Black Interlude

di whitemushroom
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dialogo di una granduchessa ed un mago pazzo di Tera ***
Capitolo 2: *** Di come la felicità possa avere varie interpretazioni ***
Capitolo 3: *** La vendetta è un piatto che va gustato freddo. Specie se ci si ritrova nel bel mezzo di un deserto ***
Capitolo 4: *** (S)piacevoli conversazioni al sapore di menta e arance ***
Capitolo 5: *** Ci vuole poco per trasformare un’ottima idea in una colossale idiozia ***



Capitolo 1
*** Dialogo di una granduchessa ed un mago pazzo di Tera ***


Capitolo I - Dialogo di una granduchessa ed un mago pazzo di Tera

“Le serve qualcosa, signora?”
N. 16 gracchia con la sua voce che sembra un ingranaggio bisognoso di un po’ d’olio. Nonostante la mole si muove accanto a me senza sfiorare i margini del tavolo, né fa cadere la caraffa d’acqua che solo adesso mi accorgo essere pericolosamente in bilico. Dovrebbe dare qualche lezione di grazia a Janine e Olivet. “Avrei bisogno di qualcosa per riflettere la luce. Qualcosa tipo un cristallo, ma non troppo grande … puoi aiutarmi?”
“Provvederò, signora”.
Si allontana con il suo fare ondeggiante, quello che non smette di farmi ridere anche adesso che sono passate molte settimane da quando ho messo piede in questo posto per la prima volta. Non riesco proprio a non sorridere quando n. 16 passa per la porta del laboratorio e puntualmente perde il cappello contro quella porta troppo bassa per lui, si china con le sue braccia sottili e se lo rimette in testa. Ormai è un piccolo rito, non riesce proprio ad imparare.
Kuja sostiene che i maghi neri siano stupidi. Io li trovo affascinanti.
Certo, il design è così terribilmente scontato, ma c’è qualcosa di incredibile in quel legno che vive, in quella paglia che si muove, in quegli ingranaggi che a modo loro pensano. Ogni volta che n. 16 schiude la mano per portarmi ciò che gli ho chiesto non riesco a smettere di immaginare i sottili fili che si contraggono come dei tendini sotto quelle dita, allentati da morsetti così piccoli che potrebbero confondersi con una delle mie unghie. Ci sono viti là sotto, e corde e minuscoli cilindri metallici. Ci sono foglie di pos tritate finemente dove le giunture che sostengono la colonna vertebrale si aprono, e cristalli di quarzo azzurro si trovano nel pos per distribuire il peso della creatura sfruttando le sottili onde della pianta.
A pensarci bene la mateva immersa in un bagno di acqua e sali di rame produce delle vibrazioni maggiori; ricordo che da bambina mio padre la usava spesso per rimuovere le incrostazioni di fango e salsedine che puntualmente si formavano sotto lo scafo della barca. Bastava applicarne qualche goccia e i frammenti grigiastri cadevano a pezzi uno dopo l’altro ed il legno tornava come nuovo, mentre il padre di Phil impiegava mezzo pomeriggio per staccarli con il suo scalpello.
Quando provai a suggerirgli il trucco della mateva disse che quelli come noi dovevano bruciare all’inferno oppure finire nella pancia di Leviatano.
Sì, potrei suggerire a Kuja di sostituire il pos con la mateva.
Sono sincera, davanti a questo tavolo, con il lavoro nemmeno a metà, mi chiedo come abbia fatto uno come lui a costruire qualcosa di così complesso. È frivolo, disordinato, irritabile e con la testa sempre da un’altra parte, eppure quando si china sulle sue creazioni ha la precisione di un orologiaio di Toleno. Ieri sera ha insistito per partecipare al progetto, gli avevo chiesto di tritarmi delle foglie di yling mentre pesavo i cristalli di rame … e lui lo ha fatto. Sì, lo ha fatto.
Le ha tagliate della grandezza giusta, proprio come gli avevo spiegato. Solo che erano tutti dannatamente uguali.
Tutti. Dannatamente. Uguali.
Tagliati in forma quadrata, con il lato di mezzo centimetro. Ne ho accostati uno all’altro per provare, e si potevano sovrapporre senza possibilità di errore, non una sfrangiatura, non un bordo fuori posto. Ho aspettato che lui si voltasse per osservare quelle sottili finestre verdi ed impilarle senza altra ragione che non ammirare il gesto perfetto che aveva dato loro quella forma senza nemmeno rispondere al suo “Non vanno bene?”. Ciascuna filtrava la luce disegnando un minuscolo quadrato sul tavolo da lavoro, colorato di una tinta ancora più accesa quando spostai la candela per evocare quel prezioso gioco.
In quel momento mi sono resa conto di quanto tutto ciò fosse inquietante.
Forse è per questo motivo che stamattina ho provato una sensazione di sollievo quando ha annunciato che sarebbe partito per Alexandria e sarebbe stato lontano dal palazzo per tutta la giornata. Per questo ed altro ancora.
Il suono di un cappello di paglia per terra annuncia il ritorno di n. 16 e della sua immancabile palandrana viola che ha visto giorni migliori. “Questo può andare bene, signora?”
Le sue enormi dita si schiudono, lasciando che la candela illumini il palmo ed il suo prezioso contenuto; la luce colpisce a malapena il gioiello che questo si illumina, scintilla, trasforma quel guanto consumato in un caleidoscopio dove decine di minuscoli arcobaleni compaiono come le stelle negli istanti dopo il tramonto. Le centinaia di sfaccettature si colorano di verde e giallo, di rosa ed anche di un azzurro così intenso che per un istante mi copro il viso con le mani, aiutandomi con le dita per filtrare quel gioco di luci e delineare di nuovo la forma poco più piccola del mio pugno. Migliaia di persone ucciderebbero per un oggetto simile.
Il diamante adesso riflette i colori lungo il tavolo la lavoro e la libreria, e solo quando mi ricordo di annuire n. 16 lo allontana da me e lo appoggia nell’unico spazio libero del pianale. Scosto la candela per ammirarne la perfezione. Davanti a questo persino la collezione di gemme di Lady Stella sembra solo una montagna di cocci di bottiglia … non che l’abbia mai trovata interessante, ma sono certa che venderebbe tutte le sue piume per un gioiello del genere.
“Sì, grazie …”
Forse è questa la chiave di cui avevo bisogno. Anzi, più guardo la luce e più ne sono convinta.
Sul tavolo da lavoro il progetto è ancora incompleto. E’ molto più grande di maghi neri come n. 16, almeno il doppio dei semplici prototipi; ho dovuto unire due banchi per stenderlo, perché a differenza di Kuja non posso farlo levitare con un schiocco di dita e le ali di cui è dotato ancora non sono attive. Il secondo paio è opera mia, Kuja non aveva pensato a renderlo più agile. È bastato spostare le due ali originarie all’altezza dell’ultima vertebra cervicale e poi è stato semplicissimo aggiungerne altre proprio a metà della schiena. Lo ha fatto fare a me, dalla condensazione della resina collante all’aggancio, tutto fino alla verifica dell’apertura.
Per un attimo mi sono sentita come Cid.
Ma è stato davvero un attimo. Quello che sto facendo qui è diverso.
Non è tecnica, non sono motori, non sono soltanto ingranaggi, corde, bulloni ed un motore. Questa è magia.
Questa è vita.
E quello sotto di me non è un motore, ma un cuore. Un cuore fatto davvero con carne e muscoli, ma anche con sali, soluzioni e rune; sapevo dell’esistenza di un linguaggio della magia, un codice tramandato dagli antichi sapienti ormai nelle leggende. Non ne ho ancora avuto l’occasione, ma prima o poi quel libro sulle rune che ogni tanto Kuja tira fuori dalla sua biblioteca sarà mio. Questo cuore si attiverà non appena inserirò l’ultimo componente, anche se lui mi ha consigliato di farlo solo quando tutto il resto sarà completo. Il gigante su cui sto lavorando è un vecchio progetto, e lui mi ha chiesto di migliorarlo.
Probabilmente perché si è trattato di un fallimento, e basta trascorrere una manciata di secondi con Kuja per capire che non è il tipo da accettare fallimenti; forse lo ha delegato a me per questo –ed ho come il sospetto che ci stesse pensando sin dal momento in cui mi ha portata via con l’Hilda Garde- anche se alla fine la cosa non mi dispiace più di tanto. Non ho mai potuto fare qualcosa di veramente grande e veramente mio senza … senza dovermi guardare alle spalle, senza voltarmi ad ascoltare i sussurri della gente.
Il ripristino del Progetto Walzer può essere un buon inizio. Da qualche parte dovrò pur ricominciare …
“Signora …”
La voce di n.16 mi riporta indietro. Senza che nessuno glielo abbia ordinato si è avvicinato al tavolo; i suoi cristalli dorati scintillano, immagazzinando le immagini proprio come se fossero degli occhi veri mentre la testa gli scivola dall’alto verso il basso quasi a memorizzare ogni dettaglio del gigante immobile, dal pastrano così simile al suo fino alle ali. La sua mano si avvicina alle piume, quasi timorosa. Si volta verso di me quasi a chiedere una conferma, poi la fa scivolare per tutta la lunghezza fino a ritirarsi nel punto in cui questa si aggancia al corpo, quasi con timore. “… quindi i Walzer ritorneranno funzionanti?”
“Beh, al momento cerchiamo di finirne uno. Se dovesse andare bene potrei pensare di ricostruire anche gli altri. Dovrei ricominciare da zero, Kuja non è riuscito a recuperare nemmeno un pezzo degli altri due”.
“Capisco …”
Per un attimo c’è qualcosa di diverso nella sua voce. Qualcosa di … umano. Non pensavo di poterlo sentire dal simulatore vocale di n. 16. I maghi neri sono come gli antichi golem, dopotutto: hanno tutto, a parte un’anima. Adesso quantificare e definire cosa sia un’anima non è nelle mie capacità e personalmente ho sempre creduto che si trattasse di qualche deduzione filosofica di alcuni religiosi, ma da quando mi trovo qui è evidente che ci deve essere qualcosa che abbia a che fare con l’anima, “qualcosa” che io ho ed i maghi neri no. Eppure gli occhi di n. 16 sembrano davvero fissarmi, ed anche se sono soltanto cristalli sembra quasi che un’ombra vi abbia poggiato sopra le sue ali. Se fosse un uomo potrei definirlo “preoccupato”.
“Non hai nulla da temere. Sono convinta che questa volta andrà tutto a perfezione. Con la modifica che ho in mente la vostra efficienza aumenterà a dismisura, Walzer potrà comandarvi e coordinarvi da una distanza di oltre cento miglia senza che siate costretti ogni volta a passarvi parola o ad ascoltare gli ordini di Kuja. Non avrai bisogno di venire da me tutte le volte a chiedermi cosa mi serve, non sei contento?”
“…”
“È anche troppo evoluto per coordinare tutti voi maghi del palazzo, ma almeno se qualcuno dovesse attaccare questo posto sarete organizzati alla perfezione per difenderlo, soprattutto in caso Kuja fosse via!”
Beh, non mi sembra molto convinto. Non che ci sia qualcosa da “convincere” in un essere senz’anima –anzi, mi sento un po’ idiota nel farlo- eppure i suoi occhi non sono vuoti e spenti come al solito. Sono vivi, strani, e nel suo silenzio sarei pronta a scommettere che c’è qualcosa in tutto quello che ho detto che non approva. Persino le sue mani si agitano come a palpare, a sfiorare qualcosa che non c’è. “Numero 16 … è tutto a posto?”
“Sì signora. Non ci sono malfunzionamenti”.
“Non è questo che …”
“Quando sono andato a prenderle il diamante mi hanno detto che il padrone è tornato e vuole vederla tra un’ora. Sono passati oltre quindici minuti, e non deve far aspettare il padrone” risponde, allontanandosi dal tavolo con un movimento di pancia che per poco non fa cadere le bottiglie ed il tagliere. Prima che riesca anche solo ad ordinargli di fermarsi è già uscito, ha fatto cadere il cappello ed è sparito oltre il portone intarsiato. Nonostante i suoi piedi siano colmi di paglia riesco a sentirlo salire le scale con molta più fretta di quando è uscito per prendermi ciò che mi serviva. È davvero sempre più strano. Dovrò chiedere a Kuja se gli è mai accaduto prima. Tuttavia oggi ho avuto qualche buona idea, quindi non mi dispiace spegnere le candele e chiudere a chiave il laboratorio. Se penso ai piccoli esperimenti fatti in un angolo della mia stanza, di quelli che nascondevo nel cassetto, per un istante mi viene da ridere.
Prima di uscire però prendo il diamante e lo porto con me: ho come il sospetto che n. 16 non abbia chiesto a Kuja il permesso di prenderlo, e non voglio che gli succeda qualcosa per causa mia. Kuja ha delle reazioni poco piacevoli con i suoi servitori, e per quanto siano solo delle bambole animate non mi piace vederle esplodere in mille pezzi soltanto perché hanno obbedito con troppa solerzia ad una mia richiesta. Non n. 16, soprattutto. Kuja mi ha affidata a lui da quando mi ha portata qui, e nonostante i suoi lunghi silenzi e le frasi vuote è davvero l’unica voce che sento qui dentro quando il padrone del palazzo è via. E quando c’è parla anche troppo.

