Ride The Tornado

di megatempest
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** School's Out ***
Capitolo 2: *** Super Collider ***
Capitolo 3: *** Hit The Lights ***
Capitolo 4: *** Seek and Destroy ***
Capitolo 5: *** Youthanasia ***
Capitolo 6: *** No Life 'Til Leather ***
Capitolo 7: *** Static Age ***
Capitolo 8: *** Jump In The Fire ***



Capitolo 1
*** School's Out ***


School's Out
Capitolo I
 
Tempest's POV
Come tutti i giorni la sveglia suonò, con quel rumoraccio metallico che tutte le mattine mi faceva fare un salto nel letto. Con un calcio tolsi le coperte e mi alzai, ancora visibilmente assonnata. Mi trascinai fino alla finestra, coperta da delle tende pesanti e polverose. Con un immenso sforzo le tirai e i raggi del sole colpirono i miei occhi con violenta potenza.
<< Ahi! Diamine, perché a Giugno deve esserci sempre questo odioso sole? >> borbottai.
Mi diressi verso il mio armadio, tappezzato di adesivi e poster delle band che andavano di voga in quel periodo: Iron Maiden, Black Sabbath e Mötör Head. Spalancai le ante e mi chinai a cercare fra i cassetti una maglietta decente. In quel momento… BANG! La paletta del mio basso elettrico mi colpì violentemente in testa, facendomi imprecare nel più peggiore dei modi.
<< Sbrigati Tempest! O farai tardi a scuola! >>. Questa era mamma, che mi ricordava tutte le mattine il luogo odioso che accoglieva fiumi di ragazzine urlanti e di ragazzi trasandati.
Mi vestii in fretta, presi il mio zaino, pieno di toppe hard rock, e corsi giù dalle scale.
7.58! Mancavano due minuti all’arrivo dell’autobus! E io come al solito ero in ritardo. Presi la tazza colma di latte che era sul tavolo e cercai di berla più veloce che potevo ma… purtroppo, come mio solito, mi ingozzai e tossii cosi forte che metà del contenuto della tazza si riversò sul pavimento, facendo andare su tutte le furie mia madre.
<< Corri e ‘va a scuola! Veloce! >> urlò lei. Io mi precipitai fuori dalla casa, in tempo per vedere l’autobus giallo che si allontanava dalla fermata.
<< Aspetti! La prego!! >> urlai io, mentre cercavo in qualche modo di raggiungere il mezzo.
Troppo tardi… aveva già svoltato dietro al grande palazzo rosso mattone che stava alla fine della mia via.
Rassegnata, mi sistemai lo zaino in spalla e mi incamminai.
Stavo attraversando la strada, quando un furgoncino tutto scassato per poco non mi investii. Mi spostai di scatto e urlai al guidatore: << ma che cazzo fa? Stia attento mentre guida! >>.
Il furgoncino si fermò. Per un momento pensai di scappare; forse ero stata un po’ troppo volgare…
La portiera si aprì e, invece di vedere un grasso uomo calvo sudaticcio, uscì un ragazzo abbastanza magro e alto, con una chioma riccia color biondo rame che gli arrivava quasi fino al petto, che mi fissò per pochi secondi.
<< La prossima volta stia più attento a dove va! Potevo rimanerci secca! >> brontolai io. Il ragazzo rise, poi tornò serio e mi porse le sue scuse. Dal furgoncino spuntò la testa di un altro ragazzo. Questo aveva una faccia più o meno triangolare, degli occhietti vispi verdi e dei capelli castano chiaro, un po’ più lunghi di quelli del suo compare, ma che parevano abbastanza lerci.
<< Hey Dave! Sbrigati, non abbiamo mica tempo da perdere con le ragazzine che girano per strada! >> urlò.
<< Ragazze? >> borbottò una terza voce, che suonava bassa e leggermente impastata.
Spuntò sopra la testa del ragazzo con i capelli castano chiaro un altro tipo. Stavolta questo aveva i capelli biondi, ricci e lunghi (oramai avevo capito che mi trovavo di fronte a dei nascenti metalheads, come li si chiamava in California), degli occhi azzurro cielo e una faccia simile a quella di un cucciolotto. Indubbiamente quelli erano tipi molto interessanti.
<< Uh che bella tipa! >> disse il biondo. Era visibilmente ubriaco. Evidentemente quella era una di quelle giovani band che nascevano qui a Los Angeles, destinate ad una vita poco breve.
<< Sali Dave! Rimorchierai tipe un altro giorno cazzo! >> esclamò il ragazzo dagli occhi verdi, che doveva essere il più piccolo del gruppo, considerata la sua faccia ancora da ragazzino.
<< Cazzo Lars, mi stavo scusando con la ragazza! >> gli rispose Dave, che si stava visibilmente scocciando.
<< Mi scusi ancora, bella signorina >> concluse infine. Fece una specie di inchino e salì di nuovo sul furgone. Pochi istanti dopo quello si stava allontanando.
Diamine! La scuola! Presi a correre a per di fiato. Erano ormai le 8.25 e io non ero ancora entrata in classe.
Aprii la porta che conduceva all’atrio con non poca violenza e lo attraversai a passo svelto, cercando di prendere fiato. Quando entrai in classe, la professoressa di Matematica mi fissò con disprezzo.
<< Ancora in ritardo eh Jackson? >> sbraitò lei.
<< Scusi signora Fisher, ma oggi mentre venivo a scuola a piedi, avendo perso l’autobus, un furgoncino di metallari mi ha quasi investita… >> dissi giustificandomi.
<< E domani che scusa mi racconterà? Insomma signorina, lei ha 17 anni, che pretende di fare con queste ignobili giustificazioni? Lei sa che fra un anno sarà m-a-g-g-i-o-r-e-n-n-e? >>.
Stetti zitta; sapevo che avrei dovuto rispondere a quella vecchia insolente, e ricordarle che…
<< Ma per fortuna non ci sarà un domani! >> aggiunse sollevata la Fisher << oggi è l’ultimo giorno di scuola per voi, piccole canaglie! >>.
Andai a sedermi al mio posto. Meraviglioso. Visto la recente discussione, la mia migliore amica Alex si era spostata vicino al figo della scuola, un certo Saul Hudson. Era un tipo carino, capelli neri a cespuglio, pelle scura (probabilmente era afro-americano, non sapevo quasi nulla di lui) e un bel faccino.
Invece, vicino a me, era seduto Ellefson. Era un ragazzino non molto alto, capelli ramati e… un’odiosa passione per il Glam.
Mi sedetti vicino a lui, un po’ riluttante.
Avrebbe cominciato a parlarmi dei KISS, la sua band preferita.
Infatti così fece.
Dopo un quarto d’ora di operazioni condite da racconti su Ace Frehley e compagnia, gli intimai: << cazzo, smettila. Non me ne frega una beata minchia dei tuoi KISS e delle stupide band che senti. Ora lasciami dormire >>.
Detto questo buttai la penna nell’astuccio e mi misi con la testa sul banco. Avvertii gli occhi della professoressa fissarmi, ma me ne fottei altamente.
Quella giornata era già abbastanza schifosa.

Dave's POV
Quella mattina mi svegliai piuttosto presto per i miei standard. Alle 7 del mattino mi strascinavo stanco nella cucina di quella topaia che era il mio appartamento. Spalancai il frigorifero e il poco latte che era rimasto nel cartone che la sera prima avevo scolato per quasi tre quarti finì in terra. Guardai inebetito la chiazza biancastra che brillava in controluce; poi preferii rimediarmi un’altra colazione.
Afferrai due birre Heineken che stavano nel fondo del frigorifero. Quando le aprii, sprizzarono lievemente: sembrava stessero ad aspettare solo me.
Dopo avermele scolate e aver buttato giù qualche porcata presa a caso nel frigorifero, mi diressi in bagno. Mi lavai e mi sistemai un poco la mia massa informe di capelli rosso rame.
Mi infilai dei jeans a vita alta, una t-shirt e le mie All Star bianche con una stella rossa.
Pigliai dal divano la mia B.C. Rich e l’amplificatore, che avevo sistemato con poca cura in un angolo, e uscii di casa.
In strada, mi aspettava un furgoncino in pessime condizioni, con a bordo Lars e James: il batterista e il chitarrista/cantante della mia band, i Metallica.
Attraversai la strada e aprii lo sportello del retro per depositare gli “attrezzi del mestiere”. Ero felice di vedere i ragazzi, se non altro ci saremo divertiti a suonare assieme.
<< Ciao fratello Mustaine >> borbottò James, che stava sdraiato a pancia all’aria fra i grossi amplificatori e i rullanti della batteria di Lars. Evidentemente si era ubriacato già di prima mattina.
<< Ciao Dave, come butta? >> mi disse allegramente Lars.
Raccontai un po’ della mia serata, mentre saltavo sul sedile del guidatore.
Accesi il furgone e partii, mentre con gli altri mi scambiavo qualche battuta.
Stavo tagliando la strada, quando una ragazza, che sembrava spuntata all’ultimo minuto, attraversò, rischiando di finire contro il parabrezza. Girai di colpo, mettendo il furgone in obliquo in mezzo alla carreggiata, e frenai.
Sentii la ragazza urlarmi degli insulti. Non mi feci molti problemi, se non altro era viva, solo un po’ spaventata.
<< Dio santo che cazzo è successo?! >> urlò James, che era finito fra le due chitarre e i piatti della batteria.
<< Dave guarda se non è morta! >> mugolò Lars. Non capivo perché facessero tanto i cagasotto.
Non stetti a discutere; aprii la portiera e scesi.
<< La prossima volta stia più attento a dove va! Potevo rimanerci secca! >> brontolò una ragazza piuttosto alta, che indossava dei jeans stracciati, uno smanicato in pelle e degli stivali che parevano essere di un pessimo cuoio.
I lunghi capelli castani con qualche sfumatura rosso-rame ondeggiavano di tanto in tanto, mossi dal vento. Doveva essere una studentessa, a giudicare dallo zaino.
<< Hey Dave! Sbrigati, non abbiamo mica tempo da perdere con le ragazzine che girano per strada! >> mi sbraitò Lars da dietro. Aveva cacciato fuori la testa dalla vettura, non tanto per chiamarmi ma, a parer mio, per guardare la tipa. Non era male, dovevo ammetterlo.
<< Ragazze? >> borbottò James, che ogni qualvolta sentiva quella parola diventava fottutamente curioso. Infatti anche lui sbirciò fuori.
<< Uh che bella tipa! >> disse poi. La ragazza sembrava visibilmente sconcertata. Forse non aveva mai visto così tanti “metalheads” (così ci chiamavano in California). Doveva esserlo anche lei, anche se era evidente dal suo vestiario una vena hard rock e forse anche un po’ punk.
<< Sali Dave! Rimorchierai tipe un altro giorno cazzo! >> esclamò Lars, che doveva aver finito di lustrarsi gli occhi.
<< Cazzo Lars, mi stavo scusando con la ragazza! >> sbottai io, anche se non avevo ancora spiaccicato parola.
<< Mi scusi ancora, bella signorina >> conclusi io, facendo una sottospecie di inchino per fare un po’ lo scemo.
Salii sul furgone e misi in moto, raccomandandomi di stare più attento per il resto del tragitto.
Più avanti vidi la ragazza correre a lunghe falcate per entrare in un vecchio edificio. Che tipa, pensai. Io avevo mollato la scuola già da un po’, me ne fotteva poco di quello schifoso posto, a parte per racimolare dell’erba.
Facevo uso di sostanze stupefacenti già da quando ero un ragazzo. In breve mi ero trasformato in un ottimo pusher. Ora quello, oltre che a fare musica, era il mio lavoro.
Mentre parcheggiavo il furgone davanti alla casa del nostro bassista, Ron McGovney, ripensai alla ragazza: al suo viso smarrito, ai suoi lunghi capelli e ai suoi occhi opale, tanto sconcertati quanto ribelli.
Avrei voluto rivedere quella ragazza, se non altro pareva avere un bel davanzale e anche un culetto elegante. Ma, stranamente, non erano le qualità fisiche ad attirarmi, di lei. Forse era il modo, forse il contrasto fra l’apparenza e il carattere: sembrava una ragazzina di 18 anni, forse un poco più giovane, visto che andava ancora a scuola; appariva piuttosto fragile, anche se non del tutto. Aveva delle belle gambe, di sicuro era abituata a correre, magari proprio per non arrivare tardi a scuola, pensai ridacchiando. Aveva un carattere molto ribelle però. Solitamente le ragazze che conoscevo erano piuttosto educate, mentre lei non si era fatta molti problemi a insultarmi a gran voce. Questa cosa mi piaceva. Le donne con un certo caratterino mi erano sempre piaciute.
Lars mi riportò alla realtà con una delle sue frasi poco simpatiche: << ma cosa fai? Ti sei innamorato? Forza, muovi il culo che i soldi non crescono mica sugli alberi! >>.
Scaricai gli amplificatori da solo, anche se James avrebbe dovuto aiutarmi. Crollò a metà strada lamentandosi di avere una forte nausea. Gli rimasi perciò a debita distanza, non avevo certo voglia di assistere a spettacoli poco gradevoli.
Accordai la mia chitarra e la collegai all’amplificatore. Appena cominciai a suonarla tutti i pensieri martellanti, i problemi e le paranoie svanirono. Amavo suonare, soprattutto per quel motivo: potevo dimenticarmi tutto e sentirmi me stesso, almeno finché Lars o qualcun altro non avrebbe cominciato a rompere il cazzo, come di solito succedeva.

