croce attaccata ad una catenella, un paio di orecchini e un diadema, tutti d'oro massiccio. Quella era l'ultima beffa che Gunhild dovette tollerare: quella parure apparteneva a sua madre Edith.

“Come osate offrirmi i gioielli di mia madre? Il Signore vi punirà per quello che state facendo.”

“Voglio che siate degna di presentarvi alle nostre nozze. Ve li manda vostra madre insieme alla sua benedizione.”

Gunhild stava quasi per ribattere che non era vero, che non ci avrebbe mai creduto. Poi ripensò alla propensione di Edith a chinare la testa in presenza degli uomini, a ritenerli indispensabili nella vita di una donna, alla sua cieca ubbidienza verso di loro. Quel gesto sembrava proprio da sua madre. Le stava dicendo: non hai altra scelta, figlia mia, sottomettiti agli uomini, perché senza di loro noi donne siamo deboli.

Mai! Non sarebbe mai stata debole! Lo aveva promesso a nonna Gytha. E improvvisamente, ripensare alle parole di sua nonna, le provocò un moto di nostalgia. Quella nonna a cui era affezionata come una madre, più di una madre. Ma nonna Gytha era lontana e non poteva aiutarla in quella situazione; sua madre l'aveva tradita... era di nuovo completamente sola.

 

Gunhild era di nuovo rinchiusa nelle sue stanze. Aveva scagliato il cofanetto dei gioielli addosso al muro, ma se ne era subito pentita. Era corsa a riprenderlo, notando con sollievo che la parure era integra e solo il cofanetto si era ammaccato all'angolo. Dopotutto quelli erano i gioielli di sua madre, e non si sarebbe mai perdonata se li avesse rotti.

Poi la rabbia la invase, e Gunhild cacciò un grido: cosa diavolo le importava di quattro pezzi di metallo, quando tutto il suo mondo, tutta la sua famiglia erano andati in pezzi?

Cosa le importava di rovinare degli oggetti materiali, quando la sua stessa vita era rovinata? Prigioniera di un normanno, rinchiusa in quelle stanze con l'ora fissata per le nozze sempre più prossima… Alain le aveva dato tempo un'ora dopo il tramonto. Se per quell'ora non avesse acconsentito a recarsi nella cappella e a presentarsi di fronte al prete, sua madre sarebbe morta.

Gunhild sapeva di non avere scelta. Ingoiò la rabbia e le lacrime, giurando a se stessa di seppellire il suo odio sotto un mucchio di cenere, pronto ad essere tirato fuori come una brace ancora incandescente al momento più opportuno.

Arleigh le sistemò di nuovo i capelli e fissò il velo al diadema d'oro di Edith. Le mise anche gli orecchini e la croce.

Un'ora dopo il tramonto, con indosso quell'abito verde e i gioielli di sua madre, Gunhild marciò incontro al proprio destino, scortata da due guardie e da Arleigh.

Quando fece il suo ingresso nella cappella in penombra, illuminata solo dal chiarore dei candelabri posti ai lati dell'altare, Alain era lì che l'aspettava, con il prete che stringeva tra le mani grassocce una copia del Sacro Libro.

Il normanno indossava la stessa tunica con il simbolo del suo casato, la spada al fianco e un cerchio d'oro con incastonato un rubino gli cingeva i capelli rossi, che portava lunghi sulle spalle. Notando quella corona di indubbia buona fattura, Gunhild non poté evitare di pensare a quanti tesori sassoni quell'uomo avesse razziato, quante ricchezze della sua gente avesse saccheggiato: era chiaro da ciò che aveva di fronte che gli avevano portato buoni frutti.

Quando gli fu al fianco, lui le sussurrò: “Siete bellissima, principessa.”

Gunhild strinse le labbra e non disse nulla, lo sguardo tagliente e carico d'odio.

Tutti i suoi sogni stavano andando in frantumi: ora sarebbe appartenuta ad un uomo, ad un normanno per di più. Sarebbe stata una sua proprietà, e lui avrebbe avuto il potere di decidere tutto della sua vita. Era diventata come sua madre. Ma poi pensò anche a nonna Gytha: anche lei aveva avuto un marito, suo nonno Godwin, ma non aveva permesso che lui prendesse possesso della sua vita. Era stata forte, anche da sposata.

Gunhild avrebbe seguito il suo esempio, era l'unica scelta che le fosse rimasta in quel momento.

Così andò a testa alta verso il matrimonio, trattenendo le lacrime mentre il prete pronunciava le formule di rito.

 









Angolo Autrice: Ringrazio la mia amica Ormhaxan per la bellissima copertina della storia, interamente opera sua! <3
Questo è stato un capitolo veramente triste da scrivere per me. Il "mainagioia" continua imperterrito. Purtroppo scrivere su un personaggio storico significa dover scrivere sia gli avvenimenti positivi che negativi (so che fin qui sono stati sicuramente più i secondi^^), e spero che questo non risulti troppo triste alla lunga. Per quanto riguarda l'aspetto di Gunhild sappiate che in genere non amo le protagoniste troppo "bellocce", ma dato che sua madre era davvero conosciuta per la sua bellezza mi è sembrato probabile che anche lei ne avesse ereditato qualcosa. Curiosità storica: la città di Searesbyrig è l'attuale Salisbury. Grazie a tutti voi che leggete e recensite!
A presto,
E.

p.s: per chi ha già letto ho modificato leggermente il capitolo, ma solo le ultime quattro righe, nulla di eclatante ;)

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


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Febbraio 1071

Costessey Castle, East Anglia, Inghilterra

 

Gunhild non poteva considerarsi più una prigioniera di Alain. Ormai era sua moglie, a tutti gli effetti, Lady Richmond per diritto di matrimonio; era la signora della casa e, sebbene avrebbe preferito trovarsi in un rovo di spine, il matrimonio con uno degli uomini più vicini al re le aveva regalato una posizione tutta nuova in Inghilterra. Ora non era più soltanto l'unica figlia del vecchio re Harold rimasta in patria, capace di ispirare lealtà sassoni: adesso era anche di diritto un membro della corte normanna.

Di fatto però, la sua vita non era cambiata di molto. Viveva ancora nel castello in cui Alain l'aveva fatta portare quando l'aveva rapita: Costessey Castle, nell'East Anglia, un maniero che Guglielmo aveva donato ad Alain non appena si era insediato sul trono, insieme alle terre che lo circondavano. Suo marito era spesso assente da casa, a causa dei suoi frequenti viaggi con Guglielmo o per presenziare ai lavori di governo a Londra. Non aveva ancora mai portato Gunhild con sé, forse più per riguardo verso la sua giovane sposa che per punirla. Strano a dirsi per uno della sua razza, ma Alain non aveva mai trattato Gunhild con crudeltà. Non l'aveva più toccata dopo la loro prima notte di nozze, quando gli era stato chiaro che Gunhild non gli si sarebbe più concessa senza che lui dovesse usare la forza.

Le aveva fatto dono di alcuni gioielli e aveva fatto confezionare per lei diversi abiti nuovi, insistendo perché i mercanti le presentassero le loro stoffe più belle tra le quali le aveva permesso di scegliere le sue preferite.

Le donò anche un bellissimo falchetto, che divenne l'unico svago di Gunhild nelle sue giornate solitarie a Costessey. Le erano state assegnate delle ancelle personali oltre ad Arleigh, e Alain le aveva trovato perfino una dama di compagnia. Bridgit era la figlia orfana di un cavaliere sassone morto in battaglia con suo padre Harold, era sola al mondo ed era rimasta senza un soldo. La prima volta che l'aveva conosciuta aveva dichiarato a Gunhild che servire la figlia di re Harold era per lei l'onore più grande che avesse mai sperato di ottenere.

Ora che le colline intorno a Costessey erano ammantate di bianco, Gunhild trovava ancor più bello cavalcare con il suo falchetto e la fedele Bridgit al fianco. Le due ragazze erano imbacuccate in un abito di stoffa pesante e nel mantello bordato di pelliccia. Nonostante questo quando si fermavano dovevano portare immediatamente le mani inguantate alla bocca e soffiarvi sopra per cercare di scaldarle. Tait, il suo piccolo rapace, non usciva molto spesso d'inverno, ma aveva bisogno di volare, ed ora che gli era stata concessa un po' di libertà volava costantemente avanti e indietro, sia per cercare carne fresca che per sgranchirsi le ali.

Bridgit guardò brevemente i due soldati che le accompagnavano, fermi a debita distanza per lasciare loro un po' di privacy senza però perderle di vista; poi alzò lo sguardo al cielo, che si presentava limpido e sereno.

“Sembra che non nevicherà più per oggi, milady”, commentò in tono allegro.

“Già. Questi ultimi giorni in cui siamo dovute rimanere al castello avevo l'impressione di soffocare fra quelle quattro mura”, rispose Gunhild.

“Credete che vostro marito vi chiederà di seguirlo a corte quando tornerà?”

Gunhild alzò le spalle. “Potrebbe. Ero convinta che me l'avrebbe chiesto già l'ultima volta che è tornato, tre mesi fa. Credo che abbia esitato perché non sa come potrei reagire se mi chiedessero di inginocchiarmi di fronte a Guglielmo.”

Il motivo per cui Alain aveva, con tanta determinazione, messo in atto i trucchi più meschini per farla sua moglie erano le terre di sua madre Edith, la maggior parte delle quali si trovavano nel Grantbridgeshire. Secondo la legge danese era lei l'erede di sua madre, e se Alain voleva legalmente garantirsene il possesso doveva ottenerle nel nome di sua moglie. Una volta che il matrimonio era avvenuto, Alain non aveva perso tempo e aveva presentato al re la richiesta che le terre di sua suocera venissero assegnate alla legittima erede, sua moglie e, di conseguenza, a lui.

Guglielmo non aveva esitato a premiare il suo braccio destro e aveva conferito a Gunhild tutte le terre di Edith, così che Alain potesse legalmente rubarle. Sua madre orma non costituiva più alcuna fonte d'interesse per Alain una volta espropriata delle sue terre, ed era stata quindi finalmente libera dal suo giogo. Aveva scelto di partire per l'Irlanda, dove era stata accolta dai due figli maggiori, Godwin e Edmund, a cui il Grande Re aveva assegnato alcuni possedimenti.

Alain non aveva concesso a madre e figlia di incontrarsi prima delle partenza di Edith, anche a causa della distanza che le separava. Edith si trovava nello Yorkshire, ospite dell'abbazia di Selby, che era stata fondata due anni prima da un nobile normanno vicino ad Alain e a re Guglielmo, un tale Hugh de Lacy.

Edith era però riuscita a scrivere una lettera alla figlia prima di partire, lettera che Gunhild aveva ricevuto quando sua madre si trovava già a bordo di una nave diretta in Irlanda. Edith era partita non appena Guglielmo aveva preso una decisione in merito alle sue terre, ovvero due mesi dopo le nozze della figlia – tanto poco tempo era occorso all'usurpatore per compiacere il suo fedele amico.

Anche se si trattava a tutti gli effetti di una lettera d'addio, Gunhild aveva trovato comunque un certo conforto nell'apprendere che sua madre non l'aveva tradita come Alain aveva proclamato.

 

 

Selby, 22 maggio 1070

 

Mia carissima figlia,

Mi si spezza il cuore nello scriverti questa lettera. Ho saputo del folle piano di Alain per fare di te sua moglie soltanto a cose fatte. Negli anni che sono trascorsi dalla morte di tuo padre sono stata confinata dapprima nello stesso castello che ora ospita anche te, e in seguito, non appena De Lacy ne ha completato la costruzione un anno fa, qui nell'abbazia di Selby. Anche se avessi saputo cosa Alain stesse architettando, non avrei potuto fare nulla per avvertirti. Se ti sei mai chiesta perché, pur sapendo dove ti trovassi, non ti ho mai scritto, il motivo è che non mi veniva permesso di mandare né di ricevere corrispondenza. Alain aveva dato ordine che mi sorvegliassero a vista; prima a Costessey, e ora qui, ho vissuto questi ultimi anni come una prigioniera. Mi hanno sempre trattata onorevolmente e non ho mai sofferto privazioni materiali, ma non potevo lasciare il castello né avere contatti con il mondo esterno. Da quando sono giunta a Selby le monache mi sorvegliano e mi è permesso uscire solo nel cortile interno dell'abbazia, nessun visitatore può incontrarsi con me e la mia unica fonte di notizie dal mondo esterno sono i pettegolezzi delle monache.

Figlia mia adorata, non sai quanto abbia desiderato scriverti in questi anni, né puoi sapere quanto abbia sofferto per tutto quello che è successo alla nostra famiglia, a voi - miei adorati figli - e a vostro padre, che Dio l'abbia in gloria. Trovare il suo corpo straziato è stato il dolore più grande della mia vita, ma non aggiungerò altro per non turbarti. Volevo solo farti sapere che il mio dolore è sincero, che ho amato con tutta me stessa voi e mio marito. Restare separata da tutti voi in questi anni è stata una tortura, senza potervi scrivere neppure una parola, senza sapere quale sarebbe stato il vostro destino.

Sono venuta a sapere da una monaca che Gytha, insieme a vostra nonna, ha trovato rifugio in Danimarca, ma come avrai capito, è tutto ciò che sono riuscita a sapere.

Sappi che non ho mai dato la mia benedizione a queste scellerate nozze a cui Alain ti ha costretto, povera bambina mia. Né ti ho donato i miei gioielli come dono di nozze. Avrei voluto con tutto il cuore donarli a te, questo sì, ma mai avere parte nel piano di Alain. E' lui che mi ha portato via quei gioielli e poi ti ha fatto credere che te li mandassi come dono di nozze, è lui che ti ha fatto credere tutte queste cose orribili su di me.

Ora che finalmente mi è stata data una scelta, ho deciso di partire per l'Irlanda, dove Godwin ed Edmund mi aspettano. Il mio cuore è gonfio di pena a saperti nelle mani di Alain, e darei la mia vita, credimi figlia mia, perché tu possa essere di nuovo libera.

Pregherò per questo con tutte le mie forze. Dio ti benedica, figlia mia adorata.

Con tutto il mio amore,

La vostra Signora Madre

Edith

 

Gunhild aveva di nuovo dovuto trattenersi dal piangere, mentre teneva la lettera di sua madre tra le mani. Tuttavia sapere che sua madre non aveva avuto parte in ciò che le era successo l'alleggeriva di un peso enorme, sebbene non cambiasse di una virgola la sua infelice condizione.

Ovviamente, appena avuta notizia del suo matrimonio, la Chiesa aveva protestato ferocemente per l'irriguardoso trattamento riservato ad una principessa di sangue reale, una novizia che stava per ricevere i voti. Il Vescovo Herman, insieme ad una delegazione clericale, era stato ricevuto dal re in merito alla questione. Il Ministro della Chiesa si era detto inorridito che un nobile, un uomo così vicino al re, potesse rapire una giovane vergine, consacrata a Dio per di più, dal sacro e inviolabile suolo di un'Abbazia e obbligarla al matrimonio.

Il re non si era scomposto di fronte a quelle pesanti accuse, al contrario si era mostrato calmo e sicuro di sé; evidentemente l'intero il piano era stato minuziosamente congegnato da tempo, e tutte le sue possibili varianti analizzate.

Guglielmo aveva obiettato, di fronte all'assemblea di prelati riuniti, che la giovane non era stata affatto sottratta alla protezione della Chiesa, in quanto non si trovava sul suolo dell'abbazia quando era stata portata via, e anzi aveva lasciato di sua spontanea volontà le sacre mura; inoltre non era consacrata a Dio, poiché non aveva ancora preso i voti definitivi ed era pertanto solo una novizia; e infine era riuscito, sfacciatamente e senza ombre sulla coscienza, a convincere il Vescovo e gli altri Ministri, che Gunhild non era stata affatto rapita, ma era fuggita volontariamente con Alain perché lo amava e desiderava sposarlo.

Guglielmo aveva aggiunto che questa poteva apparire evidente a chiunque conoscesse la principessa: perché altrimenti questa avrebbe atteso ben tre anni per prendere i voti? Perché avrebbe trascorso tanti anni da novizia? Perché se il suo reale desiderio era diventare una Sposa di Cristo aveva abbandonato di sua spontanea volontà il sacro suolo che l'aveva ospitata? Non poteva darsi che il Vescovo di Sherman, suo protettore, si fosse ingannato sulle reali intenzioni della ragazza? Non era più probabile che avesse visto in lei una vocazione che non esisteva, e che solo per farlo contento Gunhild avesse fatto finta di accettare l'imminente consacrazione, con già in mente l'idea di fuggire con Alain?

Il re parlò con tanta convinzione, con tanta sottigliezza, che il dubbio cominciò a farsi strada nella mente del Vescovo che aveva spinto Gunhild a prendere i voti. Cominciò a chiedersi se ciò che il re affermava non fosse vero; dopotutto il cancello dell'abbazia era stato lasciato aperto e solo qualcuno che vi viveva all'interno poteva averlo fatto. Forse aveva spinto lui stesso Gunhild verso una strada che non le si addiceva. E Gunhild era fuggita. Una volta che il Vescovo ebbe accettato quest'idea, anche gli altri prelati la trovarono accettabile. D'altronde che senso aveva mettersi contro il re d'Inghilterra e la sua parola, per una giovane che era ormai indissolubilmente legata dal vincolo del matrimonio?

Quando ne aveva avuto notizia, Gunhild aveva saputo di essere rimasta davvero sola.

Con una scrollata di spalle e un sospiro la giovane sassone abbandonò le sue tristi rimembranze per tornare al presente.

Lei e Bridgit erano nel frattempo giunte sulla cresta della collina, dalla quale si aveva una buona vista della valle. Bridgit fece un fischio al suo falchetto per richiamarlo. Mentre era intenta a fissare l'orizzonte, Gunhild vide un gruppo di cavalieri in lontananza. Cavalcavano in quella direzione e probabilmente erano diretti a Costessey. Quasi sicuramente recavano missive da parte di Alain. I soldati di scorta si avvicinarono alle due ragazze e insieme e in silenzio, attesero che i cavalieri li raggiungessero e arrestassero i cavalli di fronte a loro.

Il cavaliere che li guidava, dal mantello impolverato per il lungo viaggio, fece un inchino alle signore.

“Veniamo da parte di Lord Alain di Richmond, mie signore. Chi di voi è sua moglie, Lady Richmond?”

“Sono io”, rispose Gunhild con voce chiara, fissando con glaciale orgoglio gli occhi blu in quelli dell'uomo.

“Bene, finalmente conosco la mia incantevole cognata. Mio fratello non avrebbe dovuto tenervi nascosta per tanto tempo”, rispose il cavaliere con un sorriso.

“Voi siete il fratello di mio marito?”, chiese Gunhild sorpresa. Sapeva così poco della famiglia di Alain. A dir la verità non sapeva quasi niente di lui né poteva dire di conoscerlo veramente, perché le poche volte in cui si erano visti lei si era rifiutata di rivolgergli più di qualche parola di circostanza.

Dalle chiacchiere dei servi sapeva che suo marito, figlio di Eudes, conte di Penthievre e di Agnés di Cornouaille, aveva qualcosa come nove fratelli legittimi e tre o quattro illegittimi. Senza dubbio una grande famiglia, anche per gli standard cui Gunhild era abituata.

“Mi chiamo Alain, come mio fratello, cognata”, disse accennando un inchino col capo. “Alain il Nero, mi chiamano tutti.”

Alain, in contrasto col suo omonimo, aveva una chioma decisamente corvina, con delle sfumature blu a tratti; i due fratelli avevano però in comune la pelle molto chiara, tipico tratto dei normanni.

“Come per mio marito, riesco a comprenderne il motivo, milord”, osservò Gunhild con un sorriso ironico. “E ditemi, avete notizie del mio sposo? E’ in salvo?” aggiunse quindi doverosamente.

“Quando l’ho lasciato poco meno di un mese fa per recarmi a Londra si trovava a nord con il re, in Northumbria. La ribellione è stata sedata e re Guglielmo ha di nuovo il dominio incontrastato del regno.”

Gunhild cercò di non far trasparire il proprio disappunto. Quando era giunta notizia di una nuova ribellione a nord, guidata dai cognati di suo padre, il conte di Mercia e il conte di Northumbria, Gunhild aveva sinceramente sperato che avessero successo. Aveva sperato che suo marito restasse ucciso in battaglia per poter tornare di nuovo libera. Si era confessata per questi suoi pensieri ma, anche se il prete l’aveva assolta, lei non era sicura di meritarlo, poiché non riusciva ad essere realmente pentita nel proprio cuore.

“E i conti di Mercia e di Northumbria?”

“Sono periti in battaglia e non devono essere più chiamati conti ormai. I loro titoli e le loro terre sono state espropriati come accade ad ogni traditore della corona.”

Gunhild deglutì, poi si sforzò di parlare con naturalezza. “Vogliamo dirigerci al castello, così che possiate rinfrescarvi e riposarvi del lungo viaggio?”

“Ben volentieri, signora cognata”, Alain fece cenno ai suoi uomini di ripartire senza aggiungere altro.

 

Gunhild si era ritirata nelle sue stanze in attesa dell'ora di cena. Ordinò che a suo cognato e agli altri ospiti non venisse fatto mancare nulla, che fossero trovati loro alloggi consoni e che dei servi si occupassero di loro. Poi chiese ad Arleigh di prepararle un bagno, di cui sentiva un impellente bisogno. Il gelo del mondo esterno si era dimostrato davvero pungente; aveva le membra intirizzite e un bagno caldo l'avrebbe senz'altro rimessa al mondo.

Finito il bagno si mise davanti al camino per far asciugare i capelli. Mentre Arleigh la pettinava, prese in mano la missiva che Alain il Nero le aveva portato.

Era da parte di suo marito, il quale la informava che, in seguito al suo aiuto nel sedare la ribellione, il re lo aveva elevato a conte di Richmond, assegnandogli le terre dello sconfitto conte di Northumbria. Le disse anche che aveva deciso di trasferirsi al nord, dove aveva intenzione di iniziare la costruzione di un nuovo castello che avrebbe funto da sua principale residenza in Northumbria. Le ordinava quindi di raggiungerlo a York, scortata da suo fratello Alain.

Così il mio saggio marito non ritiene ancora opportuno presentarmi al bastardo usurpatore, rifletté Gunhild. Però mi vuole con sé a York. Forse ha deciso che sia giunto il momento che io mi comporti come una vera moglie.

Gunhild sapeva che, presto o tardi, quel momento sarebbe giunto. Alain non l'aveva più toccata in quell'anno di matrimonio, ma era chiaro che avrebbe voluto dei figli prima o poi. E lei, come sua consorte, era tenuta a darglieli. Si chiese come avrebbe reagito a trovarsi di nuovo faccia a faccia con Alain, nel suo letto, a dover sopportare la pretesa dei suoi diritti coniugali. Si sarebbe sforzata di non vomitare, questo era certo.

Dalla lettera di Alain trasudava un certo orgoglio per il suo nuovo titolo. Con questa nuova acquisizione di terre era divenuto il nobile più ricco del regno, e sembrava aspettarsi che anche Gunhild fosse felice e orgogliosa di essere ora la contessa di Richmond. Ma per lei, che era stata Principessa d'Inghilterra ancor prima che il marito mettesse il suo piede straniero su quel suolo, essere chiamata contessa o baronessa o Lady Richmond contava davvero poco.

“Pare che ci trasferiremo in Northumbria, Arleigh”, annunciò infine Gunhild con un sospiro, mettendo da parte la lettera, sebbene la tentazione di gettarla nel fuoco fosse molto forte.

“Davvero, milady? Volete dire che mi volete con voi quando partirete?” chiese Arleigh, sinceramente stupita. Era nata a Costessey e nei suoi ventisei anni di vita non l'aveva mai lasciato. Non si riteneva abbastanza importante perché qualcuno la volesse con sé, perché qualcuno si curasse se si trovava in un posto piuttosto che in un altro.

“Certo che ti voglio con me! Sei stata la prima e, per molto tempo, l'unica faccia amica che io abbia incontrato dopo che sono stata portata qui. Sei stata sempre buona e gentile con me.”

Arleigh aveva gli occhi lucidi, quando si inginocchiò davanti a Gunhild e, baciandole la mano, mormorò “Principessa, sarà un onore per me seguirvi ovunque andiate. Potrete sempre contare sulla mia lealtà.”

Gunhild la fece rialzare, le prese le mani e guardandola negli occhi disse, sinceramente: “Ti ringrazio. Questo significa molto per me.”

“A proposito”, aggiunse rimettendosi a sedere “mio marito mi dice che ho un nuovo titolo ora: a quanto pare mi ha reso contessa.”

Arleigh si lasciò sfuggire un sorriso malizioso mentre faceva scorrere la spazzola fra i capelli della sua padrona. “Considerato che vostro padre vi ha reso una principessa, non mi sembra che vostro marito abbia poi compiuto una grande impresa.”

Gunhild rise di cuore: ”Sai una cosa? E' stato il mio stesso pensiero.”

 

La cena venne servita nella sala grande e a tavola vi erano una ventina di persone: Gunhild, Bridgit, Alain con i suoi cavalieri, il conestabile di Costessey sir Desmond e sua moglie Linn, e altri cavalieri del castello con le loro mogli. Finita la cena, alcuni ospiti si ritirarono nelle loro stanze, altri – tra cui Bridgit - si fermarono nella sala ad ascoltare le canzoni del menestrello; Gunhild si accomodò su una sedia presso il grande camino, dove ardeva un bel fuoco, e venne poco dopo raggiunta da Alain, che occupò il sedile libero accanto a lei. Tra le mani teneva una coppa di vino e aveva l'espressione divertita. Gunhild lo osservò: le sembrava che quell'uomo avesse un sorriso sornione perennemente impresso sulle labbra.

“Milady...”, disse lui alzando la coppa nella sua direzione e portandosela alle labbra. Bevve, quindi continuò. “So che non siete la moglie di mio fratello per vostra volontà. Avreste preferito trascorrere la vita tra le mura di un convento, vero?”

“Avrei preferito essere data in pasto ai lupi che in sposa a un normanno”, ribatté Gunhild.

“Suvvia, dite quella parola – normanno – come se noialtri fossimo la peggior razza che cammina sulla terra!”

“Davvero vi do questa impressione milord? Se è così, dovete scusarmi!”, disse Gunhild in finto tono mellifluo.

“Scuse accettate. Non siamo poi così terribili, no?”

Gunhild lo guardò come se volesse incenerirlo. “Quando mio padre è morto massacrato sul campo di battaglia ad Hastings per mano del vostro duca, mio zio imprigionato, mia madre espropriata dei suoi beni, il resto della mia famiglia costretto a fuggire in esilio, tutto avrei immaginato tranne che dovermi trovare a intrattenere il fratello di mio marito normanno, come se fossimo invitati ad una festa a corte!” E si alzò di scatto, con tutta l'intenzione di lasciare quell'uomo insolente con un palmo di naso.