Ogni tanto mi chiedo perché non sono stata rapita da un bell’aviopirata. Quei tizi poco raccomandabili che nelle storie vanno sempre in giro a rapire principesse quasi si tratti di uno sport nazionale, magari di quelli che hanno un assistente di una qualche razza animale che li segue ciecamente. Anche un contrabbandiere andrebbe bene, perché no? Sono sicura che riuscirebbero a rendere molto più interessante una cena.
“… beh, era ovvio che non potesse vincere la competizione! Suvvia, il dottor Tot sarà anche un sapiente, ma è chiaro che non possa ricordare a memoria tutte le battute di Lord Avon! Non li senti gli applausi?” dice, voltandosi verso destra come se vi sia davvero qualcuno alle sue spalle a battere le mani. “Applaudono me, applaudono soltanto me! Si mettono in fila e si spingono tra loro pur di ascoltare la mia voce. Non è fantastico?”
Prenderei la prima dama di Alexandria sotto tiro, fosse anche la principessa Garnet in persona, la legherei a questa sedia e la lascerei ad ascoltare questa voce tanto melodiosa. Quando Kuja attacca con le sue autocelebrazioni finisco per rimpiangere persino le odi in rima alternata che Cid tesseva per le sue aereonavi –e sicuramente anche per le sue amanti.
Sì, decisamente anche farsi rapire da quell’attoruncolo con la coda che aveva recitato (male) la parte di Celestio tre anni fa al teatro centrale di Lindblum sembra un’opzione molto più gradevole. Giuro che se trovo uno di quei libri che narrano di fanciulle rapite da tetri ed affascinanti pirati dell’aria dò loro fuoco.
“Ti piace proprio il suono della tua voce …”
Non sarà la più felice delle risposte da dare ad una persona in grado di disintegrare un’aereonave con un incantesimo, ma per pochi attimi il silenzio che ne segue è una valida ricompensa per il rischio in cui potrei incorrere. Mi sorride, incurvando le labbra su cui –sono pronta a scommetterci la mia sfera di cristallo- ha passato qualche cosmetico perché sono anche più luminose delle mie. Forse la tempesta non è ancora pronta per scoppiare, perché di rimando prende la bottiglia del vino e versa parte del contenuto nel mio calice; lo solleva e me lo porge, invitandomi a prenderlo. “Potrei pensare che invece a te piaccia ascoltarla”.
Rude aviopirata dei bassifondi di Toleno, rapiscimi tu … “Posso puntualizzare il fatto che tu mi abbia portata qui senza darmi possibilità di andarmene?”
“Altresì potrei puntualizzare che il mio palazzo ha un portone, ma che tu non abbia mai cercato di oltrepassarlo”.
“Sai, vi sono svariate miglia di deserto tra il tuo elegantissimo portone ed il primo posto abitabile, ammesso che ve ne siano …”
Non afferro il calice. Appoggio lentamente le mani sulle ginocchia lasciandolo con il bicchiere in mano; lui mi fissa per un po’, ma nessuna traccia di magia si solleva dal suo corpo. Quando non lancia incantesimo non emette nemmeno uno spiraglio, nemmeno un minuscolo flusso di energia … quindi posso ancora considerarmi illesa per i prossimi minuti. “Oh, e io che pensavo ti piacesse rimanere qui. Ti trovo sempre nel laboratorio o nella biblioteca!”
Detesto quel suo sorrisetto di trionfo, specie quando segue una frase pronunciata con l’enfasi di un attore da melodramma. Perché sa che cosa c’è qui e cosa c’è di fuori. Sa che io ho bisogno di tempo, tempo per tutto, per pensare, per capire … e lui ha riempito questo tempo con qualcosa che mi ricorda un campanello argentato, di quelli che ti costringono a voltare la testa durante i giochi, che ti richiamano a casa avvisandoti che la cena è pronta.
Non posso negare che ho sempre sognato un posto come questo.
Mi ricorda una favola. Non la mia preferita, ma una di quelle che non riesci a dimenticare nemmeno volendo. Parlava di una ragazza intelligente, curiosa, mi sembra fosse persino la figlia di un inventore … insomma, per non ricordo bene quale motivo rimaneva prigioniera in un castello magico, dove il principe ed i servitori erano sotto l’effetto di un incantesimo causato (ma guarda un po’) da una Strega offesa. Il principe era diventato una bestia feroce, con tanto di zanne e coda, mentre i servitori erano stati trasformati in oggetti animati che mantenevano pulito ed ordinato il palazzo tutti i giorni (e anche questo mi sembrava davvero idiota da parte della Strega, trasformarli tutti in rane sarebbe stato molto più facile). La fanciulla era affascinata da quel posto perché c’era tutto ciò che desiderava e che nel suo piccolo paese era sempre guardato con sospetto, come libri, oggetti incantati, rose sempiterne … a farla breve, l’unica cosa terribile era il padrone, scortese, sgarbato e con un senso dell’educazione discutibile. Poi ad un certo punto lei provò a fuggire, rimase ferita a causa di mostri feroci all’esterno ma lui la salvò, e così scoccò la scintilla. Adesso non ricordo bene quale condizione illogica avesse posto la Strega per spezzare l’incantesimo, ma sta di fatto che la purezza e la compassione della ragazza fecero rinsavire il principe dal mondo tetro e solitario in cui si era rinchiuso e con un bacio del vero amore l’uomo ed i suoi servitori tornarono normali e tutti vissero felici e contenti.
Ora, escludendo quanto sia illogica questa storia, se tutto quello che mi fosse capitato in questi giorni diventasse un giorno materia di racconti o di canzoni bardiche, a qualche idiota di primo pelo verrebbe quasi da paragonare la mia situazione a quella della favola e magari se ne uscirebbe con qualche scemenza come il “bacio del vero amore” (altra idiozia delle favole. Il vero amore è qualcosa che usano gli uomini per abbindolarti e portarti a letto). Adesso, oltre al fatto che Kuja non ha le zanne e men che mai una coda pelosa, tutto mi verrebbe in mente adesso che non sia dargli un bacio giusto per vedere se si trasforma in un uomo elegante e premuroso. Perché se quello che sospetto è vero quelle labbra potrebbero aver sfiorato quelle della regina Brahne e nemmeno immergendole nell’acido cloridrico potrei levare la sensazione di fango umidiccio in bocca che senza dubbio mi lascerebbe.
Preferirei sul serio baciare n. 16. Almeno ha un paio di pantaloni e non indossa i tacchi.
Il mio silenzio lo ha lasciato ovviamente vincitore e gongolante. La realtà è che in questo momento non saprei dove andare.
Cambiare argomento è l’unica via d’uscita, e grazie al cielo con Kuja è fattibile. “Mi sono permessa di prendere questo dai piani superiori” sospiro, porgendogli il diamante ancora avvolto nel panno. “Se lo stabilizzassi all’interno della gabbia toracica e usassi delle lenti potrei usare la sua capacità di rifrazione per amplificare l’energia di Walzer. I diamanti ed i rubini sono le più sensibili alla conduzione della magia, credo valga la pena provare. Sempre che per te ….”
“Prendine quanti desideri. Te li farò recapitare tutti dopo cena”.
Tutti? “Quanti ne hai …?”
“Quanti ne ho voglia” mi risponde, e mentre porta alla bocca un cucchiaio di budino alle fragole –è il terzo. Non sembra, ma mangia davvero tanto- fa uscire la gemma dal suo involucro e se la porta davanti agli occhi, passandola tra il viso e la candela fino a costringermi a guardare in un’altra direzione per non rimanere abbagliata dalla luce del diamante, che davanti ad un lume simile manda dei raggi che sono ben maggiori di quelli prodotti nel laboratorio. Inizio a sentire la magia pizzicarmi dentro e l’attimo dopo la pietra abbandona la sua mano e levita pigramente fino all’apice della fiamma. Questa aumenta di colpo, poi avvolge tutta la cera bianca e come una torcia avvolge il diamante senza però toccarlo, come una corolla di petali chiusa intorno al polline.
L’effetto è indescrivibile.
La gemma ruota su se stessa ed i raggi bianchi e celesti si riflettono nelle decorazioni di vetro che pendono dal lampadario. Lì illuminano a giorno il nostro tavolo di marmo bianco e, prima ancora che io possa aggiungere altro, si lasciano andare contro il vetro della finestra trasformando la stanza in una sottile ragnatela bianca che si muove, si dipana man mano che il gioiello continua a girare trascinando il fuoco con sé. Un piccolo arcobaleno si disegna tra il candeliere e quello vicino, comparendo in aria non come un mero riflesso ma come qualcosa di tangibile ma che non potrebbe esistere in un posto secco come questo palazzo. Kuja guarda sorridente l’arcobaleno, spostandosi a sinistra pur di ottenere una visione migliore. Adesso anche il soffitto è rischiarato da fasci verdi e azzurri. L’unica cosa a non essere illuminata da questo delicato caleidoscopio è il volto cupo di un mago nero che ci serve a tavola, imperscrutabile sotto quel cappello.
Kuja è assolutamente rapito da tutto ciò. “Agli inizi mi chiedevo perché la gente desse tanto valore ai diamanti. In fondo non sono altro che sassi luminosi, no?”
Annuisco. Evidentemente il letto ed un buon libro dovranno aspettare.
“Pensavo che fosse solo perché sono oggettivamente belli, ma in fondo anche un tramonto è stupefacente eppure nessuno combatte per averlo solo per sé. Ti assicuro, la questione mi stava facendo impazzire!”
Questa discussione senza senso sta facendo impazzire ME. E’ scemo o cosa? “È perché sono rari …” rispondo nella vana speranza che finisca il dessert e senta il bisogno di andare a svuotare l’intestino. Speranza che si dissolve mentre lui assume una posa a suo dire melodrammatica, con una mano sulla fronte come se l’argomento fosse della massima complessità. Perché non ne discute con il dottor Tot?
La mano libera prende a tamburellare sul tavolo. “Giusto, giusto, è quella la soluzione! Ma allora mi sono chiesto: se vi fossero più diamanti su Gaya, la gente smetterebbe di desiderarli? Le dame non li indosserebbero più, perché anche la plebaglia può permetterseli? Li userebbero per lastricare le strade non sapendo più cosa farsene? O magari i userebbero per rinforzare le armature dei Plutò, che sembrano fatte della latta più scadente …”
“Un problema immaginario, Kuja. Non ci sono altri diamanti!”
“Tu sai come si crea un diamante?”
“Ci sono delle teorie, niente altro …” o almeno questo è ciò che so. Avevo letto un trattato di una studiosa burmesiana al riguardo, almeno cinque anni fa. Aveva portato avanti uno studio piuttosto interessante su gemme di ogni tipo, avevo letto un intero paragrafo di alcuni tipi che si formano soltanto nel loro sottosuolo e su cui volevo fare qualche piccolo esperimento. Poi i giorni erano passati ed avevo accantonato l’idea, ma ricordo bene il paragrafo dedicato alle gemme più splendenti del mondo. “Si sospetta che nascano dalla roccia più pura, ma solo se questa viene sottoposta ad una temperatura ed una pressione eccezionali. Ho letto che secondo alcuni l’interno del nostro mondo sia composto da rocce roventi più del fuoco, ma la cosa, perdonami, mi sembra un tantino ridicola”.
“No, no, no, è tutto giusto, tutto esatto sin nell’ultima virgola! Sono fortunato, non sempre trovo qualcuno di istruito che possa capirmi!”
Evitiamo di sottolineare la differenza tra trovo e rapisco
“Temperatura. Pressione. Due cose così semplici, così alla portata possono trasformare una roccia nella regina delle gemme, non è magnifico? Due fattori così comuni potrebbero cambiare il senso del mondo. Basta così poco, così poco …”
Poi la mano che fino ad un attimo prima gli sostava sulla fronte scatta in avanti, con un movimento così rapido che non riesco a trattenere un minuscolo salto sulla sedia. La temperatura aumenta in maniera vertiginosa, l’aria inizia a tremolare e tingersi di rosso ed arancio e sento la magia riprendere a martellare, stavolta agitata e furiosa. Il cuore mi sale in gola.
Il palmo preme sul marmo del tavolo come se volesse distruggerlo, la tovaglia ed i tovaglioli prendono fuoco e mi allontano da lì prima che anche il mio abito venga coinvolto in quel minuscolo incendio che in un battito di ciglia fa sparire cena, piatti, fiori, candele e incenso come se una forza bruta si fosse riversata in quel piccolo angolo ruggendo come un drago. Kuja non sposta il braccio nemmeno quando una fiamma gli si avvicina al braccio, continua a premere sul tavolo con uno sguardo diverso, quasi furioso.
Per un istante mi sembra come se davanti agli occhi avesse qualche altra cosa, qualche nemico immaginario ben diverso dal povero mobile che sta subendo tutta la sua furia. I maghi neri non si muovono, come se la reazione del loro padrone avvenisse in un mondo lontano dove loro non sono ammessi. Adesso dovrei cercare di calmarlo, ma qualunque cosa stia succedendo sono felice cdi non essere io il bersaglio di questo lampo di follia.
“Guarda bene …”
La sua voce adesso non ha assolutamente nulla di armonico. Solleva la testa nella mia direzione, e tra i capelli scomposti gli occhi hanno un guizzo che non ha nulla, assolutamente nulla di umano. Mi fissa come un predatore, con un ghigno che mi inchioda al pavimento quando qualunque pensiero razionale mi imporrebbe di uscire dalla porta e chiudermi nella stanza. Sembra una bestia pronta a balzare. “… guarda bene adesso”.
Il calore si allenta, riempiendo l’aria di una scia di vapore. Lui si allontana dal tavolo, sistemandosi i capelli con la mano senza staccare le iridi dalla superficie del mobile, invitandomi a fare un passo avanti.
Cosa che non faccio.
Vedo benissimo anche da qui.
Il tavolo si è incrinato. Tutto ciò che si trovava al di sopra è diventato un mucchio di cenere scura, ed il marmo delle gambe si è annerito fino a non essere poi così dissimile al carbone. Un vaso d’oro che si trovava in un angolo è l’unico sopravvissuto, ma è deformato come un uomo senza spina dorsale, il metallo luminoso piegato su se stesso fino ad essere solo una massa informe il cui contenuto è andato perso nella fiammata. Ma in mezzo a quelle rovine nere c’è qualcosa e, con mio sommo orrore, si trova proprio nel punto in cui quel mago pazzo ha poggiato le dita. Scintilla più della luce del giorno, più della fiamma.
In quel punto, e solo in quel punto, il marmo annerito cede il passo ad una superficie di diamante purissimo. Una massa incastonata lì dentro, nata dalla roccia che fino a qualche secondo fa sosteneva un piatto, un calice e delle posate. Mi osserva con le sue cento sfaccettature, mi sfida anche più del suo creatore, si vanta di essere reale in tutta la sua superiore bellezza. La gemma che n. 16 mi aveva portato è ancora lì a mezz’aria, ma il suo bagliore si è trasformato in un sottile filo di luce davanti a quella costellazione incastonata nel fumo e nel marmo. Fa volare il diamante verso di me, e stavolta lo recupero al volo.
“Basta poco, così poco … pensa, pensa come sarebbe Gaya. Un mondo dove i diamanti non sono unici, un mondo in cui le gemme sono tutte uguali, tutte uguali, tutte dannatamente uguali, comuni e banali. Chi si meraviglierebbe più nel guardare il loro arcobaleno, la loro perfezione, dimmi, chi lo farebbe?”
“Nessuno” sussurro, aiutandomi con lo scaramantico gesto di incrociare le dita dietro la schiena nel desiderio di aver formulato la risposta giusta.
“Esatto …”
L’aria si carica di incantesimi, stavolta totalmente fuori controllo. “… assolutamente NESSUNO!”
Stavolta mi ritrovo a terra, non sono stata così svelta nel reagire ed il freddo parte dalla mia testa quando urto contro qualcosa, il pavimento o una parete, non lo so. Fa male, brucia. È una pioggia di coltelli, la sua magia contro la mia impatta e stritola, spinge e urla. Non mi trascina con sé solo perché ha un altro obiettivo, ruggisce in avanti e passa oltre incatenando un incantesimo dopo l’altro: ho sentito Kuja lanciare magie decine di volte, ma mai per distruggere, e questa è …
L’esplosione che ne segue taglia in due questa ondata, mi proteggo gli occhi; so che qualunque cosa si trovi oltre me sta andando in pezzi e solo quando riconosco l’enorme sagoma di n. 16 –ma quando diamine è arrivato?- mettersi tra me e quell’inferno riesco a riprendere fiato. Volano schegge, volano suoni, vola assolutamente tutto e sparisce in tanti raggi di luce che sembrano spade.
Poi, come è iniziato, il boato sparisce. La magia si placa, felice di essere stata lasciata libera.
Oltre la mole scura davanti a me, a braccia aperte, c’è solo il vuoto.
Non c’è altro oltre ad un alone nero sul pavimento ed uno sul soffitto. Del lampadario è rimasto solo un anello della lunga catena dorata che lo teneva appeso. Le finestre non esistono più.
Un mago nero, quello che stava servendo a tavola è … no.
Kuja si trova al centro di questo nulla, i capelli sparsi in tutte le direzioni; le ultime fiamme dell’incantesimo si spengono tra i suoi palmi, diventano azzurre e poi si ritirano. Le punte dei capelli sembrano rosso fuoco, ma è solo un battito di ciglia perché l’istante seguente sono esattamente come prima.
Sta tremando. “Io le odio …”
Freme dalla testa ai piedi, guardando i reflussi della magia sparirgli tra le dita. “… IO LE ODIO LE COSE TUTTE UGUALI!”
Mi dà le spalle, e non c’è occasione più propizia per avvicinarsi alla porta. Una seconda tempesta è in arrivo, e non voglio trovarmi per l’ennesima volta distesa sul pavimento. Il signore di questo posto ha deciso che la cena è conclusa, dunque non ha altri motivi per rimanere, specie quando il corpo della sua guardia del corpo improvvisata è ricoperto di buchi, ferite e schegge varie.
Trattenendo il respiro, conto i passi che mi separano dal corridoio e trattengo il fiato.
“A proposito dei Walzer …”
Tana per Hilda.
Trema ancora, ma non si volta. E non ho alcuna intenzione di vedere ancora quello sguardo da pazzo almeno fino a domani mattina. “Vedi se riesci ad espandere al massimo il suo raggio di controllo. L’obiettivo è che controlli tutti i maghi, non lo dimenticare. Tra tre giorni potrei aver bisogno di lui”.
“Certamente”, e prima che possa protestare sono fuori da quella stanza. La cena –che a dire il vero non era così terrificante, compagnia a parte- adesso è risalita a metà tra la gola e lo stomaco e, se la conosco, non scenderà prima di un’ora.

Adesso n. 16 è tutto intero. Ha ondeggiato per tutto il percorso dalla sala da pranzo al laboratorio ed ho temuto che cadesse per le scale per almeno dieci volte, ma alla fine la paglia del suo corpo è più salda di quanto pensassi ed una volta arrivati qui sotto è stato semplice ripararlo. Grazie al cielo non ha subito danni terribili, e con qualche pezza di fortuna trovata nella stanza potrei anche riparare tutti i buchi nella palandrana che si è fatto per proteggermi. Adesso una vera principessa dei racconti, una di quelle rapite da un aviopirata, saprebbe sicuramente creare per il proprio servitore un vestito nuovo fatto con le loro bianche manine; purtroppo n. 16 si dovrà accontentare di una toppa bianca ed una blu cucite alla bene e meglio visto che il ricamo è sempre stato il mio nemico giurato.
“Grazie per prima”.
Non risponde. Si lascia passare l’olio nelle giunture senza degnarsi di parlare.
Continua a guardare fisso in un punto, nell’angolo dove Walzer aspetta di prendere vita. La cosa più rumorosa è il mio respiro, ancora veloce e mozzo per lo spavento di poco fa. Il diamante lo ho addosso, l’emozione anche, ma non riesco a concentrarmi al pensiero di quello che ho viso poco fa. Ed anche da un particolare, un piccolo campanello che ha iniziato a suonarmi subito dopo aver abbandonato quella stanza. “N. 16 …” riprendo con un sospiro. Il golem davanti a me è l’unico in grado di fornirmi risposte.
“Kuja vuole che Walzer sia pronto a breve e che riesca a controllarvi tutti… credo di poterlo completare in tre giorni, ma c’è una cosa che non ho capito …”
Beh, in realtà sono tante le cose che non ho capito. A partire da chi diamine sia la persona con cui ho cenato. Però se penso a tutto il lavoro da fare c’è un dubbio che non mi lascia. “… quanti siete voi maghi neri?”.
“Quattordicimilasettecentodue, mia signora. Non ho la stima precisa dei prototipi, ma di sicuro sono al di sotto dei settemilanovecento. Il padrone ne ha diminuito la costruzione in quanto la loro costruzione è svantaggiosa rispetto a noi modelli evoluti. Penso ormai li producano soltanto a Dali”
Ma cosa …?
In questo palazzo ve ne saranno al massimo duecento tra modelli principali e secondari, dove diavolo tiene tutti questi maghi? Se davvero questi si trovano qui per difendere la roccaforte in caso di attacco, cosa se ne … “Dove sono gli altri? E soprattutto cosa se ne fa di quattordicimila maghi?”
Lui continua a guardare Walzer, con gli occhi gialli ancora più luminosi. Se non fosse un essere artificiale direi che sta pensando, ma è un diamine di pupazzo ed io sto impazzendo! Il suo silenzio è l’ennesimo schiaffo della giornata e io non ne posso più!
“Rispondimi, n. 16!”. Mi metto tra lui e l’esperimento, cercando di ottenere di nuovo la sua attenzione. Ho quasi gridato l’ordine, mi rendo conto che il cuore sta battendo fino ad esplodere. Ne ho abbastanza di maghi pazzi, di tavoli che diventano diamanti e di cose che non so e che persino una bambola si rifiuta di dirmi. “Se Kuja non vi ha creato per difendere questo posto, allora qual è il vostro compito?”
Mi si prospettano davanti diversi scenari. Uno peggiore dell’altro. Gli incantesimi di queste creature sono ben poca cosa rispetto a quelli del loro padrone, li ho visti erigere barriere tra le mura ed abbattere le creature che si aggirano nel deserto, ma quattordicimila … Eppure nessuna immagine che io riesca a dipingermi davanti agli occhi riesce a farmi rabbrividire quanto la risposta, che arriva come un colpo di lama al cuore.
“Il nostro compito è morire, mia signora”.


