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di BebaTaylor
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** Capitilo 4 -Epilogo- ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Prima di lasciarvi alla storia:
1. All'inizio volevo scrivere una one shot di al massimo 8000 parole, solo che le cose mi sono sfuggite dalle mani ed è uscito questo. o.0 La storia è molto lunga, sono un sacco di parole (più di 25K!) e alla fine l'ho divisa in quattro capitoli. Posterò un capitolo a settimana, o anche due volte a settimana, tanto i capitoli sono già tutti scritti. Devo solo mettere l'html all'epilogo.
2. Questa storia è molto sentita, sono anni che cerco di buttarla giù, senza successo e adesso ci sono riuscita! Quindi amatemi.
3. Vi prego, mentre leggete la storia, non pronunciate “Leo” come se lo leggeste in italiano, ma come si pronuncia in inglese.
4. Alcune cose prendetele con le pinze, dopotutto è una storia soprannaturale. Anche se cerco di mantenere una sorta di realismo anche con questo genere, alcune volte certi “svarioni” sono necessari per la trama.
5.La storia è lunga, e l'ho letta, riletta e ri-riletta fino alla nausea. Questo per dirvi che se ci fosse qualche errorino è solo perché, sapendo ormai la storia a memoria, non li ho visti. Li correggerò al più presto.
6.Credo che sia tutto.
7.Godetevi la storia!



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Parte I



Fissai le porte del treno che si chiudevano con un cigolio e il treno che partiva con uno sbuffo strano, un rumore a metà fra un grugnito di un maiale e il clangore di catene che sbattevano fra di loro.
Sospirai e mi diressi verso l'uscita, trascinandomi dietro il mio trolley rosso, entrai nella stazione d'aspetto e mi diressi verso il bar, dove presi un caffè perché quello che avevo preso sul treno sembrava, no, era, ne sono sicura, caffè di tre giorni prima allungato con un litro di acqua presa da un acquario maleodorante.
Mentre lo sorseggiavo lentamente guardai fuori dalla grande vetrata e pensai che Leo dovesse essere triste, perché una pioggerella leggera continuava a scendere, quasi senza sosta, da almeno un paio di giorni. Sospirai e pensai che Lei non sarebbe stata contenta, proprio no.
"Niente emozioni, grazie."
Il mio cellulare squillò un paio di volte, guardai lo schermo, Samuel era arrivato; posai la tazzina sul bancone e uscii, vidi l'Audi nera posteggiata nel parcheggio a sinistra della porta. Misi il trolley sul sedile posteriore e mi sedetti sul sedile del passeggero.
«Come va?» domandò lui e mi baciò le guance.
«Bene.» risposi, «Alla grande.» mentii e per un attimo sentii il mio corpo vibrare, così feci un respiro profondo e mi calmai. Se avessi perso lucidità e calma sarebbero stati guai. Se Leo fosse diventato ancora più triste, o se si fosse arrabbiato, o se fosse stato così felice da scoppiare... sarebbero stati guai. Se Samuel avesse provato un'emozione forte sarebbero stati guai. Se Adam avesse fatto la stessa cosa, sarebbero stati guai. Idem per Damon. Sobbalzai, pensando a lui. Erano cinquantuno settimane che non li vedevo. Che non lo vedevo e la cosa faceva male, una coltellata dolorosa dopo l'altra. Vibrai di nuovo, così respirai profondamente e mi calmai. "Niente emozioni." ricordai.
Noi non potevamo essere troppo tristi, o troppo felici, o arrabbiati, o impauriti, terrorizzati o qualsiasi emozione che vi venga in mente. Noi dovevamo essere quasi... apatici, privi di qualsiasi emozione che non fosse appena accennata.
Noi cinque eravamo i guardiani degli elementi. Acqua, Fuoco, Terra, Vento, Spirito. Era nostro compito mantenere l'equilibrio sulla Terra ed evitare qualsiasi catastrofe naturale. Niente alluvioni, niente esondazioni, niente terremoti, frane, slavine, valanghe, niente incendi indomabili, niente vulcani che eruttavano lava come un rubinetto aperto alla massima potenza. Niente tornado, uragani, venti che sradicavano alberi e scoperchiavano case e facevano ribaltare le navi nell'acqua, niente tsunami.
Io ero la più piccola del gruppo, avevo venticinque anni e da cinque anni, e per altri trenta stavo immolando e sacrificando la mia vita per la mia missione.
Solo che era un sacrificio troppo grande: niente storie d'amore, né con altri né con uno di noi. Niente sesso — un orgasmo provato a Miami potava causare un terremoto che avrebbe distrutto le coste mediterranee della Spagna, la delusione per un orgasmo mancato avrebbe fatto cadere un metro di neve a Mosca —, quindi niente figli. Nessuna persona a cui affezionarsi, niente viaggi, niente festeggiamenti troppo “festosi”... Niente di niente, in pratica.
Mi riscossi dai miei pensieri quando l'auto si fermò nel parcheggio sotteraneo del condominio dove vivevano gli altri quattro, Samuel prese il mio trolley e salimmo in ascensore.
«Il lavoro?» domandai per spezzare quel silenzio che iniziava a pesare.

«Il solito.» sospirò lui, aprì le porticine dell'ascensore e mi fece passare. «Ho un capo schiavista. Lo prenderei a sberle.» sbuffò e sentii la terra tremare sotto ai miei piedi, anche se eravamo al quinto piano, anche se nient'altro tremò. Samuel si era arrabbiato e da qualche parte, sul pianeta, c'era stata una leggera scossa di terremoto. Scossa che s'intensificò quando il guardiano della Terra sorrise alla dirimpettaia.
Lui la guardò mentre lei scendeva le scale, fino a quando non sparì dalla nostra vista.
Entrammo in casa e vidi Leo, appollaiato su una sedia accanto alla finestra, il faccino angelico distorto da una smorfia triste.
«Ciao Leo.» lo salutai.
Lui si girò verso di me e sorrise, «Ciao Tabitha.» disse, «Tutto bene il viaggio?»
Scrollai le spalle e tolsi la giacca di jeans. «Bhe, sì.» risposi. «A parte il caffè.»
«Quella brodaglia non è caffè.» esclamò Samuel, «È una brodaglia disgustosa.»
Sorrisi e mi concessi un risolino, sicura che non avrebbe peggiorato i danni causati dal terremoto, ovunque fosse stato.
«Vado a chiamare gli altri.» disse Samuel e sparì. Adam e Damon vivano nell'appartamento di sotto e le due case una volta erano solo un grande appartamento che fu poi diviso, però la scala interna rimase.
Sospirai, nel pensare a Damon, ai suoi occhi azzurri e i capelli biondi. Sospirai e mi sentii osservata e mi girai per guardare Leo, che mi fissava, triste, quasi come se sapesse ogni cosa.
«Ehi, Tabitha.» mi salutò Adam, baciando la mia guancia sinistra.
Un "Ciao" e un misero e fugace abbraccio furono il benvenuto da parte di Damon.
E io lo sapevo il perché di quella freddezza, come la sapeva lui.
Come sapevo che Samuel si stava prendendo una cotta per la vicina dalla pelle color cioccolato al latte e le gambe chilometriche.
Quello che non sapevo era cosa rendesse Leo così triste o il perché Adam sembrasse così scontroso e con la voglia di prendere la porta e scappare.
Quello che noi cinque non sapevamo era quello che ci sarebbe aspettato nei mesi seguenti. Quello che non sapevamo era che noi eravamo molto di più di cinque Guardiani degli Elementi.
Ma lo avremmo scoperto presto.

✫✫✫

Mentre mangiavamo la pizza — Leo non era più triste e aveva smesso di piovere — parlammo di cose banali, evitando tutti quegli argomenti tabù, che poi erano solo quattro: amore, sesso, religione e politica.
Per uno strano scherzo del destino ero di fronte a Damon, e ogni tanto sentivo il suo sguardo su di me. Uno sguardo carico di significati, carico di tutto. E lo sentii, forte. Del vento, da qualche parte in Europa, forse Italia o Francia. Grosse folate di vento che facevano rotolare bidoni dell'immondizia e vasi di plastica vuoti. Avrei potuto sentire il rumore della plastica che rotolava e saltellava sull'asfalto.
Lo ignorai, stoicamente, per diversi minuti, fino a quando non finii anche l'ultima crosta della pizza e Adam portò via i piatti, e poi ancora, quando Samuel mi diede un piattino con una torta di meringa e gelato.
La mia preferita.
Solo a quel punto, mentre prendevo in mano la forchettina da dolce, fissai gli occhi azzurri di Damon e ci lessi di tutto e mi sentii morire. Il vento si alzò ancora e mi concentrai, mentre spezzavo il dolce in due, per calmarlo.
Non potevo andare avanti così, non per altri venticinque anni, altrimenti sarei impazzita. Mi sarei logorata lentamente, in preda a un amore che non poteva esserci, che non poteva essere consumato, che non poteva essere pensato.
Perché quella era la verità: io amavo disperatamente Damon e avrei voluto dirglielo, baciarlo, stringerlo a me e stare con lui. Ma non avrei mai potuto farlo. Una volta finito il nostro compito le nostre strade avrebbero dovuto dividersi e non avremmo più potuto incontrarci per il resto della nostra vita. A quel punto pensai che sarebbe stato meglio morire il giorno dopo la fine del mio compito perché, era troppo doloroso pensare che non avrei più potuto vedere i suoi occhi così azzurri, ai suoi capelli biondi e il suo sorriso. Mi sarei uccisa pur di non provare tutte quelle cose. Ma non avrei potuto fare neppure quello.
Non potevo fare nulla se non starmene lì, fissando Damon, e ricacciando nel profondo del mio cuore i sentimenti che provavo per lui.
E che lui provava per me.

Ero sul piccolo balcone della stanza da Leo — da vero gentiluomo me l'aveva ceduta — e sospirai. L'afa era insopportabile e quasi rimpiansi la pioggia del pomeriggio. Mi sistemai meglio sul dondolo e abbracciai le mie gambe, posando il mento sulle ginocchia, domandandomi perché dovesse essere tutto così difficile, per me, per noi.
Perché eravamo noi, ad essere stati scelti.
Perché io? Perché lui?
Domande senza risposta.
Affondai le unghie nei polpacci e mi costrinsi a ingoiare le lacrime. Come ogni volta, come succedeva ogni giorno.
Avevo dei sogni, prima. Prima che Lei piombasse nella mia vita e mi dicesse che ero la guardiana dello Spirito e che la mia vita sarebbe cambiata.
Che sarebbe cambiata in peggio, però, Lei non lo aveva detto.
Avrei voluto laurearmi in biologia, per poi proseguire in medicina. A diciotto anni, durante l'ultimo anno del liceo, ero indecisa se specializzarmi in pediatria o ostetricia.
Invece... invece a vent'anni, avevo dovuto abbandonare l'università, i miei sogni e la mia vita.
Anche gli altri lo avevano fatto e potevo immaginare quanto fosse stato doloroso per loro.
Udii un singhiozzo e poi un altro, mi alzai in piedi e mi sporsi dal balcone.
Era Damon, che piangeva come un bambino. Lo udii chiaramente il vento che si alzava. Damon piangeva e dall'altra parte del pianeta si stava scatenando il Vento, il suo elemento.
Avrei dovuto calmarlo, senza pensare al ragazzo al piano di sotto che singhiozzava, ma non ci riuscii perché sapevo il motivo di quelle lacrime: io.
Era per me che piangeva.
Rientrai in camera dopo aver lanciato un breve sguardo alla skyline di Miami che si intravedeva in lontananza e chiusi la porta finestra, non potevo ascoltare quei singhiozzi ancora per molto, altrimenti sarei scesa da lui, lo avrei stretto tra le braccia e gli avrei detto che Lei poteva anche fottersi. E poi lo avrei baciato e avrei fatto l'amore con lui lì, sul piccolo balcone, fregandomene del resto. Invece andai in cucina e mi versai dell'acqua.
Leo dormiva sul divano in modo scomposto — una gamba su e una giù, con il piede che toccava il tappeto —, lo osservai per qualche minuto. Lui aveva un anno più di me ma in quel momento mi sembrò più piccolo. Si sentiva solo, triste. E pioveva, forte a New York, una pioggia che scrosciava e bagnava chi era in giro alle due del mattino. Sospirai e coprii Leo, gli sfiorai la fronte e il viso e lui si calmò. E l'intensità della pioggia scemò. Avevo sempre pensato che Leo fosse un piccolo e dolce bignè ripieno di crema. Ma anche fragile come bicchiere di cristallo.
Bevvi e feci per tornare in camera mia quando un rumore mi bloccò. Andai alla porta e guardai dallo spioncino, capii perché Samuel si era invaghito della vicina: era una bella ragazza di colore, con lunghe gambe snelle, un sedere sodo, pancia piatta, un seno alto e sodo, lunghi capelli lisci che cominciavano ad arricciarsi. La giovane entrò in casa e il pianerottolo piombò nel buio.
Tornai anche io a letto, rannicchiandomi al centro, la testa sotto le coperte, mentre nel Sud-Est asiatico si scatenavano i monsoni.
Ero troppo triste per poter pensare anche a quello, dopo averlo rivisto. Non avrei voluto pensare a nulla.

✫✫✫

«Che cos'ha Adam?» domandai il mattino seguente, rientrando nell'appartamento di Samuel e Leo. Ero andata con Adam a comprare alcune cose per il Grande Rito e il ragazzo era stato... scontroso. No, non è la parola giusta. Era stato... bho, qualcosa di strano, qualcosa che aveva fatto scoppiare un grosso incendio in Messico.
Sospirai mentre posavo la borsa sul tavolo.
«Non lo so.» rispose Samuel, «È strano da alcuni giorni.»
Leo, in quel momento ci sfilò accanto — avrebbe potuto fare il modello, con quel faccino angelico e i grandi occhi grigio-verdi — e si sedette sulla sedia accanto alla finestra. Presto avrebbe ricominciato a piovere, lo sentivo.
Scrollai le spalle, «Uhm, okay.» feci mentre iniziavo a togliere le candele dalla borsa. Le sistemai nel mobile vicino alla tv e mi sedetti al tavolo, iniziai a ripiegare il sacchetto di plastica, lisciando le grinze con il palmo della mano, gli occhi fissi su quello che stavo facendo. Non li avrei alzati nemmeno se fossero passati una schiera di aitanti vigili del fuoco completamente nudi. E il tutto perché Damon era salito nell'appartamento.
Mi sentii osservata e alzai il viso, trovando quello di Leo che mi sorrideva con dolcezza, e capii che sapeva, che sapeva ogni cosa. E ciò mi fece sentire triste, perché Leo era dispiaciuto per me. Perché lo sapeva. Sapeva cosa provavo per Damon. Sapeva cosa provava lui per me e il fatto che non avremmo mai potuto avere una nostra vita insieme lo rendeva triste. Ancora più triste.
Sentii Damon dietro di me e mi voltai, ritrovandomi i suoi occhi azzurri che mi scrutavano e dicevano quello che non si poteva dire a voce alta. Inspirai piano e lui fece un minuscolo sorriso che mi riempì di gioia. «Ciao, Tabitha.» mi salutò con la sua voce bassa e roca.
«Ciao.» risposi e distolsi lo sguardo, puntandolo su Adam che si aggirava in casa come un leone in gabbia.
Avanti e indietro. Avanti e indietro. Avanti e indietro.
«Guarda che non serve che scavi per arrivare di sotto, eh.» lo prese in giro Damon.
Adam lo fulminò con lo sguardo e per un singolo istante — un mezzo secondo, forse — mi parve di vederlo avvolto dalle fiamme. Il ragazzo fissò Damon con i suoi occhi neri socchiusi e sbuffò.
«Non sopporto di stare qui.» disse, «Mollerei tutto e me ne andrei.»
Lo guardammo, tutti quanti, mentre lui ci fissava, osservandoci come se ci vedesse per la prima volta.
«Non puoi.» esclamò Samuel, «Non possiamo.» sospirò, abbassando la testa e incurvando le spalle.
«Non ce la faccio più.» sbuffò Adam e incrociò le braccia muscolose al petto. Fece un sospiro, poi sciolse le braccia e infilò le mani nelle tasche. «Comunque non importa.» disse, «Ormai siamo qui...» si voltò e tornò al piano di sotto. Guardai Damon e vidi le sue labbra tremare, poi sospirò, «Vado a vedere come sta.» disse e sparì anche lui, lasciandomi sola, anche se avevo accanto Leo e Samuel.
Inspirai a fondo e mi imposi di calmarmi. Dovevo farlo. Leo mi strinse la mano e gli regalai un sorriso. «Andrà tutto bene, vedrai.» sussurrò. Il mio bignè alla crema...
Sorrisi, anche se il mio cuore piangeva.

