Senza di te

di gattina04
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Il mio nido felice ***
Capitolo 3: *** 2. Come un fulmine a ciel sereno ***
Capitolo 4: *** 3. Inferno ***
Capitolo 5: *** 4. Soltanto un sogno ***
Capitolo 6: *** 5. Il funerale ***
Capitolo 7: *** 6. Tempo... ***
Capitolo 8: *** 7. Per i tuoi sei anni ***
Capitolo 9: *** 8. Pazze conoscenze ***
Capitolo 10: *** 9. Tentativi di contatto ***
Capitolo 11: *** 10. L'ascensore ***
Capitolo 12: *** 11. Prime volte ***
Capitolo 13: *** 12. Credere ***
Capitolo 14: *** 13. Atteggiamenti ***
Capitolo 15: *** 14. Solo una cena tra colleghi ***
Capitolo 16: *** 15. Accettazione ***
Capitolo 17: *** 16. Promessa ***
Capitolo 18: *** 17. Andando avanti ***
Capitolo 19: *** 18. Presentazioni e comunicazioni ***
Capitolo 20: *** 19. Un anno dopo l'inizio ***
Capitolo 21: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

È strano come il tempo, il fluire e lo scorrere della propria vita, possa cambiare tutto. Un secondo può trasformare tutto ciò che hai e arrivare a distruggerti. L’attimo prima, magari, eri la persona più felice sulla faccia della terra e quello dopo ti sembra di vivere in un incubo, dal quale non riesci a svegliarti.
Se qualcuno mi avesse chiesto di descrivere la mia vita prima di quel maledetto giorno avrei detto che tutto era perfetto. Roberto Cantini, pediatra specialista dell’ospedale Meyer di Firenze. Una moglie bellissima, la donna più importante della mia vita, l’unica che avevo sempre voluto e desiderato e una bambina, una stupenda bambina. La mia famiglia era perfetta, non c’era niente che non andava.
Io amavo Elena con tutto me stesso, un amore di quelli che non sarebbero mai spariti, indissolubile, speciale. Lei era tutto per me, tutta la mia vita, tutta la mia felicità ed io ero lo stesso per lei. Il nostro amore poteva essere paragonato a quello delle grandi coppie: Romeo e Giulietta, Tristano e Isotta, Paolo e Francesca. Ci amavamo appassionatamente e incondizionatamente.
Inoltre Elena mi aveva regalato la cosa più bella del mondo: Viola, un frugoletto di cui mi ero innamorato subito al primo sguardo. Ora aveva cinque anni e mezzo ma era sempre la cosa più bella che la vita ci avesse offerto.
Ero troppo felice, troppo realizzato, troppo appagato della mia vita; troppo di tutto. E alla fine come a pareggiare i conti, il destino, o chiunque faccia le sue veci, decide di toglierti tutto, di distruggere la tua vita. Decide che per te sono finiti i bei momenti, che devi soffrire perché la vita non può essere solo gioia e felicità. Sarebbe davvero chiedere troppo.
Il tempo: un secondo e puoi perdere tutto e ritrovarti senza più nulla tra le mani. E quando succede non vorresti altro che tutto terminasse, che il mondo finisse in quell’istante e ti portasse via da quel tremendo oblio.
Ma ti devi sempre ricordare che non sarai mai solo e non puoi assolutamente essere egoista, perché c’è chi dipende esclusivamente da te.
E forse anche nel caos più profondo puoi trovare la forza di ritirarti su, di dimenticare e andare avanti. Ma come si fa a dimenticare un’intera vita? Come si fa a dimenticare quando tutto ti ricorda la cosa che stai disperatamente cercando di cancellare?
Esiste sempre una possibilità di scelta ed è da quella scelta che dipende tutta la tua vita. Ma è proprio questo il punto: bisogna avere il coraggio di prendere certe decisioni. E se non lo trovi? E se hai troppa paura di vivere per prendere una decisione? Ma la vita è un grande dono che non va mai sprecato, e non scegliere significherebbe buttare all’aria tutte le opportunità che qualcun altro ti sta offrendo.





 
Salve a tutti è da un po' di tempo che ho scritto questa storia. Però ho trovato solo ora il coraggio di pubblicarla spero che vi piaccia.

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Capitolo 2
*** 1. Il mio nido felice ***


Il mio nido felice
 
«Sono a casa», dissi chiudendomi la porta alle spalle. Era quasi l’ora di cena ed ero distrutto. Era stata una giornata abbastanza impegnativa: era arrivato un bambino particolarmente grave, lì al Meyer, e aveva avuto bisogno dell’appoggio di tutti i medici. Ma non avevamo potuto fare molto, le sue condizioni erano troppo compromesse. I genitori erano disperati; anche se noi medici avevamo l’obbligo di non farci coinvolgere emotivamente, quando si trattava di bambini in fin di vita era impossibile rimanere indifferenti.
Ma in quel momento ero pronto a tornare nel mio nido felice. Non dovevo lasciare che il lavoro influenzasse troppo la mia vita; anche casi come quello facevano parte del mestiere che mi ero scelto. Avevo sempre voluto fare il pediatra, era il mio sogno. Per questo dovevo saper affrontare anche giornate come quelle. 
«Papà». Viola mi corse incontro e mi saltò addosso abbracciandomi.
«Ehi piccola», le dissi prendendola in collo e dandole un bacio. «Ti sono mancato? ».
«Sì! Io e la mamma ti stavamo aspettando».
«Davvero? ». Mi avviai in cucina, sempre con Viola in braccio. Elena era lì ai fornelli di fronte alla tavola apparecchiata, bella come sempre.
«Ben tornato amore», mi salutò dandomi un bacio. «Hai fatto tardi. È stata una giornata difficile? ».
«Oh non ne parliamo che è meglio», chiusi il discorso. «Vado a lavarmi le mani e arrivo». Appoggiai Viola su una seggiola e andai in bagno; mi fissai allo specchio e come ogni sera cercai di dimenticare gli orrori che avevo visto. Mi lavai il viso e le mani e tornai di là.
«Scusami se sono arrivato tardi, ma non ho avuto nemmeno il tempo di avvisarti», le dissi sedendomi. Sapevo che per lei non era un problema. Era abituata a dividermi con il mio lavoro, anche se cercavo di essere il più presente possibile, sia per lei che per nostra figlia. Però non sopportavo il fatto che certe giornate, in un ospedale così importante, fossero così frenetiche da non riuscire nemmeno ad avvisarla.
«Tesoro non ti preoccupare. So che devi lavorare», mi rispose incominciando a servire. «L’ospedale ha bisogno di te».
«Anche voi avete bisogno di me», ribattei rattristato. Ma cercai di cambiare discorso. «Ditemi un po’, cosa avete fatto oggi di bello? ».
«Stamattina sono andata all’asilo», mi rispose Viola. «E poi stasera io e la mamma abbiamo fatto una torta».
«Avete fatto una torta? », le chiesi mangiando.
«Sì! Devo dire che nonostante tutto siamo state brave», mi rispose Elena sorridendomi. 
«E che torta avete fatto? ».
«La schiacciata alla fiorentina», intervenne Viola.
«Con la panna dentro? ».
«Certo, e se no che schiacciata è! Comunque a montare la panna io e Viola abbiamo fatto davvero un disastro, ci siamo sporcate tutte; ci siamo dovute cambiare completamente». Già me l’immaginavo. Viola era una bambina vivace, la panna doveva essere finita ovunque tranne che nella torta. 
«Scommetto che sporca di panna sei ancora più bella», dissi avvicinandomi ad Elena e dandole un bacio.
«E io sono più bella? », mi chiese Viola.
«Tu sei sempre la più bella amore mio». Finimmo di mangiare e poi Elena tirò fuori la loro torta e l’appoggiò sul tavolo.
«L’aspetto non è male», dissi guardandola. Elena era brava a cucinare, ma i dolci non erano mai stati il suo forte. Alzai lo sguardo per incontrare il suo e trovai i suoi occhi azzurri che mi fissavano severi.
«Non azzardarti a dire nulla», mi avvisò.
«Ma io ho detto solo che dall’aspetto non sembra male», ribattei. «Credevo peggio». Non resistetti a farle una battutina.
«Non rispondo alla tua insinuazione, solo perché tu sei stanco». Mi passò una fetta e io iniziai a mangiare. Era deliziosa, oltre le mie aspettative. Avevano fatto davvero un buon lavoro.
«È buona. Siete state bravissime». Diedi un bacio sulla testa a Viola e uno sulle labbra a Elena, prendendola tra le mie braccia.
«Sì stiamo diventando davvero brave», confermò Elena assaggiando la sua fetta.
«Tu mamma sei la cuoca migliore del mondo», intervenne Viola.
«Grazie tesoro, ma anche tu non sei stata male. Abbiamo fatto un ottimo lavoro. D'altronde stando  a casa tutto il giorno, oltre a scrivere dovrò dedicarmi a qualcos’altro».
«Ah a proposito! Come è andato il libro? ». Elena era una scrittrice abbastanza di successo. Aveva cominciato a scrivere una serie di libri e ora aspettava la pubblicazione dell’ultimo.
«Bene! Domani ho appuntamento con una casa editrice a Prato; vogliono pubblicare il mio ultimo romanzo».
«Che bello! E non mi dici nulla? Congratulazioni amore mio». La presi tra le braccia e la baciai.
«Ma di che parlano i tuoi libri mamma? », le chiese Viola.
«Quest’ultimo è autobiografico», ci rivelò. Non voleva che io sapessi mai nulla fino alla loro uscita. Mi lasciava sempre con la curiosità. Non faceva eccezioni, io dovevo aspettare come un qualsiasi altro lettore.
«Davvero? », le chiesi sorpreso.
«Sì questo parla di voi due. Comunque lo sapete che non voglio dire a nessuno di che cosa trattano nello specifico; porta male. Poi un giorno te lo leggerò piccola mia, non ti preoccupare».
«Ma allora bisogna festeggiare», le dissi facendola sedere sopra di me e stringendola al mio petto. Ero così orgoglioso di lei.
«Sì ma sarà meglio essere scaramantici, non si sa mai. Aspettiamo che l’affare sia concluso. Poi domani sera…». Mi lanciò uno sguardo molto allusivo.
«Facciamo una festa? », ci chiese Viola.
«Sì tesoro, ci divertiamo. Sei contenta? ». Restammo un altro po’ lì a chiacchierare tra di noi: eravamo allegri felici. Quello che avevo vissuto quel giorno all’ospedale era stato messo da parte. Ero nel mio nido felice, niente poteva più turbarmi.
Mettere a letto Viola, fu un impresa: le lessi una favola per farla addormentare, ma era particolarmente agitata, non ne voleva sapere di dormire. Ma alla fine crollò in un sonno profondo.
Rimasi un attimo a guardarla dormire. La mia principessina era così piccola e spensierata. “Beata lei”, pensai tra me e me mentre uscivo dalla sua stanza.
«Finalmente si è addormentata». Elena mi aspettava in salotto seduta sul nostro divano. Aveva già messo tutto a posto e mi stava aspettando sorridendo.
«Ciao», le dissi prendendola tra le braccia e sedendomi accanto a lei.
«Ciao», mi rispose dandomi un bacio. Le passai le dita trai capelli tra un bacio e l’altro e la strinsi forte al mio petto.
«Mi sei mancata».
«Ed è solo da stamattina che non mi vedi. Cosa faresti se dovessi partire? ».
«Ovvio verrei con te. Troverei un modo per poter partire nonostante il Meyer. Ma tanto tu non vai da nessuna parte, vero? ».
«Dove vuoi che vada senza di te Robbie? ».
«Me lo prometti? ».
«Certo te lo prometto. Ti ricordi: in salute e in malattia, fin che morte non ci separi. Io ti amo Robbie».
«Ti amo anch’io Elena». Ricominciammo a baciarci dolcemente, stringendoci l’un l’altro, ognuno perso nel corpo dell’altro.
«Noi non ci lasceremo mai», affermai dopo l’ennesimo bacio appassionato. E in quel momento mi sembrava la più assoluta verità. Mi sembrava impossibile che qualcosa ci separasse.
«Mai», confermò lei. «Ma forse adesso è meglio se andiamo a dormire, domani sarà una giornata impegnativa».
«Sì, forse hai ragione. Ma domani sera grande festa, giusto? ».
Mi sorrise e annuì. «Certo amore mio».
 
Poco dopo eravamo sdraiati al buio nel nostro letto. La cercai tra le coperte e la strinsi tra le braccia, intrecciando le mie gambe alle sue.
«Sono così emozionata per domani», mi disse all’improvviso, nel silenzio più profondo. «Non vedo l’ora che il mio libro esca e che tu lo possa leggere».
«Potrei leggerlo anche ora ma tu non me lo lasci fare. Che senso ha aspettare, io non andrò in giro a spettegolare».
«Robbie! Lo sai non voglio che nessuno a parte me e l’editore lo legga in anticipo».
«Allora mi sa che dovremo aspettare», sospirai abbracciandola di più.
«Già! Ma non vedo l’ora di avere il tuo giudizio».
«Lo sai che il mio giudizio è sempre positivo». Era palese che sarebbe stato un parere più che positivo. Anche se cercavo di essere obiettivo, finivo sempre con l’amare ciò che scriveva.
«Sì, forse sei un po’ troppo di parte. Non riesci mai a essere imparziale».
«Sarà perché ti amo». Le diedi un bacio sulla guancia, infilando la testa nei suoi capelli profumati. Le sfiorai il seno con la mano, premendomela sempre di più sul petto. Lei intrecciò le dita nelle mie portandosele alle labbra e cominciando a riempirmi di dolci e teneri baci.
Proprio in quel momento la porta si spalancò e la luce si accese. Viola entrò piangendo.
«Mamma! Papà! », piagnucolò salendo sul letto. Io lasciai andare Elena e mi allungai ad aiutarla.
«Che c’è piccola mia hai fatto un brutto sogno? », le chiesi mettendomi a sedere.
«Sì! ». Mi abbracciò forte cominciando a singhiozzare contro il mio petto.
«Su tesoro, non è niente ora è tutto finito», la consolò Elena, prendendola tra le braccia. Le passai una mano tra i capelli e cercai di asciugare le sue lacrime; era davvero una sofferenza vederla in quello stato. Non riuscivo proprio a sopportare che ci fosse qualcosa che potesse impaurire la mia bambina e farla gemere in quel modo.
«Ssh! Va tutto bene adesso». Lentamente smise di piangere e riuscì a calmarsi tra le braccia di sua madre.
«Non è successo nulla, amore. Era solo un brutto sogno».
«Sì. Ma posso dormire qui nel lettone con voi? ». Ed era impossibile dirle di no; era fin troppo dolce e impaurita perché noi potessimo rifiutare.
«Certo», le risposi, alzando le coperte. «Vieni, entra sotto». Si distese tra me ed Elena e si rigirò tra le coperte cercando la posizione. Io spensi la luce e poi l’abbracciai.
«Ora dormi però!», le disse Elena abbracciandola a sua volta.
«Sì…», sospirò immergendosi nel torpore dei nostri corpi.
«Buonanotte amori miei», dissi sorridendo.
«’Notte», mi risposero.
«E sogni d’oro». Lentamente tutte e due si addormentarono. Io restai per un po’ ad ascoltare i loro respiri profondi, perso nel silenzio. Quella era la mia famiglia ed era assolutamente tutto: tutto ciò che volevo e ciò di cui avevo bisogno. Non sarebbe mai stato diversamente.
In quel momento della mia vita potevo dirmi assolutamente felice e realizzato.
Ma la felicità, ho imparato a mie spese, ci mette un secondo ad andarsene…
Piano piano perso tra mille pensieri crollai anch’io nel mondo dei sogni. Ma nessun sogno poteva essere più bello della vita che avevo in quel momento.

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Capitolo 3
*** 2. Come un fulmine a ciel sereno ***


Come un fulmine a ciel sereno

La mattina dopo accompagnai Viola all’asilo. Elena era molto nervosa e agitata per l’appuntamento di quel giorno e volevo aiutarla il più possibile, per quanto potevo. Voleva prepararsi con tutta calma, in modo da essere perfetta, anche se lo era sempre.
«Allora io vado», le dissi uscendo di casa. «Tu fammi sapere, va bene? ».
«Sì certo. Appena so qualche cosa ti chiamo. Poi stasera la vado a prendere io come al solito», mi rispose venendomi incontro e dandomi un bacio.
«In bocca al lupo mamma», le disse Viola dandole un bacio e abbracciandole le gambe.
«Crepi». Si chinò per ricambiare bacio e per scompigliarle i capelli. Viola si scostò facendo una smorfia e si mise a risistemarsi i capelli indispettita. Elena sorrise: di solito ero io quello che le faceva i dispetti, ma quella era una mattina speciale. Doveva essere un giorno da ricordare, ne ero certo. Purtroppo non sapevo quanto avevo ragione.
Una volta accompagnata Viola all’asilo, che era vicino a casa, andai al Meyer. Quando arrivai avevano già bisogno di me. Ebbi giusto il tempo d’infilarmi il camice.
«Oh per fortuna è arrivato dottor Cantini, la stavamo per chiamare», mi disse un’infermiera del reparto.
«Che cosa è successo?», sospirai.
«Andrea, quel bambino con l’appendicite, stanotte ha avuto una ricaduta. Adesso ha la febbre alta non riusciamo ad abbassargliela. E più che altro non vuole farsi fare la puntura: abbiamo provato di tutto. Ma mi sa che vuole solo lei».
«È nella quattro, giusto?». Mi diressi subito verso la stanza senza neanche aspettare la risposta. I genitori erano lì preoccupati accanto al suo letto.
«Dottore», si alzarono appena entrai.
«Buongiorno. Allora Andrea guardiamo un po’ cosa abbiamo fatto». Gli misurai la febbre con il termometro; era ancora alta: trentanove. Lo visitai per bene e poi lo guardai sorridendo.
«Mi sa che, come ti hanno già detto, dovrai farti una piccola punturina», gli dissi.
«Mm no! No», mugolò per protesta.
«Eh mi sa proprio di sì; ma che ne dici se chiamo l’altro dottore?».
«Il dottor Pagliaccio?», mi chiese facendomi un piccolo sorriso.
«Certo, vado subito». Uscii e andai a preparare la puntura di antibiotico. Una volta pronta, mi misi il naso rosso da clown e la parrucca. Anche quello faceva parte del mio lavoro: riuscire a far sorridere i bambini nonostante le loro condizioni. Era la parte che mi piaceva di più.
Tornai da lui, che mi aspettava ansioso. Far giocare i bambini spesso è la migliore medicina.
«Allora Andrea», gli dissi camuffando un po’ la voce. «L’altro dottore mi ha detto che tu devi farti un punturina».
«Sì ma io non voglio», piagnucolò.
«Ma dopo starai meglio! Comunque guardiamo se ti convince questo». Tirai fuori dalla tasca un palloncino e lo gonfiai. Ci feci una piccola spada e gliela passai. Aver fatto l’animatore per un paio d’estati mi era servito a qualcosa.
«Allora ti ha convinto?».
«Va bene. Però questa è l’ultima», mugugnò.
«Spero proprio di sì, non vorrai continuare a stare qui per molto? Ti dobbiamo dimettere prima o poi, non possiamo tenerti qui per sempre! E poi sono sicuro che non vedi l’ora di riabbracciare il tuo cane, come mi hai detto che si chiamava? ».
«Zeus». E sempre così parlando e scherzando riuscii a fargli l’iniezione.
«Grazie dottore», mi dissero i genitori quando uscimmo dalla stanza.
«Nulla, è un mio dovere».
«Se non ci fosse stato lei proprio non voleva saperne. Continuava a dimenarsi e a piangere», replicò la madre.
«Spesso con i bambini bisogna giocare, solo così collaborano». Dopo passai a fare il giro del reparto. Ogni tanto parlavo con qualche genitore preoccupato e lo rassicuravo.
Sembrava una giornata tranquilla, una di quelle dove pareva non sarebbe successo nulla di grave. Rispetto al caos del giorno prima sembrava proprio tutto un altro ospedale.
Erano le undici quando ricevetti la chiamata. Sentii il cellulare vibrarmi nella tasca del camice. Pensai subito che fosse Elena. Doveva aver appena finito l’appuntamento e di sicuro voleva dirmi che era andato tutto bene, che pubblicavano il suo romanzo. Ma quando lessi il numero sullo schermo capì che mi sbagliavo: era un numero sconosciuto.
«Pronto, chi parla?».
«È lei il signor Cantini?». Era la voce di un uomo, piuttosto profonda. Non avevo la minima idea di chi fosse o di cosa volesse. Forse era una delle tante pubblicità, eppure ebbi subito l’impressione che dovesse trattarsi di altro.
«Sì sono io», risposi titubante.
«C’è stato un brutto incidente sull’autostrada. un camion si è ribaltato». Mi sentii morire ancor prima che dicesse la frase fatidica. «Sua moglie è rimasta coinvolta». Sentii le gambe cedermi, e cercai appoggio alla parte del corridoio. Il mio primo pensiero fu che non potesse essere vero, che doveva trattarsi di uno scherzo. Ma chi mai poteva fare uno scherzo del genere?
Non potevo credere che Elena fosse stata coinvolta in un incidente. Era sempre così prudente quando guidava; non poteva essere stata travolta da un camion. Non era da Elena andare veloce, avrebbe frenato, avrebbe inchiodato.
«Pronto? È ancora lì?», uscii dall’altoparlante. Non mi ero accorto dello scorrere del tempo. Ma la cosa fondamentale in quel momento era sapere quali erano realmente le condizioni di Elena. Magari aveva solo qualche trauma, qualche osso rotto. Ma allora perché non mi aveva chiamato lei?
“Non ti fasciare la testa prima del tempo”, mi dissi. “Ci sarà sicuramente una spiegazione”.
«Elena come sta?», riuscii a chiedere in un sussurro.
«È stata travolta in pieno, la stiamo portando al pronto soccorso di Careggi». Iniziai a tremare: quello era un incubo. Il mio peggior incubo.
«Arrivo subito». Lentamente chiusi il telefono mentre l’uomo stava ancora parlando.
«Abbiamo avvertito anche i genitori di sua moglie».
Il mio respiro si fece affannoso, il sangue mi si raggelò nelle vene, le gambe mi tremarono così tanto che mi accovacciai a terra. La mia mente ancora si rifiutava di credere a quello che avevo sentito. Non poteva essere successo davvero. Vedrai che starà bene, quello era il mio mantra. Non volevo ammettere che Elena potesse essere stata vittima di un grave incidente e che potesse rischiare di perdere la vita. Non lei che era tutto per me.
«Dottore si sente bene? », mi chiese un’infermiera quando mi vide accovacciato in posizione fetale in mezzo al corridoio. Solo allora mi resi conto che dovevo correre.
«Devo andare. Fammi sostituire io devo andare».
«Ma dottore…». Mi tolsi il camice e glielo passai. Qualcosa nella mia espressione la convinse a non insistere. Mi diressi all’uscita il più in fretta possibile; corsi per quella poca distanza che separava quei due edifici ed entrai ancora con la testa annebbiata dentro il pronto soccorso.
«Roberto!», mi chiamò qualcuno vedendomi. Era mia suocera, sua madre. Intanto dei volontari stavano portando indietro una barella vuota. Le facce tese e sconsolate. Io non potevo minimamente pensare che su quella barella due minuti prima ci potesse essere stata Elena.
«Luciana, cosa è successo?».
«Un brutto incidente, a quanto ho capito», mi disse trattenendo a stento le lacrime. «Deve esserci stato un problema su un tir, il conducente ha perso il controllo e il camion si è ribaltato. Non ha potuto evitarlo».
«Oh Dio! Adesso dov’è? Come sta?». Quali erano le sue condizioni? Era grave? Era stabile? Che traumi aveva riportato? Avrei voluto farle tutte quelle domande ma la voce non mi usciva.
«L’hanno appena portata dentro, in sala operatoria, la sua condizione è grave, ma non so dirti di più». La mia testa cercò di elaborare quelle informazioni, ma non riuscivo a collegare quelle parole con la realtà.
«Ho appena parlato con dei poliziotti», intervenne mi suocero Renato avvicinandosi. «Sembra che il conducente del camion sia morto sul colpo. Ancora non hanno capito quale sia stato il vero motivo dell’incidente». Come poteva non essere chiaro? Doveva essere sicuramente ubriaco o qualcosa del genere. In quel momento non mi importava proprio del nulla del fatto che lui avesse perso la vita. Elena era sotto i ferri per colpa sua in quel momento, ed era molto più facile dare la colpa a qualcuno piuttosto che ammettere che poteva essere stata una tragedia, una semplice fatalità.
Mi sedetti su una poltroncina nella sala d’aspetto, e mi presi la testa tra le mani. Sembrava tutto così irreale: soltanto poche ore prima lei era raggiante, felice e soprattutto stava bene.
«Vedrai che andrà tutto bene», mi consolò Luciana, cercando di crederci lei per prima. Speravo ardentemente che avesse ragione. Io senza di Elena non sarei potuto sopravvivere. L’amavo troppo per stare senza di lei.
Dopo un po’ uscì un dottore e io mi precipitai a chiedergli informazioni.
«Mi scusi come sta la signora Cantini?», chiesi ad un medico che stava per entrare nella sala operatoria.
«La stiamo operando, le sue condizioni sono compromesse. Ha un trauma cranico, varie fratture, ma stiamo facendo tutto il possibile. Non posso dirle di più mi dispiace».
«Sono un medico anche io. Quanto gravi sono le sue condizioni, qual è la prognosi? E soprattutto ce la farà, vero?».
«Ancora non possiamo sbilanciarci e io non posso dirle altro. Ma adesso mi scusi devo andare». E così dicendo entrò dentro.
Tornai a sedere e aspettai inesorabilmente altre notizie. Intanto i nostri parenti erano cominciati ad arrivare: doveva averli avvertiti mia suocera. Ma io non volevo assolutamente parlare con nessuno. Volevo solo che i medici uscissero e mi dicessero che era andato tutto bene, che la mia Elena ce l’avrebbe fatta, che era fuori pericolo.
Il tempo sembrò scorrere inesorabile, le ore passavano e ancora non sapevamo nulla. Anche se ero un medico, mi veniva riservato lo stesso trattamento. Dovevo aspettare.
 All’improvviso mi ricordai di una questione fondamentale.
«Viola», sospirai. Elena doveva andarla a prenderla a scuola, cosa avrebbe pensato non vedendo arrivare nessuno? Ma ormai era già tardi.
«È andata a prenderla tua madre, l’ha portata a casa sua», mi rispose Renato. Era ovvio che loro avessero pensato a tutto. Per fortuna la mia piccolina era al sicuro e anche sicuramente ignara di tutto ciò che stava avvenendo.
Speravo con tutto il cuore di avere buone notizie, di sentire le fatidiche parole: “È fuori pericolo”. Ma non riuscivo a essere così positivo; avevo un brutto presentimento. Cercavo con tutte le forze di ignorarlo, ma quello restava sempre lì.
Ero un medico, e quando le notizie tardano ad arrivare significa che non hanno il coraggio di dartele. Come si fa ha dire a dei familiari che quella persona è morta?
Io non volevo pensare negativo, ma in quel momento mi sembrava tutto così irreale. Solo la sera prima ci eravamo ripromessi di non lasciarci mai e adesso?
E ciò che era ancora peggio era che non riuscivo a piangere: tutta l’ansia e la preoccupazione, miste al dolore, si erano accumulate dentro di me e non riuscivo a farle uscire. Se solo fossi scoppiato a piangere forse mi sarei sentito meglio.
Elena non poteva lasciarmi, non ora che avevamo tutti bisogno di lei. Io, Viola…
Ripensai ancora una volta all’accaduto. Elena doveva chiamarmi appena finito l’incontro. Perché non l’aveva fatto? Magari chiamandomi avrebbe perso tempo e non si sarebbe ritrovata di fronte a quel camion. Non sarebbe stata in fin di vita.
All’improvviso dopo ore di assoluto silenzio e calma, un medico uscì dalla sala operatoria. Il passo lento e deciso, un incedere sicuro ma tormentato; lo sguardo basso pieno di compassione. Sapevo benissimo cosa significava: portava brutte notizie. Non ebbi bisogno nemmeno di vedere lo scuotere della testa per capire.
«No!». Finalmente le lacrime iniziarono a rigarmi le guancie, ma non erano proprio una liberazione; mi opprimevano ancora di più. «No».
Mi presi la testa tra le mani cercando un’altra soluzione: ci doveva essere una via d’uscita a tutta quella storia. Era avvenuto tutto troppo in fretta, quella mattina quando l’avevo salutata stava bene e ora non potevo credere che non ci fosse più.
Sentii singhiozzare qualcuno accanto a me; ma nessuno poteva provare il dolore che mi stava distruggendo. Era impossibile che qualcuno stesse peggio di come stavo io. Elena era tutto: la donna della mia vita, la mia compagna; l’amore che provavo per lei era spropositato.
C’eravamo ripromessi di non lasciarci mai e adesso lei invece mi aveva lasciato solo. Se ne era andata portando via con sé ogni momento felice che io avevo vissuto con lei.
«Roberto, mi dispiace tanto». Qualcuno mi passò la mano sulle spalle, ma non mi importava di sapere chi fosse. Il dolore era troppo e io non ce la facevo a sopportarlo.
Ripensai alle ultime ore che avevamo trascorso insieme: dovevamo festeggiare quella sera, festeggiare il suo successo tutti e tre insieme. Ed ecco che la grande festa si era trasformata nel momento peggiore della mia vita.
«Roberto…». Margherita, la migliore amica di Elena, mi abbracciò. Anche lei stava piangendo. Appoggiai la fronte sulla sua spalla cercando un qualche conforto. I singhiozzi ebbero la meglio e insieme alle lacrime non mi lasciarono respirare.
Senti la mano di Pietro, suo marito e nonché mio amico da sempre, sfiorarmi la spalla in un vano tentativo di consolarmi. Ma io stavo troppo male, troppo male anche solo per affrontare razionalmente quella situazione.
Perché era successo proprio ad Elena? Io che avevo bisogno di lei come non mai. Era sempre stata lei la più forte, la più razionale, quella che si occupava di tutto. Io non ce l’avrei mai fatta da solo.
Che cosa dovevo fare? Cosa dovevo dire a Viola? Come potevo andare avanti, quando quella sera lei si era portata via il mio cuore? Era come se una parte di me, la principale, la più importante, il novantanove per cento, se ne fosse andata via per sempre e io non riuscivo più neanche a capire chi fossi e cosa diavolo ci stessi a fare lì.
Noi due eravamo inseparabili, fin da quando ci eravamo conosciuti, non potevo pensare che davanti avevo una vita che lei non aveva più. La mia Elena, il mio vero amore: non riuscivo ad accettare la cruda realtà. O meglio non volevo.
«Roberto dovremmo pensare al funerale», mi disse Renato dopo un po’. Era sempre fin troppo razionale mentre a me non fregava assolutamente nulla. Ma sapevo che anche lui nonostante il suo aspetto coerente stava male, era pur sempre sua figlia.
«Pensateci voi, io non voglio saperne nulla, io non ce la faccio». Tentai di calmarmi di prendere un poco di quella razionalità che lui mi stava offrendo, ma invano. Forse era meglio sfogarsi, non accumulare il dolore, magari liberandosi una persona riusciva a dimenticare prima. Ma io non avrei smesso di piangere tanto facilmente e tantomeno avrei dimenticato.
Sentivo di già la sua assenza, il suo corpo, il suo sorriso, la sua voce. Tutto…
«È meglio se andiamo a casa, invece di stare qui», mi disse Pietro appoggiandomi una mano sulla spalla.
«Io non ce la faccio a guidare, non ce la faccio». In quel momento non avrei potuto far niente, se non restare lì accovacciato a piangere e a cercare un modo di evadere da quella realtà straziante.
«Non ti preoccupare ti riaccompagno io. Tu dammi solo le chiavi della macchina e dimmi dove l’hai parcheggiata». Mi alzai a fatica e mi frugai in tasca per trovare le chiavi. Gliele passai asciugandomi gli occhi.
«Io rimango qui, tu vai. Voglio dare una mano se posso», gli disse Margherita.
«Sì, dopo torno anche io».
«Roberto», mi disse Luciana gemendo. «Viola?». Ecco l’unica parola in grado di farmi uscire da quella momentanea apatia. Cosa le avrei detto? Come potevo darle una notizia del genere?
«Non lo so, io proprio non lo so. Adesso lasciami andare, in qualche modo le parlerò». Come potevo passare quel fardello alla mia principessina? Era abbastanza da grande da riuscire a capire e ne sarebbe stata devastata.
Senza rendermene conto, perso come ero nei miei pensieri, mi ritrovai nella mia macchina, con Pietro alla guida.
«Portami a casa di mia madre», gli dissi guardando le strade buie di Firenze sfrecciarmi accanto.
«Sì va bene. Roberto io non so dirti quanto mi dispiace e lo so che sentirmelo dire non serve a nulla ma non so cosa altro potrei dire».
«Già non serve a nulla», ribattei. «Niente di ciò che dirai me la riporterà indietro, niente mi ridarà la mia Elena». Nel dire quelle parole lo sconforto si fece più pressante. Una voragine mi si aprì nel petto al posto del cuore. Non avevo più un cuore ormai, si era spento nel momento stesso in cui quello di Elena aveva smesso di battere.
«Io non posso ancora crederci», continuò. Sapevo che lo faceva per aiutarmi, ma era pressante e in quel momento per me parlare non era la soluzione.
«Nessuno poteva immaginare una cosa simile», concluse quando vide che io non avevo intenzione di intavolare un discorso. Dopo di che calò il  silenzio. Essendo il mio migliore amico mi conosceva, sapeva che ero solito chiudermi a riccio in me stesso. Aveva tentato di impedirmelo, ma non avrebbe insistito. Sapeva anche che stare solo con me stesso in quel momento era ciò che volevo.
Ci fermammo di fronte a casa di mia madre. Evitai di suonare, essendo già le dieci, Viola doveva essere appena andata a letto. Tirai fuori la mia copia delle chiavi ed entrai. Mia madre mi stava aspettando nel piccolo salottino.
«Allora?», ci chiese quando entrammo. Nessuno doveva averla avvertita.
Pietro scosse la testa e puntò lo sguardo a terra. Altre lacrime cominciarono a rigarmi le guance.
«Oh tesoro, vieni qua». Mia madre mi abbracciò forte in un vano tentativo di consolarmi.
«Viola?», le chiesi cercando di calmarmi. Dovevo concentrarmi solo su di lei in quel momento.
«Dorme, l’ho appena messa a letto». Il suo viso si fece ancora più cupo pensando alla sua nipotina.
«Vado a darle un bacio». Attraversai il corridoio che separava il salotto dalla cameretta, la mia vecchia stanza. La porta era chiusa e io l’aprii senza far rumore.
Viola dormiva tranquilla nel mio vecchio lettino. Mi avvicinai per vederla meglio, socchiudendomi la porta alle spalle. Il filo di luce che entrava dall’ingresso le illuminava il viso che era così simile a quello di Elena: gli stessi capelli, la stessa espressione di quando riposava beata.
Mi avvicinai a darle un bacio. Lei era ancora ignara di tutto quel disastro, non se lo sarebbe immaginato nemmeno. I suoi sogni erano ancora candidi e puri. Ancora quell’immensa nube nera che incombeva sulle nostre teste non la sfiorava nemmeno.
«Mamma…». Si rigirò nel sonno quando sentii le mie labbra sulla sua guancia.
«No amore». Non so come feci a non gemere e a camuffare la mia voce. Cercava Elena, il suo porto sicuro. Il mio porto sicuro.
«La mamma?», mi chiese aprendo gli occhi. mi guardò con quegli occhi così azzurri e così identici a quelli di sua madre,
«Non c’è tesoro, non c’è. Ma adesso dormi, domani dopo scuola ti spiego tutto». Uscii e chiusi la porta lasciando che lei si riaddormentasse.
«Domani portala a scuola poi nel pomeriggio le spiegherò ogni cosa», dissi a mia madre rientrando nel salotto.
«Sì, va bene. Ma tu come stai?». Le lancia un occhiataccia. Davvero me lo stava chiedendo?
«Come vuoi che stia?», risposi brusco. «Per favore lasciatemi solo».
«Io torno da Margherita», mi disse Pietro. «Per qualunque cosa conta pure su di me».
«Lo so». Uscì. Non mi resi nemmeno conto che lui in quel momento era a piedi e che avrebbe dovuto prendere l’autobus o un taxi per tornare a Careggi.
Mia madre fu più dura a convincersi. «Tesoro».
«Ti prego, mamma, lasciami da solo». Non volevo altro che essere lasciato in pace.
«Ma…». Il mio sguardo dovette farla cedere. Annuì e andò in camera in assoluto silenzio.