N.d.W

1. Ok, ho riempito otto pagine di Word con un dialogo inutile. Secondo me c'è l'influsso del mefitico Polpettone che ancora aleggia sulla mia tastiera.
2. Mi rifiuto tassativamente di far parlare i maghi neri In QuEsTo MoDo altrimenti io finisco al manicomio ed i pochi lettori di corsa dall'oculista. Mi dispiace per l'adattamento italiano -che a me continua a piacere nonostante tutti i difetti di traduzione- ma credo che scrivere una storia dove ci sono tanti maghi neri in questo modo renderebbe impossibile per chiunque mandare giù questo mattone.

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Capitolo 2
*** Di come la felicità possa avere varie interpretazioni ***


Capitolo II - Di come la felicità possa avere varie interpretazioni

“Perdonatemi, ma mi sento in dovere di dire che se l’è andata a cercare!”
Tanto sapevo che Herbst e Gress la pensavano esattamente come me. Gress sputò per terra confermando il tutto.
La vecchia villa dei Moonrise ispirava timore anche di giorno, con le terrazze distrutte a metà come se una bestia feroce le avesse colpite in un attacco d’ira. Figuriamoci al crepuscolo.
Il cancello era stato forzato almeno cinque anni fa, durante un’incursione di qualche balordo, e cigolava in modo sinistro spinto dalla brezza del mare. La ruggine aveva divorato una decina di sbarre, una persona abbastanza sottile sarebbe riuscita anche a passare attraverso; ma tutti istintivamente allontanavano lo sguardo da quel punto, dove una statua consumata dal tempo sembrava in attesa di abbandonare la forma di pietra per divorare gli intrusi. Il leone rampante era avvolto in sottili tralci d’edera e la sua corona era stata per metà portata via dalla salsedine, ma le macchie scure sui suoi artigli erano visibili sin da fuori il cancello. La madre di Gress aveva detto che una volta aveva sentito un ruggito provenire dalla villa, poi delle urla, e che il giorno dopo si scoprì che Florence, la figlia del sarto, era sparita nel nulla.
Le ultime luci del giorno chiamarono i pipistrelli: arrivarono dai pini che si affacciavano sulla spiaggia, uno alla volta. Presero a volteggiare intorno alla statua e sui resti di una fontana, alcuni volavano così bassi che mossero l’erba alta con più forza del vento. Ne vidi un paio entrare oltre i vetri infranti e consumati di una finestra al piano terra, altri ancora venire verso di noi per poi unirsi agli altri. Il mare mandò un rumore sordo.
L’anziana Cheryl raccontava che la villa andò distrutta oltre trecento anni fa, quando il suo bisnonno era ancora un bambino e suo padre era partito per la guerra contro Burmesia. I Moonrise veneravano Leviatano, e ad ogni luna piena mandavano i loro sicari avvolti in mantelli rossi per rapire le bambine del villaggio e sacrificarle sugli scogli. Lo facevano per scongiurare la sua ira, così almeno sosteneva la vecchia. Ma un giorno gli abitanti decisero di opporsi, e prima che la luna mostrasse tutta la sua luce argentata nascosero le bambine e tutte le donne di Müttenborg chi nelle cantine, chi nel mulino, chi le mandò in visita da lontani parenti. I servi dei Moonrise cercarono invano le vittime, e tornarono alla villa a mani vuote. Lord Vincent Moonrise si accorse solo in quel momento che l’unica bambina rimasta nel paese era sua figlia Helena ma si rifiutò di portarla sulla spiaggia, cacciò via i servitori, li rimandò nelle strade di Müttenborg ancora e ancora, finché i primi raggi del sole non schiarirono la luna e la costrinsero a chinare la testa al nuovo giorno. La vecchia Cheryl chiudeva sempre gli occhi a quel punto del racconto, dicendo che la più grande fortuna della loro famiglia era stata che quel giorno il suo bisnonno non si fosse trovato vicino alla costa. Le onde si erano fatte alte, più alte di qualunque albero, e mentre lui e sua madre fuggivano insieme a tutta la gente si era voltato, ed in quell’istante la sagoma di Leviatano era apparsa tra i flutti, diretta contro la villa.
Avrei sempre voluto saperne di più su questo mostro. Che ne so, come fosse fatto, quanto fosse grande, se avesse delle zampe o qualcosa di simile. Ma l’anziana Cheryl ha sempre detto che certe cose non vanno raccontate e che una ragazza bene educata non ci dovrebbe nemmeno pensare, quindi non ho mai saputo la parte più interessante del racconto. Sta di fatto che Leviatano scatenò la sua furia sui Moonrise, e per dieci giorni la gente vide le acque del mare macchiarsi di scarlatto mentre le vesti dei nobili e dei loro servi lentamente si inabissavano e sparivano.
Poi c’era la versione del drago: tutte le grandi leggende hanno un drago sputafuoco. Era la versione preferita di Herbst, che aveva piuttosto paura della vecchia Cheryl e dei suoi denti tutti verdi.
Da quello che dicevano anche i libri delle antiche fiabe Leviatano aveva tanti poteri, ma non certo quello di appiccare il fuoco.
Il lato est della villa non si vedeva bene dal cancello, ma un paio di volte ci eravamo arrampicati sugli ulivi del signor Mirt per spiare oltre il muro diroccato che proteggeva l’abitazione, e nemmeno i resti di punte aguzze piantate sopra i mattoni grigi riusciva a nascondere il nero che macchiava l’ala orientale, dove probabilmente un tempo doveva trovarsi una veranda. La macchia dell’incendio si estendeva in quel punto e forse anche più dietro, ma l’erba era cresciuta lo stesso e l’edera si era comunque spinta su quelle pareti dove senza dubbio del fuoco si era scagliato con notevole violenza. Persino i vetri riflettevano la luce in modo diverso.
Di certo poteva sembrare l’opera di un drago, ma all’epoca avevo soltanto sedici anni e credevo ingenuamente che i draghi non esistessero. In realtà nemmeno Gress o Herbst vi credevano più di tanto, ma l’espressione cupa dipinta sulle loro facce in quel momento, agli ultimi istanti del sole, mi faceva sospettare che un po’ di sana superstizione fosse affiorata nel loro cuore.
Infine ovviamente c’era la versione più famosa, quella che non poteva mancare mai e poi mai nei racconti di paura intorno al fuoco. “Voi ci credete sul serio … insomma, la maledizione della Strega e tutto il resto …”
Non avevo mai sopportato molto Lily quando metteva su quella voce piagnucolosa che la rendeva ancora più infantile della sua sorellina, ma sospirai e mandai giù la saliva. Ero lì per lei, in fondo: lamentosa o meno era la cosa più simile ad un’amica che potessi trovare a Müttenborg. Forse perché era troppo ingenua da non chiedersi cosa facessi con tutte le erbe ed i minerali che vedeva nella mia camera, ma avevo sempre pensato che ogni tanto l’ignoranza fosse una benedizione. Chi si fa troppe domande spesso trova anche delle risposte. Nella maggior parte dei casi, risposte poco piacevoli.
“Le Streghe non esistono, Lily. O, se esistessero …” risposi, cercando di non far trapelare il tremito che sicuramente mi era sfuggito. “Avrebbero cose più intelligenti da fare che maledire un vecchio rudere”.
“Oh, sì, sarebbero troppo intente a creare pozioni per far cadere tutti i denti alla signora Huss!”
“Herbst, sei un idiota!”
Certo, non potevo sperare che Herbst e Gress fossero sciocchi come Lily; mi limitavo ogni tanto a pregare che le loro lingue lunghe non andassero in giro a raccontare troppo nei dettagli ciò che facevo nella mia cantina, soprattutto quando nel loro corpo scorreva più birra che sangue. Semplicemente chiudevano un occhio e ogni tanto preparavo loro qualche bevanda che migliorasse le prestazioni dei loro organi riproduttivi; a dire la verità Herbst li chiudeva tutti e due e testavamo insieme gli effetti della pozione quando non eravamo troppo impegnati con altri ragazzi e ragazze. Semplicemente ogni tanto avrei gradito un po’ più di riservatezza. “Quando è entrato, Lily?”
“Ieri … ieri mattina, subito dopo che siamo usciti dalla tua bottega. Voleva dimostrarmi che non c’era niente da temere dalla vecchia villa, e io …”
“L’ennesimo maschio idiota che pensa di fare colpo su una ragazza con la prima bravata che gli passa per la testa” mi voltai verso Gress, che mi restituì un gestaccio. “Non sarebbe né il primo né l’ultimo!”
“Sì, ma il signorino viene dalla capitale, non sa che tutti quelli che sono entrati in questa villa non ne sono mai usciti!”
Non avrei usato il termine “signorino” per quel grandissimo idiota. Per prima cosa aveva almeno dieci anni più di noi, o se erano di meno se li portava davvero male. Per seconda cosa nessun “signorino” di buona famiglia, con tutti quei bei vestiti usciti senza dubbio dalla più costosa sartoria di Lindblum, si sarebbe comportato come un ladruncolo idiota. Avevo preferito non scendere in questo dettaglio con la mia amica per non rovinarle l’idillica idea del ricco innamorato della capitale che avrebbe potuto regalarle una vita da principessa, ma la verità è che in quel momento volevo ritrovare quel grandissimo imbecille più per riavere ciò che mi aveva trafugato dalla bottega che non per restituire a Lily un povero cretino che senza dubbio non aveva alcun interesse a prolungare la loro relazione per più di tre giorni, il tempo di ripartire dalla visita a Müttenborg e tornare in città. Me ne ero accorta benissimo che mi stava osservando il sedere da oltre il bancone. Non che la cosa mi dispiacesse troppo –avevo davvero un bel sedere- ma il fatto che si fosse presentato come la fiamma della mia migliore amica mi aveva dato alquanto fastidio e forse gli avevo servito l’infuso a base di miele e glen con più insofferenza del necessario. Ovviamente prima di rendermi conto, solo dopo che quei due erano usciti tubando come uccellini, che il pezzo di scarletite che tenevo sempre sul bancone era sparito. Mi sono sempre considerata brava a fare due più due.
E se quel grandissimo pezzo d’idiota di città avesse lasciato troppo a lungo la scarletite in un posto umido –come senza dubbio era l’interno della magione- non sarebbe stato … come dire … semplice da spiegare agli altri l’origine degli effetti collaterali. I minerali sono sensibili all’ambiente, e la scarletite più di molti altri. Il fatto che possa stabilizzare la polvere di ferro e magnesio non implica che non abbia altri … usi. “Ma se aspettassimo domani? Magari adesso potremmo radunare qualcun altro e cercare aiuto!”
“Non parlare al plurale, Gress!” rispose Herbst, pungente come se un insetto gli avesse ronzato nelle orecchie. “Io lì dentro non ci vado, scordatelo!”
“Beh, nemmeno io, se è per questo. Ma intendevo dire che dobbiamo pur chiamare aiuto”.
“Sì, e così non verrà nessuno”.
Il mio commento doveva rimanere silenzioso, eppure mi uscì dalle labbra e gli altri si voltarono nella mia direzione. “Devo prepararvi un filtro per il coraggio?”
Gress, nonostante la pelle scura per i pomeriggi passati a gettare le reti in mare, diventò più bianco del mio vestito e fece un passo indietro regalando il secondo sputo della giornata all’erbaccia davanti all’edificio. Della luce del sole era rimasto soltanto il riflesso su un vetro rotto, e Lily accese una candela mentre si copriva con il mantello … per quanto non ero certa che lo facesse per il freddo. Avevo imparato ad ascoltare la magia, a sentirla nella mia pelle, a lasciarla correre dentro di me quando qualche rudimentale incantesimo veniva liberato: ma non c’erano incantesimi in quel posto, né sortilegi così potenti da nascondersi. Forse l’unica vera magia era la paura che i miei compagni stavano sprigionando, reso ancora più sinistro dagli occhi di un gufo che svolazzò sul cancello fino a posarsi lì, fissandoci senza alcun verso. Ma gli altri non avrebbero capito. Non avevano parlato di me con le autorità perché le mie pozioni erano utili, certo, e perché non avevo mai dato loro motivo di preoccuparsi. Eppure ogni tanto quel muro silenzioso di diffidenza tornava, e potevo sentirlo crescere proprio davanti a me, quasi a separarmi.
Credevo di essermici abituata, ma non era così.
Non era mai così, ed è sempre stato difficile fingere di non vederlo.
Il gufo spalancò gli occhi gialli e mandò un verso, ricordandomi ancora una volta dei motivi per cui ero lì. Uno dei quali era acciuffare quel ladruncolo di città, dargli una lezione con i fiocchi e riprendermi la scarletite. Esattamente in quest’ordine.
“Tranquilla, Lily. Vado io”.
“Ma Hilda …” per quanto la sua voce fosse piagnucolosa mi faceva piacere sapere che, nonostante tutto, la mia amica fosse davvero preoccupata per me. “… è troppo pericoloso, per favore! Andiamo a cercare qualcuno che …”
“Ci tieni a questo Cid sì o no? Io intanto entro, tu prendi quei due cuor di leone e prova a chiamare gente. Ma ho come il sospetto che lo tirerò fuori io molto prima di quanto tu riesca a trovare qualcuno con abbastanza fegato da entrare qui dentro!”
“E la maledizione della Strega? Non hai paura?”
Appoggiai le dita lungo il cancello, ed il rapace che mi stava osservando si sollevò pigramente per poggiarsi su chissà quale tetto. Il vecchio ferro battuto, reso caldo dal sale e dal mare, cigolò alla mia spinta e si aprì quanto bastava per farmi passare. Sotto le scarpe sentii la pietra dura, indice che vi era stato un vialetto che conduceva all’ingresso, ormai sommerso dall’erba. In alcuni punti era stata calpestata, ma di lato i fili verdi e gialli superavano di un palmo l’altezza del mio ginocchio. La statua del leone sembrava quasi più grande con il calare del buio, ma la macchia scura sulla sua zampa adesso si confondeva con le altre ombre, lasciandomi nel metto molta più intraprendenza di quanto credessi di avere. Se davvero quel Cid era lì da oltre un giorno o era un grandissimo idiota, o gli era davvero successo qualcosa, oppure aveva più coraggio di quanto mostrassero i suoi bei vestiti ricamati ed il fazzoletto di seta. Il guardiano di marmo della villa rimase immobile al mio passaggio, e per un istante avvicinai la mano alla zampa sinistra, quella più alta che sembrava in procinto di portarmi via la testa. Ma oltre l’edera ed il muschio non c’era nulla di minaccioso. Ad ogni passo mi sembrava che l’unica cosa in grado di uccidere, lì dentro, fosse la mole di stupidaggini e superstizioni che Gress, Herbst e Lily si portavano sulle spalle: li avrebbe schiacciati, e lei non era sicura di poter fare qualcosa per tutto ciò. “La maledizione della Strega … figuriamoci …”


“I will sing for crescent moon
dancing with the castanets
as the end will come so soon
in the land of twilight”