Inaspettatamente, la mano di Alain raggiunse il suo braccio prima che lei potesse alzarsi del tutto. Gentilmente, ma con fermezza la mano la riportò al suo posto.

“Perdonatemi milady. Non avrei dovuto parlarvi così, sono stato un vero idiota. Vi prego, restate.”

Gunhild rimase a bocca aperta. Alain sembrava realmente pentito, l'umiltà nella sua voce appariva sincera. Desiderava veramente che lei restasse.

“Molto bene”, disse Gunhild, sforzandosi di mantenere un tono distaccato. “Perché non mi parlate un po' di voi, della vostra famiglia: non so quasi nulla delle origini di mio marito.”

“Volentieri, milady”, Alain appariva sollevato che l'incidente fra di loro fosse stato chiarito. “Come saprete nostro padre è il conte Eudes di Penthiévre. Siamo in tutto dieci figli: c'è Adèle, la maggiore, poi nostro fratello Geoffroi, che un giorno erediterà il titolo di nostro padre. Poi ci siamo Brian, Alain, io e Etienne, i quattro fratelli che hanno seguito re Guglielmo nella sua conquista. E' stato Alain a convincerci a partire: il ruolo di figlio minore non gli è mai andato giù. Ha sempre pensato di essere destinato a un ruolo più importante di quello che la sua nascita gli ha assegnato.”

“Ma davvero?”, mormorò Gunhild. “Non so perché, ma mi riesce facile crederci.”

Alain le indirizzò un mezzo sorriso. “Proprio così. Non poteva sopportare che tutta la gloria, gli onori e il titolo spettassero a Geoffroi ed è voluto partire in cerca della sua fetta di ricchezza.

Nostro padre ha aiutato re Guglielmo nella sua impresa con cinquemila soldati bretoni ben addestrati e cento navi, affidandone il comando ai miei fratelli Brian e Alain. In ringraziamento per il loro supporto Guglielmo ha donato ad Alain il suo titolo e a Brian il titolo di conte di Cornovaglia.”

“Perché Guglielmo non ha ricompensato anche voi e vostro fratello Etienne? Non avete combattuto anche voi ad Hastings?”

“Ho combattuto, certo. Io e Brian comandavamo una divisione di bretoni sul fianco ovest. A vostro marito invece fu dato il comando dell'intera retroguardia. Ma Guglielmo non aveva abbastanza terre e titoli da elargire a tutti e quattro, così ha scelto i due maggiori.”

Gunhild si sorprese a non provare rancore verso Alain: per la prima volta riusciva a parlare della battaglia di Hastings con un normanno, uno di quelli che aveva partecipato alla carneficina di suo padre e del suo popolo, eppure mantenersi calma, quasi distaccata.

“Mi ricordo di vostro fratello Brian. Dove si trova ora?”

“Con il titolo il re gli ha assegnato terre in Cornovaglia: credo che si trovi laggiù ora. Come fate a conoscerlo?”

“Fu lui, insieme a mio marito, a sconfiggere i miei fratelli nella battaglia del fiume Taw, due anni fa.” Gunhild fece una pausa e poi proseguì: “E gli altri vostri fratelli? Non sono partiti insieme a voi?”

“Dopo Etienne ci sarebbe Robert, che è diventato un ministro della Chiesa ed è rimasto in Bretagna durante la conquista. Ci ha raggiunti solo un anno fa ed ora si trova con Alain in Northumbria. Anche Richard, nato due anni dopo Robert, è un canonico a Bayeux, in Normandia. Poi c'è Guillame, che è entrato al servizio del Sacro Romano Imperatore ed è in Svizzera. E infine l'ultima nata Agnés, che ha quindici anni. E’ arrivata in Inghilterra un anno fa insieme a suo marito, a cui vostro marito Alain ha assegnato la signoria di Cheveley, uno dei suoi castelli nel Grantbridgeshire.”

Se Alain era al corrente che quel castello era fra le proprietà che Alain il Rosso aveva rubato a sua madre Edith, non lo diede a vedere, forse per riguardo nei suoi confronti.

“La vostra è davvero una famiglia numerosa”, commentò Gunhild in tono neutro.

“Oh, non è finita qui. Nostro padre ha messo al mondo anche quattro bastardi, che però ho incontrato di rado. Sapete, mia madre ha preteso che venissero cresciuti lontano da lei. Come posso biasimarla?”

“Anche per me sarebbe difficile da tollerare. Grazie al Cielo mio padre è sempre rimasto fedele a mia madre...”

Gunhild si interruppe, la gola stretta da un nodo improvviso. Abbassò il capo, sentendo gli occhi riempirsi di lacrime. Non si accorse che Alain la osservava con sguardo comprensivo.

“Deve essere stata dura per voi. La morte di vostro padre, la rovina della vostra famiglia... mi dispiace... sinceramente”, disse in tono dolce. Gunhild alzò lo sguardo, stupita da quella frase inaspettata. Era la prima volta che un normanno le mostrava comprensione e gentilezza. Uno di coloro che avevano cagionato la morte di suo padre se ne dispiaceva.

I suoi occhi blu incontrarono quelli di Alain e, per la prima volta, Gunhild lo guardò veramente. Non era bello nel senso stretto della parola, ma aveva un suo fascino particolare. Gunhild non sapeva dire se fosse nei suoi occhi blu mare, nella chioma di un nero lucido, nel naso affilato o negli zigomi alti. Il suo era un viso piacevole, con un fascino forse un po’ oscuro, misterioso. Aveva un modo di sorridere – inclinando le labbra solo da un lato e con una nota beffarda negli occhi – che non lasciava indifferenti.

In quel momento Alain sollevò una mano, in direzione del viso di Gunhild. Quel momento sembrò eterno ad entrambi. Gunhild trattenne il respiro, incerta su come avrebbe reagito quando la sua mano le avrebbe sfiorato il viso in quella che prometteva di essere una carezza, avvinta inspiegabilmente dagli occhi di lui. Poi un applauso improvviso ruppe l'incantesimo, scuotendo Gunhild come uno secchio d'acqua gelida sul viso. Gli altri invitati stavano applaudendo vigorosamente il menestrello, che aveva appena terminato la sua canzone.

Gunhild tornò in sé, ricordò chi era lei – una fiera principessa sassone – e chi era lui – il nemico. Raccolse le gonne tra le mani e si alzò di scatto, lasciando Alain a seguirla con lo sguardo mentre si allontanava.

Gunhild posò una mano sul braccio di Bridgit: “Vorrei ritirarmi, ora. Vieni con me?”

“Certo”, mormorò la sua dama e la seguì fuori della sala grande.

 

I preparativi per la partenza non furono rapidi. C'era da organizzare l'intero bagaglio della contessa, delle sue ancelle e della sua dama, cui in occasione della partenza, si era aggiunta la figlia di sir Desmond, Maud, una giovane sulla ventina.

Il giorno della partenza giunse più di una settimana dopo l'arrivo dei normanni. Gunhild scelse un abito viola dal taglio semplice, con maniche attillate e una lunga cintura di cuoio in vita. L'ancella le legò la lunga chioma in una treccia e le fissò sul capo il velo bianco con il soggolo. Bridgit aprì la cassapanca ai piedi del letto e tirò fuori il mantello, di un viola più scuro di quello dell'abito, bordato di pelliccia di martora. Si avvicinò a Gunhild e glielo drappeggiò sulle spalle. Gunhild le sorrise di sbieco e iniziò a calzare i guanti, anch'essi bordati di pelo. Poi, insieme alle sue due dame e ad Arleigh, scese dabbasso.

Nel salone c'era un andirivieni di persone e cose. I servi facevano avanti e indietro portando bauli, sacche e provviste per il viaggio. Mentre erano intenti a caricare i cavalli, Alain e gli altri cavalieri consumavano una colazione veloce a base di pane, carne e birra, seduti ad uno dei tavoli. Erano già vestiti di tutto punto e chiacchieravano tra loro ad alta voce. Notarono a malapena le dame e rivolsero loro un saluto frettoloso, affrettandosi a riportare alle labbra il boccale di birra.

Gunhild per poco non inciampò in uno dei cani, che seguivano i servi dentro e fuori la sala. Il pavimento era ingombro di bagagli, così lei, Bridgit e Maud rinunciarono ad avventurarsi oltre e rimasero ferme dove si trovavano. Gunhild avrebbe preferito uscire in cortile a supervisionare le operazioni di carico, ma il clima era davvero gelido.

Tra tutti i servitori talmente indaffarati da camminare a testa bassa e non accorgersi nemmeno della loro padrona a pochi metri di distanza, uno le si avvicinò intenzionalmente. Chinò il capo e le porse una lettera.

“Un messaggero è appena giunto e ha portato questa per voi, milady.”

Gunhild dovette, con suo rammarico, sfilarsi i guanti per riuscire a rompere il sigillo. Li rinfilò immediatamente, mentre le dita già cominciavano a ghiacciarsi. Era una lettera di Gytha dalla Danimarca. In quell'anno la loro corrispondenza non era stata fitta, ma comunque regolare.

 

 

26 novembre 1070

Rottskild, Danimarca

 

Cara sorella,

Non so come darti questa tremenda notizia. Ieri la nostra amatissima nonna Gytha ci ha lasciati. Il suo cuore non ha retto più. Troppi dolori e delusioni l'avevano indebolita in questi ultimi anni. Nelle ultime settimane mi ripeteva spesso che sentiva la mancanza dei suoi amati figli: nostro padre Harold, i nostri zii Gyrth, Leowfine e perfino Tostig; e il più giovane, Wulfnoth, ancora prigioniero di Guglielmo. Nei suoi ultimi momenti di vita ha nominato anche la sua prima figlia Elgifu, che morì bambina, e il suo settimogenito Sweyn, che morì all'età di sedici anni. Ma devi sapere che il suo ultimo pensiero e le sue ultime parole sono state solo per te, la preferita tra i suoi nipoti. Purtroppo non sono riuscita a nasconderle ciò che ti è capitato, ciò che quel normanno ti ha fatto. Anche se ho avuto cura di non farle trovare nessuna delle lettere che ci siamo scambiate durante quest'ultimo anno, lei lo è venuto a saperlo ugualmente dalle voci che hanno raggiunto la corte svedese, e questo ha amareggiato notevolmente il suo ultimo anno di vita.

Ma mi ha pregato di dirti che ti sarà sempre vicina, che ti guarderà dal Cielo, e che è molto fiera di te. Ha aggiunto che sei stata la sua gioia da quando sei venuta al mondo, in quella notte di marzo che ha trascorso accanto a nostra madre in travaglio. Queste sono state le sue esatte parole e ho voluto riportartele. Spero che questo ti consoli un po'. I nostri fratelli Ulf e Harold stanno bene e sono due vivaci bambini di quattro anni. Anche la nostra matrigna sta bene, anche se ha sofferto per la morte di sua suocera quanto me. Le era molto affezionata. Il re ha organizzato dei funerali di stato per nostra nonna e io gliene sono stata molto grata.

Tua affezionata,

Gytha Haralsdatter, Principessa d'Inghilterra

 

Gunhild fece un rapido calcolo mentale. Novembre. 26 novembre. Quella lettera era di più di quattro mesi prima. Quattro mesi in cui non aveva saputo che sua nonna, la sua amatissima nonna era morta. Gunhild si sentiva vuota, apatica.

“Come mai questa missiva mi è stata recapitata solo ora?” chiese in tono freddo al servitore. “Risale allo scorso novembre.”

“Il messaggero mi ha raccontato che nessuna nave è potuta salpare dalla Danimarca durante gli ultimi mesi dell'anno, milady. Il mare è stato innavigabile. La neve e il ghiaccio sono arrivati presto quest'anno. Solo in febbraio, ha detto il messaggero, si è potuto rimettere una nave in mare.”

Ma Gunhild non lo ascoltava più. Sapeva benissimo che raramente le navi salpavano in inverno e non era stupita del ritardo della lettera di sua sorella. Probabilmente stava solo cercando un colpevole, uno sfogo al suo dolore. Dolore che per il momento non accennava a venir fuori, sembrava congelato come la campagna inglese circostante.

Sua nonna, la sua roccia, non c'era più. Ma Gunhild non riuscì a piangere. Anche se lontana da lei fisicamente, nonna Gytha era sempre stata il suo rifugio, il ricordo a cui aggrapparsi nei giorni più bui della sua giovane vita.

“Vorrei restare sola, per favore”, disse sottovoce alle sue dame.

“Cos'è successo Gunhild?”, chiese Bridgit. Ma Maud le fece cenno di no con il capo, e la condusse fuori, con la scusa di controllare a che punto erano le preparazioni per il viaggio.

Gunhild si sedette su una panca vuota, la lettera ancora tra le mani tremanti. L'unico pensiero razionale che riuscì a formulare fu che forse era stata ingenua a non aspettarsi una simile notizia. Dopotutto sua nonna aveva settantasette anni quando era morta. Un'età veneranda. Ma non era la sua età il problema. Il problema era che Gytha era morta sopravvivendo a suo marito e a metà dei suoi figli, molti dei quali uccisi per mano normanna. Era stata privata dei suoi titoli, di tutto ciò che possedeva. Era stata separata dai figli superstiti, da quasi tutti i suoi nipoti. Aveva sofferto una delusione dopo l'altra, le speranze brevemente riaccese s'erano presto spente.

“E' successo qualcosa, cognata? Non vi sentite bene?”, le giunse la voce di Alain da un angolo remoto della sua mente. Sollevando lo sguardo, Gunhild notò che stava in piedi di fronte a lei, una mano tesa e pronta ad aiutarla ad alzarsi. Gunhild si alzò di scatto, scansandolo.

“Sto bene, grazie”, disse a denti stretti. “E' ora di partire”. E, nascondendo la lettera nel mantello, uscì fuori in cortile. Chiese a uno degli scudieri di aiutarla a montare a cavallo e aspettò in sella che anche gli altri cavalieri, le sue dame e Arleigh la imitassero.

Diede le ultime istruzioni a sir Desmond che si era avvicinato per salutare sua figlia e ordinò che il ponte levatoio venisse abbassato. La campagna innevata si rivelò agli occhi dei viaggiatori come una luce abbagliante. A Gunhild quella vista sembrò scaldare il cuore, mentre seguiva i cavalieri che aprivano il corteo, dando di sperone alla propria cavalla e ignorando le occhiate preoccupate di Bridgit, Maud e Arleigh.





Angolo Autrice: rieccomi qui con il nuovo capitolo! Spero vi piaccia e spero di riuscire a pubblicarne un altro entro la fine della settimana, perché poi sarò all'estero per dieci giorni e non potrò pubblicare fino al mio ritorno. In questo capitolo viene introdotto un nuovo personaggio, Alain il Nero (sì lo so, è una confusione con i nomi uguali dei due fratelli, ma evidentemente la loro madre non aveva molta fantasia :D). E' un personaggio che mi piace molto.... vedrete come evolverà nei prossimi capitoli ;). Ringrazio davvero di cuore tutti voi che leggete e le fantastiche ragazze che recensiscono.
Un abbraccio,
E.

 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


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Febbraio 1071

Abbazia di Crowland, Mercia, Inghilterra

 

L’abbazia di Crowland svettava contro il limpido cielo invernale: l’alta facciata in stile gotico dell’edificio era decorata con figure di santi, e le grandi finestre ad arco erano maestose, perfino più maestose dell’imponente torre del campanile. Di contro l’entrata era molto più modesta: una porta di altezza appena sufficiente a far passare un uomo a cavallo. Una versione in miniatura, ma di simile foggia, delle grandi vetrate. Simboleggiava la piccolezza dell’uomo di fronte alla maestosità del suo Creatore, e quella potente metafora non passò inosservata agli occhi di Gunhild.

Lei e i suoi compagni di viaggio arrestarono i cavalli sulla strada che conduceva all’ingresso dell’abbazia, e smontarono affidando le briglie ai servitori.

Sul prato ben curato antistante l’abbazia – ora imbiancato dalla neve - la prima cosa che saltava all’occhio era la moltitudine di tombe che costituivano il cimitero della chiesa. Gunhild si sorprese a fissare quella distesa di morte che però non ispirava terrore, ma solo ed unicamente pace. Quella vista le riportò alla mente sua nonna, in un turbine di pensieri sconnessi e confusi. Anche sua nonna giaceva in una tomba simile, scavata nel freddo e ghiacciato suolo danese, ed era proprio a quello che Gunhild pensava in quel momento.

Durante il viaggio aveva avuto modo di riflettere; le lunghe ore in sella senza nulla che la distraesse l’avevano costretta a venire a patti con le proprie emozioni. E l’unico pensiero che aveva trovato consolatorio era proprio quello che sua nonna era stata sepolta nel suolo da cui era venuta al mondo, nella sua terra natale.

Bridgit le mise una mano sulla spalla, riscuotendola dai suoi pensieri. Gunhild le sorrise con riconoscenza e seguì i cavalieri normanni all’interno dell’abbazia.

Li accolse l’abate Wulfketel in persona, un uomo sulla quarantina, con i capelli prematuramente ingrigiti, vestito del severo abito scuro del suo ordine. Si mostrò cortese con i suoi ospiti, ma non poté nascondere la malcelata antipatia che provava per gli invasori normanni, così diversa dalla marcata gentilezza con cui si rivolse a Gunhild e alle sue dame.

Mostrò loro gli alloggi che l’abbazia riservava ai nobili viaggiatori e li invitò a dividere il pasto serale con i suoi monaci nel refettorio, non appena si fossero sistemati.

 

“Fai scaricare solo il baule piccolo, Arleigh”, ordinò Bridgit alla serva. “Non avremo bisogno di molti abiti, se ripartiremo domani.”

Arleigh fece un piccolo inchino e uscì dalla stanza per andare a dare disposizioni.

Quando due servi portarono il baule in camera, Bridgit e Maud si misero a tirare fuori delle vesti da notte, nonché le vestaglie pesanti per Gunhild e per loro stesse.

Gunhild indossò di nuovo il mantello e i guanti che al calore del caminetto acceso si era tolta, e annunciò alle sue dame che sarebbe tornata in breve tempo. Il pomeriggio non aveva ancora lasciato il posto alla sera, e la luce arancione del tramonto penetrava dalle ampie finestre ad arco dell’abbazia.

Gunhild trovò senza difficoltà le stanze dell’Abate Wulketel. Un monaco le disse che l’abate stava lavorando nel suo studio, ma che l’avrebbe annunciata subito. Dopo pochi minuti il religioso tornò da lei e la invitò ad accomodarsi.

L’abate era seduto alla sua scrivania, davanti a sé aveva una pila di pergamene e libri, ed era intento a scrivere qualcosa con la sua lunga penna d’oca. Quando Gunhild entrò nella stanza il suo volto si illuminò di un sorriso sincero e, dimenticatosi immediatamente di ciò che stava facendo, si alzò in piedi per accogliere la sua gradita ospite.

“Principessa! Che piacevole sorpresa. A cosa debbo questo onore?”

“Sono contenta che abbiate potuto ricevermi, padre.”

“Sciocchezze, sciocchezze”, disse bonario il religioso, agitando la mano ingioiellata. “Sono io ad essere onorato della visita della figlia del nostro amato sovrano!”

“Non dovreste parlare così, padre!”, esclamò Gunhild, guardandosi alle spalle per assicurarsi che nella stanza non ci fosse nessun’altro. “Potreste mettervi in pericolo. Guglielmo è il nostro sovrano ora.”

“Non temo per me, figliola. Sono vecchio e ho visto abbastanza delle brutture di questo mondo per preoccuparmi del mio collo. La collera umana non può intaccare il mio spirito. Le cose del mondo non mi riguardano più e desidero vedere al più presto il Trono di Dio, perché dell’uomo e delle sue ingiustizie ne ho avuto abbastanza.”

“Voi parlate saggiamente, padre. Ho capito da subito che in voi avrei trovato un amico, qualcuno a cui poter affidare un delicato compito…”

“Potete fidarvi di me. Di cosa si tratta?”

Gunhild trasse un borsellino di pelle dalla cintura del suo abito. Al suo interno le monete d’oro tintinnarono copiose, mentre lo metteva nelle mani dell’abate.

“Vorrei che diceste delle messe per l’anima di mia nonna, la Contessa Vedova di Wessex.”

“La Contessa è morta? Deus Omnipotens illa benedicat et absolvat”, mormorò, tracciando nell’aria il segno della croce. “Non lo sapevo, principessa. E mi dispiace immensamente. Vostra nonna era una grandissima dama, non meritava tutto quello che ha dovuto soffrire, ma è stata la Volontà di Dio.”

Fiat voluntas Dei”, rispose doverosamente Gunhild, segnandosi.

Nunc et semper”, aggiunse l’abate.

Gunhild sospirò, come per farsi coraggio. “C’è... c’è un'altra persona per cui vorrei chiedere una messa da parte vostra... vorrei chiederla per mio padre. So che non dovrei e che rischio di mettervi nei guai, ma spero che aggiungendo questa alla somma che vi ho dato voi possiate fare questo per me.”

E così parlando si slacciò il pendente d’oro con un grosso rubino al centro che portava al collo. Si accinse anche a sfilare l’anello della stessa foggia che portava sulle dita inguantate. Quelli erano gioielli che le aveva donato suo padre, non erano regali di Alain. Non avrebbe mai sacrificato per suo padre dei gioielli che non avevano alcun valore per lei, che avrebbe volentieri gettato in un fiume. Ma la mano dell’abate la fermò, posandosi sulla sua.

“Accetto la vostra offerta in denaro per l’abbazia e farò dire messe per la Contessa Vedova. Ma non potrei mai pretendere un compenso per pregare per l’anima del nostro amato re. Tenete pure i vostri gioielli, principessa. E non abbiate timore per re Harold. Qui abbiamo pregato e pregheremo per lui con tutte le nostre forze.”

Gunhild aveva gli occhi lucidi quando li sollevò sul viso dell’abate. “Grazie”, mormorò chinandosi a baciare l’anello del religioso. “Ve ne sarò per sempre grata.” E uscì in fretta, temendo ci cedere alla commozione.

Lasciando le stanze dell’abate seguì il corridoio che portava all’esterno, nel cimitero dell’abbazia. Nel frattempo era calato il buio, e a malapena si intravedevano le sagome delle tombe sparse nel cimitero. L’aria era gelida, ma a Gunhild non importava. A quell’ora e con quel freddo di sicuro non avrebbe incontrato nessuno e lei aveva bisogno di stare sola.

Vagando a caso tra le tombe arrivò fino ad un’imponente quercia. Vi si appoggiò contro e finalmente pianse. Pianse tutte le lacrime che non aveva pianto in quei lunghi anni, tutte le lacrime che aveva negato a se stessa fin dal giorno in cui aveva promesso a sua nonna che sarebbe stata forte, sei anni prima.

Pianse e pianse, e sembrava che quel torrente di lacrime non dovesse finire più. I singhiozzi le squassavano il petto e a malapena si accorse che qualcuno le si era avvicinato, posandole una mano sulla spalla.

Gunhild si voltò lentamente, ancora in lacrime. Riconobbe suo cognato Alain, ma non ne fu infastidita o arrabbiata come sarebbe stata in un altro momento.

In quel momento era davvero vulnerabile e si gettò tra le braccia del cognato, nascondendo il viso contro la sua spalla. Lui sembrò preso in contropiede, ma, dopo qualche momento di esitazione, la strinse a sé e lasciò che si sfogasse. Cominciò ad accarezzarle i capelli, sorprendendosi suo malgrado per quel gesto. Non era un uomo che amava le dimostrazioni fisiche, non gli piaceva trovarsi in situazioni imbarazzanti come quella. Ma in quel momento gli venne spontaneo stringerla a sé, lenire il suo dolore.

Ci volle un tempo che parve loro infinito perché Gunhild si calmasse, i suoi singhiozzi si acquietassero, e lei ritornasse padrona di se stessa.

“Grazie”, mormorò Gunhild imbarazzata mentre, staccandosi da Alain, si asciugava gli occhi blu arrossati dal pianto.

Alain fece un cenno con il capo, incapace di trovare le parole adatte.

“Perdonatemi”, aggiunse Gunhild, e allo sguardo interrogativo di Alain indicò il mantello del normanno. “Ho bagnato il vostro bel mantello.”

“Non preoccupatevi di questo. State meglio ora?”

“Sì, vi ringrazio”, rispose lei, voltandosi per allontanarsi.

Alain le mise una mano sulla spalla e la trattenne.

“Aspettate. Vorrei dirvi una cosa”, sembrò esitare. “Non ho approvato e non approverò mai ciò che mio fratello vi ha fatto. Vi prego di credere che noi normanni non siamo tutti uguali, anche se ai vostri occhi forse è così.”

“Non lo è”, dovette ammettere Gunhild a malincuore. “Voi siete una brava persona, Alain.”

“Volete dirmi allora quale nefasta notizia avete ricevuto il giorno della nostra partenza?”

Gunhild ebbe un attimo di esitazione, poi si decise a parlare.

“Mia sorella mi ha comunicato che nostra nonna è spirata. So che può sembrare una reazione esagerata da parte mia, ma mia nonna è stata come una madre per me, e se sono ciò che sono adesso, lo devo in gran parte a lei. Poco fa sono andata dall’abate per comprare delle messe per la sua anima.”

“E per quella di vostro padre, immagino…”

Gunhild sgranò gli occhi, ma prima che potesse parlare, Alain continuò. “Non ho approvato neppure quello che Guglielmo ha fatto a vostro padre, se volete saperlo… anche se affermare una cosa del genere in pubblico equivarrebbe ad un alto tradimento.”

“Io… vi ringrazio...”, balbettò Gunhild, presa in contropiede.

“Volevo dirvi, se questo può alleggerirvi di un peso, che vostro padre ha ricevuto una degna sepoltura, anche se è stata tenuta segreta per ovvie ragioni.”

“Dove? Chi ha avuto tanta pietà cristiana da sfidare l’ira di Guglielmo?”, chiese Gunhild con voce rotta dall'emozione.

“Quando giunse da Bosham una delegazione di monaci dell’abbazia di Selsey, io e altri nobili che non approvavano il trattamento riservato al corpo di un re consacrato, fornimmo loro aiuto per ritrovare il defunto re e trasportarlo segretamente a Bosham. Ora riposa nell’abbazia di Selsey.”

Gunhild sentì un nodo in gola: Bosham era il luogo dove, quarantanove anni prima, suo padre era venuto al mondo.

“Vi ringrazio”, ripeté Gunhild con un filo di voce, gli occhi lucidi, tendendo la mano inguantata ad Alain, che la strinse nella sua. Alain si stava fidando completamente di lei. Aveva messo la propria vita nelle sue mani, rivelandole quel segreto, e Gunhild ne fu veramente commossa.

Non avrebbe saputo dire quanto tempo trascorsero in quel modo quando infine chiamò a raccolta tutta la propria forza di volontà per costringersi a lasciare andare la mano di Alain, sebbene una parte di lei non avrebbe voluto rinunciare a quel conforto. Con ancora le lacrime agli occhi si voltò e si allontanò nell'oscurità, lasciando il normanno sotto la quercia ad osservarla andare via.