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Capitolo 4
*** 3. Inferno ***


Inferno
 
Così mi ritrovai nel cuore della notte seduto sul divano, con lo sguardo perso nel vuoto. Ero in quella posizione da quando mi avevano lasciato solo. Non riuscivo a dormire, non volevo dormire. Fissavo un punto indefinito nella stanza che era immersa nel buio.
Lo sguardo vacuo si bilanciava con la mia mente, che invece andava a mille. Troppi pensieri, troppi ricordi, troppi momenti passati con lei. Troppe domande a cui non sapevo dare una risposta, troppa rabbia e soprattutto troppo dolore.
Le lacrime avevano cessato di fluire ma la sofferenza era nettamente aumentata. Ora riuscivo a rendermi conto di tutto e non volevo affrontare la realtà. Non volevo pensare che quell’incubo fosse vero. Avrei preferito rifugiarmi in un mondo immaginario piuttosto che ammettere che la mia Elena non c’era più.
I ricordi e i momenti passati insieme mi facevano tramare: io sarei voluto scappare per sempre e nascondermi in quei momenti felici. Il giorno del nostro primo incontro alle superiori, il nostro primo appuntamento, il primo bacio, le gite che facevamo al mare quando il tempo era bello, saltando ore di lezione. La nostra prima notte d’amore e poi così via, fino al giorno del nostro matrimonio, la nostra luna di miele, il giorno in cui mi aveva detto che era incinta, la nascita di Viola.
Quelli erano i giorni in cui io ero stato veramente felice. Ma perché quella felicità doveva avere fine? Era chiedere troppo restare così per un altro po’ di tempo?
Elena: perché proprio lei? Domanda retorica e a cui nessuno poteva trovare risposta, perché non c’era una spiegazione plausibile. Come aveva potuto Dio portarmi via la cosa più bella del mondo? Esisteva davvero un Dio che era capace di strappare una giovane donna alla sua famiglia, a sua figlia? Come poteva permettere tutto quel dolore?
Lei non avrebbe mai potuto vedere crescere Viola, vederla prendere la sua strada; diventare prima ragazzina, poi adolescente e infine donna. Elena sarebbe dovuta essere lì con lei per aiutarla nelle sue scelte, per consigliarla, per ascoltarla. Avrebbe dovuto vederla innamorata, poi sposata e infine madre, proprio come ogni genitore desidera.
Non aveva avuto nemmeno il tempo di leggerle il suo ultimo romanzo. Era così entusiasta del suo libro, così emozionata. Era il suo primo libro autobiografico, aveva detto che parlava di noi. Ma ce l’avrei fatta a leggere qualcosa che mi descriveva dal suo punto di vista? Di sicuro non in quel momento e neanche nei giorni che dovevano venire; forse una volta ripreso.
Ma come potevo riprendermi se Elena era la mia vita? Io sarei voluto restare per sempre con lei, non volevo che la morte ci separasse. Io mi ero immaginato d’invecchiare insieme, di vedere i suoi capelli bianchi come i miei e di essere circondati da una grande famiglia, da tanti nipotini. Avevo sempre pensato che neanche la morte poteva dividere il nostro amore, che quando sarebbe arrivata ci avrebbe preso più o meno insieme ma soprattutto ad un età in cui l’avremmo incontrata e salutata entrambi con serenità. Invece mi sbagliavo perché io restavo lì e lei non c’era più.
Se non fosse stato per Viola l’avrei seguita a ruota, esattamente come Romeo con Giulietta. Ma la mia piccolina aveva bisogno di me. Ora avrei dovuto fargli da mamma oltre che da papà.
Altro problema: Viola era fin troppo intelligente e avrebbe capito tutto alla prima, sin dalla prima parola e sarebbe stata male. Ma come avrei fatto a consolarla, se non riuscivo a consolare nemmeno me stesso?
Mentre la mia testa era affollata di domande, di dubbi, di qualche rara risposta e soprattutto di dolore, il cielo cominciò a rischiararsi. Il sole cominciò ad albeggiare in quella tremenda notte di aprile. Il quindici aprile, data infame, data che aveva spezzato la mia vita per sempre, che mi aveva portato via il mio più grande amore. E anche se quel giorno era finito aveva lasciato fin troppi strascichi e conseguenze per passare inosservato.
Sentii mia madre alzarsi per prepararsi e poi andare a svegliare Viola, che doveva andare all’asilo. Era strano come il mondo potesse conservare abitudini normali nonostante tutto quello che era successo. Era strano anche solo pensare che la vita potesse continuare a scorrere, ad andare avanti come se nulla fosse. Il resto del mondo in quel momento si stava risvegliando e non si sarebbe nemmeno immaginato l’inferno in cui ero caduto e dove ero stato lentamente mandato a bruciare.
Ma era meglio così: era meglio far godere alla mia piccolina un’altra mattinata di tranquillità prima di trascinarla in quegli inferi che erano diventati la nostra vita.
«Buongiorno», mi disse mia madre entrando nel salotto per andare in cucina.
«’Giorno, ma non è per nulla buono».
«Non hai chiuso occhio, vero?». Non si aspettava una mia risposta. «Neanche io».
«Mamma come potrei mai dormire?», ribattei brusco.
«Lo so, lo so». Si sedette accanto a me sul divano. «Anche io quando tuo padre è morto un paio di anni fa…».
«Come puoi paragonare papà con Elena?», scattai, tremante di rabbia. «Lui non era vecchio, ma la sua vita l’aveva vissuta, non aveva una figlia da crescere, non aveva davanti ancora più anni di quelli che aveva vissuto». Non aveva una famiglia di cui occuparsi; io e mia sorella ormai eravamo grandi, mia madre se la cavava. Ma Elena, era lei che pensava a tutto.
«Scusa hai ragione. Vado a preparare la colazione, cosa vuoi da mangiare?». Mangiare… in quel momento sembrava un gesto assolutamente inutile. In quel contesto le normali azioni di vita quotidiana mi sembravano così insulse, così prive di senso. Perché sfamarsi? Non avevo toccato cibo dalla mattina precedente ma non ne sentivo il bisogno. Mi chiedevo anche perché il mio cuore in realtà continuasse ancora a battere anche se sapevo per certo che si era fermato quando il medico era uscito dalla sala operatoria.
«Non voglio nulla», risposi.
«Dovresti fare colazione, da quanto non tocchi cibo?», insistette.
«Non ha importanza; adesso non ho fame». Non volevo assolutamente niente. Né bere, né mangiare, né dormire.
«Sei sicuro di voler mandare a scuola Viola?», mi chiese dopo che aveva fatto colazione. Stava per andare a svegliarla.
«Sì stamattina sì. Trattieniti, dopo che è entrata, con le maestre. Spiega la situazione, dì loro che lei ancora non sa nulla. Io intanto sentirò a che punto sono Renato e Luciana. Potresti per favore anche chiamare in ospedale e spiegare tutto anche lì. Io proprio non me la sento di perdermi in vani chiarimenti. Digli che prendo una settimana di permesso, per riorganizzare un po’ tutto. Se fanno problemi manda tutti al diavolo».
«Sì, certo ci penso io. Allora vado a svegliare Viola». Fece per avviarsi.
«No vado io», la fermai. «Così dopo esco subito e vado da loro».
«Sei sicuro di farcela? Non vuoi che ti accompagni?».
«No ce la faccio». Mi diressi lentamente verso la cameretta. Sospirai a fondo per ricacciare indietro la rabbia e il dolore e per riuscire a fare buon viso a cattivo gioco. Non ero mai stato un granché a bluffare, ma sapevo che da quel momento avrei dovuto imparare. Entrai e andai ad aprire le persiane in modo da fare passare un po’ di luce. Viola si rigirò tra le coperte.
«Sveglia principessina», le dissi dandole un bacio.
«Papino», mugolò ancora tra il sonno.
«Sì sono io. Devi andare all’asilo; preparati che la nonna ti accompagna. Io devo uscire, ma poi stasera ti vengo a prendere insieme a lei, va bene?».
«Sì va bene». Non so se capì che forse era meglio non toccare il tasto della mamma, o se era solo ancora troppo addormentata, per accorgersi della mancanza di Elena nei nostri programmi futuri.
«Dammi un bacio prima». Mi abbracciò e mi diede un bacio sulla guancia. Io mi rifugiai in quell’abbraccio e sospirai pesantemente con la testa tra i suoi capelli.
«Su adesso vai a fare colazione, ci vediamo dopo. Ciao mia piccola stellina».
 
Passai la mattinata a parlare del – anche solo pronunciare la parola mi costa tuttora un certo sforzo – funerale. Dei fiori, della lapide, della cerimonia. Mio suocero aveva organizzato più o meno tutto, però dovevo dare varie disposizioni. Mi domandavano cose che in quel momento mi sembravano inutili e senza senso. Io ed Elena non avevamo mai seriamente parlato di come gestire la situazione nel caso della dipartita dell’altro. Sembrava superfluo parlarne quando entrambi eravamo così giovani.
Sapevo che Elena avrebbe voluto donare gli organi, ma l’incidente aveva compromesso la funzionalità della maggior parte. L’impatto doveva essere stato violentissimo, e lei era rimasta schiacciata. Non potevo nemmeno accontentarla in quel suo ultimo desiderio.
Lasciai alcune disposizioni generali e poi dovetti andare a casa: dovevo prendere alcune foto per il funerale e per la tomba.
Non riuscii neanche a prendere le chiavi e a infilarle nella toppa. C’erano già troppi ricordi di fronte a quel nostro portone. Fermo di fronte al vialetto con la macchina già mi sentivo sprofondare. Non ce la facevo a riaffrontare la nostra casa da solo. Quello che era stato il mio nido felice da quel momento in poi non lo sarebbe più stato. Sarebbe diventato il mio inferno personale.
Ritornai a casa di mia madre, presi le cose di Viola e le misi in macchina. Dopo aspettai inesorabilmente che l’ore di asilo terminassero ripensando e rimuginando inutilmente alle parole e alle frasi che avrei usato per comunicare quella ferale notizia a mia figlia. Come fare a dire a  una bambina di sei anni che non rivedrà più la mamma? Come potevo essere io a far scomparire quel velo di spensieratezza che Viola aveva avuto di fronte agli occhi fino a quel momento?
Quando finalmente le ore si decisero a passare andai a prenderla a scuola con mia madre.
«Nonna! Papà!», gridò vedendoci e correndoci incontro.
«Ciao piccola». Mi chinai per abbracciarla e stringerla forte al mio petto. Le presi lo zainetto e lo misi in macchina.
Lei fece per salirci sopra, ma la fermai. Era giunto il momento d’informarla, non sapevo come avrei fatto, ma doveva sapere.
«No, andiamo a fare una passeggiata, che ne dici?». La presi per mano e la guidai nei giardinetti di fronte alla scuola. Cercai un posto appartato ma era pieno di bambini e di genitori fin troppo allegri.
Alla fine le comprai un gelato e ci andammo a sedere su una panchina un po’ più in disparte rispetto al resto. “Un posto tranquillo dove rovinarle la vita per sempre” pensai.
Adesso da dove cominciare? Cosa dirle prima di tutto? Tutti i discorsi e le frasi che avevo provato e riprovato nella mia mente, in quel momento mi sembravano sciocchi, inadeguati e stupidi. Non erano appropriati alla situazione, non erano adatti a Viola, non erano da me. In realtà nessuno, soprattutto un bambino, avrebbe dovuto ascoltare quei discorsi e nessun genitore avrebbe dovuto farli.
«Posso andare sull’altalena?», mi chiese mentre mangiava il suo cono.
«Sì, certo. Però prima finisci il gelato». Dovevo trovare le parole per iniziare a torturarla. Ma era così allegra, spensierata e pura. Avrei dovuto macchiare la sua innocenza per sempre.
Sospirai e appoggiai la fronte sulle mani, chinandomi a guardarmi i piedi in un tentativo di non piangere di nuovo. Viola sembrò accorgersene.
«Papà che hai fatto?», mi chiese con quella sua vocina dolce.
«Niente, tesoro, niente». Si accorse subito della mia bugia.
«Nonna?». Guardò mia madre, ma anche lei era pallida quanto me. Sembrò ricollegare tutto, nonostante la sua minima età. Era perspicace come sua madre.
«Dov’è la mamma?», ci chiese preoccupata. Ecco la fatidica domanda.
«Vieni qua piccola mia». La presi in collo pulendole la bocca con un fazzolettino visto che aveva finito di mangiare.
«Dov’è la mamma? », ripeté, senza farsi distrarre dal mio gesto.
«La… la mamma è andata via», balbettai.
«Dove è andata?», mi domandò cominciando a capire.
«È andata in un posto molto ma molto lontano». Sentii le lacrime salirmi agli occhi ma in uno sforzo tremendo riuscii a ricacciarle indietro, esattamente come il magone che mi si era formato in gola. Dovevo essere forte.
«E quando torna? ». Mi osservò preoccupata. Il suo sguardo valeva più di mille parole; sembrava dire “tornerà vero?”.
«Non tornerà amore». I suoi occhioni azzurri si persero nei miei con un’intensità profonda. Le sue folte ciglia nere cominciarono a bagnarsi delle prime lacrime, goccioloni che le rigarono le guance rosee.
«Non piangere piccola mia», le dissi tradendomi a mia volta.
«La mamma è andata in cielo, tesoro. Non c’è più», mi aiutò mia madre.
«Perché? Perché non mi ha portato con sé? Voglio andare anch’io con la mamma».
«Non si può tesoro, non sai quanto vorrei andarci anch’io. Ma noi due dobbiamo restare qui, non possiamo andare con lei».
«Perché? Adesso dov’è? Io voglio la mia mamma», gemette. Me la strinsi al petto e lasciai che le sue lacrime mi inondassero la camicia, mentre le mie le bagnavano la maglia. I suoi singhiozzi divennero anche i miei e ci ritrovammo così, abbracciati a piangere la scomparsa della nostra Elena.
«Non devi essere triste, però», continuò mia madre. «Devi pensare che la mamma e lassù e che ti guarda e ti protegge».
«Ma io voglio che lei stia qui con me», protestò.
«La mamma starà sempre con te», le dissi accarezzandole la testa. «Basta che guardi nel tuo cuoricino per trovarla».
Restammo un altro po’ lì cercando di calmarci e di consolarci a vicenda. Viola nonostante che fosse inconsolabile, sembrava aver capito anche quanto io stessi male. I bambini sono belli proprio per questo, sono così innocenti e riescono a capire alla prima quando una persona sta male e quando quindi è il tempo di smetterla di fare domande.
«Andiamo a casa», le dissi alzandomi e tenendola sempre in collo. L’abbraccio di Viola era l’unica consolazione che riuscivo a trovare in quel momento. La mia bambina era l’unica cosa che potesse spronarmi ad andare avanti.
Ci riavviammo lentamente verso la macchina. Viola teneva la faccia sulla mia spalla e mi teneva stretto. Io le riempivo la testa di baci, tenendola avvinghiata al mio petto. Sentivo la sua disperazione e non sapevo minimamente come fare ad alleviare il suo dolore, quel dolore che era anche il mio e che sembrava aumentare minuto dopo minuto.
«Nonna riaccompagnaci a casa nostra», dissi a mia madre, porgendole le chiavi e salendo dalla parte del passeggero, con Viola attaccata al mio petto. Non me la sentivo proprio di staccarmi da quell’abbraccio per mettermi a guidare.
In meno di dieci minuti arrivammo di fronte al nostro portone, e questa volta non c’erano più scuse per non entrare nel nostro vecchio nido felice. Non ero più solo e dovevo, anzi dovevamo affrontare quella casa.
«Mamma, vai pure adesso me la cavo da solo», le dissi una volta sceso. Aveva lasciato la sua macchina là in modo da poter poi tornare a casa sua, una volta sistemati.
Adesso sentivo il bisogno di restare solo con mia figlia, nella nostra casetta, solo io e lei; nessun altro di mezzo. Soli come saremmo stati da quel momento.
«Sei sicuro? Non vuoi che vi cucini qualcosa?», mi chiese accarezzandomi un braccio.
«No, va, ti prego», la pregai. Mi misi lo zaino in spalla e, sempre tenendo Viola, presi le chiavi e aprii la porta. Me la richiusi alle spalle senza neanche aspettare che mia madre fosse andata via.
Ad una prima occhiata capii che era molto peggio di quanto mi aspettassi. Tutto mi ricordava Elena: non c’era un millimetro di quella casa che non me la ricordasse, che non mi rammentasse perlomeno un momento felice, che non mi facesse immaginare la sua figura perfetta. Era il nostro nido d’amore ed era stata proprio lei a farlo diventare come era in quel momento.
Appoggiai Viola su una poltrona e andai a posare il suo zaino nella cameretta.
Quando tornai, lei era lì che si stringeva le ginocchia al petto e piangeva a dirotto. Era indifesa e disperata: quell’immagine mi ferì più di mille pugnali.
«Tesoro mio», le dissi chinandomi per essere al suo pari. «Non fare così ti prego, ci sono ancora io che ti voglio un mondo di bene». Per sua risposta altri singhiozzi.
«Sai che facciamo adesso? Ordiniamo la pizza, ti piace tanto la pizza».
«Non la voglio, non ho fame».
«No, amore mio. Tu devi mangiare e poi tanto so come la vuoi». Mi lanciò uno sguardo pieno di dolore che mi pregava di non insistere.
«Tesoro passerà anche questa, te lo prometto». Speravo davvero che potessi avere ragione. Ma la mia promessa non valeva proprio nulla perché in quel momento mi sembrava proprio impossibile uscirne.
«Domani non andiamo a scuola», la incoraggiai. «E nemmeno i giorni successivi se non vuoi. Prenditi tutto il tempo di cui hai bisogno. Facciamo tutto quello che ti senti di fare, va bene?». Il giorno dopo ci sarebbe stato il funerale e non volevo minimamente pensare a come sarebbe stato. Poi però avrei fatto di tutto pur di far smettere la mia principessina di piangere.
«Non mi importa, non voglio fare nulla», gemette.
«Come non vuoi fare nulla? Dai scommetto che se ci pensi bene qualcosa ti viene in mente».
«No io voglio la mamma. Voglio solo stare con la mamma». Sospirai cercando le parole adatte.
«Non si può tesoro, lo vorrei tanto anch’io. Ma la mamma non c’è più». Le mie lacrime cominciarono di nuovo a scendere senza che potessi riuscire a fermarle.
«Non è giusto».
«Lo so piccola. La mamma non avrebbe voluto lasciarci e non avrebbe neanche voluto che fossimo tristi. Quindi cerchiamo di resistere. Da ora in poi ci sarò io che mi prenderò cura di te, farò tutto quello che faceva la mamma. Tutto quello che vorrai. Va bene?».
«Sì». Tacque cercando di asciugarsi le lacrime. Mi guardò e poi sembrò riflettere per un momento.
«Mi prometti che tu non mi lascerai papà?», esordì infine.
«Certo. Senza di te non vado da nessuna parte, te lo giuro». L’abbracciai forte e la cullai finché non riuscii a calmarla un poco.
Dopo un po’ ordinammo la pizza e a fatica arrivai a fargliela mangiare tutta, dandole il buon esempio. La casa ci ricordava troppo Elena e nessuno dei due sapeva come fare. Il silenzio che si era creato era opprimente. Ma neanche Viola voleva parlare: non c’erano parole per esprimere come ci sentivamo.
Dopo mangiato la misi a letto: la aiutai a spogliarsi, a lavarsi e ad infilarsi il pigiamino.
«Posso dormire con te?», mi chiese mentre uscivamo dal bagno. Il suo sguardo era più implorante che mai. In quel momento non le avrei rifiutato niente, soprattutto una cosa così semplice come quella. In effetti era proprio quello che volevo anche io: non sapevo se sarei stato capace di affrontare la nostra camera da letto da solo.
«Certo, puoi dormire con me tutte le volte che vuoi d’ora in avanti». La portai in camera e la feci sdraiare nel lettone, che come avevo immaginato in quel momento sembrava troppo grande. Quante notti avevamo passato lì insieme, avvinghiati l’uno all’altra: quanti baci, quante carezze, quanto ore di passione e d’amore, quanti ricordi e ancora altro dolore.
Cercai inutilmente di farla addormentare, ma anche lei doveva avere la testa affollata di pensieri. Sarei voluto entrare nella sua testolina per riuscire a capirla meglio.
Poi dopo un’ora in cui avevo tentato di tutto, dalle fiabe alle ninnananne, si addormentò e scivolò in un sonno profondo. La osservai per un tempo indefinito pensando a quanto fosse simile alla madre fino a quando il suo respiro pesante cullò anche me. La stanchezza prese il sopravvento sul resto e le mie palpebre si chiusero facendomi abbandonare quella terribile realtà.

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Capitolo 5
*** 4. Soltanto un sogno ***


Soltanto un sogno
 
«Robbie… Robbie…». Qualcuno mi chiamò scuotendomi e ridestandomi. C’era una sola persona che mi chiamava in quel modo. Era la voce e il richiamo più dolce e invitante del mondo.
Aprii immediatamente gli occhi e lei era lì, accanto a me, bella come non mai. La sua figura perfetta era seduta al mio fianco, esattamente come lo era stata sempre ogni giorno che avevamo passato insieme.
«Elena! Amore mio», mi scaraventai letteralmente su di lei riempiendola di baci. «Oh Elena». Mi sembrava impossibile: era assurdo. Sentii la felicità rinascere da ogni cellula del mio corpo, il mio cuore ricominciare a battere e palpitare emozionato.
«Amore», mi disse ricambiando i miei baci. Nel suo tono c’era un che di rimprovero
«Tesoro ho fatto un sogno bruttissimo, tu non c’eri più, avevi avuto un incidente. Era un incubo terribile, io stavo malissimo e…». Era quella l’unica spiegazione plausibile. Avevo sognato tutto, non era successo niente. In quel momento non riuscivo neanche a respirare dalla felicità. Non mi capacitavo che potesse essere stato tutto solo un brutto e terribile incubo.
«Robbie non era un sogno», mi interruppe accarezzandomi una guancia.
«Cosa?». La guardai perplesso mettendomi a sedere. Se non avevo sognato tutto allora, non era scientificamente possibile che lei fosse lì con me.
«È successo tutto veramente». Pronunciò quelle parole seriamente scandendo ogni sillaba e lanciandomi uno sguardo triste e compassionevole.
«No, amore, tu sei qui, ti vedo, ti tocco». Le passai le dita tra i capelli e le sfiorai una guancia. «Mi senti? Perché io ti sento e tu sei qui a casa nostra».
«Guarda meglio tesoro mio», ribatté. Mi guardai attorno: i mobili erano identici alla nostra camera da letto ma erano tutti bianchi; ogni cosa era bianco, candido come la neve. Ovviamente non eravamo a casa, sembrava una specie di limbo immacolato con le fattezze di camera nostra.
«Dove siamo?», le chiesi non capendo.
«Non riesci proprio a immaginarlo?». Il mio corpo stava iniziando a capire: si trattava solamente di una illusione. All’inizio avevo pensato di aver fatto semplicemente un incubo, invece era in quell’istante che stavo facendo un magnifico sogno.
Lei era lì accanto a me ed era la visione più magnifica che avessi mai visto. Indossava un abito blu, che le ricadeva sinuoso sul corpo perfetto; aveva il braccio pieno di bracciali, come piaceva a lei. Gli occhi azzurri, come lapislazzuli, lampeggiavano nei miei e i capelli, lunghi, lisci, con lo stesso colore del grano illuminato dal sole a mezzogiorno, le ricadevano sulla schiena con una precisione unica. Era la mia Elena più bella e perfetta che mai. Era la meravigliosa donna che avevo sempre amato e che avrei amato per sempre.
«Non mi interessa sapere dove ci troviamo», risposi. «Ma so che tu sei qui accanto a me e che non ti lascerò più andare via, ora che sei tornata da me».
«È proprio qui che ti sbagli», mi corresse alzandosi. «Io non sono tornata». Riflettei un attimo sulle sue parole. Se era un sogno come era possibile che fosse tutto così assurdamente tangibile? La stringevo, la toccavo, la baciavo. Doveva essere la fantasia più reale che avessi mai avuto.
«Ma tu devi essere reale. Come potrei fare questo se no? ». Mi alzai e la raggiunsi, prendendola tra le braccia. Strinsi il suo corpo al mio e la sentii sospirare profondamente.
«No, non lo sono», replicò con voce seria. «Sono solo frutto della tua immaginazione. Questo è solo un sogno». Ed era il più bello dei sogni che potessi fare. Il mio cervello non poteva creare di meglio. D’altra parte era ovvio che una volta caduto in braccio a Morfeo, il mio inconscio avrebbe fatto di tutto per evadere dal mio nuovo inferno.
«Io desidero solo di stare con te per sempre», ammisi. Era sempre stato così fin dal giorno in cui l’avevo conosciuta e lei lo sapeva.
«Già esatto! Il tuo inconscio ti sta dando un modo per incontrarmi, per farmi vivere ancora con te. Ma ricordati che niente di ciò che sta accadendo ora è paragonabile alla realtà». Non era esatto: sicuramente quel momento, anche se solo frutto della mia immaginazione, era meglio di tutto quello che stavo vivendo da quando il suo cuore aveva smesso di battere.
Elena era solo un mio sogno, ma era così stranamente e inspiegabilmente reale. Mi sarei aspettato almeno qualche stranezza o qualche incoerenza, come accadeva sempre quando sognavo. Invece lei era quella che ricordavo. Aveva lo stesso profumo, quello che metteva tutti i giorni, la stessa voce dolce e sensuale, gli stessi atteggiamenti. Era lei come quando era viva esattamente identica.
«Così adesso ti sei specializzata in psicologia?», scherzai. Riuscii a strapparle un sorriso, uno di quelli da mozzare il fiato.
«Angelo mio», le sussurrai stringendola di più tra le braccia. D’improvviso le lacrime cominciarono, per l’ennesima volta in quei giorni, a uscire libere come per dare sfogo a tutto il dolore che mi opprimeva. Se era solo un sogno presto sarebbe finito e non volevo lasciarla, non volevo restare di nuovo solo. Avevo ancora bisogno di lei: io non ero pronto per un addio. Non ero pronto nemmeno per un semplice “a presto”.
«Robbie». Le sue labbra annullarono quella poca distanza tra i nostri volti e diedero vita a un dolce bacio. Un bacio: la cosa più bella del mondo, ma anche la più indescrivibile. Sarebbe inutile perdere tempo a paragonare quel bacio a qualcosa di più semplice o anche il solo cercare di esprimerlo a parole. Era unico, era straordinario, era nostro.
Passarono i minuti e, mentre tra di noi era calato il silenzio, erano le nostre bocche a parlare. Elena mi asciugava le lacrime dagli occhi a ogni bacio mentre io le accarezzavo il viso e le passavo le dita nei capelli. Avrei passato ore con lei senza dire una parola, perché non c’era bisogno di voci e di frasi. I nostri cuori erano così legati che riuscivamo quasi a sentire i pensieri l’uno dell’altra.
«Ti amo», mi disse.
«Ti amo tanto. Non lasciarmi di nuovo». Era una richiesta stupida: era un mio sogno e prima o poi mi sarei svegliato. Ma era l’unica cosa che desideravo veramente. Restare per sempre lì vicino a lei, in quell’assurda fantasia, sarebbe stata la mia unica aspirazione.
«Amore mio, io starei per sempre con te…», iniziò.
«C’è un ma, giusto?». Sapevo che non poteva essere finita lì.
«Ma non posso. Se dipendesse da me, non ti lascerei mai, non avrei mai lasciato Viola». Questa volta furono le sue lacrime calde a bagnarmi le dita. «Credi che davvero avessi voluto questo per noi?».
«No, certo che no. Solo che è così ingiusto».
«Lo so». Appoggiò la fronte alla mia cercando di calmarsi.
Le parole mi salirono tutte insieme alla gola affrettandosi per uscire. «Ma non ce la faccio ad andare avanti senza di te. Io mi sento morire; non ho più un cuore, non ho più niente se tu non sei con me. Che cosa devo fare? Con Viola, con tutto il resto, io non ne ho idea. Mi sento perso senza di te. Lo so che chiederti di tornare è da stupidi: tu sei solo una bellissima illusione. Ma ti prego torna da me».
«Se potessi tornerei all’istante. Lo sai, vero? ». Annuii sospirando. «Ma la resurrezione non è una mia prerogativa».
«Come siamo potuti arrivare a questo punto? Dovevamo vivere per sempre insieme. Non ci eravamo promessi questo quando ci siamo sposati. Nella gioia e nel dolore, in salute e in malattia…>>. Mi fermai. Mi ero accorto di essermi tradito con il mio stesso esempio.
«Appunto. Finché morte non ci separi», concluse al mio posto.
«Non ero pronto. Non lo sono ora e non lo sarò mai», affermai. «Spiegami che senso ha? Tu sei così giovane».
«Ero», mi corresse.
«Perché è successo tutto questo?». Non c’era risposta alla mia domanda. Mi lanciò uno sguardo triste e mi passo una mano sulla guancia.
«Non lo so il perché. Forse il destino, il fato. Non possiamo farci nulla e tu lo sai benissimo. Non si può tornare indietro. Ma Robbie devi vivere senza di me, tesoro. Devi affrontare tutto questo, e credimi capisco quanto sia difficile ma non sei solo. Non lo sei mai stato e mai lo sarai».
«Invece sì. È come mi sento io da quando mi hanno telefonato per dirmi che avevi avuto un incidente». Da quando avevo visto i paramedici portare indietro la barella vuota, era come se una parte di me si fosse persa per sempre
«E la nostra piccola Viola. Dove la metti?». Non sapevo cosa risponderle. In quel momento non riuscivo nemmeno a pensare a me stesso. Come potevo occuparmi di lei? Elena aveva ragione io dovevo essere forte per la mia piccola. Ma un conto era affermarlo a parole, un altro metterlo realmente in pratica.
«Ricordi? Glielo hai promesso», mi disse dopo qualche minuto di silenzio, in cui mi aveva lasciato solo con i miei pensieri. «Le hai giurato che non te ne saresti mai andato senza di lei».
«E tu come fai a saperlo?». La guardai perplesso.
«Da quassù vedo molte cose. Be’ diciamo che veglio su di voi. Sarò per sempre il vostro angelo custode». Riuscii a farle un piccolo sorriso appena accennato. Assomigliava proprio ad un angelo.
«Non potevi essere semplicemente mia moglie e sua madre?».
«Non sai quanto avrei voluto esserlo ancora». Sentii tutta la tristezza che si era accumulata in quella frase. Lei non se ne era voluta andare, l’avevano semplicemente portata via. E non aveva avuto la forza di opporsi.
«Mi manchi», le sussurrai stringendole la mano più forte. Erano solo due parole ma descrivevano perfettamente tutto quello che mi si agitava dentro.
«Mi manchi anche tu». Un nuovo bacio, più dolce, più inteso e anche più doloroso. Perché ormai sapevo con certezza che il tempo rimasto era poco e presto mi sarei svegliato. Niente avrebbe potuto riportare la mia vera Elena alla realtà.
«Viola è distrutta e io non so come consolarla», le confidai. «Come posso consolarla se non riesco a consolare nemmeno me stesso?».
«Lo so».
«Già mi dimenticavo che da dove sei ora, tu vedi tutto. Sei informata in tempo reale». Accennò un piccolo sorriso.
«Ma io non so tutto», continuai. «Per esempio, non so come reagirò domani, quando vedrò il tuo corpo immobile nella bara, non so come farò a tornare a lavorare, a riprendere le vecchie abitudini. Mi sembra del tutto impossibile. E poi perché diavolo tu non mi hai chiamato dopo il colloquio? Perché non hai fatto quella maledetta telefonata? Me l’avevi promesso e magari adesso saresti ancora viva».
«A volte il destino gioca brutti scherzi», replicò. «Se non mi fossi trovata davanti una macchina che andava a due all’ora, non sarei stata sulla corsia di sorpasso. E poi è stato tutto così improvviso. Il rumore, l’urto, lo schianto». Lasciai che continuasse, intrecciando come segno di conforto le mie dita alle sue.
«Ho visto il camion troppo tardi. Non so cosa sia successo, non lo voglio venire a sapere. Però ho saputo che la macchina dietro di me ne è uscita illesa. C’erano dei bambini; non si sono fatti nulla». Ed eccola lì: la persona più altruista del mondo. Lei era morta e pensava a dei bambini illesi.   
La sua anima era candida e pura. Se il paradiso esisteva, lei doveva esserci sicuramente. Riusciva a trovare un senso positivo anche alla sua stessa morte. Era buona e questo mi fece ancora di più imbestialire. Non ce l’avevo con lei, ma con il mondo, con Dio. Perché prendersi una persona così, e magari salvare la vita a qualcuno con un animo malvagio?
«Ma insomma, non hai risposto ancora alla mia domanda», le chiesi cercando di calmarmi e di non farle vedere la mia collera. «Perché non mi hai chiamato appena avevi finito?».
«Perché volevo farti una sorpresa. Volevo passare a prendere Viola all’asilo e poi venire da te. Vogliono pubblicare il mio romanzo anche in Francia». Era una bella notizia e mi ricordai che quella sera avremmo dovuto festeggiare. Altro che festa…
«La sorpresa me l’hai fatta, stai tranquilla», scherzai amaramente. Era di sicuro stata la cosa più inaspettata che fosse successa in vita mia.
«Mi dispiace, mi dispiace tanto». Ma non era colpa sua se un camion l’aveva uccisa; non era neanche colpa sua se c’era stato un incidente e se poi in quella sala operatoria il suo cuore aveva smesso di battere per sempre.
«Non sei stata tu. Lo so», le dissi accarezzandole la guancia.
«Amore mio, non sai quanto darei per poter tornare indietro. Non sai quanto vorrei averti chiamato, quanto vorrei aver preso un’altra strada. Vorrei aver fatto la strada normale, invece ho preso l’autostrada per fare prima».
«E tu non sai quanto vorrei che tutto questo fosse vero». Volevo che lei fosse lì, con me, mani nelle mani, il suo sguardo incatenato al mio, la sua bocca vicina alla mia.
«Ricordati, amore mio, che ti ho sempre amato e che ti amerò sempre». La sua voce era un sussurro. La tristezza incombeva nel suo sguardo a ogni parola.
«Te ne devi andare?», le chiesi. In qualche modo sapevo già che era così.
«Sì, tra poco ti sveglierai».
«Non voglio svegliarmi e tornare alla realtà», ammisi.
«Ne abbiamo già parlato: pensa a Viola». Era razionale, ma in quel momento io mi rifiutavo di esserlo altrettanto.
«Se solo potessi promettermi una cosa», azzardai.
«Cosa?». Mi guardò perplessa, non sapendo se doveva o meno prepararsi al peggio.
«Promettimi che questa non sarà l’ultima volta che ti sogno». Se non potevo vivere con lei, almeno avrei potuto passare i miei sogni con lei.
«Non lo sarà, finché mi vorrai io sarò qui», promise.
«Io ti vorrò sempre. Promettimi che domani notte quando mi riaddormenterò tu sarai con me. Cioè non so se è una cosa che dipende da te o da me».
«Certo che dipende da te».
«Be’ allora se dipende da me io voglio sognarti ogni notte. Ma tu ti farai trovare vero?».
«Se è quello che vuoi, allora sarà così. Mi troverai qui quando ti addormenterai».
«Promettilo».
«Te lo prometto: sarò nei tuoi sogni ogni notte finché questo sarà il meglio per te, e fino a quando non sarai tu a dirmi di andare via».
«Lo sai che io non vorrò altro che te per sempre». Lei mi lanciò il suo sorriso più dolce.
«Ti amo Robbie, ma verrà un giorno in cui dovrai lasciarmi andare. Ci sarà un momento in cui io sarò costretta a dividerti con qualcun’altra e allora sarai tu a dirmi addio». Le erano salite le lacrime agli occhi, che erano diventati ancora più azzurri del solito.
«Non arriverà mai quel giorno», ribattei. «Io amo solo te angelo mio».
«Per adesso», ribatté.
«Per sempre». Non potevo nemmeno minimamente pensare alle altre donne. L’amore che provavo per lei invadeva ogni fibra del mio corpo. Non sarebbe svanito, di questo ero certo
Le sfiorai la guancia con le dita e la strinsi di più al mio petto, ammirandola un’ultima volta prima che quel sogno si spezzasse. Volevo imprimere nella mia mente quella visione perfetta, in modo da poterla immaginare durante il giorno e da poter sopportare meglio le ore che mi separavano dal poterla rivedere.
«Papà!». La voce di Viola mi richiamò alla realtà.
«Vai, tesoro, nostra figlia ha bisogno di te», mi disse Elena. Lentamente tutta la stanza incominciò a dissolversi: i contorni si fecero sfumati e le tonalità sempre più chiare. Elena stava quasi per svanire.
«Aspetta!», le dissi. «Un ultimo bacio». Avvicinai le mie labbra alle sue e la baciai; chiusi gli occhi e mi persi in quell’ultimo ricordo di lei.
Quando li riaprii le tenebre mi avvolsero. Ero nella nostra camera, ma quella di sempre, quella buia, quella reale.
«Papà!». Viola piangeva al mio fianco, mentre cercava di svegliarmi.
«Che c’è amore?», le chiesi sedendomi e prendendola in braccio. Si tuffò a piangere sul mio petto stringendo la mia maglia con il piccolo pugno della mano.
«Hai fatto un brutto sogno?». Scosse la testa tra i singhiozzi.
«E allora? Ssh, comunque adesso va tutto bene, ci sono io. Niente può più farti del male, non permetterò a nessuno di toccarti».
«Non è vero», protestò.
«Tesoro ti proteggo io adesso, non ti devi più preoccupare». Sembrò calmarsi anche se solo un pochino. Era scossa, scombussolata, impaurita ed indifesa. Sentii in quel momento più che mai che avrei voluto proteggerla da tutto il male che c’era nel mondo per non farla più soffrire. Avrei voluto, ma non avevo potuto impedire che il male e il dolore scalfissero di già la sua piccola anima.
Io stavo male, ma sicuramente potevo affrontarlo. Ero un uomo adulto. Invece Viola era solo una bambina. Lei non poteva farcela da sola, aveva bisogno di me. Elena aveva ragione.
«Ho sognato che eravamo tutti e tre al parco giochi», mi disse piagnucolando. Era stata la differenza tra il sogno e la realtà a spaventarla.
L’abbracciai più forte, stringendola tra le mie braccia. «Mi manca tanto la mamma», gemette.
«Manca tanto anche a me», la consolai. «Ma dobbiamo essere forti, pensa che lei ci guarda da lassù e che vede tutto quello che facciamo. E sicuramente non vorrebbe vederti triste. Adesso cerca di dormire un altro po’ è ancora presto». Erano le cinque e mezzo, poteva dormire ancora un paio d’ore. Poi dovevamo affrontare una brutta mattinata: il funerale. Se era stato un inferno il giorno appena passato, quello che stava per arrivare sarebbe stato molto peggio.
Cullai Viola tra le mie braccia cantandole una ninnananna. Di solito era Elena che gliele cantava. Io non ero molto intonato.
«Questa canzone era della mamma», sussurrò.
«Preferisci che non la canti?». Forse la turbava sentire quelle canzoni che le aveva sempre intonato Elena. Non ci avevo pensato e mi sentii ancora più stupido e incapace.
«Non lo so. Forse è meglio su tu non la canti. Voglio ricordare la mamma mentre lo faceva». Iniziò di nuovo a piangere, questa volta più lentamente. La lasciai sfogare, restando in assoluto silenzio. Quelle lacrime davano sfogo al suo dolore. Conoscendola e conoscendo me stesso, era evidente che non voleva essere consolata; ma io dovevo essere la spalla su cui poteva piangere.
Lentamente, riuscì a calmarsi e poi si riaddormentò. Io invece non riuscii più a chiudere occhio, ripensando a tutto ciò che avevo sognato e che non volevo di certo dimenticare.