Eravamo nel salotto, sul tappeto, il tavolino spostato di lato.
Io ero al centro di un cerchio formato dagli altri, alla mia destra si trovava Damon e potevo vederlo con la coda dell'occhio.
Le candele vennero accese e le luci spente. I ragazzi si presero per mano, incrociai le gambe e posai i polsi sulle ginocchia, rilassando le mani.
Acqua che scorreva sulla mia pelle, lenta, seguendo le curve del mio corpo, por poi frantumarsi sul pavimento come una cascata. Terra che vibrava e tremava sotto di me, zolle che si alzavano e ballavano. Fuoco che divampava, e Aria che alza le fiamme.
Rimanemmo così, ognuno concentrato sul proprio elemento, io concentrata sul mantenerli in equilibrio, per diverso tempo. Avevamo iniziato subito dopo pranzo e quando smettemmo il cielo si stava striando d'arancio.
Mi alzai lentamente, sentendomi esausta dopo tutta quella concentrazione e barcollai, sentendo la stanza che girava attorno a me. Mi aggrappai alla prima cosa che trovai: il braccio destro di Damon. Lo fissai, sentendo sotto le dita la sua pelle calda e i peli che mi solleticavano. Inspirai a fondo, fissandolo.
«Tabitha...» soffiò, «Stai bene?» mi domandò, premuroso. Troppo premuroso.
«Mi gira la testa.» farfugliai distogliendo lo sguardo. Lui mi posò una mano sulla schiena e mi accompagnò verso il divano, mi aiutò a sedermi e mi fissò. Io non lo feci, atterrita dall'idea che avrei potuto stringerlo a me e baciarlo.
Leo, premuroso come sempre, mi portò un bicchiere di succo. Lo sorseggiai piano, evitando d'incrociare lo sguardo di Damon.
Samuel era appoggiato al tavolo della cucina e ci osservava mentre Adam sospirava appoggiato allo stipite della porta finestra.
«Sto bene.» dissi, finii il succo e Leo prese il bicchiere dalla mia mano.
«Hai la faccia sbattuta.» commentò Adam, muovendosi come se lo avesse punto una tarantola. «Dovremo prenderci una vacanza.»
«Non possiamo.» lo riprese Samuel.
Adam sbuffò e si mosse, lo vidi barcollare e capii che anche lui era provato.
Ristabilire l'equilibrio ci portava via molta energia e ci lasciava senza forze, per questo c'incontravamo una volta l'anno.
Damon era in piedi, vicino al divano, una mano in tasca, l'altra che sfiorava nervosamente la coscia.
Avrei voluto toccargli la mano, stringerla, intrecciare le sue dita con le mie... e lo feci.
Lui mi osservò, perplesso, poi un timido sorriso si dipinse sulle sue labbra. «Stai bene?» soffiò.
Annuii, godendomi il calore della sua mano sulla mia e lo fissai, guardando i suoi occhi limpidi. «Mi sento meglio.» risposi.
Lui annuì piano e sospirò senza guardarmi, fissando un punto imprecisato accanto ad Adam.
«Cosa mangiamo?» domandò Leo. «Sento che se avessi una mucca davanti me la mangerei tutta.»
«Ne saresti capace.» esclamò Damon e lasciò la mia mano per poi sedersi fra me e Leo, posò i gomiti sulle ginocchia e si prese il viso fra le mani. Lo osservai ed ebbi voglia di piangere. Avrei voluto nascondermi in un armadio e piangere così tanto da prosciugarmi.
Invece mi limitai ad osservare Samuel, il cuoco del gruppo, in attesa che dicesse qualcosa.
Fu Adam, però, a parlare: «Io vorrei qualcosa di leggero.» poi si staccò dal muro e si avvicinò a Samuel e lo vidi ancora. Vidi il fuoco avvolgerlo, muoversi con lui, seguendo ogni suo movimento.
«Tabitha... stai bene?» domandò Damon.
Sbattei un paio di volte le palpebre, «Sto bene.» risposi, tacendo su quello che avevo appena visto. Com'era possibile una cosa del genere? Noi potevamo controllare in un certo modo gli Elementi: potevamo calmarli o scatenarli con le nostre emozioni, non... plasmarmi a nostro piacimento!
E poi... perché Adam? Lui era sempre stato scettico, quello che dopo l'università avrebbe voluto prendersi un anno sabbatico e viaggiare per l'Europa armato di un solo zaino, un marsupio e la sua faccia tosta. Adam aveva sempre dimostrato poco attaccamento per la nostra missione, anche se s'impegnava per farla.
«Sicura?» mi chiese Leo.
«Certo, Pasticcino.» gli sorrisi.
Lui brontolò sottovoce, «Non chiamarmi Pasticcino.» disse.
Io sorrisi ancora e mi alzi, piano, «Vado in bagno.» annunciai.
Quando mi lavai le mani mi osservai allo specchio. I miei grandi occhi castani erano circondati fa occhiaie violacee, che risaltavano sulla pelle abbronzata. Ero indecisa se prendere il beauty case, tirare fuori il correttore e darmi una sistemata. Alla fine rinunciai e l'unica cosa che feci fu di passare del burro cacao sulle labbra. Tornai in salotto e vidi Samuel chiudere il frigorifero. «Insalata mista e petto di pollo ai ferri.» esclamò, «Va bene per tutti?»
Annuii, Damon e Leo dissero di sì e Adam si limitò a scrollare le spalle.
Mangiammo scambiandoci poche parole, ognuno perso nei suoi pensieri. Leo e i suoi occhi tristi, Samuel e la sua cotta per la vicina, Damon che mangiava con lo sguardo basso e Adam, con la voglia di scappare. E le fiamme — dai colori sbiaditi, come in una vecchia foto — che lo avvolgevano.
Io rimasi a testa bassa, per evitare che uno di loro mi chiedesse qualcosa. Era strana quella storia di Adam. Presto avrei scoperto il perché, e avrei scoperto che tutto ciò era lontanissimo da qualsiasi cosa avessi mai potuto immaginare.

✫✫✫

Quella notte mi svegliai per bere. Mentre rimettevo la bottiglia d'acqua nel frigo, sentii dei rumori provenire dalle scale interne.
Damon.
Avrei riconosciuto i suoi passi ovunque. Lasciai perdere il bicchiere e lo raggiunsi, trovandolo seduto sul gradino dell'angolo delle scale. Mi sedetti accanto a lui, sul gradino piccolo e stretto. Sentii il suo profumo, il suo calore, il suo respiro... e m'innamorai di nuovo, ancora di più di cinque anni prima.
Lui mi osservò, fissandomi negli occhi e mi sentii nuda, esposta, vulnerabile ma non m'importava. Alzò un braccio — il destro — e mi attrasse a sé, stringendomi con forza, aggrappandosi alla mia maglietta e io posai il viso contro il suo collo, inspirando il suo profumo, sentendo la sua pelle calda contro la mia.
«Perché?» bisbigliò dopo qualche secondo di silenzio, «Perché noi?»
Già, perché noi? Me lo chiedevo spesso. «Non lo so.» risposi con un sussurro, le labbra vicino al suo collo e la voglia di baciarlo che saliva prepotente dentro di me.
Avrei voluto baciarlo, essere egoista e infischiarmene se ciò avesse avuto terribili conseguenze. Però non lo feci e rimasi aggrappata a lui, come se Damon fosse la mia àncora a cui aggrapparmi per non affogare.
Lui mi baciò la guancia destra, a lungo, premendo con forza le sue labbra contro di me e io m'imposi di non girare il viso verso quella bocca. Lo avevamo fatto gli anni precedenti e Lei si era palesata, sgridandoci, umiliandoci e ricordando qual'era la nostra missione. Così avevamo deciso di non rischiare, di non farlo più, anche se era doloroso, centinaia e centinaia di spilli roventi conficcati nella pelle.
Rimanemmo così, stretti in un abbraccio fino a quando non sentimmo Adam alzarsi e la porta del bagno aprirsi.
«Meglio che torni a letto.» mormorai sfiorando il viso bagnato dalle lacrime di Damon.
Lui si limitò ad annuire, «Okay, Tabitha.» soffiò.
Gli presi il viso tra le mani e gli posi un bacio sulla fronte. «Buona notte.» mormorai, mi alzi e feci due gradini, mi voltai e lo guardi. Damon era ancora più bello alla luce soffusa, «Damon... lo sa che io...» balbettai, «Che io...»
«Lo so, Tabitha, lo so.» disse, «Anche io.» aggiunse alzandosi.
Lo guardai e mi voltai salendo i gradini e imponendomi di non andare da lui.
“Anche io.”
Forse non era la dichiarazione migliore del mondo, forse non era un “Ti amo” urlato in mezzo a una piazza ma per me, quelle due parole, valevano più di ogni altra cosa.
Perché quelle erano le uniche parole che potevamo dirci. Se non potevamo amarci, come avremmo potuto dircelo?
Guardai Leo che dormiva sul divano, il pugno destro vicino alla bocca, come un bambino che avrebbe voluto succhiarsi il pollice.
La porta della stanza di Samuel era chiusa. Mi domandai cosa ne pensasse veramente di tutta quella storia, se avesse voluto mollare tutto come lo volevo io, come lo voleva Damon e Adam. E Leo.
Perché ne ero sicura, anche il mio piccolo bignè stava soffrendo e non sopportava più quella situazione.
Mi chiesi come potevamo reggere per un quarto di secolo in quella maniera, sentivo che, prima o poi, avrei perso la mia umanità, facendo diventare il mio corpo solo un misero contenitore vuoto.
Sospirai e tornai a letto. Fissai il soffitto per quelle che mi sembravano ore, prima di addormentarmi, sognando la vita che io e Damon non avremmo mai avuto.
Sognai di essere ostetrica, in sala parto. Davanti a me una madre che stava partorendo, gridando dal dolore. “Spingi.” le dissi tenendo la testa del bambino o bambina fra le mani. La donna spinse, urlando, e anche le spalle del piccolo fecero il loro ingresso nel mondo. “Un'ultima spinta...”
Il bambino venne al mondo con un verso che ricordava un miagolio di un gatto arrabbiato, lo avvolsi in un asciugamano bianco e gli pulii il visetto grinzoso, controllando le vie respiratorie. Lo posai sul seno materno, quel piccolo fagotto nato in un mondo di merda. Il bambino si calmò quando la madre gli sfiorò il viso e allora la guardai: ero io. Ero io la partoriente, ero io quella che aveva fatto nascere il mio bambino.
Mi svegliai e annaspai, chiedendomi perché la mia mente mi facesse vivere certe cose orribili. Non avrei mai potuto avere dei figli miei, quindi... perché? Perché?
Mi sentivo con in una gabbia circolare, una gabbia senza sbarre o finestre, senza via d'uscita.
Ero in trappola e non avrei mai potuto fuggire.

La mattina seguente, dopo colazione, ci preparammo per eseguire nuovamente il rito, poi avremmo mangiato, di nuovo il rito, la cena, e poi a dormire. Così per altri quattro giorno, il settimo giorno il Rito sarebbe durato tutto il giorno. Il mattino dell'ottavo giorno sarei partita, lasciando lì un pezzo di cuore e di anima.
Mentre sciacquavo le tazze della colazione sentivo cosa facevano gli altri: Samuel puliva con una spugna il tavolo, Leo era seduto su una sedia e guardava fuori dalla finestra, Adam faceva il suo solito avanti e indietro, Damon mi fissava. Anche se non potevo vederlo lo sapevo che mi fissava. Sentivo il suo sguardo fisso sulla mia schiena.
Chiusi l'anta del pensile e mi voltai. Samuel stava ancora pulendo, Leo guardava fuori dalla finestra, Adam si muoveva, Damon fissava le sue mani.
Mi asciugai le mani e sistemai in mordo ordinato lo strofinaccio sulla maniglia dello sportello sotto al lavandino. «Cominciamo?» domanda, cercando di risultare allegra.
Leo sospirò e si alzò dalla sua sedia, lentamente come se fosse la cosa più difficile che gli fosse mai toccata.
Ci sistemammo, ognuno ai proprio posti, pronti per ristabilire l'equilibrio degli Elementi.
Ne avrei fatto volentieri a meno.

Mentre Samuel preparava il pranzo, io ero accasciata sul divano, in preda a un forte mal di testa. Adam mi diede un bicchiere d'acqua — niente medicinali, durante quella settimana, avrebbero interferito — che sorseggiai lentamente. Leo era accanto a me, premuroso come sempre. Damon era alla finestra, le braccia incrociate e i muscoli in evidenza, lo sguardo perso nel vuoto. Mi domandai a cosa pensasse.
«Stai peggiorando.» esclamò Adam.
«Cosa?» fece Leo.
L'altro agitò una mano nella mia direzione, «Tabitha.» disse, «Dopo ogni Rito è sempre più debole.» esclamò, «Si sta prosciugando...» sospirò, infilando le mani nelle tasche, «Se continua così... bhe, rischia un collasso.»
Damon mi fissò, «Sul serio?» domandò e lo vidi preoccupato.
L'altro scrollò le spalle mentre Leo mi stringeva la mano. «Spero di no, ovviamente.» rispose. «Ma guardala...» si voltò verso di me, «è pallida, debole... scommetto che se si misurasse la pressione sarebbe ai livelli minimi.»
Damon mi fissò, preoccupato e io mi preoccupai per lui. Deglutì e si spostò dalla finestra. «Possiamo ritardarlo, quello del pomeriggio.» disse, «Basta spostarlo un po', così Tabitha si riposa.»
«Sembra una buona idea.» commentò Leo e Adam si lasciò cadere accanto a lui con un sospiro rumoroso.
«Non possiamo.» fece Samuel. «Dobbiamo rispettare gli orari, lo sapete, altrimenti si arrabbierà.»
«Credo sia peggio Tabitha che collassa mentre manteniamo l'Equilibrio che ritardare di un paio d'ore.» sbottò Adam. «Samuel... non ti preoccupi?»
«Mi preoccupo che Lei si arrabbi.» rispose senza voltarsi. «E mi preoccupo per Tabitha, mi pare ovvio... ma dobbiamo rispettare le regole.»
«Fanculo le regole.» sbottò Damon, «Se stiamo male il Rito va a puttane, quindi...» sospirò e mi guardò dolcemente, sorridendo, «Meglio aspettare.»
«Sì, ma...» obbiettò Samuel.
«Ma un corno.» lo interruppe Adam. «Aspettiamo.» disse, la voce dura e tagliante.
«Ehi!» sbottai, «Io sono qui.» feci notare ma non me la presi, dopotutto si stavano preoccupando per me.
«Mangiamo.» esclamò Samuel.
Leo mi sorrise, «Ti senti meglio?»
«Sì, Pasticcino, grazie.» risposi e mi sedetti composta, mentre Adam e Damon sospirarono dal sollievo.
«Non chiamarmi Pasticcino.» brontolò Leo ma mi regalò uno dei suoi sorrisi. Pensai che, se non fossimo stati costretti a fare quella vita, Leo avrebbe fatto una vera strage di cuori. Avrebbe potuto essere uno di quei ragazzi a cui bastava guardare — anche per sbaglio — una ragazza per averla ai suoi piedi. Ma sapevo anche che lui non ne avrebbe mai approfittato. Il mio bignè era troppo buono e corretto per fare una cosa del genere volontariamente.
Dopo pranzo fui spedita a letto, dove mi raggomitolai sotto alla coperta leggera con uno sbadiglio.
Passarono diversi minuti prima che la porta si aprisse ed entrasse qualcuno. Sapevo chi fosse anche se lui non parlò.
Damon.
Si avvicinò piano al letto, con piccoli passi, il rumore attutito dal tappeto, si sedette e sentii il materasso cedere sotto il suo peso; rimasi ferma, immobile, il lenzuolo tirato fino a metà naso, gli occhi chiusi e i pugni stretti.
Damon mi sfiorò i capelli, scostandoli dal viso. Sentivo il rumore del suo respiro, il calore della sua pelle, e mi sentii male perché avrei voluto che fosse sempre così: io e lui, senza nessuno che ci dicesse cosa fare o cosa non fare.
Ancora una volta, pensai che Lei avrebbe potuto fottersi o ficcarsi una pistola in bocca per quanto me ne importasse.
Io volevo solo essere felice con Damon, che Adam facesse quel viaggio che desiderava tanto, che Samuel potesse invitare per un caffè la bella vicina, che Leo ritrovasse la sua felicità.
Ma nessuno di noi poteva farlo.

✫✫✫

Annaspai e la stanza girò velocemente attorno a me, come se fossi in una di quelle attrazioni che girano così veloci che l'ambiente circostante diventa come una tela con diverse macchie di pittura.
Sentii delle braccia stringermi e capii che era Adam quello che mi sorreggeva. Mi posò sul divano e mi scostò i capelli dalla fronte sudata. «Come ti senti?» mormorò.
«Il mondo gira troppo veloce.» mormorai. «Fatelo smettere.» aggiunsi con gli occhi chiusi, quando li riaprii vidi quattro paia di occhi — grigio-verdi, neri, azzurri, castani — che mi osservavano, preoccupati.
«Forse faresti meglio a partire nel pomeriggio, invece che al mattino.» esclamò Adam.
«Ma...» obbiettò Leo.
«Per quanto mi riguarda... può pure crepare, quella troia.» sbottò Adam.
«Io non voglio che stia male.» pigolò Damon.
«Neppure io.» disse Leo.
«Però... ragazzi...» sospirò Samuel, «Le regole.»
«Che crepi, quella lurida troia.» esclamò Leo e un attimo dopo urlò, mi misi a sedere e lo vidi portarsi le mani alla gola, come se non riuscisse a respirare.
«La punizione!» gridò Adam gettandosi verso di lui.
Leo annaspò, cercando di mandare giù più aria possibile, tentativo vano: i suoi polmoni erano pieni d'acqua. Il suo Elemento lo stava uccidendo.
Gli posai un braccio sulle spalle e gli massaggiai la schiena, cercando di farlo stare bene e concentrandomi nel farlo ma, come ogni volta, non ci riuscii.
La punizione era terribile, in quei cinque anni l'avevamo provata tutti quanti almeno due volte a testa. Leo si sentiva affogare, ad Adam sembrava di bruciare — una volta si era graffiato così tanto per togliersi le fiamme dal corpo che si era procurato graffi profondi su tutte le braccia —, Samuel provava l'orrore di cadere in un crepaccio e di morire sepolto vivo, Damon aveva sentito l'Aria rivoltarsi contro di lui, stappandogli i vesti, pezzi carne e facendolo urlare disperatamente.
La mia punizione era diversa: sentivo l'ululato del vento, il fuoco crepitare, il boato della terra che si apriva in due, lo scrosciare del vento. Li sentivo forte, nella mia testa, insieme alle urla di persone che morivano. Centinaia di urli, così forti, così disperati che mi sarei spaccata la testa in due, pur di farli smettere.
La punizione di Leo finì, e lui vomitò acqua, muco e bile in un secchiello recuperato da Damon chissà dove.
«Come stai?» domandi, preoccupata.
Leo tossì e posò la testa sullo schienale del divano, «Come uno che stava affogando.» mormorò.
Mi sentii osservata e girai la testa, fissando gli occhi neri di Adam che mi fissavano. Non c'era bisogno di parole per dirci quello che sapevamo già: se avessimo continuato così saremmo morti.
E né io, né lui, volevamo morire per mano di Lei.
L'avrei uccisa con le mie mani, se avrebbe impedito la morte di una persona che amavo.
Perché, ha dispetto di quello che Lei continuava a dirci — “Dopo un paio d'anni saprete controllare le vostre emozioni, dopo cinque non ne avrete più.” —, io avevo ancora sentimenti che ardevano nel profondo della mia anima. Guardai il mio Pasticcino, il viso angelico distorto in una smorfia di dolore, fissai Samuel, con lo lo sguardo perso nel vuoto, osservai Damon, preoccupato per me e per Leo.
Posai gli occhi su Adam e annuì, piano.
Qualunque cosa avesse in mente di fare, io lo avrei seguito.
Avrei fatto qualsiasi cosa per liberarci da quella maledizione — perché era quello che era, in fondo. Non era un dono come si ostinava a dire Lei —, qualsiasi cosa pur di far finire quell'inferno.
Erano due le cose che non sapevo, quel giorno. La prima era cosa avrei fatto, la seconda era che non avrei aspettato un anno per farla.