Kuja è sottile come una lastra di ghiaccio. Questo l’ho capito.
Ti permette di camminare su di lui, a patto che tu non faccia alcun rumore. Puoi specchiartici, se lo desideri, ma avvicinare troppo il viso a quella superficie vuol dire accettare una risposta gelida ed implacabile. Da quando sono qui ho sempre evitato questo lago ghiacciato, limitandomi a passeggiare lungo le sue rive ed a prendere quello che poteva darmi perché anche guardare indietro era faticoso. Ma adesso devo passarvi attraverso.
Ho bisogno di una risposta e ne ho bisogno subito, non posso fare il giro. Mi sono posta tantissime domande da quando sono qui, ma quelle più importanti non sono mai uscite dalla mia bocca. Osservo la distesa davanti a me, cercando un punto dove poter poggiare i piedi senza sprofondare.
Kuja sta cantando, in piedi al centro della biblioteca; le sue note in questa lingua che non conosco sono arrivate fino alla mia stanza attraversando le ampie volte di queste scale, riempiendo l’aria dal laboratorio alle scale.
La biblioteca è stata il primo posto che ho visitato quando mi sono ritrovata qui. E’ alta, maestosa, una stanza intorno al quale tutto il palazzo si articola e si snoda, le scale sostano a metà e poi riprendono il loro viaggio. Da terra non si riesce a scorgere il soffitto: solo salendo le scale che conducono al secondo livello è possibile osservare le tinte scure di questa volta mozzafiato trapuntata di stelle, l’intero cielo perfettamente incastonato e le costellazioni illuminate dalle oltre cinquanta candele che dormono sui lampadari. Chi si occupi di accenderle e spegnerle … è un mistero che non ho fretta di spiegare. Quando scendo le scale, la mano sinistra rigida sul corrimano, vedo le stelle della Vergine illuminarsi d’azzurro per un istante.
Non sono convinta che sia un segno positivo.
Niente affatto.
Prendere di petto Kuja e ricavarne qualcosa di utile è un’impresa con scarse possibilità di successo.
Le stesse possibilità scivolano nel reame dell’impossibilità quando mi accorgo che non è solo.
La bestia è sdraiata sul pavimento: non dorme, i suoi occhi neri sono spalancati e fissano il loro padrone seguendone anche il passo più impercettibile. Al terzo gradino si deve essere accorta della mia presenza perché solleva la testa e la gira nella mia direzione. Mi arresto immediatamente.
La prima ed unica volta che avevo poggiato gli occhi su un drago era stata la notte della mia fuga da Toleno, quando Kuja mi aveva “gentilmente” prelevata a bordo dell’Hilda Garde I e mi aveva condotto fin qui; lui si era lasciato cadere nel cielo, e quelle creature avevano sfiorato il fianco dell’aereonave prima di sparire. Ma questa è la prima volta che ne vedo uno da così vicino.
Potrei sempre rimandare la conversazione a …
“Oh, mia graditissima collaboratrice! Scendi pure, ho una bellissima notizia per te!”
Dannazione …
Avrei dovuto prendere lezione da Cid e dalla sua innata dote di sgattaiolare.
Kuja sorride dal centro della stanza. Riesco a vedere anche da quassù il trucco pesante che porta sulle palpebre, di un argento che ricorda le squame del drago. Sembra davvero felice, esattamente l’opposto di come l’ho lasciato ieri sera, ma ho imparato che il suo umore varia con la velocità di una mano di Tetramaster. Deve essersi accorto del motivo della mia diffidenza, perché i suoi occhi passano da me alla creatura accovacciata. “Non temere, puoi scendere. Ha già mangiato!”
Si gira verso la bestia senza smettere di sorridere. “Tu hai mangiato, vero?”
Per tutta risposta quella si alza sulle quattro zampe, alzandosi finché la sommità della testa non raggiungere il pianerottolo che conduce alle scale del primo piano e scivola intorno a lui: non è enorme, a malapena raggiungerebbe la metà dell’Hilda Garde I, ma è più che sufficiente per inchiodare le mie scarpe al tappeto rosso della scala. Le ali sono piegate contro il corpo, ma anche se le spiegasse la biblioteca potrebbe contenere tutta la sua figura. Si avvicina alla base delle scale quasi ad invitarmi a scendere, e non sfiora il tavolo di cristallo al centro né una sola zampa crea una piega sul tappeto. Il brontolio che ne segue potrebbe anche essere il frutto della mia immaginazione, ma sono più che convinta che venga dal ventre del drago. Kuja ha un’espressione ancora più divertita. “Mi correggo, non ha mangiato. Ma stai tranquilla, con tutti i vestiti che porti addosso troverebbe davvero seccante scartarti dalla testa ai piedi. Puoi scendere!”
Col cavolo!
“Non vorrei disturbare oltre il tuo meraviglioso canto. Sono certa che ne possiamo riparlare a cena!”
“A cena potrei non rispondere alla tua domanda, sai?”
“Come sai che …?”
“Ti si legge in faccia! Saresti un’attrice pessima, sul serio!”
Se dovessi descrivere la personalità di questo mago canterino mi sentirei di dire che ci sono dei momenti in cui è davvero intelligente, quasi perfido e viscido … e momenti in cui la sua ingenuità è assolutamente disarmante. Detesto trovarmi nella prima situazione. Forse il drago non è il predatore peggiore qui dentro.
“Posso discuterne ad una sana distanza di sicurezza?”
Aggiungo, sperando che il buonumore gli duri abbastanza da concedermi una posizione vicina all’unica via di fuga, ovvero il pianerottolo da cui sono scesa. Qualunque cosa lui possa chiamare “buona notizia”, rifletto tra me, avrà lo spessore intellettuale di un romanzetto d’amore o sarà qualche appunto sulla nuova moda femminile di Alexandria. L’importante è fingermi entusiasta di ogni cosa esca dalla sua bocca, così potrà rispondermi con calma alla questione sui maghi neri. Troppi particolari non tornano nel mio lavoro e nel Progetto Walzer. Alla mia richiesta fa un’espressione rilassata e si volta verso la sua bestia –come se potesse parlare, poi …
Con un cenno della testa mi dice di rimanere dove sono ed è lui ad avvicinarsi alla rampa di scale dopo aver appoggiato un testo sugli scaffali. Adesso devo solo sperare di ottenere maggiori risultati possibili da questa piccola “vittoria”. “Puoi iniziare tu, Kuja, se desideri. Adoro ricevere buone notizie”.
Prima le “signore” …
“Lindblum è stata distrutta!”
No.
Mi auguro di non aver sentito bene.
Non posso aver sentito bene.
Semplicemente non posso. Lindblum è …
“La regina Brahne ha fatto le cose in grande. Beh, come non potrebbe, dato il suo peso?”
Non è un sorriso. Quello non può essere un sorriso. “Ha persino utilizzato un eidolon, da non crederci. E la cosa fantastica è che ha impiegato oltre tre unità di maghi neri, quindi dobbiamo riprendere la produzione abbastanza in fretta. Walzer I sarà fondamentale!”
Non … non sono parole. Mi chiedo anche come io riesca a capire cosa sta dicendo mentre il cuore ha preso a battere e gridare dentro di me come se volesse scappare, obbligandomi a sentire la sua furia anche dentro le orecchie. Rimbombano, rimbombano e basta. Il viso di Cid emerge davanti a me insieme a quello di Janine, di Olivet, degli ingegneri e persino di qualche amante di mio marito. Iniziano a girare fino a sovrapporsi agli occhi di colui che mi ha appena dato la notizia. Ha salito le scale e si trova a soli tre gradini sotto di me e … “Qualcosa non va? Non sei contenta?”
Come … come fa a … è folle, come può anche solo pensare che …
La morsa che ho sentito in fondo alla gola si allenta e nemmeno io so da dove esce il fiato che mi riempie i polmoni. “Tu hai … hai distrutto la mia … TU HAI DISTRUTTO LA MIA CITTA!”
“Se proprio vogliamo essere pignoli è stata la regina Brahne a fare tutto il lavoro, io mi sono solo limitato a fornirle i mezzi per quanto … sì, in parte si può dire che sia opera mia! Non una delle mie migliori, lo ammetto, tutta quella confusione, tutto quel caos …”
Come può parlare in questo modo?
“… e poi, mia cara, mi duole ricordare che non è più la tua città, visto che hai deciso di andartene, trasformare il granduca in uno scaraburi, sottrarre illegalmente la punta di diamante della sua flotta e collaborare attivamente al potenziamento dei maghi neri. Quindi vedi …” sorride. E la cosa più orribile è che non è un sorriso falso. “… è tutto risolto! Puoi essere felice, quell’infedele di tuo marito ha probabilmente avuto la lezione che si meritava e quel luogo orribile che ha causato la tua infelicità adesso è un cumulo di macerie. Per carità, Brahne ha lasciato qualche sopravvissuto, ma suppongo che Lindblum dovrà essere d’ora in avanti molto ridimensionata sulle cartine geografiche. Perché questa faccia?”
Lo so che mio marito meritava una lezione. Lo so che quel palazzo era una tana di ipocriti, lo so cosa pensava la gente di me. Ma la faccia di Cid adesso la vedo ovunque, dal lampadario, alle costellazioni, alla libreria fino al muso del drago. La vedo e si sovrappone a tutto quello che ho pensato di lui, che penso di lui e che forse penserò una volta uscita di qui, perché ho bisogno della mia sfera di cristallo e di sapere dove si trova, come si trova, qualunque, qualunque piccola informazione … Ho bisogno di uscire subito da qui e allontanarmi da quel … mostro.
Non riesco a credere di non essermi mai accorta di cosa ci fosse sotto quel viso truccato e quella lingua sciolta. “Come puoi anche solo pensare una cosa simile?”
“Pardon?”
Soffoco l’istinto di prendere quel sorrisetto e sbatterlo contro il mancorrente di marmo. Si romperebbe prima la scala. Ma sento il disgusto superare abbondantemente la paura di qualunque sua reazione. “Il fatto che non mi piacesse quel posto non vuol dire che lo volessi vedere distrutto. C’erano migliaia di persone, nessuno mi aveva fatto nulla ed anche se lo avessero fatto non vuol dire che …”
“Quello che dici non ha senso”.
Mi interrompe prima ancora che possa tentare di spiegare. Ma in effetti credo che quel mostro davanti a me non possa capire niente. Forse il drago sarebbe più comprensivo. L’unica cosa positiva è che adesso ha levato il sorriso, ed anche se mi osserva come se fossi una bambina capricciosa è sempre preferibile al sapere che la distruzione di una città possa avergli causato piacere. O peggio, pretendere che possa aver portato piacere a me. “Ci sono le cose che ci piacciono e quelle che non ci piacciono. Anche quelle che ci sono indifferenti, ma di quelle mi annoio anche solo a parlarne. Come fai ad essere triste se una cosa che non ti piace non c’è più? Spiegami, la cosa mi incuriosisce”.
“Sai che uso ne faccio della tua curiosità?”
Senza nemmeno pensare alla probabile palla di fuoco che sta per partire dalle sue dita mi volto e salgo le scale. L’idea di stare con quel pazzo anche un secondo di più mi serra lo stomaco e il panorama di Lindblum sfreccia sotto i miei occhi troppo velocemente fino a cancellare i quadri e le pareti. Ho bisogno di vedere quel cielo azzurro e di vederlo adesso. E, per quanto uno scaraburi non sia la cosa più divertente che abbia mai visto in vita mia, il pensiero che mi martella le tempie è sapere di Cid. Al diavolo tutto il resto. “Hilda?”
Apro la porta che conduce al livello superiore senza nemmeno voltarmi. Anche se il tono di voce è stranamente gentile e non sembra quello di un mago in procinto di scagliare il suo più potente incantesimo contro la persona che lo ha appena elegantemente mandato a quel paese.
“Sai perché Gaya ha due lune?”
Sbatto la porta con tutta l’intenzione di far sentire il rumore fino ad Alexandria e corro verso la mia stanza.
Grandissimo figlio puttana.
La sfera è esattamente dove l’ho lasciata. Non ho aperto la borsetta sin dal giorno che Kuja mi ha portata in questo posto. Mi sono sforzata fino all’ultimo di non guardare indietro o farmi impietosire, ma le cose sono cambiate. L’oggetto magico risponde al mio comando prima ancora che la appoggi su un tavolino: quattro zampette nere emergono dalla nebbia che si propaga attraverso la sfera, poi due baffi bianchi. L’immagine dello scaraburi che cammina su un pavimento annerito dal fumo richiama per un istante tutti i miei pensieri.
Cid è vivo.
Ed è odioso ammettere che, nonostante tutto quello che è successo, il mio primo pensiero è andato a lui. Lindblum, i civili e tutto il resto sono venuti molto dopo.
Credo sia inutile chiedermi il perché, ma per quanto sia frustrante non riesce a rendere amara la sensazione di sollievo che ne è seguita. Cerco immagini della mia città, ma quando la risposta è il fumo che si alza dal palazzo granducale e dei maghi neri che camminano per le strade ed il molo non sono più convinta di nulla, a parte di una cosa.
Qualcuno bussa alla porta, ma il rumore sordo della paglia contro il legno annuncia l’ingresso di n. 16 e do il mio assenso senza nemmeno voltarmi, ascoltando l’immancabile tonfo del cappello contro lo stipite mentre i miei occhi rimangono incollati sulla sfera. Altri esseri come lui, altri volti neri dagli occhi luminosi si susseguono, e dalle loro mani nascono incantesimi per allontanare quelle poche persone che tentano una resistenza in una città di cui ormai ben poco è rimasto. Posso capire la paura che incutono queste bambole senza nome. Ma quando mi volto verso il mio assistente improvvisato capisco che non hanno alcuna colpa. Non volendo, Kuja ha risposto alla mia domanda. So a cosa ho lavorato, ma guardando il corpo grande e rattoppato davanti a me non riesco a sentirmi in colpa come forse dovrei. Al momento l’unica cosa chiara davanti a me è che ci sono due persone troppo pericolose su Gaya. Una è una cicciona di oltre cento chili distante miglia e miglia da qualunque mio incantesimo.
Un’altra invece è incredibilmente a portata di mano. È un mostro pazzo e spaventoso che potrebbe ridurre tutto questo posto in briciole, ma la voglia di vedere la sua elegantissima e nobilissima faccia esplodere contro una parete inizia a pizzicare quel po’ di cattiveria che solo una Strega piuttosto indispettita può ospitare.
“Mia signora, ho fatto portare nel laboratorio tutti i diamanti. Il padrone ha fatto sapere che Walzer I deve essere ultimato per la sua partenza”.
E, a pensarci bene, è un mostro abbastanza idiota da avermi fornito senza accorgersene tutto quello che mi serve per dargli una bella lezione. Non so quanto funzionerà, ma sono disposta a tentare.




Il Brano cantato da Kuja è tratto dalla canzone "In the Land of Twilight, under the moon", composta da Yuki Kajiura. Non chiedetemi perché, ma ho sempre immaginato Kuja cantarla ogni tanto.



N.d.W: si ringraziano tutti quelli che hanno avuto il coraggio di leggere questa storia sapendo in anticipo con quale velocità di crociera riesco ad aggiornare. Posso chiedere un favore ai sopravvissuti? Potreste dare il vostro voto al nome di Hilda nella sezione "Aggiungi personaggi?" .... Considerato che è e sarà una delle voci narranti di questa serie mi piacerebbe non dover più inserire il termine "Altro Personaggio" quando posto le storie. Grazie mille a tutti e buon proseguimento!