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Capitolo 2
*** Super Collider ***


Super Collider
Capitolo II

Tempest's POV
Ci fu un forte suono, simile a quello della sveglia. La differenza era che questo significava libertà, gioia e… insomma, la fine della scuola!
Nello stesso istante in cui la campanella suonò, una trentina di teste si sollevarono all’unisono dai banchi, e altrettanti ragazzi e ragazze urlarono di gioia. Molti buttarono per terra quaderni, fogli e matite, altri saltarono sui banchi per raggiungere prima la porta dell’aula.
Una massa informe di gente cominciò a fuoriuscire dalla porta. Il mondo della gioventù, dell’anarchia e del frastuono collise con quello della tranquilla Los Angeles.
Uscii dall’aula fra gli ultimi, non mi piaceva ammassarmi per uscire. Nei corridoi c’era odore di tabacco, panini farciti e… erba. Decisi di non fermarmi e mi incamminai verso casa.
Le strade erano affollate da ragazzi di tutte le età che chiacchieravano e giocavano. Io invece ero da sola.
Camminavo guardandomi gli stivali rovinati, mentre la gente si chiedeva perché non fossi in giro con la mia compagnia a festeggiare un giorno così importante per gli adolescenti.
Entrai in casa e Joy, la mia sorellina, mi corse in contro e cominciò a raccontarmi come aveva vissuto l’ultimo giorno di scuola. Non ascoltai una parola di quello che diceva, figuratevi se mi interessavano le cazzate che una bambina di nove anni aveva da dirmi.
Presi dal frigorifero un panino, lo mangiai e andai su in camera. Attaccai all’amplificatore Bomber, il mio Precision della Fender, e lo accesi. Cominciai a suonare il mio repertorio, che comprendeva pezzi Jazz, Blues, Rock e del primo Heavy Metal.
Erano le 3 del pomeriggio quando decisi di uscire.
Salutai mamma, che era appena rientrata dal lavoro, presi qualche soldo, misi il mio chiodo in pelle nera, mi infilai gli stivali e uscii.
Camminavo da sola per le strade di Los Angeles. Il frastuono che circa tre ore prima infestava la città pareva non essere mai esistito. Aveva cominciato a soffiare un venticello fresco e sembrava quasi che il tempo si stesse fermando.
Si udì un suono grave. Un orecchio distratto non l’avrebbe quasi percepito. Ma io, che lo conoscevo bene, alzai la testa e cercai subito di individuarne la provenienza.
Non sembrava venire da nessuna casa che avevo intorno. Perciò cercai di seguirne la frequenza. Ci impiegai un bel  po’.
Stavo camminando in un vicoletto, quando mi accorsi che il suono proveniva da dietro un muro. Mi avvicinai e saltai su uno dei cassonetti posti li vicino. Mi alzai sulla punta dei piedi e guardai.
C’era un palcoscenico allestito, ed una band che stava suonando. La cosa che mi colpì all’istante però fu il loro bassista. Questo ragazzo aveva una chioma rossa, che sbatteva su e giù, a destra e a sinistra. Quello era l’headbanging. Però, non erano di certo i suoi bei capelli che mi attiravano quasi come una calamita. Era il modo in cui suonava il basso. Lo distorceva con un pedale wah wah, muoveva la mano destra come se fosse una macchina da corsa, e altrettanto faceva con la sinistra. Suonava il suo strumento quasi fosse una chitarra.
Rimasi incantata per qualche minuto. Poi mi baluginò un’idea: volevo vederlo da vicino.
Scesi dal cassonetto e cercai l’entrata del posto. Era una specie di palazzetto in una zona che conoscevo abbastanza bene, anche se lì non c’ero mai entrata. La sera doveva esserci una festa, ed era stato ingaggiato questo gruppo per suonare.
TRAUMA. La band si chiamava così. Erano di uno stile particolare, un misto fra Blues e Heavy Metal.
Entrai nel palazzetto e mi avventurai nel prato, dove era allestito il palco. C’era già molta gente, chi preparava la festa, chi cercava di scroccare del cibo, chi ascoltava la musica e chi era ai piedi del palco a guardare la band.
Mi feci strada e mi sedetti vicino al palco. Cominciai a fissare il bassista. Lo stile in cui suonava mi aveva catturato. Suonava passaggi non semplici mentre continuava a muovere quei capelli leggermente crespi, che fluttuavano con il venticello che soffiava.
Ad un certo punto, i miei occhi e i suoi si incrociarono per un istante. Uno solo, ma che fu più potente di una scarica elettrica. Il ragazzo sapeva che io ero lì per lui.
Stetti al palazzetto fino alle 7.30, ora in cui i ragazzi staccarono e andarono a mangiare. Fui tentata di andare a complimentarmi con il misterioso bassista ma, un po’ per la timidezza, un po’ per la fame che cominciava a venirmi, decisi di andarmene.
Uscendo, la mia attenzione venne attirata dal cartellone posto sul cancello d’ingresso, dove avevo letto il nome della band. Oltre a quello, c’era scritto anche l’orario dell’inizio del concerto, le 9 di sera.
Pensai che quella sera sarei tornata lì per vedere la band in azione. Dopotutto, non suonavano così male.
Entrai in un pub lì vicino e, dopo aver avvisato mia madre con il telefono del posto che sarei tornata sul tardi, mi sedetti al bancone.
<< Vorrei del Jack Daniel’s… >> dissi mentre ripensavo a quanto mi era capitato prima.
Mentre stavo per dare i soldi al barista qualcuno mi interruppe.
<< Lascia stare, pago io stasera >> disse Dave, il ragazzo che la mattina mi aveva quasi investita.
Io sgranai gli occhi, incredula. Di tutta risposta lui si mise a ridere di gusto.
<< Piacere, sono Dave Mustaine >> disse porgendo la mano.
<< Tempest Jackson, il piacere è tutto mio >> risposi io, ancora visibilmente scossa per la comparsa improvvisa del ragazzo.
<< Sono entrato qua e ti ho vista. Ho pensato di farmi perdonare per stamattina, visto che i miei compagni non me ne hanno dato la possibilità >>.
Cominciammo a parlare. Scoprii che Dave suonava in una band da poco formata, i Metallica, composta da James Hetfield (il ragazzo biondo), Lars Ulrich (il ragazzo più giovane) e un certo Ron McGovney. Si dilettavano a suonare qualche loro composizione, aggiungendo alcune cover, visto che il loro repertorio era ancora piccolo. Dave era il chitarrista solista, e aveva quasi 21 anni.
Mangiammo qualcosa, e parlammo dei nostri gruppi preferiti. Come me, Dave amava gli Iron Maiden. Gli piacevano molto anche i Mötör Head, ma era in fissa con i Budgie. Io li avevo solo sentiti nominare.
Posai per sbaglio l’occhio sull’orologio posto sopra il bancone del bar.

Cliff's POV
Quando salii sul palco finalmente mi sentii a casa. Quello era il mio spazio, il mio territorio, il mio campo di battaglia.
Non ero certo uno di quei tipi definibili come “animali da palcoscenico”, ma quando avevo puntati addosso gli occhi della gente ci davo sotto. E così facevo anche quando suonavo.
Il mio Rickenbacker 4001 vibrò lievemente appena gli amplificatori si accesero, il che mi caricò ulteriormente: avrei picchiato duro.
Cominciai a suonare i patterns delle varie composizioni della mia band, i Trauma. Facevamo musica che univa sonorità Heavy Metal con quelle Blues, adatte soprattutto ad un basso solista, cosa che io facevo piuttosto bene. Non me la tiravo per questo. Non mi facevo figo solo perché me la cavavo piuttosto egregiamente a suonare il basso o per la mia propensione a suonare e scrivere musica. Non amavo vantarmi. Davo il meglio di me sotto ai riflettori, poi scollegavo lo strumento e tornavo a livello terra, dove ero perfettamente uguale a tutti gli altri.
Premetti il pedale wah wah collegato al mio basso e ascoltai l’effetto psichedelico che aggiungeva al suono: quello per me era adrenalina pura.
Iniziai a muovere in avanti e indietro la testa. Lo facevo molte volte, soprattutto per tenermi rilassato e non sovraccaricarmi eccessivamente, sennò avrei cominciato a saltellare come una molla in giro per il palco, cosa che preferivo non fare, visto la quantità immensa di cavi e amplificatori.
Dunque, iniziai a sbattere la mia chioma di capelli rossi, suscitando l’ammirazione dei ragazzini che erano ai piedi del palco.
Spesso, mentre suonavo, mi divertivo ad osservare le persone che si avvicinavano curiose e a guardare le loro facce. Mi sembrava una cosa parecchio interessante, visto che detestavo cominciare a scrutare un punto fisso all’orizzonte per rimanere concentrato. Amavo anche fissare tutta quella gente negli occhi. Forse, quelli erano lo specchio dell’anima? Sicuramente quello non lo sapevo, e francamente non mi interessava. Mi piaceva e basta.
La mia attenzione venne attirata da una ragazza che si era seduta vicino al palco, che aveva preso a fissarmi con interesse. Aveva dei lunghi capelli castani che le ricadevano ordinatamente sulle spalle, arrivandole quasi fino alla vita. Per un momento il mio sguardo incontrò il suo. Quello che sentii fu indescrivibile. Potente come una scarica elettrica e distruttivo come un uragano.
Mi osservò per il resto delle prove, finché non scenderemmo dal palco, verso le 7.30. La vidi alzarsi e andarsene in silenzio e senza farsi troppo notare, come quando arrivò.
Mi domandai chi fosse per un po’, poi lasciai perdere. Avevo visto tantissime ragazze come lei. Eppure, anche se cercavo di convincermi con quell’idea, in cuor mio sapevo che lei era in qualche modo diversa, diversa da tutte le altre. Chissà, pensai, magari un giorno l’avrei incontrata di nuovo? L’unica cosa certa era che se avrei dovuto rincontrarla sarebbe stato il destino a decidere per noi.

Dave's POV
Gironzolavo da metà pomeriggio senza una meta ben precisa. Avevo fumato un bel po’ di erba a casa di Ron e stranamente nessuno aveva scassato, cosa rara in una band come la mia.
Mentre guardavo distrattamente le persone che camminavano sul lato opposto del marciapiede, notai una ragazza con dei capelli molto più lunghi del normale. Mettendo a fuoco bene... era quella che la mattina avevo rischiato di investire, e che mi aveva tenuta impegnata la testolina per un tempo piuttosto discreto (considerato che amavo provarci con le ragazze ed ero un tipo piuttosto lunatico).
Entrò in pub irlandese; sapevo che lì si beveva della buona birra così pensai di provare ad attaccarci bottone.
Entrai poco dopo di lei, in tempo per sentirla chiedere al barista del Jack Daniel’s. Mi intromisi con disinvoltura.
<< Lascia stare, pago io stasera >> dissi buttando qualche dollaro sul bancone prima che lei tirasse fuori i suoi.
Di tutta risposta, si girò e mi guardò allibita, spalancando i suoi occhi castano-verde contornati da una linea di matita nera. Risi di gusto. Mi piaceva il suo faccino. Soprattutto quando riuscivo a coglierla di sorpresa.
Dopo aver smesso di sghignazzare, le porsi la mano: << piacere, sono Dave Mustaine >>.
<< Tempest Jackson, il piacere è tutto mio >> mi rispose timidamente. Rimasi colpito dal suo nome, veramente strafigo.
<< Sono entrato qua e ti ho vista. Ho pensato di farmi perdonare per stamattina, visto che i miei compagni non me ne hanno dato la possibilità >> le dissi io, cercando di fare il ragazzo gentile e premuroso.
Ci sedemmo ad un tavolo e cominciammo a parlare.
Osservai prima il suo viso. Era indubbiamente una ragazza molto carina: si truccava bene per valorizzarsi gli occhi, anche se forse esagerava un po’ con la matita, aveva un naso leggermente all’insù e una bella bocca. La forma delle labbra era perfetta, a parer mio: fosse stata una groupie e me la sarei limonata più che volentieri.
Notai poi che doveva avere anche un bel sorriso. Non mi pareva però sorridesse spesso; si limitava ad alzare leggermente gli angoli della bocca ogni tanto...
Ma non mi soffermai troppo sui dettagli.
I lunghi capelli lisci e color castano scendevano delicatamente sulle sue spalle, ma non coprivano la parte che in quel momento mi interessava vedere. Il chiodo che indossava aveva una scollatura centrale, che mi permetteva di lustrarmi bene gli occhi: doveva avere quasi una quarta, anche se non ne ero completamente sicuro (ci sapevo fare, ma delle taglie non sapevo molto).
Intanto, le parlai dei Metallica: le illustrai la line up e dei brani che eseguivamo.
Scoprii che Tempest era una bassista e che aveva 17 anni. Rimasi abbastanza stupito. Ora che l’avevo vista da vicino sembrava molto più grande. Però alla fine 4 anni non erano tanti; non mi sarei fatto molti problemi a tirar storia con una minorenne, anche se avrei dovuto prestare un po’ più di attenzione.
Ascoltava più o meno la mia stessa musica: le piacevano molto i Mötör Head, e gli Iron Maiden erano la sua band preferita. Conosceva di nome anche i Budgie, una band poco conosciuta che però mi aveva fatto impazzire.
All’improvviso scattò in piedi. Sembrava si fosse dimenticata di qualcosa. Con velocità mi salutò.
<< Hey hey, aspetta un secondo! Mi verrai a vedere una volta a suonare? Mi piacerebbe vederti fra il pubblico! >> dissi in fretta, sperando di trattenerla ancora un po’.
Mi promise di si. Le diedi il mio numero di casa, pensando che almeno il giorno dopo mi avrebbe richiamato.
Poi uscì dal locale e scomparve nel buio della notte.
Diamine, me l’ero lasciata scappare.