✫✫✫

La mattina dell'ottavo giorno arrivò troppo presto. Salutai Samuel e lo ringraziai per la ricetta del pollo ripieno che mi aveva dato, abbracciai Leo e lo chiamai Pasticcino, facendolo borbottare. Mi strinsi a Damon, imprimendomi a fondo l'odore del suo profumo, cosa si provava nel sentirsi stringere da lui, cosa provavo io nel tenerlo abbracciato.
Gli sorrisi, quando mi staccai da lui.
«Pronta?» chiese Adam.
«Sì.» risposi e afferrai la mia borsa, uscimmo da casa, dal palazzo ed entrammo in auto, diretti alla stazione.
Adam mi aiutò a salire sul treno. «Sai,» disse guardandomi, «quello che vorrei è vedere te e Damon felici.» esclamò.
Gli sorrisi. «Lo vorrei anche io...»
«Ci riusciremo, lo prometto.» gridò mentre le porte del treno si chiudevano. «Ce la faremo, tutti quanti. Riavremo la nostra vita e sarà solo nostra!» urlò mentre il treno iniziava a sbuffare
E mentre il treno partiva, seppi che gli credevo.

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Capitolo 2
*** 2. ***


Un paio di noticine prima di lasciarvi alla seconda parte: ad un certo punto troverete nel testo alcune parole che sembrano scritte in maiuscolo ma non è vero. È maiuscoletto che è ben DIVERSO dal maiuscolo. Giusto per informarvi.
Grazie a chi legge questa storia!

Elements

Parte II



Sognai campi di grano, enormi distese di grano, e un sole alto nel cielo, che brillava e riscaldava ogni cosa.
Un piccolo venticello che mi scompigliava i capelli.
E poi... il boato. La terra che si spaccava e si apriva, inghiottendo ogni cosa mano a mano che la crepa avanzava velocemente e allargandosi sempre di più. E poi il grande muro d'acqua, alto come un palazzo di sei piani, che correva, veloce, distruggendo ogni cosa al suo passaggio.
Dalla parte opposta il fuoco avanzava terribile, bruciando ogni cosa. Il vento, che si era trasformato in un tornado, gridava e ululava, strappando alberi centenari, sollevando palazzi come se fossero piume... nord, sud, est, ovest.
E io in mezzo, al centro. E quando il fuoco, l'acqua, l'aria e la terra arrivarono, mi attraversarono, mi bagnarono, mi bruciarono... io rimasi incolume, ancora lì al centro del campo di grano, con il sole alto nel cielo.
Mi svegliai, ansimando, inghiottendo bocconi d'aria. Mi sedetti sul letto, domandandomi il significato del mio sogno.
Era Ottobre, dieci settimane da quando avevo salutato gli altri.
Scostai le coperte e fissai la sveglia: le otto meno cinque. Sospirai e disattivai l'allarme che sarebbe suonato cinque minuti dopo.
Feci quello che facevo ogni giorno: mi lavai, mi vestii e bevvi un caffè mentre guardavo il telegiornale del mattino.
Alle nove e un quarto ero davanti alla mia scrivania, pronta per un'altra noiosissima giornata di lavoro nel campo delle assicurazioni.
Mentre aspettavo che il sistema operativo si caricasse guardai fuori dalla finestra, le macchine che sfrecciavano, gli alberi immobili. Non tirava un filo di vento.
Non c'era vento da diversi giorni, ormai, nemmeno una piccola brezza che alzava solo polvere e sabbia. Niente. L'aria era... immobile. Poi lo sfondo dello schermo — cavallucci marini — apparve e io mi concentrai sul mio lavoro.

Alle undici meno un quarto ero tornata dalla pausa. Afferrai la matita, un foglio con scritto le cose da fare e tirai una linea sulle cose che avevo fatto fino a quel momento.
Tirai una linea storta sopra l'ultimo punto, così, con uno sbuffo, afferrai la gomma, che mi sfuggì dalle mani e rotolò sotto la scrivania. Tirai indietro la sedia e mi chinai ma, quando alle mie dita mancavano pochi centimetri per raggiungere la gomma, la sentii chiaramente.
Avvertii la scossa prima che avvenisse. Forte, intensa. Rimasi ferma, chiedendomi cosa stesse succedendo a Samuel. Poi la mia sedia tremò e io mi gettai sotto la scrivania, mentre attorno a me la gente e i clienti urlavano e gridavano spaventati.
Strinsi la testa fra le mani, cercando di calmare quel frastuono, pregando che Samuel stesse bene, domandandomi perché stesse accadendo...
Dopo cento secondi esatti — lo avrei saputo dopo, al TG — la scossa finì e il nostro capo ci urlò di uscire.
Afferrai la mia borsa e la giacca, uscii all'aria aperta e mi diressi verso la mia auto, miracolosamente incolume: quelle attorno erano buone solo per lo sfasciacarrozze. Sulla mia non c'era neppure l'ombra di un granello di sabbia. Non c'erano macerie, dal lato del guidatore, non c'erano detriti sulla traiettoria che feci quando uscii in retromarcia. Niente crepe, sulla strada per uscire dal parcheggio.
Niente di niente sulla strada per casa.
Solo quando fui sul sedile mi accorsi di stringere la gomma nella mano destra, la lasciai cadere nel porta oggetti. Non badai al paramedico che mi chiedeva se stessi bene e partii. Venti minuti dopo ero davanti a casa mia, attorniata da vigili del fuoco e uomini della protezione civile.
«Qual è casa sua?» mi domandò un pompiere.
«Quella al centro.» risposi e accennai la minuscola casa — un bilocale — e la osservai. Era in piedi, solo i vetri erano esplosi. Mentre le altre... bhe le altre non c'erano più. O se c'erano erano solo muri che minacciavano di cadere da un momento all'altro.
Entrai, anche se il pompiere cercò di fermarmi. Mi diressi in camera, aprii l'armadio e afferrai le valige, che spalancai sul letto, iniziai a riempirle di roba e presi anche la scatola con dentro la mia nuova tv da trenta pollici e il lettore dvd. Dopotutto li avevo pagati una fortuna. Svuotai ogni singolo armadio, ogni mobiletto e cassetto di casa mia. Poi presi il mio carrellino da sotto il letto e ci sistemai sopra le valige, assicurandole con le cinghie elastiche, anche se avrei dovuto solo arrivare al mio SUV. Mentre camminavo per casa mia mi resi conto di quanto fosse brutta. L'avevo affittata ammobiliata e la mia padrona di casa non aveva un gran gusto in fatto di arredamento. O il guasto di scegliere una carta da parati che non fosse pacchiana all'ennesima potenza. O la capacità di scegliere un piastrellista capace di sistemare le piastrelle in modo da creare delle fughe uguali. Me ne resi conto allora, recuperando elastico per i capelli dal pavimento, che le fughe erano disomogenee.
“Cosa te ne importa?” pensai, “Tanto non ci tornerai, in questo buco.” pensai. Come se lo intuissi, quello che sarebbe successo.
Come se sapessi quello che sarebbe successo. Feci aventi e indietro tre volte, per sistemare le mie sei valige, quattro borsoni, tre zaini e svariate borse nella mia auto. Sul sedile posteriore sistemai le scatole con la tv e il lettore DVD, bloccandole con la trapunta che mi ero portata dietro da Chicago. Ritornai in casa, svuotai il frigo e il frizeer, infilando tutto nella borsa frigo. Prima di uscire, avevo solo due pensieri fissi in testa: andare a vedere come stavano Samuel, Damon, Leo e Adam. E farlo il più in fretta possibile.
Uscii di casa e la vidi, alla mia sinistra.
Lei era lì, che mi osservava, truce. Sapeva quello che volevo fare.
La fissai, mentre mi avvicinavo e più la fissavo più mi chiedevo come un essere del genere potesse essere Lei.
Era grassa, obesa, circa sessant'anni, con i capelli striati di grigio e unti come se avesse usato la testa per pulire una pentola deve si era fritto qualcosa. I suoi occhi, così glaciali e freddi, erano piccoli e infossati e pensai che fossero sul punto di scomparire, inghiottiti dal grasso che li circondava. Lei non aveva mento, non aveva neppure il doppio mento se era per quello. Il suo collo sembrava inghiottire ogni cosa. Dire che era brutta era farle un complimento.
«Non puoi.» ringhiò quando fui a due metri scarsi da lei.
«Oh, sì che posso.» replicai.
«Non è previsto il vostro incontro.» disse lei.
«Tu non puoi saperlo.» dissi stringendo la cinghia della borsa frigo, pronta ad usarla come arma.
«Io sono vostra Madre!» strillò lei, la voce acuta.
«Bhe... come Madre sei pessima, fattelo dire.» ribattei, acida, «Come Madre Natura sei pure peggio.» aggiunsi, «Stronza.» sputai e mi voltai.
Signori e signore, chi mi dava gli ordini, chi mi aveva infilato a forza in quella vita era Madre Natura.
«Non puoi!» gridò lei, «Non puoi!»
Io la ignorai e tornai verso il mio SUV, chiedendomi come potesse essere una persona del genere Madre Natura. Quando entrai in auto vidi il pompiere che si avvicinò, spostandosi dall'albero dove lo avevo lasciato quando ero arrivata dall'ufficio e mi chiesi perché se ne fosse stato lì, invece di seguirmi e trascinarmi fuori da casa, urlando che poteva esserci un'altra scossa. Era rimasto lì, accanto all'albero, bloccato, come se si fosse fermato il tempo nell'esatto istante in cui ero entrata in casa e avesse ripreso a scorrere quando avevo aperto la portiera.
«Sta bene, signorina?» mi domandò.
«Sì, grazie.»
«Può andare al complesso sportivo, stanno allestendo una tendopoli per gli sfollati.»
«Non serve.» replicai mettendo in moto. «Vado da amici.» dissi ingranando la marcia, «Su, al nord.» mentii, perché venti minuti dopo, alle dodici e due minuti, stavo imboccando la rampa dall'autostrada verso sud.
Stavo andando a Miami.

Miami da quella casa dista tre ore e un quarto di treno, oppure quasi quattro con l'auto, andando a velocità media di ottanta chilometri l'ora. Io ce ne impiegai due mezza, di ore, quel giorno, superando di gran lunga i limiti di velocità, ma prima, prima che arrivassi a in quel palazzo successe un'altra cosa.
Lei si ripalesò, in auto, apparendo sul sedile del passeggero. «Non puoi andare, non è previsto.» disse.
«Non me ne fotte un cazzo se è previsto oppure no.» replicai, «Io faccio quel cazzo che voglio, e tu, brutta stronza, non puoi impedirmelo.» aggiunsi, abbandonando le buone maniere che mia madre mi aveva insegnato. «Io andrò da loro.» dissi.
«Non è previsto!» gridò lei e io infilai la mano sinistra nella tasca della portiera, stringendo la bomboletta di peperoncino spray. Sistemai l'erogatore e posai l'indice sul pulsante.
«Non è prevista una cosa del genere!» replicò Lei, «Non è mai successa una cosa del genere... un incontro prima che sia scaduto il tempo!» strillò, come se invece di andare a vedere cos'era successo le avessi confessato che avevo intenzione di fare sesso con cinque uomini contemporaneamente.
«Tu dici?» feci, tranquilla, «Vediamo se lo prevedi, questo.» dissi e la guardai, anche lei lo fece
«Cosa?» mormorò e io alzai il braccio sinistro, strinsi con forza il volante e spruzzai. Lei urlò e gridò, portandosi le mani al viso, io puntai gli occhi sulla strada, poi le urla smisero e io rimasi sola. Gettai la bomboletta dov'era prima e continuai a guidare.
Un paio di minuti dopo la rividi, in mezzo alla mia corsia, un centinaio di metri più avanti. Lei mi fissava con le mani sui fianchi.
Se pensava di spaventarmi o intimorirmi si sbagliava di grosso. Pigiai il piede sull'acceleratore e in un battito di ciglia fui davanti a lei, sopra di lei. Proseguii la mia corsa senza guardarmi indietro.

Posteggiai il mio SUV sul marciapiede davanti al palazzo e sentii il rumore di plastica rotta, dovevo aver schiacciato un secchiello o qualcosa del genere.
Afferrai la mia borsa e mi precipitai all'interno, salii i gradini due a due a arrivai all'ultimo piano.
Spalancai la porta.
«Tabitha!» esclamò Adam.
«Cos'è successo?» domandai entrando in casa. Fissai Samuel, semi-sdraiato sul divano, il viso inondato di lacrime, «Come sta?» chiesi e feci un passo avanti, trovandomi fra le braccia di Damon. Lo strinsi, forte, inspirando il suo profumo, sentendo la sua pelle sotto le dita.
«Cos'è successo?» ripetei.
Adam sospirò e si alzò dal divano. «Ti ricordi Evelyn?» chiese. Ci pensai per due secondi, poi annuii. Era la bella vicina. «L'altra sera non è rientrata a casa.» continuò, «Ieri pomeriggio l'hanno trovata... dietro un cassonetto, nel vicolo dietro il locale dove lavorava.» disse, «È stata uccisa e...»
«Oh.» commentai andando a sedermi, «Oh.» feci, rendendomi conto di cosa volessero dire quelle parole. La ragazza che piaceva a Samuel era morta, uccisa e violentata.
Capii perché si fosse scatenato il terremoto. Anche a me sarebbe capitata la stessa cosa se fosse accaduto qualcosa a Damon.
Leo mi porse un bicchiere d'acqua. «Grazie.» sorrisi.
«L'ho vista.» esclamai dopo un paio di sorsi.
«Lei?» domandò Adam mentre Damon mi stringeva la mano libera.
«Sì, Lei.» confermai. «Era fuori da casa mia, quando sono partita.» dissi, «Non voleva che venissi qui.» sospirai, «Poi è apparsa nella mia auto e allora le ho spruzzato lo spray al peperoncino negli occhi, così si è levata delle palle... ma poi era in mezzo alla strada così l'ho investita.»
«L'hai investita?» domandò Leo.
Annuii, «Sì, l'ho fatto.» confermai. «Volevo solo venire qui e vedere come stavate.»
«Noi stiamo... insomma.» mormorò Leo guardando Samuel.
Mi limitai ad annuire, troppo sconvolta. Mi limitai a fissare la mano di Damon che stringeva la mia. «Cosa facciamo?» chiese lui dopo un po'.
«Ormai Lei è incazzata.» dissi, «L'ho fatta incazzare.» sospirai, «Ma mai quanto ha fatto incazzare me.»
Rimanemmo in silenzio per diverso tempo, osservando Samuel che dormiva.
«Hai solo questo?» mi chiese Adam indicando la mia borsa
«No.» risposi. «Ho tutta la mia roba in auto.»
«Ti aiuto.»
Facemmo due viaggi per portare lì tutta la mia roba. Nonostante la scossa il palazzo era integro.
«Avrei fatto anche io lo stesso.» mi disse mentre portavamo di sopra la mia tv, la coperta e gli ultimi borsoni. «Anzi, avrei fatto pure marcia indietro.»
«Ero in autostrada.» esclamai, «Un po' difficile fare marcia indietro.»
Ritornammo da Samuel e gli altri. Leo stava accendendo il forno. «Sono lasagne.» disse.
«Devo andare in bagno.» commentai, rendendomi conto che era dalle undici di quella mattina — ormai erano le sei e mezza passate — che non andavo in bagno e mi resi conto che dovevo andarci urgentemente.
Quando aprii la porta per uscire mi trovai davanti Damon. «Stai bene?» mi chiese.
Annuii in risposta.
«Non ti ha fatto del male?»
Lo guardai e fissai i suoi occhi azzurri. «No.» risposi. Non fisicamente, almeno. Psicologicamente... a valanghe.
Tornammo in salotto, Samuel si stava risvegliando. «Sei qui.» fece, guardandomi, «Lei...»
«L'ho tirata sotto con la macchina, per quanto m'importi di lei.» dissi, «M'importava più di te.» aggiunsi, «Di voi.»
«La odio.» sussurrò lui rannicchiandosi e coprendosi il volto con le mani. «La detesto. È cattiva.» mormorò, «Perché?»
Rimanemmo in silenzio, mentre Leo apparecchiava, lo vidi indeciso se aggiungere il piatto anche per Samuel oppure no. Alla fine posò anche il piatto per lui.
«Dobbiamo fermarla.» esclamò Adam e guardò brevemente fuori dalla finestra, «È stata sfidata, non ce la farà passare liscia.» disse, «Tutti l'abbiamo sfidata, pensando o desiderando altro che non fosse il nostro compito.» sospirò. «E altro che investirla, io le avrei ficcato una pistola in quel culo flaccido che si ritrova.»
«E poi?» chiese Damon, non togliendomi gli occhi di dosso mentre mi sedevo accanto a Samuel.
«La uccideremo.»
Guardai Leo, sorpresa da quelle due parole.
«Io non ce la faccio più.» continuò il mio bignè, «Voglio finirla.»
Rabbrividii nel sentirlo perché intuii che non si riferisse a fermare Lei, ma a finire... la sua vita. Mi si strinse il cuore in una morsa, nel guardare Leo così triste...
La mano di Damon strinse la mia e io lo lasciai fare. Non m'importava se Lei non sarebbe stata d'accordo, non volevo che finisse come per Samuel, un amore non nato. Se non ci fossero state quelle regole magari lui ed Evelyn avrebbero potuto essere una coppia, lui sarebbe andato a prenderla al lavoro, invece di farla tornare a casa da sola...
Sospirai e mi dissi che non era giusto, tutto ciò. Non era giusto che rinunciassimo alla nostra vita, alle nostre passioni, alla nostra anima per un compito troppo grande per chiunque. Se fosse stato diverso, se avessimo potuto vivere, vivere sul serio, forse il nostro fardello non sarebbe stato così pesante.