 

Tre giorni di viaggio più tardi la Contessa di Richmond e la sua scorta fecero tappa al priorato di Alkborough, proprio al confine tra Mercia e Northumbria. Nonostante il freddo a terra non c’era neve, chiaro segno della vicinanza del mare.

Da lì il viaggio proseguì senza più intoppi fino a York. Gunhild rincontrò suo marito dopo mesi di lontananza. Alain la accolse con tutti gli onori dovuti ad una moglie. Si vedeva che era di buonumore perché la costruzione dei suoi castelli in Northumbria procedeva a gonfie vele; soprattutto il suo fiore all’occhiello: Richmond Castle. Entro un mese o poco più avrebbero potuto trasferirvisi.

Gunhild prese alloggio presso la casa di città di Alain con le sue dame e la sua servitù, e da lì poté solo attendere mentre suo marito e suo cognato viaggiavano per la regione per supervisionare le costruzioni.

Dopo le prime settimane della vita di città, Gunhild cominciò a stancarsi di rimanere a York.

La casa dei conti di Richmond, che Alain aveva acquistato da un ricco membro della gilda mercantile cittadina, era un grande e lussuoso edificio in pietra, collocato in pieno centro, sulle sponde del fiume Ouse.

In previsione dell'arrivo della sua sposa, Alain aveva acquistato alcuni mobili e tappezzerie nuove, sebbene la casa fosse stata arredata con tale buongusto da richiedere davvero minimi cambiamenti, dettati forse più dal gusto personale del normanno che da vera necessità.

Se sperava di vedere una scintilla negli occhi di Gunhild al suo arrivo nella casa, Alain fu deluso. A volte dimenticava che sua moglie aveva vissuto nello splendore dei castelli paterni, nonché al palazzo di Westminster, quando Harold era re.

Una volta partito il marito, Gunhild si era ritrovata a doversi adattare alla vita di quella città tutta nuova per lei. Insieme a Bridgit e a Maud trascorse quelle prime settimane visitando la città e ricevendo due mercanti, dai quali acquistò dell'occorrente alcune stoffe per degli abiti nuovi, tra cui un broccato color porpora per fare una nuova tunica per Alain, anche se Gunhild dubitava di avere abbastanza risolutezza da cucirgliela. Non c'era molto altro da fare a York. Gunhild avrebbe di gran lunga preferito sprofondare nella lettura, ma aveva riletto ormai decine di volte i pochi volumi di vite di santi e due libri di preghiere, tutti squisitamente illustrati, che erano appartenuti a sua madre e che Alain le aveva fatto avere.

In marzo giunse una lettera di Alain che la informava dell'imminente arrivo di sua sorella minore Agnes e di suo marito Enisant Musard. Il marito le dava istruzioni di accoglierli in casa per tutto il tempo necessario.

Di lì a una settimana i due normanni si presentarono al suo uscio con armi e bagagli, e un seguito di quattro servitori. Gunhild scese ad accoglierli nella sala principale non appena le annunciarono l'arrivo dei cognati.

I due coniugi se ne stavano al centro della sala, guardandosi attorno con aria altezzosa. Erano circondati dai bauli e dai servi che, timorosi, stavano un passo indietro ai loro padroni.

Gunhild, seguita da Bridgit e Maud, si diresse verso di loro e tese la mano a Agnes. Sua cognata era una cosina arrogante, dall'aspetto insignificante; alta una spanna meno di Gunhild, la guardava però dall'alto in basso.

“Cognata...” disse con fare sprezzante. “E dunque siete voi la sassone che ha sposato mio fratello...”

Da come sottolineò la parola “sassone” era chiaro che non aveva una grande opinione della sua gente.

“Sono io” confermò Gunhild senza lasciarsi intimidire, guardandola dritta negli occhi. “Avete gradito il viaggio, cara cognata?”

“Bah.... è stato lungo e impervio, come tutto in questo paese. Freddo e pioggia ad ogni passo... strade fangose che hanno rischiato di far impantanare i nostri cavalli. Non capisco come facciate voialtri a viverci!”

Se da una parte Gunhild l'avrebbe volentieri presa a schiaffi, dall'altra non poté fare a meno di notare il suo coraggio. Agnes aveva la sua età, era una sposina fresca, era alta la metà di lei e aveva l'avvenenza di una bestia da fattoria, eppure non aveva il minimo timore di rivolgersi alla donna che la sovrastava di tutta la testa, alla figlia di un re. Suo marito se ne stava silenzioso al suo fianco, ma lei parlava anche troppo.

“Lo so, l'Inghilterra fa spesso questo effetto agli stranieri” ribatté Gunhild, guadagnandosi un'occhiata ammirata da Bridgit, che stava diventando rossa dalla stizza alle parole della normanna, e una di astio da sua cognata, che non mancò di cogliere la frecciatina.

Prima che la moglie potesse aprir bocca si fece avanti Enisant, scansando la consorte con malagrazia e prendendo la mano di Gunhild. Si chino e gliela baciò, dicendo: “E' un piacere potervi finalmente conoscere Lady Gunhild. Abbiamo sentito tanto parlare di voi e di vostro padre.”

Gunhild accennò un inchino in risposta, stupita quanto Bridgit e Maud accanto a lei.

“Vi ringrazio, cognato” rispose esitante. “Lasciate che un servo vi mostri le vostre stanze. Sarete stanchi per il lungo viaggio.”

Enisant le baciò di nuovo la mano prima di seguire il servo che stava portando via i bagagli, e quando si rialzò nessuna delle tre sassoni avrebbe potuto fraintendere l'occhiata di ammirazione con cui il normanno studiò Gunhild, soffermandosi sulla sua figura un momento di troppo.

“Marito mio, vogliamo andare?” lo tirò per la manica Agnes, con voce acuta.

“Eh? Ah, sì moglie.... fatemi strada” rispose lui senza degnare l'insipida consorte di un'occhiata, lo sguardo ancora su Gunhild.

Anche Agnes se ne accorse, e le guance paffute le si colorarono dalla rabbia. Ma uscì dalla sala a testa alta, al braccio di un marito che era così chiaramente preso da un'altra, con tutta la dignità che riuscì a racimolare.

Non appena furono scomparsi alla vista, Gunhild guardò le sue dame che erano sul punto di scoppiare a ridere e tutte e tre si lasciarono andare a un'esplosione di ilarità a malapena contenuta.

“E' incredibile come ha osato parlarvi quella piccola normanna intrigante!” esclamò Bridgit, quando il riso si fu placato e riuscì di nuovo a parlare.

“Sapete cos'è che mi consola? Che se il mio matrimonio non mi porterà molta felicità, altrettanto farà il suo!” esclamò Gunhild.

E tutte e tre si avviarono fuori dal salone, per proseguire le attività pomeridiane come se nulla fosse arrivato a disturbare la loro routine.




Angolo Autrice: Ciao a tutti! Come vedete sono riuscita a postare un altro capitolo prima della mia partenza e spero vi piaccia^^ Come accennavo già sarò fuori Italia, quindi se non posterò per i prossimi dieci giorni è per questo, non preoccupatevi che non abbandonerò né voi né la nostra Gunhild :D Come al solito grazie a tutti voi che leggete e recensite... significa moltissimo per me! ;)
A presto,
E.

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


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Marzo 1071

York, Northumbria, Inghilterra

 

La tempesta infuriava quella notte a York, scuotendo i vetri delle case signorili e ingrossando il fiume Ouse. Gunhild, sprofondata tra le coltri del suo grande letto a baldacchino, dormiva un sonno agitato, spesso costellato da incubi e interrotto dal rombo dei tuoni e dallo sferzare della pioggia contro la sua finestra. Ma furono dei sonori colpi che la strapparono del tutto al sonno. Colpi ripetuti che sembravano provenire dal piano inferiore. Gunhild batté le palpebre mettendosi a sedere sul letto. Pian piano che il sonno si dissipava, si rese conto che i colpi che sentiva erano colpi di qualcuno che bussava al portone principale. E quel qualcuno doveva trovarsi proprio in quel momento sotto la pioggia gelida.

Gunhild saltò giù dal letto, con la chioma fluente sciolta sulle spalle, e si mise in fretta e furia la vestaglia. Quando uscì dalla sua camera trovò che dei servi si erano già svegliati e, muniti di candele, stavano scendendo a vedere chi fosse.

“Milady... cosa dobbiamo fare? Chi sarà?” le chiese Arleigh quando uscì sul pianerottolo.

“Andiamo a vedere chi è. Chiunque sia non possiamo lasciarlo sotto la pioggia!”

I pesanti colpi avevano svegliato tutta la casa ed anche Biridgit e Maud, e Agnes ed Enisant, erano scesi dabbasso, tutti in veste da notte. Era davvero una buffa riunione quell'assemblaggio di volti sonnolenti e chiome scarmigliate. I servitori aprirono la porta e tre uomini incappucciati e fradici di pioggia si precipitarono dentro.

Il primo di loro quasi finì addosso a Gunhild nella foga di trovare riparo dalla pioggia. L'uomo subito dietro di lui rise, afferrandolo per un braccio prima che potesse caderle addosso.

“Perdonate l'orario, cognata” esclamò quest'ultimo, sollevando il cappuccio e mostrando un volto incorniciato da una scura chioma inzuppata di pioggia. “Se il tempo fosse stato più clemente avremmo trascorso la notte all'aperto pur di non disturbarvi a quest'ora.”

Gunhild rimase sorpresa nel riconoscere il volto ormai familiare di suo cognato Alain.

“Avreste fatto bene a presentarvi con qualsiasi tempo” lo rimproverò sorridendo. “Presto accendete il fuoco, preparate un bagno caldo per i nostri ospiti... e dei vestiti asciutti.”

Arleigh e gli altri servitori corsero ad eseguire i compiti.

In quel momento le due dame di Gunhild sembrarono ricordarsi di essere vestite in modo inappropriato davanti a degli uomini e fecero un inchino ad Alain, stringendosi nelle vestaglie. Alain si chinò a baciare la mano della cognata, poi fece lo stesso con Agnes che si era avvicinata per salutarlo, irritata che il fratello non l'avesse salutata per prima, riservando tanta affabilità per la sassone.

“Cara sorella” disse Alain baciandole quindi anche le guance. Salutò anche Enisant con un cenno del capo, ricambiato.

“Alain! Sembrano secoli che non ti vedo” esclamò, prendendolo possessivamente sottobraccio e trascinandolo verso una delle poltrone davanti al fuoco che i servitori avevano ravvivato, e lasciando Gunhild con un palmo di naso. Un servo prese i mantelli e li portò via. Fu allora che uno degli uomini di Alain rivelò l'involto che aveva fino a quel momento custodito sotto il mantello. Alain fece cenno all'uomo di portarglielo, poi lo porse a Gunhild che aveva raggiunto i due fratelli davanti al fuoco.

“Un dono per voi” disse Alain, mentre Gunhild prendeva l'involto e Agnes diventava verde di invidia e di stizza.

Quando lo ebbe tra le mani, l'involto si mosse e Gunhild quasi fece un salto dallo spavento. Poi un musino spuntò dalla stoffa e una piccola lingua rosa leccò la mano della ragazza.

Con pochi gesti Gunhild svolse la stoffa e si ritrovò tra le mani un cucciolo. Non poteva avere più di poche settimane ed aveva ancora gli occhi chiusi.

“E' un cucciolo di levriero grigio. Spero vi faccia piacere; tengono molta compagnia e sono affettuosi” spiegò Alain ad una sbalordita Gunhild.

Quando alzò lo sguardo su di lui, Alain si accorse che le brillavano gli occhi, per la prima volta da quando la conosceva.

“Lo so, è poca cosa rispetto ai preziosi gioielli che può donarvi vostro marito” aggiunse.

“Vi ringrazio. È il dono più bello che qualcuno mi abbia mai fatto” mormorò Gunhild con sincera gratitudine. Si mise quindi a sedere in una poltrona libera con il cucciolo in braccio. Non si accorse che Agnes, seduta in un'altra poltrona tra lei e Alain, la guardava come se volesse incenerirla. Gunhild cominciò ad accarezzare assorta la testa del cagnolino, che se ne stava beato a farsi coccolare.

“Dovete perdonarmi, sorella, se non ho portato un dono anche a voi. Ma non sapevo che sareste stata già qui ad aspettarmi.”

“Non importa fratello” rispose la ragazza, di nuovo tutta miele. “Che novità ci portate da nostro fratello Alain?”

“Buone. La costruzione di Richmond Castle è completata, e ho l'ordine di accompagnare Lady Gunhild da suo marito alla loro nuova residenza. Anche voi e vostro marito mi accompagnerete...”

“Quali incarichi ha in mente per me il Conte?” intervenne Enisant che era rimasto zitto fino a quel momento.

“La Signoria di Cheveley che mio fratello vi ha generosamente concesso non vi basta più dunque, cognato? Siete già stanco del Grantbridgeshire?” disse Alain in tono tagliente.

Enisant s'imporporò. “No, certo.... non intendevo questo. È.... è solo che se il conte mi ha fatto venire qui un motivo ci sarà....”

Lo sguardo duro di Alain si trasformò per un momento in un sorriso rivolto a Gunhild, che solo lei riuscì a cogliere. Sorrise in risposta, divertita: Alain si stava solo prendendo gioco del pavido e sciocco cognato.

“Mi è stato riferito che vuole rendervi primo conestabile di Richmond Castle” disse con aria indifferente. “Ma naturalmente sono solo voci. Dovrete parlare con mio fratello personalmente.”

Enisant strabuzzò gli occhi per la contentezza, e perfino quei pochi capelli unticci che aveva sul capo sembrarono drizzarsi.

Alain e Enisant conversarono qualche altro minuto di questione pratiche, di titoli e terre. Dopodiché arrivò un servitore portando il pasto di Alain. Un vassoio con pane, carne, formaggio e del vino. Alain fece capire a suo cognato che il discorso era chiuso e che ora voleva mangiare in pace. Con discrezione Enisant augurò loro la buonanotte e se ne tornò in camera, trascinandosi dietro una riluttante Agnes. Anche Maud, Bridgit e gli uomini di Alain si erano ritirati, così seduti davanti al fuoco rimasero solo Alain e Gunhild.

Per alcuni minuti non scambiarono una parola: Alain si limitò a mangiare, Gunhild ad osservare i guizzi del fuoco che si proiettavano su di loro, sui loro volti, sulle pareti circostanti e sul cucciolo addormentato. Gunhild si strinse nella vestaglia e sprofondò ancor più nella comodità della poltrona di velluto. Rimase semplicemente a godersi quel momento, così pieno di calore, in cui si sentiva a suo agio come non era stata da anni.

“Vi ringrazio per il vostro dono. Questo cuccioletto è un amore.”

“Ora vi sembra solo un cucciolo, ma dategli tempo un mese e diventerà più alto di voi” sorrise Alain.

“Almeno non dovrò temere per la mia incolumità nemmeno quando sarò sola. Ci penserà lui a proteggermi.”

“Sicuro: quando un levriero si affeziona non c'è nulla che lo smuova dalla sua lealtà. Spero non lo troviate sconveniente. Non è propriamente un cane da signora....”

“Non ho mai potuto soffrire i cagnolini da signora, non sono più utili di un soprammobile!” confessò Gunhild.

Alain sorrise. “Avete già pensato a come chiamarlo?”

“Credo di sì. Sapete, mio padre aveva un cane.... in realtà ne aveva moltissimi, ma questo era il suo preferito. Ed anche il mio. Sono cresciuta con lui, anche se mia madre avrebbe voluto abituarmi ai suoi cagnolini bianchi. Non mi lasciava mai, se non quando mio padre lo chiamava. Più di me, amava solo lui. Si chiamava Feran.”

“Bel nome” approvò il normanno. “Mi sembra appropriato” E si sporse per fare una carezza sulla testa del cagnolino. Quando sollevò il capo Gunhild incontrò i suoi profondi occhi blu, che guizzarono pieni di calore alla luce del fuoco. In quel momento la giovane sassone si sentì legata davvero a lui, come mai le era accaduto con un uomo.

“Ma ditemi di voi ora” disse per scrollarsi di dosso quella sensazione. “Mio marito vi ha donato le terre e i titoli che meritate? Come avete trascorso quest'ultimo mese?”

“Continuamente in viaggio con vostro marito, da un castello all'altro, senza mai un attimo di sosta. E sì, mi ha promesso signorie e terre che mi sistemeranno per il resto della vita.”

“Buon per voi allora! Anche se, da come vi sfrutta, sembra che più che un fratello vi consideri il suo galoppino...”

“Purtroppo...” commentò Alain con un sorriso mesto, portandosi alle labbra la coppa di vino. “Prerogativa dei fratelli maggiore. E' lui il più grande e deve costantemente sottolinearlo.”

“Quando ordina la nostra partenza?”

“Non appena avrete impacchettato tutte le vostre cose, naturalmente. A mio fratello non piace aspettare.”

In quel momento arrivò Arleigh, e si inchinò cerimoniosamente.

“Milady il bagno per Lord Alain è pronto...”

Alain fece un cenno di saluto a Gunhild, alzandosi. Poi seguì Arleigh al piano di sopra.

 



Angolo Autrice: Rieccomi di nuovo a voi con il nuovo capitolo! Capitolo di passaggio, ma che spero vi sia piaciuto.... grazie a tutti voi che leggete e recensite!
E.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


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Giugno 1071

Richmond Castle, Northumbria, Inghilterra

 

I momenti che Gunhild amava di più erano le passeggiate a cavallo intorno al castello di Richmond nel sole pomeridiano. Suo marito le aveva regalato un nuovo cavallo, un magnifico baio, ed anche un nuovo falchetto. E con lei c'erano sempre Maud e Bridgit, con cui condivideva l'amore per cavalli e falchi; e quando poteva, anche Alain il Nero si univa a loro. Ma immancabile compagno di ogni sua uscita era Feran, che ormai le arrivava al fianco, seppure nell'animo ancora un cucciolo dal lucido pelo color crema. E come un cucciolo adorava correre al fianco del cavallo, sempre al seguito della sua padrona, talmente veloce, grazie alle lunghe zampe patrimonio della sua razza, da superare a volte lo stesso destriero. Durante queste passeggiate Gunhild aveva ripreso ad esercitarsi al tiro con l'arco, scoprendo di aver mantenuto immutata la propria abilità. Mentre Bridgit e Maud preferivano la caccia con il falco, lei ed Alain usavano spesso l'arco, riuscendo spesso a riempire il loro carniere di caccia più di quanto riuscissero a fare le due sassoni.

“Davvero sapete usare quest'arma cognata?” aveva detto Alain stupito, la prima volta che Gunhild aveva tirato fuori un arco preso dall'armeria di Richmond.

Gunhild aveva annuito, con un sorriso emozionato. Le tremavano quasi le mani nel sentire di nuovo il familiare legno levigato sotto le dita, nel pizzicare la corda ben tesa, nell'incoccare la freccia piumata.

Alain sembrava scettico. “Bene, dimostratelo allora. Vi sfido.”

Per un attimo Gunhild si sentì insicura. Erano passati tanti anni: sarebbe stata ancora capace di usare l'arco come prima?

Poi ripensò a sua nonna, alla fiducia che aveva avuto in lei, ed acquistò immediatamente sicurezza.

“Vedete quel tronco laggiù?” disse ad Alain, indicando un albero tagliato pochi piedi sopra le radici, abbastanza lontano da loro. Ad un cenno affermativo del normanno Gunhild incoccò la freccia, tese la corda finché le due dita che tenevano ferma l'estremità piumata del dardo non le sfiorarono lo zigomo. In quel momento ogni rumore intorno a lei cessò; la foresta si ammantò di un silenzio innaturale che solo lei poteva udire: non il canto degli uccelli, non lo stormire delle foglie né l'acqua del torrente...

Gunhild lasciò andare la freccia che, sibilando nell'aria, andò a piantarsi risoluta nel centro del tronco. Alain ne era rimasto impressionato e, dopo che quel giorno Gunhild ebbe catturato più prede di tutti, non nutrì più alcun dubbio sulla sua abilità.

Il castello di Richmond che suo marito Alain aveva fatto costruire era immenso: alto poco meno di cento piedi, si estendeva su una superficie molto vasta. Era costituito da quattro parti principali: una cinta principale triangolare, una cinta esterna ad est, un torrione all'angolo nord della cinta principale, circondato a sua volta da una cinta muraria più piccola. Dalla parte dell'entrata principale il castello era costruito in pianura, su un terreno che in primavera si copriva di miriadi di fili d'erba color verde brillante, tanto luminosi e compatti da sembrare un prato di smeraldi. Dalla parte opposta però si affacciava a picco su uno strapiombo, sul cui fondo stava il letto del fiume Swale. La vista da quella parte del castello era mozzafiato, e Gunhild aveva scelto i propri appartamenti in modo che affacciassero su quel lato. Da quando era arrivata la primavera, che ora si era tramutata in estate, chiedeva ad Arleigh di aprirle le finestre tutte le mattine molto presto. Le piaceva, ancora in vestaglia, affacciarsi sul fiume e vederlo scorrere impetuoso nel suo letto di levigati ciottoli bianchi, sentire la brezza che soffiava calda da est sul viso e osservare il cielo quando era terso.

Richmond era talmente grande che non era costretta a vivere gomito a gomito con la cognata Agnes che, per fortuna, dopo circa un mese di permanenza si era trasferita con il marito in un altro castello di cui lui era conestabile. Anche l'altro fratello di Alain, l'uomo di chiesa Robert, era partito con loro, perché il Conte aveva fatto in modo che ottenesse il priorato di una piccola comunità di monaci. Robert aveva brontolato, perché a suo dire non era una posizione di sufficiente importanza per il fratello del Conte di Richmond. Gunhild si chiedeva se al cognato sarebbe sembrata sufficiente una volta ricordatogli da dove veniva, e il fatto che fino a pochi mesi prima non era che un semplice monaco, anche se a sua volta figlio di un conte. Alain, paziente come sempre, lo aveva rabbonito confidandogli che presto avrebbe cominciato la costruzione di una nuova abbazia, un'abbazia molto grande, e che allora lui ne sarebbe stato l'abate. All'avido e grassoccio Robert, così diverso dai suoi due aitanti e attivi fratelli maggiori, erano brillati gli occhi dalla contentezza; la prospettiva di raggiungere la sua più grande ambizione lo aveva ringalluzzito, ed era partito per il suo piccolo priorato senza protestare oltre, anzi, con un sorriso sulle labbra. In quell'occasione Gunhild aveva dovuto riconoscere la grande pazienza del marito nell'accontentare tutti. Era anche politica ovviamente; nonostante questo però Alain si era sempre dimostrato generoso con tutti i suoi congiunti.

Ora che i cognati - l'arrogante Agnes, il viscido Enisant e l'avido Robert - avevano lasciato Richmond, il castello sembrava davvero il posto ideale in cui vivere. York le era sembrata un'angusta prigione a confronto. In quei due mesi passati in città le era sembrato di soffocare, mentre ora si sentiva come se fosse libera, anche se di fatto non lo era. La sua condizione di prigioniera, seppure gli altri l'avrebbero chiamato matrimonio, le veniva ricordato tutti i giorni dal piccolo cerchio d'oro che portava all'anulare sinistro, il simbolo della sua schiavitù perpetua.

Ed ora, in quel caldo giugno, anche un altra scoperta era venuta a rammentarle questa sua infelice condizione. Aveva saltato un ciclo a maggio, e ora di nuovo a giugno. Le si era ingrossato il seno e aveva cominciato a soffrire di nausee mattutine. Dopo che una mattina era svenuta il Conte Alain aveva fatto chiamare una levatrice, che aveva diagnosticato lo stato interessante della Contessa e aggiunto, con allegria, che la nascita era da aspettarsi a dicembre: sarebbe stato un bambino di Natale. Suo marito era diventato pazzo di gioia a quella notizia, e l'aveva perfino baciata e abbracciata con trasporto. Gunhild invece aveva pianto per notti intere, per giorni non aveva voluto uscire dalla propria stanza. Le sembrava uno scherzo crudele che il suo corpo potesse tradirla in questo modo, che potesse portare nel mondo la progenie di un normanno. Lei e Alain si erano ricongiunti tre mesi prima, e in meno di un mese era rimasta incinta. Si era disperata, aveva pregato, si era rivolta al Signore ed anche a sua nonna, come se da lassù potesse aiutarla.

Alla fine si era rassegnata alla sua condizione, e aveva dovuto promettere al marito che avrebbe diradato le uscite cavallo, mantenendo comunque un'andatura molto moderata.

In segreto Gunhild si era perfino augurata di arrivare ad abortire, pentendosene subito dopo. Aveva paura di non riuscire ad amare la creatura che portava in grembo, sebbene una parte di lei sembrasse amarla già.

Da quando la sua gravidanza era stata resa pubblica, Gunhild aveva notato che Alain il Nero trascorreva sempre meno tempo al castello. Lo vedeva di rado, e sembrava che come una volta era stato gentile e premuroso con lei, ora la evitasse. Era pur vero che era spesso costretto a stare lontano per occuparsi delle signorie che suo fratello gli aveva assegnato: Middleham, Bedale e Ravensworth.

In agosto ormai la pancia di Gunhild cominciava decisamente a vedersi, e spuntava prepotente e arrotondata da sotto le vesti.

E fu un giorno di agosto quello in cui suo cognato Alain venne a dirle addio. Anche se quando le chiese di fare un giro dei bastioni con lui, Gunhild ancora non lo sapeva.

“La vista è stupenda da quassù, vero?” commentò allegramente Gunhild, con il velo scosso dalla brezza che soffiava a quell'altezza.

Alain non rispose, sembrava pensieroso, distante. Di tanto in tanto l'occhio gli cadeva sul ventre pronunciato di Gunhild, e quando questo accadeva sembrava incupirsi.

“Io parto” disse improvvisamente, voltandosi verso di lei e guardandola negli occhi. Il vento scuoteva anche la sua chioma corvina.

All'inizio Gunhild non comprese. “Mi sembra ovvio che le vostre terre vi tengano molto impegnato, ma comunque ci vedremo spesso.”

“Non credo avrò modo di tornare.”

“Ma i vostri castelli sono così vicini a Richmond....”

“Gunhild, ascoltatemi bene: non tornerò. Né domani, né fra una settimana, né fra un anno” disse prendendola per le spalle e costringendola a guardarlo negli occhi. “Questo deve essere chiaro.”

Gunhild fu presa in contropiede. “Ma... ma perché? Vi prego, lasciatemi... mi fate male!”

Alain la lasciò andare di botto, come le sue parole equivalessero a uno schiaffo.

“Perdonatemi” disse, in tono più dolce. “Perdonatemi, ma non posso. Non ce la faccio a restare qui un giorno di più. Non ce la faccio a vedervi tutti i giorni a fianco di mio fratello. A guardare la vostra pancia che cresce, i figli che gli darete... Mi riterrete un codardo, e forse avrete anche ragione, ma non ce la faccio.”