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Capitolo 6
*** 5. Il funerale ***


Il funerale
 
La mattina mi alzai lentamente e mi preparai. Non potevo pensare che da lì a poche ore si sarebbe svolto il funerale della mia Elena, perlomeno non dopo quello che avevo provato quella notte. Era sembrato tutto così vero, lei mi era parsa così viva. L’avevo baciata, accarezzata, toccata e sentita proprio come se fosse stato tutto reale. Non potevo ancora credere che fosse stato solamente un sogno, che si fosse svolto tutto soltanto nella mia mente.
Nel silenzio di quella casa, che oramai era diventata troppo grande e che mi riempiva la mente di ricordi, preparai la colazione e andai a cercare un vestitino da mettere a Viola. Ma era tutto così maledettamente colorato. L’armadio di nostra figlia sembrava un arcobaleno di mille colori.
“È mai possibile che Elena non abbia comprato un solo vestito scuro a nostra figlia?”, pensai. Ma era caratteristico di lei: era sempre così solare, niente la poteva far rattristare.
Forte, solare, energica, piena di colore: ecco com’era. Non avevo la minima idea di chi l’avrebbe descritta al funerale. Di certo non sarei stato io, ma chiunque l’avesse fatto non avrebbe trovato aggettivi migliori per definirla. Romantica, dolce, tenera, forte, coraggiosa, tutto insieme. Un carattere stupendo racchiuso in una donna bellissima.
Lasciai andare quei pensieri per non mettermi di nuovo a piangere. Era già doloroso stare in quella casa senza che mi mettessi a rimuginare sul carattere stupendo di mia moglie, un carattere che ero certo non avrei mai ritrovato in un’altra persona.
Andai in salotto e presi la foto che stava sul tavolino. C’era Elena che rideva, illuminata dai raggi del sole: era perfetta. La presi e l’estrassi dalla cornice. Sapevo che non avrei trovato foto più rappresentativa per la sua tomba. Me la misi in tasca, e mi dedicai a preparare la colazione per la mia piccola Viola.
Poco dopo arrivò un telegramma: altre condoglianze. Era di mia sorella Giulia, abitava a New York ma mia madre ovviamente doveva averla avvertita. Non aveva trovato il tempo neanche per chiamarmi, come al solito. Si era limitata a mettere per iscritto due parole di scuse e di cordoglio.
Ma era normale con mia sorella, non c’era mai stato un gran rapporto. Lei se ne era andata appena ne aveva avuto la possibilità e mi aveva lasciato solo a occuparmi dei nostri genitori. Era da due anni che non la vedevo, esattamente dal funerale di nostro padre.
Sicuramente le dispiaceva della morte di Elena: come non dispiacersene? Ma io non rientravo nelle sue priorità. Mi aveva spedito due righe come a qualsiasi conoscente. Non chiedevo molto: con una sua telefonata mi sarei potuto ritenere soddisfatto per il momento. Nel telegramma non aveva neanche trovato una scusa per non venire in Italia in un prossimo futuro.
Da una parte era meglio così, ma dall’altra il nostro non-rapporto mi faceva stare ancora peggio. Una sorella normale sarebbe salita sul primo volo, mollando tutti i suoi impegni, solo per starmi accanto nel momento più difficile della mia vita. O perlomeno avrebbe cercato qualsiasi modo per mettersi in contatto con me; ma la nostra relazione era molto diversa.
Lei, dieci anni più grande di me, appena compiuti diciotto anni aveva cominciato a viaggiare e averla a Firenze era una vera e propria rarità. Non mi aveva mai sopportato un granché: mi vedeva come una minaccia per la sua posizione.
Quando se ne era andata a vivere a New York, non ero rimasto tanto sconvolto. Ero felice che se ne andasse, felice anche che avesse trovato la sua strada. La sua carriera era sempre più in ascesa: per lei non c’era niente di più importante, nemmeno il marito Fabrizio. E ovviamente non mi aveva capito quando mi ero sposato molto giovane, prima di lei, con Elena, con cui stavo da anni. Non aveva compreso nemmeno la mia emozione quando avevo avuto Viola. La famiglia per me era sempre venuta al primo posto nonostante fossi poi anche diventato un uomo realizzato nell’ambito lavorativo. Ero un bravo pediatra, ero un medico abbastanza affermato. Forse per questo Giulia non mi aveva mai potuto sopportare un granché: per il fatto che ero riuscito a portare avanti sia famiglia che lavoro senza troppe difficoltà. Ma lei del resto che ne sapeva di quello che avevo passato nei primi anni di matrimonio, quando dovevo riuscire a pagarmi gli studi e anche mantenere una famiglia, una casa senza mai chiedere nulla ai nostri genitori.
Poi non l’era mai importato granché di sua nipote, l’aveva vista appena quando era nata e qualche volta negli anni successivi. Viola si ricordava a malapena di avere una zia. Nel telegramma accennava solamente due parole su di lei:
Non so dirti quanto mi dispiace, come tutto questo mi sembri impossibile; Roberto ti esprimo le mie più sincere condoglianze, soprattutto per la piccola.
Soprattutto per la piccola”. Ma cosa significava? Ero io quello che doveva occuparsi di tutto a partire da Viola, da quello di cui aveva bisogno e da come sarebbe stata male.
Delle sue condoglianze, come quelle di tutti gli altri, non me ne importava nulla. Non che se fosse venuta mi avrebbe fatto stare meglio, ma mi sarei sentito in qualche modo più considerato da lei. In fondo quel dolore non la coinvolgeva, Elena non era nulla per lei. Dopo aver eliminato la parte delle condoglianze poteva tornare a fare la sua bella vita felice come tutti i giorni.
Io invece alla normalità non ci sarei più tornato. Né io né Viola: noi dovevamo trovare un altro ritmo, uno nuovo e tutto nostro. Un ritmo a cui mi sembrava impossibile abituarmi.
«Papà?», mi sentii chiamare all’improvviso, mentre rimuginavo con la lettera di Giulia tra le mani. La presi e la gettai nel secchio della spazzatura. Quel pezzo di carta non voleva dir nulla per me e quindi non c’era altro posto in cui meritasse di stare.
«Sono qui tesoro». Andai subito in camera dove lei si era seduta sul letto, preoccupata.
«È già ora di alzarsi?», mi chiese dolcemente.
«Sì piccola mia, temo proprio di sì», le risposi accarezzandole la testa.
«Allora vado in bagno».
«Sì vai, io ti porto subito i vestiti e ti aiuto a prepararti». Andai in camera sua e cercai di nuovo qualche vestitino più adatto. Alla fine riuscii a scovare una gonna bianca e nera, con una magliettina nera e ovviamente calze dello stesso colore: sarebbe stata perfetta.
Mentre l’aiutavo a infilarsi tutta quella roba, lei manteneva lo sguardo fisso verso lo specchio; non si guardava riflessa, sembrava osservare qualcos’altro.
«Cosa guardi piccola mia?», le chiesi mentre le infilavo le scarpe. Non mi rispose ma si avvicinò ai profumi di Elena, che stavano su un ripiano lì accanto. Il suo sguardo si fece sempre più triste, gli occhi di nuovo lucidi.
«I profumi della mamma?», le chiesi prendendone uno. «Vuoi che te lo metta un po’?». Annuì e lasciò che io gliene spruzzassi un goccio. Appena lo spruzzai si liberò l’odore di Elena, così forte da far male. Era strano come non facessi più caso a quel suo dolce profumo o come mi fossi abituato a sentirlo sulla sua pelle; così abituato da esserne assuefatto.
«La mamma se li metteva sempre», mormorò.
«E adesso potrai metterli tu quando vorrai sentire l’odore della mamma». Continuò a fissarli con la stessa aria malinconica. E pensare che quel giorno non poteva altro che peggiorare.
La presi in braccio e la feci sedere sul lavandino. «Adesso lascia che ti spazzoli questi bei capelli», le dissi iniziandola a pettinare. I suoi capelli erano del tutto identici a quelli di Elena. Viola ne era la copia perfetta. Solo gli occhi erano leggermente più chiari, ma una persona estranea non avrebbe notato quella piccola differenza. Anche se fisicamente assomigliava a sua madre, ovviamente aveva anche qualcosa di mio: avevamo lo stesso carattere, gli stessi gusti e lo stesso modo di rapportarci con gli altri. E stavo iniziando anche a capire che avevamo lo stesso modo di affrontare il dolore.
Una volta finito di sistemarla, la portai a fare colazione. Dovetti faticare per farla mangiare; non voleva niente ed era sempre sull’orlo delle lacrime, lo stesso orlo che anch’io faticavo a non superare.
Quando uscimmo di casa, rimase immobile davanti alla macchina, guardando lo sportello del passeggero. Pensai che anche la mia auto, o meglio la nostra, era piena di ricordi. Tutte le gite, tutte le vacanze fatte insieme…
«Posso venire davanti con te invece di andare sul seggiolino didietro?», mi chiese infine. Sarebbe stato troppo doloroso per lei vedere quel posto vuoto davanti, e forse lo sarebbe stato anche per me.
«Sì certo, però agganciati la cintura. Ormai sei già abbastanza grande». La feci sedere e la sistemai in modo che fosse al cento per cento sicura.
Ingranai la marcia e cominciammo a viaggiare per le strade di Firenze. Il sole ormai era già alto e le strade eran già piene. File di auto in coda, persone alle fermate dell’autobus, pedoni: gente normale che stava andando a lavoro, o a scuola, come tutti i giorni. Mi sembrava assolutamente impossibile che tutto potesse continuare come se nulla fosse. Nessuno si accorgeva del nostro dolore. In fondo eravamo solo noi a star male.
Arrivammo alle cappelle in anticipo, ma nonostante ciò Renato, Luciana e mia madre erano già lì. Loro ci videro arrivare e vennero ad aprire la portiera non appena ci fermammo.
«Viola amore della nonna», le disse Luciana, sganciandole la cintura.
«Ciao». La voce di Viola era soltanto un sussurro.
«Come sta?», mi chiese Renato.
«Come vuoi che stia? È distrutta, come tutti del resto».
«Già», sospirò. Non era mai stato una persona molto aperta al contrario di sua figlia o di sua moglie. Non era il tipo da lasciarsi andare alle emozioni. Ma in quel sospiro lasciò intravedere molto di più di quello che avrebbe voluto. Non ero solo io, né solo Viola. Loro avevano appena perso una figlia e doveva essere altrettanto terribile.
«Sentiamo tutti la sua mancanza», continuò cercando di riprendersi. «Adesso ascolta stiamo noi con Viola. Penso che vorrai vedere Elena prima che chiudano la bara. È bene che la piccola si ricordi sua madre viva piuttosto che…». Non riuscì a continuare.
«Sì, forse è meglio». Chiusi la macchina e seguii Renato all’interno. Non sapevo come avrei reagito di fronte al suo corpo immobile ma ero certo che dovevo assolutamente vederla. Forse una parte di me avrebbe preferito non vedere il corpo di Elena dentro la bara, ma sapevo perfettamente che era la cosa migliore. Dovevo rendermi conto fino in fondo della realtà, soprattutto dopo il sogno che avevo fatto quella notte e che probabilmente avrei continuato fare anche le notti successive. Stavo cominciando a confondere realtà ed immaginazione e forse la vista del suo corpo immobile mi avrebbe riportato con i piedi per terra.
«Potete lasciarmi un po’ da solo con lei?», chiesi in un sussurro. Renato annuii e fece uscire tutte le persone che erano all’interno. Ognuno uscendo mi guardava tristemente e mi faceva le condoglianze. Parenti che non ricordavo, amici e conoscenti: erano venuti in molti a dare un ultimo addio ad Elena.
Quando se ne furono andati tutti entrai dentro la stanza. Lasciai che i miei pensieri si soffermassero sui particolari della sala, prima di osservare al centro la grande bara bianca.
Mi avvicinai a lei e non potei impedire che le prime lacrime mi annebbiassero la vista. Lei era perfetta nel suo splendore; nemmeno la morte aveva avuto un effetto negativo sul suo corpo. Era più bella che mai.
Indossava il suo vestito migliore, quello che aveva messo anche per il matrimonio di Pietro e Margherita. Era di un verde particolare, un colore vivace che rispecchiava in pieno la sua personalità. I capelli erano pettinati in avanti e le ricadevano lucidi sulle spalle; l’unico difetto era che quella paglia d’oro non incorniciava i lapislazzuli dei suoi occhi. Le palpebre chiuse, le mani al petto, la pelle troppo diafana, l’accenno di un sorriso sulle labbra.
«Elena», mi ritrovai a sussurrare. Mi avvicinai di più e allungai la mano per sfiorare la sua. Era tremendamente fredda e in qualche modo era una conferma che tutto quello era vero. Lei non si sarebbe svegliata, lei non si sarebbe semplicemente alzata sorridendo. Le presi delicatamente la mano, come se avessi paura di sciupare quella sua perfezione, che la seguiva anche con la morte.
Vederla senza vita, sentire il suo corpo rigido e non riuscire più a percepire il battito del suo cuore non era solo la conferma che il mio inferno personale esisteva, ma anche la prova più difficile che avevo affrontato fino ad allora. Sicuramente stavo passando i giorni più difficili di tutta la mia vita.
Avevo sempre pensato che parlare ad un defunto fosse una cosa al quanto strana o almeno una cosa che non mi sarei mai ritrovato a fare. Invece in quel momento mi venne quasi naturale. Le parole mi salirono spontanee alle labbra. Era come se parlare con lei fosse un bisogno che dovevo assolutamente soddisfare.
«Ciao tesoro mio», sospirai. «Non so da dove iniziare perché avrei talmente tante cose da dirti. Ma forse adesso sono un po’ tutte inutili. Ho sempre creduto di avere tempo e invece non ne ho avuto abbastanza. Ci sono cose che magari avrei dovuto fare o in cui avrei dovuto essere più chiaro. Ti amo e questo lo sai, ma se sono diventato quello che sono oggi lo devo principalmente a te. Tu sei stata al mio fianco e mi hai reso una persona migliore. Se oggi sono orgoglioso di me stesso lo devo a te. Tu sei la cosa migliore che mi sia capitata. Ero così fortunato ad averti, che adesso sembra tutto così orribile. Mi manchi in ogni istante e…». Il nodo alla gola mi impedì di continuare.
Sentii un po’ di confusione all’esterno, ma in quel momento non me ne preoccupai. Era straziante pensare che non l’avrei più rivista così realmente, tralasciando i miei strani sogni.
«Mamma!». All’improvviso Viola entrò nella stanza piangendo, con i nonni che stavano cercando di fermarla.
«Scusa non siamo riusciti a trattenerla», mi disse mia madre. «È voluta venire di qua a tutti i costi».
«Mamma…». Si bloccò di fronte alla bara bianca all’interno della quale riusciva a malapena a scorgere. Nei suoi occhi c’era solo il desiderio di vederla un’ultima volta.
«Va bene, lasciatela stare». Mi avvicinai per carezzarle una guancia e tentare di asciugare quei lucciconi che ormai le imperlavano il viso. «Andate via, lasciateci un momento da soli». Sembrarono voler ribattere ma poi se ne andarono, percependo che il mio tono di voce non lasciava spazio a repliche.
«Mamma», gemette cercando di stare sulle punte dei piedi.
«Vuoi vederla amore mio? Vuoi vedere quanto è bella?». Annuì e io la presi in braccio in modo da farle ammirare la meraviglia di sua madre, che la natura maligna ci stava strappando via.
Allungò la manina quasi a volerla toccare e io, in risposta, mi abbassai per permetterglielo. Anche lei aveva bisogno di darle un ultimo saluto. Avrei preferito che non la vedesse così, ma in effetti sembrava che Elena dormisse: era serena e rilassata come nei suoi momenti migliori.
«È così fredda», mi disse.
«Lo so principessina, lo so». Le sfiorò il braccio con la punta delle dita, mentre le sue lacrime ormai erano un fiume in piena.
«Non me lo aveva detto che finiva tutto e mi lasciava qui». Ecco la fatidica frase: la frase che mi diceva che il suo piccolo cuoricino era straziato in due dal dolore proprio come il mio. E neanche io potevo fare qualcosa per curare le sue ferite.
«Nemmeno a me lo aveva detto sai?». Le feci appoggiare la testa sulla mia spalla e la portai fuori da quella stanza e da tutto quello che non avrebbe mai dovuto vedere.
 
Durante il funerale la tenni tutto il tempo in collo. Quel nostro contatto faceva bene sia a me che a lei. Viola aveva solo bisogno di essere coccolata e rassicurata. Aveva bisogno di sentire che io c’ero ancora e che tenevo a lei più d’ogni altra cosa al mondo. Io d’altra parte non volevo vedere la bara chiusa e con Viola in braccio, potevo semplicemente infilare la testa nei suoi capelli e piangere silenziosamente.
Fu Margherita a parlare di Elena, a elogiarla e a dire tutto quello che avrei dovuto dire io se fossi stato capace di resistere il tempo necessario senza scoppiare a piangere di dolore o a urlare come un pazzo.
«Niente di quello che dirò oggi, potrà mai descrivere Elena completamente, nelle sue mille sfaccettature. Ci vorrebbero ore per esaminare approfonditamente il suo carattere stupendo, per riuscire a dare anche solo una parvenza di come era veramente. Elena era una persona particolare, certe volte poteva sembrare strana, ma le sue stranezze la rendevano sicuramente migliore di molte altre persone. Era la donna più solare che abbia mai conosciuto, il ritratto dell’allegria. Non perdeva mai il sorriso e riusciva a trovare qualcosa di positivo anche quando tutto andava male. Era la migliore amica che si potesse desiderare, e sono sicura che era anche una moglie stupenda e una madre fantastica. Era buona, forse troppo. Mi ricordo che le dicevo sempre che era troppo buona con gli altri e che alla fine quella che ci avrebbe rimesso sarebbe stata lei. Ma lei era fedele ai suoi principi e mi rispondeva che se lei per prima si sarebbe comportata con riguardo verso gli altri, le altre persone avrebbero fatto altrettanto. “Nessuno può essere cattivo con te se tu per primo sei buono con lui”, replicava. Non credeva nella crudeltà e certe volte rimaneva inorridita di fronte alla malvagità del mondo. È un abominio il fatto che la sua vita sia stata spezzata così, portandocela via. Ma sono certa che se lei fosse qui non ci vorrebbe vedere tristi o affranti, vorrebbe che la salutassimo con un sorriso sulle labbra. E io voglio proprio che sia così. Addio Elena».
Si dovette fermare per ricacciare indietro le lacrime più volte, ma era sicuramente un bel discorso che la rappresentava in pieno. Io stesso non avrei saputo fare di meglio: non ero bravo con le parole, era Elena quella che scriveva.
Più doloroso fu vedere seppellirla: gettare il primo cumolo di terra, il primo fiore. Viola sempre stretta tra le braccia, che non ce la faceva a guardare. Io e lei avremmo voluto solo tornare a casa e starcene da soli, anche se quel posto era diventato un inferno di ricordi.
Così non appena la cerimonia fu finita, e lei fu sepolta definitivamente, mi avviai verso la macchina con Viola che si era completamente riversata sulla mia spalla.
«Roberto aspetta», mi chiamò qualcuno. Mi fermai di malavoglia e mi voltai: era Marco, l’editore di Elena.
«Roberto scusa, mi dispiace molto disturbarti in un momento come questo. Volevo innanzitutto porgerti le mie condoglianze, anche da parte di tutta la casa editrice».
«Arriva al sodo ti prego». Non l’avevo mai sopportato granché. Ero sempre stato un po’ geloso di lui anche se non ce n’era motivo. Inoltre volevo assolutamente andarmene; quindi era meglio se si sbrigava.
«Sì volevo sapere solo cosa fare con i libri di Elena. Sai il suo ultimo romanzo, oltre a pubblicarlo qui lo vorrebbero anche in Francia». Quella fu per me la conferma che l’Elena di quella notte era reale. Era veramente lei. Avevo riflettuto sul quel sogno: da una parte volevo crederci, ma dall’altra ero un medico e sapevo cosa era possibile e cosa no. Avevo concluso che la mia immaginazione si stesse sforzando al massimo per impedirmi di lasciarla andare e per questo aveva creato quell’illusione, che probabilmente sarebbe riapparsa ogni notte. Ma così era troppo: come avrei potuto sapere del suo libro e della Francia se non fosse stata davvero lei quella che avevo incontrato soltanto poche ore prima? Un dettaglio così importante non potevo averlo immaginato solo per puro caso.
Restai immobile a guardarlo a bocca aperta, troppo perso nei miei pensieri per notare che lui mi stava fissando aspettando che parlassi.
«Te l’aveva già detto, vero?», mi domandò perplesso. Ero ancora sconvolto ma riuscii a riprendermi quel tanto da capire che sarebbe suonato troppo strano dirgli che me l’aveva detto in sogno.
«Sì, diciamo che ha potuto solo accennarmelo. Senti, io non mi intendo di queste cose ma tu continua con la pubblicazione, come avrebbe fatto lei».
 «Va bene. Sono sicuro che anche lei vorrebbe così».
«Certo, ma ti prego fammi sapere il meno possibile, lo stretto necessario».
«Okay, allora ti lascio». Si allontanò avviandosi verso un gruppo di persone, che sicuramente erano altri collaboratori o scrittori della casa editrice, tutte persone che lavoravano con Elena e che non mi ero mai preso la briga di conoscere a fondo.
Dopo svariate rassicurazioni date ai miei suoceri e a mia madre, ci lasciarono andare.
Passai la sera a coccolare Viola tra le mie braccia; tremava e i singhiozzi non le permettevano di respirare. Ma lasciarla sfogare mi sembrava ancora la soluzione migliore.
Quel giorno era stato doloroso e se da una parte speravo che la situazione sarebbe andata a migliorare, dall’altra sapevo che invece il dolore e la mancanza non sarebbero svaniti. Ritornare alla vita di tutti i giorni sarebbe stato un trauma. Affrontare la solita routine senza Elena, avrebbe solo accentuato quanto noi avevamo perso. Eppure era quello che dovevo fare per Viola, non prima però di aver passato un’altra dolce e magnifica notte.  

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Capitolo 7
*** 6. Tempo... ***


Tempo…
 
Mi addormentai con Viola ancora tra le braccia e con il suo respiro profondo vicino all’orecchio che mi cullava. Non persi nemmeno tempo per mettere Viola a letto o per sistemarmi. Mi lasciai sprofondare lì sul divano cadendo, quasi subito, in braccia a Morfeo.
Quando aprii gli occhi il candore della stanza mi invase quasi ad accecarmi esattamente come la volta precedente. L’unica differenza fu che, sapendo già chi mi stava aspettando, potei soffermarmi a notare i dettagli della stanza. Quella seconda volta potei prima guardarmi intorno con calma per poi scoprire che lei era lì bella come sempre e identica alla notte passata.
Quel giorno l’ambiente era diverso. Eravamo in salotto, proprio nella stanza in cui stavo dormendo, solo che anche stavolta era completamente bianco. Forse era proprio così che mi immaginavo il paradiso, come un mondo parallelo, precisamente identico al nostro, ma con un unico colore predominante.
E poi c’era Elena: lasciai che i miei occhi incontrassero il suo corpo per ultimo. Era da mozzare il fiato, proprio come nel sogno precedente. Indossava gli stessi abiti e appariva ancora più magnifica del solito. Forse era solo la consapevolezza che quella era veramente lei, che nonostante avessi appena seppellito il suo corpo, lei era lì.
«Ciao», le dissi andandole incontro e abbracciandola.
«Ciao amore». Mi prese tra le sue braccia e mi fece di nuovo sedere, stringendomi forte. Restai per un po’ immerso nel suo profumo, con la testa appoggiata alla sua spalla e gli occhi chiusi, intento a farmi coccolare.
«È stata una giornata lunghissima», sospirai baciando le sue dita che mi sfioravano delicatamente il viso. Per tutta risposta lei mi strinse più forte e lasciò che fossero i nostri gesti a parlare. Tra noi era sempre stato così: non c’era mai stato bisogno di troppe parole. Ci capivamo al volo, e in quel momento Elena aveva compreso che l’unica cosa che desideravo era un minuto di tenerezza per noi.
«Sembra impossibile tutto questo», sospirai dopo un lungo e dolce bacio. «Come fai ad essere qui?». Parve riflettere sulla mia domanda.
«Non credo di esserci realmente», disse infine. «Penso che le nostre anime siano così legate da poter comunicare. Sei tu quello che mi richiama ogni volta ed io non posso fare altro che tornare da te».
«Se dovessi raccontarlo in giro credo che mi prenderebbero per pazzo. Stento a crederci io stesso, ma d’altra parte è così bello vederti qui e non averti perso completamente».
«Ma tu mi hai perso. E questo non è altro che un’illusione. Io sono solo nei tuoi ricordi, nel tuo cuore. Queste notti non cambiano niente. Vorrei che tu lo capissi Robbie: non è sano che tu rimanga così attaccato a me».
«Lo so», ammisi. «Ma non posso farcela senza questo». Feci un gesto con la mano per indicarla. Tutto quello che aveva detto era vero, ma pensare di non poterla più vedere, toccare, stringere, baciare in quel modo mi avrebbe distrutto completamente. Se voleva che avessi una possibilità di tirare avanti, di essere anche un buon padre per Viola, io avevo bisogno di quel contatto.
«Io non sarò mai capace di vivere completamente senza di te», ammisi struggendomi. Sospirò e mi passò una mano sulla guancia. I suoi occhi si incatenarono ai miei; mi squadrarono cercando di leggere fino in fondo alla mia anima, come solo lei era capace di fare.
«Robbie quanto vorrei poter cancellare tutto il tuo dolore».
«Puoi farlo. Stando qui con te io sto bene». Non volle ribattere, anche se non sembrava molto d’accordo su quello che avevo appena detto. Appoggiò la testa sulla mia spalla e si arrese.
«Solo fino a quando tutto questo sarà la cosa migliore per te», sospirò con un filo di voce. «Fino a quando non sarai pronto a lasciarmi andare. Promettilo».
“Non sarò mai pronto per lasciarti”, pensai. Ma non volevo litigare, dopo una giornata così lunga era proprio l’ultima cosa che volevo. Acconsentire sembrava la cosa più giusta. Ci sarebbe stato tempo per parlare.
«Promesso», conclusi. Per il momento restare in silenzio tenendola tra le braccia sarebbe stato più che  sufficiente.
 
“Il tempo aiuta”, è la solita frase che si dice; ma facile è a dirsi non a farsi.
I giorni sembrarono volare, ma ciò che non andava via era sicuramente il dolore. Quello restava e non diminuiva, esattamente come in un arto fantasma. La sua assenza era la prima cosa che sia io che Viola riuscivamo a percepire. I giorni e le settimane passavano e noi non eravamo più gli stessi. Sicuramente non saremmo mai ritornati ad esserlo. Quella enorme ferita ci aveva lasciato una profonda cicatrice che non si stava rimarginando e anche quando finalmente l’avesse fatto, avrebbe comunque lasciato un segno indelebile.
I giorni erano l’inferno ma le notti erano il paradiso. Non credevo che nella mia vita sarei arrivato a distinguerli così nettamente. Ogni volta che chiudevo gli occhi e mi addormentavo, il mio cuore riprendeva a battere felice, a palpitare come non faceva mai durante il giorno. Vivevo in due universi paralleli, uno di giorno e uno di notte. Inferno e paradiso si susseguivano in continuazione; una continua agonia al risveglio e uno strano senso di felicità quando era l’ora di andare a dormire.
L’unica cosa che rendeva sopportabile le mie giornate era la certezza che l’avrei rivista non appena avessi chiuso gli occhi e mi fossi addormentato. Questa la consolazione che mi faceva tirare avanti.
All'inizio riprendere le vecchie abitudini fu la cosa più difficile da affrontare. Ero tornato a lavoro, avevo spiegato, per quanto ce la facessi, cos’era successo; cercato di riprendere il punto della situazione. Ma era tutto inutile, maledettamente inutile. Era tutto completamente diverso ed ogni istante io sentivo la differenza rispetto al giorno prima dell’incidente. Tutte le vecchie consuetudini erano state stravolte e non riuscivo ad abituarmi a quei nuovi ritmi di vita. Non che fossero difficili o faticosi, ma semplicemente non volevo abituarmici. Non volevo vivere senza Elena. Anche se il mio cervello mi diceva che dovevo andare avanti, che non era sano chiudermi in una realtà parallela, il mio cuore era rimasto fermo e incatenato a tutti i suoi ricordi.
Avevo fatto sì che i miei turni coincidessero con l’orario della scuola di Viola: soprattutto mattine e pomeriggi. Cercavo di non fare tardi, anche se Luciana, Renato e mia madre mi davano una mano andandola a prendere all’asilo quasi tutti i giorni.
Dapprincipio anche in casa non volevo che si toccasse niente. Non volevo togliere le sue cose, volevo lasciare tutto come era rimasto da quella maledetta mattina. C’erano ancora i suoi gioielli sul cassettone, i vestiti nell’armadio, i trucchi e i profumi nel bagno. Ma poi mi ero reso conto che per Viola questo non faceva altro che peggiorare la situazione. Ovunque si girasse c’era qualcosa di Elena e il ritrovarselo lì di fronte, all’improvviso, non faceva altro che ributtarla in fondo al baratro che stavamo tentando faticosamente di risalire.  Allora una sera avevo preso degli scatoloni e avevo tolto tutta la sua roba, tutta tranne quella che sia io che Viola volevamo conservare come una reliquia. Lei aveva tenuto i suoi profumi, io la sua fede nuziale e il nostro anello di fidanzamento.
L’avevo fatto per far riprendere una vita normale a Viola. Ma non era servito proprio a niente, né a me né a lei. All’inizio non vedere più gli oggetti di sua madre sembrava farla stare meglio, ma poi era ricaduta nella stessa apatia e nella stessa tristezza in cui si trovava dal giorno del funerale. La mia bambina stava male e non accennava il minimo miglioramento.
Per questo l’avevo iscritta ad un corso di danza classica, seguendo sempre un consiglio del mio angelo notturno, perché era quello che Viola aveva sempre desiderato. Ma nemmeno il contatto quasi continuo con gli altri bambini la faceva stare meglio. Viola non sorrideva mai e ciò mi riempiva sempre più di sconforto. Se perlomeno lei fosse stata un po’ meglio mi sarebbe bastato.
Di fronte a lei avevo sempre un comportamento ineccepibile: mi sforzavo così tanto di fingere di stare bene, di darle il buon esempio, di farle vedere che la vita continuava; ma non serviva a nulla. Avrei ottenuto lo stesso effetto comportandomi esattamente nel modo opposto.
“Cosa potevo fare per farla stare meglio?” era la domanda che mi ponevo continuamente. La riempivo di baci, di coccole, di carezze ma era come se non facessi niente. Era come spenta, non c’era più luce e vitalità nei suoi occhi. Era inconcepibile: io che riuscivo a far sorridere tutti quei bambini che erano all’ospedale, non riuscivo a strappare un sorriso a mia figlia.
Le dicevo che in fondo io e lei ce la cavavamo, che riuscivamo ad andare avanti, che c’era chi stava peggio di noi, ma niente. Lei restava in silenzio senza rispondermi, lasciando che le mie parole fossero semplicemente spazzate via.
Anche Elena era preoccupata: nei sogni mi dava consigli e mi diceva d’insistere con lei. Ma da una parte potevo benissimo capire Viola: noi due avevamo lo stesso carattere. Se io non avessi avuto la possibilità di avere un contatto con Elena, per quanto irreale ed assurdo potesse essere, io mi sarei comportato esattamente come Viola. Anche essendo un uomo adulto e con dei doveri non avrei saputo affrontare il dolore diversamente. Mi sarei chiuso in me stesso ed avrei eretto un muro in modo che nient’altro potesse più scalfirmi. Ed era proprio quello che aveva fatto mia figlia.
Il fatto che Elena continuasse a far parte della mia vita, fisicamente ogni notte, all’inizio mi sembrava una cosa assurda, una pazzia. Era impossibile e la mia mentalità scientifica si rifiutava di crederci. Ovviamente il cuore aveva avuto subito un’opinione esattamente opposta. Ma poi era diventato così semplice mettere da parte il mio scetticismo e fidarmi completamente dei miei sogni. In fondo avevo capito fin dalla prima volta che nel sogno successivo l’avrei sicuramente ritrovata e che non mi avrebbe lasciato come era successo nella realtà.
Comunque, nonostante passassimo ogni notte insieme, la nostra relazione non era più la stessa. Non che non andassimo più d’accordo o che avessimo dei problemi. Io e lei eravamo esattamente gli stessi, ci amavamo proprio come prima. Era il noi che era cambiato; io stavo con lei, ma lei poteva stare solo con me e con nessun altro. Era una vera e propria storia a senso unico. Lei era morta e un noi per gli altri ormai non c’era più. “Noi” nella vita reale non lo saremmo più stati, non al presente almeno.
Comunque il tempo passò fin troppo velocemente. La restante parte di aprile passò in un soffio e così anche maggio. La scuola era quasi giunta al termine e io non avevo programmato proprio nulla per le vacanze. Non sapevo nemmeno se avrei smesso di lavorare. Anche se per Viola forse sarebbe stato uno svago, pensavo che andare al mare, nella nostra casetta, ci avrebbe fatto notare ancora di più l’assenza di Elena. Un apporto di altro dolore da evitare assolutamente.
Per fortuna la danza di Viola continuava fino ai primi di luglio. Era quella la sua unica distrazione. In quel’ultimo periodo aveva anche smesso di giocare con le bambole. Certe volte cercavo di forzarla prendendo le sue barbie e cercando di inventare storie che poi lei potesse continuare. Ma restavo sempre solo io: uno stupido padre che tenta di far giocare sua figlia con le bambole senza che questa presti il minimo interesse. L’unica cosa che aveva fatto era stato colorare la sua bambola preferita di nero e come unica spiegazione mi aveva detto che anche lei era vestita lutto e che non voleva più indossare qualcosa di colorato. Quelle parole mi avevano lasciato esterrefatto e avevano abbattuto maggiormente il mio morale già a terra.
Un’altra cosa che mi preoccupava era che Viola non parlava quasi mai, né dello sport, né dell’asilo, di nulla. Bisognava tirarle fuori le parole di bocca con la forza tutte le volte.
«Allora, piccola mia, come è andata oggi a danza?». Eravamo a cena: da quando era morta Elena avevo tentato d’imparare a cucinare anche con buoni risultati. Viola mangiava sempre tutto, senza fare storie. Forse era perché sapeva quanto sarebbe stato difficile per entrambi se si fosse messa a fare i capricci. Era fin troppo buona e calma, certe volte avrei preferito una reazione di tutt’altro genere. Se non mi fossi accertato della sua presenza nella maggior parte dei momenti avrei potuto credere di essere solo.
«Bene», liquidò la mia domanda e mi fece spallucce.
«Cosa avete fatto?», le chiesi per spingerla a parlare.
«Niente di che». Iniziò a rigirare la forchetta nel piatto e a fissarla intensamente. Era il suo comportamento per farmi capire che non dovevo insistere. Ma ero troppo preoccupato per desistere.
«Come niente di che?».
«Le solite cose».
«Quali sono le solite cose amore mio? Spiegami che cosa fate di preciso».
«Solo cose da ballerine; facciamo un sacco di piroette, impariamo dei passi». Diceva solamente lo stretto necessario. Non una parola di più, non una parola di meno.
«Sembra interessante. E a te piace?».
«Sì, mi piace». Come al solito non aggiungeva mai nulla per continuare quella sorta di conversazione.
«E le tue compagne come sono?», tentai di nuovo.
«Gentili, simpatiche».
«C’è qualcuna con cui vai particolarmente d’accordo?».
«Forse con Chiara, lei è carina». Tornò a mangiare non lasciando spazio per quella mia specie di chiacchierata, che rimaneva comunque quasi a senso unico.
«Ti è piaciuto?», le chiesi quando ebbe finito. «Posso aggiungerlo nelle mie ricette?». Cercavo di scatenare un qualche minimo sorriso. Vederla così cambiata  rispetto a prima era la cosa che mi turbava di più.
«Sì, ma la mamma ci metteva il pomodoro per farlo meglio». Ed ecco che quel broncio, che teneva quasi sempre, si trasformava in una maschera di dolore al solo nominarla.
«Piccola, vieni qua». La presi in braccio e la portai in salotto. «Non devi star male così, la mamma non vorrebbe, devi cercare di reagire».
«Io non ci riesco. Mi manca tanto». Le sue lacrime mi bagnarono la maglia.
«Anche a me manca molto. Ma dobbiamo farci forza a vicenda; non possiamo continuare a soffrire così». Era una delle cose che Elena mi diceva sempre ma che io non riuscivo proprio a fare.  Mi sentivo un ipocrita: in fondo stavo chiedendo a mia figlia di fare quello in cui io stesso fallivo, in cui mi rifiutavo di riuscire.
«Io non voglio, ho paura di dimenticarla». Viola aveva il terrore di dimenticarsi di Elena, questo lo avevo capito subito. Per questo avevo scelto una foto di loro due insieme e l’avevo messa sul suo comodino nella cameretta. Avevo anche chiesto a Viola, se oltre ad i profumi, desiderasse tenere qualcos’altro di sua madre.
«Amore mio tu non potrai mai scordare la mamma», la tranquillizzai. «Sei stata nella sua pancia nove mesi, sei legata fisicamente a lei. Non la dimenticherai mai». Annuì e cercò di calmarsi, ma alcuni singhiozzi le salirono lo stesso alla gola.
«E allora come faccio per non stare più male così?». Bella domanda: come facevo a replicare se non sapevo rispondere nemmeno io? Era la stessa domanda che affliggeva tutte le mie giornate.
Elena mi aveva ripetuto che la cosa migliore era continuare la nostra vita lasciandola da una parte. Non dimenticarla ma far sì che non fossimo più dipendenti da lei. Forse lei aveva ragione, ma era tremendamente difficile passare dalle parole ai fatti.
«Lo so che è complicato ma devi metterla da parte», le risposi. «Adesso siamo io e te, solo io e te». Le mie parole non erano solo un consiglio per Viola, ma erano anche ciò che io avrei dovuto fare. Ma come poter lasciare Elena da parte quando lei era la mia vita? Anzi adesso lei era le mie notti e non volevo assolutamente che le cose cambiassero e che lei scomparisse definitivamente. Non l’avrei mai sopportato.
«Ti voglio bene papà», mi disse asciugandosi le lacrime con le manine.
«Anch’io te ne voglio. Sei la persona che amo di più al mondo e vorrei tanto poter fare di più per non farti soffrire così».  La sentii sospirare e accasciarsi di più contro la mia spalla.
«Senti, provi a farmi un piccolo sorriso?», azzardai. «Solo per me. Mi manca vederlo sul tuo bellissimo visino». Piegò leggermente le labbra all’insù ma non era proprio quello che si poteva definire un sorriso. Era più una smorfia.
«Puoi fare di meglio», le dissi facendole una carezza. «Hai un così un bel sorriso quando vuoi».
«Sì, ma per ora non ce la faccio». E come potevo insistere ancora, quando i suoi occhioni mi chiedevano di smetterla lì?
«Ti prometto che insieme ce la faremo a superare questo momento. Non è un’impresa impossibile, ci abitueremo a questa nuova vita senza la mamma. Sarà difficile ma possiamo farcela». E non sapevo nemmeno io che quella frase si sarebbe avverata prima di quanto potessi immaginare. 