Rimanemmo tranquilli per ore, ed ebbi il tempo di pensare che quella sembrava la prima cena fra amici che facevamo da quando ci eravamo conosciuti, una cena fra amici per consolare uno di noi che stava male.
Guardammo di sfuggita il TG, perché parlavano tutti del terremoto, della morte di Evelyn, di gente che, fuori di testa per quella “calma meteorologica”, dove non pioveva più, dove non c'era più vento, dove tutti i vulcani, anche quelli che di solito sputacchiavano lava ogni giorno, erano calmi. Gente fuori di testa che pensava che stesse arrivando l'armageddon, perché quel terremoto era stato improvviso e violento e strano. Aveva colpito diverse zone, lasciandone alcune completamente intatte.
Come la mia auto.
Come il mio stupido bilocale.

E nessuno sapeva dare una spiegazione logica a tutto ciò.
Quello che non sapeva nessuno, era che l'armageddon sarebbe arrivato prima di quanto immaginassero.
Quella stessa sera, alle ventidue e trenta, sarebbe scoppiato l'inferno.
Eravamo in salotto, Samuel seduto all'estremità destra, rannicchiato, il viso nascosto dalle mani. Accanto a lui Leo, lo sguardo perso nel vuoto, che non fissava né la tv né il muro dietro di essa. Io ero incastrata fra Adam e Damon. Il primo stringeva forte le mani, il secondo stringeva la mia mano sinistra fra le sue.
Fissai le mani di Adam e lo rividi. Rividi il fuoco che le avvolgeva, danzando sulla sua pelle senza bruciare lui o quello che c'era attorno.
Eravamo tranquilli, quando Lei arrivò. Apparve in mezzo al salotto, con lo stesso vestito — orribile, con lo sfondo viola e grandi fiori gialli e rossi — di quando l'avevo vista io. Sul suo corpo erano visibili i segni dell'investimento: dalle ginocchia allo sterno si vedevano chiaramente le impronte della maschera del parafango e del cofano della mia auto.
«Non dovete riunirvi!» strillò, «Non dovete stare insieme!» continuò con la sua voce stridula; poi il suo sguardo si posò sulla mia mano stretta fra quelle di Damon. «Cosa state facendo?» gridò e si mosse verse di noi, minacciosa, pronta a farci del male.
Leo si gettò sui di noi, travolgendo Adam e buttandosi su di me e Damon, coprendo le nostre mani ancora unite.
Il mio Pasticcino urlò, quando Lei lo colpì. Gridò così forte che temetti che mi stessero strappando anche l'anima, in quel momento.
Lo strinsi, aggrappandomi alla sua maglietta, mentre lui continuava a urlare. Poi smise, di colpo, come se qualcuno avesse premuto un interruttore. E rotolò via da noi, cadendo sul pavimento.
Lo guardammo per un paio di secondi, immobili e in silenzio, prima di urlare vedendo il corpo di Leo squassato dalle crisi epilettiche.
«Leonard!» gridai, chiamandolo con il suo nome vero, e mi precipitai al suo fianco, cercando di ricordarmi quello che avevo imparato al corso di primo soccorso che avevo fatto durante il primo anno di università.
“La lingua, devo impedire che si morsichi la lingua.” ricordai, e poi gli infilai due dita in bocca, bloccando la lingua e tenendo ferma la testa con l'altra mano.
Anche Adam scese dal divano e si mise al mio fianco, poi, quando la crisi finì, si girò verso di Lei.
Uno sguardo di puro odio.
«Non aiutatelo!» strillò quella, «Non dovete stare insieme!»
Non capii se si riferisse a noi cinque o a me e Damon. In quel momento non mi importava, pensavo solo al mio Pasticcino. Leo respirava regolarmente, anche se era ancora di un pallore spettrale.
Sentii le braccia di Damon stringermi e chiusi gli occhi per un istante, quando li aprii vidi Adam volare oltre il divano. Samuel si sporse, gridando il suo nome.
Il ragazzo si alzò, aggrappandosi al divano. «Puttana...» sibilò, «Io t'ammazzo.» sputò e scavalcò il divano con un gemito, scivolando al fianco di Samuel che aveva il viso stravolto dalla paura. Un attimo dopo i due erano accanto a noi. Io strinsi Leo sotto le ascelle e lo sollevai, premendo il suo corpo contro il mio. Damon mi aiutò a sistemarlo meglio. Adam strinse una mano del ragazzo svenuto, mentre Samuel rimaneva aggrappato a lui come un cucciolo spaventato.
Damon mi strinse più forte con il braccio sinistro, mentre con il destro stringeva Leo.
Eravamo tutti aggrappati gli uni gli altri, come se lo sapessimo, quello che sarebbe successo da lì a poco.
Infatti Lei, Madre Natura, ci scagliò contro una folata di vento, così forte, così fredda che tremai e battei i denti.
Faceva freddo, troppo freddo per essere ancora in Florida, un freddo glaciale, che entrava nelle ossa con l'intenzione di non andarsene mai più.
Sentii il respiro freddo di Damon contro il mio collo e per poco non urlai. Era come se qualcuno mi avesse premuto contro la pelle un cubetto di ghiaccio con mille schegge appuntite.
Poi, il vento e il freddo cessarono. Respirai piano, temendo che si congelassero i polmoni; aprii gli occhi e guardai gli altri. Vidi la mano di Damon stringere la mia e stringere Leo, vidi Adam, piegato su Samuel, che si stringeva a Leo.
Vidi il mio Pasticcino tenere la mano sul polso di Samuel. «Stronza.» biascicò Leo, fu poco più che un sussurro, ma Lei lo sentì.
Lo strinsi e gridai quando il pavimento sotto di noi tremò. “Sei morta, Tabitha.” mi dissi, “E non hai fatto neppure un quarto delle cose che volevi fare prima di compiere venticinque anni.”
Qualcosa dentro di me si ribellò, a quel pensiero. E mi sentii ribollire, mentre il pavimento si apriva sotto di noi. Damon mi strinse più forte, percepii la mano di Samuel aggrapparsi alla mia maglietta e a quella di Leo, Adam si strinse a me, proteggendo Leo, ancora non del tutto cosciente.
Precipitammo per quelli che mi sembrarono metri, chilometri. Al centro della Terra e poi dall'altra parte.
Non avevo il coraggio di aprire gli occhi, avevo paura di quello che avrei potuto vedere.
Poi il rumore cessò, così improvvisamente che mi spaventai.
«Ma che...»
Aprii gli occhi sentendo la voce di Damon. Osservai quello che mi circondava, «Cazzo.» mormorai.
Non eravamo precipitati.
Eravamo ancora lì, nel salotto di Samuel e Leo, al quinto piano di quel palazzo nella periferia sud di Miami.
Guardai il pavimento e il tappeto sul quale eravamo ammassati, e la striscia di calcestruzzo che ci teneva attaccati al resto della casa. Quella striscia larga forse cinquanta centimetri e lunga un metro e venti. Se si fosse sbriciolata saremmo precipitati nel vuoto.
Sotto di noi non c'era nulla. Solo il vuoto e macerie su macerie. Pensai alla mia valigia nella stanza di Damon, quella valigia dove avevo messo la copertina di lana che aveva fatto mia madre quando ero partita per New York per l'università. Quella copertina che mi ero portata a Miami. La mia copertina di Linus, dove, lì sotto, non poteva accedermi nulla di brutto.
Ma Lei era ancora lì, purtroppo, sospesa nel vuoto, i capelli unti che fluttuavano, la gonna dell'abito che si alzava, mostrando le gambe brutte e grasse, con le vene in evidenza. Pensai che avrebbe avuto bisogno urgentemente di scontrarsi con un calderone di cera per estirpare tutti quei peli neri.
«Dobbiamo spostarci.» mormorò Adam mettendosi in ginocchio.
Guardai quel pezzo che ci teneva ancorati: metà era proprio davanti al bagno e la porta di esso era scardinata e dondolava cigolando appesa a un solo cardine.
Adam — il fuoco avvolgeva le sue mani — aiutò Samuel ad alzarsi, poi afferrò Leo e lo tirò su. Damon mi spinse in piedi e si alzò anche lui.
«Piano.» disse Adam.
Un passo alla volta, camminando lentamente, ci spostammo da lì, mentre Lei ci osservava, come un gatto che guarda il topolino, dandogli una via di fuga, facendogli credere di avere una via di fuga. In bagno trovai la mia borsa, mezza dentro e mezza fuori da un armadietto, e la strinsi a me come se la mia vita dipendesse da quello. Mi sedetti fra il lavabo e il gabinetto, la testa di Leo sulle mi ginocchia, gli altri davanti a me. Aprii la cerniera della mia borsa e trassi la cinghia per tenerla a tracolla. Non l'avevo mai usato prima e non l'avevo mai tolta, dicendomi che, prima o poi, sarebbe tornata utile. Agganciai i moschettoni oro agli anelli, pensando che la mia vita dipendesse da quello. Nella taschina interna trovai il mio cellulare e il caricabatterie. Frugai e trovai il portafogli, la tessera di un parcheggio multi-piano, quella del multisala, quella della profumeria e della beauty-farm. E poi quella del supermercato e del negozio di abbigliamento e quella del fast-food. Trovai anche il porta tessere, ovviamente vuoto, e il porta monete, aperto per metà. “Devo mettere in ordine.” pensai. Aprii l'altra parte della borsa, e sgranai gli occhi nel vederla rigonfia di cibo e bottigliette d'acqua, di tè e Gatorade. Avevo una strana mania, a quel tempo: quando mi trovavo davanti a un distributore automatico dovevo prendere qualcosa da ogni fila. Il che risultava bizzarro, strano e costoso dato che nel mio ufficio c'erano ben sei distributori: due per il caffè, due per l'acqua e bibite e le ultime con dolciumi e robe salate. Per questo era così pesante, quella borsa. Velocemente contai: sei bottiglie; un paio di decine di barrette energetiche o ai cereali e cioccolato; patatine, salatini da aperitivo, crackers al rosmarino, brioche, e caramelle.
La mia scorta per l'inverno, come se fossi stata uno scoiattolo, come se avessi sempre saputo quello che sarebbe accaduto.
«Non ti pare di esagerare?»
Guardai Leo e sorrisi, misi la borsa a tracolla e infilai le dita nella pelle. Poi ricordai che era pelle di vitello, che la borsa era di Chanel e che l'avevo pagata ottocento dollari. No, in realtà l'avevo pagata centosessanta dollari perché la comprai con uno sconto dell'ottanta per cento, ma la sostanza non cambiava.
«No.» risposi e sentii il corpo di Damon contro il mio, le sue lacrime sulla mia pelle, le sue labbra sul mio collo... chiusi gli occhi e mi aggrappai a lui.
«Cosa state facendo?» gridò Lei, davanti a noi.
Adam e Samuel si strinsero a noi, e io circondai con un braccio Leo, con l'altra mano mi strinsi forte la maglia di Damon.
Le sue labbra sul mio collo.
Il suo respiro nel mio orecchio: «Ti amo, Tabitha.»

Il pavimento e le pareti tremarono ancora, ancora e ancora.
«Voi state distruggendo ogni cosa!»
La sua voce sovrastò ogni rumore, ogni suono, e mi arrivò al cervello come un bisbiglio dopo una notte di bagordi.
Damon mi strinse più forte, mentre precipitavamo, questa volta sul serio. Lo vidi, vidi le pareti scorrere davanti ai miei occhi, un piano dopo l'altro, il piano terra, il parcheggio sotteraneo, le fondamenta e ancora più giù...
«Damon... ti amo.» sussurrai al suo orecchio, all'orecchio dell'uomo che amavo. Dell'uomo che, forse, non avrei più rivisto.
Poi divenne tutto nero.

✫✫✫

Aprire gli occhi fu la cosa più dolorosa che avessi mai fatto in vita mia. Sentii un peso premere su di me e scoprii che era Damon, sdraiato su di me. La borsa era scivolata al mio fianco. Mi puntellai sui gomiti e riuscii ad alzare il busto.
«Stai bene?»
Guardai Samuel, «Pesa.» borbottai, riferendomi a Damon. Fissai il ragazzo e avvampai quando mi accorsi che la sua bocca era vicino al mio seno sinistro.
«Ti aiuto.» disse Samuel e gattonò fino a me, sollevò piano Damon. Io fissai il suo volto, la bocca aperta, gli occhi chiusi e il respiro regolare. Samuel lo fece sdraiare al mio fianco.
Adam riprese i sensi con una bestemmia e si girò sul fianco sinistro, «Io le spacco quella faccia da cazzo che si ritrova.» sputò e poi tossì.
«Io direi quella faccia orrenda e da cazzo che si ritrova.» sbottò Samuel.
Leo gemette e aprì gli occhi, «Io... Dio, che mal di testa.» biascicò.
«Devi vomitare?» gli chiese e lui scosse piano la testa.
«Ce l'hai l'acqua?» soffiò lui.
Annuii e aprii la borsa, prese la bottiglietta d'acqua mentre Adam lo teneva sollevato e aiutai Leo a bere. «Chi la vuole?» domandai e bevemmo tutti un paio di sorsi, richiusi la bottiglia e la infilai di nuovo in borsa.
Guardai Damon, accanto a me e gli strinsi la mano. Tanto, ormai, Lei non avrebbe potuto farci nulla.
Aveva già fatto troppo.

Dopo un tempo che non saprei dire, anche Damon riprese i sensi e mi strinse forte, baciandomi le guance, la fronte, il naso, il mento... e le labbra.
Io lasciai la mano di Leo e lo strinsi, baciandolo a mia volta, fregandomene se gli altri ci stessero osservando; per quanto ne sapessi, quello poteva essere il mio ultimo bacio.
Per quanto ne sapessi, potevo essere morta, ed essere finita in un limbo o chissà dove. Non credevo in nulla, quindi per me limbo, paradiso e inferno erano solo canti della Divina Commedia.
Smisi di pensare, ad un certo punto, cancellai tutti i pensieri e mi concentrai sollo sulle labbra e sulla lingua di Damon, pensai solo alle mie mani su di lui e le sue mani sul mio corpo.
Quel bacio finì troppo presto, per i miei gusti. Quando ci staccammo e mi voltai, scoprii Leo a guardarmi, la faccia rossa dall'imbarazzo.
Samuel guardava da un'altra parte.
«Andiamocene.» disse Adam alzandosi e, insieme a Samuel, aiutò Leo ad alzarsi.
Damon mi porse la mano e mi aiutò ad alzarmi, «Ma che cazzo...» commentai, rendendomi conto solo allora dove ci trovavamo e mi diedi della stupida per non essermene accorta prima. Era tutto bianco, varie tonalità di bianco, okay, ma pur sempre bianco.
Il pavimento, le pareti, il soffitto... tutto bianco, sfumature che partivano da un bianco candido, quasi accecante e finivano in un grigio chiaro.
«Ma dove siamo?» borbottò Samuel.
«Non ne ho idea e non voglio nemmeno saperlo.» esclamò Adam, «Voglio solo andarmene.» disse mentre le sue mani bruciavano.
«Adam!» gridò Damon e la sua voce rimbalzò sulle pareti, «Le tue mani!»
L'altro abbassò il viso e le guardò, «Lo so.» sospirò dopo qualche secondo. «Mi succede da qualche giorno.»
«No. Ti succede da Agosto, almeno.» dissi e per poco non caddi quando Damon si fermò di scatto.
«Cosa?» domandò Adam, «Agosto?»
Alzai le spalle, «Bhe... sì.» risposi, «All'inizio pensavo di avere le allucinazioni.» confessai, «Nessun altro sembrava accorgersi di quello che succedeva...»
«Sai cosa può essere?» domandò Samuel.
Inspirai e gonfiai le guance, poi espirai con lentezza, «No.» risposi. «Non ne ho idea.» ammisi e sospirai, stringendo forte la mano di Damon, così forte che sentii le unghie scavare la pelle.
«E quindi?» borbottò Leo, «Cosa facciamo?»
«Troviamo un'uscita e torniamo a casa.» esclamò Damon.
Rimanemmo in silenzio e proseguimmo, con le mani di Adam che bruciavano senza toccare altro, senza infiammare nessun altro.
Facemmo forse una ventina di metri, svoltammo a sinistra e ci bloccammo: Lei era di fronte a noi.
«Perché, perché non mi ascoltate?» pigolò, «Voi dovete fare quello che dico, sono vostra Madre!» gridò.
«Io una madre già ce l'ho e mi basta e avanza.» commentò Adam.
Lei emise uno strillo, un urlo da animale ferito e singhiozzò, mentre io la fissavo pensando a quali torture dovessimo farle subire. «Voi siete i miei figli! I miei figli!» gridò e si accartocciò su se stessa, il grosso seno e l'enorme pancia — da alcolizzato bevitore di birra, pensai —, che si muovevano su e giù, ricordandomi quelle gelatine che mi diedero in ospedale quando, durante l'estate dei miei sedici anni, finii in ospedale dopo essere scivolata sul pavimento bagnato del bagno. Mi ruppi le ossa metacarpali dell'anulare e del mignolo della mano sinistra e sbattei la testa. Mia madre mi disse che avevo la testa dura, per questo non me l'ero spaccata.
«I miei figli! I miei figli!» gridò quella, rimanendo accucciata sul pavimento, le spalle scosse dai singhiozzi. Poi, lentamente, si alzò, «Siete i miei figli e mi avete disubbidito... devo punirvi, adesso, riuscite a capirlo?»
«Ci hai già punito abbastanza, non ti pare?» ringhiò Damon, posandomi il braccio destro sulle spalle e stringendomi la mano con l'altra.
Lei spalancò gli occhi e aprì la bocca, «Voi... non potete!» gridò, poi il suo sguardo si posò su Adam, sulle sue mani, sul fuoco sulle sue mani. «Cosa stai facendo?» urlò, «Non puoi! Non potete ribellarvi!»
Feci per ribattere che neppure noi sapevamo cosa stesse succedendo alle mani di Adam ma tacqui anche perché Lei emise un urlo da animale ferito, da animale caduto in trappola che sa che sta per morire.
«Voi mi state facendo soffrire!» uggiolò lei, «Soffrire! I miei figli!» piagnucolò poi, con un gesto rabbioso delle mani, si asciugò le lacrime, «Vi devo punire!» strillò.
E il bianco e il grigio iniziarono a tremare, prima piano, poi sempre più forte, un enorme boato che mi fece contrarre lo stomaco; sentii Damon stringermi forte, Adam aggrapparsi alla mia cintura, una mano mi tirò i capelli... e poi precipitammo. Urlai, urlai così tanto che a un certo punto smisi semplicemente perché non avevo più voce.
Aprii gli occhi dopo quelli che mi parvero secoli e gridai con la voce rauca. Eravamo ancora nel salotto di Samuel e Leo, solo che... la parete davanti a non non c'era più, solo sbarre di ferro che spuntavano minacciose dal pavimento, cavi che ballavano e saettavano e sputavano scintille.
«Oh, merda.» commentò Leo.
Io avrei commentato in un altra maniera... perché, quello che si presentò davanti a noi non era normale, non era possibile. Un grosso tornado si muoveva secondo un percorso conosciuto a lui e vidi tetti, auto — e pensai al mio SUV, posteggiato lì sotto — qualche fuori bordo di qualche riccone volare via, girando attorno al tornado e venire inghiottito da esso. Vidi un grosso incendio, un muro di fuoco, enorme, che muggiva e lanciava zampilli grossi come palloni.
Il fuoco e il tornado si muovevano insieme.
Aria e Fuoco.
Damon e Adam.