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Capitolo 3
*** Hit The Lights ***


Hit The Lights
Capitolo III

Tempest's Pov
9.30 p.m. Il concerto! In fretta salutai Dave, che parve leggermente offeso dalla mia reazione improvvisa. Mi diede il suo numero di casa e mi disse che gli sarebbe piaciuto vedermi una volta fra il pubblico della sua band. Gli promisi che sarei di sicuro venuta a vederlo.
Uscii quasi di corsa. Mi precipitai al palazzetto. La band stava già suonando da quasi tre quarti d’ora, e il bordo del palco era già circondato. Mi buttai nella mischia. Pogai fin quando riuscii a raggiungerlo. Potevamo quasi toccare i musicisti. Mi sistemai ai piedi del bassista.
Lui, per un istante, mi guardò. Io ricambiai.
Feci headbanging e urlai per tutto il resto del concerto. Cantavo i ritornelli dei testi, che erano abbastanza facili da imparare e, assieme agli altri metallari, saltai puntando indice e mignolo al cielo.
Fu un concerto a dir poco meraviglioso. L’immagine di quel bassista mi aveva ormai catturato.
Finirono di suonare poco dopo la mezzanotte.
Quando lo show finì, fu il momento dei complimenti e dei primi autografi. Decisi che quello era il momento buono per andare a complimentarmi con il bassista.
Aspettai che la band riponesse il materiale e, quando scesero dal palco, alcuni loro amici li accerchiarono. Cominciarono a farli complimenti, a congratularsi con loro. Soprattutto, notai un po’ più gente attorno al bassista. Decisi di immischiarmi fra loro.
<< Bravissimo Cliff! >>, << sei stato un grande amico! >> e frasi simili venivano ripetute a ruota dai ragazzi che mi circondavano. Il ragazzo si limitava a ringraziare, a sorridere e a prendere qualche amichevole pacca sulla spalla. Finalmente toccò a me.
Mi feci avanti e dissi: << io… ehm… non ci conosciamo, ma ti ho visto suonare. Mi ha colpito molto il tuo stile… non ho mai visto nessuno così bravo… diventerai di certo un grande bassista >>.
La gente che mi stava attorno si zittì all’istante, mettendomi in imbarazzo.
<< Grazie mille… >> risposte il ragazzo. Era a corto di parole, notai.
<< Be… arrivederci e grazie per la musica >> conclusi io. Mi girai e me ne andai.
Uscii dal palazzetto e… mi ricordai dove ero e, soprattutto, l’ora. Quella zona di Los Angeles non era certo una delle più sicure, soprattutto la notte. Mi appoggiai in un luogo abbastanza riparato e cominciai a riflettere.
<< Vuoi che ti accompagni a casa? Non deve essere una buona idea girare da sole a quest’ora… >> disse qualcuno.
Misi a fuoco la figura. Era il bassista o, da come avevo capito, Cliff.
<< Oh… si… molte grazie! >> risposi io. Mi avvicinai piano a lui.
<< Scusa, non mi sono ancora presentato. Mi chiamo Cliff Burton >> mi disse porgendomi la mano.
Io la strinsi e mi presentai.
Ci avviammo verso casa mia.
Fu lui a rompere il ghiaccio: << allora… ti piace il modo in cui suono? >>.
<< Si, sei veramente bravo. Anche io suono, cioè… sto imparando... >>
<< Bello, non capita tutti i giorni di trovare una bassista! >> disse lui ridendo.
Mi sentii quasi lusingata.
Cominciammo a parlare. Cliff Burton era un ventenne nato a Castro Valley, vicino a San Francisco. Suonava il basso da più di cinque anni; come me, prima di suonare questo strumento aveva suonato il pianoforte. Era una persona estremamente educata; per carità, non era certo un santo! Ma in confronto ai ragazzi metallari che conoscevo, lui suonava stranamente “pulito”.
Da quello che mi raccontò, mi parve un ragazzo molto diligente, che non amava perdere molto tempo e, nelle cose che amava fare, ci metteva il cuore.
Come tipo mi piacque subito; oltre al buon carattere, era anche un gran figo. Soprattutto per quei capelli rossi. Fin dall’inizio notò che gli avevo puntato gli occhi addosso, almeno credo.
In breve tempo arrivammo a casa mia. I miei genitori e Joy dormivano già da molto. Gli chiesi se voleva qualcosa, ma gentilmente rifiutò.
Ci salutammo e rimasi ad ascoltare i suoi passi nel vialetto mentre si allontanava.
Il giorno dopo venni svegliata nel peggiore dei modi.
<< Temp! Temp! TEMP SVEGLIA! >> urlò Joy, saltandomi addosso mentre galoppavo con la fantasia nel mondo dei sogni.
<< Che ca… cavolo vuoi Joy! Non vedi che stavo dormendo?! >> le urlai io, buttandola quasi giù dal letto con uno strattone.
<< Temp c’è uno al telefono che chiede di te! >> piagnucolò lei << dice che se non ti faccio parlare con lui viene e mi rapisce! >>.
Alzai gli occhi al cielo e mi tirai su dal letto. Scesi di sotto e presi la cornetta del telefono.
<< Pronto, chi parla? >> biascicai mentre sbadigliavo.
<< Hey buongiorno! Sono Dave… >> disse il ragazzo dall’altra parte della cornetta.
<< Chi? >> dissi io, che non avevo capito cosa avesse detto, a causa di un enorme sbadiglio.
<< Dave Mustaine… il ragazzo di ieri… >> disse lui con tono meno baldanzoso.
<< Oh cazzo scusa! E’ che… la mia sorellina continua a darmi fastidio >> dissi io per giustificarmi.
<< Non è vero! >> si lamentò Joy.
<< Oh… la bambina? Si… mi ha detto che se provo a palparti o a farti qualcosa lo dice a tua madre >> disse lui ridendo.
Guardai Joy, che stava ascoltando tutto.
<< Joy, chi ti ha insegnato queste brutte espressioni ? Non usarle più o lo dico alla mamma! >> la minacciai sogghignando.
Lei corse via piagnucolando, come suo solito.
<< Comunque… ti volevo chiedere se oggi volevi venire a vedere i Metallica >> chiese Dave.
<< Uhm, non saprei, anche ieri sera sono tornata tardi… >> dissi io dubbiosa.
<< Stasera alle 10 nel locale vicino al parco >> disse << non mancare >>.
Non mi lasciò il tempo di rispondere. Attaccò la cornetta pochi secondi dopo.


Cliff's Pov
Salii sul palco e un boato ci accolse. Ero pronto a sfondare.
Cominciai a suonare e pian piano il palco venne circondato sempre di più da ragazzi. Non vidi, con un po’ di dispiacere, la ragazza del pomeriggio prima.
Mi rassegnai, non l’avrei più vista molto probabilmente. Prevalentemente suonavamo a San Francisco, ed era anche dove abitavamo tutti. Era stato puro caso che, per qualche serata, avessimo avuto l’occasione di suonare a Los Angeles; quella sera era però l’ultima della piccola serie di concerti.
Mi ricredetti però, quando vidi la ragazza sgomitare, saltare e spingere per raggiungere il bordo del palco. Quella visione mi spinse a dare ancor di più il meglio.
Quando arrivò ai piedi del palco, si sistemò proprio sotto di me. Avrebbe potuto toccarmi allungando le braccia da quanto si era avvicinata. La guardai per un istante, e lei ricambiò.
Rimase a guardarmi per tutto il resto del concerto. La sentivo cantare le melodie e urlare i ritornelli delle canzoni, il tutto mentre saltava e faceva headbanging assieme agli altri ragazzi.
Il concerto fu meraviglioso: scesi dal palco enormemente soddisfatto e aiutai a sistemare il materiale. Quando finimmo e uscimmo da dietro il palco, venimmo accerchiati da alcuni metallari che ci chiesero autografi, più qualche nostro amico che era riuscito a venirci a vedere.
<< Bravissimo Cliff! >>, << sei stato un grande amico! >> e frasi del genere mi venivano continuamente ripetute da tutta la gente che mi compariva davanti. Mi limitavo a ringraziare, magari sorridere ogni tanto e incassare qualche pacca sulla spalla dai conoscenti.
Mi trovai davanti poi la ragazza. Ricordo che ne fui stupito. La gente attorno a noi fece di colpo silenzio, mettendola in evidente imbarazzo.
<< Io... ehm... non ci conosciamo, ma ti ho visto suonare. Mi ha colpito molto il tuo stile... non ho mai visto nessuno così bravo...  diventerai di certo un grande bassista >> mi disse, inceppandosi di tanto in tanto mentre parlava.
<< Grazie mille... >> risposi. Fui a corto di parole. Avrei voluto dire qualcosa in più, magari chiederle il suo nome, ma non ero un tipo così aperto e discorsivo.
<< Be… arrivederci e grazie per la musica >> concluse lei, vedendo che rimanevo in silenzio. Girò sui tacchi e se ne andò, seguita da alcuni sguardi di curiosi.
Pian piano la piccola folla scemò, e finalmente riuscii a riprendere un poco di fiato. Decisi che mi sarei fatto quattro passi prima di tornare all’hotel dove stavamo.
Vidi, mentre camminavo, la ragazza appoggiata ad un muro piuttosto riparato, intenta a riflettere, forse sul da farsi. Subito pensai che era leggermente maleducato passarle davanti senza spiaccicare parola e, soprattutto, non offrirsi (come galanteria comandava) di accompagnarla nel posto dove abitava.
<< Vuoi che ti accompagni a casa? Non deve essere una buona idea girare da sole a quest’ora… >> le dissi, avvicinandomi.
La ragazza, dopo avermi messo a fuoco, annuì e mi venne in contro.
Dopo esserci presentati e aver imboccato una strada che portava nel suo quartiere, cominciammo a parlare.
Era una diciassettenne molto sveglia, che amava la musica sia Metal sia Jazz, e per questo si guadagnò subito la mia stima. Come me, suonava il basso elettrico, cosa che mi fece molto piacere.
Tempest parlava in modo piuttosto concitato, tenendo un tono di voce molto basso per non disturbare il vicinato. Avevo ragione, non era per niente come le ragazze che conoscevo: aveva sempre vissuto in un ambiente dove per ottenere qualcosa bisognava lavorare duro, e mi parve una ragazza molto determinata e tosta. Aveva un atteggiamento piuttosto sciolto e a volte leggermente mascolino, e non si faceva mettere sotto da nessuno. Era diretta, e non  si faceva problemi ad esprimere le sue idee, accettandone sempre le conseguenze.
Avevo capito che come tipo le dovevo piacere parecchio, visto che non mi scollava gli occhi di dosso. Questo ebbe un doppio effetto su di me: ero davvero entusiasta, soprattutto perché persone particolari come lei non erano comuni; l’altro lato della medaglia era che purtroppo quella sarebbe stata la prima e l’ultima occasione di vederla, visto che abitavamo in due zone della California che, sia per me sia per lei, erano piuttosto difficili da raggiungere.
Arrivammo presto a casa sua. Mi chiese se volevo qualcosa, ma le risposi che dovevo tornare in hotel.
Mentre percorrevo la strada di ritorno, mi maledissi più volte per non avere accettato, anche se ero piuttosto scorretto visto che avrei di sicuro disturbato.
Sbuffai quando vidi l’insegna dell’hotel spuntare da dietro l’angolo; una volta tanto nella vita avrei voluto tornare indietro e ricominciare tutto da capo.

Dave's Pov
Decisi di chiamarla.
Non riuscivo a togliermi la sua immagine dalla testa. In quel momento mi sembrava la ragazza più bella che avessi mai visto, con quel bel davanzale e quegli occhi profondi.
Tirai fuori l’elenco telefonico e cominciai a spulciarlo impaziente. Finalmente trovai il numero e lo composi.
<< Pronto chi parla? >> disse una voce infantile. Doveva appartenere ad una bambina.
<< Potrei parlare con Tempest Jackson? >> chiesi, cercando di non far percepire il mio tono piuttosto sbrigativo.
<< Si ma chi sei! >> esclamò quella. Mi cominciai ad innervosire, detestavo le bimbette insolenti.
<< Sono un suo amico >> risposi.
<< Ma ce l’avrai un nome! Oppure sei uno dei soliti ragazzi con una scopa in testa che vogliono toccarle le tette e il culo? Guarda che lo dico alla mamma! >> insisté lei.
Non ce la facevo più. Trattenni il ‘vaffanculo’ che mi stava partendo in automatico e risposi in modo più “cortese”: << stai tranquilla, non le farò nulla di male. Devo solo dirle due cose e poi non le do più fastidio, ma se continui a scassarmi i coglioni vengo a casa tua, ti rapisco e ti faccio sbranare dai miei cani >>.
Dovevo essere stato abbastanza convincente, visto che la bambina mugolò spaventata e prese a correre su quelle che mi parvero scale.
<< Temp! Temp! TEMP SVEGLIA! >> urlò poi con la sua vocetta acuta, che mi fece sobbalzare dalla sedia su cui ero seduto.
<< Che ca… cavolo vuoi Joy! Non vedi che stavo dormendo?! >> urlò Tempest. Riconobbi subito la sua voce.
<< Temp c’è uno al telefono che chiede di te! >> piagnucolò la bambina, terrorizzata << dice che se non ti faccio parlare con lui viene e mi rapisce! >>.
Ridacchiai a sentirglielo dire.
<< Pronto, chi parla? >> biascicò la ragazza, mentre sbadigliava.
<< Hey buongiorno! Sono Dave… >> risposi io.
<< Chi? >> chiese lei; probabilmente si era già scordata della sera prima.
<< Dave Mustaine… il ragazzo di ieri... >> dissi io. Mi si abbassò lievemente il tono di voce, forse per la delusione.
<< Oh cazzo scusa! E’ che… la mia sorellina continua a darmi fastidio >> esclamo lei. Quelle parole mi sollevarono.
<< Oh… la bambina? Si… mi ha detto che se provo a palparti o a farti qualcosa lo dice a tua madre >> ridacchiai.
<< Joy, chi ti ha insegnato queste brutte espressioni ? Non usarle più o lo dico alla mamma! >> la sentii dire a sua sorella.
<< Comunque... ti volevo chiedere se oggi volevi venire a vedere i Metallica >> le chiesi appena sentii quello sgorbietto correre via.
 << Uhm, non saprei, anche ieri sera sono tornata tardi... >> disse in tono dubbioso.
<< Stasera alle 10 nel locale vicino al parco; non mancare >>. Attaccai il telefono senza lasciarle il tempo di rispondere. Utilizzavo quella strategia quando le ragazze erano titubanti: alla fine si presentavano sempre, per evitare di sembrare maleducate.
Tempest non era una ragazza difficile; anzi, era meno complicata di altre. Sapevo perfettamente che quella sera l’avrei vista, e non vedevo l’ora di incontrarla.
Non me ne resi subito conto, ma quella ragazza cominciava a piacermi sul serio.