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Capitolo 8
*** 7. Per i tuoi sei anni ***


Per i tuoi sei anni
 
Le giornate estive erano lunghe da passare, sembrava non finissero mai. Viola non aveva più molto da fare, l’asilo era chiuso e a settembre sarebbe andata all’elementari. Lo sport era terminato, dopo un piccolo saggio, i primi di luglio. Era stata bravissima, ma era inutile tentare di farglielo notare. Mi ero sentito così orgoglioso di lei vedendola danzare con il suo tutù e fare tutti i passi alla perfezione, nonostante avesse cominciato solo da pochissimo tempo. Però sapevo che neanche quello la faceva stare meglio.
Finito sia l’asilo che la danza, passava il tempo in cui io ero a lavoro, con i nonni. Renato e Luciana avevano anche insistito per portarla una settimana al mare con loro, però lei non era voluta andare. Insisteva per rimanere a Firenze anche se io le dicevo in continuazione che una settimana di vacanza le avrebbe fatto bene. Ma lei niente, quando voleva era proprio una gran cocciuta.
Arrivò il giorno del suo compleanno: il quindici di luglio e io volevo che almeno quel giorno fosse felice. Era forse chiedere troppo? Volevo che fosse perfetto e che lo ricordasse come un piccolo momento più sereno rispetto all’inferno di quei mesi.
«Buongiorno stellina», l’andai a svegliare quella mattina. «Tanti auguri». Viola si rigirò sotto il lenzuolo e cominciò a risvegliarsi. Aveva i capelli tutti arruffati ma era stupenda lo stesso, esattamente come lo sarebbe stata sua madre.
«Buon compleanno amore mio», le dissi accarezzandole il viso.
«Ah già!», sbuffò. Infilò la testa sotto il lenzuolo coprendosi completamente.
«Come sarebbe a dire ah già?». Cercai di scoprirla, ma lei tratteneva le coperte con le manine.
«Oggi è solo il mio compleanno». La sua voce mi arrivò ovattata.
«Soffocherai lì sotto con questo caldo», le dissi facendole il solletico per farla uscire dal suo nascondiglio.
«Basta! Basta!», mi rimproverò. «Esco se la smetti».
«Tregua», giurai. Lentamente si scoprì di nuovo permettendomi di vedere nuovamente il suo bel visino.
«Oggi la mia principessa fa sei anni», le dissi prendendola tra le braccia. «Non si compiono mica tutti i giorni».
«Tutti gli anni si compiono una volta sola», ribatté. Lasciai perdere e le cantai tanti auguri dandole un bacio sulla fronte. Normalmente si sarebbe messa a saltare sul letto chiedendo dove fossero i suoi regali. Invece si sedette semplicemente accanto a me e mi abbracciò.
«Cosa vuoi per colazione? Sono al tuo servizio, oggi faremo soltanto quello che ti piace. È la tua festa. Potrai decidere tutto tu».
«In realtà non ho tanta fame», mi rispose, appoggiando il capo sul mio petto e restando un po’ lì a farsi coccolare da me.
«Come? E dire che ero pronto a diventare il tuo chef privato, preparato a soddisfare ogni tuo capriccio».
«Allora la solita brioche con il latte». Non potei che sorridere, ricordando che era anche la solita colazione che mi chiedeva sempre Elena. Se volevo farla felice bastava che le portassi una brioche.
La portai in cucina e aspettai impaziente che avesse finito per darle i regali. Speravo che con quelli sarei riuscito a rallegrarle un po’ quella giornata.
«Da quale regalo vuoi partire?», le chiesi una volta che ci fummo sistemati sul divano.
«Da nessuno». Dire che mi aspettavo quella risposta sarebbe una bugia, ma sicuramente mi attendevo una reazione diversa da quella che solitamente avrebbe avuto. Viola andava pazza per le sorprese. Invece, in quel momento, non aveva neanche la minima eccitazione.
«Su forza, è il tuo compleanno! Un po’ di entusiasmo».
«Wow». Impossibile che a sei anni riuscisse ad essere già così sarcastica?
«Quando viene a prendermi la nonna?», mi domandò cercando di cambiare argomento.
«Oggi non viene amore, resto tutto il giorno con te. Sei contenta?». Avevo chiesto un giorno di permesso. Volevo dedicarmi completamente a lei e vedere se riuscivo a farla sorridere almeno per ventiquattrore. Avrei fatto di tutto pur di rendere più felice la mia bambina.
«E la nonna?», ribatté come se non fosse contenta di restare sola con me.
«Ma come non sei felice se rimango sempre io con te?», le domandai fingendomi un po’ offeso.
«Sì certo, ma la nonna?», insistette.
«Non ti preoccupare la vedrai dopo. Ora andiamo in piscina e restiamo a pranzo lì. Ci saranno tutti i nonni e Margherita e Pietro. E nel pomeriggio puoi fare quel che vuoi. Se vuoi dopo andiamo da qualche tua amica a giocare, okay?». Sapevo che Viola adorava andare in piscina e per questo avevo organizzato tutto in modo che potesse fare solo ciò che più le piaceva.
«Va bene, ma comunque le mie amiche sono tutte via e poi io oggi non voglio giocare con loro». Si stava isolando sempre di più e questo non era un bene. Per fortuna a settembre, cambiando scuola, avrebbe conosciuto tanti bambini nuovi e anche più grandi di lei. Avevo deciso d’iscriverla ad un istituto diverso dal complesso in cui si trovava anche l’asilo. Avevo scelto una scuola che si trovava più vicino all’ospedale, ma anche che non fosse troppo distante da casa dei nonni.
La questione di farle cambiare completamente ambiente era una mia idea. Ne avevo parlato prima con Elena e il mio angelo si era trovato subito d’accordo. Quando avevo accennato la cosa a Viola, era sembrata sollevata da questa mia decisione. Sicuramente non le faceva bene andare tutti i giorni nel luogo dove un tempo sua madre l’accompagnava e la veniva a riprendere.
«Allora li vuoi aprire i tuoi regali?», mi ridestai dai miei pensieri. Le indicai dei pacchetti sul tavolino del salotto.
«No, non li voglio». La situazione si stava facendo più difficile di quanto avessi previsto.
«Perché amore? Che c’è che non va?».
«Non voglio festeggiare», mi disse stringendosi a me.
«Perché?» Mi lanciò uno sguardo di rimprovero. Sembrava voler dire: “lo sai benissimo il perché”. E come dargli torto? Provare quel finto entusiasmo era difficile anche per me.
«Sei è un numero importante», insistetti.
«Anche trentadue era un numero importante». Gli anni di Elena.
«Tesoro lo sai che vorrebbe vederti felice, e tanto per cominciare potresti scartare questi regali con un piccolo sorriso».
«Non li voglio», ripeté. «L’unica cosa che voglio non si può realizzare, quindi è inutile festeggiare». Come fare a ribattere a quell’affermazione? Voleva la sua mamma e nessuno poteva realizzare quel suo desiderio.
«Ti prego fallo per me. Sto peggio anche io a vederti così, vorrei solo che oggi fosse un giorno speciale per te». Sapevo che era una specie di ricatto tirare in ballo i miei sentimenti. Ma d’altra parte era l’ultima carta che mi era rimasta da giocare.
«Lo so», sospirò. «Ci proverò. Quanti regali sono?». Nel suo tono si riusciva benissimo a distinguere un finto entusiasmo, ma era pur sempre qualcosa.
«Tre! Ma sono sicuro che uno ti piacerà particolarmente». Prese un pacchettino che stava sul tavolo e lo scartò. Era una bambola, quella che aveva sempre voluto e che ci aveva sempre chiesto.
«Grazie», mi disse accennando un sorriso.
«Prego». Le feci una carezza sulla testa mentre prendeva il secondo pacchettino. Lo aprì senza entusiasmo. Era un vestitino. Elena l’aveva visto pochi giorni prima dell’incidente e mi aveva confessato che avrebbe voluto regalarlo a nostra figlia.
«È bello», mi confessò guardandolo. Aveva sicuramente riconosciuto il gusto di sua madre e ne era rimasta colpita. Sembrò voler chiedermi qualcosa ma poi rinunciò.
«Viola cosa c’è?».
«Alla mamma sarebbe piaciuto», disse indicando il vestito.
«Sì, le sarebbe piaciuto molto. Che ne dici se ce lo mettiamo oggi?». Non c’era bisogno di specificare che quello era proprio una scelta di Elena. Sapevo che lei l’aveva già capito e che la domanda che voleva pormi prima era proprio quella.
«Va bene». Accennò un piccolo sorriso e per me fu come aver vinto la partita del secolo. Quel regalo era riuscito a strapparle un piccolo sorriso tirato. Mi sarei accontentato anche solo di quello per tutto il giorno.
Si guardò intorno per cercare un’altra scatolina, in modo da togliersi subito quell’incombenza. «Ma dov’è l’altro?», mi domandò. Però il terzo era qualcosa di molto più speciale.
«Lo portano i nonni e sono sicuro che ti piacerà molto».
«Anche questi sono belli, non dovevi farmi tanti regali». Dove si è mai vista una bambina che non vuole ricevere dei doni?
«Lo so, ma l’ultimo è davvero particolare. Sono sicuro che riuscirò a straparti un altro sorriso quando lo vedrai»
«Io non ho tanta voglia di sorridere», ribatté.
 «Be’ lo hai appena fatto, non so se te ne sei accorta», le feci notare. Lei per tutta risposta sbuffò.
«Comunque i nonni hanno detto che andiamo in piscina tutti insieme. Anzi staranno per arrivare e  sarà meglio prepararsi». La portai in bagno e l’aiutai a vestirsi, a infilarsi il costumino e a pettinarsi. Le spruzzai un goccio di profumo, come facevo tutte le mattine e lasciai che lei si infilasse i sandali. Poi andai anch’io a prepararmi e sistemare lo zaino con tutta la roba che ci sarebbe potuta servire. Giochi, asciugamani, ciabattine…
«Papà?», mi chiamò entrando in camera.
«Sì tesoro, c’è qualcosa che non va?».
«No, solo che prima hai detto che oggi posso fare quello che voglio…». Lasciò la frase in sospeso in modo che io ribadissi il concetto.
«Sì certo, è il tuo compleanno piccola mia», confermai.
«Allora andiamo in un posto stasera?», mi chiese.
«Sì! Tu dimmi dove vuoi andare e io ti ci porto». Era già tanto che volesse fare qualcosa, non mi aspettavo proprio che mi proponesse qualche programma.
«Andiamo al cimitero a trovare la mamma?». Dovevo aspettarmelo, ma mi rattristai lo stesso sentendo le sue intenzioni.
«Viola proprio oggi? Ci andiamo tutte le domeniche». Non mi sembrava che un programma come quello potesse rallegrarle la giornata.
«Sì, ma oggi sono tre mesi che la mamma non c’è più». Non ci avevo fatto caso ma era proprio così. Perché la morte di Elena doveva cadere lo stesso giorno della nascita di Viola? Entrambe il quindici.
«Io non credo sia una grande idea», cercai di ribattere.
«Ma avevi detto che potevamo fare quello che volevo io». I suoi occhi si fecero più lucidi, il suo respiro più affannoso.
«Okay tesoro, però non piangere, non fare così». L’abbracciai e cercai di asciugare quelle prime lacrime che le stavano uscendo dagli occhi. Viola non era un tipo da fare i capricci, ma in quel momento ebbi l’impressione che mi stesse un po’ manipolando. Ma d’altronde lei non mi stava chiedendo molto.
«Mi ci porti allora?».
«Certo, basta che non piangi». Tirò su con il naso ed annuì.
Proprio in quel momento suonarono alla porta. «Questi devono essere i nonni perché non vai ad aprire?». La lasciai andare e finii di sistemare lo zaino.
«Auguri!», gridarono Renato e  Luciana.
«Auguri piccola!», fece eco mia madre. Andai anche io di là da loro.
«Ciao», li salutai.
«Ciao Roberto», mi salutò Luciana avvicinandosi.
«Avete portato il regalo?», mi informai.
«Certo siamo appena passati a prenderlo. Viola, tesoro chiudi gli occhi». Lei sbuffò ma dopo avermi lanciato uno sguardo obbedì.
Avevamo deciso che forse un animale poteva farla star meglio, poteva farle più compagnia di chiunque altro. Un animale sarebbe riuscito a distrarla e a impegnare le sue giornate. Per questo avevo chiesto loro di passare dal canile prima di venire da noi.
«Ecco qui». Mia madre le mise davanti un piccolo cucciolo dal pelo color cioccolato. Era piccolo ma appena svezzato.
«Puoi aprirli tesoro». Aprì gli occhi e restò a guardare il cucciolo senza dire una parola. Non sembrava gradire quella nostra sorpresa. Il cane la guardò scodinzolando felice e guaì per attirare la sua attenzione ma lei restò immobile. Non sembrava che le piacesse, anzi aveva reagito con più entusiasmo ai regali precedenti. Sembrava aver gradito di più il vestito che aveva addosso piuttosto che quel cucciolo, che tra l’altro era anche una cosa che ci aveva sempre chiesto.
«Allora ti piace? È carino, non trovi?», le chiese Luciana.
«Sì». Ma non c’era punta eccitazione nella sua voce.
«Prendilo». Afferrai il cagnolino e glielo passai. Lei lo prese con le mani tremanti. Questo le si agitò tra le braccia, scodinzolante aspettando solo di essere coccolato. Viola restò immobile, quasi impaurita dall’esserino che aveva in collo.
«È molto piccolo ma è tuo tesoro», le disse Renato.
Alzò lo sguardo e mi fissò. «Ma come facciamo a tenerlo papà? Siamo sempre fuori casa». Possibile che a quelle età fosse già così razionale? Invece di chiedermi il permesso mi faceva notare le problematiche che quel regalo avrebbe comportato.
«Ci penserò io quando tuo padre è a lavoro», intervenne mia madre.
«Allora tesoro, dimmi la verità: ti piace? Lo vuoi?». Una bambina normalmente avrebbe fatto i salti di gioia. Non mi aspettavo quell’entusiasmo ma neanche quella reazione contraria.
«Sì, grazie mille», acconsentì dopo un po’. Iniziò a coccolarlo tra le sue braccia. Il cagnolino cominciò a riempirla di baci, le leccava tutto il viso agitandosi per ricevere sempre più coccole. E miracolosamente riuscì a strapparle un mezzo sorriso. Un altro raggio di sole in quella giornata nuvolosa. Due piccoli sorrisi in una mattina: era un record.
«Come lo vuoi chiamare? È un maschio», intervenne Luciana.
«Non lo so. Tu papà hai qualche idea?».
La guardai perplesso. Mi stava chiedendo di scegliere un nome? A me che non avevo la minima inventiva? «Non credo che spetti a me a dargli un nome», tentai di uscirne. «in fondo è un tuo regalo».
«Che ne dici di Pongo?», intervenne mia madre.
«È troppo banale», ribatté Luciana. Viola sembrò rifletterci un momento, mentre i nonni continuavano a sparare nomi a caso.
«Vorrei chiamarlo Lucky», disse infine. Appena pronunciò quel nome mi ricordai subito di una discussione che avevamo avuto con Elena.
“Viola se mai dovessimo comprarti un cane”, aveva detto, “lo chiameremo Lucky, perché sarebbe davvero fortunato ad entrare in una famiglia come la nostra”. Io avevo prontamente ribattuto che se fosse stato una femmina quel suo ragionamento non sarebbe valso un granché.
Viola doveva essersi ricordata di quella frase che in quel momento era stata detta per scherzare, ma che adesso assumeva tutto un altro valore.
«È un bellissimo nome amore mio», acconsentii. Mi lanciò uno sguardo complice, sapendo che io avevo capito il perché della sua scelta. Dopo di che tornò a fissare il cucciolo e fui lieto di vedere i suoi occhi luccicare emozionati. Voleva fingere indifferenza ma sapevo che quel regalo aveva sortito l’effetto desiderato.
Finalmente, mentre discutevo con gli altri su cosa sarebbe stato necessario per il cane, Viola iniziò a giocare con lui  e a dedicargli un sacco di attenzioni.
Mi ritrovai a sospirare di sollievo. In realtà temevo molto di più il fatto che lei non volesse essere felice, piuttosto che non potesse esserlo. Non voleva essere contenta senza sua madre e si sentiva in colpa ad esserlo. Ma era solo una bambina ed era un suo diritto quello di essere allegra.
Lucky  era stato un’ottima idea. Si sarebbe distratta ed ero sicuro che sarebbe riuscita ad andare avanti più facilmente. Ogni tanto quel giorno  riuscì a fare dei piccoli sorrisi ed era già molto. Solo quel semplice fatto mi riempiva il cuore di gioia. Vedere mia figlia sorridere era l’unica cosa che potesse per un attimo farmi dimenticare il vuoto che sentivo intorno. Ormai Viola era diventata il mio tutto e io mi sarei gettato tra le fiamme per lei. Era la mia ragione di vita e sapere che lei stava cercando di riemergere era una spinta anche per me. Mi stava dicendo che stavo andando bene come padre, che ero all’altezza della situazione. Per la prima volta da quando era morta Elena mi sentii davvero in grado di gestire il resto delle nostre vite.
 
Durante quel giorno cercai di far divertire Viola il più possibile, di distrarla, di farle dimenticare cosa era successo tre mesi prima. Ma niente riuscì a smuoverla dal suo proposito di andare a trovare la madre quella sera.
Andammo al cimitero dove insistette perché comprassi un mazzo di fiori, nonostante quelli sulla tomba fossero ancora freschi. Volle sceglierli personalmente e volle anche sistemarli lei stessa. Restò per dieci minuti a fissare la tomba di sua madre senza dire una parola. Poi, quando le dissi che era il caso di andare, mi seguì senza fare storie.
Quando tornammo a casa era molto stanca e si addormentò sul mio lettone. Le permisi di tenere sul letto Lucky e di poterci dormire insieme. Avevo paura che se glielo avessi proibito sarebbe ritornata triste come appena alzata. Mi accorgevo di viziarla un po’ troppo, ma cos’altro potevo fare? Non volevo che nulla la turbasse e che potesse fare regredire quei pochi progressi che aveva fatto. Ogni passo avanti era una conquista da difendere a spada tratta; non potevo permettere a niente e a nessuno di ferire nuovamente la mia bambina. 
Avevo sperato che Lucky la distraesse quel tanto che bastava da non farle pensare continuamente a sua madre. E fortunatamente fu esattamente così. Dovetti rinunciare a tutte le mie scarpe e all’integrità dei mobili di casa, ma era una rinuncia che ero ben disposto a fare per la felicità di  mia figlia. La vivacità del cucciolo cominciò pian piano a far riemergere anche quella di Viola. Li vedevo correre instancabilmente per tutta la casa senza fermarsi un minuto. Anche se i momenti di tristezza e solitudine c’erano sempre, con l’andare del tempo cominciarono sempre più ad essere intervallati da quei momenti di spensieratezza. Viola stava lentamente riacquistando quella serenità che tutti i bambini dovrebbero avere. Non che il dolore fosse così magicamente sparito, ma con il tempo lei sembrava aver imparato a metterlo da parte o quantomeno ad ignorarlo.
A volte gli animali sono la migliore soluzione, quelli che ci possono far superare anche i momenti più difficili. L’amore incondizionato che ti danno può far spesso dimenticare il dolore che si prova. Sono la prova che molte volte sono molto meglio delle persone stesse e che riescono a fare ciò che a volte sembra quasi impossibile. 

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Capitolo 9
*** 8. Pazze conoscenze ***


Pazze conoscenze
 
«Oggi è il primo giorno di scuola di Viola, te lo ricordi vero?», mi disse Elena all’improvviso. Eravamo come al solito distesi sul letto della camera bianca e ci stavamo baciando appassionatamente. Prima che lei interrompesse quel meraviglioso silenzio si sentivano solo i nostri respiri ansanti e il fruscio delle nostre labbra.
«Certo è da tre notti che non parli di nient’altro», sbottai. «Ora quando mi sveglio, la preparo e l’accompagno. Sei contenta?».
«Ricordati di portare Lucky da tua madre prima di andare a lavoro».
«Sì signora. Elena tesoro so cosa devo fare. Mi stai facendo diventare matto, è già tanto che la mattina non mi svegli con il mal di testa». Da quando era iniziato settembre Elena era così nervosa per la scuola di nostra figlia. Sapevo che in parte era dovuto al fatto che avrebbe voluto essere presente. Quello era solo il primo dei tanti aventi a cui non avrebbe potuto partecipare. Ma sapevo anche che era una maniaca del controllo e che voleva che ogni minimo dettaglio fosse programmato.
«Scusa sono solo un po’ preoccupata». Mi lanciò uno sguardo dolce e irresistibile per farsi perdonare.
«Lo so ma pensa che da quando c’è Lucky  Viola sta un po’ meglio», le feci notare.
«Sì ma io sono preoccupata per te. Hai un sacco d’impegni e non mi sembra che tu faccia progressi».
«Non è vero. Vuoi mettere ora rispetto ad aprile e maggio?». In effetti, dal compleanno di Viola era iniziato decisamente un periodo migliore. Forse era solo il fatto che nostra figlia stesse reagendo in qualche modo che mi faceva pensare che il peggio fosse passato. Non che io stessi bene, anzi Elena mi mancava esattamente come il primo giorno ma il fatto che mia figlia si stesse riprendendo mi faceva ben sperare ed era l’unica cosa che poteva riempirmi di gioia.
«Non è quello che volevo dire», ribatté. «Intendevo che se non mi vedessi tutte le notti non staresti affatto bene. E questo è sbagliato: io ti appaio in ogni sogno ed è proprio questo. Tu non vedi l’ora d’addormentarti per rivedermi». Era così ma che ci potevo fare?
«Sì io voglio solo vederti, abbracciarti, baciarti. Questo e basta», cercai di scherzare afferrandola. Quello era ciò che avevo sempre voluto e lei non poteva pretendere che rinunciassi, anche se non di punto in bianco, ai miei desideri.
«No Robbie!», si ribellò ai miei abbracci. «Io non sono reale e non puoi rintanarti e vivere la tua vita attraverso dei sogni. Non è possibile! Niente di ciò che sta avvenendo in questo momento è reale, te l’ho già ripetuto un milione di volte». Capivo che lei aveva ragione ma semplicemente non potevo fare diversamente. Non ero pronto a dire addio e anche se sapevo che i nostri incontri clandestini non mi avrebbero aiutato su quel punto, anzi avrebbero solo prolungato la situazione, non vedevo altra soluzione. Non volevo smettere di sognarla e questo per lei era come se stessi rinunciando a vivere. Ma io non rinunciavo a vivere, avevo trovato un modo per far rivivere con me anche lei. 
Su quel punto non eravamo proprio d’accordo. Infatti si imbronciò e girò la testa dall’altra parte. Per fortuna in quel momento un suono acuto si fece pian piano strada per risvegliarmi. Ritornai con la mente al presente, spensi la sveglia e mi alzai. Viola dormiva ancora tranquilla con Lucky sui piedi. Mi vestii e preparai la colazione. Dopo andai a chiamarla facendo il più dolcemente possibile.
Purtroppo, il cane, quando mi vide avvicinare alla sua padroncina, cominciò ad abbaiare, facendola  svegliare di soprassalto. Tutta la mia delicatezza era andata a farsi friggere in un secondo.
«Lucky che c’è?», gli chiese strusciandosi i pugni sugli occhi.
«Tesoro mio oggi devi andare a scuola, è il primo giorno», le sussurrai sedendomi sul letto.
«Di già?», mugolò in risposta. Si distese di nuovo e tornò a dormire.
«Viola, è ora di alzarsi». La punzecchiai da sopra le coperte finché non mi obbedì e si scoprì. Si alzò e cominciò lentamente a prepararsi.
«Dobbiamo portare Lucky fuori, prima che andiamo via», mi disse mentre era in bagno. “Come se ne avesse bisogno”, pensai. Abituarlo a fare i suoi bisogni fuori casa era stata una tragedia, e ancora non era del tutto addestrato. Certe mattine mi svegliavo e trovavo le sue “sorpresine” a giro per la casa.
«Si certo. Poi lo porto dalla nonna e verrà lei a riprenderti oggi pomeriggio».
«Sì papà lo so, me l’hai già detto». Forse il fatto che Elena me lo ripetesse in continuazione faceva sì che anch’io facessi la stessa cosa con Viola? Mi stava facendo diventare paranoico.
Sistemammo tutto prima del previsto e arrivammo a scuola in anticipo. Comunque il piazzale era già gremito di bambini e di genitori.
Accompagnai Viola nella sua classe che si trovava proprio vicino al cortile. Dovevo, prima di andare via, spiegare alla maestra la questione di Elena. Dovevo dirle che era meglio non toccare quell’argomento, non ora che cominciava un po’ a riprendersi.
«Bene tu sei Viola Cantini, giusto?», le disse avvicinandosi a noi. Era una donna di mezza età, sembrava molto capace e affidabile. Si vedeva che amava i bambini, in fondo quello era lo stesso amore che mi aveva spinto a fare il pediatra.
«Sì». La maestra mi guardò e mi sorrise. Notò subito il fatto che ero solo ad accompagnare Viola, ma sembrò non dare peso alla cosa. Forse doveva essere abituata a bambini con i genitori divorziati. Anche se nella classe di Viola sembravo essere l’unico genitore single forse quella situazione non era poi così inusuale.
«Lei è il padre? È da solo, giusto?». Annuii in segno di conferma e sperai che non aggiungesse altro, almeno non lì davanti a Viola. Ma stranamente fu proprio lei a parlare.
«La mamma non c’è più», ammise. Il suo viso si fece più triste e abbassò lo sguardo per andare a fissarsi intensamente le scarpe. Anche se non l’aveva dato a vedere era evidente che in un giorno importante come quello avesse sentito l’assenza di Elena.
«Mi dispiace», disse colta alla sprovvista.
«Grazie». Anche la maestra era rimasta spiazzata da quell’affermazione. E non era l’unica. Non avevo minimamente pensato che potesse essere mia figli a tirare fuori quell’argomento prima che io avessi la possibilità di parlarne con le insegnanti.
All’improvviso sentii Viola stringermi le gambe. Mi abbassai e l’abbracciai. La sentii tirare sul col naso e capii che, anche se non voleva farsi veder piangere, in realtà le lacrime avevano preso il sopravvento. La maestra intuì che era meglio lasciare che fossi io ad intervenire.
«Tesoro vuoi che rimanga?». Le passai le dita nei capelli e con l’altra mano le sfiorai il grembiulino.
«No», rispose subito. «Vai papà e ricorda di portare Lucky dalla nonna». Si stacco da me e si stropicciò gli occhi asciugandosi le lacrime il più velocemente possibile.
«Va bene. Fai la brava». Le diedi un bacio e lasciai che si adattasse a quel nuovo ambiente tutta da sola.
«Le posso parlare?», chiesi poi alla maestra. Lei mi accompagnò fuori dall’aula e rimase sulla porta per osservare i bambini nella classe.
«Mi dispiace molto. Sono rimasta senza parole, non mi aspettavo un’affermazione così sincera».
«Già! Ha lasciato basito anche me», risposi.
«Quando è successo? È una cosa recente a quanto mi è sembrato di capire».
«Ad aprile, si sta iniziando a riprendere proprio ora».
«Condoglianze, deve essere terribile».
«Non può immaginare quanto», sospirai. «So che può essere difficile, ma per il momento le sarei grato se evitasse di trattare questo particolare tema. Viola è una bambina forte e sta cercando di andare avanti con tutte le sue forze, ma questa è ancora una ferita troppo recente».
«Sì certo, capisco benissimo. Posso solo chiederle, se non sono troppo indiscreta, come è successo? Sua moglie era malata?».
«No. Ha avuto un incidente con la macchina, un maledetto incidente del tutto improvviso».
«È terribile», ripeté.  «Avrò la massima cautela con Viola, non si preoccupi».
«Grazie, adesso sarà meglio che vada». Uscii dalla scuola a malincuore. Avrei davvero voluto essere al fianco della mia bambina in quel nuovo passaggio fondamentale della sua vita. Ma dovevo lasciare che affrontasse quella nuova prova da sola. Era la prima delle tante battaglie, che purtroppo, avrebbe dovuto affrontare senza sua mamma.
 
Dopo aver portato Lucky da mia madre, andai diretto al Meyer. Ero in ritardo e sicuramente molti genitori preoccupati stavano aspettando solo me. Entrai nel parcheggio e cominciai a cercare un posto libero. Il parcheggio per i dipendenti era momentaneamente chiuso per lavori di ristrutturazione e ampliamento e sarebbe rimasto tale per tutta la settimana successiva. Quindi noi medici dovevamo arrangiarci cercando un posto nel parcheggio dell’ospedale, tra le auto dei pazienti e dei loro parenti. Ma essendo quasi le nove, molta gente era già arrivata e non c’era un posto neanche a pagarlo oro.
Stavo percorrendo la strada principale quando un’auto, che doveva darmi la precedenza, passò a un millimetro della mia macchina, costringendomi a inchiodare.
«Ehi? Ma come guidi!», gridai sporgendomi dal finestrino. Ci mancava solo che mi tamponassero e ammaccassero l’auto!
«Io?». La donna che era all’interno, si sporse indietro per guardarmi. «Non lo vedi lo stop? Imbecille».
«Lo stop sì, ma dalla tua parte!». Ma non mi diede nemmeno il tempo di ribattere che era già ripartita sgommando.
“Chi le ha dato la patente? E voleva anche ragione”, pensai tra me e me. “Ci manca solo che faccia un incidente dentro un maledetto parcheggio!”. Sospirai e decisi di lasciar perdere. Non potevo certo farmi innervosire da una stupida del genere. Ripartii e continuai a girare.
Finalmente vidi uno spazio libero, abbastanza grande da infilarci due macchine.
«Oh finalmente», esultai, mettendo la freccia. All’improvviso la stessa donna di prima mi tagliò la strada e mise la sua dannata macchina nel mezzo, precisamente nel mezzo, in modo che non ce ne entrasse una seconda.
«Oh ma guarda questa!». Questa volta non poteva passarla liscia. «C’ero prima io! Non l’hai vista la freccia?». La donna, che sembrava molto giovane, scese di macchina come se non si fosse accorta di niente.
«Veramente l’avevo visto prima io», ribatté sistemandosi i ricci come se nulla fosse.
«Ma poi come l’hai messa? Lì ce n’entravano due! La mia e la tua di sicuro».
«Io la metto come cavolo mi pare, e poi è già tanto che tu non mi abbia preso prima>>.
“Sta scherzando?”. Non potevo credere che stesse succedendo davvero. “Tutte io le devo incontrare le pazze, come se non avessi già abbastanza fretta e abbastanza problemi”.
«Stai dicendo sul serio o hai solo qualche rotella fuori posto?».
«Come ti permetti! Casomai sarai tu ad avere qualcosa che non va». Così dicendo chiuse l’auto e si avviò verso l’ospedale.
“Guarda che gente! Voleva avere ragione a tutti i costi”. Non riuscivo a non pensarci.
 Mi strinsi nelle spalle: a quel punto non potevo più farci nulla. Amaramente mi rimisi a cercare parcheggio e fortunatamente più avanti ne trovai uno.
La mia mente ritornava sempre a quel che mi era appena successo: era paradossale. Forse era vero il detto “donne al volante pericolo costante”, ma era la prima volta che incontravo una persona così. Non sapevo nemmeno come descriverla. Tutte le donne che conoscevo guidavano piuttosto bene, compresa Elena. Forse ne conoscevo troppo poche e dovevo allargare le mie vedute. Ma…
“La gente è proprio strana”, pensai. “Non si finisce mai di stupirsi”.
 
Passai la mattinata a fare visite nei reparti, tra i miei piccoli pazienti. Ogni tanto tiravo fuori il naso e la parrucca da clown per far obbedire qualche bambino più capriccioso, ma niente di particolarmente difficile. Era una giornata tranquilla e fino a quel momento non c’erano state grandi urgenze, per fortuna.
Dopo aver pranzato decisi di concedermi una pausa e di andare a prendere un caffè. Visto che  l’espresso nella saletta dei medici era quasi finito e non era neanche un granché, decisi di prenderne uno alle macchinette nella sala d’aspetto. Tanto più che a chi finiva il caffè spettava il compito di rifarlo e non avevo proprio voglia di mettermi a prepararlo.
Così mi misi pazientemente in coda, dietro a molte altre persone. Alcuni erano i genitori dei miei piccoli pazienti, altri erano persone che non avevo mai visto. Magari erano lì solo per una visita. Quando finalmente toccò a me, la sala si era quasi svuotata. Guardai l’ora, nonostante avessi atteso abbastanza avevo ancora tempo prima di tornare a lavoro.
«Mi scusi, mi scusi vado di fretta». La stessa donna del parcheggio mi spinse indietro e infilò i soldi al posto mio.
«Ancora tu?», le dissi scocciato. Come faceva ad essere così scortese? L’avevo vista solo per un minuto e già mi risultava antipatica. Aveva sicuramente la capacità di farmi innervosire.
«Oh, sei quello di stamattina, guarda che coincidenza». Mi salutò con un ampio sorriso ricordando il nostro quasi scontro. Premette un tasto alla macchinetta nonostante la mia evidente occhiataccia.
«Già proprio una coincidenza», dissi a mezza voce. Mentre aspettava che il suo caffè fosse pronto notai che anche lei indossava il camice. Doveva essere un medico ma io non l’avevo mai vista. Rispetto alla mattina aveva i capelli raccolti in una coda ma i suoi ricci castani erano così ribelli da non riuscire a stare in ordine. Poteva essere una cafona ma sicuramente era una bella donna.
«Certo dovresti fare più attenzione a come guidi o finirai per causare qualche incidente», mi disse quando notò che la fissavo. Strabuzzai gli occhi e non potetti credere alle mie orecchie.
«Io?», ribattei. «Ma se io non avessi inchiodato tu mi saresti venuta addosso!».
«Cosa? Lasciamo perdere. Scusami ma adesso devo proprio andare». Prese la tazzina e si girò impettita dall’altra parte. Si allontanò ancheggiando lungo il corridoio.
Rimasi esterrefatto. Era tutta pazza! Non poteva essere altrimenti.
Ancora tra l’infastidito e il divertito per l’ilarità della situazione, infilai i soldi nella macchinetta. Digitai il numero del caffè. Come se non ci fosse mai fine al peggio, il bicchierino non scese e si accese una spia che indicava che erano finiti. Non solo avevo fatto la coda per nulla ma lei si era fregata l’ultimo caffè nonostante io fossi davanti. Esattamente come al parcheggio.
Quando tornai nel reparto ero più nervoso che mai. Un’infermiera mi disse che il primario mi stava cercando. Diceva che aveva qualcuno da presentarmi. Pensai che si trattasse di qualche specialista, suo vecchio amico e collega. Alle volte voleva mettermi un po’ in mostra, visto che ero uno dei pediatri più giovani e più promettenti del reparto. La cosa non mi piaceva granché: non ero il tipo da vantarsi o da mettersi in mostra. Ma d’altronde lui era il mio capo.
«Avanti», mi disse quando bussai alla porta del suo studio.
«Mi ha fatto chiamare?».
«Oh Roberto. Ti stavo aspettando con impazienza. Ecco: volevo presentarti una nostra nuova collega la dottoressa Monica Landi». Mi indicò una sedia di fronte alla scrivania dove era esattamente seduta lei, la pazza.
«Tu?», dicemmo contemporaneamente.
«Ah, già vi conoscete?». Sembrava sorpreso e quasi infastidito da quella nostra reazione. Era un ottimo primario, ma non era molto accomodante quando le cose non andavano come voleva lui.
«No, cioè sì. Ci siamo incontrati stamattina», spiegai.
«Ci conosciamo solo di vista», mi aiutò lei.
«Bene allora», sorrise entusiasta. Poteva procedere con le sue presentazioni. «Monica lui è il pediatra di cui ti parlavo: lavora con noi da molto tempo ormai ed è uno dei migliori medici dell’ospedale, Roberto Cantini».
«Faccio solo il mio lavoro», intervenni imbarazzato per i suoi complimenti.
«Non fare il modesto, è la verità. Questa invece è Monica Landi, si è laureata in psicologia infantile con il massimo dei voti ed ha notevoli esperienze in questo campo. Da ora in poi ci aiuterà con i nostri bambini, spero che collaborerete per dare ai nostri giovani pazienti un servizio migliore».  
«Piacere di conoscerti», le dissi stringendole la mano.
«Il piacere è tutto mio». Ma sembrava più una di quelle frasi fatte che si convengono di dire per educazione più che per sincerità.
«Perdonatemi ma io dovrei andare, alcuni genitori mi stavano cercando». Era la prima scusa che mi era venuta in mente ma non volevo più restare lì. Mi sembrava impossibile di dover lavorare fianco a fianco con quella Monica, la nostra relazione non era potuta partire in maniera peggiore. Sentivo che non saremmo mai andati d’accordo.
Uscii di fretta dalla stanza e ritornai al mio lavoro.
 