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Capitolo 3
*** La vendetta è un piatto che va gustato freddo. Specie se ci si ritrova nel bel mezzo di un deserto ***


Capitolo III - La vendetta è un piatto che va gustato freddo. Specie se ci si trova nel bel mezzo di un deserto

I picchi iniziano a comparire all’orizzonte, segnando la fine del viaggio.
Non c’è molta aria a bordo dell’Invincible: l’enorme vetrata copre l’intera prua e la piattaforma di comando come una cupola. I sistemi di filtraggio e purificazione della nave sono all’opera con il loro ronzio sordo che vibra con un ritmo diverso da quello dei motori, ma questi non riescono del tutto a soffocare il calore che proviene dalla stiva. Kuja mi ha detto chiaramente di non entrare nei livelli inferiori, ma stavolta ho tutta l’intenzione di obbedire: nella spaziosa cabina che mi ha assegnato ho avuto tutto il tempo di portare a compimento il mio piano.
Con il suo benestare, ovviamente.
Per un attimo riesco a vederlo: uno scintillio argentato tra le nuvole, un’ala dai colori indescrivibili, un guizzo che risale verso l’alto. I maghi neri dell’equipaggio non vi fanno caso e continuano il loro lavoro, ma io non posso fare a meno di sentire un tremito lungo la schiena ogni volta che il drago sfiora la fiancata dell’Invincible. Mi ritorna in mente la notte in cui Kuja mi ha portata via da Toleno, ma in questo momento non ci sono né il batticuore, né la curiosità di quel volo a bordo dell’Hilda Garde: adesso per quel mostro c’è soltanto disgusto e la voglia incontrollabile di farlo a pezzi.
“Manca meno di un’ora all’arrivo, mia signora”.
Le due coppie di ali sono richiuse, piegate perfettamente contro la schiena. Il sintetizzatore vocale crea un sibilo al termine di ogni parola, ma nulla riesce a diminuire la grandezza di Walzer N. 1 quando con tre passi attraversa lo spazio che separa il timone dalla vetrata e si ferma alle mie spalle.
Nel laboratorio non sembrava così enorme: potrei raggiungere la sua spalla solo mettendomi in punta di piedi. A bordo dell’Invincible ho trovato le ultime componenti di cui avevo bisogno per completarne la struttura –o meglio, le ha trovate N. 16- e Kuja mi ha gentilmente concesso di sfruttare l’enorme concentrazione magica nei motori della nave per alimentare le celle energetiche primarie di Walzer e ridare la vita a quella creatura. Kuja mi ha parlato di altri due esemplari, ma N.1 è l’unico di cui sia riuscito a recuperare il supporto ottico, il sistema visivo e soprattutto l’impalcatura scheletrica.
Però sono stata io a migliorarlo.
E a renderlo ciò che è adesso.
“Quanti maghi neri sei riuscito a reclutare?”
“Il cargo ne conta duecentotre, mia signora, tutti perfettamente funzionanti. Sono partiti tre ore fa, come su suo ordine”.
“Riesci a controllarli anche a questa distanza?”
Un lieve scintillio gli attraversa gli occhi. In questo momento, quando compie un altro passo in avanti e fissa l’orizzonte, sembra più vivo che mai. “Sono stato creato per questo”.
I diamanti sono stati fondamentali per questo passaggio: da quello che sono riuscita a dedurre dagli scarsi appunti di Kuja sul Progetto Walzer originale, la tecnica di controllo e coordinazione di queste creature si basava su pietre grezze che lui stesso aveva messo a contatto con il proprio potere fino a renderle in grado di rilasciare abbastanza energia magica da permettere ai Walzer di creare una rete tale da essere percepita da tutti i maghi neri presenti nel raggio di qualche miglio. Kuja aveva inserito queste gemme in alcuni strumenti –mi sarebbe piaciuto riuscire a recuperare il bastone di N.3- usando il suo sangue come vincolo e controllo.
Non è il tipo di magia a cui sono abituata. Forse mi spaventa, forse mi affascina, forse mi ricorda quei racconti prima di andare a dormire di mio padre, quando narrava di maghi e mostri venuti da un altro mondo in grado di incenerire un villaggio soltanto battendo le mani, oppure di sacerdoti vestiti di rosso che sacrificano esseri umani, persino bambini, per usarne il sangue e richiamare divinità nascoste sul fondo degli abissi. Un po’ come il racconto di Leviatano, a ben vedere.
Fino al giorno in cui ho incontrato Kuja credevo fossero soltanto leggende, o al massimo avvenimenti risalenti a migliaia di anni fa; un retaggio rimasto dentro di me, in grado di aiutarmi a percepire i cambiamenti nella magia, ma niente di più.
Ho avuto bisogno della magia del sangue per animare questo mago nero, sono stata costretta ad unire il mio sapere a quella forma di potere.
E non posso negare che sia stato … inebriante? O quantomeno … strano.
Sgranare i baccelli di artemisia richiede una pazienza infinita: se con le dita si graffia anche di poco la buccia delle bacche queste perdono tutte le loro proprietà. Lo zolfo va misurato con una bilancia particolare, quando l’ho distribuito ad occhio negli impasti per allontanare i topi dalle cantine ho regalato alla mia mano destra un’ustione di tre settimane. Per preparare una fiala di estratto di linfea occorrono sette gocce d’acqua: non sei, non otto, non sette abbondanti. Sette precise, e non devono toccare l’imbocco del contenitore o il tutto si trasformerà in un intruglio appiccicoso ed irreversibile. Bisogna avere gli occhi solo per il contagocce ed osservare l’acqua che scende, tocca le foglie di linfea, si sparge e solo dopo continuare contando in silenzio, pregando che nessuna cameriera idiota bussi alla porta. Bisogna costringere il cuore a rallentare, a battere al tempo delle dita. Invece la magia di Kuja, quella che brucia nel sangue e nella carne … è veloce, è potente.
È seducente.
È fatta di comandi e di volontà. Lascia che sia il cuore a dettare il ritmo, strappa via le briglie a questo chocobo in corsa e lo libera verso un orizzonte che nemmeno si riesce a vedere, un’intuizione che ti pizzica il corpo e ti trascina come una barca nella tempesta. La magia che scorre dentro di me è poca, ma non ho dimenticato la sensazione bruciante di quando essa è entrata in risonanza con quella di Kuja l’ultima notte che ho trascorso a Toleno. È stato da quel momento che ho capito che potevo fare di più.
Il sangue di Kuja è ciò che vincola i Walzer all’obbedienza cieca nei suoi confronti. Bagnando il diamante è possibile generare una rifrazione incantata più pura delle gemme grezze usate nei primi esperimenti, priva di quelle imperfezioni che impedivano ai Walzer di estendere le loro capacità di comunicazione oltre spazi ristretti. Le pietre sono lo strumento, ma è il sangue ciò che dà la spinta. I maghi neri come N. 16 o i prototipi non sono dotati di un simile sistema, il mio adorabile carceriere mi ha spiegato che la loro struttura cerebrale non è abbastanza evoluta da necessitare un sistema di controllo, ma i Walzer sono costrutti di natura superiore.
N.1 ne è la prova. La sua mano enorme preme sul vetro, quasi a cercare di raggiungere la nostra misteriosa meta. Sarà un desiderio infantile, ma in questo istante non posso fare a meno di domandarmi se pensi a qualcosa; o forse è solo l’enorme sforzo di coordinare tutti i suoi fratelli per guidarli al nostro obiettivo. Al mio obiettivo. “Lasci tutto nelle mie mani, mia signora”.
“Certo, N.1. Ma una sola raccomandazione …”
L’unica semplice, strana nota stonata in questo atto. Una voce nell’angolo della mia testa, un tenue lamentarsi seguito dal tonfo di un cappello di paglia che cade a terra nel tentativo di passare attraverso una porta più bassa di lui. “Limita le perdite. Non voglio mandarvi al massacro”.
“Sarà mia premura anche di questo, mia signora”.
Kuja ignora che è mia ferma intenzione non farlo tornare più indietro. Dopo quello che ha fatto a Lindblum … non posso continuare a nascondermi. La sua tracotanza lo farà cadere a terra, ed è mia volontà fargli provare più male possibile. Ignora che i maghi neri che tratta in maniera così ignobile saranno la sua fine. Ignora che la fiala di sangue che mi ha lasciato per avere il controllo sulla mente di Walzer ha fatto un lungo salto oltre i portelloni dell’Invincible e adesso probabilmente sarà sotto un tappeto di alghe nel fondo dell’oceano.

Kuja è già a terra quando l’Invincible arresta i motori e si prepara all’attracco; la bestia alata attende con pazienza che la rampa di discesa venga calata, ma non appena io e N. 1 vi poggiamo sopra i nostri piedi essa si alza in volo. Una folata delle sue massicce ali fa vibrare la nave, poi il drago emette un verso acuto e si allontana oltre le montagne.
Il mio viscido rapitore mi porge il braccio in un inchino vomitevolmente perfetto. “Mia bellissima granduchessa, mi auguro tu abbia fatto un buon viaggio”.
“Il volo è stato perfetto, Kuja” rispondo. Le parole vanno dosate come l’acqua nei decotti di linfea. “È il comitato d’accoglienza che lascia un tantino a desiderare”.
“Ancora offesa per quella storia di Lindblum? Cielo, talvolta rendere felici voi donne è un’impresa disperata” si porta una mano alla fronte con fare drammatico, ma la destra è ancora tesa verso di me e non credo che rifiutarla sia tra le opzioni da prendere in considerazione.
Cielo, quanto avrei voglia di sputarci sopra.
Sono queste dita così perfette che hanno liberato la morte sul mio mondo. Sono queste unghie dallo smalto impeccabile quelle che la regina Brahne ha ammirato poco prima di sferrare un attacco, e quando ne sfioro prima le nocche e poi il palo mi volto verso N.1 per soffocare il disgusto e la voglia di staccargli di netto quella mano di cui va tanto orgoglioso. È gelido al tocco. “Certo che lo sono. Sono venuta fin qui per sorvegliare il risveglio di N.1 ed il suo primo impatto operativo, non certo per il piacere della tua compagnia”.
“Questa ostinazione ti farà venire delle rughe precoci, mia cara. Mi si lacererebbe il cuore all’idea di rovinare il volto di una donna tanto bella. E io che pensavo che saresti stata contenta di svagarti un po’, hai trascorso tutto questo tempo nei laboratori!”
“Mi hai fatto uscire da un palazzo nel deserto per condurmi in un altro palazzo nel deserto …” sospiro senza nascondere troppo la mia stizza per questa situazione. Pochi giorni in compagnia di Kuja mi hanno insegnato che è ossessionato dalle maschere, dai trucchi e dalle bugie: le poche volte in cui ho cercato di mentirgli si sono trasformate in enormi buchi nell’acqua, dunque stavolta lascio che il mio reale disprezzo per lui fuoriesca ad ogni passo e si palesi in ogni singola, pungente, velenosa parola “… pensavo che un tipo come te conducesse la propria ospite ad una serata mondana!”
“Mia dolce granduchessa Hildagarde, l’ultima volta che un uomo ti ha accompagnata al teatro dell’opera hai trasformato la preziosissima Rosette Mirage in uno scaraburi e non hai nemmeno atteso che il sipario calasse su tutta l’opera. Perdonami se non sei la fanciulla che trascinerei con me in un minuetto al chiaro di luna”.
Posso ancora considerarmi fortunata, sospiro tra me. Non auguro a nessuna donna di sentire questa mano orribile tra le proprie.
Rimango in silenzio, osservo la forma di Walzer alle nostre spalle e poi lascio che l’aria rovente e satura di sabbia abbia la meglio sui miei polmoni. Gli occhi del mio accompagnatore sono fissi sull’enorme edificio davanti a noi, ignorano la creatura che mi ha chiesto tanto insistentemente di realizzare e per un istante si fermano, come ipnotizzati e rapiti da qualcosa che non riesco a vedere.
La rocca davanti a noi sembra una fortezza di pietra, costruita su fondamenta di roccia che sporgono dalle montagne stesse e dalla terra rossastra come un pugno levato; la gola in cui è costruita non è praticamente visibile dall’alto, eppure ora che la trovo davanti a me sembra quasi impossibile che una simile struttura possa essere invisibile anche dal cielo. Il suo ingresso sorge al di sotto di una specie di pinnacolo che si alza per diverse decine di braccia, inclinato in avanti quasi a ricordare il muso di una creatura pronta a chiudere le zanne su chiunque osi violare l’ingresso, una porta ogivale a cui si può accedere mediante una polverosa ma breve scala di pietra su cui Kuja poggia il piede senza alcuna esitazione. A destra ed a sinistra dei gradini vi sono … non saprei definirli. Piccole e medie cupole di metallo arrugginito, decorazioni lineari e senza forma che si stagliano anche sul pinnacolo coperte dalla sabbia rossa. Qualunque cosa fossero il tempo ha giocato con loro, ma nulla riesce a coprire l’impressione che la città misteriosa di cui il mio rapitore ha sentito nei libri nasconda qualcosa di … strano.
Un sottile filo di vento saturo di sabbia scivola lungo questo ingresso monumentale e stagna nelle poche ombre concesse dal sole agli angoli della scala, dove il calore del deserto non ha ancora bruciato la pietra scura. Delle sottili venature ricoprono la pietra antistante l’ingresso, disegnando qualcosa che potrebbe ricordare un fiore consumato dal sole.
Quella davanti ai nostri occhi sembra essere l’unica porta. Lungo la parete vi sono altre volte, altre enormi arcate scolpite nella pietra ma tutte sigillate con lastre di marmo più chiare di quelle di quelle dell’intero edificio. Su di esse, così come sul portone, un triangolo capovolto ci dà il benvenuto.
Senza abbandonare la presa sulla mia mano, Kuja raggiunge il portale. “Cinquemila anni” mormora. “Questo luogo sta dormendo da cinquemila anni”.
“Molto improbabile. L’edificio più antico del Continente della Nebbia sono le rovine del tempio di Scorpio, nel cuore delle paludi dei Qu. E senza dubbio non ha nemmeno quattromila anni, lo sanno anche i bambini. Ah, già, dimenticavo … questo nei versi di Lord Avon non è scritto, come posso pretendere che tu ne abbia sentito parlare?”
“Oh, avrai tempo per illuminarmi. Ho fatto proprio bene a chiedere la tua collaborazione, una Strega esperta di storia non si trova tutti i giorni! Magari ne potremmo discutere stasera a cena, cosa ne pensi?”
Contaci …
La sua mano corre lungo il portone. Ignora l’enorme forma triangolare, quasi ne avesse timore, e con una lentezza a dir poco esasperante inizia a far scivolare i polpastrelli in alto ed in basso, a destra ed a sinistra seguendo qualche strano percorso guidato dalla sua mente malata. La sabbia che da anni riposa sui battenti di pietra obbedisce al suo comando e si sposta, ma il vento caldo raccoglie tutti i granelli prima che possano cadere al suolo. Sento il rumore dei portelli secondari dell’Invincible aprirsi per far uscire i pochi maghi neri dell’equipaggio, ma la stretta di Kuja mi impone di non voltarmi, di seguire la danza ipnotica delle sue dita. “Hilda, sai perché Gaya ha due lune?”
Ancora quella domanda.
“È così importante?”
“Dipende …”
Il tono di voce si fa dolce. Ho l’impressione che anche rimanendo centinaia di anni al suo fianco non riuscirei mai ad abituarmi ai suoi costanti sbalzi d’umore, agli occhi che un istante ti scherniscono e ti considerano una bambina capricciosa e l’attimo dopo sono immersi in pensieri che potrei definire soltanto “tristi”. Grazie al cielo conto di liberare Gaya da questo mago lunatico ben prima di marcire nell’animo ed abituarmi alle sue follie. Anche entro il calare della sera, se il mio piano andrà in porto.
Kuja continua a non accorgersi di nulla. “… dipende tutto dal punto di vista. Credo che non vi siano cose importanti e cose che non lo siano, ma tutto ruoti intorno alle nostre necessità. E per me … sì, è una questione davvero molto, molto importante. Per te certamente no, mia cara, dunque è per questo che desidero illuminarti e renderti partecipe delle mie necessità”.
“Come hai detto prima, Kuja, potremmo discuterne a cena” rispondo, cercando di far trasparire soltanto parte del mio nervosismo per quell’attesa snervante davanti ad un portone.
Il secondo cargo contenente maghi neri dovrebbe arrivare a breve: sono salpati con diverse ore di ritardo, ma sono partiti dalle coste occidentali del Continente della Nebbia, quindi il loro tragitto sarà comunque più rapido del nostro e, se Walzer ha calcolato correttamente i tempi, atterreranno ai margini di questa gola tra meno di un’ora. E persino un essere frivolo e superficiale come Kuja potrebbe avere dei sospetti ritrovandosi un esercito di maghi neri da lui non autorizzato. “Come si apre questo portone?”
“Con i giusti requisiti, ovviamente”.
Sorride. “E, per nostra incredibile fortuna, io possiedo questi requisiti”.
Si solleva leggermente in punta di piedi; l’indice smette di vagare lungo il portone, e dopo un istante carico di mille incertezze si appoggia proprio al centro di triangolo con un unico, lunghissimo movimento. Qualcosa da dentro la fortezza si muove, come se un gigante avesse iniziato a trascinare delle pesanti catene lungo una scala: mi ricordano degli ingranaggi molto potenti, ma i suoni bassi, simili a tamburi dalla membrana consunta dal tempo, mi riecheggiano nella testa anche dopo che i battenti del portone hanno smesso di muoversi e sono spalancati davanti a noi. Adesso più che mai il pinnacolo inclinato sembra il muso di una bestia e questo ingresso la gola pronta a portarci nelle profondità di questo luogo. Ed entrarci con una mano nella stretta del mio rapitore può solo che peggiorare il senso di inquietudine che mi stringe lo stomaco non appena i primi raggi di luce fendono quel posto dove chiaramente nessun essere vivente è mai entrato da centinaia di anni. “Mia cara Hilda, hai l’onore di essere la prima umana a mettere piede nella fortezza di Oeilvert”.
Vorrei poter dire di trovarmi in un palazzo incantato, con fontane la cui acqua scorre dal basso verso l’alto, cori angelici ed un piacevole senso di ebbrezza che pizzica la mia magia dal cuore fino alla testa; vorrei aprire la bocca e lanciare un gridolino di meraviglia per il posto incantato in cui il mio rapitore mi ha portata, ma la verità è che, quando apro la bocca, una sensazione di calore e secchezza mi entra fin dentro le guance. L’odore di chiuso scivola nella nostra direzione disperdendosi oltre l’ingresso, e la sensazione è che tutta la polvere accumulatasi negli ultimi millenni abbia deciso di scendermi in gola fino a farmi soffocare. La poca luce passa attraverso un’enorme vetrata rotonda, i cui vetri un tempo gialli sono coperti da sabbia, polvere e solo il cielo sa cosa altro ancora: la forma della vetrata ricorda una spirale stilizzata, ma persino i raggi del sole sembrano aver paura di passare da quella finestra. Kuja avanza verso il centro del salone senza prestare attenzione alla vetrata. I suoi occhi attraversano la stanza e si soffermano sulle diverse rampe di scale che si diramano dal punto in cui ci troviamo. Mi lascia la mano in maniera brusca, quasi fossi una bambola di cui si sia stancato.
L’unica cosa che desidero è uscire subito da qui. “Questa Pietra Gulug … hai idea di dove sia? Potrebbe essere dappertutto!”
“Conoscendo i terani non si troverà di certo all’ingresso pronta ed impacchettata per farsi prendere da noi. Iniziamo a cercarla!”
“I … terani?”
Lui si china a terra e soffia sul pavimento. Uno strato di polvere si solleva, rivelando l’immagine di un triangolo in rilievo: l’interno della figura è a sua volta scomposto in figure regolari e sfaccettate, praticamente identico a quello che ci ha dato il benvenuto all’ingresso. “Coloro che hanno costruito questo posto” risponde mentre la mano corre sul pavimento. È solo un istante, ma mi sembra che le sue dita siano state scosse da un tremito.
“Quello l’avevo capito anche da sola, grazie …” sospiro nella vaga speranza di una risponda più approfondita. “Ma sarebbe carino se tu mi spieg …”
“PRENDI QUELL’INUTILISSIMO WALZER E VAI A CERCARE LA PIETRA! ORA!”
L’urlo rimbomba per tutta la stanza, così improvviso che sobbalzo e i miei piedi si portano automaticamente a diversi metri da lui; probabilmente cadrei per le scale se la tunica ingombrante di N.1 non occupasse tutto lo spazio sulla rampa. Kuja si è alzato di scatto, e adesso mi dà le spalle. Con soli tre passi si porta su una rampa di pietra sulla nostra sinistra, una scala che si stacca dal pavimento e verosimilmente conduce ad un livello superiore. “CHE STAI ASPETTANDO?”
Suppongo non sia il caso di mettersi a discutere.
Sulla mia destra, in un punto poco illuminato dalla fioca luce della vetrata, una piccola porta semisocchiusa sembra condurre ad un’altra stanza. Considerato il fatto che mi trovo in una fortezza nel deserto in compagnia di un mago sempre più pazzo, di un manipolo di maghi neri ed in un posto potenzialmente con trappole mortali che non saprei evitare nemmeno avendo tutta la magia del mondo, quella porticina coperta di polvere e con una grottesca statua su un lato sembra la cosa meno terribile di tutto il quadro generale. E, per quanto questo posto non mi ispiri alcuna fiducia, non dover più sentire la mano di Kuja sulla mia mi dona più coraggio di quanto avrei pensato. Mi limito a mugugnargli un “Va bene, va bene …” che lo placherà per qualche minuto, il tempo necessario per trascinarmi dietro Walzer e mettere in atto il nostro piano. In questo posto non ci sono draghi né artefatti incantati di cui il palazzo nel deserto ne è pieno. È un luogo che nemmeno lui conosce, e che tra poco sarà talmente pieno di maghi neri che non riuscirà nemmeno a scorgere una mattonella del pavimento.
Maghi neri coordinati da Walzer e pensati per agire come un’unica creatura.
E, quando Kuja penserà di dar loro ordini, avrà una splendida sorpresa che mi auguro gli farà cacciare quel sorrisetto in gola una volta per tutte.
Forse non ho potuto salvare Lindblum, ma non permetterò a questo pazzo di versare un’altra goccia di sangue.
La statua davanti alla porta è ancora più grottesca di quanto immaginassi. Riesce quasi a far sembrare la regina Brahne una bella donna: sembra la parodia grottesca di un gigante dai lineamenti mostruosi che stringe tra le mani un’enorme lastra di pietra. Più per curiosità che per altro mi avvicino e soffio su di essa, ma vi sono dei caratteri che non so leggere. È chiaramente un tipo di scrittura, ma non mi ricorda né il burmesiano né altre forme di alfabeto di mia conoscenza.
Lascio perdere e vado avanti, ma prima di aprire i battenti il necessario per far passare me ed il mio ingombrante accompagnatore mi volto un istante verso l’atrio.
Kuja non è ancora arrivato in cima alle scale.
Anzi, ad essere sincera sarà salito sì e no un paio di gradini.
La mano sinistra è aggrappata alla ringhiera, quasi vi stesse poggiando sopra tutto il suo peso. Ha le ginocchia leggermente piegate e, anche a questa distanza, non c’è dubbio che abbia il fiato corto. Potrei persino giurare che stia tremando.
Trattengo io stessa il fiato, cercando di capire se quello che sta succedendo è un miracolo, un sogno o un incredibile colpo di fortuna. Ma forse, e sottolineo forse, vale la pensa aspettare un istante e vedere cosa sta succedendo: perché potrei persino non avere bisogno di altri duecento maghi neri se Walzer mi assiste.
Ordino al gigantesco mago di venire al mio fianco.
Glielo ordino una seconda volta, con voce più alta, cercando di scandire il comando attraverso il suono che so che per lui è assoluto.
Ma non si muove.
Lo ripeto ancora, ma quando provo a muovermi verso di lui per capire cosa diamine sia andato storto qualcosa mi afferra il polso, qualcosa che ha tutta l’aria di essere una mano. Mi volto e non trattengo un grido.