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Capitolo 4
*** Seek and Destroy ***


Seek and Destroy
Capitolo IV

Tempest's POV
Arrivai al posto poco prima dell’inizio dello show. Presi una Heineken e mi sistemai in un punto dove avrei avuto una buona visuale e non sarei stata sballottata da alcuni metallari grassocci e sudaticci che si erano già appropriati delle prime file vicino al palco.
Nel giro di dieci minuti vidi Dave salire sul palco con una B.C. Rich, seguito dal biondo, che mi pareva si chiamasse James, che oltre a suonare la chitarra cantava, e da un bassista ricciolo.
Con un rullo di tamburi, il ragazzino dietro alle pelli diede inizio allo show.
I Metallica non facevano Heavy Metal. Facevano qualcosa di mille volte più bombastico e veloce. Me ne innamorai. Era musica che non avevo mai ascoltato prima. Quello era Thrash Metal puro.
Notai anche che Dave era veramente bravo a suonare. Era molto veloce e allo stesso tempo aveva un sound pesante. Chitarristi come lui non si vedevano certo tutti i giorni.
Lo show passò veloce, anche perché suonarono per due ore scarse. Oltre alla mia birra ne bevvi altre due e, mezza sbronza, mi ero messa a pogare in quel buco assieme ad altra gente. Mi ero messa anche a cantare a squarcia gola una canzone che mi era piaciuta molto, Seek & Destroy, che la band aveva suonato due volte per il bis.
Mentre il posto si svuotava tornai sobria, visto che per i miei standard non avevo bevuto tanto. Odoravo di alcool e puzzavo di metallaro sudaticcio. Decisi di andare ai bagni per darmi una sistemata.
Entrai, mi ripulii e mi riempii del deodorante che avevo nella borsa in pelle. In quelle serate faceva sempre molto comodo, soprattutto quando dovevi tornare a casa. Mi sistemai il trucco, allacciai il chiodo e uscii.
Mi trovai faccia a faccia con il batterista dei Metallica, che allungò subito gli occhi su di me.
Mi defilai. Quel ragazzino? Proprio no.
<< Hey guarda chi si vede! >> era Dave.
Mi girai e lo salutai. Ero felice di vederlo.
<< Ho visto che te la cavi con la chitarra! >> dissi io sorridendo.
<< Si, direi anche bene dai >> disse lui ricambiando il mio sorriso.
Rimasi a chiacchierare con Dave mentre James e gli altri due si sistemavano. Poi mi chiese se volevo bere qualcosa con loro. Io accettai.
Dopo un quarto d’ora io, Dave, James, Lars e due ragazze tettone eravamo in uno squallido pub irlandese. Le ragazze avevano l’aria di essere due groupie, che per giunta non sapevano proprio un cazzo di musica. Continuavano a ridere e a palpottare Lars, mentre io, James e Dave parlavamo leggermente infastiditi.
L’alcool cominciò a girare in elevata quantità.
In poco tempo il nostro tavolo divenne un porcile: le ragazze erano con la testa sul tavolo, che ruttavano e si lamentavano per il mal di testa causato dagli alcolici, mentre Lars e James avevano preso a sputarsi del pane in bocca. Io mi ero scolata altre tre birre, e cominciava a girarmi un po’ la testa. Notai però con sorpresa che Dave aveva bevuto poco, anche se aveva le guance già rosse.
<< Mio dio, mi fate schifo >> disse improvvisamente, dopo l’ennesima sputata di Lars. Si alzò e se ne andò. Ci rimanemmo di stucco. Io lo seguii, visto che anche a me dava abbastanza ribrezzo veder fare porcherie del genere. Lo raggiunsi correndo.
<< Hey, ma che è successo? >> chiesi.
<< Niente... solo che l’alcool mi rende abbastanza nervoso >> risposte lui appoggiandosi una mano sulla fronte.
<< L’importante è che ora vada tutto bene >> dissi io sorridendo.
Camminammo per un po’. Il cielo si era tinto di un nero velluto. Arrivammo in un parco vicino alla zona dove abitavo io e, come scoprii, anche Dave. Era un quartiere non molto ricco, ma comunque molto carino. Dave si sedette su una panchina, e io mi misi vicino a lui. Tirò fuori dal chiodo... uno spinello.
Io lo guardai quasi incredula.
<< Fumi quella roba? Ma sai che fa male? >> dissi io rimproverandolo.
<< La vita è una sola, e io me la voglio vivere bene cazzo >> disse lui ridendo.
<< Faresti bene a farlo anche tu >> aggiunge poi lanciandomi un’occhiatina.
Quella serata fu la prima in cui mi sballai seriamente.
Mi lacrimavano gli occhi. Non tanto per il fumo, ma per le risate. Cercai di alzarmi, ma le gambe non reggevano il mio peso, perciò ricaddi sulla panchina. Appoggiai la testa sulla spalla di Dave.
<< Cazzo non ti eri mai sballata prima? >> disse lui guardandomi.
<< No, ho sempre cercato di tenermi lontana da certa roba >> risposi io stringendomi delle spalle.
<< Bene, allora sono fiero di averti introdotta nel mondo dell’erba! >> esclamò lui ridendo.
Passammo ancora del tempo appoggiati l’uno all’altra. Quando mi fu tornata un po’ di lucidità pensai che era l’ora di tornare a casa. Mi alzai barcollante.
Tornammo a casa inciampando e ridendo tutte le volte che capitava. Dave per poco non mi cascò addosso.
Superato il cancellino di casa mia Dave crollò nel prato.
<< Non ce la faccio più cazzo, sono fuso >> disse ansante.
Mi sdraiai vicino a lui ridendo.
Non mi ero mai sentita così bene. Non riuscivo a non sorridere. Ogni piccola cosa mi sembrava meravigliosa, e suscitava in me una gaia risata.
Anche Dave era meraviglioso.
Gli appoggiai di nuovo la testa sulla spalla.
Lui avvolse dolcemente le sue braccia attorno ai miei fianchi.
I suoi occhi nocciola incontrarono i miei color opale.
Dave fece un mezzo sorriso, poi avvicinò il suo volto al mio.
Appoggiò piano le sue labbra sulle mie e premette delicatamente. Chiusi gli occhi.
Gli passai una mano tra i capelli, e lui mi strinse a se.
Premetti il mio petto sul suo, mentre lui abbassava le mani sul mio fondoschiena.
Lo baciai ripetutamente. Odorava di erba e di pulito.
Continuammo a baciarci fin quando non venni pervasa da un fortissimo senso di sonno. Mi accoccolai fra le sue braccia e chiusi gli occhi. Dave mi accarezzò il viso e mi baciò sulla fronte. Continuammo a coccolarci.
Il cielo era nero pece, ma illuminato da una miriade di stelle, e la luna piena splendeva alta nella notte.
Per la prima volta nella mia vita ero veramente felice, felice come non ero mai stata prima: fatta, fra le braccia di un ragazzo, a guardare il cielo stellato nella bellissima Los Angeles.

Dave's POV
Dal bordo del palco arrivava un vociferare sommesso. Passai la mano lungo il manico della mia B.C. Rich e respirai profondamente: sapevo che era lì fuori, e avrei dovuto dare il meglio di me stesso per farmi notare.
<< Fra quanto si sale gente? >> disse James, accordando la sua chitarra. Come al solito era in ritardo.
<< Dieci minuti >> gli rispose Lars mentre si allacciava i pantaloni in spandex.
Sentivo le mie dita fremere dall’eccitazione. Mi succedeva tutte le volte. Amavo salire sul palco e buttare fuori tutta la rabbia che avevo dentro. E in quel periodo il mio pessimo carattere si faceva spesso sentire.
Non avevo grossi problemi con la band, ma spesso ne venivo eccessivamente infastidito; certo, non era facile sopportare Lars con le sue fesserie da ragazzino, e nemmeno Ron con le sue continue lamentele e leccate di culo. L’unico con cui forse riuscivo ad andare d’accordo era James, anche se seguiva troppo Lars nelle sue bambinate.
<< Ragazzi, si inizia! >> urlò un tecnico.
Uscii da dietro le quinte. Mi avventurai con passo sicuro sul palco.
Sentii il rullo di tamburi di Lars e diedi una forte plettrata alle corde della mia chitarra: lo show aveva inizio.
Suonai tutte le canzoni senza sbavature: le mie dita si muovevano veloci e precise sul manico della B.C. Rich, mentre davo plettrate forti e decise alle corde. Non mi ero mai sentito così vivo.
Il concerto passò con una velocità davvero allucinante. Per ultimo, suonammo il bis di Seek & Destroy, che continuava a conquistare i cuori di tutti i nostri nuovi fan.
Buttai un’occhiata sul pubblico prima di scendere dal palco: non la vidi da nessuna parte. Fu un profondo colpo al mio ego. Non poteva essere.
Buttai la mia chitarra nel fodero e portai i miei amplificatori nel furgone.
Poi uscii da dietro le quinte, in tempo per vedere Lars che quasi sbatteva contro ad una ragazza. Tempest.
Anche lui allungò gli occhi. Lei lo guardò con uno sguardo piuttosto disinteressato e si diresse verso l’uscita.
Era la mia occasione.
<< Hey guarda chi si vede! >> dissi a mezza voce.
Tempest si girò e mi salutò.
<< Ho visto che te la cavi con la chitarra! >> mi provocò sorridendo.
In quel momento avrei voluto prenderla fra le mie braccia e baciarla. Non me ne sarebbe importato né di Lars, né della band. Il mio istinto maschile fremeva dentro al mio petto come un lupo che ulula alla luna.
Mi limitai a risponderle: << si, direi anche bene dai >>.
Cominciammo a parlare del più e del meno, poi la invitai a bere qualcosa con Lars e James. Lei accettò molto volentieri.
Ci recammo in uno squallido pub irlandese. I due raccattarono per strada due groupie (che avevano due tette enormi), che continuavano a ridere fastidiosamente. Mi resi conto che spesso l’apparenza ingannava parecchio: anche se avevano due bei davanzali, non sarei mai andato con due oche simili.
Mi sedetti vicino a Tempest, mentre Lars e le due ragazze cominciarono a scambiarsi battutine e a lanciare insulsi risolini, che infastidirono persino James (che era un tipo piuttosto tollerante). Mi accorsi che non sapevano proprio un cazzo di musica, e che tutto quello a cui erano interessate stava nei pantaloni del nostro batterista.
Non ci pensai più tanto, quando l’alcool iniziò a invadere il nostro tavolo.
Rimasi ad osservare Tempest che si scolava tre birre, mentre io cercai di tenermi a freno: in quegli ambienti dovevo evitare di sbronzarmi, a causa del mio pessimo carattere. Gli alcolici mi rendevano nervoso e irascibile, e spesso tiravo su risse o mi ficcavo nei guai. Quella sera avrei evitato.
La goccia che però mi fece incazzare (anche bevendo una sola birra), fu quando James e Lars iniziarono a sputarsi del pane in bocca, come di solito fanno gli uccelli per nutrire i loro piccoli.
Cominciò a salirmi una forte nausea, accompagnata dal fastidio che le groupie, ormai sbronze, facevano con i loro lamenti accompagnati da frequenti rutti.
In che cazzo di posto ero finito?
<< Mio dio, mi fate schifo >> dissi all’improvviso, dopo che Lars aveva sputato un altro tozzo di pane. Mi uscì quasi spontaneo. Poi mi alzai di scatto e me ne andai. Gli occhi di Tempest mi seguirono fino a quando uscii. Ci erano rimasti tutti di stucco.
Camminai per qualche minuto per la strada. Poi dei passi veloci e leggeri risuonarono dietro di me.
<< Hey, ma che è successo? >> mi chiese Tempest, comparendo al mio fianco e respirando un po’ affannata.
Di nuovo posai gli occhi sul suo petto.
<< Niente... solo che l’alcool mi rende abbastanza nervoso >> le risposi, passandomi una mano sulla fronte, che cominciava a dolermi.
<< L’importante è che ora vada tutto bene >> mi disse, sorridendo.
Come avrei fatto a mantenere le distanze con lei? Quanto ancora potevo reggere?
Camminammo verso il mio quartiere (dove avevo scoperto abitava anche Tempest). Il cielo era nero pece.
Mi sedetti su una panchina di un parco, e la ragazza si mise vicino a me. Per un momento mi chiesi se quello che stavo per fare avrebbe potuto compromettere i nostri rapporti, ma alla fine non ci pensai: stavo andando in astinenza.
Tirai fuori dal chiodo una canna, mentre lei sgranava gli occhi. Dovevo averla lasciata senza parole.
<< Fumi quella roba? Ma sai che fa male? >> disse, rimproverandomi. Risi; in un certo senso mi ricordava mia madre.
<< La vita è una sola, e io me la voglio vivere bene cazzo >> le risposi, appoggiandomi lo spinello sulle labbra e aspirandone l’essenza.
Espirai forte, mentre sentivo l’erba che sballava il mio cervello.
<< Faresti bene a farlo anche tu >> aggiunsi, lanciandole un’occhiatina piuttosto provocante.
Mi guardò, fortemente indecisa.
Mi avvicinai a lei e le misi il joint fra le labbra. Fece uno, due, tre... cominciò a tirare.
Si sballò con poco e molto in fretta.
Cominciammo a ridere a crepapelle, senza una causa ben precisa. Tempest cercò di mettersi in piedi, ma crollò di nuovo sulla panchina. Appoggiò la testa sulla mia spalla; in quel momento un brivido di eccitazione mi percorse la schiena.
<< Cazzo non ti eri mai sballata prima? >> le chiesi poi.
<< No, ho sempre cercato di tenermi lontana da certa roba >> mi rispose, stringendosi un po’ nelle spalle.
<< Bene, allora sono fiero di averti introdotta nel mondo dell’erba! >> esclamai io. E lo ero davvero.
Rimanemmo lì per un po’, guardando il cielo e pippando ogni tanto.
Quando a Tempest fu tornata un po’ di lucidità preferì tornare a casa. Ci alzammo e cominciammo a correre.
Il tragitto fu più lungo del solito, soprattutto perché ogni falcata che facevo avevo l’impressione di cadere, e lo sforzo che facevo era davvero immane. Inciampavamo ogni qualvolta incontravamo un dislivello. Per poco non le finì addosso, anche se fortunatamente non accadde.
Appena arrivammo a casa sua rovinai nel prato: non sarei riuscito a muovere un passo in più; ero esausto. Mi sdraiai, ancora ansante.
Tempest mi si sistemò vicino ridendo.
Era bellissima, continuavo a pensarlo e a ripetermelo.
Mi appoggiò di nuovo la testa sulla spalla; continuava a sorridermi, e nei suoi occhi dilatati dall’erba si poteva leggere una gioia immensa.
Non capii più niente. Mi lasciai andare, ero stufo marcio di fingere, fingere che non provavo niente per lei, fingere che non mi eccitasse il pensiero di poter avere un contatto fisico anche minimo... Le avvolsi le braccia attorno alla vita.
La guardai negli occhi; feci una specie di mezzo sorriso, che probabilmente mi era venuto spontaneo, e avvicinai il mio volto al suo.
Appoggiai le mie labbra sulle sue e cercai di essere il più delicato possibile: anche se avessi voluto, non potevo certo farmela, si sarebbe di sicuro irrigidita.
Chiudemmo entrambi gli occhi; lei mi passò una mano fra i capelli e io la strinsi più forte. Mi doveva essere diventato parecchio duro.
Premette il suo petto sul mio e io le toccai il culo: era perfetto.
Cominciò a baciarmi; ero al settimo cielo. Ce l’avevo fatta.
Dopo esserci pomiciati e aver allungato fin troppo bene le mie zampe, Tempest si accoccolò fra le mie braccia e chiuse gli occhi. La accarezzai sul viso e le diedi un bacio sulla fronte: la amavo. La coccolai fin quando si addormentò.
Non avevo nessuna cognizione psichica, non mi interessava più nulla; volevo vivere quei momenti con la più grande apertura mentale. Dopo tanto tempo, potevo dire di essere felice.