Passai le ultime ore del turno a visitare un neonato che aveva difficoltà respiratorie molto gravi, una sorta di asma. Un caso abbastanza difficile e preoccupante. Sicuramente non il caso migliore da affrontare prima di tornare a casa. Sarei stato molto preoccupato se non avessi conosciuto alla perfezione la capacità e la bravura del medico che stava per sostituirmi.
Stavo per togliermi il camice quando mi sentii chiamare.
«Roberto?».
«Sì?». Mi voltai: dietro di me c’era Monica che mi stava guardando timorosa.
«Senti credo che la nostra relazione sia incominciata con il piede sbagliato». Infatti: il mio sul freno e il suo sull’acceleratore quando doveva essere esattamente il contrario. Quella era la prima cosa su cui ci trovavamo d’accordo.
«Già credo anch’io».
«Visto che dovremo lavorare insieme d’ora in poi mi chiedevo se non ti andasse di prenderci qualcosa al bar prima di andare via? Per fare due chiacchiere e conoscerci meglio».
«No, mi dispiace». Non che non volessi migliorare quel nostro rapporto, visto che da quel momento avremmo dovuto essere non solo semplici colleghi ma cooperare per il bene di tutti i bambini ricoverati lì dentro. Però io dovevo assolutamente tornare a casa da Viola.
«Io pensavo fosse una buona idea visto che da oggi lavoreremo fianco a fianco», puntualizzò. Sembrava imbarazzata, si rigirava le dita nei capelli e fissava un punto indeterminato alle mie spalle. Aveva gli occhi grandi, con le iridi di un nocciola intenso.
«Sì certo», cercai di essere cortese. «Sarebbe una buona idea ma adesso non posso. Devo proprio scappare». Così dicendo mi voltai e la lasciai lì ammutolita. Per una volta forse ero stato io a lasciarla senza parole. Per quanto quella di socializzare con lei potesse essere una buona idea, in quel momento la mia mente aveva un solo pensiero: mia figlia e il suo primo giorno di scuola. Per questo andai subito a prendere Viola da mia madre.
Visto che volevo un po’ di privacy decisi di non restare a cena da lei. Avrei inventato qualcosa una volta a casa.
«Allora tesoro come è andato il primo giorno?», le chiesi mentre viaggiavamo in mezzo al traffico di Firenze.
«Abbastanza bene direi». Accarezzò Lucky che si era accucciato in mezzo alle sue gambe e la guardava scodinzolante.
«Davvero? Raccontami sono così curioso, poi se vuoi ti racconto come è andata la mia giornata». A Viola sarebbe piaciuta la storia di Monica la pazza.
«In classe siamo ventidue, siamo metà maschi e metà femmine. C’è Giulia, la mia compagna di banco e un sacco di altre bambine, sembrano simpatiche: ho giocato con loro a ricreazione. Non conoscevo nessuno ma non ha importanza. La maestra è carina e simpatica, ci ha dato una lista di cose da comprare».
«Bene, e che mi dici da questo primo giorno: ti piacciono le elementari?».
«Per ora non so, domani vedrò. Oggi ci siamo solo presentati, non abbiamo fatto nulla, praticamente. Domani iniziamo veramente».
«Hai detto che la tua compagna di banco si chiama Giulia, giusto?».
«Sì, ma ho due compagne di banco. L’altra si chiama Francesca, io sono nel mezzo». Per fortuna sembrava non aver avuto problemi a socializzare. Era sempre stata brava in quello. Dalla morte di Elena era cambiata e si era isolata, ma per fortuna con l’arrivo di Lucky sembrava aver riacquistato la sua indole abbastanza estroversa.   
«Papà», mi confessò all’improvviso, «nonostante tutto sono un po’ triste». Me lo aspettavo anche se avrei preferito sbagliarmi su quel punto.
«Per la mamma?». Era una domanda inutile, non avevo certo bisogno di conferme su quel punto
«Le sarebbe piaciuto vedermi lì a scuola, con il grembiulino e la cartella. Ne parlavamo sempre prima. Immaginavamo come poteva essere il mio primo giorno e su quali potessero essere i miei nuovi compagni». Non lo sapevo, ma il fantasticare era tipico di Elena.
«Sono sicuro che la mamma ha osservato per filo e per segno tutto quello che hai fatto oggi».
«Lo so, è solo un momento triste». Era un momento di nostalgia ed ero preparato ad affrontarlo. Le presi la manina e la portai sul cambio sotto la mia. Non c’era bisogno di parole. Bastava quel contatto per farle sapere che io ero lì e che ci sarei sempre stato.
Tirò su con il naso e cercò di cambiare discorso. «Comunque la nonna si è informata e lunedì prossimo ricomincia danza, due volte alla settimana. Poi il resto del tempo voglio restare con Lucky». Lo accarezzò grattandogli sotto il capo.
«Certo. Hai altro da raccontarmi oppure adesso è il mio turno?», le chiesi aiutandola cambiare argomento.
«Sì sta a te, cos’hai fatto oggi papà?».
«Ho incontrato una donna stranissima, una pazza. Mi è quasi venuta addosso con la macchina». Cominciai a raccontargli di Monica e di quel nostro incontro così paradossale.
«Ti ha fregato proprio tutto», commentò accennando un sorriso.
«Sì, ma adesso siamo arrivati. Scendi che poi continuo a raccontarti». Entrammo in casa e continuammo a chiacchierare. Poi Viola si addormentò sfinita sul divano, con Lucky al fianco, mentre guardava la televisione. Per lei era stata una giornata impegnativa ed era solo la prima di tante altre, sempre più pesanti.
La portai a letto e restai a guardarla dormire pesantemente. Aveva il respiro profondo e l’espressione rilassata.
Lucky arrivò scodinzolante e le s’accucciò ai piedi. Si mise a vegliarla proprio come me.
«Certo che è proprio bella la tua padroncina», gli dissi accarezzandolo. Lei era il frutto dell’amore che c’era tra me ed Elena e per me non c’era niente di più bello.
Sorrisi come uno stupido e uscii di camera spengendo la luce. Mi andai a preparare per l’unica consolazione e l’unico conforto che la notte mi dava, l’incontro con la mia anima gemella.

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Capitolo 10
*** 9. Tentativi di contatto ***


Tentativi di contatto
 
I rapporti con Monica non migliorarono nemmeno lavorando a stretto contatto. Eravamo due caratteri diametralmente opposti, che non avrebbero mai potuto andare d’accordo tra di loro.
Non che io mi sforzassi quanto lei di creare una sorta d’amicizia. Io la trattavo come una semplice collega, e le uniche cose per cui la contattavo riguardavano i miei piccoli pazienti.
Lei invece aveva cercato di conoscermi meglio, ma io gliel’avevo impedito. Non mi ero mai comportato così, ero sempre stato un tipo piuttosto socievole. Ma con lei mi ero chiuso a riccio, un po’ come aveva fatto Viola nei primi mesi dopo il lutto. C’era qualcosa che mi impediva di comportarmi con lei come avrei fatto con chiunque altro.
All’inizio avevo pensato che potesse essere per via di Elena. Probabilmente se lei fosse stata viva forse si sarebbe un po’ ingelosita, anche se non ne avrebbe avuto motivo. Ma quella idea era assurda: io sapevo benissimo che lei non c’era più e che quindi non avrei tradito nessuno. Tradire poi, non ci sarebbe stato nulla di male nell’essere amico di Monica. Io amavo Elena e si trattava solo di conoscere un po’ meglio un’altra donna, una collega.
Anche se da una parte questo era vero, arrivai in ogni caso alla conclusione che il mio comportamento era comunque legato al mio angelo. Stavo impedendo a Monica di conoscermi solo per evitare che sapesse di Elena. Non volevo che anche lei cominciasse a guardarmi con compassione come tutti gli altri colleghi. Sapevo che una volta saputo della sua morte avrebbe cambiato il suo modo di comportarsi, e francamente ero stufo di essere trattato con condiscendenza. Monica ignorando il mio passato si comportava come avrebbe fatto con chiunque.
Il fatto che lei non sapesse, che non immaginasse nemmeno ciò che avevo passato nell’ultimo periodo mi faceva sentire libero. Non ero soggetto a continui sguardi opprimenti, non sentivo la preoccupazione o la pietà che involontariamente mi rivolgevano gli altri colleghi. Anche l’ammirazione per la mia forza era insopportabile. Quale forza? Passavo le notti ad illudermi che Elena fosse ancora viva e quelle erano la mia spinta ad andare avanti. Non ero stato forte; mia figlia lo era stata molto più di me nonostante avesse solo sei anni.
Elena aveva perfettamente ragione quando diceva che rifugiarmi in dei sogni non serviva a nulla o che non faceva altro che impedire alla ferita del mio cuore di rimarginarsi. Ma era irrazionale: volerla, sentirla, toccarla; era un sentimento che non riuscivo a controllare. La notte, nei miei sogni, era l’unico momento in cui riuscivo ad averla e non ci avrei rinunciato, anche se ciò era un vero e proprio atto masochista.
Per questo in presenza di Monica rimanevo il più professionale possibile. Svolgevo il mio lavoro impeccabilmente e appena finito il turno tornavo a casa dalla mia piccola Viola. Perlomeno lei a scuola si trovava bene e non aveva problemi. La danza le piaceva, Lucky era sempre tra i suoi pensieri e si divertiva abbastanza. Sembrava che i momenti più difficili fossero passati, almeno per la mia piccola. Era sempre troppo occupata per pensare all’assenza della mamma. Era ovvio che lo notasse ma riusciva a passarci sopra. Io invece tiravo avanti impegnandomi il più possibile per arrivare alla sera.
Quel giorno il mio problema era Enrico, un bambino che, da quando era stato ricoverato lì al Meyer il giorno prima, assolutamente non parlava. Era stato portato lì per un problema polmonare e da allora non aveva più aperto bocca, né con i dottori, né con gli infermieri, né con gli altri bambini e nemmeno con i genitori.
«Allora me lo dici come ti chiami?». Ero lì nella sua cameretta a tentare di fargli dire due parole, anche perché era già difficile curare un bambino normalmente e se non parlava rendeva tutto molto più complicato.
«Io lo so perché non parli», intervenne Monica che era accanto a me. Quello era il suo caso principale, quello su cui perdeva più tempo di tutti. «La strega cattiva ti ha preso la voce».
«Allora è così? Peccato io ci tenevo proprio a sentire la tua bella vocina», le ressi il gioco.
«Già, è davvero un peccato», continuò. «Perché io, ai bambini che mi rispondono e mi dicono qual cosina, faccio un grande regalo».
«Eh già. Monica, vuol dire che se Enrico non parla, il regalo posso tenermelo io, giusto?». Avevamo già tentato in quella maniera e non aveva funzionato e anche in quel momento ci speravamo poco. Non riuscivamo a capire il motivo del suo mutismo, se era una questione prettamente psicologica o se era dovuto a qualcosa di più fisico. Dalle analisi non era risultato nulla, però ciò non potevamo escludere che fosse legato a qualche patologia.
«Giustissimo. Comunque io adesso vado, se vuoi dirmi qualcosa sai dove trovarmi». Uscì dalla stanza e mi lasciò solo con Enrico, che era sdraiato nel suo lettino. Lui mi guardò con uno sguardo impaurito e terrorizzato.
«Non devi avere paura, te lo abbiamo già detto. Qui nessuno vuole farti del male, siamo solo qui per curare la tua bua e farti star meglio, noi vogliamo solo che tu stia bene. Se non parli perché senti male è un conto, ma non devi temerci. Anzi noi siamo qui apposta per ascoltarti». Mi alzai e mi diressi verso la porta.
«Adesso sarà meglio che vada, altrimenti gli altri bambini penseranno che tu mi hai sequestrato».
«Aspetta». Non potevo credere alle mie orecchie.
«Hai parlato?», gli chiesi sorridendogli. Annuì senza però dire nient’altro.
«Allora fammi sentire, non ci credo se no», lo esortai.
«Se parlo me lo date davvero il regalo?». Gli rivolsi un grande sorriso. Era davvero un sollievo sentire la sua vocina.
«Certo, chiamo subito Monica, siamo d’accordo?». Annuì accennando una specie di sorriso. Uscii e l’andai a cercare.
«Allora?», gli chiese quando rientrammo nella stanza. «Roberto mi ha appena detto che tu hai parlato, ma non ci credo. Devo sentirti con le mie orecchie».
«Sì è vero», le rispose. «La strega cattiva non mi ha rubato la voce».
«Oh certo che non l’ha fatto!», esultò Monica, illuminandosi come una bambina. «E ora che la sento hai una voce bellissima».
«Tu aspettami qui che io torno subito», gli disse accarezzandogli la testa. «Qui un ometto si è guadagnato una ricompensa». Tornò pochi minuti dopo con una locomotiva giocattolo tra le mani. Ad Enrico brillarono gli occhi appena lo vide. Non mi aspettavo che gli portasse un regalo simile: non potevamo permetterci di fare quel genere di regalo a tutti i bambini.
«Ti piace?», gli chiese passandogliela.
«Sì, ma è mia?».
«Certo. Ma solo ad una condizione: ci devi promettere che non farai più una cosa del genere. Non parlare non è una soluzione. Siamo intesi?».
«Si lo prometto».
«Bene perché sai cosa succede ad i bambini che non mantengono le promesse?», lo spaventai. Lui annuì e strinse la locomotiva più forte tra le braccia.
«Dove l’hai presa?», le chiesi una volta usciti.
«Sono andata giù un attimo a comprarla, se lo meritava proprio», mi rispose sorridendo.
«Non sono sicuro che sia stato un bene fargli quel regalo. E gli altri bambini?». Mi lanciò un’occhiataccia, che mi fece desistere dal protestare ulteriormente. «Speriamo solo che non lo dica troppo in giro, se no siamo rovinati. Comunque ci siamo riusciti».
«Tu ci sei riuscito», puntualizzò. «Ma come hai fatto? Io ci ho provato per ore parlandoci da sola».
«Ho detto solo ciò che dovevo. È il mio lavoro dopotutto».
«Be’ in realtà qui la psicologa sarei io», si lamentò.
«Si vede che questa volta sono stato più bravo di te. Ora però devo andare, devo riprendere le visite». La lasciai lì su due piedi, come facevo sempre, a metà di una conversazione che forse poteva essere considerata amichevole, ma che in realtà sentivo come obbligatoria e basta.
 
Ma nonostante quei rari momenti di contatto con Monica, io restavo sempre abbastanza sfuggente e le impedivo di approfondire i nostri rapporti oltre il livello lavorativo. Eravamo due medici che collaboravano, punto. Non c’era nient’altro.
Lei spesso mi invitava a pranzo, con il pretesto di lavorare e anche di conoscerci meglio e io rifiutavo ogni volta. Trovavo sempre qualche scappatoia: Viola, o qualche bambino, o qualcos’altro. Non volevo lasciarmi andare con lei, e Monica ormai l’aveva capito. Però non demordeva. Era tenace, e non doveva essere abituata ad arrendersi.
«Vuoi venire a cena con me stasera?», mi chiese una delle poche sere in cui mi ero trattenuto fino a tardi. Cercavo sempre di evitare situazioni come quelle, principalmente per Viola. Ma a volte capitava che il lavoro prendesse il sopravvento e che restassi in ospedale fino all’ora di cena. Di solito avvisavo mia madre ma cercavo sempre di andarmene via prima.
«No, non posso mi dispiace». Mi levai il camice e lo riposi nell’armadio.
«Come al solito», sospirò. «Senti non è che io abbia tutta questa voglia di cenare con te. Non pensare che sia così visto che te lo chiedo sempre».
«Non lo penso», tagliai corto.
«Io lo faccio per educazione, prima di tutto».
«Per educazione?». La guardai sarcastico. Dopo il nostro primo incontro mi sorprendeva che proprio lei parlasse di educazione.
«Sì, visto che lavoriamo insieme sarebbe meglio  andare d’accordo, ma credo che a te non vada proprio giù il nostro primo incontro».
«E ci credo che no mi va giù!», sbottai. Cominciai a riordinare tutta la roba come facevo ogni sera, senza più prestarle ascolto. In fondo era stata lei la prima ad essere scortese e non mi aveva di certo chiesto scusa.
«A parte che sono disposta a tralasciare il fatto che tu vuoi darmi la colpa anche se non ce l’ho». Quello era davvero il colmo!
«Oh no! Non ricominciare, tu avevi lo stop. Spero che almeno questo lo abbiamo chiarito».
«Può darsi, e mi scuso se quel giorno sono stata scortese. Ero nervosa e in ritardo e quando sono nervosa mi comporto in modo irrazionale».
«Accetto le tue scuse». Almeno quelle l’avevo ottenute. Era già un passo avanti.
«Comunque avere un rapporto più amichevole non guasterebbe», continuò.
«Sì ho capito e lo so anche io. Ma te lo ripeto ancora una volta. Non posso, ho da fare». Viola mi stava aspettando e non volevo tardare ancora di più. Sapevo che quella, in fondo, era solo una scusa ma era più forte di me.
«Com’è possibile che tu abbia sempre da fare?», mi domandò esasperata. Feci spallucce e mi diressi verso la porta infilandomi il cappotto.
«Aspetta! Aspetta!», mi corse dietro prima che aprissi la porta della stanza e potessi mettere fine a quella conversazione. «Forse ho capito!».
«Cosa?», sbottai. Era irritante nella sua perseveranza; in più non avevo voglia di starla ad ascoltare, visto che non avevo tempo da perdere.
«Tu sei sposato», affermò con sicurezza. Sbiancai e la guardai sbigottito.
«Sì e tu come fai a saperlo?», chiesi titubante. Aveva parlato al presente, quindi non doveva saper nulla. Infatti avevo chiesto esplicitamente a tutti i miei colleghi di non tirare fuori quell’argomento, nemmeno per i pettegolezzi. Loro avevano capito che quella per me era una ferita troppo grande e per questo avevano obbedito.
«Ho visto la fede», spiegò. Misi subito la mano in tasca, pensando al fatto che avevo ancora la vera. Non avevo avuto il coraggio di toglierla. Era rimasta lì, sul mio dito, come se nulla fosse successo. L’avrei tolta quando fossi stato pronto, ma quel momento non era ancora arrivato.
«Allora è facile», proseguì. «Tu non vieni a cena con me perché tua moglie è gelosa».
«No», sussurrai. Elena non lo sarebbe mai stata, non ce n’era bisogno.
«Be’ sai la capisco, io sono pur sempre una donna e passo con te molto più tempo di quello che ne passa lei».
«No». Avrei voluto che fosse solo quello: una banale questione di gelosia. Abbassai lo sguardo e cercai di ignorare la voragine che si stava riaprendo nel mio petto.
Intanto Monica continuava a blaterare, mentre io cercavo di riprendere un certo contegno. Odiavo proprio la sua parlantina, non faceva che innervosirmi di più.
Adesso avrei dovuto spiegarle tutto; raccontarle una bugia sarebbe stato inutile, prima o poi lei avrebbe scoperto la verità. Forse avrei trovato il modo per andarmene prima di darle spiegazioni, ma alla fine avrei dovuto mettere al corrente anche lei. Avevo sperato di non farlo, ma quella tragedia, prima o poi, sarebbe venuta a galla lo stesso.
«Devo andare», dissi titubante. Misi la mano sulla maniglia per aprire la porta.
«Comunque puoi dire a tua moglie di non preoccuparsi, io non sono un problema: si vede che la ami». Restai con la mano appoggiata pronta a spingere l’uscio e a spalancarlo. Quello era davvero troppo, non potevo reggere una conversazione su Elena così a lungo.
«Vorrei tanto poterglielo dire», sospirai ricacciando indietro il groppo che mi era salito alla gola.
«Cosa?». Questa volta era lei perplessa, soprattutto dal mio tono di voce. Ormai era giunto il momento della verità.
«Ho chiesto a tutto lo staff di non parlare di questa faccenda, neanche alle mie spalle. Non avrei sopportato i pettegolezzi». Lei mi guardò dubbiosa non riuscendo a capire.
«Mia moglie è morta ad aprile», le confessai con un filo di voce. «Mi ha lasciato solo con una bambina di sei anni. È da lei che torno tutte le sere con tanta urgenza. E adesso scusami devo andare, è già tardi». Uscii di fretta dalla stanza mentre lei mi fissava ammutolita, sconvolta da quella notizia. Corsi il più velocemente possibile in macchina e una volta al posto di guida appoggiai la testa sul volante cercando in vano di riprendere un contegno.
 
Quella notte Elena era arrabbiata con me. Non si lasciò abbracciare e mi rivolse uno sguardo piuttosto esplicativo. La conoscevo così bene da riuscire a capirla soltanto guardandola. Quella che mi rivolse era la sua occhiata da “sono furiosa”.
Io dopo quella giornata non avrei voluto altro che una notte tranquilla con lei, invece si prospettava tutto il contrario. Mi andai a sedere sul letto mentre lei mi seguiva con lo sguardo, mantenendo la solita espressione dura.
«Perché sei arrabbiata? Cosa ho fatto?», le domandai titubante.
«E me lo chiedi anche? Ci sono talmente tante cose che mi fanno imbestialire». Aspettai che mi spiegasse. Sapevo che, in quel momento, qualunque cosa avessi detto sarebbe potuta rilevarsi un’arma a doppio taglio. Elena era brava con le parole e sapeva incastrarmi con le mie stesse frasi.
«Prima di tutto non mi piace il modo in cui ti stai comportando con Monica, non è da te». Aprii la bocca per ribattere ma non trovai le parole. Aveva ragione e non potevo darle torto.
«Lei si sta sforzando per conoscerti e tu la respingi», continuò. «Perché lo fai?».
«Perché…», tentai. «Non lo so. È che sento che siamo agli antipodi. Non credo che mi troverei in sintonia con lei».
«Questo non lo potrai mai sapere finché non farai un tentativo. In fondo noi due non abbiamo un carattere così simile come tu vuoi credere».
«E questo cosa c’entra?», ribattei offeso. «Vuoi fare davvero questo paragone?».
«No certo. Ma credo che ti servirebbe qualcuno che ti riporti alla realtà». La guardai perplesso, intimandole silenziosamente di spiegarsi.
«Da quanto tempo non esci più con Pietro?», continuò. «Vai a lavoro e poi pensi solo a Viola. Credimi Robbie io ti amo per questo ma mi chiedo quando riprenderai a vivere?».
«Ma io sto vivendo».
«No non lo stai facendo. Quello che fai è sopravvivere. Tu tiri avanti e aspetti la notte solo per rivedermi. Questo non è naturale: voglio che tu ti rifaccia una vita anche se questo implica il fatto che io sarò messa da parte». Rimasi in silenzio non sapendo cosa rispondere. Potevo capire ciò che voleva dire, ma anche se lo comprendevo non lo condividevo.
«Come abbiamo fatto ad arrivare a questo discorso?», tentai di alleggerire quel silenzio opprimente. «Non stavamo parlando di Monica?».
«Monica potrebbe aiutarti. Essere suo amico potrebbe essere utile e non solo perché devi lavorarci fianco a fianco tutti i giorni».
«Io non volevo che sapesse di te», confessai. «Per questo la tenevo a distanza».
«E perché mai? Pensi che non l’avrebbe scoperto alla fine? Roberto è la verità e non puoi nasconderla. Quello che mi è successo è una tragedia ma non puoi cambiare le cose. Come non puoi continuare a indossare la fede». Mi guardai la mano. L’anello scintillava sul mio anulare come un enorme cartello luminoso con su la scritta “colpevole”.
«Non voglio toglierla».
«Invece dovresti. Mettila insieme alla mia, non ha senso che stia sul tuo dito».
«Sì che ce l’ha invece», risposi alzando il tono della voce. «Io ti amo».
«Anche io ti amo, ma non ci sono più. Io non sono reale Robbie. Io non dovrei stare qui. Dovrei sparire dai tuoi sogni, ma tu mi richiami ogni volta». Il mio cuore iniziò a battere forte, il mio respiro si bloccò. La sola idea che lei sparisse per sempre mi mandava nel panico.
«Io…». Ma cosa potevo dire che non avessi già detto? Lei aveva ragione ma il mio bisogno ossessivo di vederla andava oltre la mia razionalità. Non riuscivo a staccarmi e non era un bene. Lo capivo, ma ancora una volta non potevo affrontarlo.
«Sei tu che hai il controllo ricordi?», mi disse avvicinandosi e sedendosi accanto a me. «Io vorrei solo vederti felice, e non solamente in una illusione con me. Io non sarei sempre qui se ciò dipendesse da me, ma tu non mi lasci altra scelta».
«Intendi dire che non mi appariresti più ogni notte?».
«Esatto, non lo farei». Mi accarezzò una guancia, asciugandomi una lacrima che mi era sfuggita involontariamente.
«So che pensi che questo potrebbe darmi la spinta definitiva per riprendere la mia vita», tentai di spiegarle. «Ma non sarebbe affatto così. Io mi sentirei così solo e perso».
«Ed ecco che torniamo al punto di partenza. Devi trovare il modo di non sentirti più solo. Stringere nuove amicizie potrebbe aiutarti. Monica non ha nessun legame con me, con noi, con il passato. Dovresti darle una chance».
«Posso solo dirti che tenterò». Tentare non mi sarebbe costato nulla. Sapevo già che non mi stavo comportando correttamente con Monica. Ma anche se le fossi diventato amico, la situazione non sarebbe cambiata. Io avrei sempre avuto bisogno di Elena.
«Grazie», sospirò. «So che vivere il tuo futuro senza di me ti fa paura, ma il nostro amore ci sarà sempre. Non lo dimenticherai: io ti conosco così bene e so per certo che non lo farai…».
«C’è un ma vero?».
«Ma devi fare dei piccoli passi in avanti. Il primo con Monica, il secondo togliendoti la fede». Aprì la bocca per ribattere ma lei mi zittì, chiudendomela con la mano. «Non ricominciamo. Promettimi che lo farai. Non è certo quell’anello che indica quello che c’è stato tra noi».
Sapevo che tentare di farle cambiare idea era inutile. Nelle discussioni vinceva sempre lei.
«Va bene lo farò», mi arresi.
«Bravo. Sono dei piccoli passi, ma devi partire da quelli. Solo così sarai pronto a lasciarmi andare. E quando finalmente ci riuscirai non avrai più bisogno che io sia qui con te durante i tuoi sogni».
«Io non sarò mai pronto per questo». La guardai negli occhi e vidi che i suoi erano colmi di lacrime. «E poi perché dovrei visto che questo ti fa piangere?».
«Ti sbagli». Si asciugò gli occhi con la mano. «Io non sarei triste, è quello che voglio per te. Voglio tutto per te Robbie ed io purtroppo non sono più quel tutto». Non risposi e appoggiai la testa sulla sua spalla, chiudendo gli occhi. Non era più il momento di discutere: avevamo già detto tutto e non c’era niente altro da aggiungere.
«So che pensi che non sarai mai pronto», sussurrò. «Ma quel giorno arriverà e sarai forte abbastanza per dirmi addio. Fino ad allora quando il tuo cuore mi richiamerà, io risponderò come ho fatto fino ad oggi». 

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Capitolo 11
*** 10. L'ascensore ***


L’ascensore
 
La mattina quando mi alzai ero particolarmente scosso. Non era stata certo una notte facile e ciò che mi aveva detto Elena non poteva passare inosservato. Lei pensava che sarei stato pronto a dirle addio e che un giorno sarei stato proprio io ad allontanarla. Per quanto pensassi che questa ipotesi fosse alquanto improbabile, sapevo che sarebbe dovuta essere una cosa naturale alla fine. Come tutti avrei dovuto imparare a staccarmi da lei e sarei dovuto andare avanti. In quel momento però, esattamente come ad aprile, io non riuscivo neanche ad immaginare quella eventualità.
Nonostante i mille pensieri che mi affollavano la testa, feci come se nulla fosse. Lasciai che la giornata proseguisse come al solito, con i suoi ritmi regolari: Viola, il lavoro e tutto il resto.
Quando giunsi in ospedale, Monica mi stava aspettando davanti all’ingresso.
«Ciao Roberto», mi disse appena mi vide arrivare.
«Ciao». Avevo promesso ad Elena che avrei dato una chance a Monica, ma non potevo affrontarla così subito di prima mattina. Feci per entrare, senza aggiungere altro, ma lei mi afferrò per un polso.
«Senti mi dispiace molto per ieri sera». Il suo sguardo era esattamente come mi ero aspettato: pieno di compassione. Adesso anche lei avrebbe cominciato a trattarmi con le pinze come, d’altronde, facevano tutti.
«Non fa nulla».
«Io non avrei mai insistito così se avessi saputo», continuò.
«Ma non lo sapevi. Io te l’avevo nascosto, quindi non devi sentirti in colpa». Tentai di liberarmi ma inutilmente, la sua presa era più salda che mai.
«Senti non insisterò più. Comunque se dovessi avere bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa anche per la bambina».
«Ecco questo proprio no!», scoppiai. «Ho evitato che gli altri lo raccontassero in giro proprio per evitare la compassione e la pietà che tutti mi offrono. Li vedo i vostri sguardi, so cosa significano: “povero Roberto, che tragedia”. Siete tutti pronti ad offrirmi il vostro aiuto e intanto nel profondo vi sentite sollevati perché tutto questo non è successo a voi ma a me. Fate una bella cosa, perché non vi limitate a pensare agli affari vostri?». Mi voltai infuriato e salii furente di rabbia in reparto.
Ero esploso: avevo riversato su di lei tutto quello che mi si agitava dentro. Non avrei dovuto reagire così ma pietà e compassione proprio non le volevo. Era orribile, quel trattamento mi imbestialiva di più della completa indifferenza.
Anche Viola, quando diceva che tutti erano molto gentili con lei, si riferiva proprio a questo. Ma con la pietà altrui non ci si fa assolutamente nulla, non è che ti restituisce ciò che il destino ti ha portato via. Per questo né io né Viola ne avevamo bisogno; sapevamo cavarcela da soli.
Mi dedicai al mio lavoro e per tutto il resto della giornata impedì a Monica di parlarmi. Sapevo che Elena si sarebbe infuriata e che non stavo mantenendo la mia promessa, ma era più forte di me. Come potevo d’altronde avvicinarmi a lei e iniziare a fare conversazione, come se nulla fosse, dopo che le avevo urlato contro? In più, non avevo voglia di scusarmi; quello che le avevo detto era vero e l’avrei ribadito all’istante. Il suo diverso atteggiamento nei miei confronti, da quando aveva appreso la notizia, mi aveva mandato su tutte le furie.
Concentrandomi esclusivamente sul mio lavoro, il tempo passò abbastanza velocemente ed arrivò presto la fine del mio turno. Avevo programmato di andare a prendere Viola a danza, facendole una sorpresa. Sarebbe stata felice di vedermi arrivare al posto dei nonni, che tra tutti e tre facevano a gara per andare a riprenderla.
Chiamai l’ascensore; solitamente facevo le scale ma quel giorno non avevo fretta. Una volta che fu arrivato, entrai e premetti il tasto del piano terra. Ma proprio mentre le porte si stavano chiudendo qualcuno infilò la borsa davanti alla fotocellula facendole spalancare nuovamente.
Monica entrò trafelata nell’ascensore e mi lanciò uno sguardo di scuse.
«Volevo dirti che mi dispiace e che hai perfettamente ragione. Perdonami», mi disse quando le porte si richiusero e l’ascensore cominciò a scendere.
«Non le voglio le tue scuse». La sua tenacia era snervante. Dovevo aspettarmi che, quando prima mi aveva detto che non avrebbe più insistito, non l’avesse detto seriamente.
«Non vuoi la mia pietà, questo lo capisco. Ho sbagliato prima, ma la mia era una semplice offerta d’aiuto; non devi vederlo come un gesto di compassione».
«E perché mai tu vorresti aiutarmi? Ci conosciamo appena», ribadii. Parve spiazzata da quella mia affermazione. Sembrò cercare le parole adatte per spiegarsi.
«Prometto che ti tratterò come ho sempre fatto, come un semplice collega. Però vorrei davvero aiutarti perché posso capire benissimo come ci si possa sentire». Sospirò profondamente e si appoggiò alle porte, come se non vedesse l’ora che si spalancassero. Ma era voluta lei entrare in ascensore con me, non il contrario? Si comportava come se non potesse aspettare e volesse subito uscire per non rimanere ancora lì dentro con me.
«No invece tu non puoi capire», replicai.
«Si invece». Mi fissò decisa, i suoi occhi nocciola più sicuri che mai.
«Sei mai stata sposata? Hai mai avuto una figlia?».
«No, ma non significa che io non comprendo quello che tu e la tua bambina state passando».
«Invece significa proprio questo». Quella era la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. «Non sai cosa vuol dire perdere tutto».
«Invece sì», gridò infervorandosi.
«No», urlai di rimando. Proprio in quel momento l’ascensore si bloccò lasciandoci a metà piano.
«Che succede?», mi chiese passando dalla rabbia alla paura in un solo istante.
«Si è fermato, ci deve essere un guasto». Ovviamente, visto che avrei voluto mettere fine a quella discussione il prima possibile, il caso aveva fatto in modo da tenermi bloccato lì con lei.
«Come si è fermato? In che senso ci deve essere un guasto?». La sua voce divenne più stridula e il suo respiro si fece più veloce. Cominciò a girare nel vano agitandosi, guardandosi freneticamente intorno.
«Non ti preoccupare ora schiaccio l’allarme e vedrai che ripartirà subito. Siamo in un ospedale non possono permettersi un ascensore non funzionante». Premetti il campanello e mi appoggiai alla parete aspettando che ripartisse e ci facesse uscire. Monica continuò ad agitarsi e andare su e giù per l’ascensore. Stava andando in iperventilazione, sembrava sul punto di avere un attacco di panico.
«Monica calma non è nulla». Il mio lato medico prese il sopravvento. «Non agitarti».
«Come puoi dire che non è nulla?», piagnucolò.
«Ehi tranquilla». Le presi la mano per fermarla, e impedirle di girare in tondo nel poco spazio disponibile. Quando sentì le mie mani prendere le sue mi lanciò uno sguardo al tempo stesso stupito e impaurito.
«Va tutto bene», continuai. «Ci faranno uscire presto».
«Io devo uscire..». Aveva le lacrime agli occhi, era sbiancata ed era in iperventilazione. Ricollegai il tutto e feci due più due.
«Monica, per caso, sei un po’ claustrofobica?», le chiesi preoccupato.
«Un po’ tanto», mi confessò. «Non prendo mai l’ascensore».
«Ma allora perché diavolo l’hai preso oggi?».
«Io volevo parlarti però tu mi eviti. Qui non potevi scappare». Alcune lacrime cominciarono a rigarle gli occhi mentre la sua paura prendeva possesso di lei.
«Va bene. Ci sono qui io adesso cerca di respirare normalmente».
«Come faccio a respirare normalmente? Mi manca l’aria».
Da sola non sarebbe riuscita a rilassarsi. La presi per le spalle e le feci incrociare il mio sguardo. «Segui me, vedi come respiro bene io?». Sentendo il mio respirò cercò di coordinare anche il suo.
Lentamente cercò di riprendere il controllo del suo corpo. Sicuramente il contatto fisico la aiutava. Non staccava lo sguardo dal mio; nei suoi occhi riuscivo a leggere tutta la sua paura.
«Ho la tachicardia», mi confessò. «Perché mai non riparte?».
«Non lo so ma c’è aria a sufficienza». Lei si staccò da me e si sedette per terra. Si prese la testa tra le mani, appoggiandola sulle ginocchia.
«Parla di qualcosa ti prego, cerca di distrarmi», mi implorò. Rimasi spiazzato dalla sua richiesta. Non che non fossi un tipo loquace quando volevo, ma così su due piedi non sapevo di cosa parlare.
«Cosa dovrei dirti?», le chiesi incerto.
«Qualsiasi cosa, puoi anche urlarmi contro, basta che non ci sia questo silenzio». Il suo tono era supplicante.
«Stavo per andare a prendere Viola, mia figlia, a danza. Volevo farle una sorpresa», iniziai. «Ma mi sa che sarà un problema». Guardai l’orologio per vedere quanto tempo era già passato.
«Tua figlia fa danza?», mi chiese per indurmi a dire di più.
«Sì, l’ha cominciata dopo che è morta la madre». Mi sedetti anch’io per terra accanto a lei. «È qualcosa che ha sempre voluto fare. Fa danza classica ed è bravissima».
«Anch’io avrei sempre voluto fare danza ma non sono molto portata».
«Lei invece lo è», continuai. «Ha preso tutto da sua madre». Senza rendermene conto e senza neanche volerlo, iniziai a parlare di Elena raccontandole tutto, dicendole cose che non avevo mai confessato a nessuno. A lei che era poco più che una sconosciuta, solo una collega.
«Elena, mia moglie, era una donna stupenda, era impossibile non andarci d’accordo. Era una scrittrice, un’ottima scrittrice. Quel giorno stava tornando da Prato dopo l’incontro con un editore: c’è stato un incidente stradale, un camion si è ribaltato. Forse l’avrai letto sul giornale. Ho ricevuto una telefonata in cui mi dicevano che la stavano portando in ospedale. Ho saputo che mia moglie era in fin di vita da un perfetto sconosciuto. L’hanno portata qui, l’hanno operata ma era troppo tardi. Non c’è stato più nulla da fare. Quella sera dovevamo festeggiare l’uscita del suo libro, non abbiamo fatto a tempo. Il suo cuore si è spento prima».
«È molto triste», sospirò.
«Già. Il suo libro è uscito, sai? A luglio. Mi sono arrivate delle copie a casa ma io non ho avuto neanche il coraggio di sfogliarlo, non l’ho aperto. Viola mi ha chiesto di leggerglielo ma io le ho risposto di no, non me la sento proprio. Allora lo ha chiesto a mia madre. Non so se l’abbia letto o meno, è una cosa di cui non voglio parlare e lei l’ha capito. È così intelligente, proprio come sua madre. È stata malissimo, all’inizio stava cambiando così tanto. È stato un colpo duro, per fortuna è forte e adesso piano piano si sta riprendendo».
«Ma tu non ti stai riprendendo». Non era una domanda. La guardai: aveva la testa appoggiata alla parete gli occhi chiusi. Era una brava psicologa, era riuscita a capirlo ancor prima che lo dicessi io.
«No per niente. Ma il fatto di vederla un po’ più spensierata rispetto ad aprile mi tranquillizza».
«Lo sai prima quando stavamo litigando ti ho detto che capivo ciò che provi. Non l’ho detto per via del mio lavoro. Anche io ho perso una persona importante. Mia madre era molto malata, è morta quando io avevo venti anni. Lo so che non è la stessa cosa: io sapevo che sarebbe morta ma ero così affezionata a lei. È pur sempre lo stesso dolore». Mi sentii in colpa per la scenata di prima. Ero stato superficiale, l’avevo incolpata senza neanche conoscerla.
«Mi dispiace molto. Non avrei dovuto accusarti così prima».
«Non fa nulla, non potevi sapere. Esattamente come io non potevo sapere di tua moglie. È per la morte di mia madre che ho deciso di fare psicologia».
«Per capire meglio la tua sofferenza e riuscire a gestirla?».
«Più o meno. Ma parlami ancora di Elena, sempre che tu te la senta». Non avevo parlato di Elena con nessuno per paura di soffrire, eppure in quel momento ricordare non faceva male.
«L’ho amata da sempre, fin dal primo giorno. Ho capito subito che era quella giusta. Eravamo così innamorati e anche sciocchi. Ci siamo sposati molto giovani, abbiamo fatto dei sacrifici per tirare avanti, ma eravamo sempre insieme. E poi all’improvviso lei non c’era più. È così difficile restare attaccato ad una realtà dove lei non esiste e dove sento la sua assenza costantemente. Certe volte mi sento così solo».
«Ma tu non sei solo!», replicò.
«Sì lo so. Ho la mia bambina, mia madre, un cane a cui badare».
«Un cane? Nella storia il cane non ce l’avevi messo», puntualizzò.
«Lucky, è il cucciolo di Viola. è grazie a lui se lei sta un po’ meglio. È stato un toccasana. Da quando l’abbiamo preso, a luglio, è migliorata al cento per cento. È stata la migliore idea che abbia mai avuto».
«Posso chiederti un’altra cosa?», mi domandò dopo un secondo di silenzio. Ormai sembrava più tranquilla, si stava lentamente abituando a stare lì dentro. «Perché non vuoi leggere il libro di tua moglie?». Ci pensai un attimo: di ragioni ce ne erano tante.
«Elena mi ha accennato che è autobiografico. Io so solo questo, però non posso pensare di leggere qualcosa che mi descriva con i suoi occhi. È troppo».
«Te lo dico da psicologa, e anche da amica?». Il suo tono era interrogativo. Sorrisi: potevamo definirci amici adesso? Forse era ancora troppo presto, ma stavamo facendo progressi. «Credo che dovresti leggerlo. Non dovresti fuggire dal dolore, dovresti affrontarlo. Perlomeno con me ha funzionato». Proprio in quel momento l’ascensore ripartì con un colpo.
«Per fortuna». Monica si alzò e appena le porte si aprirono uscì fuori di corsa. La rincorsi all’esterno: si era andata a sedere su un piccolo muretto al di fuori del plesso.
«Oh Dio mio grazie! Un po’ d’aria fresca». Respirava a pieni polmoni riprendendosi dal trauma appena subito.
«Non avresti dovuto prendere l’ascensore solo per parlarmi», la rimproverai.
«Ma in caso contrario tu non mi avresti ascoltato». In effetti, aveva ragione.
«Va meglio?», le chiesi quando si alzò.
«Sì, sto un po’ meglio, decisamente tutta un’altra cosa rispetto a quando ero rinchiusa lì dentro».
«Allora ci vediamo domani». Feci il gesto di avviarmi verso il parcheggio ma lei mi fermò prendendomi la mano. Quando ero stato io a fare quel gesto era stato diverso: l’avevo fatto per calmarla. Adesso era stata lei a prendere l’iniziativa. Era la prima volta che un’altra donna dalla morte di Elena mi teneva per mano e non per consolarmi. Era particolarmente calda e sudata, ma quel contatto non mi dispiaceva.
«Roberto grazie mille, io non mi sarei mai calmata senza di te». I suoi occhi erano pieni di riconoscenza.
«Senza di me non saresti neanche entrata in ascensore», le feci notare.
«Giusto e proprio per questo ti posso chiedere un favore?».
«Che tipo di favore?», le domandai.
«Sono ancora molto scossa, ho ancora la tachicardia, mi sento il cuore in gola. Non me la sento proprio di guidare, mi accompagneresti a casa?». Il mio pensiero andò subito a Viola. Sarei dovuto andare a prenderla, ero già in ritardo. Ma da un punto di vista più medico non potevo lasciare Monica in quelle condizioni, se le fosse successo qualcosa ne sarei stato io il diretto responsabile.
Il mio silenzio le fece credere che io non avevo intenzione di aiutarla. Ma non era così.
«Va bene, ho capito. Chiamerò un taxi», mi disse prima che potessi rispondere. Frugò nella borsa ed estrasse il cellulare.
«No!», la fermai. «Va bene ti accompagno, fammi solo avvisare mia madre». Mi sorrise raggiante, illuminandosi a quella mia risposta. Finalmente avevo ceduto alla sua insistenza.
Presi il telefono e composi il numero.  Spiega a mia madre dell’imprevisto e la pregai di andare subito a prendere Viola. Quando Monica mi sentii dire la parola “cena” si sbracciò per farsi notare.
«Resti da me, non ammetto repliche», disse.
Chiesi a mia madre di spiegare tutto a Viola e di dirle che sarei passato a prenderla dopo.
Una volta finito la telefonata guardai Monica e le feci strada verso la mia macchina. Le stavo concedendo quella possibilità che mi aveva chiesto fin dal primo giorno. Avevo come l’impressione di essermi sbagliato su di lei e che passare del tempo con Monica non sarebbe stato affatto male.