“Non capisco” mormorò Gunhild, scuotendo il capo. “Perche?”

“Perché vi amo. Ti amo, non l'hai ancora capito Gunhild?”

“No... no. Cosa state dicendo?”

“E' così. E sono sicuro che anche tu provi qualcosa per me. Vuoi forse farmi credere che non è vero?”

Per qualche secondo Gunhild non riuscì a parlare, limitandosi a scuotere la testa, come per negare tutto ciò che lui le aveva appena rivelato.

“Io non... non provo nulla per voi, vi sbagliate Alain. Io non provo... non posso provare nulla per voi. L'amore è una debolezza, e io non voglio essere debole. Non voglio essere come mia madre, debole e perennemente dipendente da un uomo. Istupidita da questa ossessione che chiamano amore.”

“Ma per l'amor del Cielo, apri gli occhi Gunhild!” sbottò Alain “Tua madre non è rimasta con tuo padre perché era debole! Non è rimasta con lui perché solo le donne deboli rimangono accanto al loro uomo! Lo amava, non lo metto in dubbio... ma è stata anche una scelta assennata quella di essere la compagna del Conte di Wessex per vent'anni. Pensavi preferisse vivere nella modesta tenuta di campagna di tuo nonno, gomito a gomito con le capre e i porci oppure essere ricoperta di sete e gioielli? Perciò non è debolezza amarmi, fattene una ragione!”

Gunhild lo guardò con occhi vacui, come se non lo riconoscesse.

“Mi dispiace” disse infine, con voce spenta. “Io non ti amo... non posso....”

Quindi si voltò, e si allontanò senza guardarsi indietro.

 

Più tardi però non resistette alla tentazione di salire di nuovo sui bastioni, quando le sue dame le riferirono che Alain stava partendo. Dall'alto lo osservò allontanarsi a cavallo, seguito dai suoi uomini. Anche a quella distanza lo riconobbe a colpo d'occhio. La casacca di pelle nera che usava per cavalcare, i capelli pure neri, il cavallo bianco. Accanto a lui uno dei suoi uomini portava il suo stendardo, che il vento garriva con forza.

Se pure non provava per lui l'odio che provava per suo marito, se pure provava dell'affetto per lui, era sicura di ciò che non provava. E non lo amava, di questo era certa.

Ma perché allora, nell'osservare la sua figura che si allontanava, gli occhi le si riempivano di lacrime?

 

Nei due mesi seguenti Gunhild cercò di non pensare affatto ad Alain. Semplicemente lo accantonava in un angolo della sua mente, sicura che, vicino com'era a Richmond, presto o tardi si sarebbe fatto vivo. Sicuramente ciò che le aveva detto quel giorno sui bastioni era stata un'esagerazione, una semplice messa in scena un po' troppo calcata. Ma anche il mese di ottobre passò, lasciando il posto a novembre e Alain non tornò più a Richmond.

Quella sera Gunhild decise di indagare con suo marito e lo raggiunse nel suo studio privato, sempre seguita dal fedele Feran, che le trotterellava al fianco lungo i corridoi illuminati dalla luce delle torce. Erano passate le dieci, e il Conte aveva già congedato il suo segretario. Così Gunhild lo trovò tutto solo alla sua scrivania, intento a firmare dei documenti con l'elegante penna d'oca intarsiata di pietre preziose. Portava una coroncina d'oro intorno alla fronte e sulle spalle aveva un pesante mantello. Alzò appena lo sguardo quando Gunhild entrò, con passo misurato perché il ventre era ormai pesante. Le sere cominciavano a rinfrescare e anche lei indossava il mantello di pelliccia sopra un abito di velluto rosso a vita alta che metteva in risalto il pancione.

“Moglie” la salutò Alain, senza staccare gli occhi dalla pergamena. “Cosa posso fare per voi? Vi sentite bene?”

Gunhild si portò la mano al ventre in un riflesso istintivo, mentre si sedeva su uno scranno libero davanti alla scrivania. Feran corse ad annusare il muso del grosso mastino di Alain, che se ne stava accucciato sul tappeto, invitandolo a giocare con lui, per nulla spaventato dalla mole dell'altro cane che strideva con la sua magrezza e agilità di levriero. Quando però vide che, nonostante i suoi tentativi, il mastino non lo degnava di uno sguardo, fece un paio di giri su se stesso, poi si sdraiò rassegnato ai piedi della sua padrona con il muso poggiato sulla zampa.

“Sì, sto bene, non preoccupatevi. Cosa state facendo?”

“Non dovreste essere a letto? Scommetto che le vostre dame sono andate a dormire da un pezzo.”

Gunhild si guardò i piedi, avvolti da un paio di pianelle di seta. “Lo so” rispose distrattamente. “Ma ultimamente fatico a prendere sonno. Il bambino scalcia in continuazione.”

“Sarà focoso come suo padre” commentò Alain divertito. “In ogni caso vorrà dire che resteremo svegli in due: ho ancora tutti questi atti da controllare e firmare.”

“Di cosa si tratta?”

“Ho parecchie scartoffie legate alla costruzione della città...”

Alain aveva fondato la nuova città di Richmond, a pochi chilometri dal castello, che era in costante espansione e prometteva di divenire uno dei più grandi centri del nord dell'Inghilterra.

“Sto anche riassegnando le signorie che mio fratello Alain ha lasciato

vacanti.”

Gunhild trasalì visibilmente. Per fortuna Alain, ancora con gli occhi sul foglio, non se ne accorse.

“Che vuol dire che le ha lasciate vacanti? Non le aveva accettate?”

“Quel testone le ha rifiutate. Dice che vuole essere indipendente da me, costruirsi la sua fortuna con le sue mani...”

“E dove è andato?” chiese Gunhild. Aveva i palmi delle mani sudati e la bocca asciutta. Temo la risposta che sta per darmi, pensò lucidamente.

“Non so, forse a sud. Per quanto ne so potrebbe essere addirittura tornato in Normandia.”

“E... a chi assegnerete le signorie?” Gunhild si passò la lingua sulle labbra per cercare di inumidirle.

“Voglio che restino in famiglia. Le assegnerò ai figli bastardi di mio padre. Sono gli unici parenti maschi disponibili al momento, e il marito di Agnes ha già ottenuto anche troppo per lo smidollato che è: è conestabile di Richmond e di altri venti castelli nel territorio. Senza contare che gli ho lasciato anche la signoria di Cheveley. No, sarebbe un errore concentrare troppo potere nelle mani di un uomo solo. Assegnerò la signoria di Middleham a Ribald, quella di Ravensworth a Bardolf e Bedale andrà a Bodin. Naturalmente lascerò anche alcuni territori in mano alla vecchia nobiltà sassone, come ho fatto nell'East Anglia. Non voglio che i sassoni si risentano troppo... voglio pace nelle mie terre.”

Gunhild non riuscì più ad aprire bocca e Alain fraintese il suo silenzio. Feran, percependo l'umore della sua padrona, le sfiorò la mano con il naso umido.

“Rallegratevi, pensate a tutto ciò che ho conquistato: il patrimonio più grande d'Inghilterra, che un giorno passerà a nostro figlio.”

Gunhild sorrise debolmente. “Volete scusarmi? Ora mi accorgo di essere stanca, in effetti. Credo che mi ritirerò.”

“Buonanotte mia cara” le augurò Alain distrattamente.

Gunhild nemmeno lo sentì. Aveva un unico pensiero fisso in testa, martellante, straziante. La sua mente glielo riproponeva come una funesta litania ad ogni passo. Non lo rivedrò mai più, non lo rivedrò mai più, non lo rivedrò mai più...

 

 

Angolo Autrice: Ed eccomi con il nuovo capitolo! Spero vi piaccia e ringrazio come sempre tutte le mie recensitrici, nuove e veterane.... il vostro supporto significa moltissimo per me!
A presto, E.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


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Gennaio 1072

Richmond Castle, Northumbria, Inghilterra

 

La levatrice si era sbagliata di più di una settimana. Il travaglio di Gunhild iniziò il quinto giorno di gennaio, mentre il castello di Richmond giaceva sommerso dalla neve e il fiume Swale era coperto da una lastra di ghiaccio.

I primi dolori iniziarono nel pomeriggio, per poi farsi più intensi verso sera. Uno stuolo di cameriere e serve facevano avanti e indietro dalle stanze della Contessa con panni puliti, acqua calda ed erbe che la levatrice mandava loro a prendere nelle cucine. L'unica figura immobile in quella baraonda era Arleigh, che si rifiutava di lasciare il fianco della sua padrona, tenendole la mano e asciugandole la fronte quando ne aveva bisogno. Bridgit e Maud, essendo giovani nubili, non potevano assistere al parto ed attendevano nel salotto della Contessa, accanto alla camera da letto in cui il bambino stava per venire al mondo.

Il travaglio andava avanti ormai da ore, ed era notte inoltrata quando Alain si unì a loro in attesa; ansioso di tenere tra le mani il suo primogenito, passeggiava avanti e indietro nervosamente, quasi sordo ai gemiti della moglie che provenivano attutiti dalla stanza accanto. All'alba ancora nulla di significativo era avvenuto, e Bridgit e Maud andarono a riposare qualche ora dopo la notte insonne. Alain fece lo stesso, ordinando ai servi di correre ad avvisarlo non appena il bambino fosse nato. Quando si svegliò, Alain si accorse che era primo pomeriggio.

“Sciocco!” apostrofò arrabbiato il suo servitore personale. “Ti avevo ordinato di svegliarmi appena mio figlio fosse venuto al mondo! Perché non l'hai fatto?”

“Ma Milord” balbettò l'uomo, rosso in viso. “Il bambino non è ancora venuto al mondo.”

Fu in quel momento che Alain realizzò che qualcosa non andava. Era quasi un giorno intero che Gunhild era in travaglio. Infatti non ebbe nemmeno il tempo di rendersi presentabile che la levatrice si recò da lui.

“Devo parlarvi, Milord” disse la donna decisa.

“Parlate, dunque!”la incitò Alain senza mezzi termini.

La levatrice sospirò. “Il travaglio non procede come dovrebbe. È un parto difficile e la Contessa sta soffrendo molto. Temo abbia i fianchi troppo stretti rispetto alla stazza del bambino. Siamo giunti al punto in cui temo per lei e per il nascituro. Se il bambino non verrà al mondo al più presto, ho paura che moriranno entrambi...”

“Mio Dio....” mormorò Alain prendendosi la testa fra le mani.

“A proposito di questo Milord...” disse la levatrice lentamente. “Sono costretta a porvi questa domanda: se si trattasse di scegliere chi salvare, se la madre o il bambino, quale sarebbe il vostro desiderio?”

Alain la guardò un momento, la vista annebbiata. Cercò di pensare razionalmente, di riordinare le idee. Sicuramente gli faceva gola avere un figlio vivo, se era maschio. Ma sull'altro piatto della bilancia stava Gunhild. Doveva ammettere che gli dispiaceva perdere una moglie tanto bella, anche se difficile da domare. E un neonato vivo non era sempre sinonimo di un erede in buona salute: avrebbe potuto nascere vivo, ma comunque morire di qualche malattia infantile. Nel qual caso si sarebbe ritrovato senza moglie e senza erede. Avrebbe potuto facilmente risposarsi certo, ma bisognava considerare che se Gunhild fosse morta, ed anche il bambino che gli aveva dato fosse morto, lui avrebbe perso tutti i diritti sulle sue terre. Se Gunhild fosse vissuta invece lui avrebbe mantenuto quelle notevoli proprietà all'interno del suo dominio e, vista la sua fertilità, era probabile che lei gli avrebbe presto dato un altro figlio.

“Ho preso la mia decisione” annunciò Alain dopo qualche minuto, sforzandosi di mostrarsi calmo e distaccato. “Se si trattasse di scegliere dovrete salvare mia moglie. E dite al mio medico di tenersi pronto a quest'evenienza.”

“Molto bene Milord.”

 

Bridgit e Maud erano di nuovo in attesa fuori della stanza del parto quando videro entrare il medico del Conte. Entrambe rabbrividirono guardandosi: se durante un parto interveniva un medico significava che c'era qualcosa che non andava.

“Mie signore...” le apostrofò distrattamente Alain entrando in quel momento nel salotto.

Le dame risposero con un inchino.

“Ci sono novità?”

“Non ancora Milord” rispose Bridgit. “Il medico è appena entrato da Gunhild.”

Le due ragazze non sapevano cosa stesse accadendo, ma uno sguardo all'espressione tesa e preoccupata di Alain confermò le loro paure.

Bridgit fu stupita dalla reazione del Conte: odiava quell'uomo almeno quanto lo odiava la sua padrona, eppure in quel momento dovette riconoscergli che forse provava dell'affetto per Gunhild, che forse anch'egli possedeva un lato umano.

Trascorsero ancora due ore prima che i gemiti che provenivano dalla stanza del parto divenissero grida soffocate, infine strazianti. Bridgit fu tentata di coprirsi le orecchie con le mani, ed anche l'espressione di Maud sembrava suggerire il medesimo desiderio. Alain era diventato bianco come un cencio, il viso tirato e la fronte imperlata di sudore.

Poi improvvisamente ci fu silenzio. Bridgit sentì un brivido lungo la schiena e strinse istintivamente la mano di Maud. Non si accorse di aver trattenuto il fiato finché non si sentì distintamente il pianto di un neonato, e lasciò la mano dell'amica tirando un sospiro di sollievo.

Il conte Alain si diresse a grandi passi verso la porta e la spalancò.

Si guardò intorno disorientato, chiedendosi se avessero frainteso i suoi ordini, sacrificando Gunhild e salvando il bambino. Ma Gunhild stava nel letto, sorretta da molti cuscini, la camicia da notte di lino bianca scomposta, la lunga treccia arruffata che le scendeva sulla spalla. Era visibilmente stanca e provata, bianca in viso, ma viva.

La levatrice, ai piedi del letto, teneva in braccio il neonato, avvolto nelle fasce.

“Siamo riusciti a salvare entrambi Milord. Ce l'hanno fatta entrambi.” disse la donna con un sorriso debole. Alain tese le braccia per prendere il bambino, e lei glielo porse.

“Mio figlio.... il mio primogenito” mormorò rivolto al visino del figlio.

Le donne riunite attorno al letto della moglie sembravano come impietrite, silenziose; si limitavano a guardarlo. Fu infine Arleigh che, lasciato il fianco della sua padrona, fece un passo verso il Conte.

“Milord...”

“Non è bellissimo, Arleigh?” domandò lui, il volto illuminato dalla contentezza.

“Milord” ripeté Arleigh imperterrita. “Milord... è una bambina.”

 

Ego te baptizo Matilda, in nomine Patri et Fili, et Spiritus Sancti.”

Il prete versò l'acqua sulla testolina di capelli rossi della neonata, che aveva appena quindici giorni.

La bambina era tenuta sul fonte battesimale da Bridgit, che faceva le veci della madrina, la regina Matilda d'Inghilterra. Chiedendo alla sovrana di essere la madrina della sua primogenita, Alain stava facendo ciò che ci si aspettava in questa circostanza. La regina aveva accettato di buon grado, e aveva chiesto di venire rappresentata da una dama durante le cerimonia, essendole impossibile recarsi a nord in così breve tempo.

Gunhild non si era scandalizzata per questa scelta, sapeva che era inevitabile; tuttavia avrebbe preferito scegliere lei il nome di sua figlia. Avrebbe voluto chiamarla Gytha, come sua nonna, ma Alain era stato irremovibile. Niente nomi sassoni: sua figlia avrebbe portato un tradizionale nome normanno e avrebbe così onorato la moglie di re Guglielmo.

Nella cappella di Richmond erano presenti in pochi per quel battesimo in forma privata. C'erano solo Gunhild, Alain, Bridgit, Maud e i funzionari e cavalieri del castello con le loro mogli. La neve e il ghiaccio non avevano permesso ad Agnes ed Enisant di mettersi in viaggio per Richmond, e almeno di questo Gunhild era stata grata.

La Contessa aveva indossato il suo abito più sontuoso, di broccato color panna ricamato con filo d'oro e con la sopravveste bordata di pelliccia. Non c'era stato tempo di ordinarne uno per l'occasione, perché con la gravidanza le sarte non avrebbero potuto prendere le sue abituali misure. Al collo indossava il dono che il marito le aveva fatto in occasione della nascita di Matilda: una collana di perle e zaffiri blu.

Una volta terminata la cerimonia, il gruppo si diresse al piccolo ma raffinato banchetto organizzato per l'occasione.

Matilda, che aveva dormito per gran parte del battesimo, si svegliò e si mise a piangere nel mezzo della festa, e la sua balia la portò via per allattarla.

Gunhild osservò la donna allontanarsi con sua figlia in braccio, e provò una fitta di gelosia al pensiero che un'altra donna si occupasse di lei, l'allattasse e la cambiasse. A lei non era permesso, non erano i compiti di una Contessa. Per compensare i momenti in cui era costretta a stare lontana da Matilda, Gunhild cercava di trascorrere più tempo possibile nella nursery con lei. Cosa non difficile in inverno, quando a causa del gelo quasi ogni altra attività era preclusa.

Una volta che la balia fu uscita con la bambina, Gunhild spostò lo sguardo su suo marito che, seduto sullo scranno d'onore accanto al suo, era intento ad addentare un cosciotto di cervo.

Alain non aveva preso bene la nascita di una femmina, ma lo scoppio d'ira vero e proprio lo aveva avuto quando, con molto tatto, la levatrice gli aveva comunicato che Gunhild non avrebbe più potuto avere figli a causa del parto difficile. Quella era stata la prima volta in cui aveva visto suo marito perdere la calma, ma Gunhild non gli aveva dato troppo peso. Quel normanno aveva indirettamente causato la morte di suo padre, aveva segregato sua madre, l'aveva rapita e costretta a sposarlo: non si sarebbe certo crucciata perché non era più in grado di dargli un erede maschio! In quel momento era solo stata grata di essere sopravvissuta al parto, il che poteva considerarsi quasi un miracolo. Aveva dovuto trascorrere quasi dieci giorni a letto, debole e prostrata per tutto il sangue che aveva perso.

Quando Alain si era calmato era tornato alla sua abituale compostezza. Aveva deciso di organizzare un battesimo con tutti gli onori, anche se in forma privata, e non aveva badato a spese per il banchetto, né per il broccato azzurro e oro che aveva acquistato in vista della nascita e che avrebbe avvolto la piccola Matilda per quel giorno.

Il banchetto era giunto quasi al termine, e il vociare dei commensali era stato smorzato dalle canzoni di un menestrello, quando un servitore si avvicinò ad Alain e gli sussurrò qualcosa all'orecchio.

Alain che sembrava ascoltare distrattamente, improvvisamente si illuminò e balzò in piedi.

“Cosa? Walter è già qui? Non lo aspettavamo prima di una settimana!” esclamò. E poi rivoltò al servitore: “Cosa aspetti, fallo entrare!”

L'uomo si affrettò a tornare all'ingresso della sala e fece un cenno all'esterno. Poco dopo un uomo sulla ventina, abbigliato riccamente, sebbene impolverato dal viaggio, fece il suo ingresso in sala.

Alain gli andò incontro e lo abbracciò fraternamente.

“Walter amico mio” lo salutò. “Non ti aspettavamo così presto! Vieni, accomodati.” Gli indicò una sedia alta che i servi avevano portato accanto alla propria.

“Spero di non disturbare milord... ho interrotto qualcosa?” chiese l'uomo in tono pacato.

“Stiamo festeggiando il battesimo di mia figlia. Posso presentarti mia moglie Gunhild?” aggiunse Alain con un gesto rivolto alla moglie. “Mia cara, questi è Walter d'Aincourt.”

“Contessa” disse l'uomo facendole il baciamano. “Congratulazioni per la nascita di vostra figlia.”

Gunhild abbozzò un sorriso, poi si rimise a sedere. Non aveva riconosciuto subito quell'uomo dai capelli biondi e lo sguardo sfuggente, ma quando suo marito ne aveva fatto il nome aveva capito chi si trovava di fronte. D'Aincourt era un compagno d'armi di Alain, un giovane nobile sassone di origine normanna che aveva deciso di passare dalla parte di Guglielmo ai tempi della conquista. E per il suo tradimento era stato premiato con diverse terre nella contea di Mercia, proprio al confine con la Northumbria. Un altro traditore, come Gunhild ne aveva conosciuti innumerevoli. Come quel Gospatric, che era stato nominato conte di Mercia da re Guglielmo, e che poi incredibilmente qualche anno più tardi gli si era ribellato per unirsi al re sassone Edgar nella rivolta che era poi fallita. Era fuggito nel suo castello di Bamburgh, sul confine scozzese, e lì era arroccato ancor oggi, quattro anni dopo l'invasione di Edgar. Guglielmo aveva preferito scendere a patti con lui perché la fortezza di Bamburgh, oltre ad essere situata in un territorio estremamente impervio e ostile, era una delle fortezze più inespugnabili d'Inghilterra.

A Gunhild venne spontaneo chiedersi se esistesse al mondo un uomo di cui potersi fidare, tanto sembravano tutti voltafaccia e traditori. Un volto, in risposta alla sua muta domanda, si affacciò alla sua mente, un uomo cui lei aveva dato che fiducia e che gliene aveva data a sua volta, ma lei si affrettò a scacciarlo.

Nel frattempo Walter si era accomodato accanto ad Alain e i due parlavano e scherzavano tra di loro, completamente dimentichi di Gunhild. A lei non dispiacque: non aveva alcuna voglia di intrattenere quell'uomo. Un naso umido che le sfiorò la gamba la strappò ai suoi pensieri: Feran, accucciato ai suoi piedi, era un cane estremamente sensibile e doveva aver captato il suo nervosismo. Gunhild si affrettò ad accarezzargli la testa e si chinò per porgergli un osso preso dal proprio piatto. Il cane si affrettò ad afferrarlo tra le fauci e ad accomodarsi sotto la sedia per gustarselo in pace.

 

Quando finalmente quell'interminabile banchetto ebbe termine, era scesa ormai la sera.

Accompagnata da Bridgit e Maud, Gunhild andò alla nursery. La piccola Matilda aveva appena finito di mangiare, e lei poté trascorrere un'oretta insieme a sua figlia, tenendola in braccio, carezzandole la testolina rossiccia e le guance setose e cantando per lei. Anche così piccola la neonata la osservava con occhi sgranati, senza perdersi una parola della voce materna.

Quando Matilda cominciò a sbadigliare e ad innervosirsi per la stanchezza, Gunhild la riconsegnò a malincuore alla balia e si ritirò nelle sue stanze.

Era già in veste da notte, con una vestaglia buttata sulle spalle e i capelli sciolti, quando decise di scrivere a sua sorella Gytha per informarla della nascita di Matilda. Si fece portare penna, calamaio e una candela e si mise all'opera.

Dopo che ebbe buttato giù qualche riga però, Arleigh la interruppe per comunicarle che suo marito desiderava vederla nel suo studio.

Era troppo sperare che a quell'ora niente affatto tarda i corridoi di Richmond fossero deserti, così, irritata, dovette indossare di nuovo l'abito che aveva messo quel giorno, e coprire i capelli con il velo bianco che le serve avevano già riposto in cassapanca.

Suo marito non era solo nello studio. Con lui c'era Walter D'Aincourt e Gunhild non lo trovò strano, se lo aspettava perfino. Appariva evidente che suo marito aveva molto in simpatia il giovane nobile suo vicino, sembrava che, consciamente o meno, Alain l'avesse preso sotto la sua ala, come un padre premuroso farebbe con il proprio figlio.

Quello che la stupì fu vedere che nella stanza con loro c'era anche un bambino.

Se ne stava seduto in uno scranno accanto al fuoco e teneva lo sguardo fisso sulle fiamme guizzanti, ignorando i due uomini che discutevano tra di loro seduti alla scrivania. Aveva una zazzera di capelli biondi e sbarazzini sul capo e il viso cosparso di lentiggini. Sembrava non avere più di sei anni, ma era magrolino, un tipetto tutto gambe e braccia, e forse dimostrava meno dell'età che aveva. Ciò che colpì maggiormente Gunhild fu però il suo sguardo triste, quasi apatico. E la sua espressione d'indifferenza.

“Gunhild” esordì Alain quando la vide, facendole cenno di sedersi accanto a loro.

“Alain chi è quel bambino?” chiese lei senza preamboli, a bassa voce in modo che il piccolo non potesse sentirla. Precauzione inutile: le fu sufficiente un'occhiata alle spalle per accorgersi che il bambino non li ascoltava minimamente, sembrava perso in un mondo tutto suo.

“E' il figlio di Gospatric...”

“Il conte di Mercia?” chiese Gunhild sbalordita. Era una ben strana coincidenza che proprio quel giorno le fosse venuto in mente quell'uomo, ed ora se ne ritrovava in casa il figlio.

“Ora non è più conte. Guglielmo gli ha tolto il titolo; il suo arrocco a Bamburgh è finito e Gospatric è fuggito in esilio in Scozia.”

“Ma per l'amor di Dio, perché suo figlio è qui?”

“Il bambino è il terzo e ultimo di tre figli maschi di Gospatric. Mentre gli altri due sono già grandi e sono fuggiti in Scozia col padre, il bambino qui ha solo otto anni ed è rimasto in Inghilterra con la madre. È il figlio di un traditore e come tale il padre non ha più diritti su di lui; spetta al re ora occuparsi di lui e decidere a chi andrà la sua tutela e la rendita che questa porta con sé...” Notando l'occhiata perplessa della moglie aggiunse, a mo' di spiegazione: “Il bambino è erede di diritto della signoria di Allendale, che porta una buona rendita. Guglielmo ha deciso di nominare me tutore del bambino. Lord Walter qui ha scortato il bambino a Richmond per ordine del re.”

“Volete dire che d'ora in poi vivrà con noi?”

“Proprio così. Sarò responsabile della sua educazione e del suo mantenimento”.

Gunhild si voltò ancora una volta a sbirciare il povero bambino.

“Ma non avrebbero potuto affidarlo a sua madre?” mormorò più a se stessa che non agli altri.

“Mia cara, sapete bene che la custodia di un figlio non può essere affidata alla madre. Non è mai successo e, grazie a Dio, non succederà mai.”

Gunhild non degnò il marito né il suo compare di un altro sguardo o di una risposta. Invece andò a inginocchiarsi davanti al bambino, mettendosi alla sua altezza e guardandolo negli occhi.

“Come ti chiami, giovanotto?” gli chiese.

Al suono di una voce femminile il bambino finalmente distolse lo sguardo dal fuoco e lo posò su Gunhild, ancora diffidente.

“Waltehof...”

“Io mi chiamo Gunhild. Ascolta Waltehof, so che non vorresti trovarti qui, che vorresti tornare da tua madre...”