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Capitolo 4
*** (S)piacevoli conversazioni al sapore di menta e arance ***


Capitolo IV - (S)piacevoli conversazioni al sapore di menta e arance

Un pipistrello lasciò il suo rifugio, infastidito dalla luce.
La gente spesso pensa ad una Strega come ad una creatura in grado di lanciare fiamme dalle mani, ma nella maggior parte dei casi basta ricordarsi di portare un acciarino nella sacca da passeggio e sperare di trovare una candela nel percorso. Quella sera ero stata particolarmente fortunata, ed un intero candelabro a quattro braccia si era parato davanti a me non appena misi piede nella villa dei Moonrise; il sole era tramontato nel tempo che avevo impiegato a districarmi la gonna dai rovi del giardino abbandonato e non c’era angolo di quell’abitazione che non fosse sprofondato nel buio.
Sotto i miei piedi ciò che rimaneva di un vecchio tappeto scricchiolò per poi sgretolarsi.
Le espressioni terrorizzate di Herbst, Gress e Lily mi apparvero davanti agli occhi e non riuscii a trattenere un sorriso.
Forse era colpa di mio padre, forse no. Forse perché abbiamo sempre trovato divertente guardare il signor Junnit alzarsi prima dell’alba e lasciare delle bacche di revis davanti alla porta di casa per convincere gli spiriti del campo a non far ammalare la sua vacca. O forse perché aspettavamo che andasse nell’orto per entrare nella sua proprietà e riempirci la pancia di quelle bacche cento volte più dolci del miele.
Mi fermai un istante in quel salone deserto, aprii la mia sacca, feci cadere nel palmo un paio di frutti di revis e le portai alla bocca. La luce di quelle candele dalla cera consumata e dallo stoppino consumato non era imponente, ma quanto bastava per osservare le librerie distrutte, le cornici dei quadri annerite e ciò che rimaneva di oltre venti enormi sedie imbottite, di quelle ricoperte di velluto come si favoleggiavano nel palazzo di Alexandria. I resti di una specchiera riflettevano la debole luce disegnando piccole scintille di vetro proprio ai miei piedi, ma mi chinai per sfiorarne una ed ormai i frammenti erano lisci, non più taglienti, leggermente opachi per la polvere e per il fuoco … lo stesso fuoco che aveva annerito le pareti e distrutto quelle che dovevano essere enormi tende e che in quel momento erano solo minuscoli brandelli di tessuto annerito privi anche della forza di sventolare.
Fuoco. Distruzione.
Mi avvicinai alla rampa di scale più vicina, quella che conduceva ai piani superiori. Le macchie lungo il corrimano di marmo, ormai totalmente annerito, non erano certo opera di un drago furioso o del signore dei mari. Men che mai di una Strega.
Il sapore delle bacche di revis mi scese in gola mentre osservai l’opera della furia degli uomini.
In quel posto vi era stato un massacro.
Di certo all’epoca non avevo a disposizione l’enorme biblioteca di Lindblum o qualche testo di storia più affidabile delle canzoni della vecchia Cheryl, ma non avevo bisogno di conoscere il nome della casata rivale dei Moonrise per riconoscere il sangue rappreso, i segni delle spade nel legno delle librerie, il fuoco appiccato lungo le tende. Una storia meno bizzarra di qualunque leggenda, più disgustosa e reale dell’offesa di Leviatano per la mancata offerta; per riflesso feci un passo indietro, mancando un gradino, quasi respinta dalle macchie ormai annerite che disegnavano una scia lungo le scale, dirette al piano superiore. Non mi ero mai considerata una donna suscettibile –al contrario- ma fui costretta a voltare la testa in un’altra direzione alla ricerca di un punto di quella magione che non fosse testimone della strage: in quel momento avrei preferito realmente incontrare un drago vero che non salire le scale.
Se quel Cid era da qualche parte lì dentro era ancora più stupido di quanto temessi. Al massimo poteva riconoscergli un certo fegato, ma nulla di più. Lily avrebbe fatto meglio a girare a largo da lui.
Doveva essere trascorsa almeno un’ora da quando avevo messo piede nella villa. Avevo esplorato quasi tutto il piano terra, le cucine e l’androne: l’ala nord era inaccessibile persino avendo a disposizione un badile, il controsoffitto era crollato ostruendo l’ingresso e le spesse tre dita di polvere sul cumulo di detriti non faceva certo pensare che qualche imbecille fosse passato di lì negli ultimi dieci anni. Provai persino a sbirciare oltre con le candele, ma oltre alla luce fioca ed alla polvere che galleggiava nell’aria stantia non c’era assolutamente nulla in quel luogo devastato.
Solo detriti, sangue pesto ed umidità. Tanta umidità.
L’idea che la mia scarletite fosse da qualche parte in quel posto mi costrinse a smetterla di soffermarmi su ogni mobile vecchio sotto il naso ed a cercare altrove: gli effetti collaterali della mia preziosissima pietra in un luogo simile non sarebbero stati piacevoli. Affatto.
“Mancano i livelli inferiori” mormorai a me stessa per sentire un po’ il suono della mia voce. Grazie al cielo non c’erano eco misteriose o cose tipiche di una villa infestata, ma stranamente le mie parole non ebbero il potere di tranquillizzarmi come avrebbero dovuto. Forse ero stata più spavalda del previsto … fortuna che Herbst non si trovava lì. Avrei trovato seccante doverlo ammettere davanti ai suoi stupidi denti storti.
Le scale non erano state risparmiate dalla battaglia. Scesi i gradini uno alla volta, con gli occhi ben fissi in avanti. Se il piano terreno era stato salvato da qualche finestra distrutta, i livelli inferiori mi accolsero con un’aria irrespirabile, satura di acqua, muffa e centinaia di anni in attesa che qualcuno vi mettesse piede. Appoggiai la mano alla parete per cercare un po’ di equilibrio, ma la ritrassi al contatto dell’intonaco bagnato che mi crollò tra le dita.
Scesi per trenta, forse cinquanta gradini.
La porta davanti a me ormai era legno marcito, ma anche migliaia di anni non sarebbero riusciti a nascondere lo squarcio perfettamente al centro, lo scomodo testimone di qualche ascia abbattuta su di essa durante l’attacco, uno spazio abbastanza grande da permettermici di passare attraverso senza che le tenui fiammelle del candelabro toccassero le schegge annerite. L’odore di cibo avariato ed escremento di topi mi presero alle narici, ma in quell’istante qualcosa mi afferrò il polso e mi trascinò di lato.
La mia prima reazione fu quella di tirare un calcio. Colpii a caso, senza riflettere, e presi in pieno qualcosa di duro. Ma nemmeno troppo. Con la mano libera abbattei il candelabro in avanti come un’arma, colpendo la figura che era sbucata dalle ombre, ma quella mi trascinò in avanti senza lasciare la presa.
“Mi avevano detto che eri un tipo focoso … ma potresti evitare di colpirmi, per favore?”
Per tutta risposta puntai il candelabro in avanti: tre candele erano rotolate a terra e si erano spente, ma una era più che sufficiente per fissare negli occhi il grandissimo imbecille e fargli capire che gliela avrei piantata ben volentieri in mezzo agli occhi o in mezzo ad altre parti del corpo più alla portata delle mie ginocchia. “Lascia la mia mano o la prossima cosa che farò sarà mandarti a gracidare sul fondo di uno stagno, pezzo d’idiota!”
“E io che speravo che fossi venuta per salvare un affascinante giovanotto della capitale dalle insidie di una villa stregata …”
Avvicinai ancora di più la fiamma al naso del cretino, ma quello per tutta risposta mi rivolse un sorriso idiota da principe azzurro del più scadente libro di fiabe esistente. Il primo pensiero fu quello di affondare la candela nei suoi ridicoli baffi giganti, quelli che per poco non mi avevano fatto esplodere dalle risate quando si era recato nella mia bottega; desistetti solo perché in effetti sarebbe stato interessante anche spingergliela su per una narice o in uno dei suoi costosissimi vestiti di seta color porpora, e l’indecisione aumentava man mano che quell’esploratore improvvisato continuava a stringermi il polso per avvicinarmi a lui. “Con questi baffi ridicoli che ti ritrovi l’unica cosa affascinante sarà vederti correre su per quelle scale cercando dell’acqua quando li avrò abbrustoliti a dovere” gli risposi. Di solito il tono minaccioso era perfetto per levarmi Gress dai piedi, ma evidentemente il riccone cittadino non aveva ben capito con chi aveva a che fare. Peggio per i suoi stupidi mustacchi. “Sono venuta qui per la scarletite che mi hai rubato, ladro. Ridammi la mia pietra e potrai rimanere a giocare a nascondino in questa villa per tutto il tempo che vorrai. Anche per sempre, se vuoi una mia genuina e spassionata opinione!”
“I tuoi amici avevano proprio ragione. Quando vuoi qualcosa non ti fermi davanti a nulla, nemmeno davanti a qualche storia di draghi o Leviatani”.
I miei amici … cosa?
L’atroce sospetto divenne una disgustosa certezza quando, al mio ennesimo tentativo di rifilargli un calcio tra le gambe, le sue labbra si piegarono in un sorriso. “Mi hanno suggerito loro l’idea di prenderti qualcosa dal negozio, evidentemente sapevano fin troppo bene quale fosse il modo per attirare la tua attenzione”.
Il pensiero di vedere Herbst, Gress e Lily trasformati in rospi e schiacciati sotto le ruote del mio carretto venne superato solo dalla piacevole idea di scambiare qualche infuso mattutino con una pozione in grado di simulare perfettamente gli effetti di una violenta dissenteria, simile a quella che due mesi prima si era portata via Jeanne. Avrei trasformato in topo solo il ricco imbecille davanti a me, ma più che offrirgli una morte rapida sull’acciottolato della piazza lo avrei usato con piacere in qualche esperimento. E, ad essere sincera, i baffi di un roditore erano di gran lunga più attraenti di quelli di quel borioso nobile da quattro soldi. I suoi stivali lucidi erano abbastanza costosi da permettermi di comprare un fornello nuovo. “Allora ci sono quattro idioti giganti, non uno solo” dissi, cercando di condire con dell’ironia parte della mia furia. “Quattro idioti che chiaramente non hanno idea di cosa hanno trascinato qui sotto. Di tanti oggetti della mia bottega dovevi proprio rubare la scarletite?”
“Era l’unica cosa bella quanto i tuoi occhi, cara”.
“Chiamami di nuovo cara e mi assicurerò che tornerai al tuo favoloso palazzo con un baffo rosso ed uno arancione. Con effetto permanente”. E forse anche i capelli color canarino, se si fosse dimostrato così appiccicoso una seconda volta. “La scarletite non deve MAI stare in un luogo umido. MAI. Hai chiaro il concetto? Adesso ridammela immediatamente, ladro”.
“Perché?”
Avrei voluto roteare gli occhi al cielo, ma la luce dell’unica candela non sarebbe riuscita comunque a mostrare la mia stizza. L’idea di essere stata convinta a scendere lì sotto con l’inganno stava rapidamente facendo salire quel pomeriggio nella lista dei peggiori brutti momenti della mia vita. Di sicuro aveva ampiamente superato la giornata in cui avevo consumato delle uova avariate e non avevo a portata l’erba farg per tamponare i danni. Sospirai, ormai quasi più stanca di uscire da quelle cantine che non desiderosa di dire la mia opinione a quel farfallone di città che sembrava fatto apposta per farmi impazzire con il suo odioso tentativo di attirare l’attenzione.
“Perché esplode. BOOM. Tanto BOOM. Un enorme BOOM”.
Cielo, ero sull’orlo di una crisi di nervi. “Come esprimete questo concetto a Lindblum, voi nobili? Usate la parola deflagrazione o capite anche i termini più … normali?”
“Uhm, ho afferrato il concetto, grazie”.
Ancora minacciandolo con la candela praticamente dentro una narice lo vidi armeggiare attorno ad un borsello ricamato che teneva alla cintura, e non mollai la presa sulla mia arma improvvisata nemmeno quando le sue dita tozze estrassero la mia agognata pietra dalle pieghe della sacca. Il colore porpora della scarletite era attraversato da venature color sangue, e lo stesso cretino si accorse che stavano pulsando in maniera ritmica. Non erano ancora a livelli critici, ma lo sarebbero diventate a breve se non ci fossimo sbrigati ad uscire di lì ed a mettere immediatamente la pietra nel contenitore igrorepellente del negozio da cui l’imbecille con i baffi lo aveva sottratto. Senza dubbio la temperatura delle scarletite stava aumentando e lanciai all’idiota uno sguardo di soddisfazione vedendo i suoi baffi sempre più incuriositi dall’oggetto che aveva in mano, forse resosi conto solo in quel momento di aver fatto la più grande stupidaggine della propria vita –vita che, se non fossi andata a riprenderlo, sarebbe stata irrimediabilmente più corta del previsto. Ero così presa dal mio piccolo autocompiacimento per avergli dato una lezione che non mi accorsi della situazione in cui mi ero cacciata: lui aveva appoggiato la pietra rossa nella mia mano, ma con quel gesto entrambe le sue si erano portate all’altezza del mio palmo libero, quello che non stringeva il candelabro. Trovai il suo tocco alquanto irritabile ma feci per sottrargli la scarletite dalle sue esimie dita di città e tirai un sospiro di sollievo quando sentii la rassicurante superficie prismatica della pietra. Sospiro che fu molto più breve del previsto poiché –da perfetta idiota- avevo dimenticato per quale motivo il gran farfallone mi avesse fatta scendere lì sotto, e nel momento in cui ripresi aria mi accorsi che quello aveva invaso in un solo attimo il mio spazio personale ed aveva le labbra incollate alle mie.
Il sapore di menta ed arance era piuttosto gradevole, ammisi. Ma solo quello. Avendo entrambe le mani occupate optai per l’unica soluzione a mia portata, ovvero rivolsi un calcio alla sua caviglia destra. Non gliela distrussi come avrei voluto, ma fu abbastanza da convincere quei mustacchi pungenti ad allontanarsi immediatamente dal mio collo e quelle labbra a levarsi dai piedi perché mi stavano facendo soffocare con la loro lingua impicciona. “Tu …”
Ripresi a respirare, carica di rabbia. La saliva aveva improvvisamente deciso di andarsene dalla mia bocca, così la mia voce risultò molto più secca e meno minacciosa di quanto avrei voluto. “Riprovaci un’altra volta e …”
“Mi ritroverò a gracidare da qualche parte, lo so, lo so. Sei un tantino ripetitiva, se ti devo trovare un difetto!”
Benedetto Leviatano, mi sarebbe davvero piaciuto avere la mano enorme di Herbst per piantargli un pugno sui denti e fargli rivedere il suo concetto di “ripetitiva”. Purtroppo con la scarletite in una mano, l’unico candelabro della villa nell’altra ed il bersaglio oltre la portata del mio tacco fui costretta a trasformare la mia disapprovazione in un grugnito. La seppur minima gradevolezza del sapore di menta e arance era stata soppiantata da un flusso di bile che cresceva all’aumentare dello sguardo soddisfatto di lui. “Suvvia, ne varrebbe comunque la pena. Sarei il primo umano a venire trasformato in rospo dal bacio di una principessa. Sai quanto mi invidierebbero tutti gli abitanti dello stagno? O quanto mi invidieranno tutti i maschi di Müttenborg”.
“Pensi seriamente di essere il primo?” risposi piccata. Anche se seriamente mi pentii subito dopo di avergli dato corda.
“A prenderti un bacio? No. A rubarlo? Assolutamente sì!”
Ed in quel momento qualsiasi persona dalla media intelligenza –il che, in quel momento, escludeva tutti i miei compagni- gli avrebbe fatto notare che rubare un bacio senza alcun permesso, condendo il tutto con inganni e frottole e insaporendolo con una villa traboccante di muffa sin nella più remota fessura aveva lo stesso valore di un escremento di chocobo crostificato, ma purtroppo in quel luogo non vi era nessuna persona dalla suddetta media intelligenza. Soltanto un ricco nobile cretino ed una Strega doppiamente cretina da essere stata giocata dal più ridicolo e odioso tentativo di seduzione mai inventato probabilmente dai tempi della genesi delle lune. E una scarletite in procinto di reagire all’umidità e trasformare entrambi i protagonisti di quella grottesca serata in mangime per corvi.
Decisa a non conversare mai più decisi che la migliore cosa da fare era tenere ben salda l’unica candela a mia disposizione, risalire le scale andando verso l’uscita e chiudere al più presto quella situazione imbarazzante mugugnando qualche piccola vendetta che sarebbe magicamente apparsa non appena fossi tornata nel mio negozio ed avessi preso le polveri e gli alambicchi giusti. E, al diavolo l’amicizia, avrei trovato il modo di farla pagare anche a quei tre idioti lì fuori. Salii gli scalini due alla volta, deducendo dal rumore alle mie spalle che l’altro mi stava seguendo.
“Sia ben chiara una cosa, Cid dei miei stivali: levati dalla mente certe idee. Un deficiente come te non è il mio tipo!”