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Capitolo 12
*** 11. Prime volte ***


Prime volte
 
Il viaggio in macchina fu particolarmente taciturno. Monica non abitava lontano e quella sera non c’era particolarmente traffico. Una volta datomi l’indirizzo, puntò lo sguardo fuori dal finestrino e rimase in religioso silenzio. Era la prima volta che la sentivo tacere per più di cinque minuti, senza iniziare a blaterare.
Ad un certo punto iniziò a piovere, ma era normale per quella stagione; eravamo in autunno inoltrato ormai. Nonostante il silenzio non ci sentivamo a disagio, nessuno dei due tentava di dare inizio ad una sorta di conversazione. Il ticchettio dell’acqua sul vetro e il rumore del motore dell’auto ci faceva in qualche modo compagnia.
Mentre Monica guardava fuori dal finestrino, io ero concentrato sulla strada. Provavo un miscuglio sensazioni. Era la prima donna, dopo Elena, che avevo fatto entrare nella mia auto, escludendo mia madre e mia suocera. Quello che sentivo però non era una sensazione spiacevole, ero contento di essere lì con lei. Elena aveva avuto ragione fin da subito: potevo provare ad esserle amico. L’avevo giudicata senza conoscerla veramente.
«Ecco io abito qui, in questo palazzo», mi disse quando fummo arrivati. Rallentai e parcheggiai lì di fronte.
«Allora sei ancora deciso a salire e a cenare con me?», mi chiese timorosa. I suoi occhi nocciola mi scrutavano titubanti nonostante l’oscurità.
«Sì certo. Sono un uomo di parola». Mi lanciò un sorriso sconvolgente. Non avevo mai visto nessuno così felice solo per una cena fra colleghi.
Intanto la poggia aveva iniziato a rinforzarsi. Stava diluviando e lampi e fulmini ci illuminavano sempre più frequentemente.
«Non è che hai un ombrello?», mi chiese lanciando un’occhiata al portone. «Sta piovendo a dirotto».
«Mi sa di no. Stamattina l’ho dimenticato a casa». Controllai dietro per vedere se  ne avessi per caso lasciato uno,  ma sui seggiolini non c’era altro che qualche giocattolo di Lucky.
«Il mio l’ho lasciato nella mia auto. Vorrà dire che ci bagneremo. Fammi solo tirare fuori le chiavi». Scendemmo sotto la pioggia battente; io chiusi la macchina e corsi fin dentro l’ingresso.
«Ce l’abbiamo fatta», esultò una volta entrati. Alcune gocce le erano rimaste intrappolate tra i ricci ed i suoi capelli erano diventati più crespi del solito, ma nonostante ciò era sempre splendida. Non avevo notato quanto veramente lo fosse. Non ero più abituato a guardare le altre donne. Certo anche quando era viva Elena, qualche occhiata ci scappava, ma stando insieme ad una donna di un’inconfondibile bellezza, non mi potevo certo lamentare. Poi con la sua morte, l’altro sesso era completamente passato in secondo piano. Avevo altro per la testa e anche se notavo qualche particolare bellezza non ci facevo molto caso. Quella sera invece fu come se vedessi Monica per la prima volta: era bella, eccome se lo era. Era perfetta quasi quanto Elena; erano completamente diverse, una bionda l’altra mora, una liscia l’altra riccia, ma entrambe erano affascinanti anche se in modi differenti.
«Ehi ti sei incantato?». Dovevo essere rimasto imbambolato a fissarla.
«No a che piano stai?», le chiesi arrossendo.
«Sto all’ultimo piano», mi disse avviandosi su per le scale. «Non ti dispiace farle a piedi vero?».
«No, non ti preoccupare». Cominciammo a salire, su per quel palazzo che avrà avuto cinque o sei piani. Erano un bel po’ di rampe da fare tutti i giorni.
«Quindi fai sempre tutte queste scale», constatai.
«Sì, mattina e sera, e anche con i tacchi». Si indicò le scarpe che avevano un piccolo tacco a spillo. Non avevo mai capito come facessero le donne a portare quel genere di scarpe: erano belle ma non sembravano tanto comode.
«È un allenamento, almeno mi tengo in forma. L’ascensore non lo prendo mai, lo uso solo per la spesa. Ma eccoci arrivati». Si fermò di fronte all’ultima porta; infilò la chiave e l’aprì.
«Entra pure», mi disse facendomi passare.
«Permesso». La casa era abbastanza grande: all’inizio c’era un ingresso con un cassettone e uno specchio. Poi c’era il salotto dove al centro si trovava un enorme divano color panna. Davanti c’era un tavolino e poi un mobile con la tv. Era tutto molto moderno e arredato con gusto.
«Bene questa è casa mia», mi disse allargando le braccia come per mostrarla meglio. «Accomodati, vuoi darmi il giubbotto?». Me lo tolsi e  glielo passai.
«È una gran bella casa», le dissi guardandomi intorno.
«Grazie! Vieni ti faccio vedere il resto». Mi prese per mano e mi guidò in cucina. Non mi infastidì quel gesto, in effetti, non ne vedevo il bisogno e poteva anche sembrare un comportamento eccessivo. Però Monica sembrava averlo fatto involontariamente, senza neanche accorgersene. Sembrava un gesto automatico che era abituata a fare con tutti.
«Questa è la cucina, è un po’ piccola ma mi basta». Pareva uscita da uno di quei cataloghi dell’Ikea, già confezionata così. Accennai un sorriso e ne fui sorpreso: era talmente tanto che non sentivo piegarsi le labbra all’insù spontaneamente.
«Che c’è ora? Perché ridi?», mi chiese fissandomi.
«No è solo che sembra uscita da una rivista, sai tipo Ikea».
«E se anche fosse? Non avevo molti soldi per arredarla e poi è carina. Ma vieni ti faccio vedere la camera». Mi guidò in un’altra stanza, questa volta più grande. C’era un grande letto matrimoniale e un armadio con un’anta a specchio. Doveva aver comprato anche la camera insieme alla cucina. Comunque alla fine il risultato non era male.
«Abbaiamo finito il tour?», le chiesi scherzando, quando tornammo in salotto.
«Sì, cioè no. Ci sarebbe anche l’attico, ma ora piove troppo per fartelo vedere. Senti tu accomodati, io vado a vedere cosa c’è in frigo». Mi sedetti e mi guardai intorno ancora una volta. Vidi una foto sul mobile  della tv: ritraeva Monica con la corona d’alloro con quello che immaginai dovesse essere suo padre.
«Hai scelto il giorno peggiore per accettare il mio invito», mi disse rientrando nella stanza. «Mi sono dimenticata di fare la spesa. Che ne dici se ordiniamo una pizza?».
«Certo non c’è problema», acconsentii.
«Ora dobbiamo solo aspettare», mi disse una volta chiamata la pizzeria. Si sedette accanto a me e mi guardò sorridendo. Sembrava così entusiasta del fatto che io fossi lì con lei.
«Allora visto che ti ho finalmente convinto a cenare con me», cominciò, «posso iniziare a conoscerti un po’ meglio. Dimmi tu abiti qui in zona?».
«Sì non abito molto lontano», rimasi sul vago. «Però non è un condominio come il tuo. È una casa a solo, abbastanza grande. Forse anche troppo ora che siamo rimasti solo in due».
«Con il giardino? Ho sempre sognato una casa con il giardino». Assunse un’aria trasognata. Monica aveva proprio un carattere esuberante, capace di cambiare umore in un secondo.
«Una specie ma è piccolino», sorrisi.
«Non ti offendi se ti faccio un po’ di interrogatorio, vero? Sono una persona molto curiosa».
«No, dì pure. Però visto che mi sono già confidato abbastanza quando eravamo in ascensore, che ne dici di fare una domanda a testa?». Sprofondai di più sul divano e aspettai che iniziasse.
«Ci sto». Il suo sorriso era ancora più luminoso di prima. «Allora quanti anni hai?».
«Sul serio: la tua prima domanda è sulla mia età?», scherzai.
«Be’ visto che sei già un pediatra abbastanza conosciuto mi chiedevo quanto tu sia realmente giovane». Non abbasso lo sguardo e mi fissò con determinazione.
«Ne ho trentatre. Però adesso devi dirmi anche quanti anni hai tu».
«Okay, anche se l’età a una donna non si chiede mai. Trentuno». Non l’avrei mai detto, dimostrava molto meno.
«Sembri più giovane. Avanti, vai con la prossima».
«Qual è il tuo colore preferito», mi chiese subito. La guardai perplesso. Che razza di domande mi faceva? A cosa le sarebbe servito conoscere il mio colore preferito?
«E questo cosa c’entra?», protestai.
«Niente, solo per vedere se abbiamo qualcosa in comune. Il mio cambia ogni giorno: oggi è il rosso, domani potrebbe essere l’azzurro».
«Il mio ultimamente è il nero», dissi automaticamente. Non mi ero neanche accorto di aver pronunciato quel colore ma era esattamente quello che rappresentava quel periodo della mia vita.
«Anche il nero è un bel colore se sai coglierne tutte le sfumature. Penso che la prossima domanda ti soddisferà di più. Da quanto tempo lavori al Meyer?».
«Da quattro anni più o meno. Però così non vale: tu mi hai fatto due domande ed io una sola. Ora tocca a me. Dimmi un po’, dove lavorarvi prima?».
«Come psicologa in uno studio, ma non mi piace molto la vita da ufficio. Preferisco l’ospedale: tutti quei bambini sono così particolari. Ognuno ha le sue paure e l’esprime in maniera diversa». Sembrava molto presa nel descrivere il suo lavoro; si vedeva che le piaceva moltissimo.
«Capisco ciò che provi». Erano le stesse sensazioni che mi avevano portato a scegliere quella specializzazione. Avevo ancora una domanda e riflettei bene su cosa chiederle. «Prima in ascensore hai detto che hai scelto di fare la psicologa per la morte di tua madre. Credi che se non fosse successo alla fine avresti scelto questa strada?». La mia decisione di fare il pediatra era stata una strada quasi obbligata: fare il medico era sempre stata la mia ambizione e poi avevo capito il ramo in cui specializzarmi quasi in automatico. Non riuscivo a mettermi nei suoi panni: io non avrei mai fatto una scelta diversa ma per lei non doveva essere stato così.
Parve riflettere sulla mia domanda per cercare di darmi una risposta più sincera possibile. «Ci ho pensato spesso a questa cosa», disse infine. «Non credo che avrei fatto la psicologa. Non ero quello che si dice una ragazza modello, da adolescente ero piuttosto scapestrata: te lo confesso, ero quella che si dice “una ragazza facile”. Non credo che mi sarei impegnata a fondo nell’università come invece ho fatto». Trasse un profondo respiro e poi continuò.
«Mia madre era malata di cancro. Quando l’ho saputo non sono stata molto di aiuto. Mi sono comportata nella maniera più stupida che potessi: ero viziata e immatura. Ho trascurato la mia famiglia, non volevo accettare quello che mi dicevano. Ero arrabbiata e me la prendevo con i miei per questo. Poi quando ho realizzato che non c’era via di scampo per mia madre, ho iniziato a vedere le cose diversamente. Ma era già tardi. Non credo che sarei maturata così tanto da diventare la donna che sono se non fosse successo. Quindi no probabilmente non avrei fatto la psicologa». Rimasi a fissarla in silenzio: si era completamente messa a nudo, raccontandomi questioni molto personali. Nell’ascensore anche io l’avevo fatto, ma era stato il momento. Non ero sicuro che avrei fatto altrettanto adesso solo per rispondere ad un suo quesito.
«Questa era difficile, ma ti ripagherò con la tua stessa moneta. Ora tocca me: ti senti realizzato? Cioè rispetto a quando eri un ragazzo sei riuscito a realizzare il tuo sogno?».
Ci pensai un secondo, non era facile risponderle. «Prima lo ero. Prima dalla morte di Elena la mia vita era perfetta, pensavo di avere tutto. Avevo un lavoro che avevo sempre desiderato, avevo una famiglia magnifica. Ero appagato su tutti i fronti. Quindi sì, ero riuscito a realizzare i miei sogni».
«E adesso che desideri hai?».
«Non lo so». Non sapevo cosa volevo. Cioè sapevo che avrei per sempre desiderato riavere Elena al mio fianco, ma era una cosa impossibile. Per il resto ignoravo quali fossero i miei sogni per il futuro, non sapevo neanche come sarei riuscito ad affrontarlo.
«E tu cosa desideri?», le chiesi per spostare l’attenzione su di lei. «Sei riuscita nei tuoi intenti?».
«Be’ ancora no», mi rispose sorridendo. «Ma desidero così tante cose! Io aspiro all’amore, quello che ti toglie il respiro, che ti prende completamente. E voglio essere ricambiata allo stesso modo. Sarà stupido ma voglio qualcuno che sia pronto a lottare per me, come nei grandi libri o nei grandi film. E poi voglio girare il mondo, vedere tutto quello che c’è da vedere. E poi vorrei essere madre, ho sempre pensato che un giorno lo sarei diventata». Le brillavano gli occhi: era una sognatrice, non c’era ombra di dubbio. Però quello che aveva detto sull’amore era vero. Io l’avevo provato con Elena ed era stato così intenso. Tutti avrebbero dovuto provare quelle sensazioni almeno una volta nella vita.
Proprio in quel momento suonarono il campanello. Scesi giù a prendere le pizze, mentre Monica apparecchiava. Poi durante la cena continuò con il suo interrogatorio.
Ormai ci eravamo lasciati alle spalle le conversazioni serie ed eravamo passati ad argomenti più leggeri. Mi chiese del cibo, della musica, se mi piaceva più il mare o più la montagna. Erano domande generali, anche stupide ma che in fondo servivano per approfondire la nostra conoscenza. A quel punto il ghiaccio tra noi si era sciolto e parlare con lei mi risultava talmente facile che non dovevo sforzarmi di fingere niente.
Il tempo sembrò volare e non mi accorsi che avevo già fatto tardi.
«Oddio è tardissimo, devo andare!», le dissi guardando l’orologio. «Viola sarà preoccupata».
«Davvero. Il tempo è volato. Grazie ancora e a domani». Mi portò il giubbotto e mi fece strada fino alla porta.
«A domani», ribadì. Le rivolsi un sorriso e me ne andai. Rimasi sorpreso da quanto fosse semplice sorridere e rilassarmi con lei .
Tornai in fretta e furia a casa di mia madre, sperando di non averla fatta preoccupare. Viola si era addormentata nella mia cameretta e Lucky era a vegliarla ai suoi piedi. Dopo svariate domande da parte di mia madre su dove e sopratutto con chi ero stato, riuscii a portare a casa Viola. Dormiva così profondamente che non si svegliò neanche quando la presi in braccio o la sistemai nel suo lettino. A lei avrei spiegato tutto il giorno dopo. Ero sicuro che mi avrebbe tempestato di domande come già mia madre aveva fatto.
«Sembri più sereno stasera», mi aveva detto con uno sguardo malizioso. In effetti aveva ragione. Non mi sentivo così bene da molto tempo, almeno non nel mondo reale.
Andai in cucina a prendere un bicchier d’acqua prima di raggiungere il mio angelo. Inconsciamente, l’occhio mi cadde proprio su il libro di Elena. Era rimasto lì sulla credenza da quando era arrivato. Il suo libro era andato praticamente a ruba: forse il fatto che l’autrice avesse subito un incidente mortale aveva incrementato il numero di vendite. Quello era una delle copie destinate all’autrice.
Ripensai alla conversazione con Monica: lei mi aveva consigliato di leggerlo. Avevo sempre creduto di non farcela, ma in fondo avevo pensato la stessa cosa sul riuscire a parlare di Elena. Invece quel giorno ce l’avevo fatta, ed era stato semplice. Avevo ricordato e non era stato doloroso, non più di quanto lo fosse ogni giorno.
Dovevo dare ascolto a Monica? In fondo era una psicologa, e forse aveva ragione lei sull’affrontare il dolore, visto la sua esperienza. Anche Elena aveva insistito in quel senso.
Presi il libro e andai a sedermi sul divano. Prendendo coraggio lo aprii. Nella prima pagina c’era la sua dedica:
A mio marito e a mia figlia che sono i doni più grandi che la vita mi ha dato.
Fino a lì potevo sopportare. Andai al primo capitolo. Era scritto in terza persona e ne rimasi sorpreso. Avevo sempre creduto che essendo autobiografico, fosse lei a narrare le vicende in prima persona.
Ogni storia ha un evento scatenante, un inizio, un preciso momento in cui tutto cambia e in cui cominciano le avventure e le peripezie del protagonista. Per Elena quel giorno fu sicuramente il tre ottobre. Quello sembrava un giorno come un altro, ma non lo era di certo per lei. Si era appena trasferita a Firenze da Roma con la sua famiglia. Era una sedicenne arrabbiata con tutti e con tutto, come solo una ragazza della sua età può esserlo. I suoi genitori l’avevano praticamente costretta a lasciare i suoi amici, i suoi primi amori, le sue abitudini per trasferirsi in un posto che non le apparteneva. Elena si disperava e pensava al suo trasferimento come alla fine del mondo.
A niente era valso piangere, disperarsi, arrabbiarsi, minacciare, supplicare. Le aveva tentate di tutte ma i suoi genitori erano stati irremovibili. E quel maledetto tre ottobre lei stava andando al patibolo: stava andando al suo primo giorno di scuola, nella sua nuova scuola. Le lezioni erano già iniziate anche se da poco e lei sarebbe stata vista come “la ragazza nuova”. Quell’appellativo già le risuonava nelle orecchie. 
Era ancora così disperata per la separazione dal suo gruppo di amici che la speranza di trovarne di nuovi sembrava lontana anni luce. Elena non aveva un brutto carattere, ma bisognava sapere come prenderla e bisognava conoscerla bene per riuscire a capire cosa si celava veramente in fondo al suo cuore. Aveva una scorza dura ma in fondo era la persona più buona e generosa del mondo. Ma a quell’età dover affrontare le occhiate e le chiacchiere di un liceo intero era come una condanna a morte.
La speranza di trovare nuovi amici era assai remota, almeno per quel primo giorno o per quei primi tempi. Quando non sarebbe più stata “la ragazza nuova” forse, e dico forse, si sarebbe potuta adattare. Ma in quel momento era sicura che non si sarebbe mai sentita a casa in quella nuova cittadina.
Nonostante fosse partita in anticipo, per evitare di fare brutta figura, arrivò in ritardo. Gli autobus in quella città non erano mai in orario. Si ripromise di aggiungere anche quello alla lista dei contro che stava stilando. Città più piccola e autobus meno efficienti.
“Bene”, rifletté. “Forse adesso non sarò la ragazza nuova, sarò la ritardataria. Io odio essere in ritardo”. Ripensò al suo motorino e ai pianti che aveva fatto quando erano stati costretti a venderlo per non portarselo dietro. L’unica scusa valida che avevano accampato i suoi era stato dirle che avrebbero investito i soldi della vendita nei suoi studi. La promessa di averne uno nuovo era stata fatta, ma ancora non era stata mantenuta.
Elena entrò di corsa nel suo nuovo liceo classico, senza neanche notare l’imponenza e la magnificenza della struttura. Chiese ad un bidello di indicarle la classa: la terza D. Una volta trovata bussò alla porta tremando. La paura che aveva accumulato si fece sentire tutta insieme. In quel momento ogni suo gesto avrebbe potuto influire su quello che lei sarebbe potuta diventare in quella nuova scuola. Ogni passo falso la avrebbe rovinata per sempre. Be’ forse non per sempre ma per almeno i tre anni successivi.
«Avanti», le rispose la voce di un professore.
«Mi scusi per il ritardo», disse entrando. La sua voce era poco più di un sussurro. Sentì su di se lo sguardo di almeno venti persone. Osservandosi i piedi si fece timidamente avanti. 
«Tu devi essere la nuova alunna, giusto?». Annuì arrossendo mentre tutti continuavano a guardarla. La scrutavano in ogni minimo dettaglio mentre lei era sempre più a disagio.
«Bene, allora presentati. Io sono il professor Cucci di matematica e fisica». Elena perse un battito. Non aveva pensato di doversi presentare così a tutta la classe. Aveva sempre immaginato di riuscire ad interagire con i suoi nuovi compagni prima dell’inizio delle lezioni. Ma il destino crudele le aveva giocato un brutto scherzo. Quella giornata andava di male in peggio.
Puntando lo sguardo in un punto indefinito in fondo all’aula iniziò a parlare, cercando di sembrare più sicura possibile. «Sono Elena Roggi e vengo da Roma, la mia famiglia si appena trasferita a Firenze, spero di riuscire ad ambientarmi qui». Era stato veloce, ma non poteva ancora dire se era stato indolore o meno.
«Bene vai pure a sedere». Le indicò il banco vuoto in prima fila e tornò verso la lavagna. Proprio quando finalmente Elena iniziò a rilassarsi e pensò di poter riprendere a respirare normalmente, lo vide per la prima volta. Stava seduto nell’ultima fila. Era distratto a parlare con i suoi amici ma quando lei alzò lo sguardo i loro occhi casualmente si incrociarono per un secondo. Tutto il resto scomparve e improvvisamente non ci fu altro che lui. Era quello che si sarebbe potuto etichettare come il “bello” della scuola. Occhi verdi, capelli castani un po’ mossi, quell’aria da playboy che doveva avere frotte di ragazze che sbavavano per lui. Ma ciò che colpì Elena fu qualcosa di più profondo. Fin dal primo istante capì, che dietro a quell’aspetto affascinante, si celava una persona molto più profonda.
Elena non aveva mai creduto ai colpi di fulmine, non pensava che le persone si innamorassero al primo sguardo come succedeva nelle favole. Ma quello che successe quel fatidico tre ottobre andava ben oltre la sua comprensione. Fin da quando l’aveva visto, aveva sentito che lui poteva essere un’anima affine, era come se fosse stato il destino a metterli in quella stessa classe.
Ad un tratto quella città non le sembrò più così piccola, forse non sarebbe stato poi così male vivere lì. La sua mente era già partita a mille, ma si costrinse a tornare con i piedi per terra. Si sedette e per poco non andò a sbattere contro il banco. Rossa come un peperone si precipitò a ficcare la testa nella cartella per prendere i libri. Sentì una risata per quel suo strano comportamento, e inspiegabilmente seppe che era la sua risata.
«Piacere di conoscerti io sono Margherita», le disse la compagna di banco allungando la mano. Era una ragazza molto carina, sembrava gentile ed educata, una classica ragazza con la quale sarebbe potuta andare d’accordo.
«Piacere Elena». Passò il resto della mattinata a stringere mani e a fare presentazioni. Aspettava con ansia il momento in cui lui sarebbe venuto a fare la sua conoscenza. Gli lanciava occhiate di sgamo, ma sembrava sempre troppo impegnato a scherzare con altri due ragazzi che non lo lasciavano un secondo.
Elena era indecisa: non sapeva se essere lei ad andare da lui oppure se aspettare. Quando i loro sguardi si erano incrociati l’elettricità era stata palpabile. L’aveva sentita anche lui?
Non era mai stata quel tipo di ragazza, quella che corre dietro al primo bel tipo che vede. Neanche quella volta era così. Non sapeva spiegarselo, ma c’era qualcosa in lui che l’attirava come una calamita. Tutti i problemi e le ansie che l’avevano attanagliata fino ad allora, erano di colpo sparite per trasformarsi in agitazione e trepidazione per il momento in cui si sarebbero parlati.
“Calmati”, si disse. “Magari quando ci avrei chiacchierato per un minuto scoprirai che è solo un cretino. Non crearti troppe aspettative, non lo conosci nemmeno”. Ma benché la sua testa tendesse a non lasciarsi troppo andare, il suo cuore  batteva forte ogni volta che lo guardava.
«Quello lì è Roberto», intervenne Margherita facendola sobbalzare. Aveva seguito il suo sguardo e aveva intuito cosa la stava distraendo. «È molto carino, ma è un tipo piuttosto misterioso, sta sempre sulle sue. Sembra che nessuna ragazza del nostro liceo sia alla sua altezza. Gira voce che stia con una dell’università, ma non credo sia vero».
«Ah sì, ma perché mi dici tutto questo?», finse indifferenza ma in realtà voleva saperne di più. Ma non ebbe il tempo di risponderle perché finalmente stava succedendo. Roberto stava puntando dritto verso di lei. Lo sguardo sicuro, un sorriso stampato sulla faccia, un atteggiamento arrogante ma tremendamente sexy.
«Ciao». La sua voce era più profonda di quanto si fosse immaginata. Quando alzò lo sguardo su di lui lo trovò insieme ai suoi due amici che lo spalleggiavano come se lui fosse il leader del gruppo.
«Ciao io sono Elena», rispose balbettando. Non era quello il momento adatto per mostrare la sua goffaggine ma il suo corpo sembrava non rispondere come lei avrebbe desiderato.
«Io sono Roberto e loro due sono Pietro e Alessandro». Gli strinse la mano che le aveva offerto e sentì un brivido correrle lungo la schiena. Come era possibile che un ragazzo che incontrava in quel momento per la prima volta le facesse quell’effetto?
Poi esattamente come era arrivato, se ne andò uscendo dalla classe insieme ai suoi due scagnozzi.
 
Continuai a leggere sentendomi raccontare. Elena era stata brava: aveva saputo rendere in maniera eccellente tutti i nostri più bei momenti. Le sue sensazioni erano state esattamente come le mie. Anch’io avevo percepito qualcosa in quel suo primo sguardo, ma a quell’epoca ero ancora un po’ troppo tronfio per capirlo subito. Rivivevo tutto come l’aveva vissuto lei, con le sue sensazioni. Era bello sentirsi descrivere in quel modo: dagli occhi di una persona che ti ama incondizionatamente.
Alla fine crollai esausto con il libro tra le mani. Fu Elena a svegliarmi dall’altra parte.
«Lo stai leggendo», esultò baciandomi. Non aveva insistito su quel punto ma sapevo che desiderava che io lo facessi.
«Sì ed è bellissimo», confermai. «Comunque la prima volta che ti ho vista il colpo di fulmine c’è stato anche per me. Ti ho desiderata fin dal primo momento, fin dal tuo primo ritardo. Appena ti ho visto ho pensato: lei deve essere mia, non ci sono alternative».
«Sono felice», sospirò. «Per il libro, per Monica, per tutto. Per un po’ oggi sei stato quello che eri prima. Andrà bene, adesso lo so». Non sapevo se davvero alla fine sarebbe andata bene, riuscire ad accettare la realtà era ancora difficile e improponibile. Ma sapevo che sarebbe andata meglio: Elena aveva avuto ragione, come sempre. Avrei dovuto capire fin da subito che era impossibile scommettere contro un angelo.

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Capitolo 13
*** 12. Credere ***


Credere
 
I rapporti con Monica migliorarono al cento per cento. Andavamo più che d’accordo ed eravamo diventati ottimi amici; anche lavorare insieme a lei era più facile. Era simpatica e anche divertente. Mi faceva in qualche modo dimenticare tutti i miei problemi e spesso mi ritrovavo spensierato a chiacchierare con lei del più e del meno.
Monica sapeva quando insistere e quando invece era meglio lasciar perdere. Non mi forzava a parlare di cose per me difficili. Tutto ciò che sapeva di Elena glielo avevo detto spontaneamente. Erano confidenze che, in particolari momenti, mi erano uscite spontanee. Sapeva tirar fuori il vecchio me, quello che ero sempre stato. Era stato davvero un toccasana aver risolto le cose tra noi.  
«Volevo dirti una cosa», mi disse un giorno mentre eravamo a mensa. «Spero che non te la prenderai. Ho comprato Tutto il mio mondo, il libro di tua moglie. Lo ho iniziato e mi sono già appassionata, era davvero brava».
«Perché mai dovrei arrabbiarmi? Comunque avevi ragione tu».
«Io ho sempre ragione», scherzò.
«Questa volta veramente. Ho provato a leggerlo come mi avevi consigliato e l’ho finito».
«Il modo in cui ti ha descritto mi lascia senza fiato. È riuscita a rendere certi tuoi atteggiamento alla perfezione. Ci sono cose che sto scoprendo di te passo dopo passo, cose che tu non mostri ma che per lei erano naturali. Tutto questo era solo per dire che ti amava molto». Il fatto che eravamo follemente innamorati si notava subito, non solo leggendo il libro ma anche prima quando noi uscivamo insieme. Il nostro modo di relazionarci l’un l’altra era unico.
«Già anche io. L’amo così…». Mi fermai accorgendomi di aver usato il presente. Ogni tanto, anche se sempre più raramente, mi capitava. Vederla ogni notte non facilitava quella transizione.
«Non voglio offenderti, ma perché a volte parli di Elena al presente? Dovrebbe venirti naturale, visto la tua vita di adesso, riferirti a lei al passato».
«Lo faccio involontariamente». Feci spallucce per non dare importanza alla cosa. Mi guardò a fondo, studiando la mia espressione. Io per tutta risposta fissai il mio piatto e cominciai a giocherellare con il cibo. Non volevo approfondire il motivo dei miei lapsus. La causa era lampante: vedere Elena in sogno la faceva sembrare ancora viva. Però non ero sicuro di voler condividere con lei una cosa così intima.
Mi avrebbe preso per pazzo, anche solo tentare di spiegarle mi avrebbe fatto sembrare fuori di testa. Nonostante fosse una cosa in cui credessi incondizionatamente, la parte scientifica del mio cervello mi continuava a dire che era impossibile. Lei non avrebbe capito, nessuno l’avrebbe fatto.
«Ehi». All'improvviso mi prese la mano, in un gesto che ormai le veniva abituale, e mi fissò intensamente. «Se è troppo difficile per te parlarne io lo capisco. Certe volte sono un po’ troppo indiscreta ma basta che tu me lo dica. Non ci metto niente a cambiare discorso».
«È solo che non capiresti», sospirai.
«Mettimi alla prova». I suoi occhi nocciola incatenarono i miei e mi fissarono decisi. Potevo davvero azzardarmi a confidarle una cosa così personale e così assurda? Era una psicologa, quindi non aveva la stessa mia concezione di scienza; tuttavia quello che mi stava chiedendo di raccontarle andava ben oltre la semplice comprensione umana. Era qualcosa che implicava una fede incondizionata. Io che prima non credevo in ciò che non era empiricamente dimostrato, avevo dovuto rivoluzionare tutte le mie certezze. Lo avrebbe fatto anche lei?
Fu il suo sguardo a dirmi che forse potevo fidarmi, con lei avrei potuto fare il tentativo di aprirmi completamente, di giocare a carte scoperte. «Io sogno Elena tutte le notti».
«Be’ mi sembra una cosa normale», mi disse perplessa. «Anche io sognavo spesso mia madre».
«Non in quella maniera». Presi un respiro e continuai. «Lei è lì ed io sono completamente cosciente. Le parlo, la tocco esattamente come con te adesso».
«Credo che sia la tua mente a crearti la figura di Elena e farti credere che lei sia reale».
«No, Monica», ribattei. «Vorrei davvero che fosse così semplice. Lei mi ha detto delle cose che solo lei sapeva, che io non potevo ancora conoscere. Mi dice cosa fare, mi dà consigli. Elena è lì ed io non so come spiegartelo. Lo so che assurdo, fatico a crederci io stesso ma ogni notte io la incontro e vivo con lei. È come sei lei vivesse ancora attraverso i miei sogni. Non averla persa del tutto è stato quello che mi ha salvato all’inizio, quello che mi ha dato la forza di andare avanti. E anche se detesto ammetterlo, incontrarla ogni notte è quello che mi dà la forza anche ora».
Monica mi fissò dubbiosa e rimase in silenzio, cosa che non faceva quasi mai. Dalla sua espressione si capiva che stava cercando le frasi giuste. Forse avrebbe cominciato a parlarmi come si parla ad un matto.
«Io non so cosa dire», sospirò alla fine. «E penso anche che sia la prima volta in vita mia». Nonostante tutto riuscì a strapparmi un sorriso.
«Francamente è la prima volta che sento una cosa del genere», continuò. «Io non mai creduto abbastanza da riuscire anche solo ad immaginare una cosa di questo tipo».
«Lo sapevo facevo meglio a starmene zitto». Feci per alzarmi ma lei mi fece rimettere a sedere.
«No aspetta. Se avessi avuto un solo modo per incontrare mia madre dopo la sua morte l’avrei sfruttato senza esitazioni. Io non posso dirti che tutto quello che mi hai appena detto non è assurdo. Perché lo è, e tanto. Ma ho visto il modo in cui tu ci credi e io non me la sento di dirti che non hai ragione o che sei pazzo. Io non so se esiste un paradiso o qualcos’altro, ma se tu credi davvero di riuscire a comunicare con lei io non ho altro da aggiungere».
«Davvero?». Rimasi a bocca aperta, guardandola strabiliata. Era tutt’altro che la reazione che mi sarei aspettato. «Quindi non sono pazzo per te?».
«No, non lo sei. Io credo davvero a quello che mi hai detto. O almeno ti dico questo: anche se non riesco a esserne convinta veramente, credo che tu ne sia persuaso e accetto per vero quello che mi dici. Se tu mi dici che è così, io faccio uno sforzo e lo accetto». Mi aveva lasciato senza parole. Era un modo un po’ strano di pensare; non credeva che potessi vedere davvero Elena ma accettava per buona la mia versione? Era una maniera di ragionare completamente opposta a quella che avevo io. Se le parti fossero state invertite io non sarei riuscito ad arrivare a tanto.
«È lei. È la cosa più vera che abbia mai visto», sospirai. Anche se lei si sforzava di comprendermi, non poteva di certo immaginare quello che io ancora provavo per mia moglie. I miei sentimenti non erano diminuiti neanche di un millimetro, il tempo non li aveva neanche scalfiti. Erano sempre lì ed erano intensi come il primo giorno.
Monica notò l’ombra che mi attraversò lo sguardo. Mi accarezzò la mano cercando di farmi sentire il suo appoggio. «Che cosa ti dice Elena?», mi chiese improvvisamente.
«Di tutto», le risposi accennando un sorriso. «Di Viola, di quello che faccio, di cosa dovrei fare. Ma spesso non mi serve parlare quando sono con lei».
«Ti parla anche di me?», chiese titubante.
«Sì, anche di te. Devo dire che ha sempre fatto il tifo per te».
«Cosa?». Arrossì inspiegabilmente.
«Sì mi ha sempre detto di darti una possibilità e aveva ragione. La nostra amicizia per me è davvero importante adesso». Ero completamente sincero, nonostante i nostri precedenti, sentivo che Monica era diventata un’amica su cui avrei potuto sempre contare.
«Anche per me lo è la tua». Mi lanciò uno dei suoi sorrisi a trentadue denti, uno di quelli dove riusciva a farmi sentire al centro del suo mondo. Era incredibile che dopo quello che le avevo appena rivelato lei mi facesse sentire ancora così.
 