Waltehof annuì, lentamente, come se fosse indeciso se rivelare questa debolezza ad un'estranea.

“Ti manca molto?”

“Sì. Quando... quando posso andare da lei?”

Gunhild si sentì stringere il cuore. Decise di mentire.

“Presto la rivedrai, non temere. Nel frattempo di qualsiasi cosa hai bisogno puoi rivolgerti a me, perché sarai nostro ospite per qualche tempo.”

Il bambino annuì di nuovo, lo sguardo di nuovo cupo: non era la notizia che aveva sperato di sentire.

“Ascoltami...” continuò Gunhild faticando a trovare le parole adatte. “Hai fame? Ti piacerebbe venire con me a mangiare qualche dolcetto alle mandorle?”

Questa volta il suo piccolo interlocutore scosse il capo.

“Allora mi piacerebbe presentarti un mio amico.... si chiama Feran ed è un cane che adora fare le feste ai bambini silenziosi.”

Per la prima volta Waltehof sorrise. “Un cane?”

“Ti piacciono i cani?”

“Tanto! A casa ne abbiamo molti, ma il mio preferito è il cane da caccia di mio padre. E' alto così” disse indicando con il palmo della mano un punto ad una notevole altezza da terra, chiaramente esagerata.

Gunhild gli tese una mano. “Bene, allora perché non vieni con me che te lo presento?”

Waltehof esitò ancora qualche attimo, poi prese la mano che Gunhild gli porgeva e balzò giù dalla sedia. Si rivolse ad Alain e Walter, facendo un goffo inchino di circostanza, a cui Gunhild aggiunse un cenno del capo. Lo sguardo di Alain era compiaciuto per il modo in cui la moglie aveva saputo guadagnarsi la fiducia di Waltehof, ma Gunhild finse di non vederlo mentre conduceva via il bambino.

 



Angolo Autrice: Ed eccoci al capitolo in cui assistiamo alla nascita della figlia di Gunhild e all'arrivo di un'altro bambino. Nel prossimo capitolo avremo un salto temporale di qualche anno. Grazie come al solito a tutti voi che leggete e recensite.
A presto, E.

 

 

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


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Agosto 1074

Middleham Castle, Northumbria, Inghilterra

 

“Matilda vieni qui, non allontanarti troppo!” Gunhild gridò dietro a sua figlia che si era messa a correre. La bambina camminava ormai sicura sulle gambette paffute, e Gunhild si trovava già a pensare con nostalgia ai suoi primi passi. Le sembrava ieri – ma in realtà era trascorso più di un anno – quando Matilda faceva i suoi primi tentativi di camminare. Sentendosi ancora insicura si aggrappava a Feran, che paziente come una balia la accompagnava in giro, misurando la sua andatura in modo che combaciasse con il ritmo dei passettini infantili. A Gunhild, che aveva visto il suo cane lanciarsi in corse sfrenate ogni qualvolta gli era stato possibile, tanto autocontrollo era sembrato un autentico prodigio.

Ora che Matilda era cresciuta però, Feran aveva potuto abbandonare la moderazione, ed ora correva appresso alla bambina sul prato costellato di fiori primaverili sprizzando gioia da tutti i pori.

“Matilda fermati!” giudizioso come un fratello maggiore, Waltehof raggiunse la bambina e la prese per mano, facendola fermare prima che si avvicinasse troppo al torrente.

“Walt... fiume!” disse la bambina, indicando il corso d'acqua con il ditino, con lo sguardo pieno di fiducia rivolto al ragazzino.

“Sì Tilda... è un fiume” le sorrise Waltehof indulgente. “Buono Feran! Cuccia!” ordinò poi al levriero che voleva saltare loro addosso per giocare.

Gunhild e Bridgit si fermarono pochi passi indietro ad osservare i due bambini. Matilda era molto cresciuta: era una bella bambina, socievole e solare; aveva la pelle chiara, la boccuccia a cuoricino, e la chioma rosso fiamma come quella del padre. Per un lungo periodo Gunhild non era stata contenta che avesse ereditato quel tratto distintivo paterno, ma col tempo si era rassegnata ad amare e odiare allo stesso tempo i capelli così particolari di sua figlia.

Matilda era certo cresciuta molto in due anni, ma Waltehof era talmente cambiato nello stesso tempo da essere quasi irriconoscibile. Non solo aveva messo su un po' di carne, pur rimanendo magro, ma aveva cambiato decisamente espressione. Come prima era apatico, triste, sperduto, ora era allegro, vivace, con gli occhi brillanti.

Quei due anni come protetto dei conti di Richmond lo avevano reso felice come non era mai stato. Aveva trovato in Gunhild un'amica, una confidente, ma soprattutto una madre; e come tale lui la trattava, con la deferenza e l'amore dovuti a una madre. A volte Gunhild si ritrovava a sorridere pensando di non avere che nove anni più di Waltehof: decisamente troppo giovane per essere sua madre! Ma l'affetto che aveva saputo guadagnarsi la rendeva orgogliosa, e si era davvero affezionata al bambino. Era come un secondo figlio per lei.

Anche con Alain Waltehof andava molto d'accordo, aveva molto rispetto per lui. Adorava poter contare su una figura paterna, e Alain aveva trovato in lui il figlio maschio che non avrebbe mai avuto. Si interessava molto al ragazzo: per quanto i suoi affari lo impegnassero trovava sempre il tempo di informarsi dei suoi progressi con l'istitutore e con i maestri d'armi.

Suo padre e i suoi fratelli erano ancora in esilio in Scozia e non vedeva sua madre da due anni, ma a Waltehof non importava, non più. Con Alain e Gunhild si sentiva a casa.

“Sei contenta che Alain ti abbia dato il permesso di venire a Middleham anche quest'anno, vero?” chiese Bridgit.

“Perché tu no?” le disse Gunhild, ammiccando.

Bridgit sbuffò. “Ormai Richmond si è talmente espansa da mangiarsi tutta la natura circostante. Middleham è un luogo ancora incontaminato. Sembra di essere in mezzo al nulla...”

“La trovi una cosa positiva?”

“Fondamentale, oserei dire!” ridacchiò Bridgit. “Non scordarti che sono cresciuta nella tenuta di campagna dei miei genitori.”

“Avevo paura che Alain non mi permettesse di venire quest'anno... o peggio: che volesse accompagnarmi.”

“Io non me ne sono preoccupata. È evidente che odia questo posto...”

Il castello di Middleham, che Alain aveva assegnato al suo fratellastro Ribald, era circondato per miglia e miglia solo da campi d'erba verde, lontano da grandi città. Oltre agli abitanti del castello gli unici altri esseri viventi nei dintorni erano le mucche e i cavalli intenti a brucare l'erba.

Era già il secondo anno che Gunhild trascorreva la bella stagione lì insieme a Matilda e Waltehof. E vi avrebbe trascorso anche l'inverno se le fosse stato possibile.

Fortunatamente da quando aveva saputo che non avrebbe più potuto avere figli, Alain non era più così ansioso di dividere il suo letto. Gunhild ne era stata sollevata: non voleva altri figli da suo marito - non ne avrebbe mai voluti da nessuno - anche se in nessuno modo poteva rimpiangere la nascita della sua bambina.

In quei due anni aveva imparato ad andare d'accordo con Alain. Il Conte aveva cercato di guadagnarsi l'affetto della moglie: si era dimostrato molto comprensivo dopo la nascita di Matilda, non le aveva mosso alcun rimprovero. Le donava spesso gioielli e abiti e, per la sua personale voliera di caccia, perfino due bellissimi girifalchi, i falchi bianchi d'Islanda che costavano come un piccolo castello.

Gunhild da parte sua si era sforzata di essere più diplomatica, di instaurare un buon rapporto con Alain. Con l'età aveva appreso l'arte della sottigliezza e del compromesso. Non scattava con furia ad ogni minimo torto, non urlava, non tirava fuori le unghie; aveva imparato a soppesare le proprie parole e le proprie azioni; aveva imparato a nascondere il propri sentimenti dietro la maschera di un sorriso, proprio come si era ripromessa il giorno delle sue nozze; aveva imparato che c'era un momento giusto per agire e un momento giusto per restare in silenzio, e che doveva avere pazienza e fingere arrendevolezza.

Del marito aveva imparato ad apprezzare la generosità e la pazienza. Ma non era sicura di averlo perdonato, né sarebbe mai stata capace di farlo.

Solo due cose buone le erano venute da tutto quello che le era successo, e le aveva lì davanti agli occhi. Il ragazzino biondo che la considerava una madre, e il sangue del suo sangue: la bimbetta dai capelli rossi. Entrambi lì con lei, al sicuro, completamente presi dal rincorrersi e dal tirarsi la palla di cuoio che Gunhild aveva fatto confezionare per loro, fiduciosi e spensierati come possono esserlo solo due bambini.

“Cosa dice tua sorella?” domandò d'un tratto Bridgit.

Gunhild infilò la mano nel mantello e ne trasse una lettera che portava con sé da quella mattina.

“Leggila” disse porgendola all'amica.

Bridgit l'aprì e fece come le era stato suggerito.

 

Rottskild, 7 aprile 1074

 

Cara sorella,

ho finalmente buone nuove da riferirti. Dopo lunghe elucubrazioni il re nostro cugino ha finalmente concluso un fidanzamento per me. Credevo non si sarebbe più deciso, talmente tanti pretendenti ha scartato in questi anni. In realtà devo essere grata al re per non avermi ceduto a uno dei semplici nobili danesi che hanno chiesto la mia mano. Ha sempre detto che non erano degni di una principessa di sangue reale, e che per me avrebbe trovato qualcosa di meglio. Voleva stringere una preziosa alleanza per la Danimarca grazie alle mie nozze. Nonna Gytha mi ha sempre ripetuto di non avere fretta e di avere fiducia in re Sweyn, ma ho davvero temuto di diventare troppo vecchia per il matrimonio. Finalmente, il re ha concesso la mia mano a Vladimir II, Gran Principe e sovrano di Russia. Sono pazza di gioia, sorella mia! Sposerò un sovrano, come ho sempre desiderato da quando nostro padre è salito al trono. Le nozze sono fissate per la fine dell'anno. E allora sarò regina, avrò una mia casa, dei figli... e potrò smettere di essere solo un ospite alla corte danese. Non che possa lamentarmi di nulla: nostro cugino è stato molto generoso con me, e ha dimostrato di avere davvero a cuore il mio futuro. In ottobre partirò per la Russia, affronterò questo lungo viaggio con un seguito degno di una principessa. E dovresti vedere che magnifici gioielli mi ha inviato in dono il mio promesso sposo! Mi hanno rassicurato che è un bell'uomo, ed è giovane per fortuna, ha la mia stessa età. Spero di poterti presto dare altre notizie.

Come stai tu? Come sta la mia nipotina? Immagino che cresca a vista d'occhio, ormai ha già due anni e da quando è nata sarà cambiata completamente. Mi rattrista sapere che con ogni probabilità non la conoscerò mai, soprattutto ora che sto andando ancora più lontano da voi. Dovrò immaginarla, renderla viva nella mia mente grazie alle tue descrizioni. A dir la verità, non sono nemmeno sicura di riconoscere te se mai dovessi comparirmi davanti.... anche tu devi essere cambiata moltissimo: eri una bambina quando ti ho lasciata, e ora sei una donna e una madre.

So che non avrei diritto di dirlo considerato tutto quello che hai passato, e che io non posso nemmeno lontanamente immaginare, ma questi tre anni sola qui, senza nonna Gytha, sono stati forse i più duri di tutto il mio esilio. Ho delle amiche certo, ci sono Edith e i piccoli, e re Sweyn mi tratta come una sorella, ma mi è mancata la mia famiglia, la mia casa, il mio paese. Spero di essere felice con Vladimir, che la mia vita trovi di nuovo una direzione come sovrana, moglie e madre.

Ma i miei pensieri sono con te e il mio cuore è sepolto in Inghilterra.

Con affetto,

Gytha Haralsdatter, Principessa d'Inghilterra

 

“E' una buona notizia” commentò Bridgit quando ebbe finito di leggere.

“E' quello che mia sorella ha sempre sperato, sebbene in altre circostanze. Spero che questo matrimonio le porti più fortuna del mio, e che sia felice con Vladimir”.

“Le mancate molto, a quanto pare...”

“A me manca lei, mia madre, mio padre, mia nonna i miei fratelli.... e me stessa. Ma non riavrò mai nessuno di loro.”

 

La vita scorreva a ritmi molto più rilassati a Middleham. Mancava quello stuolo di servitori e cortigiani che affollava Richmond e che tanto piaceva ad Alain, simbolo del suo potere e del suo rango. Bridgit era stata l'unica dama ad accompagnarla. Due anni prima Maud si era innamorata di un cavaliere normanno al servizio del Conte e lo aveva sposato: da allora non l'accompagnava quasi più nei suoi spostamenti. Preferiva restare a Richmond con il marito, o seguirlo se questi partiva al seguito di Alain.

A Middleham Gunhild aveva la possibilità di stare molto più tempo con Matilda, e quando la bambina riposava lei, Bridgit e Waltehof, ormai giudicato abbastanza grande per avere un pony tutto suo, uscivano con i cavalli e con i falchi. La sera cenavano tutti insieme nel salottino privato; Matilda aveva imparato a mangiare sola, ed anche a rubare il cibo dal piatto di Waltehof mentre lui faceva finta di essere distratto, per poi coglierla sul fatto e farle il solletico. Feran si accucciava ai loro piedi, perché aveva imparato che quello dove spuntavano due paia di piccoli piedi era il punto da cui con ogni probabilità sarebbe caduto a terra del cibo.

Quando Arleigh venne a prendere i bambini per portarli a letto, Matilda saltò in grembo a Gunhild per darle un umido bacio della buonanotte sulla guancia e Waltheof aspettava tranquillo il suo turno di salutare sua madre adottiva. Poi entrambi, fatti un po' di capricci tanto per non mostrarsi troppo arrendevoli, corsero da Arleigh.

“Ehi, ehi piano!” li rimproverò lei con un sorriso. Ma Matilda le aveva già buttato le braccia al collo e Arleigh non poté far altro che sollevare la bambina di peso.

“Feran, torna qui!” Gunhild richiamò il cane che stava aggiungendo confusione alla confusione, saltellando tra i piedi della serva.

“Buonanotte milady” salutò Arleigh, impacciata dal peso di Matilda e da Waltehof che teneva per mano.

“Buonanotte Arleigh, buonanotte bambini.”

“Buonanotte” aggiunse Bridgit, alzandosi per preparare la scacchiera di alabastro per la loro solita partita serale. Le due donne rimasero in silenzio per qualche minuto, riflettendo sulle cruciali mosse iniziali.

Bridgit sbirciava di tanto in tanto la sua amica, come se avesse un peso sullo stomaco ma non si decidesse a parlare.

“E... per l'altra questione?” chiese mentre muoveva l'alfiere a minacciare il cavallo di Gunhild.

Gunhild alzò interrogativamente un sopracciglio. “L'altra.... questione? Stai parlando del viaggio a corte?”

Dopo quattro anni di matrimonio Alain le aveva infine richiesto la cosa che più di tutte Gunhild avrebbe voluto evitare.

“Non c'è modo di sottrarsi a questo incontro? Non possiamo evitarlo in qualche modo?”

“Non credo si possa. Mio marito vuole che io vada a corte con lui, vuole presentarmi ufficialmente al re e alla regina. E Matilda deve conoscere la sua madrina, come usanza vuole. Non accetterà mai un mio rifiuto. Sapevo che questo momento prima o poi sarebbe arrivato.”

Doversi inchinare di fronte all'uomo che aveva ucciso suo padre, essere costretta a rendergli omaggio.... Bridgit poteva capire meglio di chiunque altro la rabbia, il dolore e la frustrazione della sua padrona. Dopotutto Guglielmo aveva ucciso anche suo padre, il suo adorato padre, e non passava giorno in cui Bridgit non ne sentisse la mancanza. Le vennero le lacrime agli occhi senza che riuscisse a mascherarle.

Gunhild comprese ed abbracciò l'amica. Tra di loro non erano necessarie le parole per comprendersi, non fra due anime che avevano vissuto lo stesso dolore.

“Ci pensi?” disse dopo un po' Gunhild. “Per quanto io... noi... possiamo odiare i normanni resterà sempre il fatto che la mia Matilda è metà normanna, ma io non potrei amarla di più... non è ironico?”

“Già... cosa conoscerà questa bambina nella sua vita? La sofferenza del popolo di sua madre, del popolo sottomesso, o le usanze del popolo dominatore di suo padre?” commentò Bridgit.

“Con ogni probabilità entrambe... o almeno lo spero. Spero di farle conoscere anche la sua ascendenza sassone, la nostra cultura, i suoi antenati. Ma anche se diventasse una perfetta normanna credo che l'amerei ancora con tutta me stessa.”

“E non è l'unica persona di stirpe normanna per cui provi qualcosa vero?” chiese Bridgit con un sorriso.

“Di cosa stai parlando?” sibilò Gunhild, lo sguardo improvvisamente cupo.

“Di Alain il Nero, di tuo cognato... mi sembrava che provassi qualcosa per lui... e lui per te.”

“Bé ti sei sbagliata, non è così!”sbottò.

“Scusami” balbettò Bridgit presa alla sprovvista da quella reazione così accorata. “Non intendevo offenderti. Mi era sembrato che ci fosse qualcosa.... tutto qui.”

Gunhild si pentì immediatamente della sua reazione, mentre il colore le defluiva rapidamente dalle guance in fiamme.

“Scusami tu, io non....” si interruppe, passandosi una mano sul viso. “In ogni caso Alain è lontano, chissà dove... e probabilmente non lo rivedrò mai più in vita mia” concluse fingendo di ignorare il nodo doloroso che le stringeva la gola.

 

Più tardi, prima di coricarsi, Gunhild decise di andare a controllare Matilda alla nursery. Sua figlia dormiva pacifica nel suo lettino, la boccuccia semiaperta, i riccioli ramati sparsi alla rinfusa sul cuscino, il lenzuolo stretto nel pugnetto. Gunhild sorrise di tenerezza nel carezzare il visino lentigginoso della sua bambina. Era assorta nella contemplazione quando una voce alle sue spalle la fece trasalire.

“Milady...”

Gunhild si voltò. Waltheof era sceso dal suo letto, e la veste da notte bianca che gli arrivava alle caviglie lo faceva assomigliare a un piccolo spirito. I piedi scalzi a contatto con la fredda pietra del pavimento, il bambino si torceva la mani cercando il coraggio di dire qualcosa.

“Walt! Santo Cielo piccolo, torna a letto. Così ti prenderai un raffreddore.”

“Milady” insistette Waltehof. “Volete abbandonarmi anche voi?”

Gunhild non comprese ciò che intendeva il bambino. Si avvicinò a lui e lo fece sedere sul letto. Almeno non si sarebbe congelato i piedi. Tentò di farlo ritornare sotto le coperte, ma lui la scansò.

“Cosa ti succede Walt? Perché pensi che voglia abbandonarti?” chiese infino Gunhild con un sospiro, sedendosi sul letto accanto a lui.

“Vi ho sentito parlare con Bridgit... partirete per Londra senza di me in autunno?”

Gunhild si sentì immediatamente in colpa. Doveva ammettere di aver preso in considerazione l'idea di lasciare Walt a Middleham o a Richmond. C'erano talmente tanti averi da impacchettare, bagagli da portare, servi, paggi e balie al loro seguito, che una persona in meno avrebbe semplificato i preparativi. E non c'era un vero motivo per portare Waltehof con loro, il re e la regina non erano interessati a conoscere i pupilli dei loro vassalli.

Ma lo sguardo da animale ferito negli occhi del ragazzino era inequivocabile – lo stesso sguardo che Gunhild gli aveva visto negli occhi quando lo aveva conosciuto – e la paura di un nuovo abbandono fin troppo lampante.

La giovane sassone strinse il bambino in un abbraccio, che il piccolo ricambiò con tutte le sue forze.

“Verrai con noi, Walt” gli disse guardandolo negli occhi. “Io non ti abbandonerò mai. Te lo prometto.”




Angolo Autrice: Ciao a tutti! Premetto che questo capitolo non mi soddisfa del tutto, l'ho cambiato e ricambiato qualcosa come 20 volte e non so se sono riuscita a renderlo come volevo. Come avrete visto è un capitolo di passaggio, una breve parentesi felice prima del viaggio a corte. Spero di essere riuscita a far arrivare questo spaccato di vita di Gunhild e dei suoi due bimbi. Fatemi sapere che ne pensate! Un ringraziamento speciale a tutte le fantastiche ragazze che recensiscono... e anche a tutti voi che leggete e seguite!
A presto!

 

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


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Settembre 1074

Westminster Palace, Londra, Inghilterra

 

L'ultima volta che Gunhild aveva visto il palazzo di Westminster era quando lo aveva lasciato per andare studiare all'abbazia di Wilton, una vita fa.

Allora sembrava che la sua vita dovesse prendere tutta un'altra direzione. Chiunque avrebbe scommesso che il regno di suo padre sarebbe durato altri vent'anni, che sarebbe stato ricco e prosperoso e che l'egemonia sassone in Inghilterra non avrebbe mai avuto fine.

La sala del trono era come la ricordava: gli stessi muri di pietra coperti da arazzi – alcuni addirittura ereditati dai re sassoni – le stesse grandi finestre ad arco, i due alti scranni riccamente intagliati e decorati in foglia d'oro. Salvo che l'ultima volta che era stata lì sui due troni sedevano suo padre e la sua matrigna Ealdgyth.

I pesanti tendaggi di broccato che adombravano le finestre facevano penetrare poca luce del caldo sole estivo. Quando Gunhild entrò, la mano poggiata con eleganza su quella del marito, annunciati dalla voce stentorea dell'araldo, non riuscì subito a mettere a fuoco le due figure sedute l'una accanto all'altra. Il re a destra, e la regina sul trono leggermente più piccolo di quello del marito, a sinistra. La piattaforma dove stavano i due troni era gremita di cortigiani e paggi, e la sala era riempita del loro vociare sommesso.

Il Conte e la Contessa di Richmond erano seguiti alcuni nobili alleati di Alain, tra cui l'onnipresente Walter d'Aincourt, che sembrava divenuto l'uomo di fiducia del Conte, dalle loro mogli, da Bridgit e da un'altra dama di Gunhild.

Tutti gli uomini chinarono il busto in avanti di fronte ai sovrani, mentre Gunhild fece la riverenza tenendosi la gonna, stando bene attenta a piegarsi il minimo indispensabile, appena sufficiente a non creare scandalo.

Il re era un uomo di mezza età, alto, che da giovane doveva essere stato aitante e robusto, ma che ora era decisamente obeso.

La regina aveva pochi anni meno di lui, ed era piccolina e minuta come suo marito era alto e grasso. Formavano davvero una coppia singolare, e visti l'uno accanto all'altro risultavano quasi buffi.

Ancor più del marito la regina Matilda emanava un'aura solenne, dignitosa, da vera regina. Guardava i suoi ospiti con una certa autorevolezza, ma senza superiorità, evitando così di metterli a disagio.

Guglielmo scese dal trono, non senza difficoltà a causa della sua mole, e abbracciò fraternamente Alain.

“Benvenuti a corte” disse rivolgendosi all'eminente assemblea. “Sarete i nostri graditissimi ospiti.”

“Vostra Grazia, posso presentarvi mia moglie?” intervenne Alain prendendo la mano di Gunhild e conducendola di fronte al re.

Gunhild fremette di rabbia, le mani le tremavano, ma si sforzò di rimanere calma.

“Vostra grazia...” mormorò piegandosi a baciare l'anello con il sigillo reale sulla grassa e sudaticcia mano di Guglielmo.

“Mia cara Contessa... avevo udito voci sulla vostra avvenenza. Vedo che non sono state affatto esagerate.”

Per niente impressionata dal commento galante Gunhild mostrò i denti in un sorriso. “Vostra Grazia è troppo gentile.”

“Gradite del vino?” chiese rivolto agli uomini e facendo un cenno a un paggio senza attendere risposta. “Confido che domani vorrete essere miei ospiti. Terremo un grande banchetto per l'inizio della stagione di caccia.”

“Vostra Grazia ha quindi in programma una battuta nel parco reale...” commentò Alain con aria complice.

Il re rise di cuore. “Come mi conoscete bene, amico mio! Ebbene sì, la caccia è l'unico svago che mi rimane da quando non ci sono più sassoni da combattere.”

Gunhild avrebbe voluto strozzarlo, e se gli sguardi avessero potuto uccidere Guglielmo sarebbe caduto ai piedi del trono, morto stecchito. Alain dovette intuirlo, perché si affrettò a rispondere.

“Quando avete in programma la battuta di caccia, sire?”

“Cosa? Ah sì, certo... domani mattina. Naturalmente dovete partecipare tutti!”

In quel momento la regina scese dal trono, così discreta e silenziosa che nessuno la notò finché non mise una mano sulla spalla del marito, il quale si voltò.

“Marito mio, vi dispiace se io e la Contessa vi lasciamo alle vostre chiacchiere da uomini? Mi piacerebbe parlare un po' con lei e conoscere la mia figlioccia.”

“Ma certo, ma certo” esclamò bonario il re.

Gunhild fu grata a Matilda per averla tolta da quella situazione imbarazzante. Un altro minuto insieme a quell'odiosa montagna di grasso che aveva la fortuna di calzare una corona sulla testa, e temeva che l'avrebbe ucciso.

 

Matilda, sempre seguita da un codazzo di dame, condusse Gunhild alla nursery dove vivevano i figli della coppia reale. Anche Matilda, insieme ad Arleigh e alla balia che l'accompagnavano, era stata alloggiata lì. Waltehof invece, giudicato troppo grande per la nursery, era stato sistemato con i paggi più giovani, di poco più grandi di lui; figli di nobili che avevano appena intrapreso il noviziato da cavalieri.

Ormai la nursery era abitata solo dalle due figlie più piccole di Guglielmo e Matilda: Constance di nove anni e Adela di cinque.

La regina le presentò a Gunhild e le due principesse, ligie alle regole e perfettamente educate, fecero un inchino quasi all'unisono, gli occhi bassi e l'espressione modesta.

Tutto il contrario di me, dovette ammettere Gunhild. Anche quand'era una principessa non era mai stata così obbediente, ne credeva che avrebbe mai potuto diventarlo, neanche se avesse mantenuto il titolo per tutta la vita.

“Piacere di conoscervi Contessa” disse Costance con solennità facendo un passo avanti.

La regina, accomodata in una sedia, le fece un cenno d'approvazione.

“Molto bene mia cara. E ora vorrei conoscere la mia figlioccia.”

Gunhild prese una riluttante Matilda dalle braccia di Arleigh e la porse alla regina, che la tenne sulle ginocchia.

“Ma che bella bambina, cara Contessa” commentò la sovrana. “Assomiglia moltissimo a vostro marito.”