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Capitolo 5
*** Youthanasia ***


Youthanasia
Capitolo V
Tempest's POV
<< Ma che... che caz... dove sono? >> borbottò assonnato Dave.
Aprii un occhio. Mi trovavo sdraiata sul prato di casa mia, mentre Dave era seduto poco distante da me; si stropicciava gli occhi, guardandosi in torno smarrito.
Dovevano essere più o meno le 6 di mattina, visto che il sole stava sorgendo.
<< Siamo nel mio giardino Dave >> mormorai fra uno sbadiglio e l’altro.
<< Dovevo essere proprio fatto. Non mi ricordo un cazzo di quello che è successo >> disse ridendo, cercando di mettersi in piedi.
Ripensai alla serata precedente. Niente. Era come se avessi un grande buco nero. E anche sforzandomi non ricordavo nulla.
Chiusi di nuovo gli occhi e  mi riaddormentai.
<< MAMMA! MAMMA! Temp sta dormendo nel prato! >> urlò Joy precipitandosi fuori dalla porta saltellando.
Mi svegliai di sobbalzo. Dave non era più lì. Doveva essere tornato a casa sua; molto meglio così, almeno non sarebbe finito nei pasticci con i miei genitori ne tantomeno li avrebbe insospettiti. Con una fatica immensa mi misi seduta. Mia madre mi stava fissando dalla finestra di camera mia, mentre mio padre era in piedi vicino alla porta d’ingresso. Entrambi avevano una faccia spaventata e molto irritata.
Mi trascinai in casa. Mio padre mandò Joy di sopra, poi mi guardò incazzato come una bestia.
<< Si può sapere dove eri finita? E che diavolo hai fumato! >> mi urlò addosso.
Lo guardai con faccia ebete. Dovevo fare già un grande sforzo per tenere gli occhi aperti e reggermi in piedi. Lasciai mio padre in cucina, mentre si rimproverava con le solite frasi che un genitore si dice quando il proprio figlio fa una gran cazzata, del tipo: << ma dove ho sbagliato? Ho sempre creduto di essere un genitore modello e ora scopro che mia figlia fa cose del genere >>.
Mi buttai a letto e mi avvolsi fra le coperte.
Stetti una giornata e mezza a letto a dormire. Il massimo che riuscivo a fare era andare ogni tanto al bagno e mangiare qualche biscotto dalla riserva segreta sotto al mio letto.
Mi sentivo uno straccio.
Il terzo giorno mi svegliai più rilassata e mi sentivo molto meglio. Anzi, sembrava non fosse successo niente. Ai miei era passata l’incazzatura, Joy continuava a chiedermi cosa stessi facendo in giardino (anche se nemmeno io lo sapevo bene) e mi era tornata l’esplosiva energia adolescenziale. 
In quei giorni cominciai a studiare e a fare i compiti. Ero bravina a scuola, anche se un anno avevo rischiato di essere segata perché avevo bigiato troppe volte e alla fine ero stata cazziata.
La materia che odiavo di più era matematica; difatti non avevo proprio voglia di fare tutte quelle espressioni, operazioni e ogni diavoleria che quella vecchia ci aveva dato per le vacanze.
Appena i miei uscirono di casa per andare a lavorare, corsi giù al piano di sotto, sollevai la cornetta e composi il numero di casa di... Ellefson. Era oramai l’unica persona che avrebbe potuto aiutarmi. Alex non mi parlava da settimane, e oltre a qualche amico fattone non conoscevo nessun altro se non lui.
<< Pronto? >> disse Ellefson con la sua solita voce calda.
<< Ciao Ellefson, sono Jackson. Mi servirebbe una mano per i compiti di matematica >>. Cercai di essere più gentile e tenera possibile.
<< In che senso vuoi una mano? Ripetizioni? Esercizi? Oppure vuoi il mio libro da copiare o... che te li faccia proprio io? >> disse lui con un tono un po’ scocciato.
L’unica cosa che riuscii a fare fu soffocare una risatina un po’ imbarazzata.
<< Sei proprio la solita. >> replicò lui scazzato.
<< Dai Ellefson! Siamo o no compagni? >>. La mia voce suonava come quella dei dolci cavallini protagonisti del cartone animato che Joy amava vedere. Disgustoso.
<< O mi paghi o io non ti faccio nessun compito >> disse all’improvviso.
<< Cosa? Che cazzo stai dicendo?! >> ero incredula. Voleva essere pagato? Lui?
Lanciai un’occhiata al mio portafogli appoggiato sul tavolo. Lì dentro c’erano a malapena i soldi per comprarmi dei vestiti nuovi, non li avrei certo sprecati per darli ad uno sfigatello come lui.
<< Non se ne parla proprio. >> dissi infine.
<< Ok, ci si risente Jack >> concluse lui.
Non potevo farli quei compiti. Nemmeno per tutto l’oro del mondo.
<< Aspetta David! Aspetta! >> urlai mentre stava per terminare la chiamata.
<< Cosa c’è ora?! >> sbuffò lui. Era la prima volta che lo chiamavo per nome.
<< Al posto dei soldi... posso... posso darti qualcosa d’altro? >> cercai di persuaderlo.
<< E che cosa avresti? >> ridacchiò lui.
Cercai di fare il conto delle cose che possedevo. Oltre al materiale scolastico e ai vestiti avevo solo qualche romanzetto, Bomber, qualche cianfrusaglia metal e... il mio basso acustico! Ma... no. A Ellefson non sarebbe mai interessato un basso acustico. E... non avevo nemmeno molta voglia di separarmene.
<< Allora? Dai, una ragazza come te? Il tuo basso elettrico? Oppure... be, se vuoi... possiamo sempre... >> lasciò la frase in sospeso.
<< No grazie Ellefson. Non ci tengo proprio a... >> mi guardai in giro per vedere se Joy era nei paraggi << ... a guardare cosa c’è sotto ai tuoi pantaloni. Prima... hai detto... ti interessa... suonare? >> ero incredula.
<< Si, mi piacerebbe imparare a suonare qualcosa >> rispose lui con tono baldanzoso.
<< Ho un basso acustico. Potrei darti quello... però mi fai sia i compiti di matematica che quelli di geometria >> proposi io.
<< Solo se mi insegni qualcosa >> disse lui.
<< Quello se mi fai anche fisica >> ribattei io.
<< Sei proprio una pigrona! >> mi canzonò lui.
<< Allora? >> sbottai io.
<< Andata. Oggi pomeriggio alle 4 a casa mia >>.
<< Ci sarò >> conclusi.

Dave's POV
Mi svegliai di soprassalto. Mi scostai dalla figura che dormiva pacificamente al mio fianco e mi misi seduto.
I miei occhi pian piano si abituarono alla luce soffusa che proveniva dal sole, che stava sorgendo alle mie spalle.
Mi trovavo in un prato; anzi, nel giardino di una casa. Tempest era sdraiata sull’erba e riposava indisturbata. Non capivo il perché mi trovassi lì, e non ricordavo nulla della sera precedente.
<< Ma che... che caz... dove sono? >> borbottai poi, guardandomi attorno, magari per trovare qualche riferimento a me conosciuto.
<< Siamo nel mio giardino Dave >> sentii Tempest dire fra uno sbadiglio e l’altro.
Ma che minchia ci facevo nel suo giardino?
Mi tornò in mente Tempest che si sballava. Probabilmente avevamo girovagato per la città e poi ci eravamo fermati a dormire nel suo giardino. Non era successo nulla di compromettente, pericoloso o tantomeno sensazionale, almeno credevo.
<< Dovevo essere proprio fatto. Non mi ricordo un cazzo di quello che è successo >> ridacchiai mentre tentavo di rimettermi in piedi.
Di tutta risposta Tempest rimase svaccata sull’erba.
Mi doleva la testa, e in quel momento l’odiosa sensazione post-sbornia aveva raggiunto il culmine. Desideravo ardentemente tornare a casa mia, sboccare e farmi una doccia calda.
Mi dileguai senza troppe cerimonie e imboccai la strada che conduceva al buco dove alloggiavo.
Fissai la mia figura allo specchio del bagno. Ero pallido e trasandato. L’unica cosa che dava colore al mio viso era un rossetto color rosso fuoco, che compariva lievemente sulla mia bocca e sul mento.
Un sorrisetto malizioso si dipinse sul mio volto.
<< Te la sei fatta... >> mi dissi << ... sei il solito porcello >>.
Il quel momento fui fiero di me stesso. E, mentre mi sistemavo, cominciai a ricostruire l’andamento della serata.