Quella sera a cena Viola era più irrequieta del solito. Mangiava in silenzio ma sembrava sempre essere sul punto di dirmi qualcosa. Immaginai che dovesse chiedermi il permesso di fare qualche cosa, ma che non avesse il coraggio.
«Oggi a scuola abbiamo cominciato ad appendere gli addobbi», esordì all’improvviso. «Tra poco è Natale». Rimasi un secondo perplesso facendo mente locale. Viola aveva ragione: era appena iniziato dicembre e presto sarebbe quel terribile anno sarebbe finito.
«Giusto, siamo già a Natale. Hai pensato a cosa scrivere nella tua letterina?».
«No, ma non è per questo che te l’ho detto». Sembrava titubante, incerta se continuare o meno. Si morse il labbro esattamente come faceva sua madre quando era indecisa.
«Allora cosa c’è?», la incitai.
«Ultimamente va un po’ meglio». Sapevo che si riferiva a me e non a sé stessa. Non sapevo come aveva fatto a capirlo, in realtà mi sembrava di comportarmi esattamente allo stesso modo.
«Sì va un po’ meglio», confermai.
«Grazie a Monica?». Cavolo! Sapeva leggermi così bene? Se già a sei anni riusciva a tenermi testa così, cosa avrebbe fatto da adolescente?
«Anche per lei sì. Ma dove vuoi arrivare piccola?».
«Mi chiedevo se volevi fare l’albero». Tenne lo sguardo puntato a terra e iniziò ad accarezzare Lucky che era seduto accanto a lei. Capii immediatamente che cosa la turbava in quel gesto così semplice e naturale. Elena e Viola si erano sempre occupate delle decorazioni. Io tornavo a casa una sera di dicembre, e trovavo tutto addobbato: l’albero, il presepe, le decorazioni, il calendario dell’Avvento. Elena si divertiva come una matta a rivoluzionare la casa e ad addobbarla sempre in modi diversi. Era il suo periodo dell’anno preferito.
«E tu lo vuoi fare?», le chiesi accarezzandole la guancia. Se Viola se la sentiva, io non avrei esitato ad appoggiare la sua iniziativa.
«Sì». Mi fissò decisa negli occhi. «La mamma si offenderebbe se no. Dobbiamo rispettare le tradizioni». Ancora una volta mi stupii del coraggio che riusciva a tirar fuori. Come diavolo avevamo fatto a tirarla su già così bene?
«Allora questo fine settimana, visto che ho il turno solo sabato mattina. Scendiamo in cantina e prendiamo tutto. D’ora in poi sarai tu la responsabile delle decorazioni. Io seguirò solo e soltanto i tuoi ordini».
«In realtà ne avevo parlato con la nonna. Volevamo fare come faceva la mamma e farti una sorpresa».
Sorrisi. «Tesoro mio ma adesso che me l’hai detto non sarà più una sorpresa».
«Lo so», ribatté. «Ma non sapevo se tu eri d’accordo».
«E perché mai non avrei dovuto esserlo?». Le diedi un buffetto e le rivolsi un gran sorriso.
«Per la mamma. A me fa ancora male ricordare, però voglio farlo perché è giusto così. Non sapevo se a te avrebbe fatto più male che a me». La sua dolcezza a volte era disarmante. Siccome ero rimasto senza parole, la presi in braccio e le diedi un bacio sulla guancia.
«Non so come farei senza di te principessina mia». Era quella l’unica cosa da aggiungere.
 
Più tardi quella sera, dopo aver messo a letto Viola, mi ritrovai a sfogliare il libro di Elena. Mi era tornata in mente un momento particolare della nostra vita e volevo rileggere come l’aveva descritto lei. Finalmente trovai il punto.
Quello era per Elena il periodo più bello dell’anno. Le luci, gli addobbi, i regali, i piatti tradizionali, a volte la neve. Amava ogni minimo dettaglio del Natale. Quell’anno poi sembrava rivelarsi ancora più magico di quanto fossero stati i precedenti. Era il suo primo Natale a Firenze. Se qualcuno le avesse detto, solo qualche mese prima, che sarebbe stata così entusiasta di quella città non gli avrebbe ovviamente creduto.
Era successo tutto così in fretta. Aveva trovato una buona amica, si era riuscita ad ambientare e quella che poteva sembrare una cotta adolescenziale stava diventando un sentimento immenso e profondo. Non che con Roberto avesse fatto progressi. Ogni tanto lui sembrava avvicinarsi al suo mondo ed Elena poteva addirittura credere di vederlo come era veramente. Poi, nell’istante successivo tornava ad essere avvolto da quell’alone di mistero che lo caratterizzava.
Se Elena aveva capito una cosa era che lui non era come voleva sembrare. Di quello ne era certa. Quella su nomea di ragazzo misterioso era solo un modo per proteggersi.
Era leale, anche di questo ne era sicura. Non esitava mai a prendere le parti dei suoi due migliori amici. Sembrava che solo loro lo conoscessero veramente.
Mi fermai un attimo. Pensai a Pietro, lui era sempre rimasto il mio migliore amico. C’era sempre stato quando avevo bisogno. Poi con la morte di Elena, lui insieme a Margherita, avevano tentato ogni approccio con me. Ma ero stato io ad allontanarli e ad impedire loro di aiutarmi. Avevo rifiutato tutti i loro tentativi di restarmi accanto.
Non mi ero comportato bene, avevo escluso Pietro come non avevo mai fatto. Non c’era mai stato, almeno fino ad aprile, un periodo in cui non fossimo in qualche modo in contatto. Mi ripromisi di provare a riallacciare i rapporti. Ero sicuro che se avessi fatto il primo passo, poi lui sarebbe stato più che lieto di venirmi incontro.
Ancora una volta Elena aveva ragione quando mi diceva che mi stavo isolando. Sospirai e tornai a leggere.
Però qualcosa in Elena lo aveva attratto. Lei se ne era accorta, i suoi amici se ne erano accorti, Margherita l’aveva capito subito e tutti ormai lo sapevano. Il modo in cui Roberto trattava la “ragazza nuova” non era da lui. Non che Elena sapesse con esattezza cosa fosse da lui. A quanto aveva capito doveva essere onorata dal modo in cui lui la trattava.
«Ma quale modo?», si chiedeva lei. Non aveva notato niente di particolare a parte il fatto che qualche volta si era ritrovata a parlare con Roberto dopo la scuola, o durante l’intervallo. Ma lui non le aveva chiesto di uscire e non aveva detto niente che potesse essere allusivo ad un particolare interesse. Era vero, questo Elena doveva riconoscerlo, quando c’era stato lo sciopero e avevano passato tutta la mattina a parlare era stato un momento significativo. Era da lì che aveva cominciato a vederlo e a delinearlo come quello che era realmente. Ma era stata solo una magnifica chiacchierata con quello che era un compagno di classe e che lei sperava diventasse qualcosa di più.
«Ed è proprio questo!», aveva insistito Margherita. «Non l’ho mai visto legare così tanto con qualcuno della scuola. Ha tralasciato i suoi amici solo per stare con te!». Ma Elena era testarda e non voleva credere a quelle voci. Anche se avrebbe voluto invece bearsi di quelle attenzioni, sapeva che se si fosse scoperta troppo alla fine si sarebbe fatta male.
“E se poi è tutto un equivoco?”, pensava. “E se poi io non gli interesso? Avrò ricevuto soltanto una delusione”.
Ma quello non era il momento di pensare a lui. Era Natale e tutto era più magico in quel periodo dell’anno. Aveva comprato i regali, li aveva messi sotto l’albero e si lasciava andare alla gioia del suo periodo preferito.
La sera prima della vigilia di Natale alcuni ragazzi della scuola avevano organizzato una festa. Elena aveva insistito perché Margherita l’accompagnasse. Le sembrava una buona idea per allargare un po’ le sue conoscenze. Anche se solitamente non sarebbe stata attratta da un evento del genere, aveva come l’impressione che quella dovesse essere una serata importante.
«Se speri d’incontrarlo lì, ti sbagli. Non è il genere di feste che gli interessa», le aveva fatto notare Margherita mentre si preparavano. Anche se cercava di nasconderlo, Elena non poteva negare che la possibilità di incontrarlo quella sera fosse uno dei principali motivi per cui voleva partecipare.
«Te l’ho detto», mentì «Voglio solo divertirmi un po’. E poi è inutile che tenti di fare la misteriosa. Prima o poi scoprirò perché sai tutte queste cose su di lui». Elena se l’era chiesto molte volte; la sua nuova amica sembrava sapere fin troppo su quel ragazzo misterioso che tanto l’affascinava. Però aveva anche capito che lei non voleva parlarne e quindi non aveva insistito.
«Stavo con Pietro», confessò all’improvviso. «Ci siamo lasciati a settembre». Elena si girò a fissarla a bocca aperta. Non aveva capito quanto lei in realtà fosse legata a quel gruppetto di ragazzi e si maledisse per non aver tenuto la bocca chiusa. Si vedeva che Margherita soffriva ancora per quella storia.
«Ho passato con loro davvero molto tempo, e ti posso assicurare che conosco bene tutti loro. Non ci sarà stasera».
E invece si sbagliava: qualche ora dopo, mentre Elena era circondata da una marea di adolescenti esultanti, lo vide arrivare con i suoi amici sempre alle spalle. Era più affascinante del solito ed Elena notò che non era stata l’unica a pensarlo. Lo sguardo di molte sue coetanee si era girato nel momento che lui era arrivato. Poteva già sentire i chiacchiericci e i pettegolezzi che di lì a poco si sarebbero sparsi tra tutti i presenti. «Guarda quello è Roberto della terza D, è venuto! Non ci posso credere».
Elena sapeva che molte ragazze stavano sperando di essere loro il motivo della presenza di lui a quella festa. Poteva anche lei inserirsi tra queste? Roberto l’aveva casualmente sentita parlare della serata con Margherita. Poteva davvero essere venuto solo per lei?
Come a rispondere a quella sua silenziosa domanda, Roberto scrutò nella sala in cerca di qualcuno fino a quando i loro sguardi si incrociarono. Ciò che si aprì sul viso di lui fu un enorme sorriso. Senza aggiungere altro lasciò i suoi amici e si diresse verso di lei.
«Ciao», le disse quando fu abbastanza vicino da poterlo sentire.
«Ciao. Credevo che non saresti venuto stasera».
«E perché mai?». Sul suo volto si dipinse un’espressione di finta innocenza. Sapeva benissimo il perché solo voleva che fosse lei a dirglielo.
«Ho sentito dire che non ami molto questo genere di cose». Elena abbassò lo sguardo. Non voleva che pensasse che fosse una che credeva ai pettegolezzi, ma le era sembrato abbastanza chiaro, per quel poco che l’aveva conosciuto, che fosse così.
«Be’ forse è vero, ma sicuramente fino ad ora non avevo un vero motivo per parteciparci». Si stava forse riferendo a lei? Per quanto fosse arrossita e imbarazzata, Elena alzo lo sguardo e gli rivolse un sorriso sincero. Bevve un sorso dal bicchiere che aveva in mano per farsi coraggio, mentre il suo cuore iniziò a battere all’impazzata.
«Che ne dici se ce ne andiamo fuori?», le propose. «Così io mi fumo una sigaretta».
«Lo vedi che non sei un tipo da feste». Si stupì della sua audacia. «Comunque andiamo». Sentì gli occhi di tutti addosso mentre si allontanava al fianco di Roberto. Riusciva a percepire gli sguardi colmi di in invidia delle altre ragazze, e anche quelli stupiti di chi conosceva Roberto anche solo un poco.
Così cinque minuti dopo si ritrovarono all’aria aperta mentre lui si stava rollando una sigaretta.
«Sei da sola stasera?», le chiese all’improvviso.
«In realtà ero con Margherita. Era andata al bagno quando siamo usciti. Forse dovrei avvisarla». Si era completamente dimenticata di lei. “Che pessima amica”.
Tentò di rientrare ma Roberto le prese la mano. Elena sentì le farfalle nello stomaco appena percepì il suo tocco. Le sue gambe vacillarono per un secondo, ma si riprese giusto in tempo .
«Sono sicuro che l’avrà capito, al massimo Pietro andrà a dirglielo». Lo fissò stupita: se Pietro e Margherita erano stati insieme, e se lei lo aveva taciuto fin a quel momento, voleva dire che non si erano lasciati molto bene.
«Quindi te l’ha detto», dedusse lui dal suo sguardo. Buttò fuori una boccata di fumo, lasciando un scia nell’aria gelida della sera.
«Me lo ha solo accennato».
«Be’ posso svelarti un segreto». I suoi occhi verdi scintillarono nonostante l’oscurità. Elena si appoggiò ad un muretto accanto a lui e lasciò che continuasse.
«Prima ti ho lasciato credere che fossi venuto qui per te». L’aveva detto senza rigiri di parole, era stato diretto. Elena tentò di ribattere ma lui la fermò. «Il fatto è che non sono venuto qui per un mio interesse. Ho semplicemente accompagnato Pietro, ti ho sentito parlare con Margherita della festa e allora ho pensato che forse sarebbe stata l’occasione adatta per loro due».
«Perché? Perché fai tutto questo?». Non si era neanche accorta di aver istintivamente abbassato il tono della voce e di aver usato un tono accusatorio.
«Forse tu non sai cosa è successo tra di loro. Ma io sì e mi sento in parte responsabile. Se Pietro si è comportato male, ora è pentito ed io non vedo perché non dovrebbe avere un’altra chance».
«Per forza è tuo amico», sbottò.
«No perché vedo il modo in cui la guarda e il modo in cui ne parla. Perché non è più lo stesso e non lo è più neanche lei. Ho sempre pensato che nonostante tutto fossero perfetti insieme». Elena non sapeva cosa aggiungere, non conosceva la loro storia e non poteva dire se lui avesse ragione o torto. Però quello che aveva appena detto dimostrava ancora una volta che era un amico fedele.
«Quindi non sei qui per me», disse infine sorprendendosi della sua audacia. Lui le sorrise ei suoi occhi scintillarono.
«Può darsi», restò al gioco. «Avresti voluto?».
«Può darsi», lo canzonò. «Comunque sia,  mi fa piacere che sei venuto».
«Anche a me», sospirò spengendo la sigaretta. Elena ebbe un brivido per via del freddo.
«Forse sarà meglio rientrare». La guidò di nuovo in mezzo alla folla fino a dentro la sala. Elena cercò con gli occhi la sua amica ma di lei non c’era l’ombra. Guardò il ragazzo che le era accanto; anche lui stava cercando il suo amico e sembrava soddisfatto di non averlo trovato. Si ritrovò involontariamente a sorridere come un ebete: quel Natale stava andando di bene in meglio. I suoi desideri non potevano essere più diversi da quelli di tre mesi prima. In quel momento avrebbe solo voluto che quella serata non finisse mai.
«Perché sorridi?», la riportò alla realtà. Era rimasta con un sorriso inebetito sulla faccia, senza accorgersi che lui la stava fissando.
“Bene! Ho fatto la figura della tonta. E adesso come la rimedio?”.
«Stavo pensando che questo è il periodo dell’anno che preferisco», tentò.
«Il Natale?», ridacchiò lui. Vide lo sguardo eccitato negli occhi della ragazza e la lasciò continuare.
«Sì come fai a non amarlo? I regali, le luci, le decorazioni, i dolci, la neve, le canzoni tradizionali e…». All’improvviso Elena alzò lo sguardo e lo vide: un ramoscello di vischio proprio sopra di loro. In un secondo aveva preso la sua decisione. Non era mai stata così intrepida e coraggiosa, ma era giunto il momento di esserlo.
«Il vischio». Senza neanche rendersi conto dei suoi movimenti gli mise le braccia al collo e lo baciò. Le sue labbra erano inspiegabilmente più calde e morbide di quanto si fosse aspettata.
Roberto d’altro canto rimase spiazzato da quel comportamento. Lo aveva baciato all’improvviso e non se l’era aspettato. Quando finalmente realizzò quello che stava succedendo, lei si staccò: troppo presto per lui, e troppo tardi per lei che pensava di aver fatto la figura della stupida.
«Scusa io…». Non fece a tempo a parlare che lui la prese per mano e la guidò in mezzo alla folla, portandola in un luogo più appartato. Fu allora che la baciò.
Senza neanche tentare di essere delicato, la fece sbattere contro la parete e si fiondò sulle sue labbra. Fu talmente naturale e semplice per Elena abituarsi a quel contatto, portargli le mani al collo e baciarlo con più ardore. Fu come se si conoscessero da sempre: mentre le labbra dell’uno cercavano irrefrenabilmente quelle dell’altra per entrambi fu come essere a casa.
“Se questo non è il paradiso”, pensò Elena. “È qualcosa che ci va molto vicino”.
«Lo desideravo da così tanto», sospirò lui quando finalmente si staccarono per riprendere fiato. I lapislazzuli di Elena si persero nel verde intenso degli occhi di Roberto. Non c’era nient’altro da aggiungere. Ci sarebbe stato tempo poi…
Elena chiuse gli occhi e tornò a  godere del sapore di quelle labbra sulle sue.
 
Fu il sapore di quelle dolci labbra a svegliarmi. Appena aprii gli occhi ritrovai i miei lapislazzuli che mi fissavano con ardore.
«Devo ancora abituarmi al fatto che tu mi svegli quando ho appena preso sonno», scherzai. Lei sorrise e continuò a baciarmi. Ancora una volta, come al nostro primo bacio, non ci fu bisogno di parole. Bastò uno sguardo e io avevo già compreso. Avrebbe voluto parlarmi di Monica, di Viola, forse anche di Pietro, ma quando le nostre labbra si sfiorarono di nuovo, sembrò vano a tutte e due aggiungere altro.
Io sapevo, lei sapeva. Per il momento bastava questo: la magica illusione di averla ancora accanto come se non fosse successo nulla. E per quanto entrambi eravamo a conoscenza di come fosse sbagliato, allo stesso tempo baciarla e farla mia di nuovo era l’unica cosa che ci rimaneva.

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Capitolo 14
*** 13. Atteggiamenti ***


Atteggiamenti
 
«Stasera abbiamo la cena con tutti i medici del reparto, te lo ricordi?», mi rammentò Monica quella mattina. Era l’annuale cena prima delle feste. Di solito ci andavo con Elena, ma quell’anno avrei portato Viola con me. Lei d’altronde non vedeva l’ora: era entusiasta di poter finalmente conoscere Monica.
«Viola non vede l’ora d’incontrarti», le confidai. «In più sono giorni che mi sta ossessionando con  il fatto che, visto stasera lasciamo Lucky da solo, domani dobbiamo portarlo tutto il giorno al parco per farci perdonare».
«Che dolce, si vede che gli vuole molto bene. Inoltre anche io sono emozionata per stasera: mi parli sempre così tanto di Viola che non so più giudicare, devo vederla con i miei occhi. Devo capire se quello che mi racconti è vero o se invece sei solo troppo di parte».
«Io non sono di parte», ribattei fingendomi offeso.
«Certo come no. Senti a proposito di stasera che ne dici se andiamo con una sola auto?».
«Sì va bene», approvai. «Non è che lì ci sia un gran parcheggio». Avevamo deciso di andare a un ristorante in centro. Era un locale carino ma non così facilmente raggiungibile con la macchina. Almeno così non saremmo stati in due ad andare fuori di testa per cercare parcheggio.
«Allora a che ora vuoi che ti passi a prendere?».
«Alle sette e mezzo a casa mia?». Mi guardò indecisa cercando di capire quanto tempo ci sarebbe voluto più o meno per arrivare, o forse anche quanto tempo avrebbe impiegato a prepararsi. Mi capitava certe volte con Elena di arrivare in anticipo ad un appuntamento e di trovarla ancora in alto mare. Forse anche Monica avrebbe avuto lo stesso problema.
«Okay tanto so dove abiti».
«Potrebbe suonare come una minaccia», scherzò.
«Be’ forse potrebbe. Lo sai che oggi ti dovrai fare le scale molte più volte del solito?», la presi in giro.
«Oh non è un problema. È comunque un allenamento. Sarò più in forma di te». Mi fece una linguaccia e poi scoppiò a ridere.
«Perlomeno se abitassi in un palazzo senza ascensore me ne potrei fare una ragione».
«Tanto le scale le devo fare io mica tu!», concluse.
«Contenta te, contenti tutti», feci spallucce.
«Infatti. Ma adesso al lavoro: andiam, andiam, andiam a lavorar». Se ne uscì cantando la canzone dei sette nani e riuscendo a strapparmi un ennesimo sorriso.
 
Quando tornai a casa trovai Viola immersa nei preparativi per quella sera. Era con mia madre ed avevano tirato fuori una quantità esorbitante di vestiti dall’armadio.
«Che cosa state facendo?», chiesi loro perplesso.
«Aiuto Viola a scegliere cosa mettere alla cena», mi rispose mia madre come se la cosa fosse ovvia.
«A me sembra solo che la stai aiutando a mettere in disordine la stanza».
Viola mi lanciò un’occhiataccia. «Tu non puoi capire. Perché non porti fuori Lucky visto che ci sei?». Così fui rilegato a portare a spasso il cane mentre loro continuavano i loro preparativi. Certe volte Viola era così simile ad Elena che mi sorprendeva: mi sarei aspettato lo stesso comportamento dal mio angelo. Era sempre così: prima di un evento importante lei mi mandava sempre a fare qualcosa di futile in modo che la lasciassi in pace mentre si faceva bella.
 Ebbi il tempo di tornare a casa e di prepararmi prima che Viola fosse pronta. Stava imparando velocemente ad essere donna. Quando finalmente venne a chiamarmi non potei che rimanere sbalordito. Aveva messo un vestito azzurro, che risaltava con i suoi occhi, mia madre l’aveva fatto una treccia ed era assolutamente perfetta. Se era così bella a soli sei anni, come sarebbe stata quando sarebbe diventata un po’ più donna? Mi si prospettava un periodo difficile: chissà quanti ragazzi le sarebbero corsi dietro.
Finalmente dopo aver mandato via mia madre, aver controllato Lucky per la centesima volta, ci ritrovammo in macchina diretti verso la casa di Monica.
«Non ti dispiace se passiamo a prendere la collega di papà, vero?», le domandai mentre viaggiavamo.
«No. Sono curiosa di  conoscerla. Da come ne parli sembra molto strana».
Feci un sorriso: sicuramente Monica poteva rientrare nella sua definizione. Aveva un carattere così particolare che ad un primo sguardo poteva sembrare un po’ matto. Io stesso all’inizio l’avevo giudicata così. Ma conoscendola meglio avevo capito quanto in realtà fosse una persona sincera, generosa e altruista.
«Non è proprio così», ribattei. «Ha solo un carattere deciso. Sono sicuro che ti troverai bene con lei».
«Sono contenta che sia tua amica, come lo sono diventate per me Francesca e Giulia». Sorrisi di nuovo: il fatto che a scuola si trovasse molto bene rendeva tutto più semplice. Si era ambientata ed era anche molto brava. Aveva molti nuovi amici e la sua vita era tornata a scorrere più o meno tranquilla. Certo ogni tanto la vedevo triste e muta ed ero sicuro che stesse pensando a sua madre, ma più andavamo avanti più capitava di rado. Ero certo che Viola non si sarebbe dimenticata di Elena, ma i suoi impegni e la sua vita la prendevano a tal punto che non aveva il tempo di pensarci troppo.
Il viaggio fu veloce e silenzioso, ed arrivammo sotto casa di Monica in anticipo. Le feci uno squillo per invitarla a scendere e aiutai Viola a spostarsi didietro in modo che Monica potesse sedersi accanto a me. In realtà quella era stata una sua stessa idea: pensava che sarebbe stato giusto che io e la mia amica sedessimo accanto.
«Gli adulti devono stare davanti e i bambini dietro», aveva concluso quando avevo provato a replicare.
«Siete in anticipo», ci salutò Monica all’improvviso affacciandosi dal finestrino.
«Miracolosamente sì», scherzai. Viola mi fulminò con lo sguardo.
«Ciao! Tu devi essere Viola», le disse una volta entrata. «Io sono Monica piacere di conoscerti». Le allungò la mano voltandosi.
«Ciao», le rispose ricambiando la stretta.
«Ora che ti vedo, devo dare ragione a tuo padre, sei davvero bellissima, non esagerava con i complimenti. Dovrà preoccuparsi che tu non faccia stragi di cuori stasera».
«Grazie! Anche tu sembri proprio come ti ha descritto papà».
«Ah sì?». Monica mi lanciò un’occhiata incuriosita mentre io mettevo in moto. «E sentiamo cosa dice di me?».
«Be’ intanto tu sei quella dello stop, giusto?», rispose allegramente.
 Monica si girò leggermente indietro per poterla vedere in faccia, per quanto le permettesse la cintura.  «Già! Vedo che ti ha subito raccontato gli effetti positivi del nostro primo incontro».
«Però dice anche che sei bella e simpatica». Trasalii: di sicuro potevo averle detto che era simpatica, non ero altrettanto certo di aver fatto lo stesso sul fatto che fosse anche una bella donna.
«Davvero?», mi chiese Monica lanciandomi uno dei suoi sorrisi più calorosi.
«Sì», farfugliai. Per fortuna era buio e non poteva notare che ero arrossito.
«Anche tu curi i bambini?», le chiese Viola togliendomi dall’imbarazzo.
«Più o meno. Ma io non sono una pediatra come tuo padre, io sono una psicologa».
«Che significa psicologa?».
«Oh be’ è un po’ difficile da spiegare, io studio, diciamo, tutti i comportamenti dei bambini e mi chiedo perché facciano così… ma è proprio più complesso».
«Ma anche tu sei un dottore?».  Viola sembrava essersi trovata subito a suo agio con lei. D’altronde entrambe erano impazienti di conoscersi.
«Sì anch’io sono un dottore. Ma dimmi un po’ a te cosa piacerebbe fare da grande?».
«La ballerina», rispose certa. Almeno quello non era cambiato: era ciò che aveva sempre desiderato fare.
«Sei sulla buona strada amore mio, sei bravissima», le dissi lanciandole un’occhiata dallo specchietto retrovisore.
«Davvero? Tuo padre mi ha detto qualcosa ma scommetto che lui non si intende di queste cose».
«Già è vero, per papà potrei essere la peggiore ma continuerebbe comunque a dirmi che sono la migliore».
«Ehi! Non posso essere di parte?», le chiesi fingendomi offeso.
«Comunque io faccio danza classica», continuò. «A maggio faremo un saggio».
«Oh che bello! Voglio assolutamente venire a vederti, posso?».
«Sì certo». Continuarono a parlottare tra loro del più e del meno per tutto il viaggio, di Lucky e anche del resto. Monica ci sapeva fare con i bambini e sembrava che provassero una simpatia reciproca.
 
Nonostante la zona quella sera riuscii a trovare posto quasi subito. Stavo aiutando Viola a scendere quando vidi come era vestita Monica per la prima volta quella sera. Era in piedi di fronte a noi ed era a dir poco bellissima, da togliere il fiato. Aveva un cappotto corto da cui si intravedeva un vestito rosso attillato; aveva le calze nere e le scarpe alte. I ricci le svolazzavano più ribelli che mai ma, nonostante questo, le davano un fascino particolare. Gli occhi più accesi del solito erano truccati nei minimi particolari.
Fummo i primi ad arrivare. Molti si sorpresero di vedere Viola, ma Monica fu molto brava ad intercettare subito i loro sguardi e a cambiare immediatamente argomento. Con la sua vivacità impedì che io e soprattutto Viola ci sentissimo a disagio.
«Allora andiamo, ci siamo tutti, no?», disse alla fine con estrema allegria.
Ci sistemammo al tavolo che avevamo prenotato. Io e Monica ci mettemmo di fianco a Viola, in modo che si sentisse sicura e protetta in un mucchio di persone per lo più estranee. Aveva visto tutti al massimo una volta o due quando era più piccola; era ovvio che non avesse la minima idea di chi fossero.
La serata fu molto tranquilla: la solita cena informale che facevamo tutti gli anni. Inevitabilmente ripensai ad Elena; si metteva sempre da una parte a parlare con le mogli dei miei colleghi. Si ricordava chi aveva dei bambini piccoli, il loro nome, chi aveva programmato di andare in vacanza all’estero, chi aveva iniziato una dieta. Era brava in quelle cose, restava sempre in contatto con tutti e non si dimenticava mai nulla. Io invece non ero mai stato bravo in quelle questioni umane e quell’anno sembravo aver perso ancor di più l’allenamento.
Monica ancora una volta sembrò capire quel mio disagio e mi coinvolse subito in uno dei suoi assurdi discorsi che stava facendo con Viola. Le sorrisi e lasciai che i miei ricordi fossero di nuovo confinati in un angolo.
Fu solo un po’ più tardi, mentre parlavo del più e del meno con altri colleghi, che mi accorsi del suo istinto materno. Chiacchierava con Viola per non farla annoiare in mezzo a tutti quei discorsi che lei non avrebbe mai capito e la faceva divertire. Si stava comportando proprio come avrebbe fatto sua madre. Quel comportamento non mi diede fastidio, anzi mi fece sentire ancora più grato di averla come amica. Non avevo notato, fino ad allora, con i bambini in ospedale quell’aspetto di lei, ma in realtà era così: sarebbe stata una madre perfetta, questo non si poteva negare.
Alla fine Viola cominciò a sbadigliare davanti a noi e poi si addormentò tra le mie braccia, cadendo in un sonno profondo. Era stata una giornata impegnativa per lei.
«È meglio se andiamo a casa», mi disse Monica vedendola.
«Davvero non ti dispiace se ce ne andiamo?», le chiesi gentilmente.
«No non ti preoccupare, è già tardi». Salutammo gli altri e ci avviammo verso la macchina.
«Dammi la tengo io», mi disse prendendola in braccio e salendo in auto.
«Mamma…», mugolò Viola stringendosi tra le sue braccia.
«No mi dispiace, ma vorrei tanto essere la tua mamma». Monica le accarezzò la testa e la cullò per farla riaddormentare completamente.
«Saresti una madre perfetta», le dissi una volta in auto. «Ti ho vista stasera, con lei sei stata eccezionale».
«Grazie, è un bel complimento»
«Hai mai pensato di avere un figlio?», le chiesi a bruciapelo mettendo in moto.
«C’è stato un periodo in cui lo desideravo davvero. Ma adesso no. Certo in un futuro e con la persona giusta sarebbe naturale averlo». Con la persona giusta: Elena era sicuramente quella giusta. A noi era venuto naturale decidere di avere Viola. Appartenendoci l’un l’altra, un figlio era il coronamento dei nostri sogni, quello che ci serviva per essere una vera famiglia. Però Monica non era sposata, viveva da sola e la sua situazione era completamente diversa. Mi domandai come mai una donna come lei fosse ancora single.
«Posso sapere una cosa?», le chiesi all’improvviso, nel silenzio del viaggio. Lei intuì subito i miei pensieri.
«Cosa vuoi sapere? Perché non sono sposata? Perché vivo da sola? Perché non ho nemmeno uno straccio di fidanzato?».
«Be’ non proprio», cercai di mentire. Non volevo sembrare troppo esplicito.
«Non sei bravo a fingere», mi fece notare.
«Già, mi chiedevo come possa una bella donna come te rimanere single. Conoscendoti non credo sia per tua scelta e non credo che sia dovuto al tuo carattere». Poteva sembrare strana all’inizio ma in realtà era simpatica, allegra, bella: perché nessuno si era accorto di lei?
«Anche se la infarcisci di complimenti la domanda resta sempre quella. All’inizio forse è stato, come dici tu, per mia libera scelta. Sono rimasta scottata e ferita e non volevo più che nessuno mi facesse male. Ero fidanzata con un ragazzo, Fabio, nel periodo dell’università. Anche lui era uno psicologo, più grande di me ma ci amavamo e così andammo a vivere insieme. Una volta laureati entrammo a lavorare nello stesso studio, io mi occupavo dei bambini, lui degli adulti. Poi un giorno, tornando a casa in anticipo per fargli una sorpresa, fu lui a farla a me. Lo trovai a letto con una mia amica. Andava avanti già da un paio di mesi quando in realtà a me diceva di essere pronto a sposarmi. Non l’ho mai perdonato né lui né lei e penso che non lo faro mai. Così ho cambiato lavoro, sono andata in un altro studio, ma mi ricordava troppo lui e così ho deciso di cambiare ambiente. Ora francamente lì in ospedale sto bene, credo di aver trovato il mio posto».
«All’inizio hai detto che sei rimasta sola per libera scelta. E adesso?».
«Adesso ho capito che quello che avevamo io e lui non era vero amore. Forse lo era all’inizio ma poi era diventato solo attaccamento. Adesso sono single perché voglio stare con una persona che mi fa battere forte il cuore, non è più una mia scelta semplicemente sto aspettando quella persona speciale».
«Mi dispiace per quello che ti è successo». Non doveva essere stato facile, ma lei era una donna forte, l’avevo capito subito ed era in qualche modo riuscita a rialzarsi in piedi con dignità.
«Oh Robbie, smettila. Non è assolutamente niente in confronto a quello che è capitato a te». Ebbi un fremito quando mi chiamò con quel diminutivo. Monica di solito non usava nomignoli, mi chiamava con il nome intero. Robbie invece era un modo in cui solo Elena mi chiamava. Era egoistico e stupido, ma non avrei mai permesso che qualcun altro mi chiamasse così. Quel nome era suo, suo e di nessun altro.
«Che c’è? Ho detto qualcosa che non va?», mi domandò accorgendosi del mio sussulto.
«Non voglio essere chiamato Robbie se non ti dispiace», le dissi brusco.
«Va bene». Mi fissò per un attimo perplessa. «Posso semmai solo sapere il perché?».
«Elena è… era l’unica persona che mi chiamava così», le spiegai.
«Ho capito». Restò un attimo in silenzio e poi proseguì. «Deduco che continui sempre a sognarla?».
«Sì ogni notte».
«Certo». Sembrò rattristarsi all’improvviso, senza un motivo preciso. Forse ero stato troppo duro sulla questione del nome e l’avevo offesa in qualche modo. Ma non era da Monica offendersi per così poco.
«Non volevo essere duro prima», le dissi. «Ma è più forte di me. Non riesco a sopportarlo».
«Scusami tu, è che leggendo il libro di Elena mi è venuto naturale».
«Lei è l’unica che l’ha sempre usato fin dall’inizio e sentirmi chiamare così…». Mi interruppi non sapendo come continuare.
«Ti fa ricordare lei», concluse per me.
«Sì», acconsentii, anche se era molto più complesso.
«Lei è già costantemente nei miei pensieri», continuai. «Per questo voglio che quel nome rimanga come soltanto suo».
«Non c’è problema», sorrise cercando d’alleggerire il tono della conversazione. «Però d’ora in poi ti chiamerò Rob o hai diritto di veto anche per questo?».
«Rob va benissimo. È carino».
«Certo, è meglio quello che usava Elena, ma non c’è rimasta molta scelta». Aveva fatto attenzione a non pronunciare la parola Robbie nuovamente.
«Siamo arrivati», le dissi dopo un secondo. Accostai di fronte a casa sua e lasciai che scendesse e sistemasse Viola sul seggiolino.
«Dorme così profondamente», disse osservandola. «Tua figlia è davvero bella».
«Assomiglia tutta a sua madre».
«Io non direi», mi corresse. «Penso che invece abbia molto di te».
«Non lo so, so solo che è una bambina speciale. L’amo più di ogni cosa al mondo».
«Questo lo si vede benissimo. Il modo con cui ti relazioni con lei, con cui la osservi. Sembri sempre così attento, sei un padre fantastico».
«Grazie. Ma faccio semplicemente il mio dovere», mi schermii.
«Oh dai! Lo so che non ti piacciono i complimenti, ma accettali volentieri quando uno te li rivolge. Sei eccezionale con lei e non lo puoi negare».
«Non so se è stato sempre così o se sono migliorato da quando io sono rimasto solo». Ero stato costretto a dare il massimo per riuscire a rappresentare per Viola una figura su cui poter assiduamente contare.
«Be’ Rob un  po’ ti invidio», mi confidò dopo un secondo di silenzio. Invidiare me? Non poteva aver detto sul serio. La mia vita in quel periodo era stata un inferno, un caos da cui ancora non riuscivo a tirarmi fuori. Notò il mio sguardo interrogativo e si affrettò a spiegare.
«Non in quel senso, di certo non la tragedia che hai vissuto. Ma l’amore, quello di tua figlia, quello che provava Elena per te, quello che tu riesci a provare. Io non so se avrò mai la fortuna di avere un solo momento della mia vita in cui sentirmi così tanto amata».
«Non è vero, devi solo trovare la persona giusta», ribattei. «Una volta trovata amare in quel modo ti viene naturale, semplice come respirare».
«Già amare è semplice, ma non è altrettanto semplice riuscire a farsi amare», sospirò. Sembrò che il suo umore gaio fosse spazzato via da una sorta di amarezza.
«Cosa intendi dire?».
«Niente lascia perdere», concluse. «Ci vediamo a lavoro». Mi rivolse un sorriso magnifico e chiuse la portiera della macchina. Restai a guardarla camminare verso il suo portone e poi entrare. Ebbi come la sensazione che quei nostri ultimi discorsi l’avessero rattristata. Era la prima volta che Monica mi dava quell’impressione.
Anche una volta casa, non riuscii a distogliere i pensieri da quell’ultima parte della serata. Monica non sembrava mai triste, era sempre fin troppo allegra ed esuberante. Forse però quella era solo una specie di maschera per proteggersi, un po’ come avevo fatto io più volta. Però lei non mi era mai sembrata una persona del genere. Era molto più forte di quanto potevo esserlo io.
Continuavano a tornarmi in testa le sue parole di cui non riuscivo a capire il senso. Sembrava che ci fosse come un messaggio nascosto in quella frase ma non riuscivo a capire quale. Amare è semplice, ma non è altrettanto semplice riuscire a farsi amare.