Matilda tenette qualche minuto in braccio la sua piccola omonima, intavolando una conversazione di circostanza con Gunhild, Bridgit e le sue dame.

“Costance, Adela!” disse ad un certo punto rivolgendosi alle figlie. “Perché non mostrate il vostro baule dei giocattoli a Lady Matilda?” Le bambine eseguirono prontamente l'ordine della madre, e insieme alle balie condussero Matilda a giocare nell'altra stanza.

La regina congedò anche le sue dame e quelle della sua ospite, le quali si misero a ricamare in un angolo remoto del salotto; così Gunhild si trovò sola, faccia a faccia con quella donna che tanto aveva temuto di incontrare. Seduta nella sedia di fronte alla sua, inizialmente tentò di evitarne lo sguardo. Ma negli occhi della regina non c'era arroganza, né altezzosità. C'erano solo gentilezza e compassione.

“Ho tanto desiderato conoscervi Contessa” disse Matilda rompendo quel silenzio imbarazzato. “Devo ammettere di essere stata curiosa di incontrare la figlia del vecchio re, divenuta forzatamente una della nostra stirpe.”

“E ora che mi avete vista qual'è la vostra impressione, Vostra Grazia?” chiese Gunhild senza più remore di guardare quella donna minuta dritta negli occhi.

“Siete indubbiamente una donna di carattere. E vi si legge in viso che avete sofferto molto.”

“Di questo potete essere sicura” commentò asciutta la Contessa di Richmond.

“Non vi mentirò: non rimpiango la decisione di mio marito di reclamare il trono d'Inghilterra. Mio figlio William un giorno sarà re, ed ora che siete madre anche voi potete capire che voglio solo il meglio per i miei figli. Rimpiango tuttavia il modo in cui questo trono è stato ottenuto e mi rincresce per le vostre perdite.”

Gunhild rimase per un momento spiazzata dalla schiettezza della regina e faticò a trovare una risposta.

“Non ve ne faccio una colpa, Vostra Grazia” rispose con cautela. “Raramente una decisione simile spetta a noi donne.”

“Ma so che la fate a mio marito... no, non lo negate. E' così, e non vi biasimo affatto. So che è stata dura per voi inchinarvi davanti ai vostri nuovi sovrani.”

“Vostra Grazia non deve pensare che io non abbia accettato la vostra sovranità.”

“So che lo avete fatto; e per quanto riguarda ciò che provate nel vostro cuore.... ebbene, quello è affare tra voi e Dio Onnipotente.”

“Vi ringrazio per la vostra comprensione” rispose Gunhild, scoprendosi a credere veramente nelle proprie parole. Per qualche strana ragione, quella donna le piaceva. Era una donna risoluta e intelligente.

“E ditemi, avete notizie della vostra famiglia?”

Gunhild esitò: che quella di Matilda fosse una trappola ben congegnata per strapparle qualche informazione utile alla cattura dei suoi familiari? Le parve improbabile, ma decise comunque di essere prudente. Non nominò Godwin ed Edmund, i due membri della famiglia su cui di sicuro Guglielmo avrebbe voluto maggiormente mettere le mani. E non le parve neppure il caso di accennare al fatto che il suo zio più giovane Wulnoth era ancora prigioniero del re: non sarebbe stata una gran mossa diplomatica.

“Mia sorella vive alla corte danese da anni, ed è prossima al matrimonio con il Gran Principe di Russia.”

“Un ottimo matrimonio, indubbiamente” approvò la regina. “Come anche il vostro con il Conte di Richmond, anche se so non essere stato una vostra scelta.”

“Non lo è stata infatti, come voi saprete” confermò Gunhild senza tentare minimamente di addolcire la pillola.

“Come avete detto, raramente una simile decisione spetta a noi donne. Neppure il mio matrimonio fu una mia scelta. Fu mio padre a decidere che avrei sposato Guglielmo.”

“Vi ha comunque portato qualcosa di buono, Vostra Grazia...” osservò Gunhild.

“E' così. E siete sicura che anche il vostro non possa fare altrettanto?”

 

Le parole della regina le risuonarono in testa per diverso tempo. Quel matrimonio le aveva portato qualcosa di buono? Probabilmente le stesse cose che aveva portato a Matilda: titoli, terre, ricchezze, una posizione... Il guaio era che a Gunhild non importava di nessuna di queste cose. Chissà se per la regina invece avevano più peso o se le desiderava meramente per regalare una buona posizione ai figli? Era immersa in quei pensieri mentre Arleigh tirava fuori dai bauli da viaggio l'abito che le sarte di Richmond avevano confezionato appositamente per il suo viaggio a corte, e che lei avrebbe indossato alla festa che si sarebbe tenuta quella sera. Alain non aveva badato a spese per quel sontuoso vestito. Era di un verde scuro che sfumava man mano che raggiungeva l'orlo, riccamente ricamato con dei fregi dorati sul petto e le maniche, che erano molto larghe. Il mantello color ruggine, la torque* intonata all'abito che teneva fermo il velo bianco ma anch'esso ricamato, la cintura di cuoio ricamata in oro, completavano l'immagine opulenta che il Conte voleva mostrare alla corte, esibendo sua moglie come fosse un forziere d'oro che provava la sua immensa ricchezza.

Ci vollero due ancelle per acconciarle i capelli in due lunghe trecce inanellate d'oro. Insieme ai grossi orecchini pure d'oro, erano talmente pesanti che Gunhild sapeva che alla fine della serata ne avrebbe guadagnato un gran mal di testa. Sospirò, alzando gli occhi al cielo: quel banchetto sarebbe presto finito, bastava stringere i denti per qualche ora e poi avrebbe potuto liberarsi di quel ridicolo travestimento. E forse presto anche abbandonare il chiasso, l'opulenza e le falsità della corte per tornare alla pace e alla semplicità di Middleham.

 

Come Gunhild aveva previsto il banchetto fu un affare in grande stile. La sala grande di Westminster era affollatissima, il chiasso assordante, il cibo talmente abbondante che andò sprecata una buona parte delle mille portate raffinate e complesse che gli invitati si videro mettere davanti. I tavoli erano coperti di tovaglie bianche come la neve e complesse decorazioni floreali decoravano sia i tavoli che le pareti, in un tripudio di colori. Erano stati ingaggiati diversi menestrelli, giocolieri e saltimbanchi, e ad un certo punto della serata una compagnia di attori mise in scena perfino una commedia teatrale, infarcita delle solite allusioni e volgarità che tanto facevano presa sui nobili come sul popolo.

Gunhild e Alain erano seduti al tavolo d'onore, proprio alla destra dei sovrani, come si conveniva al nobile più potente del regno e alla sua consorte.

A metà serata suo marito e Guglielmo erano già allegri, brindisi dopo brindisi, e ridevano di gusto alle battute e alle buffonate degli attori. Gunhild li osservava annoiata, piluccando svogliatamente dall'ennesimo piatto che i servitori le avevano messo davanti, desiderando con tutte le forze che quella serata avesse termine.

Si guardò intorno, osservando con poco interesse la sala gremita di nobili e cavalieri; il vociare e le risate fragorose sembravano in grado di coprire perfino i suoi pensieri. E fu così che lo vide. Per caso. Se si fosse trovato due passi più a destra sarebbe stato fuori del suo campo visivo, e non avrebbe mai saputo di averlo avuto tanto vicino.

Gunhild sentì un improvviso nervosismo serrarle la bocca dello stomaco, i suoi sensi furono di nuovo all'erta e vigili, la noia e la disattenzione spazzate via in un attimo.

Temeva che la voce le avrebbe tremato, ma tentò ugualmente. Mise la mano sul braccio del marito, il quale inclinò il capo nella sua direzione senza nemmeno distogliere lo sguardo dal palcoscenico che era stato allestito al centro della sala.

“Alain?”

“Mmh...” fu la risposta distratta del Conte.

“Ti dispiace se mi allontano un momento?”

“Ma certo, mia cara. Vai pure” la congedò lui con un cenno della mano, gli occhi ancora incollati sugli attori.

Gunhild raggiunse il fondo della sala praticamente inosservata, ma quello spazio limitato le sembrò lungo centinaia di miglia.

Alain il Nero se ne stava lì, con la schiena poggiata al muro e le braccia incrociate. Il suo sguardo enigmatico si spostò dal centro della sala a lei, ma Gunhild non seppe dire se la sua espressione mutò nel vederla, né quali furono i suoi pensieri.

La sassone si fermò di fronte al normanno, e alzò lo sguardo sul suo viso, esitante. Non era cambiato da quando lo aveva visto l'ultima volta, sulle mura del castello di Richmond. Erano trascorsi tre anni e loro non si erano lasciati certo nel migliore dei modi. Gunhild trattenne il respiro mentre tentava di decifrare il viso di Alain, di trovare qualche indizio nella sua espressione indecifrabile. Che fosse ancora in collera con lei dopo quei tre lunghi anni?

Poi i suoi occhi blu si addolcirono, le sue labbra si piegarono in un sorriso. Alain ricambiò il suo sguardo e disse soltanto: “Gunhild...”

“Pensavate di andare via senza salutarmi? Senza salutare vostro fratello?” replicò lei.

“Mio fratello? Dovrei rendere omaggio a colui che mi ha portato via l'unica cosa che abbia mai davvero voluto in vita mia?” chiese Alain con un sorriso amaro.

Gunhild si guardò intorno. Non c'era nessuno nelle vicinanze che potesse sentirli. Nessuno che prestasse loro minimamente attenzione.

“Dopo questi anni...” disse in un sussurro.

“Questi anni non sono serviti a niente Gunhild” la interruppe Alain. “Le altre donne che ho avuto non sono servite a niente. Ti amo ancora, dannazione!”

“Ti prego, non dire così” mormorò lei. Perché quell'accenno alle altre donne che Alain aveva avuto in quegli anni le faceva così male?

“Perché non dovrei?” ribatté Alain. Si passò una mano tra i capelli, con un pesante sospiro. “Mi hanno detto che ti è nata una bambina...”

Gunhild non si sentiva a suo agio a parlare della figlia di suo marito con Alain il Nero, quella stessa bambina che, non ancora nata, lo aveva spinto ad abbandonare Richmond... e lei.

“Si chiama Matilda” disse con cautela. “Ha due anni adesso.”

“Mio fratello è rimasto deluso per non aver ottenuto un erede maschio?”

“Lo è stato” confermò Gunhild. Decise di non aggiungere il vero motivo della delusione del marito, di non raccontare che era stata vicina alla morte nel mettere al mondo Matilda. Non voleva la sua commiserazione, di questo era sicura.

Ma allora cosa voleva da lui? Voleva ascoltare il suono della sua voce, ma aveva anche paura di ciò che avrebbe potuto dirle. Voleva averlo vicino, ma allo stesso tempo temeva il suo tocco. Perché le sue parole, il suo tocco l'avrebbero lasciata senza difese, vulnerabile... debole.

“Io... ora devo tornare da Alain, o si chiederà dove sia finita.”

Ma prima che potesse voltarsi Alain le afferrò per il polso con delicatezza ma fermamente, costringendola a guardarlo negli occhi.

“Vai pure da lui, se devi. Ma vuoi ripetermi di nuovo che non provi quello che io provo per te?”

“Alain, ti prego, lasciami.”

“Sei tu che mi hai cercato stasera, sei tu che sei venuta da me. Chiediti perché Gunhild... chieditelo quando stanotte sarai tra le sue braccia” disse con amarezza, facendo un cenno in direzione di Alain, chiaramente alticcio, le cui risate facevano eco a quelle dell'altrettanto alticcio re Guglielmo.

Gunhild roteò il polso con violenza in modo di liberarsi della presa del normanno, incurante di farsi male. Questa volta fumava di rabbia. Il temperamento che aveva tenuto a freno tanto a lungo, riemerse.

“Come puoi parlarmi così” sibilò, le mani tremanti. “Proprio tu che sai che non ho scelto il matrimonio con tuo fratello, che non avrei mai voluto essere costretta a dividere il suo letto.”

“Perdonami” disse solo Alain, sfiorandole il dorso della mano con le dita, quasi impercettibilmente. “Non volevo ferirti. Sono stato uno sciocco. La gelosia mi annebbia la mente a volte, per questo ho scelto di stare lontano da te tutti questi anni. Ma Dio mi è testimone che preferirei morire che farti del male.”

Era sincero. Era terribilmente sincero. Fu proprio l'enormità dei suoi sentimenti per lei a farle desiderare di fuggire da lì. Di fuggire da un amore impossibile, da quella trappola di infelicità e dolore.

“Devo tornare da mio marito” furono le sole parole che marcarono la sua fuga da vigliacca.

 

Gunhild non resistette ancora molto al banchetto. Disse a suo marito che si sarebbe ritirata e tornò in camera sua, dove buttò mantello e torque su una sedia e cominciò a camminare avanti e indietro, ininterrottamente. Congedò tutte le sue donne, inclusa Arleigh. Solo Bridgit rimase. Provò a chiedere all'amica cosa avesse, perché fosse così irrequieta, ma non riuscì a cavarle più di un paio di sillabe.

Poi finalmente, come se avesse finalmente risolto un ardente dilemma interiore, Gunhild si sedette allo scrittoio e butto giù un paio di righe frettolose su un pezzo di carta.

Prese le mani di un'esterrefatta Bridgit nelle sue, mentre le consegnava il biglietto.

“Portalo ad Alain, mio cognato” le disse. “Non farmi domande, ti prego” aggiunse quando Bridgit aprì bocca per parlare. “Fai solo come ti chiedo. Se mi sei amica, fai questo per me.”

Bridgit sorrise. “Certo che lo farò, Gunhild. Non devi neanche chiederlo.”

E uscì, portando con sé quel prezioso messaggio.

Quanto tempo trascorse prima che qualcuno si affacciasse alla porta della sua camera? Minuti? Ore? Gunhild non avrebbe saputo dirlo. Quando dei colpi leggeri risuonarono alla porta, trattenne il fiato.

Improvvisamente lui era lì, nella sua stanza. Ed erano soli.

Gunhild non riuscì più a trattenersi e gli corse incontro, gettandogli le braccia al collo e nascondendo il viso nel suo petto.

Alain rimase spiazzato per qualche secondo, ma subito le sue braccia la circondarono, stringendola a lui con forza.

“Sono fuggita da te due volte. Non voglio farlo di nuovo” mormorò Gunhild.
Alzò lo sguardo su di lui. “Ti amo anch'io, solo che l'ho capito troppo tardi... davvero troppo tardi. Sono stata una stupida. Ti prego, perdonami.”

Alain le sollevò il mento con due dita e la guardò dritta negli occhi. Il cuore prese a batterle talmente forte contro le costole da farle male.

“Non hai niente da farti perdonare. E non è affatto troppo tardi.”

“Non so se il mio amore per te mi renda debole. Forse è così.... ma non mi importa. Non più.” disse lei in un soffio.

Alain non le permise di aggiungere altro. Aveva atteso troppo e troppo a lungo quel momento.

Avvicinò il viso al suo, coprendo la poca distanza che ancora la separava. Il bacio che le posò sulle labbra fu dapprima delicato come il tocco di una piuma, ma non appena Gunhild gli rispose divenne ardente, possessivo, bruciante. Quel bacio la trasformò in fuoco liquido, la fece morire e rinascere mille volte, come una fenice dalle proprie ceneri.

Le sue labbra erano deliziosamente turgide quando infine si staccarono per riprendere fiato, la fronte poggiata contro la guancia di Alain, le dita intrecciate con le sue.

Non appena il suo respiro si fece meno affannoso, Gunhild cominciò a slacciare i bottoni del farsetto di Alain.

“Mio fratello non ti cercherà stasera?” chiese lui, affondando le mani nella sua gloriosa chioma e attirandola di nuovo verso le sue labbra.

Gunhild ridacchiò. “Il suo valletto mi ha detto che è talmente ubriaco che è crollato sul letto senza dargli nemmeno il tempo di sfilargli gli stivali.”

Alain non sprecò altro tempo in chiacchiere. I suoi movimenti si fecero impazienti e, liberatala dell'ingombrante abito della festa, la sollevò tra le braccia con un gesto deciso e la posò sul grande letto a baldacchino.

Si liberò in fretta del farsetto scuro che Gunhild aveva già slacciato e della camicia, poi le sfilò la sottoveste, l'ultima sottile, diafana barriera che gli nascondeva la vista del suo corpo.

Fecero l'amore in modo frenetico, passionale. Alain sembrava un assetato a cui per un tempo infinito era stata negata una fonte d'acqua fresca.

Infine giacquero l'uno accanto all'altra, il respiro ansante, i corpi accaldati. Gunhild si raggomitolò contro il petto di Alain, beandosi della sua vicinanza e delle braccia che la stringevano. Non lo avrebbe mai creduto, ma ciò che con suo marito era sempre stato un penoso dovere, con Alain si era rivelata pura estasi.

“Dove sei stato tutti questi anni?” chiese Gunhild, con il viso che sfiorava quello di lui, scostandogli una ciocca di capelli neri dagli occhi.

“Ho viaggiato molto. Sono tornato in Normandia per un po' di tempo. Ma ora sono a servizio di Guglielmo, che mi ha assegnato alcune terre e un castello, e mi ha nominato Guardiano delle Marche Orientali.”

“E cosa hai fatto senza di me?”

“Senza di te? Niente. Ho finto...”

“Ha finto...?” chiese Gunhild, perplessa.

“Ho finto di vivere.”

Un sorriso malinconico incurvò le labbra di Gunhild. “A me sembra di aver iniziato a vivere solo in questo momento” sussurrò, gli occhi lucidi.

In risposta Alain si sollevò sul gomito e la strinse a sé, coprendole le labbra, il viso, il collo di baci delicati. “Amore mio...” mormorò contro la sua pelle.

Fecero l'amore di nuovo, seppellendo in un angolo remoto della loro mente il fatto che quello che stavano vivendo sarebbe finito troppo presto. In quel momento esistevano solo loro, il mondo esterno non era che una cornice sfocata e indefinita, le altre persone un lontano ricordo.

Fu Alain più tardi ad esprimere ad alta voce ciò che entrambi sapevano e temevano.

“Quello che è successo stasera non può ripetersi, lo sai vero? Non potremmo tenerlo nascosto, mio fratello Alain se ne accorgerebbe. E tu sai qual'è la pena per l'adulterio...”

Gunhild lo sapeva. Era la morte, anche se si trattava di una sentenza che raramente veniva applicata alla lettera, soprattutto nel caso di nobildonne. Ma in quel momento non le importava nemmeno di morire: ne sarebbe valsa la pena per aver vissuto quella notte in cui si era sentita più viva di quanto non lo fosse mai stata.

“Andrai di nuovo via?” chiese.

“Sì. Ti ho detto che non ce la farei a vederti con lui, giorno dopo giorno. Sarebbe uno stillicidio, una morte lenta e incredibilmente dolorosa.”

“Ma io ti ho già perso una volta... non posso sopportare di perderti di nuovo.”

“Tornerò da te, te lo prometto... dovessero volerci cent'anni. E quando lo farò sarà per chiederti di essere mia moglie, di essere mia e mia soltanto. Non voglio dividerti con nessuno.”

E mentre Alain pronunciava quelle parole, Gunhild seppe che difficilmente sarebbe potuto accadere in quella vita.

Dormirono insieme quella notte, ma quando Gunhild si risvegliò Alain non era più al suo fianco. Più tardi Bridgit le disse di averlo aiutato a sgattaiolare via prima dell'alba quando ancora tutti erano immersi nel sonno.

Quella stessa mattina ebbe luogo la grande battuta di caccia nel parco reale, cui presero parte centinaia di nobili. Gunhild cavalcò accanto a suo marito e a Waltehof, che non stava più nella pelle al pensiero di partecipare ad una vera caccia in grande stile. Il bambino, fiero in groppa al suo pony pezzato, riempiva il conte di domande euforiche cui lui rispondeva sempre con pazienza e con un sorriso. Alain il Nero era con loro insieme a Walter e ad altri nobili, ma lui e Gunhild stettero bene attenti a non attirare l'attenzione su di loro, limitandosi ad una conversazione di circostanza.

Nei giorni che seguirono, fatti di banchetti, di balli e di eventi mondani, si comportarono allo stesso modo. Ciò che era successo tra loro quella sera non accadde più: sarebbero stati sciocchi solo a tentarlo, ad ignorare il fatto che, se una volta la fortuna gli avevo arriso, non sarebbe capitato una seconda volta.

 

La mattina in cui Alain lasciò Londra insieme al suo seguito, Gunhild si svegliò all'alba, e fuori della finestra, invece del verde smeraldo dei prati di Richmond e Middleham, trovò una coltre di nebbia che ingrigiva ancora di più la città, e che faceva da eco al suo stesso umore. Si erano già salutati la sera prima, in presenza di Alain il Rosso e quindi in maniera formale. Ma il biglietto che lui le aveva mandato quella mattina tramite Bridgit non aveva nulla di formale.

 

Ricorda la mia promessa e abbi fede. Anche se dovessero volerci cent'anni non dubitare mai del mio amore.

Alain

 

Gunhild lo lesse e lo rilesse mille volte, straziando la pergamena tra le sue mani irrequiete. Quando si risolse a fare ciò che andava fatto le sembrò che le strappassero il cuore dal petto. Gettò il biglietto nel fuoco e restò ad osservarlo divenire lentamente cenere.
 


* Torque: coroncina circolare che si portava poggiata sopra la testa, dalla quale si dipartiva il velo. Poteva essere di stoffa o di metallo.

 


Angolo Autrice: Rieccomi a voi!^^ Altro capitolo dolceamaro.... molto dolceamaro. Alain e Gunhild devono di nuovo dirsi addio dopo una breve parentesi felice. Spero vi sia piaciuto e come sempre ringrazio tutti coloro che seguono, leggono e recensiscono. Il prossimo capitolo sarà ambientato più avanti nel tempo e segnerà una svolta nella storia.
Alla prossima!

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


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Luglio 1093

Foresta di Bury St. Edmunds, East Anglia, Inghilterra

 

“Coraggio bella, ancora un altro po' e potrai bere” disse Gunhild chinandosi ad accarezzare il collo della sua cavalla e guidandola verso il vicino torrente. Istintivamente, come ogni tanto le capitava, guardò in basso di fianco al cavallo, a cercare Feran, ma lui non c'era.

Feran era morto all'età di tredici anni, un'età veneranda per un Greyhound, in pace, accanto alla sua padrona. Eppure, nonostante fossero trascorsi tanti anni, a volte Gunhild ancora lo cercava prima di ricordarsi che non era più con lei. Alla morte di Feran suo marito Alain si era offerto di comprarle un altro cane, o più di uno, di qualsiasi razza lo avesse voluto, ma Gunhild aveva rifiutato. Nessun cane mai avrebbe potuto sostituire il cucciolo dal muso umido che Alain il Nero le aveva regalato a York durante una notte di tempesta.

Gunhild non era più una ragazzina, ma una donna di trentotto anni.

Ma se lei era cambiata, altrettanti cambiamenti avevano interessato la sua famiglia in quegli anni.

I suoi fratelli Godwin ed Edmund erano divenuti proprietari terrieri in Irlanda. Avevano voluto tentare un'ultima invasione contro Guglielmo nel 1082, ma era mancato loro l'appoggio necessario e non erano riusciti ad andare oltre la Cornovaglia. Avevano dovuto imbarcarsi di nuovo e fare ritorno alle loro terre irlandesi. Non avevano più messo piede in Inghilterra.

Sua madre Edith aveva trascorso il resto della sua vita in Irlanda, dove si era spenta sette anni prima, senza che Gunhild avesse avuto la possibilità di rivederla.

I fratellastri che non aveva mai conosciuto, Ulf e Harold, l'altra coppia di gemelli, vivevano ancora in esilio isnieme alla sua matrigna Ealdegyth, che si era risposata con un nobile danese.

Gytha, la sua adorata sorella, aveva sposato il suo promesso sposo, il Gran Principe di Russia, e da lui aveva avuto cinque figli maschi. Il più grande, Mstislav, aveva ormai diciassette anni, e già dall'età di dodici gli era stato affidato il governo della città più importante della Russia, Novgorod. Era tradizione che l'erede al trono stabilisse lì la propria corte fin da bambino e che si esercitasse in tal modo al comando.

Il matrimonio di Gytha non era stato dei più felici. I primi anni aveva scritto a sua sorella in toni entusiastici, raccontandole che la relazione tra lei e Vladimir era decisamente buona. Il Gran Principe era contento di lei per avergli dato quattro figli maschi e si dimostrava devoto e generoso nei suoi riguardi. Ma dopo la nascita del quinto e ultimo figlio Viacheslav i loro rapporti si erano decisamente raffreddati: Gytha concentrava tutte le energie sui figli, in particolare sul più piccolo, che le era molto attaccato; e Vladimir, ritenendo di aver avuto un numero sufficiente di figli legittimi, aveva cominciato ad avere delle amanti.

La relazione tra loro era divenuta presto burrascosa, tanto che tutta la corte di Kiev ne spettegolava. I due sovrani erano costantemente sotto gli occhi di tutti, ogni loro piccolo screzio veniva minuziosamente esaminato e gridato ai quattro venti, e questo non aveva certo aiutato la loro relazione. In più Vladimir non si faceva scrupolo di esibire le sue amanti davanti a tutta la corte, coprendole di gioielli e mostrandosi con loro in pubblico. Stanca di quella situazione e dei continui tradimenti e umiliazioni del marito, Gytha aveva deciso pochi mesi prima di lasciare la corte e entrare in convento, in cerca di un po' di pace. Le era dispiaciuto lasciare i figli, ma ormai anche il più piccolo aveva undici anni.

Gunhild era stata davvero in pena per la sorella, preoccupata dalle lettere che lei le scriveva. Lettere in cui Gytha sfogava la sua frustrazione e il suo dispiacere per la frattura tra lei e il marito, ancor più perché per i primi dieci anni di matrimonio le era stato tanto devoto.

Almeno di questo Gunhild poteva essere grata a suo marito Alain, di non averla mai umiliata in pubblico con un'amante. In ventitré anni di matrimonio le era sempre stato fedele.

Il muso della sua cavalla sfiorò l'acqua fresca e cristallina, e il cavallo di Bridgit la imitò.

“Sembra che li abbiamo persi” commentò Bridgit scandagliando la foresta circostante in cerca di una presenza umana.

Gunhild alzò le spalle e con un fischio richiamò il suo falco che, ubbidiente, andò a posarsi sul suo guanto. “Meglio così. Sono stufa di questa caccia. Rientriamo al castello, gli uomini potranno raggiungerci lì.”

“Ma, madre” intervenne Matilda, slacciandosi il soggolo per avere sollievo dall'afa e mostrando così involontariamente un ricciolo rosso. “Potrebbero preoccuparsi non vedendoci.”

“Non vedo in ogni caso come potremmo trovarli... sarebbe come cercare un ago in un pagliaio.”