L'incendio e il tornado si muovevano verso di noi. Velocemente, troppo velocemente.
«Gesù...» sussurrò Samuel.
E in quel momento scoppiò a piovere. Una pioggia forte, grosse gocce che cadevano dal cielo nero.
«Dobbiamo andarcene!» gridò Damon, sovrastando il rumore del vento, il suo Elemento, «Prima che ci porti via!»
Eravamo in quel punto in cui il salotto cedeva il passo alla cucina, accanto alle scale interne che collegavano i due appartamenti. Ci fermammo a metà scala, sul gradino dell'angolo e Damon mi spinse contro di esso, sentii la borsa schiacciarsi contro la mia pancia e pregai che non si rompesse nulla, lì dentro , e me ne pentii subito dopo, perché non era una cosa da pensare, in quel momento. Damon mi strinse, abbracciandomi da dietro, spingendo il suo viso nell'incavo del mio collo. Leo, il mio bignè, si accucciò alla mia destra, insieme a Samuel, sentivo le loro mani sulle mie cosce e sulle braccia; Adam si mise a sinistra, incastrando il braccio fra la borsa e la maglia e stringendomi la maglietta.
Il tornado e il fuoco si avvicinavano sempre di più, potevamo sentire il loro frastuono farsi sempre più forte.
«L'incendio!» sentii gridare Adam, «Cazzo, no!» urlò, aprii un occhio e dalla finestrella vidi il fuoco a meno di mezzo miglio da noi. Eravamo in trappola, sentivo il caldo del fuoco.
Non volevo morire carbonizzata.
Non volevo morire e basta.
Pensai che non volevo morire senza aver detto a quella stronza di Jessica quanto fosse stronza e che no, non avevo dimenticato la figura di merda che mi fece fare al terzo anno del liceo, e che sì, ero io quella che aveva messo la colla a forte tenuta e presa rapida sotto al bordo della coroncina della Reginetta dell'homecoming all'ultimo anno. E che no, non ero pentita di averlo fatto. E che sì, avevo riso quando era tornata a scuola con la parrucca.
«Fermati!»
L'urlo di Adam arrivò forte e chiaro, come se non stesse urlando, come se stesse parlando normalmente, come se, là fuori, non si stesse scatenando l'inferno.
Guardai di nuovo fuori dalla finestrella e il grido mi morì in gola, mentre osservavo l'incendio fermarsi e abbassarsi sempre di più.
Adam aveva fermato l'incendio.
Adam aveva comandato il fuoco.
Adam aveva il controllo sul suo Elemento.
Rimanemmo immobili per qualche secondo poi gridammo: il fuoco si era estinto, il tornado no!
Sentii il vetro della finestrella esplodere e gridai quando la mia fronte cozzò contro il muro mentre il vento era sempre più forte, sempre più rumoroso...
Udii Damon mormorare qualcosa, sentivo le sue labbra muoversi contro la mia pelle, come se stesse recitando una preghiera.
Aprii l'occhio destro — la parte sinistra del mio viso era schiacciata contro i capelli biondicci di Leo — e osservai il tornado che arrivava, sempre più veloce, sempre più rumoroso, sempre più inquietante. Passò sopra un edificio con le pareti di vetro e lo distrusse mentre correva, veloce, verso di noi. Poi, all'improvviso, svoltò verso destra, andando verso l'oceano.
«Che diavolo...» biascicò Adam, la voce sconvolta.
«Ha cambiato direzione!» esclamò Damon. «Io lo supplicavo di fermarsi....» mormorò.
Guardai incredula la devastazione fuori dalla finestra e quasi non badai a Leo che mi schiacciò un piede quando si alzò.
Damon mi tirò su e arrivammo alla finestrella e quello che vidi era peggio, molto peggio, di quello che pensavo. Moltissime case erano distrutte oppure ne mancava un pezzo, le auto erano rovesciate... tranne la mia, che era ancora lì dove l'avevo lasciata. E il lampione che era caduto non l'aveva neppure sfiorato.
Anche l'ultimo lampione si spense e quasi urlai quando si fece buio.
«Minchia, non si vede un tubo!» sbottò Adam mentre io frugavo nella mia borsa e sperai che la torcia fosse ancora lì.
Trattenni un urletto di gioia quando la trovai, la strinsi e la tirai fuori, richiusi la borsa e l'agitai. «È una torcia a dinamo.» dissi. La lampadina si accese e rischiarò l'ambiente.
«Ehm... dove andiamo?» chiese Leo, una domanda più che lecita, visto che le scale erano interrotte e non si poteva scendere. Risalimmo e rimanemmo in cucina, osservando la grande voragine.
«Siamo in trappola.» sospirò Damon e mi strinse la mano.
«Cosa avete fatto?» Lei riapparve, fluttuando sopra il buco nel pavimento. «Voi non potete farlo, non potete disubbidirmi!» gridò, «Vi punirò!»
E, di nuovo, tutto tremò. Un pensile accanto a me si spalancò e una cascata di bicchieri si frantumò per terra.
Mi sentii spingere e trascinare verso la scala quando la scossa terminò. Respirai velocemente, e mi guardai attorno: eravamo praticamente in trappola, in piedi sopra un pezzo di pavimento che stava su per miracolo.
Adam fece un passo in avanti e strillò quando sotto il suo piede si formò una grossa crepa, che si allargava sempre di più. Ci raggruppammo in un angolo, gridando e urlando mano a mano che il pavimento si frantumava sotto di noi. Precipitammo.

✫✫✫

Mi risvegliai dopo un tempo indefinito, la borsa accanto a me. Mi misi a gattoni e chiusi gli occhi quando la nausea mi travolse.
«Tabitha!» esclamò Damon, «Stai bene?»
«Sì.» risposi e riuscii a mettermi in ginocchio, sedendomi sui talloni, e respirai a fondo. Mi guardai attorno e vidi Adam aiutare Leo a sedersi. Samuel era accanto a Damon.
Eravamo nello stesso posto di prima, circondati da bianco e grigio. Bevemmo ancora e, mentre cercavo qualche caramella alla menta — avevo la gola che bruciava per le troppe urla — le mie dita si strinsero attorno a un oggetto di metallo dalla forma affusolata. Lo tirai fuori e mi accorsi che era il mio coltellino svizzero.«Che ci fai con una roba del genere?» commentò Adam.
Strinsi le labbra e scrollai le spalle sospirando, «Mi difendo dagli aggressori.» rispose, «Credo.» aggiunsi e sistemai il coltellino nella tasca sul davanti della borsa, lasciando fuori l'anello portachiavi, così avrei potuto prenderlo senza fatica.
«Bhe, è sempre utile.» commentò Leo alzandosi in piedi, «Almeno so su chi testerei le lame.»
«Oh, se è per quello anche io.» disse Adam.
«Siamo dove eravamo prima?» domandò Samuel, «A me sembra diverso...»
Guardai l'ambiente attorno a me, Samuel aveva ragione: eravamo nello stesso posto di prima, ma in un punto diverso. Ci alzammo tutti quanti e riprendemmo a camminare, la mia mano stretta in quella di Damon. Avanzammo per una decina di minuti lungo un corridoio bianco, fino a quando non ci fermammo: davanti a noi si trovavano cinque persone, sulla cinquantina, vestiti con abiti degli anni settanta.
Ed erano grigie. Completamente grigie, come se stessimo guardando una vecchia foto un film in bianco e nero.
«E quelli?» sbottò Adam. «Chi cazzo siete?» domandò, avanzando di un passo, le mani che bruciavano.
«Noi siamo i Guardiani.» rispose il più vecchio, lisciandosi i baffi quasi neri. «Anche voi, immagino.»
«Perché siete qui?» domandò Leo. «Come si torna indietro?»
«Voi siete la nuova generazione, vero?» commentò l'unica donna, ignorando le domande del mio amico. «Siete la ventesima, suppongo.» disse, «Sapete, qua dopo un po' si perde la cognizione del tempo...»
«Generazione?» feci io, «Che generazione siete voi? Da quanto siete qui?»
«Siamo la diciottesima generazione.» rispose l'uomo più alto. «Siamo qui dal... 1975.»disse e mi accorsi, con sommo orrore, che i loro toni di voce erano... piatti. Nessuna sfumatura nell'intonazione. Come i loro sguardi: vuoti, vacui. Avevano la stessa espressione di chi è vuoto dentro. Mi spaventai e mi aggrappai al braccio di Damon.
«Siete qui... da quasi quarant'anni?» domandò Samuel e ingoiò il groppo che aveva in gola, «E... non siete cambiati.»
«No.» rispose uno di loro.
«Perché siete qui?» ripeté Leo. «Come si torna indietro?»
«Mio fratello morì un giorno prima dell'inizio della settimana del rito nel settantacinque. Non ho potuto partecipare al funerale.» spiegò l'uomo più basso — era più piccolo della donna di una decina di centimetri — e il suo tono di voce mi mise i brividi: suo fratello era morto e in lui non c'era nessuna traccia d'emozione al ricordo. «La mia famiglia mi odiava, così mi sono suicidato.»
Mi sconvolsi, a quella rivelazione: credevo che noi guardiani non potessimo ucciderci. Era semplicemente impossibile, potevamo tentare qualsiasi cosa ma saremmo sopravvissuti.
«Suicidio?» squittì Leo, «Come...»
«Ho bevuto tanto alcol, ho mandato giù sonniferi con l'antigelo e topicida, mi sono tagliato i polsi, ho riempito le tasche con dei sassi e mi sono buttato in acqua e ho nuotato fino a una nave e mi sono messo sotto le eliche, alla fine ha funzionato.»
Nascosi la faccia contro il petto di Damon e lui mi abbracciò.
«Per questo siamo stati puniti e mandati qui.» disse la donna.
«E non si può tornare indietro se Lei non vuole.» disse l'uomo alto. «Siete bloccati qui, per sempre.»
Mi girò la testa e pensai che non volevo rimanere lì, bloccata in tutto quel bianco, non volevo diventare grigia e priva di sentimenti. Non volevo diventare un guscio vuoto.
Urlai.

✫✫✫

Eravamo in un angolo, lontani dagli altri e avevamo mangiucchiato qualcosa. Eravamo stanchi, incazzati, con la voglia di tornare a casa e la consapevolezza che non potevamo farlo.
«Darei fuoco a 'sto posto di merda.» esclamò Adam.
«Provaci.» gli disse Leo.
«Eh?» feci io, sorpresa.
«Bhe,» il mio Pasticcino mi guardò, «se le sue mani prendono fuoco magari, se si concentra, riesce a dare fuoco a qualcosa.» spiegò, «E Damon ha fermato il tornado... magari può fare qualcosa anche lui.»
Mi morsi le labbra mentre pensavo freneticamente, stavo per parlare quando Adam si alzò.
«Ci provo.» disse, chiuse gli occhi e in un attimo le sue mani tornarono a bruciare e lui le posò contro il muro. Il fuoco si espanse sul muro, muovendosi come se stesse danzando. Adam fece un passò indietro e il fuoco rimase lì, muovendosi sul muro.
Rimanemmo in attesa, guardando il fuoco che sembrava non creare nessun danno al muro. «Merda!» gridò Adam e colpì il muro con un pugno, con così tanta forza che quello si crepò.
«Adam!» gridò Samuel, «Spostati!» urlò un attimo prima che un buco si formasse nel muro. Il fuoco venne risucchiato e poi ci fu una fiammata che Adam evitò solo perché Samuel e Leo lo afferrarono per le gambe, facendolo cadere all'indietro.
Il muro esplose, mandando pezzi di mattoni — bianchi — in giro.
Quando la polvere si diradò guardammo dall'altra parte.
C'era un prato verde. Ci avvicinammo piano, a piccoli passi.
Era un'enorme distesa di fili verdi, mi chinai e ne toccai un paio, era erba vera.
«Venite?» domandò Samuel all'altro gruppo che si era avvicinato al buco nel muro.
Loro scossero la testa. «Stiamo bene qui.» disse la donna. «Quel colore ci spaventa.» aggiunse e si voltò, allontanandosi, seguita da tutti gli altri.
Noi riprendemmo a camminare, schiacciando l'erba, andando sempre dritti, verso un grosso salice.
Mi chiese come del verde potesse spaventare. Come un semplice colore potesse incutere paura.
Non so per quanto tempo camminammo ma alla fine giungemmo al salice. Ci sedemmo per riposare e io mi accucciai contro il corpo di Damon. Incominciavo ad avere freddo, ero ancora bagnata e mi trattenevo dal tremare. Damon, però, lo capì e mi strinse forte, frizionandomi la schiena per scaldarmi, anche se era inutile. Anche lui era completamente bagnato.
Adam risolse la situazione: mi prese il coltellino e tagliò alcuni rametti, recuperò alcuni sassi e riuscì ad accendere un falò.
In breve riuscimmo a scaldarci, anche perché il fuoco si manteneva senza che dovessimo ravvivarlo con la legna.
«Secondo voi,» esordì Samuel «perché quelli erano grigi?»
«Forse se stai qui quasi quarant'anni ti ingrigisci tutto.» rispose Damon e giocò con i miei capelli, tolse l'elastico dal mio polso, — non mi ricordai neppure di averlo — e mi legò i capelli in una treccia un po' storta.
«L'avete notato che quando quello parlava del suo suicidio sembrava che stesse leggendo la lista della spesa?» fece Adam.
«Sì.» risposi, «Era davvero inquietante.»
«Già.» fece Samuel e il silenzio calò su di noi.
«Cosa facciamo?» domandò dopo un po' Leo. «Non voglio stare qui.» sospirò.
«Ci sarà un modo di tornare indietro.» sospirò Samuel. «Insomma... se Lei può farlo perché noi no?» disse, «Senza di noi lei sarebbe... inutile.»
Non ero molto convinta di quella teoria, così rimasi in silenzio godendomi il calore delle fiamme.
«Possiamo provarci.» annuì Adam. «Se ci concentriamo, tutti insieme... magari torniamo a casa?»
«E dove?» sospirai, «L'appartamento è distrutto.»
«Magari evitiamo di finire in salotto.» ribatte lui, «Magari davanti al palazzo, no?»
«Va bene.» dissi. Qualunque cosa pur di tornare a casa e finire tutta quella storia.
Ci mettemmo in circolo attorno a fuoco. Alla mia sinistra Leo, alla mia destra Damon, poi Samuel e Adam.
Chiusi gli occhi.
«Ho fermato il tempo!» gridai aprendo gli occhi.
«Cosa?» fece Adam.
«Sì, sì.» dissi. «Quando sono tornata a casa dopo il terremoto, la mia macchina era intera e così anche la mia casa, come se la scossa non le avesse toccate...»
«Cosa?» fece Samuel.
«Bhe, sì.» scrollai le spalle e sospirai. «Tutto il resto era a pezzi le mie cose no.» dissi, «Comunque quando sono arrivata a casa c'era un pompiere che mi ha detto di non entrare, ma quando sono entrata lui è rimasto fuori... non avrebbe dovuto prendermi per i capelli?» aggiunsi. «Ho avuto tutto il tempo di svuotare casa e di portare le mie cose in macchina.»
«E avevi tanta roba.» commentò Adam.
«Esatto.» dissi. «Il pompiere era ancora lì, quando sono salita in auto dopo aver visto quella stronza.» aggiunsi, «A quel punto si è avvicinato... perché non lo ha fatto anche prima?»
«E tu pensi di aver fermato il tempo?» mi chiese Damon e mi strinse la mano.
Scrollai le spalle. «Non ne sono sicura.» risposi. «Però, ormai...»
«Sarebbe possibile.» disse Adam. «Su, cominciamo.»
Ci concentrammo, e sentii il calore del fuoco avvolgermi, la brezza sollevarmi i capelli, l'odore della pioggia, il profumo della terra smossa...