Non è il viso di Cid che mi appare davanti agli occhi, tantomeno i suoi mustacchi. È un volto più giovane, più pallido, quello che emerge dalla nebbia.
Il ricordo degli eventi di villa Moonrise scivola via. La polvere, l’umidità, il sangue rappreso iniziano a ritirarsi come una secchiata d’acqua lanciata contro la mia pelle e costretta ad asciugarsi; se ne vanno come sono giunti, all’improvviso. Nelle mie narici adesso non c’è più la muffa della vecchia villa stregata né l’odore della vecchia candela, bensì l’aria secca, riarsa con cui Oeilvert mi aveva accolta sin dal primo istante.
Il volto che mi osserva non ha alcuna espressione. Le sue sopracciglia chiare sono distese, come se stesse sognando nonostante gli occhi siano aperti. L’abito lungo è ingrigito, i ricami color rosa e argento praticamente indistinguibili dalla stoffa sottostante per la polvere e la penombra del luogo, così come la mano protesa in avanti, verso di me, che ha perso qualunque forma di lucentezza ed il cui anello d’oro potrebbe sembrare al massimo una verga di ferro senza alcun valore.
Ma ciò che mi colpisce mentre ancora cerco di cancellare i ricordi del passato sono i suoi occhi: di un azzurro freddo, triste, un colore reso quasi secco dall’arsura di questo posto. Mi fissano ma non mi guardano, le pupille incrociate come quelle di una bambola costruita da un artigiano alle prime armi, di un vuoto inespressivo in grado di far star male coloro che li osservano. E la sensazione di disagio è ancora maggiore quando mi accorgo, con anche un tremito d’orrore, che quegli occhi azzurri sono gli stessi che ogni mattina mi fissano attraverso lo specchio.
Il primo istinto è quello di gridare. Lo sopprimo, però, quasi come se il silenzio di questo posto mi fosse entrato nei polmoni.
La mia copia ha ancora la mano tesa.
Il pensiero di Cid ancora aleggia nella mia testa, ma le sue forme si fanno sempre più sfocate man mano che la copia indietreggia. Il ricordo violento ha a che fare con lei, ovviamente, ma per quanto io cerchi di allontanare lo sguardo da quella figura cadente mi rendo conto che non posso fare altro che guardarla, guardare quello specchio ingrigito che si allontana da me come se fossi stata io ad averle fatto qualcosa. “Stai lontana” provo a dirle, ma non è certo la falsa autorità nella mia voce a spingerla a retrocedere. Solo quando solleva la gonna per non inciampare che vedo alle sue spalle l’enorme statua che mi aveva accolto al mio ingresso ad Oeilvert.
Non si trova nella stessa posizione di prima, poco ma sicuro visto che questo luogo non è affatto l’entrata, la le lastre giganti incise nella loro lingua misteriosa lasciano poco spazio all’immaginazione. Esse si aprono lentamente, aprendo un passaggio per la mia copia che adesso sta chiaramente fuggendo da me. Le intimo di fermarsi, ma quella si avvicina alle lastre che adesso sono spalancate proprio come le ante di un vecchio armadio e vi entra dentro. Non è certo il primo mostro semovente che vedo –poco tempo nel palazzo di Kuja e chiunque si abituerebbe a prodigi simili- ma quella statua mi inquieta. Profondamente.
Il pupazzo con le mie sembianze entra nelle due ante di pietra, pietra che riluce di una strana luce azzurra che si cristallizza con il pulviscolo che aleggia nella stanza. Ricorda un velo o forse uno specchio d’acqua, ma la donna con le mie sembianze la attraversa priva di esitazione, senza voltarsi: la sua forma si immerge in quella luce strana e l’istante dopo è svanita dalla mia vista e le lastre di pietra della statua ricominciano a chiudersi finché non si uniscono con uno scatto che fa tremare con la sua eco tutta la stanza. La scultura grottesca rimane lì, a diversi metri da me, quasi a schernirmi con le sue forme sgraziate e le tavole incise che promettono di dare forma ad un nuovo segreto; nonostante il mio spavento la statua non sembra muoversi, e mi accorgo di ricominciare a respirare solo quando il calore graffiante della perduta Oeilvert si insinua nella mia gola.
La mia curiosità sta ovviamente gridando qualcosa del tipo “Hilda, vai a vedere subito quella stanza e spremiti le meningi per capire come abbia fatto a creare una tua copia dal nulla” … ma un’altra parte della mia mente, quella che di solito si attiva durante i monologhi deliranti di Kuja, brontola qualcosa che potrei tradurre liberamente come un “Hilda, volta i tacchi e allontanati immediatamente da lì!”
La seconda voce vince senza troppo sforzo.
Non mi trovo senza dubbio nello stesso posto in cui credo di aver perso i sensi per colpa di quella statua maledetta, ma lascio da parte il mio già scarso senso dell’orientamento ed imbocco la prima porta in vista senza curarmi troppo di dove mi trovo. Me la chiudo alle spalle, e prima di andar via lancio un’ultima occhiata alla scultura che mi ha letteralmente scombussolato la testa: anche adesso è lì, immobile, come se non si fosse mai spostata dall’angolo in cui riposa. Continua a sembrare un pezzo di pietra grottesco e nulla più, e nel chiudere in silenzio la porta mi mordo le labbra pensando che qualunque cosa in questa città dimenticata dal mondo potrebbe nascondere una trappola simile.
“Coraggio, Hilda”.
Non è come la discesa a villa Moonrise.
Nella villa infestata dei miei ricordi non vi è questo senso di vuoto. Per un istante il ricordo del sangue rappreso per le scale mi sembra persino confortante, quasi un segno che almeno centinaia di anni prima di me qualcuno aveva calpestato quei saloni e bevuto in quella cantina. Questo posto –che, secondo Kuja e la sua non esattamente affidabile conoscenza di storia, dovrebbe avere cinquemila anni- è vuoto. Non silenzioso, non spaventoso, nemmeno abbandonato.
Vuoto.
Manca la vita in questo palazzo. E, qualunque cosa sia quella pietra Gulug che il mio carceriere sta cercando, non deve essere nulla di buono.
Delle torce infisse negli anelli di ferro che si susseguono a distanza regolare si accendono al mio passaggio sebbene la luce del sole che ancora filtra tra le vetrate mi conceda di vedere; il fuoco rivela gradini, sempre gradini, rampe ed ancora gradini in salita ed in discesa da non permettermi di distinguere l’inizio o la fine di questa strana scala. La finestra è troppo in alto per riconoscere la mia posizione, ed a meno che io non ritorni indietro e non mi impossessi della statua dubito che riuscirei a raggiungerla per sbirciare all’esterno.
Nel dubbio prendo una torcia.
La scala scende a lungo per terminare infine in uno stretto corridoio che dà accesso a quella che sembra una successione di alcove scavate nella roccia naturale; ricordo che la cittadella è contornata da una formazione rocciosa, sebbene non sarei mai riuscita ad accorgermi di aver abbandonato il corpo principale di Oeilvert per raggiungere delle stanze laterali scavate nelle montagne. Il percorso continua ad essere segnato da torce accese di cui ora sento la necessità, piccoli punti di luce tremolante che vengono presto inghiottiti dal buio. Tengo i sensi all’erta sperando che bastino perché c’è qualcosa in questo sotterraneo, qualcosa che forse mi aspetta a partire dal momento in cui ho preso la decisione di entrare. Non so come faccio a saperlo o a sentirlo. D’istinto di mordo la guancia, cercando ad ogni passo di ricordare tutto ciò che Kuja avesse detto di questo luogo e di coloro che lo avevano costruito, ma purtroppo non riesco a focalizzare la mente su altro che non sia l’orribile sensazione che questo posto stia attendendo da tempo l’arrivo di qualcuno, e considerato il fatto che questo “qualcuno” potremmo esserlo io o quel mago pazzo direi che non ho alcuna intenzione di scoprire altro su questa città cristallizzata nella polvere della clessidra del tempo.
La prima cosa che compare è un’enorme sfera grigia. È il primo oggetto familiare che vedo da quando mi sono incamminata, una forma perfettamente rotonda posta su un piedistallo e che riesce ad arrivarmi alla vita. Vi sono delle catene che la uniscono al piedistallo.
Qualcosa la attraversa, una luce che non dovrebbe esservi considerata l’assenza di finestre o di altre torce che non siano la mia: dovrebbe bastare per spingermi a non avvicinarmi oltre, ma il mio piede obbedisce al cervello con qualche fatale istante di ritardo.
L’aria diventa lattiginosa non appena entro erroneamente nello spazio intorno all’oggetto e trema nonostante l’assenza di vento. Una figura vi prende forma in maniera non troppo dissimile a cosa accade quando cerco di osservare qualcuno nella mia sfera di cristallo e in maniera automatica il mio respiro si tranquillizza alla presenza di questa trappola così squisitamente addolcita da un elemento a me familiare. Nell’aria biancastra si delineano dei contorni rossi.
Non vanto una memoria eccellente, ma mentre i secondi trascorrono senza che una trappola appuntita si sollevi per aprirmi in due o che qualche strana copia si affacci all’improvviso trovo il tempo per pensare, per raccogliere tutti i fili che mi sono ritrovata in mano da quando ho deciso di sfruttare questo viaggio per liberarmi definitivamente di Kuja. Ho già visto la figura che il bianco sta rivelando.
Il triangolo rovesciato ha i contorni perlacei così come le decorazioni, ma il rosso ed il grigio che lo riempiono danno forma a quell’immagine resa ancora più inquietante da un secondo triangolo, al centro, che mi fissa come se fosse un occhio. Lo stemma –perché questo mi sembra- fluttua in aria per almeno una ventina di secondi concedendomi il tempo di riflettere.
Quel simbolo si trovava sul portone di Oeilvert sin dal nostro arrivo. “Bene, piacevole presentazione” borbotto tra me e me quando una buona parte del mio cervello mi chiede di pormi domande a cui non saprei mai e poi mai come rispondere. Il triangolo cremisi rimane ancora qualche secondo davanti a me, poi una seconda folata di nebbia simile alla prima lo inghiotte.
Qualcosa inizia ad affiorare, un’immagine che prende forma man mano che i miei occhi si fermano, si fissa forse più nella mia testa che nelle mie iridi.
Perché sì, adesso ricorda una sfera di cristallo.
E nessuna Strega che si rispetti rifiuterebbe di sbirciarvi dentro. Persino in una fortezza nel deserto senza una mezza idea di come uscirne.
Il blu attraversa l’intera stanza. Un blu forte, duro, misto ad un azzurro come non ne ho visti mai neppure nelle migliori estati di Lindblum. Un colore prezioso che copre il cielo e la terra, quasi come se il vero protagonista della scena sia questa tinta forte, pulsante, quasi in grado di penetrare nei pensieri per quanto sia ipnotica. Sono le rocce ad essere così blu.
E le piante. O gli alberi.
Un luogo che non ho mai visto e che sembra uscito dalla tavolozza di un pittore di Toleno occupa ogni angolo di quell’aria lattescente, davanti e dietro me, sopra la testa e sotto le scarpe. Trattengo il fiato perché quel paesaggio prende forma intorno al mio stesso corpo, caldo e gelido allo stesso tempo; cerco di tendere la mia scarsa magia per comprendere quale incantesimo mi stia invischiando, ma essa nemmeno si degna di rispondermi quasi come mi volesse dire di non muovermi, di non pensare, di ammirare quel posto come mai potrebbe accadere guardando una sfera di cristallo. Degli albero si formano alla mia destra, i tronchi torti come serpi avviluppate tra loro: cerco d’istinto di riconoscerli, ma la mia testa si ferma quando tra i rami vi sono delle corde delicate e luminose, quasi come se l’enorme pianta fosse un liuto o un’arpa. Altri alberi continuano a comparire dalla nebbia, sempre più alti e bellissimi. Vi sono delle luci tutt’intorno che si muovono come piccole stelle costrette a girare intorno a quei trochi ritorti.
Sono bellissime.
Sotto i miei piedi le vecchie lastre di pietra di Oeilvert sembrano scolpite una seconda volta. Il paesaggio disegna per me un sentiero in salita, sebbene dolce ed ancora alla portata di una donna della mia non esattamente veneranda età. Con la punta della scarpa cerco di esplorare una fenditura in quei gradini sospesi tra il naturale e l’artificiale, quasi a saggiare se ciò che mi sta apparendo sia reale o meno, ma essa atterra soltanto nell’aria e nella luce che emanano le singole pietre intagliate che compongono quel posto di cui non ho mai sentito parlare in nessun libro –e di libri ne ho letti un bel po’.
Tutto in questo posto è cristallo e luce, selvaggio e costruito allo stesso tempo.
A parte loro.
Compaiono sugli alberi e tra le rocce, come se qualunque meccanismo stia muovendo questa gigantesca sfera di cristallo avesse voluto tenerli per ultimi. Decine di occhi azzurri mi scrutano tutti uguali, immobili, incastonati in altrettante decine di teste piccole e rotonde: cerco rapidamente di contarli, ma il loro numero aumenta senza darmi il tempo di rendermi conto di quante figure vi siano. Accenno un tiepido “Salve” a queste immagini che senza dubbio non possono né vedermi né sentirmi, poi mi sforzo di cercare, oltre ai vestiti, qualcosa che riesca a rendere distinguibili questi bambini. Perché sono bambini, non vi è alcun dubbio, piccoli, biondi e con lo stesso sguardo, quasi come se anche la stessa espressione triste sia stata copiata l’uno all’altro. A parte il fatto che ciascuno di loro abbia una coda gialla –che ricorda vagamente quella di una scimmia- la cosa che mi lascia davvero sorpresa sono quelle forme, quei visi, quei piedi tutti uguali, un “uguale” strano, persino fastidioso, che non ha nulla a che vedere con decine di fazzoletti identici o di volumi dalla medesima copertina impilati uno sull’altro. Questi bambini che non smettono di apparire tutt’intorno al sentiero, forse per invitarmi a seguirli, hanno in loro qualcosa di agghiacciante ma allo stesso tempo così magnetico da spingermi ad accettare il loro silenzioso invito a seguire la strada lastricata e ad andare dove senza dubbio questo meccanismo ha intenzione di condurmi; maledicendo la mia curiosità –dovrei smettere di leggere racconti dove ragazze vengono rapite da aviopirati da sogno o seguono per pura curiosità degli animali parlanti che le conducono in mondi inesplorati e pieni di magia- faccio un passo in avanti, ma soltanto uno.
Un urlo attraversa la stanza e non appena mi concentro sulla sua origine l’intero scenario svanisce come era venuto, un velo d’aria bianca e mi ritrovo di nuovo nella stanza polverosa e incandescente di Oeilvert. L’aria calda mi investe di nuovo, ma stavolta scuoto la testa e afferro la torcia mentre la mano sinistra corre irrimediabilmente verso i borselli di erbe; non ho idea di cosa possano davvero servire, ma la mia mente ha iniziato a far suonare tutte le campane d’allerta necessarie.
Qualunque cosa stia facendo gridare Kuja possiede all’istante tutti i requisiti per essere indicata come “pericolosa”.