Ma sapeva che non avrebbe potuto negare qualcosa a quella che lei considerava ancora la sua bambina, nonostante avesse ormai ventuno anni. Ciò che le dava fastidio però, era che negli occhi di Matilda si leggeva la preoccupazione per il suo sposo, e Gunhild non poté negarlo: sua figlia amava Walter d'Aincourt.

Quando, quattro anni prima, Alain aveva deciso che Matilda dovesse sposare il suo amico fidato, il suo pupillo, Gunhild aveva cercato di dissuaderlo in ogni modo. Sua figlia si meritava di meglio di quel vile traditore, metà sassone e metà normanno, ma incapace di restare fedele a nessuna delle due genti. E poi aveva vent'anni più di lei. Ma Alain, che non aveva mai permesso che Gunhild interferisse con le sue decisioni di carattere politico e strategico, l'aveva avuta vinta. La cosa positiva – anche se dal suo punto di vista non lo era poi molto – era che Matilda e Walter, nonostante la differenza di età, si erano innamorati l'uno dell'altra ed erano felici insieme. Gunhild si chiese se la punta di insofferenza che provava ogni volta che ci pensava non fosse semplice e pura invidia nei confronti di sua figlia, che poteva vivere l'amore senza doverlo nascondere.

Erano trascorsi diciannove anni da quando aveva visto il suo Alain l'ultima volta. Non sapeva cosa lui avesse fatto in tutti quegli anni, come era vissuto, se provava per lei quegli stessi sentimenti che - aveva proclamato - non si sarebbero mai estinti. Ma tante cose potevano cambiare in diciannove anni. Forse aveva dimenticato lei e quella promessa detta guardandola negli occhi e poi scribacchiata in fretta su un pezzo di pergamena. Quelle parole potevano essere diventate cenere tra le braci di un camino, cenere anche per lui, ma certamente erano intatte nel cuore di Gunhild. In quel luogo lei le aveva conservate gelosamente e al sicuro da tutti, per tutto quel tempo. Perché anche se non sapeva se lui ancora l'amasse, né se e quando lo avrebbe rivisto, Gunhild lo amava ancora... e probabilmente non avrebbe mai smesso d'amarlo.

 

Dopo pochi minuti trascorsi a vagare per la foresta Gunhild si era già pentita di aver dato retta a sua figlia. Quello era il primo viaggio in molti anni che compiva insieme a suo marito Alain, e lo aveva fatto solo perché, dopo quattro anni di lontananza, le avrebbe permesso di riabbracciare Matilda, che in quel periodo dell'anno risiedeva con Walter in un castello che Alain aveva regalato alla figlia in occasione del matrimonio, vicino Bury St. Edmunds.

Proprio mentre stava per ribadire la sua volontà di tornare al castello, il silenzio della foresta fu squarciato da un urlo terribile.

Gunhild, Bridgit e Matilda si scambiarono mute occhiate di preoccupazione.

“Da quella parte!” esclamò Bridgit, indicando la direzione da cui era provenuto il grido.

Le tre donne spronarono i cavalli al galoppo e, guidati dalle grida e da voci concitate, trovarono finalmente il gruppo degli uomini.

“Milady!” uno scudiero di Alain le corse incontro, facendole arrestare il cavallo.

“Che è successo? Abbiamo sentito un grido.”

“Il Conte è stato morso da una volpe! Venite...”

Gunhild smontò in fretta, imitata da Matilda e Bridgit.

Prima che potesse raggiungere il marito seduto a terra, Matilda la superò, correndo dal padre.

“Padre! Siete ferito?” chiese con voce concitata chinandosi su di lui.

Alain si sforzò di sorridere, mentre la ragazza occhieggiava preoccupata il morso che aveva allo stinco.

“E' poco più di un graffio” rassicurò la figlia.

“Com'è successo?” chiese Gunhild rivolgendosi a Walter.

“Una volpe” spiegò l'uomo. “E' sbucata da quel cespuglio. Sembrava indemoniata... e l'ha morso.”

“L'avete abbattuta?”

“Sì, l'abbiamo colpita subito. Eccola là” rispose Walter indicando con un cenno del capo l'animale morto poco più avanti.

Gunhild si chinò ad esaminare il morso. Non sembrava particolarmente grave né profondo.

“Dobbiamo riportarlo al castello. Preparate una barella” ordinò.

Alain si passò la mano tra i capelli umidi di sudore.

“Non credo sia niente di grave. Non devi preoccuparti, Gunhild... e nemmeno tu Matilda.”

“Sia come sia, ora devi tornare subito al castello” disse Gunhild categorica.

“Mia madre ha ragione” intervenne Matilda. “La ferita potrebbe infettarsi, padre, bisogna curarla al più presto, e il medico di Walter potrà farlo al meglio.”

Gli uomini aiutarono Alain, che rifiutò recisamente la barella, a rimontare in sella e, tenendo il suo cavallo per le briglie, il gruppo ritornò di premura al castello.

Il medico curò la ferita del Conte disinfettandola con del vino e fasciandola con bende di lino pulite.

Alain sembrò stare bene per le prime tre settimane, anche se zoppicava un po' e si lamentava perché era costretto a restare al castello.

Poi però subentrò la febbre, che sembrava non voler accennare a scendere; quindi, nel giro di pochi giorni, Alain cominciò a lamentarsi di non riuscire a respirare bene, di sentirsi soffocare. La tosse lo squassava e non riuscì più a mandare giù neppure un po' di brodo o vino. Gunhild e Matilda si davano il cambio al suo capezzale, cambiandogli le pezzuole bagnate e aiutando le serve a prendersene cura.

Infine il medico chiese di parlare con Gunhild, che lo fece accomodare nell'anticamera di Alain. Con lei c'erano Bridgit, Matilda e Walter.

“Contessa, Lord Walter... purtroppo devo essere il latore di infauste notizie. Ho sentito parlare di questa malattia che affligge Lord Alain, sebbene non ne abbia avuto conoscenza diretta fino a questo momento. È una malattia che viene trasmessa attraverso il morso di animali selvatici a quanto pare, ed ha un decorso molto rapido, quasi sempre mortale. Temo che questi siano gli ultimi momenti di lucidità del Conte.”

Seguì un momento di silenzio attonito alla notizia. Poi Matilda nascose il viso tra le mani e scoppiò a piangere. Walter si avvicinò a lei e la strinse a sé, cercando di calmare i suoi singhiozzi.

Il medico si congedò per lasciare un po' di privacy ai familiari del moribondo. Rimasero così diversi minuti, come se il tempo si fosse fermato: Matilda continuò a piangere contro il petto di Walter, e Gunhild rimase immobile, inespressiva, le braccia lungo i fianchi.

Quando Matilda si fu un po' calmata, lei e il marito si scambiarono un'occhiata significativa.

“Andrò io da lui per prima” dichiarò la ragazza.

“Verrò con te” le fece eco Walter sorreggendola per il braccio nel tragitto verso la camera del padre.

Quando si furono richiusi la porta alle spalle Bridgit si avvicinò a Gunhild, con cautela, quasi la spaventasse il suo apparente stato catatonico.

“Gunhild... devo avvisare Walt? Allerdale non è lontana e lui ama Alain come un padre, almeno quanto lo ama Matilda, se non di più. Vorrà sapere...”

Gunhild annuì, lentamente. “Certo. Walt è come un figlio anche per me. Merita di dire addio all'unico padre che abbia mai conosciuto.”

Waltehof, ormai un uomo, aveva ereditato alla maggiore età la signoria che gli spettava. Suo padre Gospatric era morto in esilio e i suoi fratelli, che speravano nella benevolenza del nuovo re Guglielmo II – succeduto a suo padre sei anni prima – erano rimasti delusi. Non erano riusciti a riconciliarsi con il nuovo sovrano più di quanto fossero riusciti a riconciliarsi con quello vecchio, ed erano dovuti rimanere in esilio in Scozia. La madre di Waltehof si era risposata e non si era più occupata del figlio, nemmeno quando lui aveva raggiunto l'età legale per potersi riunire con lei.

Anche Waltehof si era sposato, con una sassone di nome Sigrid con cui aveva avuto tre bambini. Ai due maggiori, un maschio e una femmina, aveva imposto il nome dei due amati genitori adottivi: Alain e Gunnilda.

 

Matilda restò dal padre fino a sera inoltrata, incapace di lasciare il suo capezzale. Quando si presentò nelle stanze della madre appariva distrutta, l'acconciatura era divenuta un groviglio scomposto e aveva due cerchi scuri intorno agli occhi.

“Così non va bene figlia mia” l'apostrofò Gunhild. “Finirai per ammalarti!”

Matilda liquidò la preoccupazione della madre con un cenno della mano. “Papà non sarà tra noi ancora per molto. Posso benissimo sacrificare qualche ora del mio tempo per lui.”

“Vieni, mettiti seduta” continuò Gunhild guidandola verso una sedia. “Arleigh” disse alla serva che stava piegando delle tuniche. “Potresti far portare del vino per mia figlia?”

Arleigh tornò pochi minuti dopo con delle coppe di vino. Si avvicinò a dove erano sedute le due donne e ne porse una a Matilda.

“Dovete dare retta a vostra madre Lady Matilda. Avete davvero una brutta cera bambina mia!”

Apostrofò con tenerezza quella bambina che aveva visto diventare una donna davanti ai suoi occhi. Arleigh era talmente affezionata a Matilda che, ai tempi del suo matrimonio con Walter, aveva chiesto di poterla seguire per restare con lei. Gunhild aveva perso un'amica e una confidente, ma era stata contenta al pensiero che Arleigh avrebbe vegliato su Matilda.

“Ti ringrazio Arleigh” rispose la giovane con un sorriso, portando la coppa alle labbra.

Gunhild preferì non restare seduta; si sentiva irrequieta e si mise a osservare fuori della finestra dando le spalle alla figlia, le mani incrociate dietro la schiena.

“Walt verrà?” chiese Matilda sorseggiando il vino.

“Bridgit gli ha scritto. Potrei mettere la mano sul fuoco che verrà. Il problema è se arriverà in tempo...”

“E voi madre?”

“Io cosa, Matilda?”

“Voi farete in tempo?”

“Cosa intendi dire?” Gunhild dava ancora le spalle alla figlia, e non sembrava intenzionata a guardarla negli occhi.

“Non riuscite a perdonarlo vero?” proseguì Matilda, senza aggressività, senza rancore. Solo un'infinita tristezza. “Neanche dopo tutti questi anni?”

Gunhild rimase in silenzio per diverso tempo. Infine, molto lentamente, si girò e fronteggiò la figlia.

“Ti sbagli Matilda” disse traendo un profondo respiro. “L'ho perdonato. Molto tempo fa.”

E mentre lo diceva si rese conto che era la verità. In fondo Alain sposandola aveva condannato anche e soprattutto se stesso. Non aveva mai conosciuto l'amore, era stato legato tutta la vita ad una donna che lo disprezzava, non aveva ottenuto il tanto sospirato erede maschio. Lei, in un certo senso, era stata più fortunata: aveva conosciuto il vero amore, aveva potuto viverlo, anche se per poco. Ma quella fiamma, che aveva consumato lei e Alain il Nero in quella notte di passione, non aveva bruciato in fretta e non si era spenta. E qualunque cosa ora Alain provasse per lei, che l'amasse ancora o meno, non cambiavano i sentimenti che lei provava per lui, e che la rendevano più ricca, più viva.

“E allora perché non volete vederlo ora che sapete che è vicina la sua fine ?” la sfidò Matilda.

 

In quella stanza c'era odore di morte, Gunhild poteva sentirla afferrarle la gola con forza. Suo marito che fino a pochi giorni prima era stato un uomo aitante giaceva ora prostrato, madido di sudore, gli occhi vitrei. Il viso era imperlato di gocce di sudore, ed Alain scottava di febbre anche se tremava da capo a piedi.

Gunhild si sedette accanto al suo letto, indecisa se prendergli la mano. Fu Alain che, anche annebbiato dalla febbre, allungò la mano sul copriletto e sfiorò quella della moglie. Gunhild non si ritrasse. Uno dei servi le porse una pezzuola bagnata prima di ritirarsi con discrezione. Gunhild cominciò ad applicargliela sulla fronte, sul collo e sul viso, bagnandola di nuovo nel catino accanto al letto quando iniziava a diventare troppo calda.

Le ore passavano mentre Alain alternava il sonno alla veglia. Gunhild cominciò a sentire anche lei le palpebre pesanti. Faticava a tenere il capo eretto, e sobbalzò spaventata quando suo marito le strizzò debolmente la mano, ora completamente sveglio.

Alain riuscì a pronunciare un'unica rantolante parola attraverso la gola chiusa: “Perdonami.”

Gunhild guardò quel volto terreo, il volto morente di suo marito, e non riuscì a provare rancore né odio nei suoi confronti. Alain non era cattivo, non lo era mai stato con lei. Era solo un uomo ambizioso, che non guardava in faccia a nessuno per ottenere i suoi scopi.

Gunhild riuscì perfino a provare pena, ed anche tenerezza per suo marito. Con gli occhi lucidi, rispose con un cenno del capo alla sua implicita domanda. Ti perdono, gli disse.

Rimase con lui finché non arrivò il prete per l'estrema unzione.

“Figlia mia, dovete lasciarci ora e permettere che il Conte confessi i suoi peccati prima di presentarsi di fronte al Trono di Dio.”

“Padre, mio marito non riesce a parlare. Ha la gola chiusa, non riesce neppure a deglutire. Come potrà confessarsi?”

Improvvisamente Gunhild si accorse di temere per l'anima di Alain. Non voleva che andasse all'inferno, perché non era stato in grado di confessare i peccati commessi. E di peccati Alain ne aveva commessi molti in vita sua: con la sua ambizione aveva fatto del male a lei e a tante altre persone, ma non meritava l'eterno castigo. E se lei lo aveva perdonato certamente poteva farlo Dio, che amava e perdonava sempre i suoi figli.

“Non temete, sarò io a porre le domande. Il Conte dovrà solo farmi un cenno in risposta” la rassicurò il prete invitandola ad uscire con un movimento appena accennato del capo in direzione della porta. Gunhild l'aprì e indugiò sull'uscio qualche secondo di troppo, sufficiente per udire il prete che diceva: “Avete dei peccati da confessare, figlio mio? Non temete Dio e confidate nella sua misericordia.” E, prima di richiudersi la porta alle spalle, vide Alain che annuiva.

Fuori della stanza trovò Matilda ad aspettarla. Madre e figlia si abbracciarono e piansero l'una tra le braccia dell'altra.

 

Anche se il medico aveva spiegato che nell'ultima fase della malattia in genere il paziente delirava o mostrava una furia immotivata, ad Alain accadde l'opposto. Il giorno seguente non riusciva più a muovere nessun muscolo, era come paralizzato. Pian piano si era semplicemente spento, perdendo conoscenza. Alain il Rosso, Conte di Richmond era morto il quarto giorno di agosto dell'anno del Signore 1093.

 

L'Abbazia di Bury St. Edmunds non era propriamente gremita di persone. Alain era morto all'improvviso, si era consumato in soli due giorni. Era stato un uomo ancora robusto e nel fiore degli anni e nessuno si era aspettato una fine simile. Il suo corpo era stato tumulato nel coro dell'abbazia e al suo servizio funebre, tenuto dall'abate in persona, erano presenti solo i suoi parenti più stretti, in piedi intorno alla tomba. Gunhild stava accanto a sua figlia, a suo genero e a Waltehof, che era riuscito ad arrivare da Allerdale proprio quella mattina. Poco più in là c'erano sua cognata Agnes con il marito Enisant, e suo cognato Robert.

Eccoli lì, non poté fare a meno di pensare Gunhild osservandoli. Ecco gli avvoltoi che vengono a scarnificare la carcassa finché è ancora calda.

Perché se c'era una qualità del marito che non aveva mai potuto negare era stata la sua generosità, verso tutti.

Alain era stato più che generoso con quel branco di arroganti parvenus, la cui unica fortuna nella vita era stata nascere suoi parenti. Quando Alain aveva assicurato a Robert che lo avrebbe reso abate di una ricca abbazia non aveva mentito. Cinque anni prima aveva ultimato la costruzione della grande abbazia benedettina di St. Mary a York insieme al nuovo re Guglielmo II.

E puntualmente – come Alain aveva promesso - Robert era stato nominato abate, con sua immensa soddisfazione. E Agnes e Enisant sguazzavano nelle ricchezze che le signorie assegnate loro da Alain gli avevano portato.

“Cognata” la salutò freddamente Agnes alla fine della funzione.

“Le mie più sentite condoglianze Contessa” aggiunse Enisant più gentilmente, baciandole la mano.

“Contessa Vedova” puntualizzò malignamente Agnes, con una certa soddisfazione.

Gunhild soppesò brevemente la donna. Il tempo, e i sei figli che aveva messo al mondo non erano stati clementi con Agnes. Era la creatura meno attraente che avesse conosciuto, arcigna e sformata, assomigliava molto più al fratello Robert, che non ai fratelli maggiori.

Come se mentalmente lo avesse chiamato, proprio in quel momento anche Robert si fece avanti.

“Sappiate che inoltrerò una petizione perché mio fratello venga riseppellito nella mia abbazia, a York, con tutti gli onori dovuti al suo rango” dichiarò in tono petulante.

Gunhild li squadrò tutti e tre con una smorfia di disgusto. Arroganti e insopportabili.

“Cari cognati, credo che sia il minimo che possiate fare per mio marito, dopo aver preso tanto da lui in tutti questi anni senza aver dato nulla in cambio” commentò Gunhild con il sorriso sulle labbra, piantando in asso i tre e lasciandoli a fumare dalla rabbia.

Mentre si allontanava riuscì a cogliere con la coda dell'orecchio il commento sdegnato di Agnes al marito. “Come si permette quella... quella sassone! Io non mi faccio trattare così da una come lei!”

E Enisant che cercava di calmarla ricordandole che si trovavano in un luogo sacro.

“Sanguisughe!” borbottò Gunhild quando ebbe raggiunto Waltehof e Matilda.

“Qualcosa vi ha turbato Milady?” chiese Waltehof sollecito.

Gunhild sorrise: in tanti anni non aveva mai avuto il coraggio di chiamarla “madre”.

“No, Walt. Niente può turbarmi quando sono con voi due. Sei stato un tesoro a venire fin qui da Allerdale.”

“Avrei solo voluto arrivare prima, e avere il tempo di dirgli addio” disse lui, le labbra contratte e l'espressione trasfigurata dal dolore. Era diventato un uomo, pensò Gunhild con nostalgia, e anche un bell'uomo: alto, biondo e con le spalle larghe, un vero erede del retaggio sassone. Ma dietro quell'aspetto fiero lei poteva ancora scorgere il ragazzino tutt'ossa con la zazzera di capelli biondi che era stato tanti anni prima e che aveva guardato a lei come a una madre.

“Non dire così Walt” intervenne Matilda con gli occhi lucidi. “Sai che la tua presenza ci è di grande conforto.”

“Mi dispiace non averlo potuto salutare, Tilda. Sai che è stato come un padre per me.”

“E tu eri un figlio per lui, il figlio che non ha mai avuto. E sarai sempre il mio fratellone” disse di slancio Matilda, prendendogli la mano.

“Come stanno i bambini Walt?” chiese Gunhild. Lei aveva fatto da madrina alla sua omonima, la piccola Gunnilda, che doveva avere intorno ai quattro anni adesso.

“Benissimo. Alain è ormai un ometto e Gunnilda è il ritratto di sua madre. E il piccolo Gospatric ha appena imparato a camminare...”

“Tu e Sigrid siete davvero fortunati. E io sono felice per voi due...”

“Grazie Milady... anch'io lo sono molto. E in parte lo devo anche a voi.”

“No, Walt, sono io che sono in debito con te... e con te, Matilda. Voi siete stati la mia più grande gioia. Durante i miei primi anni di matrimonio sarei impazzita dalla nostalgia e dalla solitudine se non avessi avuto voi.”

“Oh, madre...” mormorò Matilda, con gli occhi lucidi, abbracciandola. “Chi è che vi ha fatto inquietare?” aggiunse dopo qualche momento, ricordando improvvisamente di ciò che avrebbe già voluto chiedere.

“Sono arrivati i tuoi zii, Agnes e Robert. Non li hai visti?”

“No, li noto ora. Credo che dovrò andarli a salutare.”

“Temo di sì... tuo zio Etienne ha mandato un messo, ha fatto sapere di essersi messo in viaggio, ma non so quando arriverà.”

Quando l'ultimo fratello fosse arrivato a Bury St. Edmunds quasi tutti i Penthievre d'Inghilterra sarebbero stati riuniti, perché Brian, Conte di Cornovaglia, era morto qualche anno prima.

Quasi tutti.

“E l'altro fratello di papà, il suo omonimo Alain? Non è venuto anche lui?”

Gunhild sentì un tuffo al cuore nel sentir pronunciare il nome di Alain ad alta voce. Da quanto non accadeva? Anni. Suo marito Alain, ferito dal fatto che il fratello in cui aveva riposto tante speranze avesse fatto perdere le proprie tracce, aveva smesso di menzionarlo da almeno dieci anni. Alain il Nero non era venuto al funerale di suo fratello, e per la verità nessuno sapeva dove fosse.

“Pare di no” stava commentando Waltehof. “Eppure a lui più di tutti dovrebbe interessare, visto che è l'erede del Conte.”

In quel momento Gunhild si rese conto di aver completamente dimenticato che ora Alain era il nuovo Conte di Richmond.

 

Quella sera arrivò al castello anche il fratello più giovane della famiglia, Etienne, accompagnato da sua moglie Havise. Gunhild non lo aveva mai incontrato prima, né lo aveva conosciuto Matilda. Ci furono le presentazioni di rito, le condoglianze e le frasi di circostanza. Non appena Matilda, da brava castellana, fu uscita per accompagnare Havise nella sua stanza, Etienne andò da Gunhild e le parlò senza senza mezzi termini.

“Cognata, credo che dovremmo parlare delle terre di mio fratello.”

Qualcun'altro avrebbe potuto esserne infastidito, invece Gunhild apprezzò tanta schiettezza.

Si accomodarono intorno al tavolo, insieme a Walter e Waltehof.

“Lui deve rimanere? Questi sono affari che riguardano la famiglia” disse Etienne con un cenno in direzione di Waltehof.

“Waltehof è più che un membro della famiglia, cognato. Non andrà da nessuna parte” fu la risposta ferma e decisa di Gunhild.

Etienne sembrò accettare la spiegazione della cognata e non insistette oltre. Decisamente questo figlio cadetto del conte di Phentièvre era un uomo pragmatico e di poche parole.

“Voi sapete bene che le terre di mio fratello il Conte sono immense, attraversano questo paese da costa a costa” iniziò Etienne, guardando i presenti uno ad uno negli occhi. “Il suo legittimo erede è nostro fratello Alain; gli ho scritto ma non ho ancora avuto una sua risposta. Ma è di vitale importanza che venga a prendere possesso delle sue terre, che convochi i suoi vassalli e mostri che è pronto a governare, o da qualche parte, in qualunque momento, qualcuno di loro potrebbe approfittarne per dare fastidio al proprio vicino o occupare un castello che non gli compete.”

Gunhild dovette riconoscere che si trattava di un discorso perfettamente sensato. Etienne era il vero fratello di Alain il Rosso e di Alain il Nero: intelligente, capace e di bell'aspetto, proprio come loro.

“Forse è opportuno che voi torniate a Richmond” intervenne Walter rivolgendosi a Gunhild “Se la Contessa Vedova si troverà nel centro nevralgico delle proprietà del Conte, sarà come mettere in chiaro che la situazione è sotto controllo.”

“Buona idea” osservò Etienne.

“Ma Lady Gunhild non può viaggiare sola! Ora non solo è la vedova dell'uomo più ricco d'Inghilterra... è anche una proprietaria terriera suo jure. E sapete quanto me che non mancheranno coloro che penseranno di rapirla e costringerla al matrimonio solo per rubare le sue terre” protestò Waltehof, prendendo per la prima volta la parola.

“Giusto... ci vuole qualcuno che accompagni la Contessa Vedova fino a Richmond...”

“Lo farò io!” intervenne Waltehof.

“Walt, no!” protestò Gunhild. “Non posso chiederti questo. Sigrid e i bambini hanno bisogno di te.”

“Non ci metterò molto. Una volta che vi avrò visto al sicuro a Richmond tornerò ad Allerdale.”

“Non se ne parla!”

Walter e Etienne seguivano lo scambio di battute con uno sguardo perplesso.

“Vi prego, voi e il Conte avete fatto tanto per me. Lasciatemi ricambiare per il poco che posso. Ve ne prego, madre...”



Angolo Autrice: Ed eccoci al capitolo svolta. Sono passati tanti anni, e come avete letto molte cose sono cambiate. La storia volge al termine e può darsi che il prossimo capitolo sia anche l'ultimo. Come avrete capito la malattia che porta Alain il Rosso alla morte è la rabbia, di cui nel medioevo si conosceva qualcosa (ma non troppo). Nella fase finale della malattia ho preferito evitare ad Alain (che mi è diventato simpatico nel corso della storia, al contrario di ciò che pensavo inizialmente) la più diffusa fase "rabbiosa" e scegliere quel 25% dei casi in cui si verifica la cosiddetta fase "paralizzante". Il cronista dell'epoca che parlava della sua morte diceva solo che era morto improvvisamente e in circostanze particolari, e nel pensare a cosa potesse essergli successo mi è venuta in mente questa soluzione.
Grazie come al solito a tutte le ragazze che recensiscono e a tutti voi che leggete e seguite.
Alla prossima!

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


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Agosto 1093

Abbazia di Wilton, Wessex, Inghilterra

 

Gunhild non sapeva cosa l'avesse spinta a fare tappa, durante il suo viaggio, nel luogo dove non metteva piede da più di vent'anni. Forse il fatto di essere finalmente una donna libera, di poter decidere della sua vita, anche di visitare il luogo dove suo marito non l'avrebbe mai lasciata andare, per timore che chiedesse asilo e da lì non riuscisse più a farla venir fuori.

Quando aveva chiesto a Waltehof di fare quella piccola deviazione a Wilton, lui aveva alzato un sopracciglio interrogativamente, ma non aveva fatto domande. Sapeva del suo soggiorno all'abbazia e del suo noviziato quando era ragazza, anche se non conosceva le esatte circostanze che l'avevano portata ad abbandonare quel luogo e il proposito di prendere il velo. Ma tanto dovette bastargli perché non aveva chiesto altro, aveva guidato semplicemente la scorta verso Searesbyrig.

Gunhild e Waltehof salirono i gradini di pietra che portavano all’ingresso del monastero. Uno dei cavalieri della scorta batté pesantemente con la mano inguantata sul portone di solida quercia. Venne ad aprire una giovane monaca, che, fattoli accomodare, andò subito a chiamare la badessa. Quando la donna entrò con sua grande sorpresa Gunhild poté guardare negli occhi un'invecchiata, ma perfettamente riconoscibile, Cathryn. La sua vecchia amica aveva fatto carriera a Wilton fino ad acquisire il grado più alto possibile per una donna. Gunhild si chiese se il Vescovo suo padrino ci avesse messo una buona parola.