✫✫✫

«Oh... Cacchio!»
Aprii gli occhi sentendo la voce di Adam. Eravamo sotto al loro palazzo, a meno di due metri dal mio SUV, incredibilmente incolume, ancora lucido com'era una settimana prima, quando lo avevo fatto lavare.
«Ce l'abbiamo fatta!» esultò Leo balzando in piedi.
«Forse no.» la voce di Samuel tremò, mentre pronunciava quelle parole. Lo fissammo e vedemmo che indicava un punto in lontananza.
Era Lei, che correva minacciosa verso di noi. «Ma non era così alta!» dissi.
«Si sta ingrandendo!» urlò Damon e io frugai nella mia borsa, alla ricerca della chiave dell'auto. le trovai nell'altra tasca esterna, infilate per metà in un pacchetto di fazzoletti. La strinsi e schiacciai il pulsante per sbloccare le portiere.
«Presto!» urlai, mentre le grida di Madre Natura e i suoi passi si avvicinavano sempre di più, «In macchina!» spalancai la portiera e mi sedetti al posto di guida. Damon salì al mio fianco; Adam, Samuel e Leo si strinsero sul sedile posteriore.
Infilai la chiave nell'accensione e girai e la macchina non partì. «Vai, muoviti!» esclamò Adam.
«Ci sto provando!» ribattei e sorrisi quando sentii il rumore familiare del motore.
Leo urlò e guardai nello specchietto retrovisore. Lei era lì.
«Perché mi fate questo?» uggiolò, «Perché?» gridò, «Vi punirò!»
Ingranai la retro e partii. Il SUV fece uno scatto e balzò indietro, travolgendola.
«L'hai investita, di nuovo.» squittì Samuel.
«Se mi ha rovinato l'auto la strozzo.» replicai e misi la prima, poi avanzai, premendo il pedale dell'acceleratore. Vedi, dallo specchietto retrovisore, Leo che si girava sul sedile.
«Sembra morta.» commentò.
«Magari lo fosse.» sospirò Damon e posò la mia borsa sul pavimento dell'auto, tenendo la cinghia della tracolla fra le mani.
«Porca...»
La bestemmia di Leo venne soffocata dal mio urlo. Lei era davanti a noi, e sembrava... più alta, più grossa. Lanciò un urlo animalesco che fece tremare i vetri del SUV.
«Accelera!» gridò Adam, «Spingi giù quel cazzo di pedale!» ordinò e io eseguii: spinsi a fondo il pedali, scalai la marcia, e il motore sembrò ruggire mentre il contachilometri sfiorava le centotrentacinque miglia. In un attimo le arrivammo davanti mentre continuava a urlare e piangere e gridare che doveva punirci, che eravamo degli ingrati, che eravamo i suoi figli...
Spalancò gli occhi quando capì che non mi sarei fermata, la sua bocca si spalancò, quando le fui davanti e lanciò un grido che mi sembrò un latrato quando la investii, di nuovo. Tre volte in un giorno.
Andai avanti e sterzai bruscamente quando sulla strada si presentò una casetta di legno, una di quelle che si usano in giardino per tenerci gli attrezzi.
Con la parte posteriore dell'auto colpii un'altra auto ma non ci badai.
«Dio, Tabitha, ti ha mai detto nessuno che hai una guida pericola?» strillò Samuel quando sterzai di nuovo per evitare un cornicione.
«Se vuoi rispetto i limiti di velocità.» gli dissi.
«Che cazzo...» fece Damon, «Non t'azzardare a rallentare!» gridò guardando nello specchietto laterale. Mi bastò guardare un secondo nello specchietto retrovisore per capire che non avrei rallentato per nessuna ragione.
Lei era ancora dietro di noi.
Andai avanti, diretta verso la rampa dell'autostrada.
«Ma dove cazzo è andata?» esclamò Adam e un attimo dopo Lei apparve in auto, seduta su Damon che urlava e strillava e cercava di spingerla via.
Intravidi Adam allungarsi — era seduto in mezzo agli altri due — e mollarle un ceffone che la fece arrabbiare ancore di più.
Afferrai la bomboletta spray al peperoncino. «Copritevi gli occhi!» esclamai e poi spruzzai verso di lei e andai avanti fino a quando lei non agitò una mano e mi colpì il polso, facendomi perdere la presa sulla bomboletta.
«Tabitha!» strillò Leo e guardai la strada: in mezzo alle due carreggiate c'era una barca. Sterzai bruscamente a destra, passai su un prato, presi in pieno una fontana e tornai sulla strada.
Adam, Leo, Samuel e Damon colpivano Madre Natura con pugni, sberle, pizzicotti ma lei rimase lì, ad urlare che eravamo ingrati e che doveva punirci e non potevamo aver fatto una cosa del genere.
Infilai di nuovo la mano nella tasca della portiera e mi ritrovai a pregare che fosse ancora lì. Le mie dita tastarono un oggetto lungo una decina di centimetri, a forma cilindrica. Sfiorai il legno lucido e il bottoncino. «Leo.» chiamai e tastai il suo braccio — era seduto dietro di me e si teneva aggrappato al mio sedile con il braccio sinistro — con il polso. «Prendi.» gli dissi. «Al mio tre.» aggiunsi. Lui mi sentì, prese il coltello serramanico e mi sussurrò che aveva capito.
«Uno...» svoltai a destra, in maniera brusca, «Due...» mi preparai e scalai la marcia e spostai il piedi sul freno. «Tre!» gridai e franai di colpo. Il SUV inchiodò di colpo e Lei sbatté la testa contro il cruscotto e Leo fece scattare la lama e la colpì sulla pancia, sul seno, sulle braccia. Adam recuperò il coltellino svizzero, fece scattare la lama e la colpì anche lui.
«Vi punirò!» gridò Lei, «Sono vostra madre, non potete farmi questo! Vi punirò, vi ucciderò!»
Mi spaventai e gridai quando sentii una portiera sbattere ma era solo Samuel che era sceso. Aprì la portiera di Damon, «Scendi.» gli disse.
«Sono bloccato.» replicò Damon, «Non riesco a slacciare la cintura.»
Allora scesi io, mentre Adam e Leo continuavano a colpire Madre Natura, allargando le ferite che si rimarginavano in un battito di ciglia. Samuel mi raggiunse, l'afferrammo e iniziammo a tirare, mentre Damon la spingeva verso di noi. Anche Leo venne in nostro aiuto e, finalmente, riuscimmo a farla cadere fuori dal SUV. Mi appoggiai all'auto mentre Samuel e Leo spingevano Lei lontano da noi. Mi sentivo sudata e pronta per una bella broncopolmonite. I miei abiti erano ancora umidi e li sentivo appiccicati alla pelle. Rabbrividii.
«È morta?» domandò Adam mentre rientravo in macchina.
«No.» fece Leo e anche lui e Samuel risalirono.
«Dove andiamo?» domandai.
Rimanemmo in silenzio e guardammo Lei che si rotolava sull'asfalto, piangendo e mormorando parole che non capivamo.
«Muoviamoci.» sospirò Adam, «Leviamoci dalle scatole.» disse e sternutì.
«Guarda lì.» dissi a Damon e gli indicai il portaoggetti del cruscotto, «Dovrebbero esserci dei fazzoletti.»
Lui aprì lo sportello, prese il pacchetto e lo diede ad Adam. «Come mai hai un coltello a serramanico in macchina?» chiese Leo, «Ehm... se non sbaglio è vietato dalla legge.»
«Questo lo so.» ribattei e girai la chiave. Il motore sussultò un paio di volte e si avviò. «C'è stato un periodo, alcuni mesi fa, dove ti aggredivano appena scendevi o salivi dall'auto.» spiegai e voltai a destra, «Insomma, la bomboletta spray al peperoncino a qualcosa può servire... ma mi sentivo più sicura con il coltello.» aggiunsi. «E comunque è servito, no?»
Accelerai e rimanemmo in silenzio per qualche minuto, fino a quando Samuel non parlò, «Non hai qualche coperta, asciugamano o qualcosa del genere?» domandò, «Ho i vestiti ghiacciati.»
«No, mi dispiace.» risposi. «Le mie roba era tutta nelle vostre case.» sospirai, «Ma credo che quello sia molto meglio.» aggiunsi e indicai l'insegna pericolante di un negozio di abiti.
«Credo che sia furto, sai?» ribatté lui.
«Allora tieniti i vestiti bagnati.» fece Leo, «Fermati, Tabitha.»
Mi fermai poco lontano dall'insegna ed entrammo nel negozio: i vestiti erano sparpagliati per terra, i manichini uno sopra l'altro, in un groviglio di braccia e gambe di plastica. Afferrai un paio di jeans, una maglietta a maniche corte e una felpa con la cerniera e il cappuccio. Passai nel reparto intimo e presi la biancheria e anche un paio di calzini di spugna. Mi cambiai in uno dei camerini, infilai gli abiti bagnati in un sacchetto di plastica e aspettai gli altri.
«Lo avete notato anche voi?» domandò Damon uscendo da uno dei camerini e pensai che fosse ancora più bello con quella felpa blu scuro che risaltava i suoi occhi.
«Cosa?» domandò Adam, sistemandosi la cintura.
«Che non c'è in giro nessuno.» rispose Damon, «Niente persone, niente soccorsi e niente morti.» aggiunse.
Sobbalzai pensando che aveva ragione, non avevamo visto nessuno, né vivo né morto.
Samuel e Leo uscirono dai loro camerini e il mio Pasticcino fece per dire qualcosa ma fu preceduto dall'urlo.
Era Lei.
Ci guardammo per mezzo secondo, forse, poi corremmo verso l'auto, entrammo e avviai il motore, partimmo mentre Lei correva dietro di noi, diventando sempre più grande, sempre più alta, sempre più grassa.
Svoltai a destra, seguendo le indicazioni per l'autostrada.
«Non è più dietro di noi.» commentò Samuel.
Esatto. Infatti era davanti a noi.
Sterzai ma lo spazio era poco, così fui costretta a sfiorarla sul lato sinistro. Lei gridò ancora e agitò le mani, colpendo la carrozzeria. Il SUV sbandò e per un paio di metri avanzò solo sulle ruote di destra, per poi ritornare in posizione normale con un tonfo.
«Però le sospensioni funzionano, eh?» feci, strinsi più forte il volante e mi dissi che dovevo stare calma ed evitare di straparlare.
«Accelera!» gridò Adam e io lo feci, poi gridammo quando la terra tremò ancora e il pezzo di asfalto si sollevò, facendoci saltare.
La macchina si cappottò e cadde a terra, rotolò un paio di volte e si fermò su un fianco. Sbattei la testa e divenne tutto nero.

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Capitolo 3
*** 3. ***


Elements

Parte III



Sapevo che qualcuno stava parlando ma non riuscivo a capire né chi fosse né cosa stesse dicendo. Era come se la voce mi arrivasse distorta e le parole fossero solo un mucchio di sillabe dette a caso.
«Tabitha!»
Mi sentii scrollare e udii il mio nome.
«Vegliati, ti prego. Apri gli occhi.»
Lo feci, ma lentamente. Eravamo ancora in auto e sentii la mano di Leo che mi tastava la faccia. «Mi ficchi un dito nell'occhio.» biascicai.
«Scusa.» fece lui e Adam imprecò. «Dobbiamo uscire.»
«Sì.» dissi e guardai Damon e urlai. Era accasciato contro la portiera — l'auto posava su quel lato — e si lamentava che gli faceva male la spalla. Io ero contro di lui, la cintura di sicurezza che mi premeva contro il fianco.
Colpii l'airbag e quello si afflosciò, slacciai la cintura e mi sistemai contro il bracciolo che divideva i due sedili e riuscii ad aprire la portiera e la spalancai con così tanta forza che per un attimo temetti che potesse volare via. 
Mi sistemai meglio e presi il viso di Damon fra le mani. «Riesci ad uscire?» gli chiesi e gli sfiorai il viso, sentendo la barba appena accennata sotto le dita. Lui annui e gemette. 
«Aspetta che ti aiuto.»
Guardai Leo saltare giù dall'auto e mi accucciai accanto a Damon, lui si aggrappò al sedile e lo spinsi mentre Leo, seduto sul bordo dell'auto, si sporgeva e lo afferrava sotto alle ascelle. «Mi gira la testa.» borbottò Damon.
«Adam? Samuel?» chiamai, preoccupata per tutti noi.
«Sto bene.» disse Adam.
«Mi fa male il fianco.» gemette Samuel, «Ma sono intero.» disse e seguì Adam fuori dall'auto, chiusero la portiera e si arrampicarono per aiutare Leo a tirare fuori Damon.
Quando il ragazzo che amavo fu in strada — e mi sentii male nel vederlo dolorante — uscii anche io, portandomi a dietro la borsa e andai vicino a Damon, lo strinsi e lo baciai, stringendomi a lui e sussurrandogli che andava tutto bene.
Riprendemmo a camminare, avanzando lentamente, con i sensi all'erta, sapendo che Lei era lì, da qualche parte, pronta ad attaccarci quando meno ce lo aspettavamo.
Ci rifugiammo in quello che una volta era un minuscolo ristorante. Non si vedeva nulla, era buio pesto e non avevo più la torcia. Ci raggruppammo nella minuscola cucina e Adam gettò uno straccio dentro una grossa pentola e gli diede fuoco. 
«E adesso?» fece Leo dopo un po'.
«Non lo so.» sospirò Adam guardando il fuoco che aveva creato. Samuel era appoggiato con la schiena a un mobile, come me, mentre Damon aveva posato la testa sulle mie cosce.
«Tornerà.» disse Adam. «E noi non sappiamo cosa fare.» sospirò.
«Dovreste provarci voi.» disse Damon.
«Chi? A fare cosa?» chiese Leo.
«Tu e Samuel.» rispose Damon e io continuai a passere le dita fra i suoi capelli. «Io e Adam abbiamo controllato i nostri elementi.» spiegò, «Potreste provarci anche voi due.»
«Dovrei scatenare un terremoto?» squittì Samuel.
«No.» fece Adam, «Ma aprire una voragine sotto quella stronza, aspettare che ci caschi dentro e richiudere tutto sì.»
«Fosse facile.» sospirò Samuel.
Rimanemmo ancora in silenzio.

Poi, Lei tornò.
Tremò tutto e le cose che erano rimaste sui mobili caddero a terra. Rotolammo e ci rimettemmo in piedi, iniziammo a correre, uscendo dal ristorante e poi vagando per le strade, andando a caso. Damon stringeva la mia mano e io cercavo di guardare attraverso tutta quell'oscurità. Il che era semplicemente impossibile, infatti Samuel inciampò e cadde a terra. Adam e Leo lo aiutarono ad alzarsi ma ormai era troppo tardi: Lei era lì davanti a noi, sempre più minacciosa.
Damon mi spinse contro gli altri e sbattei la fronte contro la spalla di Samuel.
«Voi non potete farlo!» gridò Lei, «Perché lo state facendo?» pigolò, «Io vi punisco e voi continuate a sbagliare!»
Respirai velocemente e pensai che la volevo morta. Lei gridò e agitò le braccia, la strada iniziò a tremare e i lampi rischiaravano il cielo nero.
Gridai quando vidi la strada si sollevò e si arrotolò su se stessa, come una gigantesca onda, producendo un rumore assordante.
Rimanemmo lì, fermi, immobili, a osservare la rossa onda di asfalto che si avvicinava sempre di più. Chiusi gli occhi e pregai che si fermasse, che si bloccasse.
«Ci sei riuscita!» gridò Leo e quasi caddi quando Samuel si spostò.
«Cosa?» feci e guardai. Vidi l'onda d'asfalto ferma, bloccata, congelata. «Oh... merda.» commentai.
«Anche Lei è bloccata!» fece Samuel indicando una figura sulla sinistra. Guardammo tutti in quella direzione e la vedemmo, lì ferma, immobile, con le braccia spalancate e la bocca aperta, quasi distorta. Era raccapricciante.
«Ehm... perché siamo ancora qui?» domandò Damon, così ci voltammo e tornammo indietro.
Nel cielo nero, l'azzurrognolo di un lampo rischiarava l'ambiente. Anche quello era bloccato.
Avevo fermato il tempo.