Ellefson's POV
Chiusi il libro di fisica e lo buttai contro alla scrivania, cercando di farlo atterrare sul tavolo. Il risultato fu un fastidioso stropiccio di pagine e un gran fracasso. Non avevo molta mira.
Ero stufo di studiare. Per oggi mi bastava.
Tornai di sotto e accesi il giradischi. Appoggiai la puntina su uno dei dischi dei KISS, una delle band che più amavo.
All’improvviso il telefono squillò.
Risposi, stoppando il disco.
<< Ciao Ellefson, sono Jackson. Mi servirebbe una mano per i compiti di matematica >>.
A scuola mi chiamavano per cognome, appunto Ellefson, anche se il mio nome era David. Non amavo quel soprannome, anche se oramai me l’avevano affibbiato da quando ero giunto in quel posto.
Jackson era una delle mie compagne di classe, naturalmente più piccola di me di circa un anno: cambiando scuola a metà anno mi avevano segato, anche se me l’ero cavata piuttosto bene. Studiare non mi dispiaceva, a differenza di Jackson.
<< In che senso vuoi una mano? Ripetizioni? Esercizi? Oppure vuoi il mio libro da copiare o... che te li faccia proprio io? >> le chiesi io, mentre il nervoso cominciava a salirmi, come ogni qualvolta mi chiedessero “aiuto”.
Di tutta risposta Tempest rise; una risatina quasi infantile, un poco imbarazzata. 
<< Sei proprio la solita. >> le dissi io. E lo era. Che pigrona.
<< Dai Ellefson! Siamo o no compagni? >> cercò di convincermi lei. Aveva una voce quasi dolce. No, non era Tempest Jackson quella con cui stavo parlando. Capii i suoi giochi: faceva la tenera ragazzina per convincermi a farle i compiti. Era ovvio. E ci ero quasi cascato!
<< O mi paghi o io non ti faccio nessun compito >> le dissi. Sapevo che ci sarebbe rimasta di merda; ed era quello che speravo.
<< Cosa? Che cazzo stai dicendo?! >> mi rispose incredula. Avevo fatto centro.
<< Non se ne parla proprio. >> continuò offesa, dopo un lungo silenzio. Avrebbe iniziato a fare la preziosa, ma io tagliai corto: << ok, ci si risente Jack >>.
Stavo per allontanare la cornetta, quando la sentii urlare: << aspetta David! Aspetta! >>.
Sbuffai e mugugnai: << cosa c’è ora?! >>. Mi accorsi poi che mi aveva chiamato per nome.
<< Al posto dei soldi... posso... posso darti qualcosa d’altro? >> disse cercando di persuadermi.
<< E che cosa avresti? >> le chiesi, un po’ maliziosamente.
Jackson era una ragazza non molto ricca; sapevo che aveva solo qualche misero disco e un basso elettrico, che comunque avrebbe potuto interessarmi, ma che non avrebbe mai sganciato. Mi venne in mente poco dopo che, comunque, era una ragazza piuttosto attraente.
<< Allora? Dai, una ragazza come te? Il tuo basso elettrico? Oppure... be, se vuoi... possiamo sempre... >> lasciai la frase in sospeso. Era la prima volta che facevo il porco con lei, ma l’idea non mi dispiaceva.
<< No grazie Ellefson. Non ci tengo proprio a... >> si fermò un attimo << ... a guardare cosa c’è sotto ai tuoi pantaloni. Prima... hai detto... ti interessa... suonare? >> chiese poi, cambiando argomento.
<< Si, mi piacerebbe imparare a suonare qualcosa >> risposi, fiutando aria di vittoria.
<< Ho un basso acustico. Potrei darti quello... però mi fai sia i compiti di matematica che quelli di geometria >> mi propose. Santo cielo, geometria no. Oh... be... magari...
<< Solo se mi insegni qualcosa >> ribattei.
<< Quello se mi fai anche fisica >> mi rispose. Oh cristo. No.
<< Sei proprio una pigrona! >> la canzonai.
<< Allora? >> sbottò all’improvviso lei. Per poco non mi spaventai, e preferii accettare.
<< Oggi pomeriggio alle 4 a casa mia >> le dissi poi.
<< Ci sarò >> concluse.

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Capitolo 6
*** No Life 'Til Leather ***


No Life 'Til Leather
Capitolo VI
Tempest's POV
Tirai ripetutamente qualche calcio alla porta di casa Ellefson. Avevo il mio basso acustico a tracolla e i libri fra le braccia.
Quando Ellefson aprì, mi prese i libri dalle braccia e li buttò sul tavolo. Mi fece accomodare sul divano. Io presi lo strumento in mano.
<< Wow, che figo! >> disse lui guardando il mio basso acustico nero.
<< Si... >> risposi io, non sapendo bene cosa dire e sentendomi un po’ a disagio essendo in una casa che non conoscevo.
<< Be... come si suona? >> chiese guardandolo.
Non potei fare a meno di ridere a quella domanda. Ellefson mi fissò leggermente offeso.
<< Scusa, ora ti faccio vedere >> dissi riprendendomi. Gli sistemai il basso e glielo porsi. Lui si sedette vicino a me.
Gli spiegai come doveva tenere la mano destra e quella sinistra, come usare le dita e il plettro.
David imparava molto in fretta; mi rivedevo un po’ in lui. Aveva la passione bruciante dell’adolescente che non vede l’ora di imparare a fare qualcosa.
Gli mostrai un giretto di basso molto semplice da fare. Lui lo fece meglio che poté. Gli sistemai la mano sinistra e continuammo così fino all’ora di cena, quando dovetti tornare a casa.
<< Ammetto che non ti credevo capace di insegnare a qualcuno come si suona il basso >> mi disse Ellefson prima che io uscissi.
Io risi. In fondo era anche un tipo simpatico, non proprio un amico, ma comunque... be era un tipo ok.
<< Sto cominciando a sentire anche la musica che senti tu sai? >> aggiunse poi.
<< Oh, perciò non potrò più prenderti in giro perché sei un glamster... peccato >> dissi scherzando.
Lui alzò gli occhi al cielo e rise.
<< Ora non farti prendere troppo dalla musica e dal basso, hai i miei compiti da fare >> aggiunsi io.
<< Fidati, ti farò i compiti e imparerò a suonare decentemente >> disse lui facendomi l’occhiolino.
Corsi a casa cantando gli Iron Maiden, infastidendo alcune vecchiette che passeggiavano vicino a me.
Passai il mese di Giugno studiando le materie che non avevo appioppato ad Ellefson, suonando, uscendo qualche volta con i Metallica e insegnando al ragazzo l’arte del basso acustico. Lui imparava in fretta, ed era anche molto bravo. Diventammo presto amici, e ogni tanto uscivo anche con lui.
Una cosa però mi rattristava: non avevo più rivisto Cliff. Mi mancava, anche se l’avevo visto per una serata sola e ci avevo parlato poco. Ogni tanto cercavo di informarmi sulla sua band; qualcuno li aveva sentiti nominare, ma comunque l’unica cosa che riuscii a scoprire fu che se n’erano ritornati a San Francisco. Certo, sarei potuta andare là per qualche giorno, o magari prendere un appartamento con qualcuno maggiorenne, o mollare la scuola e cercare un lavoro appena sarei diventata diciottenne... ma pensai che alla fine non era per niente il caso; fare tutto quello per una persona sola, che non conoscevo nemmeno, era una gran cazzata. Se il destino avesse voluto, avrei incontrato di nuovo quel ragazzo dai capelli rossi.
Comunque, ora avevo i Metallica, e a Cliff ci pensavo poco, se non per niente. Dire che mi consolavo con loro era sbagliato: erano qualcosa di più di un semplice passatempo; eravamo diventati amici, e James e Dave erano forse i due migliori che avevo. Con Dave mi divertivo sempre facendo cazzate di ogni tipo, fumando erba e suonando. Con James preferivo parlare del più e del meno, mi aprivo molto con lui, essendo una persona simpatica e gentile (e non era certo il tipo che rischiava come Dave). Spesso incontravo anche Lars, anche se lui abitava nel quartiere più ‘in’ di Los Angeles. Con lui mi limitavo a chiacchierare, non gli davo molta confidenza, visto che aveva un carattere che a tratti mi infastidiva quasi; capitava spesso che giudicasse un po’ troppo, o che diventasse esageratamente egocentrico, o comunque faceva un po’ il viziatello. Spesso mi capitava anche di ricevere manifestazioni d’affetto un po’ troppo spinte, come abbracci, mani sui fianchi o occhiatine... Non ci badavo, sapevo che a Lars interessavo, ma non nutrivo lo stesso sentimento nei suoi confronti.
In poco tempo potevo dire di essere diventata anche una grande fan dei Metallica: cercavo di essere presente a tutti i loro concerti e poi ci divertivamo fino a tardi, la sera.
Spesso dovevo tenerli un po’ a freno, visto che comunque non ero un ragazzo come loro (anche se molte volte mi comportavo da tale). Capitava ogni tanto che volassero battute abbastanza sconce e qualche ‘bella’, ‘culo’ e ‘tette’ di troppo.
<< Ragazzi, sapete che pensavo? Perché non facciamo un demo? >> disse durante una di quelle serate James.
<< Sarebbe una bella idea, ci pensavo anche io! >> lo appoggiò subito Lars.
<< Sarebbe anche l’ora, spacchiamo i culi qui >> aggiunse Dave.
<< Tu che ne pensi? Sarebbe figo se facessimo un demo? >> mi chiese Ron.
<< Io ne sarei felicissima ragazzi! Dovrei anche dire... finalmente! >> risposi ridendo io.
Quest’idea però non fu una delle tante che rimasero al tavolo del bar. Nei giorni successivi diventò sempre più vivida e concreta.
Il 6 luglio infatti, ricevetti una telefonata.
<< L’abbiamo fatto Tempest! >> urlò Lars.
<< CAZZO LARS! Non ci credo! >> urlai io di rimando.
<< Si, l’abbiamo pubblicato. Perché oggi non vieni a casa mia a sentirlo? E’ una bomba, sono davvero fiero della mia band >> mi propose lui entusiasta quasi come un bambino a cui viene regalato un giocattolo meraviglioso.
Quel pomeriggio andai a casa Ulrich.
No Life ‘Til Leather conteneva sette tracce, una più bella dell’altra e, come tutti i fan dei Metallica, fui meravigliata del loro operato.
Riuscii a farmene dare una copia un po’ scassata da James che, nel giro di qualche giorno, si ruppe a causa di un surriscaldamento del mio stereo. L’avevo ascoltata fin troppe volte probabilmente!

Ellefson's POV
Sentii rimbombare la porta di casa mia. Era Jackson. Stava probabilmente tirando dei calci per farsi aprire.
Spalancai la porta. La trovai con il basso acustico a tracolla e i libri fra le braccia, in equilibrio precario su quelle gambette lunghe che teneva leggermente piegate. Le presi i libri dalle braccia e li buttai sul tavolo.
<< Accomodati, avanti! >> le dissi, visto che era ancora sulla soglia.
Lei si mosse con passi incerti all’interno di casa e si sedette sul divano, prendendo il basso fra le mani e sistemandoselo sulle ginocchia.
<< Wow, che figo! >> esclamai guardandolo. Era perfetto nella sua forma, di color nero lucido.
La ragazza mi rispose con un poco di disagio. Volli passare ai fatti.
<< Be... come si suona? >> le chiesi.
I suoi occhi ebbero un improvviso guizzo, e Jackson scoprì i suoi denti candidi in una gaia risata. Che avevo detto di tanto stupido? La fissai; mi ero leggermente offeso.
<< Scusa, ora ti faccio vedere >> si affrettò a dire, ricomponendosi. Mi sedetti vicino a lei; mi porse il basso e io lo sistemai come meglio credevo. Passammo la prima ora ad analizzare la posizione. Tempest mi sistemava pazientemente le mani sui capotasti e mi toccava lievemente la schiena quando tendevo a cascare in avanti con le spalle. Mi fece vedere come si teneva il plettro e come si pizzicavano le corde, sempre con molta apprensione e dedizione. Rimasi molto colpito dal suo comportamento: non l’avevo mai vista così; era strano.
Dopo le prime fasi di insegnamento, mi mostrò alcuni giretti di basso, indicandomi le varie posizioni. Continuai a ripeterli sotto al suo occhio vigile fino all’ora di cena; ogni tanto si schiariva la voce o mi sfiorava con le dita lunghe una delle due mani, in modo che mi correggessi. Trovai quasi rilassante il modo in cui mi insegnava.
Terminato l’ultimo pattern, mi salutò, accorgendosi dell’ora.
Si alzò e l’accompagnai alla porta. Sulla soglia le dissi: << ammetto che non ti credevo capace di insegnare a qualcuno come si suona il basso >>. Lo feci un po’ per punzecchiarla, un po’ perché ero rimasto stupito da lei.
Tempest rise. Mi ero già preparato psicologicamente ad un sonoro schiaffone, cosa che però non accadde.
<< Sto cominciando a sentire anche la musica che senti tu sai? >> aggiunsi poi, ricordandomi dei vinili comprati qualche ora prima.
<< Oh, perciò non potrò più prenderti in giro perché sei un glamster... peccato >> mi rispose, lievemente maliziosa.
Risi, alzando gli occhi al cielo. Ero stupito e felice allo stesso tempo, per aver scoperto una parte del suo carattere a me del tutto ignota, ma che fin da subito consideravo ottima.
<< Ora non farti prendere troppo dalla musica e dal basso, hai i miei compiti da fare >> riprese, guardandomi con occhi ironicamente severi.
<< Fidati, ti farò i compiti e imparerò a suonare decentemente >> la salutai, facendole l’occhiolino.
Tempest scattò saltellando sui marciapiedi di Los Angeles, canticchiando una canzone degli Iron Maiden.
Passai le giornate di Giugno spaccandomi di compiti la mattina; non li trovavo particolarmente difficili (erano quasi gli stessi dell’anno precedente), ma erano veramente tanti. Ma il solo pensiero che al pomeriggio avrei potuto apprendere qualcosa di nuovo con il mio basso mi faceva dimenticare fatica e noia.
Dopo pochi giorni mi ero già innamorato dello strumento; ero anche fiero della mia insegnante: Tempest era veramente brava, e spesso quando mi mostrava i giri provavo una forte curiosità nel vedere come si muoveva sciolta e canticchiava sottovoce, scuotendo leggermente la testa. Molte volte avrei desiderato vederla in azione, con il suo Fender Precision, che lei chiamava Bomber (ne era così affezionata che gli aveva affibbiato un nomignolo).
Cominciai ad uscirci con Jackson; senza nemmeno accorgermene ero passato da detestarla intensamente ad apprezzarne la compagnia. Una cosa che non volevo accadesse mai però, era solo una: non avrei dovuto innamorarmi di lei mai; sapevo che aveva una doppia faccia, e ne avevo paura. Al solo pensiero mi venivano i brividi e, se di ritorno da una serata piuttosto piccante con lei, mi passavano subito le fantasticherie che cominciavano ad affiorarmi in mente. Fortunatamente non successe mai nulla di serio con lei; diventai dopo anni il suo fedele migliore amico, e pensai che era così che doveva andare.