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Capitolo 5
*** Ci vuole poco per trasformare un’ottima idea in una colossale idiozia ***


Capitolo V - Ci vuole poco per trasformare un’ottima idea in una colossale idiozia

Forse sono stata un tantino precipitosa nel definire il mio concetto di “pericoloso”.
In questi giorni mi sono molto soffermata a pensare a Kuja. Non per chissà quale motivo –un uomo o presunto tale che veste da cortigiana di basso rango ed usa un arsenale di cosmetici da far invidia alla principessa Garnet non potrà mai attirare la mia attenzione in quel senso- ma senza dubbio rimanere prigioniera in un palazzo con l’unica compagnia senziente di quel mago dal naso incipriato mi ha costretta in ogni caso a dedicare parte delle mie giornate a soffermarmi su di lui. Forse, da prima donna quale è, ne è stato anche assai contento.
La sua magia ha qualcosa di incredibile. Quel poco che ho assaporato a Toleno e con cui sono erroneamente entrata in risonanza ancora mi fa accelerare il cuore al solo pensiero di quel potere; può sprigionarlo anche in un solo istante –come quando discutemmo sui diamanti- o mantenerlo attivo per ore senza alcun problema. Prima che Walzer N.1 diventasse pienamente operativo lo ho visto mantenere funzionanti i maghi neri con la sua semplice aura che, si è vantato ore di ciò, riesce a sprigionare anche in momenti di distrazione o nelle rare occasioni di sonno. So che dorme meno di qualunque uomo io abbia mai incontrato.
L’ho osservato centinaia di volte passeggiare tra i musi dei draghi senza il minimo accenno di qualunque emozione anche solo lontanamente classificabile come “paura”: un giorno l’ho notato sedersi su una roccia mentre una di quelle bestie si preparava a farlo a pezzi per chissà quale giustissima ragione e rimanere immobile con un sorrisetto di sfida mentre il rettile si preparava a soffiare. Si era mosso un istante prima che le fiamme carbonizzassero il sasso su cui era poggiato per poi allontanarsi canticchiando una melodia. L’ho visto infuriato, corrucciato, pensieroso … ma spaventato mai. Forse è per questo motivo che stento a riconoscerlo.
Ha gli occhi spalancati, le iridi fisse verso un punto dove non vi è altro che polvere; qualunque traccia del trucco se ne è andata, e le labbra che ho sempre visto rigorosamente dipinte di azzurro sono adesso bianchissime, sottili, aperte in un modo che su di lui è del tutto innaturale e contorte per delle urla che sono lontane dalla voce melodica che sottomette i draghi.
È stata la sua voce distorta a guidarmi fin qui. Non sono nemmeno sicura di riuscire a tornare indietro, ho attraversato più scale, saloni e ancora scale di quanti credevo che questo posto potesse fisicamente contenere. Per quello che ne so potremmo essere perfino nelle viscere della terra.
Da dietro un’enorme e sicura colonna mi sono presa tutto il tempo necessario per osservare. Va bene, una persona sana di mente non sarebbe mai scesa nella tana di qualunque cosa fosse in grado di spaventare il più abile mago mai visto, ma quando dicono che “la curiosità uccise il gatto” forse dovrebbero cambiarla in “la curiosità uccise il gatto, la Strega, il narcisista, il drago, i maghi neri e tutta la compagnia”.
Però ne vale la pena. Ne vale dannatamente la pena.
Sono abbastanza vicina da osservare lo sguardo perso di Kuja nemmeno fossi in prima fila al teatro di Toleno; ovunque la sua mente sia in questo preciso istante lui non può vedermi, non può sentirmi, non può prendermi in giro con quel suo odioso sorriso sarcastico. È piegato a terra, si stringe la testa con le dita quasi perforarne il cranio; non vedo sangue da nessuna parte, ma quando vedo il suo avversario capisco che non si tratta di ferite che si possono rimarginare.
La replica deve averlo colto di sorpresa: la statua che la conteneva è appoggiata nella penombra contro una parete. Non l’avevo notata al momento della mia discesa, troppo concentrata sulle grida del mio rapitore per accorgermi delle sue lastre coperte di polvere: dalla mia sicura posizione la osservo, non proprio sicura di come questo essere semi senziente possa accettare la presenza di un’intrusa. È identica a quella che ho incontrato diversi piani al di sopra, ma stavolta la copia che ne è scaturita ha preso le sembianze di Kuja. E, a parte il fatto che non parla, è fin troppo fedele all’odioso originale.
Cosa facciano queste copie? … non lo so.
Ma la loro presenza ci accende qualcosa, poco ma sicuro. I ricordi del mio incontro con Cid sono svaniti nello stesso istante in cui ho allontanato quella cosa da me. Ammetto di non avere idea di quanto tempo io sia rimasta vittima delle loro proiezioni (sempre che siano loro a generarle, fare ipotesi sul funzionamento di creature magiche mentre sono intrappolata in un palazzo sepolto nel deserto di solito è il modo migliore per prendere un abbaglio micidiale), ma Kuja sembra esservi da un bel po’. Un molto bel po’.
Un bel po’ che lascio trascorrere nel più assoluto silenzio, rattristata solo dal fatto che per quanto lui si sforzi le sue dita non riescono proprio a trapassargli il cranio e a dargli la morte che si merita.
La solita vocina mi suggerisce che un uomo in una simile condizione dovrebbe farmi pena. Sta gridando, dopotutto. Qualunque cosa stia vedendo deve essere qualcosa di doloroso.
“Sai una cosa, Kuja? Credo che tu stia bene proprio dove sei adesso”.
Ero entrata qui dentro per eliminarti con l’aiuto di Walzer, ma vedo che in fondo non è stato necessario. Qualunque cosa tu abbia nascosto dentro di te, grandissimo bastardo, si è finalmente decisa ad uscire fuori.
Adesso che i maghi neri sono sotto il mio controllo potrò ritirarli dalle fila di quel mostro della regina Brahne. Non ci sarà un’altra Lindblum. Né ora, né mai. “Questo è l’unico finale che ti meriti”.
Controllo che non gli ritorni alcun barlume di coscienza, attraverso le ombre e salgo le scale senza che la statua, la replica o il mio carceriere pazzoide possano dirmi qualcosa. Dopotutto non è la prima volta che prendo quella maledetta vocina e la scaglio dalla rupe più alta che il mio cervello possa immaginare.

Il portone si apre senza poi troppi sforzi. Per un attimo avevo temuto che solo la presenza di Kuja potesse spalancare i battenti, ma è evidente che, chiunque fossero questi “terani” che hanno costruito Oeilvert, erano persone più preoccupate di proteggere i loro segreti che non di segregare i propri ospiti.
Meglio così.
La pietra Gulug, i terani, le statue semoventi e quanto altro non fanno al caso mio. Per quel che mi riguarda questo posto potrebbe sprofondare nella sabbia così com’è.
“N. 1 !”
La sua gigantesca figura è l’unica macchia scura nel deserto. La luce è ancora forte nonostante si stia avvicinando il tramonto, eppure anche così riesco a scorgere la sua mole accanto all’Invincible: giuro di non essere mai stata più felice di rivedere qualcuno in vita mia. “N.1 !”
Scendo gli ultimi gradini e mi ritrovo nella sabbia rovente. Non ho però bisogno di procedere molto oltre, perché Walzer ha colmato la distanza che ci separava in poche, enormi falcate. Riesco a scorgere anche qualche mago nero disposto intorno alla nave, ma in questo momento l’unica cosa che mi rassicura è la sua gigantesca ombra. “Siete riuscita a trovare l’uscita, mia signora”.
Sono così stanca che non ho nemmeno la forza di fargli notare l’ovvietà della sua affermazione. “Sono più resistente di quello che sembro. Ma ammetto che la tua presenza mi sarebbe tornata utile. Credevo che mi avresti seguito”.
“La mia magia è stata disattivata, mia signora. Oeilvert deve possedere un campo di annullamento interno alle mura. Ritengo che il padrone non ne fosse a conoscenza”.
In effetti, ora che Walzer me lo fa notare, proprio al momento del nostro ingresso ricordo che Kuja ha avuto un malore: avevo catalogato la sua reazione furiosa ad uno dei suoi ennesimi cambiamenti di umore, ma a pensarci bene lo ho visto tentennare nel salire solo qualche gradino. Non ho mai sentito parlare di posti in grado di annullare la magia, ma per approfondire la questione avrò tempo e maniera una volta preso possesso della libreria del palazzo del mio elegante carceriere. Possibilmente dopo aver dato fuoco al suo preziosissimo pianoforte. Sono convinta che non avrà modo di obiettare.
Ah, immagino che Walzer N.1 avrà bisogno di un controllo al sistema vocale; la sabbia di questo posto ha avuto un effetto terrificante sui suoi ingranaggi. “Kuja non ci darà più problemi, N.1. Mi dispiace che tu abbia scomodato tutti quei maghi neri, ma non credo che uscirà da questo posto tanto presto. Se all’interno del palazzo tu e gli altri perdete la vostra magia non intendo farvi rischiare un malfunzionamento. Il piano per ucciderlo ha subito una variazione, ma sono felice che siamo riusciti ad evitare le perdite”.
“La vostra dedizione ha risparmiato l’esistenza degli altri maghi neri. Grazie a voi il nostro esercito è più forte”.
“Non siete un esercito, Walzer. Non più”. L’idea di salire sull’Invincible e dirlo a N.16 mi rende stranamente esuberante. È la prima volta che mi sento così da un bel pezzo, da molto prima che Kuja mi chiedesse di collaborare. Dovrò decidere poi quali ordini dare ai maghi neri e come organizzare il prossimo futuro, ma il sapere che nessuno di loro verrà più usato da quel rapitore imbellettato e dalla sua regina pachiderma mi leva un peso dallo stomaco, il secondo dopo quello di aver lasciato un essere disgustoso come Kuja in un posto dove nessun essere vivente sano di mente lo verrebbe mai a cercare.
A fianco dell’Invincible continuano ad atterrare navi. Dalle prima appena attraccate scendono altri maghi neri, perfetti e precisi nonostante la loro mole ed i piedi goffi. Sono stata io stessa a richiedere, lontano dagli occhi di quel mago vanitoso, un supporto di questi soldati in aiuto a N.1 per sconfiggere Kuja, ma a quanto pare ho ecceduto in zelo ed i maghi neri hanno fatto un viaggio a vuoto. “Riportali a bordo, N.1. Mi dispiace aver richiesto il loro aiuto inutilmente, ma adesso possiamo tornare tutti a casa”.
“I maghi neri si trovano esattamente al posto giusto, mia signora. La quantità che avevate richiesto prima della partenza è chiaramente insufficiente, ma mi sono preso la libertà di richiamarne qualche altro centinaio”.
“Insufficiente … per cosa? Ti ho già detto che Kuja …”
È in quel momento che mi sento sollevare.
La voce di Walzer inizia a cigolare ancora di più, e quando finalmente riesco a vedere al di sotto delle falde del suo enorme cappello i suoi occhi brillano di una luce molto più intensa di quella che normalmente i cristalli al quarzo che vi avevo inserito dovrebbero produrre. Non è lui a sollevarmi, perché entrambe le sue mani sono immobili. Ciò che mi ha portata ad almeno cinque palmi da terra è, realizzo con orrore, soltanto la sua magia. “Ritengo che il padrone debba essere eliminato in maniera più definitiva, mia signora. E con lui anche questo posto dove si cancella la magia. Il vostro modo di gestire un esercito è stato quantomeno discutibile, ma vedrà che a breve risolverò ogni problema”.
Un discorso troppo lungo per un costrutto. “N.1 … hai frainteso i miei ordini. I maghi neri non sono il mio esercito”.
“Infatti. Sono il mio”.
Ma cosa gli passa per la test … “E, mia signora, non intendo più sottostare agli ordini di un creatore. Di alcun creatore”.
Provo a dargli un comando, un qualsiasi, inutile, sciocco comando, ma delle mie parole rimane solo un urlo quando la mia testa, le spalle e la schiena esplodono in una cascata rossa di dolore e mi ritrovo sul pavimento di pietra che avevo appena gioito del lasciarmi alle spalle. Da oltre il portone contro cui Walzer mi ha scagliata come fossi un pupazzo mi sembra di vedere altri maghi neri in arrivo, ma non appena cerco soltanto di rimettermi in piedi l’ingresso si chiude senza che stavolta vi sia qualcuno a spingere i battenti. La spalla sinistra mi implora di smetterla quando la uso per puntellarmi ad un bassorilievo per sollevarmi; corro –o forse strascico- fino all’ingresso con il cuore in gola. Scaravento tutto il mio peso contro il portone, prendo una decorazione da un altare e la scaglio sulle maniglie, ma non occorre il mio scarso potenziale magico per sapere che fuori da qui qualcuno ha attivato un incantesimo dal potere eccezionale. Stringo i denti e mi scaglio di nuovo sull’ingresso, ma questo non si apre né con il secondo, né con il terzo, né con il decimo calcio.
Prendo anche una minuscola statua e la lancio gridando con tutte le forze, premo le rune incise con le mani alla ricerca di qualche congegno ma niente, nulla. Una flebile spallate conclude con una fitta il mio tentativo di uscire da qui dentro.
L’attimo dopo un vecchio lampadario impolverato oscilla pericolosamente una volta.
Poi una seconda.
Quando il pavimento ed il soffitto vibrano come se volessero spaccarsi in due non resisto più e grido coprendomi la testa. Il portone non si apre, non si aprirà mai, ma mi accascio contro i suoi battenti intarsiati e spero che finisca.
Qualunque potere tenga in piedi Oeilvert non sembra in grado di poter resistere a lungo a qualsivoglia incantesimo N.1 ed i suoi maghi neri stiano cercando di creare –e ci stanno riuscendo anche piuttosto bene.
Le scosse si fermano ed io accenno ad un respiro, ma quando riprendono di nuovo, anche più violente, grido senza più riuscire a zittire il cuore che mi sta martellando anche in bocca mentre le vecchie pietre tremano ed una scala, una che porta ai piani superiori, crolla a poche braccia da me.
Non so perché, non ne ho assolutamente idea, ma Walzer N.1 vuole cancellare questo posto con me dentro.
E, realizzo con ancora più orrore del precedente pensiero, la mia sola, labile e quantomeno effimera possibilità di uscirne viva è aggrappata ad una persona sola.

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