✫✫✫

Ci nascondemmo di nuovo in un garage, strisciando sotto la porta basculante e riparandoci dietro uno scaffale di metallo.
Damon mi abbracciò, stringendomi così forte che mi fece quasi male ma non dissi nulla perché non volevo dire nulla.
«Cosa farete quando sarà tutto finito?» domandò Adam e passò la bottiglia d'acqua a Samuel.
«Io so cosa faranno loro due.» sorrise Leo mentre guardava me e Damon e io avvampai quando mi resi conto di quello che intendeva dire.
«Io vorrei aprire un mio ristorante.» disse Samuel, «Anche un buco, giusto per cominciare.» 
«Io vorrei fare quel viaggio in Europa.» esclamò Adam. «Londra, Parigi, Barcellona, Milano, Roma, Dublino, Praga...» sospirò, «Almeno con sta storia ho messo via abbastanza soldi per potermi fare un mese di vacanza.»
«E tu, Leo?» feci io e bevvi ancora.
Lui arrossì e si grattò la testa, «Io vorrei...» mormorò, «Vorrei fare un corso per fare il clown per i bambini in ospedale...» confesso con la voce bassa.
«Uh, che cosa dolce.» commentai, «Sei proprio un Pasticcino, lo sai?»
Lui arrossi e borbottò che non era un Pasticcino.
«Tabitha...» mi chiamò Adam, «Quando il tempo ripr-»
Il boato fu tremendo e coprì la domanda di Adam. Sembrò come se un palazzo crollasse e tutto tremò.
Ricevetti una gomitata nelle costole, forse da Damon o da Leo, non so. Gli scaffali tremarono e caddero a terra, insieme alla polvere d'intonaco che cadeva dal soffitto.
«Fuori!» urlò Damon e mi spinse, uscimmo dal garage un attimo prima che quello implodesse su se stesso.
Respirai velocemente quando mi resi conto che potevamo morire lì dentro.
«Perché lo fate?»
Ci girammo e ce la trovammo davanti. «Perché mi fate questo?» domandò, «Perché mi disubbidite?» continuò mentre avanzava lentamente. «Non è questo il modo in cui vi ho insegnato ad usare i poteri.» disse. «Non potete usarli in questa maniera.» aggiunse. «Vi devo punire.» sospirò. «Morirete, adesso.»
Sentii qualcuno che mi tirava un braccio e non persi tempo: iniziai a correre.
Lei si dimostrò ancora una volta più veloce di noi, che eravamo più giovani, in forma. Passammo accanto a una piscina e ci fermammo di colpo quando trovammo davanti a noi un muro di almeno due metri di altezza.
Samuel e Adam presero una panca di legno rovesciata e la sistemarono sotto al muro.
«Venite qui!» gridò Lei.
Vidi Leo guardare la piscina con l'acqua sporca e poi vidi l'acqua alzarsi in un'alta colonna. L'acqua si mosse, veloce, e prese in pieno Lei, facendola gridare dallo spavento.
«Non potete farlo! Non potete usare gli Elementi in questo modo!»
Scavalcammo il muro e corremmo di nuovo, senza una meta precisa.
«Manchi solo tu, Samuel!» gridò Damon mentre mi spingeva verso la porta di un ristorante. Entrammo e ci nascondemmo dietro il grande bancone. Adam afferrò la scopa e spazzò via i pezzi di vetro. Io rovesciai una cassa di plastica blu e mi ci sedetti sopra — il pavimento era bagnato di alcolici vari —, stringendomi la borsa al petto. 
«Io non so come ho fatto.» mormorò Leo, «Io volevo che affogasse... non che venisse fuori una colonna d'acqua.»
Gli strinsi la mano, «Bhe, ci sei riuscito ed è questo che conta.»
Ci zittimmo quando sentimmo dei passi avvicinarsi.
«I miei bambini cattivi...» cantilenò Lei, «I miei bambini cattivi che devo punire.» continuò.
Damon mi strinse la mano con forza e io lo guardai, perdendomi nei suoi occhi chiari.
Qualcosa sopra di noi esplose e una pioggia di schegge dello specchio dietro allo scaffale delle bottiglie era pronta per cadere su di noi. Abbassai la testa e alzai il cappuccio, posai la fronte sulle ginocchia e attesi.
«L'hai fermato di nuovo.» gridò Leo e ci alzammo in piedi.
Lei era lì, dall'altra parte del bancone, la gamba destra alzata.
Vidi Samuel posare le mani sul bancone e chiudere gli occhi per un'istante prima di riaprirli. «Usciamo.» ci disse. «Provo a creare una voragine sotto di lei.»
Tornammo fu fuori dal bar, appena al di là della soglia, Samuel si concentrò ancora e sotto il piede sinistro di Lei si formò una piccola crepa che puoi si allargò come una ragnatela, diventando sempre più grande. I pochi vetri ancora in piedi si frantumarono, scendendo così lentamente che mi sembrò che qualcuno avesse avviato la funzione “avanza per fotogramma”.
Adam fece un passo avanti, mettendosi accanto a Samuel. La terra tremò ancora e la voragine si formò mentre un cerchio di fuoco si alzava attorno ad esso.
«Cosa state facendo?» gridò Lei, «Cosa pensate di fare?»
«Questo.» rispose Leo e il rubinetto si aprì di botto e l'acqua uscì dirigendosi verso di Lei. L'acqua si arrotolò su se stessa, formando un'altra colonna che l'avvolse, facendola gridare e urlare mentre la voragine diventava sempre più profonda, facendola precipitare un po' troppo lentamente.
Le lingue di fuoco si alzarono, arrivando al soffitto, l'acqua vorticò velocemente e il vento si alzò dietro di noi, superandoci e schiantandosi contro di Lei, avvolgendosi sulla colonna d'acqua.
Poi, Lei, urlò e la vedemmo cadere, seguita dall'acqua, dall'aria e dal fuoco, le cui fiamme si ripiegarono verso l'interno e sembrarono saltare dentro il buco.
Con un leggero tremolio e borbottio il buco si chiuse quasi perfettamente, solo alcune piastrelle erano un po' scheggiate.
«Oh... cazzo.» commentò Adam. «Che... diavolo, è una figata!» esclamò e Samuel barcollò ma rimase in equilibrio, afferrò una bottiglia di succo di mela che era a mezzo metro da lui e la prese per poi iniziare a bere.
«Mettiamoci sopra qualcosa.» propose Leo e insieme spostammo il frigorifero, compreso le bottiglie che c'erano dentro. Dato che era caduto su un lato ci limitammo a spingerlo su dove, fino un attimo prima, c'era la voragine, sopra di esso mettemmo un paio di tavolini e le sedie e ogni oggetto che trovammo, alla fine rimanemmo lì a guardare.
«Ce l'abbiamo fatta.» sospirò Damon.
«Già, peccato che non sappiamo come sistemare le cose.» fece Leo.
«Lo sentite anche voi?» chiese Adam.
«Cosa?» fece Samuel.
«Il crepitio.» rispose l'altro.
Mi concentrai e lo sentii: una vibrazione bassa, continua, un suono che mi ricordò il rumore che faceva il coperchio della pentola dove dentro stava bollendo dell'acqua.
«Io direi...» Adam deglutì, «Di correre. Veloci. Via da qui.»
E corremmo, forse per un centinaio di metri, forse meno, prima che il bar esplose.
Mi tolsi i capelli dal viso e aprii gli occhi. «Damon?» chiamai, «Adam? Samuel?» chiesi, «Pasticcino?»
Nessuna risposta se non qualche gemito. Rotolai sul fianco sinistro e vidi Adam, lo scrollai e lui gemette. «Come stai?»
«Sono ancora vivo.» biascicò lui.
«Sto bene.» mormorò Damon e si mise seduto. Anche Samuel e Leo parlarono, eravamo tutti vivi. Doloranti ma vivi.
Damon mi strinse e io lo baciai, dicendomi che se dovevo morire avrei voluto farlo con il sapore delle labbra di Damon sulle mie.
«Dobbiamo andare.» esclamò Adam e ci alzammo in piedi, ci allontanammo camminando lentamente, troppo stanchi, troppo doloranti per correre.
«Fermatevi.»
Non lo facemmo. Non l'ascoltammo e proseguimmo nella notte buia.
Improvvisamente un bidone prese fuoco e poi una cassetta della posta, un altro bidone... era Adam che illuminava la nostra strada. Entrammo in una casa e ci rifugiammo vicino alla porta sul retro, portandoci dietro la coperte che erano sui divani — dal tessuto con grossi fiori, molto anni Settanta — e ci sedemmo vicini. Non sapevamo deve altro andare, non avevamo più un mezzo di trasporto e in più erano spariti tutti. Eravamo soli.
«Ci troverà.» pigolò Leo e io gli strinsi la mano, sistemandomi meglio fra le gambe di Damon.
«Credo sia qui fuori.» sussurrò Samuel.
«Sta facendo come il gatto con il topo: ci girerà attorno per poi attaccarci.» fece Adam.
Io rimasi zitta, con gli occhi chiusi e feci un respiro profondo, sentendomi improvvisamente stanca. Ricordai quando Lei arrivò, sei anni fa, dicendomi che ero la Guardiana dello Spirito e che la mia vita sarebbe cambiata. Un mucchio di regole: niente emozioni troppo forti, niente relazioni, dovevo smettere di frequentare l'università perché mi rendeva felice, niente feste. E poi le regole del gruppo: un incontro di otto giorni una volta all'anno, che iniziava e finiva sempre negli stessi giorni. Io avrei dovuto mandare un messaggio — e solo uno — una volta preso il treno, per informarli del mio arrivo. Durante il resto dell'anno... il silenzio, fra di noi. Le loro regole — quelle di Adam, Leo, Samuel e Damon — erano leggermente diverse: avrebbero vissuto a coppie in due case vicine, per il resto avevamo le stesse inutili, orribili e stupide regole.
«Credo che stia entrando.» mormorò Samuel. Strinsi la mia borsa, pronta a scaraventarla in testa a Lei, o ad usare la cinghia come cappio per strozzarla. L'avevamo investita, pugnalata, rinchiusa in un buco con acqua, fuoco e vento e nulla... lei era ancora lì.
La porta d'ingresso si spalancò.
Lei era lì, che ci guardava, con un sorrisetto sul viso stravolto. «Oh-oh.» fece e avanzò di un passo. «Siete qui, miei bei bambini.» disse, «Adesso vi punirò.» aggiunse e, prima che potessimo fare qualcosa, fece tremare le pareti e i mobili si alzarono da terra e vennero verso di noi. 
Damon mi spinse a terra e picchiai la testa contro il pavimento. Sentivo i mobili rompersi su di noi e le nostre grida e urla. E sopra tutto ciò, la risata di Lei. Un riso isterico.
La guardai, girando piano la testa e la vidi... ballare. Si muoveva in modo scomposto, saltellando di qua e di là, battendo le mani, divertendosi come se avesse cinque anni.
Leo gridò quando un pezzo di mobile lo colpì in testa, più e più volte. Un altro pezzo si avvicinò e vidi il chiodo, grande, grosso e sporgente. 
Gridai.
E il tempo si bloccò di nuovo, ci alzammo, Adam e Samuel tirarono su Leo e lo portarono fuori di casa.
«Qualcuno sa far partire un auto attaccando i fili?» mormorai guardando l'utilitaria a meno di quattro metri da noi.
«Magari ci sono le chiavi.» esclamò Damon.
E le chiavi c'erano ed erano ancora inserite. Chiunque fosse su quell'auto era scappato. Non m'importava, volevo solo allontanarmi. Samuel e Adam si misero dietro, in mezzo a loro Leo, che gemeva dal dolore. Il motore si avviò al terzo tentativo, quando ero ormai sul punto di prendere a calci quella stupida macchina.
Partimmo e ci allontanammo, sapendo che il tempo avrebbe ripreso a scorrere e che Lei ci avrebbe trovato di nuovo.

«Dove siamo?» domandai.
«Credo nella zona nord di Miami.» rispose Damon e posò la mano sulla mia.
«Dobbiamo allontanarci il più possibile.» fece Adam. «Anche se non so a quanto serva.» sospirò. «Alla prossima gira a destra.» aggiunse.
Lo feci, un po' troppo bruscamente e inchiodai di colpo: davanti a noi c'era un muro altissimo. «Dove mi hai mandato?» domandi e guardai l'ora. Erano le tre di notte.
«È la strada giusta per l'autostrada.» fece Samuel, «Non ci doveva essere questo muro!»
«Cambiamo strada.» dissi e inserii la retro, feci inversione in un giardino e ritornai sulla strada di prima.
Solo che Lei era ancora lì, davanti a noi. Ormai era alta quasi tre metri e larga altrettanto. Un grosso cubo. Lei gridò, un urlo che riecheggiò nella notte. Accelerai, sperando di riuscire a passare fra lei e il muro. Ce la feci, ma lo specchietto destro venne divelto.
«Hai trovato la patente nei cereali?» squittì Samuel tenendosi saldamente alla maniglia sopra la porta.
«No.» risposi, «Ma quando avevo sedici anni ho provato a guidare l'auto da rally di un amico...» spiegai.
«Questo spiega tutto.» borbottò Samuel.
Io lo ignorai e avanzai, sentendo la strada che vibrava sotto i passi pesanti di Madre Natura. Continuai a guidare, scartando detriti sulla strada scarsamente illuminata — in quella zona alcuni lampioni funzionavano — e a pensare cosa fare. 
Lei gridò, di nuovo, e il terreno tremò con così tanta forza che sbandai, persi il controllo dell'auto e andai a sbattere contro un basso muretto; picchiai la fronte contro il volante e imprecai, chiedendomi perché non ci fosse l'airbag in quell'auto.
Uscimmo e la guardammo, si era fermata e ci fissava come se fossimo un gruppo di bimbi monelli. Mi aggrappai al braccio di Damon e sentii Leo circondarmi i fianchi con un braccio.
Eravamo in trappola.
Non potevamo andare da nessuna parte, se non scavalcando un muretto di un metro d'altezza, o sfondare la porta di un garage, o passare accanto a lei o saltare dall'altra parte della grossa crepa alla nostra destra.
«Vi devo punire.» disse Lei, «Adesso mi sono stufata di giocare.» fece incrociando le braccia grasse. «Siete dei figli ingrati. Vi avevo dato un compito e non lo avete rispettato, mandando all'aria tutti i miei piani.» continuò, «Se seguivate i miei ordine sarebbe andato tutto bene...» sospirò, «Invece... quello che è successo è colpa vostra!»
«Colpa nostra?» gridò Adam, «Tu ci hai tagliato le palle, ci hai fatto vivere una vita di merda... la colpa è tua.»
Lei lo fissò come se fosse un cretino e mosse la mano.
Vidi il grosso bidone di metallo alzarsi e dirigersi verso Adam. Urlai il suo nome ma, prima che potessi fare qualsiasi cosa — tipo cercare di fermare il tempo — il bidone cambiò direzione, venendo verso di me. Mi sentii spingere e caddi a terra, la botta alla testa attutita dalla borsa ormai vuota.
Sentii Leo gemere e lo vidi cadere a terra, privo di sensi e bianco, un biancore che mi spaventò. Piansi e lo chiamai, gattonando verso di lui, con il desiderio di avere in mano una pistola, no, un fucile sarebbe stato meglio, e spararle, ridurla a un colabrodo e farle decine e decine di buchi in testa, ridurle la faccia in una poltiglia di carne, sangue e ossa e materia celebrale.
«Leo?» pigolai e gli toccai il viso, «Pasticcino, ti prego, rispondimi.» lo supplicai. Le mie dita scesero sul collo e lo tastai, alla ricerca del battito cardiaco.
Non lo trovai.
Mi chinai ancora di più e cercai di sentire il suoi respiro.
Non c'era.
«Non respira.» mormorai. «Leo, svegliati.» piansi mentre Samuel e Damon erano accanto a me.
«L'hai ucciso?» ringhiò Adam, «Hai ucciso Leo!» urlò e lo vidi prendere fuoco, completamente. Abbracciai Leo, affondando il viso nei suoi capelli e guardai Adam bruciare. Lui non c'era più, c'erano solo fiamme, alte lingue di fuoco che si mossero contro di Lei, avvolgendo le sue gambe, salendo fino al seno.
Lei sembrò non farci caso e una cascata d'acqua apparve su di lei, spegnendo il fuoco, facendo cadere Adam da due metri di altezza.
Lo schiocco che fece il suo collo quando sbatté contro il cordolo del marciapiede fu... terribile.
Samuel scoppiò a piangere e i suoi singhiozzi giungevano al mio orecchio come lame affilate. Come avrei fatto senza il mio Pasticcino e senza Adam?
Il terreno tremò di nuovo e vidi la crepa arrivare, spinsi Leo lontano da essa e afferrai Samuel per un braccio, perché, quella fessura nel terreno, era diretta verso di lui. Strinsi il tessuto di cotone pesante fra le dita, cercando di afferrarne il più possibile e vidi Damon allungarsi per potermi aiutare. Il terreno cedeva in piccoli detriti e polvere sotto le miei ginocchia ma non m'importava, volevo solo impedire a Samuel di cadere in quel buco che sembrava finire direttamente all'inferno. L'aria si alzò, mentre Samuel scivolava nella crepa.
Afferrai i suoi pantaloni, aggrappandomi alla cintura e cercai di tirarlo, mentre Lei, quella brutta stronza, rideva.
Diceva che eravamo i suoi figli eppure ci stava facendo morire. Il terremoto aumento e Samuel ci scivolò dalle mani, cadendo nel buco. Feci per buttarmi dietro di lui ma Damon mi fermò, abbracciandomi da dietro e bagnandomi il collo con le lacrime.
Il vento aumentò, ma non era Damon che lo controllava: era troppo freddo e gelido per essere opera sua. 
Damon gridò e urlò mentre il vento lo trascinava lontano da me. Riuscii ad afferrare la sua mano e a stringerla ma il vento era troppo forte e lo teneva sollevato da terra. Vidi i suoi abiti strapparsi e poi la pelle lacerarsi... poi le sue dita scivolarono via dalla mia mano e lui scomparve.
E il mio cuore morì.
Mi asciugai le lacrime e mi alzai in piedi, i capelli che svolazzavano attorno a me, ormai liberi dall'elastico con cui li avevo legati.
«Sei una stronza.» dissi, sapendo che avrebbe ucciso anche me. Sparai una sequela d'insulti, mandando all'aria gli insegnamenti dei miei genitori: “Porta rispetto per le persone più grandi di te.” 
Ma li stavo anche seguendo: “Non farti mettere i piedi in testa da nessuno, Tabitha. Porta rispetto e riceverai rispetto, ma se ciò non accadesse... pretendilo.”
Strinsi i pugni e guardai Lei, che mi fissava, in attesa della mia mossa. «Perché l'hai fatto?» domandai, «Eh? Perché?»
Lei mi guardò e mosse una mano, una folata di vento mi travolse ma rimasi ferma, in piedi, come se fossi inchiodata in quel punto. Vidi il mio Pasticcino, il suo viso bianco cadaverico, e Adam, con il collo rotto. Guardai il punto in cui Samuel era stato risucchiato e fissai il cielo, chiedendomi dove fosse il mio Damon.
Una calma assoluta mi pervase mentre mi dicevo che, se dovevo proprio morire, l'avrei fatto in grande stile. 
Sentii il crepitio del fuoco e lo vidi, vidi le fiamme alzarsi, lingue di fuoco alte come i palazzi che ci circondavano, creando un'enorme cerchio di fuoco largo almeno un paio d'isolati.
«Cosa stai facendo?» strillò Lei.
Io la ignorai e mi concentrai di nuovo, dicendomi che potevo farcela, che ci sarei riuscita.
Le fiamme diventarono più alte mentre il vento si alzava, sollevano gli oggetti attorno a noi, strappando i lampioni, sollevando auto e detriti; chiusi un attimo gli occhi e quando li riaprii vidi tutte quelle cose schiantarsi contro di Lei, colpendola, per poi rialzarsi e ricominciare.
L'acqua, un'onda altissima, arrivò dietro di Lei e la colpì in pieno, facendola vacillare e cadere a terra. L'acqua si unì al vento, creando un grosso uragano, che continuò a girare attorno a Lei, su di Lei.
Le ginocchia cedettero e finii a terra ma non mi fermai. Dovevo farlo.
Dovevo ucciderla.

Il fuoco si strinse su di Lei, in un cerchio sempre più stretto.
Posai le mani a terra e senti l'asfalto tremare, i sassolini entrami nella pelle. Il tremore si fece sempre più forte e il terreno si frantumò e grossi pezzi di asfalto sprofondarono mentre io mi accasciai al suolo, gli occhi fissi su di Lei, che si dibatteva, cercando di spegnere le fiamme che la bruciavano.
Lei chiuse la bocca, ma un grosso vaso la colpì sul mento, così da costringerla a spalancare le labbra. L'acqua entrò dentro di Lei e la udii gorgogliare, alla ricerca di aria, aria che arrivò, e le chiuse la bocca.
Il terreno tremò ancora, un boato che mi fece tremare tutta, e il fuoco si allargò, arrivando verso di me.
Tutto si amplificò: l'acqua, l'aria, il terremoto, il fuoco. Si allargarono, inghiottendo anche me, bruciandomi, strappandomi i vestiti, lavandomi...
Un istante prima di chiudere gli occhi riuscii a vedere Lei che cadeva a terra, gli occhi rovesciati e un filo di bava e sangue che le colava dall'angolo della bocca. Il suo corpo sussultò un paio di volte poi sembrò irrigidirsi prima dell'ultimo spasmo.
Mentre il buio mi inghiottiva, e i miei occhi si chiudevano riuscii a sorridere.