Lars's POV
Cominciavo a diventare davvero fiero della mia band, i Metallica. Mi piaceva la musica che suonavamo (mi pare ovvio), i concerti che facevamo e la gente con cui uscivamo.
Dopo che Dave era riuscito a trascinare Tempest (la ragazza dai capelli extra-lunghi) quella serata a bere con noi, si era formata una sottospecie di compagnia. Inutile dire che lì dentro la persona che mi interessava di più era lei. Era una ragazza molto bella, con un carattere docile e piuttosto inesperto.
Si, mi piaceva; ma purtroppo non ero l’unico che le andava dietro: Dave. Spesso avrei voluto pestarlo a sangue, da quanto mi faceva incazzare. Presto però avrebbe ricevuto quel che si meritava. Comunque, non sono qui per parlare di Dave e delle leccate che faceva alla ragazza.
Era una serata come tante. Eravamo brilli da un bel po’, e James aveva cominciato a sparare grosse minchiate, come faceva di solito.
<< Ma sapete che... >>, << pensavo di... >>, << mentre stavo... >> e frasi del genere erano ripetute a ruota da lui, con un tono strascicato e mezzo biascicato.
<< Ragazzi, sapete che pensavo? Perché non facciamo un demo? >> disse di colpo. All’inizio mi parve un’enorme stronzata (forse peggiore di tutte quelle che aveva detto quella sera), ma poi...
<< Sarebbe una bella idea, ci pensavo anche io! >> lo appoggiai. Era vero. Avevo pensato la stessa cosa qualche giorno prima.
<< Sarebbe anche l’ora, spacchiamo i culi qui >> sottolineò Dave.
<< Tu che ne pensi? Sarebbe figo se facessimo un demo? >> chiese Ron (parlando un po’ alla cazzo), a Tempest, che era rimasta zitta per tutto il tempo.
<< Io ne sarei felicissima ragazzi! Dovrei anche dire... finalmente! >> disse lei, rivolgendoci un sorriso enorme.
E, alla fine, avevo ragione: non era per niente una stronzata.
Il 6 luglio uscì No Life ‘Til Leather.
Chiamai Tempest in preda all’euforia più totale; volevo che lo sentisse. Infatti la invitai a casa mia quel giorno.
A lei piacque tantissimo, e ne rimediò poi una copia da James.
Cominciavamo a farci largo sulla strada della fama e del successo.

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Capitolo 7
*** Static Age ***


Static Age
Capitolo VII
Tempest's POV
Pochi giorni dopo, i Metallica mi informarono che sarebbero stati molto impegnati a suonare nella zona compresa fra Los Angeles e San Francisco. Avrei voluto seguirli, ma sapevo già che i miei non me lo avrebbero mai permesso, visto che di me avevano relativamente poca stima: mi consideravano una fancazzista nullafacente atea-satanista che ascoltava band fin troppo “esuberanti”.
La prima settimana senza Metallica fu una vera e propria noia. Oltre ad Ellefson, che vedevo saltuariamente, non avevo più nessuno. Le amicizie passeggere che avevo stretto qua e là per la città si andavano via via affievolendo, e non avevo intenzione di riparare rapporti con qualche fattone, oramai diventato cocainomane o peggio. Mi sentivo una specie di disadattata, anche se di metallari ce n’erano.
Forse però ero io che volevo rimanere isolata da tutto. Le persone che conoscevo mi sembravano tutte uguali: se non erano metallari li consideravo perdita di tempo; invece se lo erano sembravano interessanti soprattutto a sostanze stupefacenti, birra e sesso. Essendo una ragazza cercavo di tenermi a debita distanza da scopamici o comunque gente simile.
Durante quel periodo di solitudine mi capitò, quasi per caso, di conoscere una nuova band: i Misfits.
Ero a casa di Ellefson quando, dal nulla, tirò fuori un disco che, per cover, aveva dei tipi abbastanza loschi. Da subito capii che quel gruppo era punk: i ragazzi non erano capelloni, ma sfoggiavano strane acconciature e un pesante trucco nero.
<< Jack, devi sentire i Misfits, sono una bomba assurda >> mi disse lui.
<< David, io non ascolto punk... >> risposi io. Non sembravano interessanti.
<< Zitta e ascolta! >> ribatté lui mentre appoggiava delicatamente la puntina del giradischi sul vinile.
Fin da subito mi pentì del mio giudizio. Erano veramente forti, come aveva detto Ellefson.
Lui mi guardò malizioso e, alzando un sopracciglio, chiese: << allora, come ti sembrano? >>.
<< Ehm... sono... BRAVISSIMI! >> urlai.
Le giornate si ripetevano sempre uguali, fin quando una mattina...
<< Tempest, zia Mandy si è appena trasferita a San Francisco sai? >> disse mia madre mentre entrava in camera mia, ovviamente senza bussare.
Mugolai da sotto le coperte.
<< Che ne dici di andare da lei qualche giorno? >> aggiunse poi.
<< Eh? Dove? A cosa? >> brontolai.
<< Insomma, sei una pigrona! >> sbottò lei. Poi mi ripeté quello che aveva detto poco prima.
<< Non ho vogl... cosa? San Francisco? Certo! >> risposi.
<< Finalmente accetti volentieri una decisione presa dai tuoi genitori! Prepara la tua roba... entro domani sarai là >> concluse uscendo.
Preparai in fretta una borsa con dentro vestiti, qualche libro, qualche foglio e degli spartiti stropicciati. Poi avvolsi Bomber nella rudimentale custodia che avevo e, assieme all’amplificatore e al bagaglio, vennero riposti vicino alla porta, in attesa di essere “trasferiti”.
Verso il primo pomeriggio composi il numero di casa di Dave, sperando fosse a Los Angeles.
<< Dave Mustaine, chi è? >> borbottò stancamente alzando la cornetta.
<< Dave vengo a San Francisco per qualche giorno! >> gli dissi cercando di tenere un tono basso, per evitare di attirare l’attenzione dei miei.
<< Wow! Allora ci sarai per qualche concerto? >> mi chiese lui, visibilmente felice per la notizia e stranamente rinvigorito.
<< Mi sembra ovvio! >> risposi ridendo.
Mi disse qualche data, poi si offrì per accompagnarmi la sera. Accettai e lo ringraziai di cuore.
Finii di preparare le ultime cose, poi la mia mente cominciò a galoppare: mi sarei divertita con i Metallica e... avrei potuto rivedere Cliff.
Riposi l’orrido rossetto rosso di mia madre nell’armadietto del bagno. Lei aveva tanto insistito che lo mettessi, visto che avevo dovuto dirle che un ragazzo mi avrebbe portata dalla zia; voleva mi vestissi bene, segno che già si era fatte strane idee su me e Dave.
Il campanello trillò, e corsi giù in fretta. Aprii la porta.
Dave per un momento sembrò un poco confuso, forse non era abituato a vedermi pettinata, truccata e soprattutto con un vestito... mi sentivo quasi ridicola, visto che per la mia corporatura quel vestiario non era per niente adatto.
Dave si riprese subito, e mi salutò sorridendo. Presi la mia roba, salutai i miei e assieme a lui mi avviai verso la sua macchina, piuttosto scassata.
<< Sei diversa vestita così >> mi disse poi quando salimmo.
Io lo guardai per qualche istante, poi risi. Lo facevo spesso quando ero nervosa o imbarazzata.
<< Lo so che questo completo non mi si addice, ma... sai com’è, devo presentarmi bene a mia zia... >> dissi io, evitando di raccontargli i pensieri di mia madre.
<< Comunque... sei bellissima >>. Aveva leggermente abbassato il tono di voce. Rimasi interdetta. Riuscii a dire semplicemente un grazie. Dovevo essere arrossita, ma grazie al cielo in macchina non si vedeva un granché.
Dave mise in moto la vettura e partimmo.
Mi accoccolai sul sedile.
Dopo un po’ iniziai ad avere freddo; quella sottospecie di tubino era piuttosto corto, lasciandomi scoperte gran parte delle gambe e le braccia.
<< Hai freddo? >> mi chiese Dave, come se mi avesse letto nel pensiero.
<< Be... si un po’... >> dissi io stringendomi nelle spalle.
<< Accendo il riscaldamento... >> mi rispose lui. La sua voce fu seguita da un sonoro crack.

Ellefson's POV
Seppi che la compagnia di Tempest era migrata a San Francisco per alcuni concerti, lasciandola a casa (visto che non apparteneva alla crew). Cominciò ad isolarsi da tutto e da tutti; la vedevo più raramente e spesso quando chiamavo casa sua rispondeva la sua sorellina dicendo che stava dormendo.
La povera Tempest se la doveva passare male davvero. Avrei voluto fare qualcosa per lei, essendo diventato suo amico mi sentivo in colpa a vederla così. Cercai di parlarci più spesso, ma non dava segni di miglioramento. Con me non voleva aprirsi, non capivo per quale strano motivo. Cosa avevo io che non andava, spesso mi chiedevo. Quei tizi (mi pare si chiamassero Metallica), ad occhio non avevano niente in più di me.
Decisi di non cercarla per un po’, magari si sarebbe fatta viva.
Intanto, con il mio bel basso acustico, passavo le mie giornate, piene zeppe di riff sempre nuovi da imparare e spesso anche di qualche disco nuovo.
Mi capitò fra le mani un disco punk, genere che di solito non sentivo. Si chiamava Walk Among Us, ed era di una band chiamata The Misfits. Lo sentii ed... era fottutamente figo. Mi sarebbe piaciuto sentirlo con qualcuno, magari con Tempest. Ma quella non si faceva viva.
Tempo neanche di finire il pensiero che squillò il telefono.
<< Ciao David... sono Jackson. Scusami se non mi sono fatta sentire ma non sono stata molto bene in questi giorni. Ti va se oggi ci vediamo? >>
La invitai volentieri a casa mia.
Mentre chiacchieravamo tirai fuori il disco e le dissi: <>.
<< David, io non ascolto punk... >> mi rispose, guardando la cover.
<< Zitta e ascolta! >> ribattei io mettendolo sul giradischi.
Vidi la sua faccia cambiare da lievemente scazzata a colpita.
La guardai, un poco malizioso, alzando un sopracciglio.
<< Allora, come ti sembrano? >> la punzecchiai.
<< Ehm... sono... BRAVISSIMI! >> urlò.
Ci mettemmo a saltare per la stanza come degli idioti e cantando parole a caso per coprire le melodie.
 
Dave's POV
Mi ritrovai catapultato a San Francisco per alcune tappe del nostro mini-tour. Da dopo il demo eravamo finiti in una raffica di faccende da sbrigare. Succedeva tutto ad una velocità allucinante, e io stavo lentamente diventando pazzo. Non ce la facevo più. Ero diventato nervoso e irascibile, non volevo fare un cazzo dalla mattina alla sera. L’unica cosa che avrei voluto era lei. Volevo stringere Tempest fra le braccia ancora, baciarla sulla fronte e dirle che l’amavo davvero, anche senza sostanze stupefacenti. 
Tornai per una giornata e mezza a Los Angeles, per concludere qualche affare come pusher. Avrei voluto con tutto me stesso vederla, ma nessuno doveva sapere che ero lì.
Impiegai mezza giornata; avrei avuto tutto il giorno successivo libero dopodiché, la sera, sarei dovuto tornare a San Francisco con la band.
Passai la mattina a dormire sul divano di casa mia, la coperta tirata fino alla punta del naso. Non dormivo decentemente da tantissimo tempo.
Nel primo pomeriggio squillò il telefono. Mi chiesi chi rompeva il cazzo a quell’ora; all’inizio pensai di non rispondere, poi però mi alzai.
<< Dave Mustaine, chi è? >> borbottai, mentre soffocavo uno sbadiglio.
<< Dave vengo a San Francisco per qualche giorno! >> mi sussurrò Tempest. Cosa? Ci pensai per qualche istante... Che cazzo... Oh mio dio. Stavo parlando con lei. Me ne ero accorto solo ora. E mi stava dicendo che sarebbe venuta anche lei con me. Ma perché ero così scemo.
<< Wow! Allora ci sarai per qualche concerto? >> le chiesi, alzando il tono di voce e svegliando quel poco di cervello che avevo in zucca.
<< Mi sembra ovvio! >> mi rispose ridendo.
Le dissi le giornate dei concerti e le chiesi se voleva un passaggio. Accettò volentieri.
Appena attaccai la cornetta mi sentii esplodere. L’avrei rivista ancora e avrei passato la serata con lei; le cose non potevano andare meglio.
Parcheggiai la mia auto sul marciapiede e mi guardai nello specchietto: i capelli erano puliti, i vestiti stirati e profumati e... le scarpe lucidate. D’accordo, potevo uscire dalla macchina e recarmi alla porta.
Suonai il campanello di casa Jackson e aspettai.
La porta si aprì e per poco non riconobbi Tempest. Aveva i capelli lisci e pettinati, mentre le sue bellissime labbra erano di un rosso scarlatto acceso; indossava un vestito molto corto. Era... era meravigliosa. Per una volta la vedevo vestita da femmina (non che prima fosse un uomo...) e... si era strano.
Mi ripresi salutandola con un sorriso. Si mise a tracolla una custodia (probabilmente del suo basso) e prese una borsa e un piccolo amplificatore. Ci dirigemmo alla macchina.
<< Sei diversa vestita così >> le dissi, quasi per sbaglio, mentre accendevo la macchina.
Mi guardò stupita, e poi rise. Dovevo averla messa in imbarazzo.
<< Lo so che questo completo non mi si addice, ma... sai com’è, devo presentarmi bene a mia zia... >> mi rispose, quasi per giustificarsi. No, no, no. Aveva capito che non mi andava a genio con quel vestito. Cazzo no.
<< Comunque... sei bellissima >> le sussurrai quasi. Avevo abbassato il tono di voce quasi senza accorgermene. Mormorò un grazie, poi rimase a fissarmi con le labbra schiuse.
Misi in moto e partimmo.
Tempest si raggomitolò sul sedile; doveva essere molto stanca.
Dopo circa un quarto d’ora cominciò a tremare. Con quell’abitino corto doveva avere parecchio freddo.
<< Hai freddo? >> le chiesi, anche se sapevo già la risposta.
<< Be... si un po’... >> mi disse, stringendosi nelle spalle.
<< Accendo il riscaldamento... >> le risposi.
Cominciai a cercare la valvola. Trovat... CRACK! Mi era rimasta in mano. Merda. Che figura.