Cathryn non si scompose quando incrociò lo sguardo di Gunhild. La sua proverbiale calma, che tante volte l'amica le aveva ammirato da ragazze, era ancora intatta. Come se non l'avesse lasciata che da pochi giorni, Cathryn andò dritta da lei e la strinse in un abbraccio.

“Bentornata amica mia” le disse con un sorriso. “Perché non facciamo una passeggiata e parliamo? Ti farà piacere rivedere questi luoghi dopo tanti anni...”

Gunhild annuì. Chiese a Bridgit e Waltehof di aspettarla lì e seguì Cathryn.

Come uscito da un sogno si ritrovò di fronte il chiostro del monastero tra le cui colonne aveva riposato tante volte durante i suoi anni di noviziato, i cui fiori aveva curato e in cui aveva passeggiato quando era pensierosa. La luce che all'esterno sembrava ferire gli occhi, fra le mura dell'abbazia era calda, morbida e rassicurante. A Gunhild nessun posto era mai parso tanto bello. “Ti avevo detto di non andare quel giorno. Avevo paura che non fossero i tuoi fratelli...” le disse improvvisamente Cathryn che aveva avuto quel rimpianto sulla punta della lingua per tutta la vita.

“Se solo ti avessi dato ascolto...” sospirò Gunhild.

“Allora, cosa ti è successo in tutti questi anni? Ho saputo che ti sei sposata...”

“Non per mia volontà, né per mia scelta come sai. Ho avuto una figlia, Matilda, e un figlio adottivo.”

“Quell'uomo che ti ha accompagnata qui?”

“Come sapevi che era lui?”

“Sono una buona osservatrice. Ti guarda con l'ammirazione e l'amore di un figlio.”

“E tu, come hai trascorso tutti questi anni?”

“In pace e in preghiera. Non avrei potuto chiedere di più. Tra queste mura i giorni sono scanditi solo dal calare e dal sorgere del sole.”

“Già” disse Gunhild tra se e se, poggiando le dita su una colonna e guardando il cielo soprastante il chiostro. “Sono stata davvero felice qui, dopotutto.”

“Credevo che non ti avrei più rivista in questa vita. Cosa ti ha portata qui, adesso?”

“Mio marito è morto pochi giorni fa” disse Gunhild volgendosi di nuovo verso l'amica, mentre un refolo di vento le passava tra i capelli. In lontananza si udì il verso di un falco selvatico. “Ora sono libera di decidere di me stessa per la prima volta nella mia vita.”

“Sei tornata per restare?” chiese Cathryn.

“Io... non lo so. Non ora, comunque. C'è una persona che devo rivedere... alcune cose che devo ancora scoprire.”

“Questa persona che devi rivedere è un uomo?”

“Sembra che tu riesca a leggermi nel pensiero” sorrise Gunhild.

“Ho imparato a conoscere le persone, perfino da qui dentro” disse semplicemente Cathryn alzando le spalle.

“Non so neppure io perché sono venuta qui oggi. Volevo rivederti, rivedere questo luogo...”

Cathryn le prese le mani. “Questo luogo aiuta a capire, non è vero?”

Gunhild annuì.

“Torna a casa, parla con quest'uomo” le disse abbracciandola. “E se dopo vorrai qui ci sarà sempre un posto per te.”

 

 



Settembre 1093

Richmond Castle, Northumbria, Inghilterra

 

Il nervosismo afferrò Gunhild nel momento in cui varcò la soglia del castello di Richmond.

Pur di ritorno nella familiare dimora la Contessa Vedova si sentiva irrequieta come un animale selvatico chiuso in gabbia: passava da un'attività all'altra senza trovare pace, aveva i nervi a fior di pelle, scattava per ogni stupidaggine.

Andò avanti così per una settimana finché una frustrata Bridgit non la prese per le spalle e le chiese, esasperata, cosa diavolo avesse.

Erano arrivati a Richmond già da qualche settimana. Waltehof era rimasto alcuni giorni, per essere sicuro che Gunhild non avesse bisogno di nulla. Sembrava quasi preoccupato di lasciarla sola e tornare ad Allerdale. Alla fine fu Gunhild che, quasi sgridandolo come faceva quand'era bambino, gli ordinò di tornare immediatamente a casa dalla sua famiglia, rassicurandolo che lei se la sarebbe cavata benissimo.

A dirla tutta le era dispiaciuto immensamente vederlo andare via, proprio come quando aveva detto addio a Matilda, ma Sigrid e i bambini avevano bisogno di lui e lei era capacissima di badare a se stessa. E per una settimana sembrava veramente che fosse così.

Poi era giunto un messaggio di Alain, le prime parole che riceveva da lui dopo diciannove anni. In realtà non erano proprio parole dirette a lei. Il messaggio era indirizzato ai consiglieri e, per conoscenza, anche a lei. Ed era evidente quindi che non poteva trattarsi di parole d'amore. Alain informava solo che era venuto a conoscenza della morte del fratello, per il quale era addolorato, e che si era messo in viaggio verso Richmond per reclamare la sua eredità.

Gunhild era rimasta spiazzata da quel messaggio così freddo, ed anche un po' delusa. Poi aveva pianto e si era data mentalmente della stupida: cosa si aspettava dopo tutto quel tempo? Erano trascorsi diciannove anni. Una vita. Doveva tenersi pronta a tutto. Forse lui si era sposato, forse aveva avuto dei figli. Probabilmente si sarebbe presentato con consorte e pargoli al seguito. La nuova contessa di Richmond e i loro eredi. Alain avrebbe anche potuto pretendere che lei facesse fagotto e lasciasse il castello su due piedi. Per fortuna non avrebbe dovuto elemosinare per una rendita, come tante nobili vedove erano costrette a fare. Era anche lei una proprietaria terriera. Ma il pensiero della propria sicurezza monetaria la consolò ben poco. Su tutto primeggiava il suo cuore addolorato.

Dopo settimane di agonia riuscì finalmente a sfogarsi con Bridgit.

“Non devi angosciarti così!” l'aveva rimproverata l'amica. “Qualunque cosa Alain abbia scelto di fare in questi anni tu devi essere pronta ad accettarlo. Non puoi biasimarlo se avesse preso moglie. Cosa avrebbe dovuto fare? Tu eri sposata!”

Quelle parole dure le fecero meglio di una dubbia rassicurazione e di una pacca sulla spalla.

Gunhild fu grata come non mai a quell'amica fedele che a differenza di Maud, che aveva lasciato il suo servizio per occuparsi di marito e figli, pur di starle accanto non si era mai sposata.

Per frenare il nervosismo Gunhild aveva quindi deciso di non restare con le mani in mano: se si fosse tenuta impegnata non avrebbe avuto modo di girare sempre intorno agli stessi pensieri morbosi. Impiegò un gran numero di servi e diresse un vero e proprio rimodernamento del castello. Ispezionò personalmente tutto il mobilio e sostituì alcuni pezzi antiquati con dei nuovi ordinati su misura. Controllò le provviste di cibo, rimpinguò la dispensa e ordinò nuove spezie. E, visto che l'inverno era prossimo, presiedette alla salatura della carne e alla cardatura e filatura della lana.

Fece pulire ogni angolo più remoto del castello, spolverare ogni singolo granello di polvere e sbattere tutti i tappeti, cambiare lenzuola e coperte ad ogni letto. Il castello sembrava sotto assedio dall'interno, talmente tante erano le serve che passavano da una stanza all'altro, pulendo, lavando e arieggiando. Coordinò personalmente ogni operazione, e alla fine della settimana si ritrovò stanca, ma soddisfatta.

 

“Quella tenda è da sostituire, non vedi che è tarmata lì in alto? Dovremo farne cucire una nuova” disse Gunhild al servo che era salito su uno sgabello per staccare la cortina di un letto a baldacchino.

Era scesa la sera, ma Gunhild non intendeva abbandonare il lavoro a metà.

“E' che questa stanza è usata di rado” commentò Bridgit con le mani sui fianchi e lo sguardo rivolto in alto. “Dovremmo avere ancora della stoffa adatta, altrimenti la ordineremo.”

In quel momento un servo entrò piuttosto trafelato.

“Milady, il Conte... intendo il nuovo Conte è qui, è appena arrivato!”

Gunhild sentì un groppo in gola.

“E' qui? Dove lo avete fatto accomodare?”

“E' di sotto Milady, nella sala. Chiede di vedervi immediatamente.”

“Non lo hai sistemato nelle camere padronali?” chiese Bridgit.

“No signora, non ha voluto. Io ho provato a dirglielo, ma lui ha detto che voleva prima di tutto parlare con sua cognata e che il resto avrebbe aspettato. Proprio così ha detto.”

Gunhild cercò di ritrovare la propria compostezza. “Ditegli che lo riceverò fra pochi minuti nel mio salotto. E per favore, sistemate i suoi uomini e provvedete a tutto.”

“Molto bene Milady” disse l'uomo e corse via.

“Calmati ora” disse Bridgit guardando l'amica dritta negli occhi. Gunhild fece un profondo respiro e annuì.

Si osservò nello specchio e fece in tempo a notare con panico crescente l'abito non particolarmente elegante e un po' impolverato che aveva indossato per dirigere la pulizia delle ultime stanze. I capelli erano acconciati in una semplice e pratica treccia. I suoi capelli erano la sua unica vanità e non li aveva mai tagliati. Ormai le arrivavano fin quasi all'incavo delle ginocchia.

Mentre si guardava continuava a lisciarsi nervosamente la gonna, finché Bridgit le mise una mano sul braccio.

“Stai benissimo, non angosciarti. Andiamo da lui.”

Gunhild fu grata del sostegno morale e materiale di Bridgit mentre entravano nella stanza dove le aspettava Alain. Cosa avrebbe fatto nel vederlo? Come avrebbe reagito? Voleva vederla così frettolosamente per dirle che doveva lasciare Richmond seduta stante?

Come uscito da un sogno o da un passato troppo remoto per essere ricordato, Alain era lì, in piedi, con la mano poggiata sullo schienale di una sedia. Non era cambiato molto in quegli anni, aveva conservato il suo fascino. Solo qualche capello bianco nella chioma corvina rivelava il tempo che era trascorso.

Gunhild fece qualche passo incerto verso di lui. Un groppo le chiudeva la gola e il sangue le martellava nelle orecchie. Si guardò intorno in cerca della moglie di Alain, ma non c'era nessuna donna, nessun'altro lì oltre loro.

Gunhild e Alain si guardavano negli occhi da una certa distanza, come se tutti e due avessero paura di compiere un passo verso l'altro.

Non si accorsero nemmeno che Bridgit era uscita con discrezione, lasciandoli soli.

“Alain...” cominciò con voce tremula. “Come stai?” Che cosa stupida e banale da dire, ma in quel momento non le venne in mente altro. La sua mente sembrava girare a vuoto.

Lui sembrò leggerle nel pensiero: “Non sei cambiata affatto...” commentò guardandola dritto negli occhi.

“Nemmeno tu...”

Senza che quasi Gunhild se ne rendesse conto Alain percorse a passi rapidi la breve distanza fra di loro, la prese tra le braccia e la baciò con passione appena contenuta. Gunhild non esitò a contraccambiare, lasciando che lui la stringesse a sé, perdendosi tra le sue labbra, sentendosi al sicuro come sotto una campana di vetro che era in grado di proteggere lei e Alain da qualsiasi interferenza del mondo esterno.

Rimasero ancora un po' abbracciati, poi lei si riscosse, come se l'avesse colta un pensiero improvviso. La campana di vetro si sollevò, lasciando che i problemi della vita quotidiana li travolgessero di nuovo.

“Dovresti presentarti ai consiglieri, radunare i vassalli... mostrargli che il legittimo conte di Richmond è arrivato nei suoi domini. Nessuno sa che sei qui” osservò Gunhild con preoccupazione.

“Ci sarà tempo per questo. Ho atteso diciannove anni per poterti fare questa domanda e non intendo attendere un minuto di più. Gunhild, figlia di Harold, Principessa d'Inghilterra e Contessa di Richmond... vuoi diventare mia moglie?”

Gunhild rimase senza parole. Era accaduto l'impensabile, ciò che Alain le aveva detto a Londra si stava avverando sul serio. Tornerò da te solo quando potrò reclamarti come mia moglie legittima, aveva promesso. Ed ora stava mantenendo la sua promessa.

Gunhild si passò la lingua sulle labbra secche. “Ascolta c'è una cosa che non ti ho detto l'ultima volta in cui ci siamo incontrati. Io... non posso avere altri bambini a causa della difficile nascita di Matilda.”

“Non mi importa.”

“Ma non potrai avere un erede...”

“In nome di Dio Gunhild, pensi che ti abbia aspettato tutta la vita solo perché cercavo un erede?” disse Alain esasperato. “Avrei potuto prendermi una moglie in tutti questi anni se avessi voluto un erede legittimo non credi? Tutto ciò che voglio sei e sei sempre stata tu!”

La baciò di nuovo, e tenendola ancora tra le braccia le mormorò con la bocca sulla bocca: “La mia domanda è ancora valida. Vuoi diventare mia moglie?”

“Sai, prima di incontrarti credevo che non avrei mai desiderato il matrimonio. E infatti non è il matrimonio che voglio... io voglio te.”

“Questo era un sì?” chiese Alain divertito.

“Era un sì” sorrise Gunhild.

“Bene, allora andiamo!”

“Dove?” chiese lei perplessa.

“A sposarci”

“Ma... Ora?... Così?” Gunhild si osservò il semplice abito macchiato e prese tra il pollice e l'indice un lembo del velo spiegazzato: non era certo una tenuta adatta ad un matrimonio. Ed anche Alain indossava ancora gli abiti impolverati e gli stivali che aveva usato per cavalcare. ”Ma devo cambiarmi d'abito. Guarda come sono vestita!” protestò.

“L'abito che hai andrà benissimo. Ti ho già detto che non intendo aspettare un attimo di più. Vieni!” replicò prendendola per la mano e spalancando la porta.

“Bridgit!” chiamò. “Trova il prete. Tiralo giù dal letto se necessario.”

“Milord...?” domandò Bridgit, che non era certo di aver capito bene.

“Mi serve il prete al più presto Bridgit. Dobbiamo celebrare un matrimonio.”

 

Fortunatamente padre Alfred si trovava già nella cappella di Richmond, intento con uno dei suoi chierici a riporre gli oggetti da messa.

Si voltò con ancora un calice d'oro in mano e si trovò faccia a faccia con la Contessa Vedova, la sua dama e un uomo che non conosceva, alto, con i capelli neri e l'espressione enigmatica ma decisa.

“Contessa... a cosa devo la vostra visita? Cosa succede?”

“Padre, questi è Alain, il nuovo Conte di Richmond.”

L'uomo impallidì dalla sorpresa; non si aspettava di trovarsi di fronte il suo nuovo signore.

“Milord, quale onore! Quando siete arrivato?”

“Poco fa. Padre, non ci girerò intorno: ho bisogno che celebriate il mio matrimonio qui e subito.”

“Ma, Milord... chi è la vostra promessa sposa?”

Alain prese una mano di Gunhild tra le sue e la fece avanzare in modo che fosse chiaro il suo messaggio.

“V-voi Milady?” l'uomo strabuzzò gli occhi. “Ma... ma la Contessa Vedova è vostra cognata! Tutto ciò è alquanto irregolare Milord.... avrete bisogno di una dispensa del Santo Padre di Roma...”

“Non abbiamo tempo per questo, padre” Alain fece rapidamente passare di mano un sacchetto pieno di monete. “Confido che potrò contare sulla vostra sollecitudine. Come vostro nuovo signore ve ne sarei immensamente grato.”

Gunhild cercò di trattenersi dal ridere nel vedere la faccia di Padre Alfred, rossa come quella di un peperone, mentre l'uomo faceva da arbitro nella lotta tra la propria coscienza e il sacchetto d'oro che teneva in mano, cui si sommava la benevolenza di cui avrebbe goduto col nuovo conte.

“Sarò felice di unire in matrimonio voi e Lady Gunhild, se è quello che entrambi desiderate” concluse alla fine delle sue ponderazioni. “Avete dei testimoni?”

“Lo farò io” disse Bridgit facendo un passo avanti. Gunhild le sorrise, grata.

“Bene, un testimone lo abbiamo. Credete che il vostro chierico sarebbe disposto a fare da secondo testimone?”

Così una manciata di minuti dopo, appena sufficienti a padre Alfred a tirare di nuovo fuori i calici e il pane consacrato, e Gunhild si trovò per la seconda volta di fronte a un prete in procinto di sposarla, e in una cerimonia altrettanto improvvisata e frettolosa. Ma stavolta colui che aveva accanto a sé era l'uomo che l'amava come mai un uomo avrebbe potuto amare una donna. Stavolta l'uomo che pronunciò i voti insieme a lei era l'uomo che lei aveva scelto.

Non appena suggellati i voti nuziali con un bacio, Gunhild era ufficialmente di nuovo la Contessa di Richmond... ma stavolta non avrebbe potuto esserne più felice.

 

Quella sera finalmente Gunhild e Alain poterono giacere l'una tra le braccia dell'altro senza paura, senza doversi più nascondere da niente e da nessuno. Erano marito e moglie ora, e Gunhild rimirò la fede nuziale che portava al dito con tanta meraviglia quanto un tempo aveva osservato la precedente con disperazione. Dopo l'amore rimasero svegli a lungo a parlare, semplicemente godendosi la vicinanza l'uno dell'altra.

“Mi trovi ancora bella dopo tutti questi anni?” chiese Gunhild, colta da un'improvvisa insicurezza “Non sono più una ragazzina.”

Alain la guardò con il suo solito sorriso ammaliante. “Si vede che non ti guardi molto spesso in uno specchio amore mio. Sei più bella dell'ultima volta che ti ho vista.”

“Adulatore!” rise lei, ancora indecisa se credere alle sue parole o considerarle una generosa bugia.

“C'è una cosa che non ti ho detto... ma forse sei già venuta a saperla?” disse Alain.

“Cosa?” si allarmò Gunhild. Che lui si fosse sposato dopotutto? Che le avesse mentito prima? Forse stava per dirle che aveva dei figli, legittimi o illegittimi, da qualche parte lì fuori...

Per un attimo il panico l'afferrò allo stomaco.

Alain non si accorse del suo turbamento e proseguì. “Il 24 di agosto è morto mio fratello maggiore Geoffroi, il conte di Penthievre.”

“Venti giorni precisi dalla morte di Alain?” chiese Gunhild, con un misto di sollievo e genuina sorpresa. “Una ben strana coincidenza!”

Geoffroi era diventato conte nel 1079, alla morte di Eudes. Gunhild ricordava che quello stesso anno suo marito, affranto per la perdita del padre, aveva donato ingenti proprietà all'abbazia di Swavesey per garantire la salvezza della sua anima. Gunhild non lo aveva accompagnato in quell'occasione, ma a fare da testimoni alla firma dell'atto di donazione erano stati i suoi fratelli illegittimi Bardolf e Ribald.

“Non immagini cosa significa?” continuò Alain.

“Brian è morto... mio marito è morto...” elencò Gunhild ragionando tra sé e sé. “Geoffroi non aveva figli?”

“Solo uno illegittimo, Conan.”

“Santo Cielo! Ma allora sei anche il nuovo conte di Penthievre!” esclamò. “Alain te ne rendi conto? Possiedi metà dell'Inghilterra, e ora uno dei feudi più importanti di Francia!”

“Frena il tuo entusiasmo amore mio” disse Alain divertito dalla sua spontaneità. “Ho rinunciato a Penthievre. Il nuovo conte è mio fratello Etienne ora.”

“Ma... perché?” chiese Gunhild sinceramente perplessa.

“Se avessi tenuto il titolo avrei dovuto passare molto tempo in Normandia, dividermi tra la mia vecchia patria e l'Inghilterra. Questo avrebbe significato dover stare molto tempo lontano da te... e io ho già trascorso troppo tempo lontano da te. Non voglio che uno stupido feudo ci divida proprio ora che ti ho ritrovata.”

Gunhild sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Alain aveva rinunciato a tanto per lei senza chiederle nulla in cambio. Le lacrime scesero a rigarle le guance, e d'impulso lo baciò gettandogli le braccia al collo.

“Perché piangi amore mio?” le chiese lui asciugandole una lacrima con un bacio.

Gunhild sorrise. “Tanto tempo fa la regina Matilda mi chiese se il mio matrimonio con tuo fratello mi avesse portato qualcosa di buono. Non le ho mai risposto perché ho sempre creduto che la risposta fosse no. Ma poi ho realizzato che se fossi rimasta a Wilton, se avessi preso i voti, avrei avuto di certo una vita più serena. Avrei potuto dedicarmi allo studio, come ho sempre voluto. Ma se Alain non mi avesse strappata a quel monastero non ti avrei mai conosciuto... ecco cosa mi ha portato di buono il mio matrimonio. Mi ha portato te.”

 

 

Una settimana più tardi Alain organizzò un grande banchetto che avrebbe visto riuniti molti suoi vassalli e, allo stesso tempo, sarebbe stato il festeggiamento delle sue nozze.

Il primo matrimonio di Gunhild era stato piuttosto frettoloso: la cerimonia era avvenuta in fretta e furia e Alain il Rosso non aveva indetto nessun festeggiamento, troppo intento ad evitare che la neo moglie gli scappasse da sotto il naso e a cercare di ottenere le sue terre. Anche il secondo matrimonio era stato celebrato su due piedi a dir la verità, ma questo non le dispiaceva affatto.

Ora che però aveva finalmente la possibilità di avere un ricevimento degno di tale nome Gunhild voleva apparire al meglio. Indossò uno degli abiti più belli che possedeva, all'opposto dell'abito sciatto che aveva indossato per la cerimonia. Era di un bianco candido, con lo scollo, l'orlo della gonna, la lunga cinta ricamate in un azzurro intenso. Era confezionato con una stoffa finissima, quasi eterea. Metteva in risalto il suo incarnato chiaro e gli occhi blu, il castano dei suoi capelli ancora privo di fili bianchi. Nessun altro abito, per quanto lussuoso, le donava come l'abito bianco, e Gunhild lo sapeva. Mise anche una coroncina d'argento intrecciato per tenere fermo il velo, e una collana e dei bracciali in argento, dono di nozze di Alain.

Quando fece il suo ingresso in sala il mormorio sommesso che suscitò tra gli astanti le confermò che Alain non le aveva detto una bugia. La sua bellezza era ancora intatta, ancora in grado di suscitare ammirazione negli uomini.

“Mi sento nervosa come non mai” mormorò Gunhild a Bridgit che camminava appena un passo dietro di lei. “I vassalli non sanno del nostro matrimonio. E se non lo accettassero?”

La capacità di Bridgit di rassicurarla si rivelò ancora una volta preziosa. “Lo accetteranno... anzi, ne saranno entusiasti perché preferirebbero cento volte la loro Contessa ad una perfetta sconosciuta.”

Alain andò loro incontro e Gunhild pensò che anche suo marito - come le sembrava strano riferirsi ad Alain così – era davvero bello. I suoi profondi occhi azzurri e il suo sorriso avrebbero sciolto un pezzo di ghiaccio.

Alain le prese la mano e se la portò alle labbra. “Sei uno splendore, moglie mia” e mentre Gunhild cercava di nascondere il fatto che era diventata rossa come una ragazzina la condusse al posto accanto al suo al centro della tavola, mentre centinaia di occhi li seguivano.

A metà banchetto Alain si alzò in piedi e prese la parola, facendo cessare il brusio dei commensali.

“Amici miei, oggi siete qui come miei ospiti, per rinnovare il giuramento di fedeltà che tanti anni fa faceste a mio fratello. Ma prima che arrivi quel momento, ho un altro importante annuncio da fare. Tutti voi conoscete molto bene la Contessa di Richmond, che è stata la consorte di mio fratello per più di vent'anni. Ora è di nuovo la vostra contessa perché ella è diventata mia moglie. Vi prego quindi di brindare con me alla mia incantevole sposa!”

Ci fu un momento di silenzio attonito alla rivelazione, ma fu solo un attimo.

“Dio benedica il conte e la contessa!” gridò l'assemblea riunita, levando i calici alla coppia.

Alain e Gunhild alzarono le loro coppe in risposta, poi si guardarono negli occhi sorridendosi, come se non esistesse nessun'altro attorno a loro.

“Non vuoi sapere qual'è il mio dono di nozze?” le sussurrò Alain.

Gunhild sollevò i polsi a mostrargli i due bracciali in argento massiccio.

“Mi hai già dato il tuo dono di nozze.”

“Ho un altro dono per te, molto più importante...” disse prendendole una mano tra le sue e carezzandole il polso con il pollice.

Gunhild si chiese si cos'altro potesse trattarsi: Alain le aveva già dato tutto. L'aveva aspettata una vita intera, anche se lei era sposata con suo fratello, aveva rinunciato alle signorie dategli dal fratello prima e ora al titolo di Conte di Penthievre per lei...

“Che ne diresti di andare a vivere a Middleham?” disse improvvisamente Alain, interrompendo i suoi pensieri.

Gunhild lo guardò sorpresa “Dici sul serio?”

“Mai stato più serio” rise Alain, mentre la sorpresa della moglie si tramutava in un sorriso raggiante.

Gunhild resistette all'impulso di baciarlo, perché sarebbe stato indecoroso per una signora del suo rango davanti a tutti i nobili riuniti.

“Grazie” gli disse in un soffio, stringendo la sua mano come se non volesse lasciarla più. Ed effettivamente era proprio così.

Si chiese cosa avrebbe detto sua nonna, suo padre, se avessero potuto vederla ora, felice e sposata con un normanno. Gunhil alzò per un momento gli occhi al cielo, come se la sua famiglia la potesse vedere dall'alto. Sorrise: ne sarebbero stati felici, di questo era sicura.

 

 

 

 

Angolo Autrice: Ed eccoci arrivati alla fine, con molta tristezza (almeno da parte mia^^). Ma la storia di Gunhild è giunta al termine, diciamo al suo “lieto fine”. Spero di aver raccontato al meglio le vicissitudini di questo personaggio storico che mi ha colpito da subito. Quindi, con un po' di malinconia, lascio Gunhild e Alain a godersi la ritrovata felicità. Spero che tutti voi abbiate gradito la storia.

Ringrazio in particolare: innominetuo, Cordelia89, Franci893, MamW, Framboise, Ormhaxan (autrice anche del bellissimo banner), DivergenteTrasversale, Crilu_98, Betta_99 (e spero di non aver scordato nessuno^^)…. grazie per il vostro continuo supporto e i vostri apprezzamenti. Hanno significato il mondo per me! Grazie anche a tutti voi che avete letto, seguito, preferito e ricordato.

Un grande abbraccio e alla prossima!

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