✫✫✫

Sentii qualcosa scivolarmi sul viso e capii che erano i miei capelli. Alzai piano la mano destra e li scostai.
«Tabitha! Tabitha!»
Aprii piano gli occhi e vidi Adam in ginocchio davanti a me,con il viso rigato dalle lacrime ma, sopratutto, vivo.
«Oh, Tabitha.»pianse e mi tirò su, stringendomi forte e singhiozzando contro il mio collo.
Lo abbracciai a mia volta. «Siamo vivi?» sussurrai.
«Credo di sì.» rispose lui e si alzò in piedi, aiutando a fare lo stesso anche a me.
«Gli altri?» chiesi mentre gli stringevo la mano.
«Non lo so.» rispose. «Ho visto solo te.»
Annuii, piano e continuammo ad avanzare. «Chissà dove siamo...» mormorai.
«A me sembra lo stesso posto dove abbiamo visto i tizi in bianco e nero.» disse Adam, «Solo che questo è... colorato.»
Mi guardai attorno, constatando che aveva ragione. Sembrava lo stesso posto dove avevamo incontrato la diciottesima generazione di Guardiani solo che le pareti erano dipinte in un misto di colori pastello.
«Hai sentito?» mormorò Adam.
Annuii, «Sì.» risposi a bassa voce, «Sembrava un gemito.»
Adam lasciò la mia mano e corse verso l'origine di quei gemiti. Io gli corsi dietro, accorgendomi di non essere stanca. Era come se mi fossi svegliata dopo un lungo sonno ristoratore.
«Leo!» gridai, superai Adam e mi inginocchiai accanto a lui, gli sfiorai il viso con la mano e scoppiai a piangere quando lui aprì gli occhi, fissandomi.
«Tabitha.» mormorò.
«Stai bene?» chiese Adam.
Leo annuì, «Sì.» fece, «Mi fa un po' male la testa ma sta passando.»
Sorrisi e lo strinsi a me. Adam gli porse una mano e lo aiutò ad alzarsi.
«Samuel e Damon?» chiese il mio Pasticcino.
«Non sappiamo nulla.» risposi e riprendemmo a camminare, io al centro dei due ragazzi che mi tenevano per mano. Avanzammo per diverso tempo, fino a quando non ci bloccammo in una specie di piazza.
Al centro c'erano due panche, di marmo rosa, a forma semicircolare, disposte una davanti all'altra. Davanti a noi si trovava una semplice fontana, con il piatto a forma di mezza sfera. Il punto da dove zampillava l'acqua mi ricordò la forma di una damigiana.
«Adam! Leo!»
«Tabitha!»
Mi girai nel sentire il mio nome e sorrisi quando vidi Damon e Samuel apparire da un corridoio alla nostra sinistra, lascia le mani di Adam e Leo. Corsi verso di lui e lo abbracciai per poi baciarlo. Lui mi strinse e infilò le mani nei miei capelli.
«Ti amo.» mi sussurrò all'orecchio.
«Anche io.» gli dissi e baciai il suo viso, gli sorrisi e andai ad abbracciare Samuel.
Ci spostammo sulle panche dove ci sedemmo, stavamo per parlare quando apparve una nuvoletta di fumo azzurro. La fissammo, pronti a scappare quando il fumo si diradò e apparve un uomo molto vecchio, con la barba e i capelli bianchi e grande occhi azzurri.
«Siete tutti qui.» disse e la sua voce era bassa, tranquillizzante.
«Chi sei?» domandò Adam.
«Io sono Padre Natura.» rispose lui e si sedette sull'altra panca. «E sono qui per scusarmi per quello che ha combinato mia figlia e per spiegare come sono andate le cose.»
Figlia? Quell'essere era sua figlia? Ero sconcertata, quell'anziano era affascinante come Sean Connerry, come poteva essere il padre di quell'essere bruttissimo?
«Vedete, fino al Quindicesimo secolo non c'erano Guardiani,» esordì l'uomo, «Il naturale equilibrio degli Elementi veniva mantenuto da me e mia figlia. Mia moglie è morta di parto. Saremo anche immortali, ma certe cose ci uccidono. Mia moglie è morta di parto...» il suo sguardo divenne triste «È andato tutto bene per un sacco di tempo... solo che mia figlia, a un certo punto, dopo una serie di eruzioni, uragani, tornado, esondazioni e terremoti... Lei, come dire... impazzì.» Padre Natura si lasciò andare a un lungo sospiro. «Disse che era colpa degli uomini e che doveva trovare una soluzione. Così si elesse Madre Natura e trovò cinque persone con poteri speciali e li convinse che erano i Guardiani degli Elementi e che dovevano mantenere l'equilibrio.»continuò, «All'inizio non c'erano regole ma, quando si scatenò un violento terremoto sulle coste australiane, con la conseguenza di uno tsunami... cambiò le “sue” regole.» disse, «Regole che conoscete anche voi.» fece, «Sono le stesse dal Milleseicento, anno più, anno meno.»
«E perché non l'hai fermata?» abbaiò Samuel.
«Ho cercato di farlo.» sospirò l'altro, «Solo che lei mi ha rinchiuso in questa dimensione...»
«Siamo bloccati qui?» domandai e strinsi la mano di Damon. Forse non avrei rivisto la mia famiglia ma almeno sarei stata con Damon.
«Oh, no!» disse Padre Natura e la sua voce era quasi... divertita. «Quello che avete fatto mi ha liberato e rinchiuso mia figlia... vi rimanderò sulla Terra.»
«E quello che è successo?» chiesi io, «Il terremoto in Florida...»
«Non ci sarà.» disse lui, «Vi rimanderò indietro un paio di secondi prima che si scatenasse la scossa.» spiegò, «Voi ricorderete tutto, gli altri no...»
«Ma potremmo...» pigolò Damon.
Lui ci guardò e sorrise, «Potete fare quello che volete, della vostra vita.» disse, «Ma prima devo spiegarvi un'ultima cosa.» aggiunse, «Vedete, le persone che hanno occupato il ruolo di Guardiani hanno dei poteri. Voi potete controllarli e tu, Tabitha,» mi guardò, «Puoi controllarli tutti.» disse, «Voi potete accendere il fuoco del camino senza usare un fiammifero, potete spegnere un incendio facendo apparire una nuvoletta carica d'acqua, potete far alzare un mobile pesante stando sul divano, potete rivoltare la terra di un campo senza usare un aratro... cose di questo genere.» spiegò. «Ma non dovete abusarne. Avete capito?»
Annuimmo.
«E Lei?» chiese Adam, «Cosa...»
«Lei sarà punita.» disse Padre Natura, «Sarà mandata in una dimensione da dove non potrà più uscire...» fece un sorriso triste. «È ora di tornare a casa.» esclamò dopo qualche secondo di silenzio. 
Una nuvoletta di fumo dai colori dell'arcobaleno ci avvolse e sentii il mio corpo sempre più leggero, come se mi stessi sgonfiando, come se fossi fatta d'aria...

✫✫✫

Ero al lavoro e mi sentii strana, mentre mi chinavo per raccogliere la gomma che era rotolata sotto alla mia scrivania. Le mie dita sfiorarono la superficie bianca quando mi ricordai tutto quanto.
Ricordai il terremoto, la corsa verso Miami, tutto quello che era successo dopo. Strinsi la gomma e alzi la testa e imprecai sottovoce quando la sbattei contro la scrivania. Mi rialzai e trovai la mia collega Emma che ridacchiava.
«Hai la testa dura, eh?» commentò.
«Eh, già.» dissi, «Lo dice sempre anche mia madre.»
Mamma, papà.
Damon.
Deglutii e bevvi un sorso di acqua dalla mia bottiglietta e controllai quello che dovevo fare. Mi venne quasi da ridere e da piangere quando vidi chi avrei dovuto chiamare.
Lavoravo nel campo delle assicurazioni — sulla casa, sulla vita, sulle barche, camper, automobili — e quel giorno avremmo dovuto assicurare una Maserati e io avrei dovuto chiamare il concessionario che l'aveva venduta per assicurarmi che l'avesse venduta veramente e che non fosse una truffa.
Alzai la cornetta, composi il numero e incastrai il telefono fra spalla e orecchio mentre muovevo il mouse per richiamare la finestrella con i dettagli dell'auto.
«Benvenuti alla Evan's Cars. Sono Damon, come posso aiutarla?»
Io assicuravo auto, Damon, il mio Damon le vendeva. «Sono Tabitha, della Green Insurance.»
«Tabitha.» fece lui. «Tutto bene?»
«Sì.» risposi. «Chiamo a proposito di una Maserati...»
«Sabato usciamo a cena?» mi interruppe lui.
Sorrisi, «Certo.» risposi, «Il numero di telaio è...»
Mentre gli fornivo tutti i dati, sentivo il mio cuore esplodere di gioia.
Sarei uscita con Damon.
Avrei rivisto Adam, Samuel e Leo. Potevo andare dalla mia famiglia e festeggiare sul serio il Ringraziamento e il Natale.
Avrei avuto, finalmente, la mia vita.

Salve! Nuovo capitolo, l'epilogo arriverà presto, magari anche questa settimana, sempre che riesca a postare dal cell sfruttando il wi-fi comunale xD
Grazie a chi legge questa storia, a chi la leggerà, a chi ha messo la storia nelle preferite/ricordate/seguite e a chi commenterà, perchè lo farete, vero? ç.ç
Grazie anche a chi mi inserisce fra gli autori preferiti, siete tanto ma tanto carini e vi adoro.
Ci si vede presto con l'epilogo!
E leggete le altre mie storie!

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Capitolo 4
*** Capitilo 4 -Epilogo- ***


Elements

Parte IV
Epilogo



Dieci anni dopo
«Emma!» strillo guardando la mia adorabile bambina di sette anni che si sta spalmando il mio rossetto sul viso. La piccola mi osserva e fa il solito faccino a cui non posso resistere, «Vieni qui, peste.» sospiro, afferro le salviette struccanti e inizio a pulirle il faccino. «Quante volte ti ho detto di non usare i miei trucchi?»
«Tante, mamma.» risponde lei, «Ma mi piacciono.»
Sorrido e finisco di togliere le ultime tracce di rossetto. «Dai, lavati altrimenti arriviamo in ritardo dallo zio Samuel.»
Emma si lava il viso e le mani mentre io butto le salviettine nel cestino e raccolgo gli asciugamani bagnati dal pavimento. Non avrei mai potuto crederlo, ma due bambini di sette anni e di venti mesi sono capaci di ribaltare una stanza in meno di mezzo minuto, magari mentre sono chinata per recuperare qualche gioco finito sotto al letto.
Io e mia figlia torniamo in cucina e ci blocchiamo quando vediamo il cucchiaino con sopra un po' di mela grattugiata che vola a mezz'aria, diretto verso la boccuccia del mio secondogenito Evan.
«Damon...» sospiro.
«È l'unico modo in cui la mangia.» si giustifica lui mentre Evan chiude le labbra attorno al cucchiaino bianco e azzurro. Damon prende in mano il cucchiaino, prende altra mela e lo fa volare di nuovo.
«Anche io!» trilla Emma, «Anche io!» dice poi si avvicina a Damon e gli tira la manica della camicia, «Papà... per favore.»
Lui le sorride e le sfiora i capelli biondi, muove piano la mano e il cucchiaino devia, finendo in bocca alla bambina che, dopo aver mandato giù tutto, ride e batte le mani. Evan, invece, sembra sul punto di piangere mentre osserva il cucchiaino vuoto, gli accarezzo la testolina castana e gli poso un bacio fra i capelli.
«Arriveremo in ritardo.» esclamo mentre Damon imbocca nostro figlio come fanno tutte le persone normali.
«La mamma ci toglie il divertimento.» sussurra lui a Evan e gli fa il solletico sul pancino.
«La mamma toglierà il divertimento a papà se non si muove.» ribatto io.
«Che divertimento?» fa Emma e Damon mi fissa, sorridendo. Adora quando nostra figlia fa queste domande imbarazzanti... adora quando le fa a me, perché se fa qualche domanda a lui il discorso cambia: diventa di un bellissimo rosso e inizia a balbettare per poi dirle di venire da me.
«Gli impedisco di farmi il solletico.» rispondo a mia figlia. Lei sembra soddisfatta della risposta, prende un tovagliolino e si pulisce la bocca, poi chiede un bicchiere d'acqua a Damon.
Io prendo Evan, lo porto in bagno e gli lavo il viso e le manine appiccicose, butto il bavaglino nel cestino della biancheria sporca e gli pettino piano i capelli, mentre lui alterna risatine e una sequela di “Mamma”. Ogni volta che mi chiama in quel modo mi sciolgo, dimenticandomi della sua mania di infilare le mani nel piatto e poi toccarmi il viso, spalmandomi il cibo sulle guance o di quando si sveglia la notte per un incubo e mi tiene sveglia per ore...
Amo la mia famiglia.
Io e Damon siamo sposati da quasi otto anni e mezzo, viviamo a Miami, nello stesso quartiere dove lui ha vissuto per cinque anni. 
Dopo quel giorno, quando lo ho chiamato per la Maserati, siamo usciti tutti i week end per un mese e mezzo, poi lui ha affittato una casetta e siamo andati a vivere insieme. Pensavo che i miei genitori sarebbero stati contrari a una convivenza dopo un così breve periodo di frequentazione, invece si sono dimostrati entusiasti di Damon e lo adorano come se fosse un figlio.
Dopo dieci minuti siamo in macchina diretti verso il ristorante di Samuel.
Alla fine, ognuno di noi, ha ottenuto quello che voleva.
Io e Damon siamo sposati, Adam ha fatto il viaggio che desiderava, Samuel ha aperto un ristorante, che ora è frequentato dalla gente “in” di Miami e in generale da tutta la conte di Dale. Leo dedica svariati giorni ai bambini ricoverati all'ospedale e lavora insieme a Samuel, occupandosi del bar.
Io e Damon non siamo gli unici che sono una coppia, anche gli altri hanno trovato una persona con cui stare.
Samuel, Leo e Adam hanno raccontato ogni cosa alle donne che hanno sposato, perché era giusto farlo, che sappiano cosa abbiamo passato.
Perché, dopo dieci anni, nessuno di noi cinque ha dimenticato quel giorno di dieci anni fa, quando la nostra vita è cambiata nuovamente, in meglio, questa volta.
Siamo cresciuti, Samuel ha quasi quarant'anni, un ristorante ben avviato, una moglie, due figli e un terzo in arrivo. Adam ha ancora la passione per i viaggi e trascina sua moglie e i loro due gemelli in giro per gli USA e l'Europa. Leo è ancora il mio pasticcino, anche se è sposato e padre anche lui. Io ho trentacinque anni, sono sposata con Damon e sono madre. Forse non avrò la vita perfetta, ma è la mia e non potrei chiedere di meglio.
Padre Natura quel giorno ci disse tante cose, ma ne omesse una: io e gli altri siamo più di persone in grado di controllare gli Elementi.
Io e gli altri siamo amici. 
Ed è per questo, che oggi, Sabato 12 Ottobre 2024, a dieci anni esatti da quel giorno, festeggiamo questo anniversario.
L'anniversario della nostra amicizia.

✫✫✫

Da qualche parte nell'universo.
La donna fissa i cinque ragazzini di dieci anni davanti a lei. Qualche mese prima è riuscita a liberarsi dalla prigione in cui suo padre l'ha rinchiusa ed ora è pronta per ricominciare il suo compito.
Ha portato quei bambini nella sua dimensione, per prepararli al loro compito senza nessuna distrazione.
«Voglio la mamma!» scoppia a piangere l'unica bambina del gruppo.
«Sono io la vostra mamma, adesso.» dice Lei, «E v'insegnerò tutto quello che dovete sapere.» continua, «Sapete, voi siete stati scelti per un compito importantissimo: dovete salvare il mondo.» esclama, fa un sospiro e si siede davanti ai bambini, «I vostri predecessori sono stati davvero... cattivi.» sospira, «E voi dovete sistemare i loro casini.»
«Tu ci hai rapito, stronza!» grida uno dei ragazzini, «Mio padre è un giudice e ti metterà in prigione.»
Lei non si scompone più di tanto, allunga solo un braccio e molla un ceffone al ragazzino. «Stai zitto, Fuoco.»
«Mi chiamo Micheal.» piagnucola quello.
«No.» dice Lei. «Da questo momento avete una nuova vita e nuovi nomi.» esclama. «Tu,» indica il bambino che stringe la bambina, «Sei Aria, lei è Spirito.» dice e poi indica altri due bambini: il più piccolo di costituzione spalanca gli occhi verdi e gli occhiali gli scendono sul naso, «Tu sei Terra.» dice e gli fa una carezza sulla testa, «Invece tu sei Acqua.» si rivolge all'ultimo bambino, «Ed ora vi mostro le vostre stanze.» la sua voce è allegra.
Le stanze in realtà sono dei cubicoli di tre metri per tre: hanno tutte un letto, un comodino, una scrivania, qualche libro, dei fogli bianchi e un barattolo di penne e matite colorate, un armadio e un piccolo bagno con lavandino, gabinetto e una minuscola doccia. Tutte le pareti, compresi pavimento e soffitto e anche la porta, sono di un bianco sporco, mentre l'arredamento è grigio. Non ci sono finestre.
«Io voglio la mamma!» pigola la bambina mentre Lei la spinge al centro della stanza per poi chiudere la porta. Lei e gli altri quattro avanzano per diverse centinaia di metri, poi è il turno del bambino con gli occhiali di essere chiuso nella camera.
Una volta sistemati tutti i bambini, Lei si siede sul suo letto, soddisfatta.
I bambini non possono interagire fra di loro, se Lei non vuole e, ovviamente, non lo vuole: ha già fatto questo errore in passato e sa che non deve più ripetersi. Ha tutto il tempo per plasmarli e renderli perfetti: esseri senza nessuna emozione, pronti per controllare gli Elementi.
Li sente piange e gridare, come quando li aveva rapiti dalla terra per portarli lì ma sa che è normale e che basteranno un paio di giorni per fargli passare la nostalgia di casa e presto dimenticheranno le loro famiglie, i loro amici... e poi sarà tutto perfetto.
Lei
sorride mentre pensa che il suo piano che ha progettato per quasi dieci anni è finalmente iniziato.
Lei sorride mentre si dice che tornerà ad essere quella che è sempre stata: Madre Natura.


Ok, gente, anche queta storia nata come flash fic, sfociata in one shot e diventata mini-long è finita.
Un grazie enorme a chi l'ha letta, chi l'ha messa in una delle liste... grazie anche a chi mi mette fra gli autori preferiti! Vomito arcobaleni ogni volta che uno di questi numerini si alza!
Alla prossima! E leggete le altre mie storie!

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