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Capitolo 8
*** Jump In The Fire ***


Jump In The Fire
Capitolo VIII
Tempest's POV
<< Merda si è rotto >> ringhiò Dave.
Io risi. Mi sembrava così goffo... mi faceva davvero molta tenerezza.
<< Non fa niente, posso resistere >> dissi poi.
<< Dio mi dispiace... >> si scusò lui << qua ho solo... una felpa... >>.
<< Non scomodarti, è già tanto che mi porti fino a San Francisco >> risposi io, sempre ridendo.
Di tutta risposta, Dave accostò. Si tolse la felpa che indossava e me la depose in grembo.
<< Ecco... sperò sia abbastanza... >> disse sempre con quella leggera goffaggine.
Me la infilai delicatamente. Profumava di deodorante, cosa che mi piacque molto. Mi stava molto larga, così strinsi nel morbido tessuto.
Dave rise.
Io gli sorrisi, poi lo abbracciai.
Sentii le sue braccia calde avvolgersi attorno alla mia vita e stringermi. Io gli misi le braccia attorno al collo e appoggiai il mento sulla sua spalla.
Avevo la faccia sommersa dei suoi capelli ricci e vaporosi, color ginger.
Rimanemmo abbracciati per qualche minuto.
Potevo sentirlo respirare piano, e percepivo il suo petto alzarsi e abbassarsi ad ogni singolo respiro.
<< Grazie Dave, grazie per tutto >> sussurrai.
Lui mi strinse ancora più forte; avevo il petto premuto contro al suo.
Pian piano le braccia si allentarono, e lui tornò seduto contro al sedile. Io feci lo stesso.
Dave rimise in moto la macchina; mi raggomitolai nella felpa e chiusi gli occhi. In poco tempo mi assopii.
Qualcosa si appoggiò delicatamente sulla mia fronte. Era tiepido e rilassante. Poi piano si staccò.
<< Tempest, siamo a San Francisco >> disse una voce calda e morbida, che mi suonava così lontana ed evanescente.
Venni lievemente scossa, e aprii gli occhi.
Dave mi scostò i capelli dal viso e sorrise; mi chiese dove mi doveva portare. Glielo dissi, ancora intorpidita.
In poco raggiungemmo la casa di zia Mandy. Dave spense la macchina e scese. Aveva cominciato a piovere.
Aprì la mia portiera. Una folata gelida mi fece rabbrividire. Mi passò il braccio sotto le gambe e mi appoggiò l’altro dietro alla schiena. Prima che mi rendessi conto di quello che stava accadendo, Dave mi sollevò. Mi aggrappai forte al suo petto, anche se sapevo che non sarei caduta. Mi depose sotto alla tettoia della casetta della zia, assieme ai bagagli.
Lo abbracciai ancora.
<< Grazie Dave, sei stato veramente gentile >> gli dissi mentre mi stringeva la vita.
<< Di niente, per te farei tutto >> mi rispose, prima di baciarmi.
Mi irrigidii di colpo. Non ero pronta ad una simile reazione, non in quel momento. Dave lo avvertii, e si scostò da me in fretta.
Mi sfilai piano la felpa e gliela porsi. Lui la prese e ci salutammo.
Rimasi a guardare la macchina allontanarsi nella notte.
Poi suonai il campanello.
Zia Mandy mi venne ad aprire in vestaglia e ciabatte, e cominciò subito a farmi feste.
<< Come sei cresciuta, sei bellissima! Ma che bel vestitino! Ti sei alzata ancora! Ora sei alta il doppio di me a momenti! Ecco ti appoggio qui la valigia! Oh hai anche il tuo strumento... una chitarra vero? No è un basso giusto... ecco mettiamolo qui diet... NO cade, lo metto sul divanetto... ecco la cassa mettila qui... stavo giusto andando a letto... se ti serve qualcosa chiamami >>. Disse tutto a velocità allucinante e con un tono mieloso.
Mi mostrò un grosso divano-letto in soggiorno e poi salì le scale.
Mi ci buttai sopra e mi addormentai all’istante.
Mi svegliai presto, quando il sole cominciava a sorgere.
Pensai a quello che era successo la sera. Dave era innamorato di me. Ma io ero sicura di esserlo? Oppure cercavo qualcun’altro? L’unica cosa che desideravo fare in quel momento era di non ferirlo in nessun modo, ma qualsiasi soluzione avessi scelto mi sembrava un vicolo cieco.
Decisi di non pensarci. Mi alzai e mi sistemai, poi andai in cucina per buttar giù una magra colazione.
Lasciai un biglietto sul tavolo, con scritto ‘Tornerò presto’. Sapevo che a zia Mandy non dava fastidio che stessi in giro fino a tardi, sia perché era molto comprensiva e permissiva, sia perché, essendo una giovane trentenne, capitava spesso anche a lei. Per questo ero sempre andata d’accordo con lei... era una delle poche persone che sembravano capirmi.
Uscii e cominciai ad esplorare il quartiere. Non distava molto dal centro, perciò presi un autobus e nel giro delle 10 camminavo curiosa per le vie affollate.
Adocchiai un negozio di dischi, e mi diressi in quella direzione.
Il locale era enorme, e tappezzato di poster, dischi, quadri, strumenti musicali e ogni genere di cianfrusaglia legata alla musica. Esplorai ogni suo singolo angolo, sfogliando i vari booklet, immergendomi nelle enormi scatole contenenti vinili e facendo frusciare le buste in plastica che li avvolgevano.
Alzando lo sguardo da una cassa contenente dischi degli Aerosmith, ebbi una visione paradisiaca.
Su una parete erano appesi poster e bandiere dei Misfits, e c’era anche il Rickenbacker che usava Jerry Only.
Sotto a tutto questo c’erano degli scaffali con alcuni dischi, polsini e t-shirt.
Ero in cerca di Walk Among Us da quasi tre settimane, e nei negozi della mia zona era esaurito. Su quelle mensole se ne trovava un’unica copia, che doveva essere mia.

Dave's POV
<< Merda si è rotto >> ringhiai.
Tempest rise; non capii il perché. Forse le sembravo buffo e goffo; arrossì leggermente.
<< Non fa niente, posso resistere >> disse poi.
<< Dio mi dispiace... >> mi scusai. Ero un cretino, un grandissimo cretino. Mi ero offerto di accompagnarla e stavo facendo una figura di merda dopo l’altra.
<< Qua ho solo... una felpa... >> cercai di rimediare in qualche modo. Una felpa. Che cazzo se ne faceva di una felpa?
<< Non scomodarti, è già tanto che mi porti fino a San Francisco >> rispose lei, sempre ridendo e mostrandomi i suoi denti candidi, mentre il suo corpo continuava a tremare come una foglia. Una felpa... meglio di niente no?
Accostai, sbandando lievemente con la macchina. Mi tolsi la felpa che indossavo e gliela deposi in grembo.
<< Ecco... sperò sia abbastanza... >> le dissi, facendo involontariamente una voce tenera e premurosa.
Tempest la prese e se la infilò delicatamente; prima la testa e le braccia, poi la fece aderire al petto e ai fianchi. Le stava molto larga, anche se questo non ostacolò la mia vista, puntata sulle sue bocce. Si strinse nel tessuto.
<< Sei inappropriato, smettila di fare il porco! >> mi rimproverai.
Risi, vederla con quella felpa era piuttosto buffo.
Mi sorrise di nuovo, poi mi abbracciò.
Le avvolsi le braccia attorno alla vita, mentre lei me le mise attorno al collo. Appoggiò il mento sulla mia spalla. Se non l’avesse fatto, l’avrei baciata.
Percepivo ogni suo singolo muscolo contratto, la sua spina dorsale, la curvatura del suo fondoschiena.
Rimanemmo abbracciati per qualche minuto.
Il suo petto si abbassava e si alzava ritmicamente, sfiorandomi ogni volta i pettorali con il davanzale. 
<< Grazie Dave, grazie per tutto >> mi sussurrò.
La strinsi più forte. Il suo petto si premette contro al mio; ce le aveva sode, ed erano davvero grosse come sembravano.
Pian piano allentò le braccia, e mi accomodai di nuovo sul sedile.
Rimisi in moto la macchina; Tempest si raggomitolò e si strinse nella felpa. In circa 10 minuti si addormentò.
Il tragitto per San Francisco fu lungo e pesante. Faticavo a mantenere la concentrazione; avevo paura di andare in astinenza, visto che non fumavo dalla mattina. Non dovevo farlo, non quando potevo metterla in pericolo. Se solo fossi stato sballato poteva succederci ogni cosa.
Finalmente arrivammo a San Francisco. Era notte fonda.
Rimasi cinque minuti a respirare l’aria fredda per risvegliare i miei sensi.
Tempest dormiva pacificamente vicino a me; non sapevo dove portarla, quindi avrei dovuto svegliarla.
Non seppi che fare. Preferii seguire il buonsenso, l’istinto puntava alla tasca dei miei pantaloni.
Mi avvicinai piano a lei e la baciai delicatamente sulla fronte. Per un momento non mi riconobbi: non avevo mai baciato le ragazze sulla fronte. Dovevo essere davvero cotto per fare gesti così dolci e teneri.
<< Tempest, siamo a San Francisco >> le sussurrai, scuotendola lievemente.
Aprì piano gli occhi e mi guardò, a metà tra il mondo dei suoi sogni e la realtà.
Le scostai i capelli dal viso e le sorrisi; le chiesi dove abitava sua zia e poi ripartimmo.
In poco raggiungemmo la casa. Aveva cominciato a piovere. Scesi dalla macchina controvoglia, con le gocce d’acqua che mi bagnavano le braccia e i vestiti.
Aprì la sua portiera. Tempest rabbrividì. Si sarebbe bagnata tutta... che peccato, pensai malignamente. In verità, neanche finì di formulare il pensiero.
La presi in braccio. Il suo corpo era tiepido e leggero.
Si aggrappò forte al mio petto. Mi corse un brivido per la schiena.
La deposi sotto alla tettoia della casetta, e scaricai i bagagli.
Quando ebbi finito, si avvicinò a me e mi abbracciò di nuovo.
<< Grazie Dave, sei stato veramente gentile >> mi disse.
Le strinsi la vita, mentre il suo corpo sfiorò il mio.
<< Di niente, per te farei tutto >> le risposi.
Appoggiai le mie labbra sulle sue, succhiandogliele appena. Mi ero innamorato di lei, me lo sentivo dentro.
Si irrigidì di colpo. Non capii. Perché? Cazzo, cosa non andava? Mi scostai in fretta. No, non poteva essere accaduto. Che... che... che coglione. Mi crollò il mondo addosso.
Si sfilò la felpa e me la mise in mano. Mi salutò gentilmente. Girai sui tacchi, mentre la rabbia cominciava a salirmi vorticosamente.
Salii in macchina e mi allontanai il più in fretta possibile, senza mai guardarmi indietro.
Mi fermai nel parcheggio dell’hotel dove alloggiavo con i Metallica.
Mi accasciai sul volante. Ero completamente distrutto. Perché mi aveva rifiutato? Avevo sempre creduto... cazzo, lei era innamorata di me. E io lo sapevo. Ma questo... mi mandava fuori strada. E se... e se c’era un altro? Sarebbero stati cazzi amari. Gliel’avrei fatta pagare, a quel figlio di puttana.
Cominciai a segarmi la testa con ogni genere di diavoleria. Trovai qualche lattina di birra sotto ai sedili e mi ubriacai. Non era abbastanza. Usai tutta la roba a mia disposizione.
Entrai nella stanza di James incazzato come un cane rognoso. Sbattei la porta.
James era a letto con una groupie.
Schiumante di rabbia, non lasciai loro neanche il tempo di aprire bocca.
Andai in bagno e mi infilai sotto la doccia; l’acqua bollente mi ustionava la pelle. Mi sentivo una merda.
Perché Tempest... perché?

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