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Capitolo 15
*** 14. Solo una cena tra colleghi ***


Solo una cena tra colleghi
 
Le vacanze passarono in fretta. Il tempo scorreva velocemente e le giornate sembravano passare più leggere rispetto ai mesi precedenti. L’essere amico di Monica, il poterle parlare liberamente di qualsiasi cosa, mi aveva fatto ritrovare un certo equilibrio. Andava tutto bene: Viola, il lavoro, ero riuscito anche a riallacciare i rapporti con Pietro. Tutto stava tornando lentamente al suo posto.
Non che Elena fosse sparita dalla mia vita. Il mio angelo continuava a popolare le mie notti e a renderle speciali. Però in quel momento riuscivo ad apprezzare anche il giorno. La vita reale aveva ripreso ad aver un senso. Non era più come prima dove l’ore della giornata mi sembravano solo una tremenda agonia nell’attesa di ricongiungermi alla mia anima gemella, al mio cuore.
Sembrava impossibile che dopo quella tragedia, che a meno di un anno da quel tragico incidente io potessi sentirmi così: non ero felice, quello no, la felicità come l’avevo vissuta con Elena non sarebbe più tornata, ma sapevo che sarei stato bene. Ce l’avrei fatta. Con calma sapevo che sarei riuscito a riemergere dal baratro in cui ero caduto. Insomma vedevo la luce in fondo al tunnel; la strada da fare era ancora tanta ma non sarebbe stato così impossibile come era sembrato all’inizio.
«Rob stasera che ne dici di una cena da me?», mi chiese Monica un pomeriggio di fine febbraio. Stavamo lavorando e la sua proposta era uscita improvvisa. Non che non me l’avesse chiesto più volte, ma sapeva anche che non poteva insistere più di tanto per via di Viola. Ogni volta mi proponeva di fare qualcosa e rifiutavo per evitare di trascurare mia figlia più del dovuto. Aveva anche suggerito di portare pure lei con noi.
Però, in realtà, quella poteva essere la sera giusta per cenare con lei e farla contenta, una volta tanto. Viola sarebbe rimasta a dormire da una compagna di classe. Aveva insistito così tanto per restare al pigiama party che aveva organizzato la sua amica. Alla fine avevo chiamato la madre di Francesca e mi ero messo d’accordo con lei. Lucky sarebbe stato con Renato e Luciana, che dovevano andarla a prendere il giorno dopo, quindi non ci sarebbero stati problemi.  
«Sì, va bene».
«Davvero?». Mi fissò sbalordita, presa alla sprovvista dal mio consenso semplice e veloce.
«Sì, Viola stasera resta a dormire da una sua amica, sarei solo a casa, quindi posso accettare il tuo invito», le spiegai.
«Sono così contenta». Mi fece un ampio sorriso, uno di quelli che riuscivano ad illuminare tutto ciò che la circondava.
«Comunque stasera voglio farti provare qualcosa di particolare», mi disse saltellandomi attorno.
«Che cosa intendi per particolare?». Le lanciai uno sguardo al tempo stesso preoccupato e divertito. Bastava davvero poco per farla felice.
«Allora che ne diresti del sushi? Conosco un ristorante dove possiamo prenderlo d’asporto se per te va bene».
«Non l’ho mai provato», le confessai. «Ma sul serio? Pesce crudo?». La cosa non mi convinceva più di tanto.
«C’è sempre una prima volta. E poi, se non ti dovesse piacere, posso farti un piatto di pasta. Quella a casa ce l’ho».
«Be’ allora va bene». Continuammo a parlare, a lavorare e a scherzare fino alla fine del turno. Ero piuttosto emozionato per quella uscita. Era abbastanza raro che passassi le mie serate in compagnia di altri adulti, senza la presenza di bambini. Adoravo passare il tempo con Viola, ma avere una conversazione più adulta non sarebbe stato male.
Ci trattenemmo fino a quasi l’ora di cena su un bambino che ci preoccupava abbastanza, ma per quella sera non avremmo potuto fare di più. Riprendemmo entrambe le macchine, sia la mia che la sua, e andammo a casa di Monica. Ci fermammo a un ristorante lungo la strada, dove lei insistette per pagare e poi ripartimmo diretti al suo palazzo.
«Se vuoi puoi prendere l’ascensore», scherzò iniziando a salire per le scale con le buste in mano.
«Ma va, dammi a me». Le presi un pacco e la sorpassai, cominciando a salire.
«Credevo non ti piacessero le scale», mi apostrofò. Ormai quello era il nostro gioco.
«No ma ogni tanto fa bene farle».
Mi sorrise e mi sorpassò di nuovo. La sua allegria era contagiosa, non potevo evitare di ricambiare tutti quei sorrisi. Era facile essere spensierato con lei, lo faceva diventare semplice e naturale.
«Vieni accomodati», mi disse facendomi entrare. La casa era sempre la stessa, non era cambiata di una virgola dalla prima volta che ero stato lì. Monica andò ad appoggiare i pacchetti in cucina e poi mi raggiunse. Feci per togliermi il giubbotto ma lei mi fermò.
«Aspetta voglio farti vedere l’attico», mi disse prendendomi per mano. «L’ultima volta pioveva. Ma oggi è uno spettacolo che non puoi perderti». Mi guidò su un ampio terrazzo da dove si poteva ammirare una vista magnifica. Si vedeva tutta Firenze: si poteva intravedere il Duomo, il campanile di Giotto oltre la cima dei palazzi, ed era davvero uno spettacolo da mozzare il fiato. D’estate cenare là fuori sarebbe stato fantastico.
Aveva ragione: anche se faceva freddo quello era uno spettacolo che non mi sarei potuto perdere.
«Wow», sospirai senza parole.
«Ti piace?», mi chiese appoggiando la testa sulla mia spalla.
«È bellissimo». La notte era stellata e limpida; il cielo trapuntato di stelle faceva da cornice alla nostra meravigliosa città. Quella vista era sicuramente uno dei vantaggi dell’abitare così in alto.
«Qui sopra ci tengo un sacco di piante», mi disse facendomi girare quel grande terrazzo. «Io adoro i fiori. Non riesco a resistere, mi piacciano troppo. Penso che se non fossi diventata una psicologa sarei finita a fare la fioraia o la giardiniera o qualcosa del genere. Peccato che ora sia notte e tu non possa vederli».
«Sarà per la prossima volta». Tornai a guardare il panorama, senza neanche accorgermi che lei era rientrata. Mi appoggiai alla ringhiera e guardai le macchine che correvano veloci giù sulla strada. Poi alzai gli occhi al cielo per osservare le stelle. Una falce di luna era appena sorta e rendeva quello spettacolo ancora più affascinante.
«Rob vieni si mangia», mi disse all’improvviso ricomparendo sulla porta del terrazzo.
«Arrivo». Ero davvero stregato da quella meraviglia. Facevo fatica ad andarmene e a rientrare in casa: sarei rimasto ad ammirare quel panorama per ore.
«Ti affascina, non è vero?», mi chiese raggiungendomi e riprendendomi per mano.
«Già, ma rientriamo se no prenderai freddo», le dissi notando che non aveva più il suo cappotto. Una volta dentro mi tolsi anch’io il giaccone e glielo passai.
«Allora a casa mia vige una regola», mi avvertì. «Se dobbiamo mangiare il sushi dobbiamo comportarci come al ristorante. Questa è la mia teoria, vieni». Mi riportò in salotto dove aveva spostato il grande divano indietro e aveva lasciato il posto per due cuscini davanti al tavolino. Sopra di questo c’erano i nostri piatti con delle bacchette accanto.
«Come sei strana! Non potremmo mangiare normalmente?».
«No questa è casa mia e poi ho pagato tutto io».
«Io ho insistito per pagare ma tu non hai voluto», ribattei.
«Almeno così sono sicura di avere il comando della situazione. Su obbedisci». Fece un gesto ironico di comando per farmi accomodare.
«Ai suoi ordini padrona», scherzai. Mi sedetti sui cuscini e lei si accomodò accanto a me.
«E io dovrei mangiare con queste?», le chiesi prendendo le bacchette.
«Sì certo», mi rispose sorridendo.
«Scordatelo».
«Aspetta ti faccio vedere come si fa». Mi prese la mano e mi posizionò le bacchette. «Se vuoi puoi inzupparlo nella salsa di soia, ma non so se ti piace. Dipende dai gusti, ne ho messa un po’ in questa ciotola se poi ti piace te ne verso ancora. Comunque così si mangia con le bacchette». Prese le sue, inzuppò facilmente il sushi nella soia e lo mangio.
«Non ci riuscirò mai», le dissi provando. Ero proprio negato e inoltre avevo anche fame. «Ti offendo se uso le mani?».
«E dai Rob! Ce la puoi fare, non è difficile». Riprovai un altro paio di volte sotto i suoi occhi vigili, ma con scarsi risultati. Lei tratteneva a stento le risate.
«Non sono venuto qui per farti divertire, vorrei anche riuscire a mangiare».
«Okay, scusa», mi disse ridendo. «Mangia come vuoi e dimmi se ti piace». Lasciai perdere le bacchette e ne assaggiai uno con il salmone. Non era male come avevo pensato; era più buono di quanto mi aspettassi.
«Allora com’è?», mi chiese, avvicinandosi di più.
«Buono». Le sorrisi e iniziai a mangiare con più gusto. Provai anche con la salsa di soia e gustai i vari tipi che aveva comprato. Aveva preso davvero tanta roba ma era tutto buonissimo; poi eravamo affamati e non tardammo a finire ogni cosa.
«Tieni questo è l’ultimo ed è tutto per te». Istintivamente lo prese con le sue bacchette e me lo portò alle labbra. Lo mangiai senza riflettere, notando solo dopo che le distanze tra di noi si erano accorciate. Mi ritrovai a fissarla nei suoi profondi occhi nocciola, così profondi da poter perdercisi dentro. Il tempo sembrò fermarsi mentre noi ci fissavamo intensamente. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dal suo che mi richiamava come una calamita.
«E io come sono?». Posò le bacchette e avvicinò di più il suo viso al mio. In un attimo mi ritrovai le sua bocca premuta contro la mia.
Le sue labbra erano calde, dolci e morbide. Senza riflettere schiusi le mie e assaporai il suo sapore. Fu del tutto inaspettato, fu il mio corpo il primo a reagire a quel bacio, ricambiando e ricercando ancora la bocca di Monica.
Poi all’improvviso mi resi conto di quello che stava succedendo realmente. Presi coscienza che io e Monica ci stavamo baciando e la mia risposta automatica fu quella di serrare le labbra. Mi tirai indietro come se avessi preso la scossa, interrompendo immediatamente quel bacio che non sarebbe dovuto neanche cominciare.
Non sapevo perché l’avevo ricambiata, ma avevo capito che era stato un errore. L’immagine di Elena mi si affacciò subito alla mente e fui attanagliato dal senso di colpa. Elena: era lei che amavo, ed era una parte ancora troppo importante per me. Io volevo che Monica fosse mia amica, non volevo una figura che potesse sostituire mia moglie; d’altronde nessuno avrebbe potuto prendere il suo posto. Il mio cuore apparteneva ad una sola persona e quella di certo non era Monica. Ricambiarla era sbagliato, era stato come illuderla che qualcosa tra noi potesse veramente succedere. Da parte mia non poteva essere così.
«No!». Mi allontanai alzandomi e andando dall’altra parte della stanza. «Questo è stato un errore non sarebbe dovuto succedere».
«Perché no?», mi chiese decisa, alzandosi a sua volta.
«Noi siamo solo amici», misi le cose in chiaro.
«Rob forse lo siamo per te ma questo non è altrettanto vero per me. Non sei più solo un amico da un bel po’ e se non te ne sei accorto allora sei cieco. I miei atteggiamenti erano piuttosto espliciti e pensavo che tu facessi solo finta di non capire».
«Capire cosa?», la interruppi non volendo più ascoltarla. «Non c’è niente da capire. Io penso che tu sia una buona amica, mi sei stata vicino, mi piace passare il tempo con te ma non c’è altro. Io non potrò mai provare quello che tu stai dicendo di provare per me».
«Perché? La tua è solo paura, non me la dai a bere. Se solo provassi...».
«Io non posso», la fermai di nuovo. «Io amo Elena». Le lanciai uno sguardo implorandola di non insistere.
«Forse è stato troppo presto», sospirò. «Forse hai bisogno di più tempo, non sei pronto adesso».
«Io non sarò mai pronto per quel che vuoi tu», ribattei. «Non sarà mai così».
«Per via di Elena?». Questa volta il suo tono era esasperato. «Ascoltami Roberto lei è morta, te ne devi fare una ragione. Non puoi di certo continuare a vivere nel passato».
«Io non vivo nel passato».
«Andiamo stai dicendo seriamente? La sogni tutte le notti, hai appena ammesso che l’ami ancora. Ma lei non c’è più e può non sembrarti giusto ma hai tutto il diritto di andare avanti e di rifarti una vita senza di lei».
«Basta non voglio più ascoltarti». Le voltai le spalle per non doverla guardare negli occhi.
«Invece sarà bene chiarirci subito: sono innamorata di te e non mi arrenderò. Tu lo sai quanto so essere tenace».
«Perché diavolo fai così? Perché hai deciso di rovinare tutto?». Mi girai di nuovo furioso. La rabbia stava montando e stava prendendo il posto dell’incredulità.
«Rovinare cosa? La nostra amicizia era qualcosa di forzato per me. Credimi non è facile aver trovato la persona che ti fa battere forte il cuore e starle accanto solo come amica. Sono stufa di fingere, è da ipocriti. Ed è da ipocrita anche il tuo comportamento: io so quello che stai facendo. Ti stai chiudendo a riccio, alzando di nuovo tutte le tue difese. Ma non puoi continuare a scappare».
«Io non sto scappando, sto solo dicendo che non ricambio i tuoi sentimenti. Non si può decidere chi amare».
«Giusto non si può decidere chi amare, su questo siamo d’accordo. Ma credimi io combatterò per te, però non posso battere qualcosa che già non c’è più. Non puoi rifiutarti di vivere, è sbagliato, è nocivo. Elena è morta; tu lo devi accettare e, Roberto, tu non l’hai tuttora fatto. Viola ci è riuscita, ma tu non te lo vuoi mettere in testa che ormai lei appartiene al passato e non potrà più tornare».
«Basta adesso basta, devo andare. Dammi il giubbotto». Non volevo più passare neanche un minuto in quella casa. Le sue parole mi stavano ferendo come delle coltellate.
«Ti rifiuti di affrontare la realtà e stai reagendo così solo perché sai che io ho ragione. Mi sta bene il fatto che tu ancora possa non provare le stesse cose per me, mi va bene anche sapere che forse è troppo presto e tu possa non sentirtela di legarti sentimentalmente a qualcuno. Ma non posso assolutamente accettare che tu mi dica di no perché vuoi stare con Elena e vorrai sempre stare con lei. Non è giusto nei miei, nei tuoi e nei suoi confronti. Credi che lei non vorrebbe vederti felice? Certo che lo vorrebbe e tu glielo stai negando».
«Dammi il giubbotto», gridai. Volevo solo andarmene in modo tale da non doverla più ascoltare. Lei sospirò e si arrese. Andò a prenderlo e quando me lo portò io uscii senza neanche indossarlo. Cominciai a scendere di corsa i gradini con la testa più confusa che mai.
«Roberto», mi gridò dalla tromba delle scale prima che uscissi dal portone. «Io sarò qui, non vado da nessuna parte ma tu devi smetterla di ferirti così».
Sbattei il portone più forte che potei, sperando che quel rumore potesse cancellare le sue parole, che però erano rimaste come marchiate a fuoco nella mia testa.
Salii in macchina e restai lì senza mettere in moto. Ero troppo sconvolto per riuscire subito a guidare. Le sue accuse mi rimbombavano nella testa.
Sentivo che da quel momento nulla sarebbe stato più come prima: tra di noi erano volate parole troppo forti per essere dimenticate. La nostra amicizia si era inevitabilmente cancellata in una sola serata. Come avrei potuto scherzare con lei ancora dopo quello che aveva detto?
Mi aveva lanciato accuse pesanti. Forse in parte potevano essere vere ma non ero stato io a volere tutto quello. Aveva parlato del mio amore per Elena, ma cosa ne sapeva lei di quello che provavo io? Non poteva giudicarmi e tanto meno poteva rinfacciarmi di essere un codardo. Aveva anche avuto il coraggio di dirmi che stavo deludendo tutti con il mio comportamento.
Elena avrebbe voluto vedermi felice, lo sapevo. Ma credeva davvero che fosse una cosa così semplice? Io mi ero sforzato, ce l’avevo messa tutta nonostante la voragine che sentivo al posto del cuore ed era stato difficile. La sua amicizia mi aveva aiutato e lei lo sapeva, ma non l’era importato.
La situazione con Monica non si sarebbe sistemata. Forse i suoi atteggiamenti erano stati davvero evidenti; io non me ne ero accorto o avevo semplicemente preferito non farci caso. Ma adesso quello non sarebbe più stato un problema. Le nostre visioni erano troppo differenti, i suoi desideri erano l’esatto opposto dei miei e nessuno dei due era pronto a ritrattare. Eravamo entrambi fin troppo testardi per riuscire ad accettare anche solo che l’altro poteva ipoteticamente avere ragione.
Quando fui abbastanza lucido da guidare, misi in moto e tornai a casa. Per fortuna Viola non mi stava aspettando; non avrei dovuto fingere con nessuno di stare bene. D’altra parte mi sentivo esattamente all’opposto; mi sembrava di essere ricaduto in fondo a quel baratro che stavo pian piano risalendo. La luce in fondo al tunnel era sparita e adesso era tornata l’oscurità. 

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Capitolo 16
*** 15. Accettazione ***


Accettazione
 
Mi rigiravo nel letto senza riuscire a prendere sonno. Più desideravo dormire, per raggiungere l’unica persona di cui avevo veramente bisogno, e più i miei occhi restavano sbarrati. Le parole di Monica non facevano che martellarmi il cervello e io non riuscivo a cancellarle. Tutto quello che era successo quella sera si riaffacciava nella mia mente senza darmi tregua.
Verso le quattro la stanchezza prese il sopravvento e finalmente mi addormentai. Elena era seduta sulla poltrona e appena aprii gli occhi trovai il suo sguardo fisso su di me. Stava rannicchiata con le ginocchia strette al petto e il mento appoggiato su di esse. Conoscevo bene quel comportamento: era la sua posizione di difesa. Quando era spaventata e preoccupata la trovavo sempre accovacciata a quel modo.
«Elena mi dispiace. Perdonami». Quella fu la prima cosa che mi venne in mente.
«Non è con me che dovresti scusarti. Io non sono arrabbiata, sono preoccupata».
«Non so come sia potuto succedere», balbettai mettendomi a sedere sul letto.
«Tu l’hai baciata Robbie, il tuo corpo ha risposto. Più chiaro di così come deve essere?».
«Non avrei dovuto». Non sapevo perché il mio corpo aveva risposto ma era stato un errore e vedere Elena così ne era sicuramente una conferma.
«No», mi interruppe alzandosi. «Ti sbagli se pensi che io possa in qualche modo avercela per il bacio. Non sono gelosa, sarei stata sollevata se tu non l’avessi fermata. Invece sono solo tremendamente preoccupata per te. Non va bene così, non va per nulla bene». Mi venne accanto e mi prese la mano. Intrecciai le mie dita alle sue e feci un profondo sospiro. Era quello il contatto di cui avevo bisogno fin da quando ero uscito da casa di Monica.
«Lo vedi?», continuò. «Questo non è sano».
«Ma è quello di cui ho bisogno», protestai.
«No, non lo è. Robbie lo so che tu non vuoi sentirtelo dire, ma Monica ha ragione su tutto».
«Come puoi dirmi una cosa del genere?», sbottai. «Proprio tu dovresti sapere quanto ti amo e quanto so essere leale».
«Senti non voglio litigare, però voglio che tu ascolti quello che ho da dire senza ribattere. Puoi farlo per me?». Mi fissò con i suoi lapislazzuli, incastrandomi con lo sguardo. Non sarei riuscito a dirle di no, anche se non protestare mi sarebbe costato uno sforzo pazzesco.
«Va bene, ma anche se non ribatterò non vuol dire che sia d’accordo».
«Certo, sono sicura che tu non lo sarai». Si accomodò meglio accanto a me ed iniziò il suo discorso. «Punto primo, tu non puoi tradirmi. Io non ci sono più ed è normale andare avanti. Il bacio con Monica è stata la cosa più naturale e spontanea che tu abbia fatto da mesi. Punto secondo, l’hai ricambiata. Che tu l’abbia fatto inconsciamente oppure no, non ha importanza. Tu la desideri e in questo momento lo stai negando con tutte le tue forze, ma è così. Punto terzo, io voglio vederti felice. Credimi lo so che è difficile, immagino come sarebbe se le parti fossero invertite. Ma Roberto prova a metterti nei miei panni. Tu non vorresti altrettanto per me?».
Se io fossi stato al suo posto avrei certamente voluto le stesse cose. Non sarei stato geloso, sarei stato contento. Quello lo capivo, ma il problema era tutt’altro: era riuscirci.
«Si certo che lo vorrei», risposi. «Se ci fosse un uomo in grado di farti felice vorrei che lui ti stesse accanto. Ma non è questo il punto. Io posso capire, io lo so che sarebbe giusto ma non ci riesco. Io ho bisogno…». Mi interruppe mettendomi un dito sulle labbra.
«Avevi detto che non avresti obbiettato», puntualizzò. «Tu non riesci a staccarti da me e Monica ha ragione quando dice che ti stai rifiutando di vivere. Ti stai attaccando a me quando in realtà io sono solo frutto di un’illusione. Lei è la realtà, io non lo sono più. Puoi anche continuare a ripeterti che lei è solo un amica, ma ti ha aiutato quando tu ne avevi più bisogno, è riuscita a farti sorridere e io ti conosco troppo bene. Nel profondo non è mai stata solo un amica».
Rimasi in silenzio. Non potevo ribattere perché me l’aveva proibito e quindi non avrei potuto aggiungere altro.
«Lo so che adesso vorresti solo gridarmi che mi sbaglio, ma non è così. D’altronde amore, io ti conosco meglio di quanto tu conosca te stesso».
«Io ti amo». La fissai deciso, perdendomi nel mare dei suoi occhi.
«Questo lo so. E non svanirà, non vuol dire che tu mi hai amato di meno se adesso provi dei sentimenti per un’altra. Quello che c’è stato tra noi non lo può cambiare nessuno. Ci siamo amati così intensamente, in una maniera unica. Sono stati anni meravigliosi ma, Robbie, adesso è finita».
«Non voglio che finisca». Mi costrinsi a ricacciare indietro le lacrime.
«Lo so». Mi prese la testa tra le mani e mi fece appoggiare la guancia sulla sua spalla. «Tesoro la nostra storia esiste solo nella tua testa da aprile. È finita quasi un anno fa».
«È stato tutto così improvviso, è successo tutto così in fretta».
«Non eri pronto, ma adesso puoi lasciarmi andare. Io voglio che tu mi lasci andare». Tentai di protestare ma lei mi fermò.
«Devi lavorare su te stesso Robbie. Devi capire come fare, perché così non possiamo continuare. Devi capire cosa provi per Monica e devi staccarti da me. Non ho idea di come tu possa riuscirci, ma devi farlo. Promettimi che ce la metterai tutta».
Non le risposi e iniziare a giocare con la sua mano che era di nuovo intrecciata alla mia.
«Devi accettare la mia morte e prima lo farai, prima starai bene. Ti prego rifletti sulle parole di Monica, sulle mie e soprattutto su quello che desideri. Ti chiedo solo di smetterla di essere così testardo e di cercare in te stesso la forza per affrontare tutto. Non puoi più trovare la forza in qualcosa che non c’è».
Sapevo che aveva ragione, ma io non riuscivo a controllare quel mio atteggiamento. Era una cosa irrazionale e l’attaccarmi a lei era diventato una cosa inevitabile.
«Ti prego, ho bisogno che tu lo faccia», mi supplicò.
«Va bene. Farò del mio meglio». Era il massimo che potevo prometterle.
 
Lavorare su me stesso era più difficile di quanto credessi. Il bisogno di Elena era qualcosa che non riuscivo a controllare; in più oltre a quello si era sommato tutta l’incertezza che provavo nei confronti di Monica.
Non le avevo più parlato da quando era successo, ad eccetto di  questioni strettamente di lavoro. Lei aveva provato, ma io avevo semplicemente preso le distanza chiedendole del tempo.
Quando ripensavo a mente lucida alla nostra discussione, capivo che aveva ragione su alcune cose. Non era un bene che mi attaccassi ad Elena così, era vero che non avevo accettato la sua morte e non era giusto nei confronti di nessuno che io mi comportassi in quella maniera. Riconoscerlo era stato il primo passo, ma fare qualcosa perché quella situazione cambiasse era tutta un’altra questione. Pur sapendo che le cose dovevano cambiare, non sapevo come.
Elena era sempre lì nei miei sogni. A quanto pareva il mio inconscio la desiderava ancora troppo e vederla sparire da una notte all’altra sarebbe stato un colpo troppo duro d’affrontare. Sarei riuscito ad essere sempre lo stesso se non l’avessi più sognata? No ovviamente. Forse era proprio quello il problema alla base.
Sicuramente, anche se riconoscevo che Monica aveva avuto ragione, credevo ancora che i miei sentimenti per lei non andassero oltre ad una sincera amicizia. Non potevo esserne innamorato. Anche se Elena lo pensava, mi rifiutavo di crederlo. Probabilmente pensavo che ammettere di amare Monica sarebbe stato come sminuire la memoria di Elena ed era proprio per questo che rifiutavo con tutte le mie forze quell’eventualità. Non volevo svalutare quello che provavo per Elena, anche se in fondo sapevo che nulla avrebbe potuto intaccare il nostro amore. Però pensare di poter provare per Monica le stesse cose che avevo provato solo con il mio angelo era inconcepibile.
«Ammetterlo non cancellerà niente. Il nostro amore rimarrà per sempre»,  insisteva Elena.
«Si ma cambierà come mi sento io».
Riuscire ad accettare la morte di Elena fu un evento del tutto improvviso e inaspettato. Successe tutto una sera al bar con Pietro. Eravamo usciti solo io e lui, come facevamo ai vecchi tempi. Lui aveva insistito dicendo che dovevo un po’ svagarmi e che ne avevo bisogno. Io, sapendo che aveva perfettamente ragione, avevo accettato. Erano passate tre settimane dalla cena disastrosa con Monica e non avevo più avuto il coraggio di parlare apertamente, se non per dirle di non insistere e di lasciarmi perdere per un po’. Il nostro rapporto era tornato come prima di conoscerla veramente e questo mi rattristava in maniera particolare. Così avevamo lasciato Viola e Margherita per una serata tra ragazze ed eravamo andati a bere una birra in centro.
«Allora mi vuoi dire cosa è successo con quella tua collega?», mi chiese bevendo un sorso dal suo boccale.
«Si può sapere chi te l’ha detto?», gli domandai sorpreso. I pettegolezzi su di noi erano arrivati addirittura a lui.
«Viola ne ha parlato con tua madre, che ne ha parlato con me e con Margherita».
«Mia madre, avrei dovuto immaginarlo».
«Erano preoccupate, sia lei che Viola. Tua figlia ha detto che sei un po’ giù da quando hai passato quella sera con lei».
«Avrei dovuto mentire quando Viola mi ha chiesto dove avessi passato la serata».
«Be’ penso che l’avrebbe capito comunque prima o poi. Sei molto facile da leggere, non sei capace di fingere granché. Allora me lo vuoi dire cosa è successo o te lo devo tirare fuori con le pinze?».
«Niente. Abbiamo litigato». Bevvi un sorso di birra per evitare di continuare.
«Questo lo sapevo. Se so che hai passato la serata con lei, sarò anche informato del fatto che voi due avete discusso. Sia tua madre che Viola non hanno tralasciato questo particolare». Sbuffai e mandai giù un’altra sorsata rimandando così le spiegazioni.
«Insomma perché avete litigato?», continuò. «Dio Roberto, giuro che se non mi dici cosa è successo ti prendo a pugni e sai che ne sono capace». Ripensai a quando, da adolescenti, mi aveva dato un cazzotto perché pensava che avessi baciato Margherita. Sì, non si sarebbe fatto scrupoli.
«Ci siamo baciati», sospirai. Mi fissò sorpreso, un po’ perplesso un po’ felicemente stupito. «Poi io le ho detto che non volevo, che non potevo. Lei mi ha detto che si è innamorata di me, che io sto solo scappando. Sono volate parole grosse e da allora ci parliamo a stento e solo per questioni di lavoro».
«Quindi fammi capire: lei ti confessa i suoi sentimenti e tu scappi?».
«Be’ io non la vedrei proprio in questo modo. È più una questione di non ricambiarla». Rimase in silenzio, bevendo la sua birra. Sapevo che voleva dirmi qualcosa ma non sapeva se trattenersi o no.
«Pietro anche tu sei un libro aperto per me. Dì quello che devi», lo spronai.
«Monica è la tua amica, quella che a quanto mi era sembrato di capire ti piaceva. Lei ti ha baciato, ti vuole e tu la rifiuti?».
«Io non ho mai detto che mi piaceva», ribattei.
«No però mi avevi detto che era una bella donna. E anche Viola l’ha detto oltre ad avere aggiunto che è simpatica e gentile, quindi avendo tua figlia più gusto di te, non puoi negare».
«Si okay. Ma può piacermi come persona e come amica, non significa che debba per forza ricambiare i suoi sentimenti».
«Oh insomma Boby!». Feci un mezzo sorriso sentendo che usava ancora il mio nomignolo di quando eravamo bambini. Quando ci eravamo conosciuti, ai tempi dell’asilo, lui aveva difficoltà a pronunciare la “r” e allora aveva cominciato a chiamarmi così. Ed era rimasto il suo appellativo affettuoso o di rimprovero nei miei confronti.
«E non distrarti solo perché ti ho chiamato così», continuò, stupendomi per quanto bene mi conoscesse. «Tu e quel tuo maledetto carattere pudico. Se non è vero amore tu non fai mai niente; ma non funziona sempre così. Prima bisogna capire se può essere amore, non può essere ogni volta un colpo di fulmine».
«Mi stai dicendo che avrei dovuto ingannarla solo per portarla a letto?».
«Be’ sì. Cioè no», si corresse subito. «Quello che intendo dire è che forse un po’ di sesso e un tentativo di una relazione un po’ più fisica con una donna non ti farebbe male. Almeno un tentativo potevi farlo, se poi non nasceva nulla avresti potuto lasciarla chiedendole di restare amici».
«Non è così che si fa», ribattei. «Non si finge dei sentimenti che non si può provare. Non è giusto».
«Non è giusto nei confronti di chi? Di Monica o di Elena?». Lo guardai esterrefatto: aveva colpito nel segno.
«Di nessuna delle due». Fissai il mio boccale senza più alzare lo sguardo.
«Lo so che con Elena è stato diverso ma non può essere sempre così. Non tutti hanno avuto la fortuna di vivere un amore perfetto come il vostro». Mi mise una mano sulla spalla per confortarmi. Io restai in silenzio non volendo ammettere che in fondo aveva ragione.
«Lo so che lei ti manca ma non per questo devi precluderti ogni altra possibilità. Anche se si fosse trattato solo di una notte di sesso che male ci sarebbe stato? È un modo come un altro per dimenticare».
«Cosa avrei dovuto fare?», scattai. «Avrei dovuto passare la notte con Monica fingendo che fosse Elena?».
«No certo che no. Ma ormai lei non c’è più che senso ha…».
«Io non ero pronto», lo interruppi. Senti gli occhi umidi, non riuscendo più a ricacciare indietro le lacrime.
«Per cosa non eri pronto?». Era quella la domanda giusta. Scattai in piedi e corsi fuori non riuscendo a impedirmi di non piangere. Mi inginocchiai in uno vicolo accanto al locale. Almeno lì non c’era nessuno che poteva vedere la mia crisi. Pietro mi raggiunse poco dopo.
«Io non ero pronto per tutto questo», gli dissi stringendomi le gambe. «Io non ero preparato ad affrontare una cosa simile. Io non avrei mai potuto immaginare che quella mattina quando l’ho salutata…».
«Nessuno poteva immaginarlo». Si inginocchiò accanto a me, mettendosi a sedere sul marciapiede.
«Lo so. È stato tutto tremendamente improvviso. Se almeno fosse stata malata, se almeno ci fosse stata una ragione plausibile per la sua morte, me ne sarei fatto una ragione. Se avesse avuto un cancro o qualsiasi altra cosa, ci sarei arrivato preparato. Avrebbe fatto male lo stesso ma l’avrei gestito diversamente. Invece così, la mattina eravamo felici e la sera lei non c’era più. Io sono così arrabbiato».
«Con chi?».
«Con tutti e con nessuno. Con il camionista, con me stesso, con Elena, con il destino, con Dio. Sarebbe bastato un ritardo di cinque minuti e lei sarebbe stata ancora viva. Se lei mi avesse chiamato come aveva promesso, se l’avessi chiamata io piuttosto. Sarebbe bastata una telefonata per farle evitare quell’incidente e lei sarebbe ancora con me. Invece io sono qui che mi domando perché diavolo è successo tutto questo e non ho una risposta».
«Nessuno ce l’ha».
«Pietro smettila di ribadire l’ovvio», sbottai. «E ovvio che nessuno sa il perché, ma io non riesco ad accettarlo, non riesco a farmene una ragione. Sarebbe bastato veramente un soffio e lei non avrebbe mai fatto quell’incidente».
«Ma così non è stato e non puoi cambiare le cose. Potrai interrogarti all’infinito sul perché di questa tragedia ma niente cambierà il fatto che Elena è morta e tu devi andare avanti».
«Ma come faccio ad andare avanti, a provare qualcosa per Monica, se non riesco ad accettare il fatto che Elena non c’è più? Io l’amavo così tanto». L’avevo detto, senza volerlo, senza quasi accorgermene, avevo finalmente tirato fuori il nocciolo della questione. Il problema era tutto lì.
Pietro mi passò un braccio intorno alle spalle. «Non è andata bene in questi mesi, vero?».
«No, per niente. Monica mi ha un po’ aiutato, ma adesso con quello che è successo…». Tirai su col naso e mi asciugai gli occhi con la mano.
«Devo ricredermi, sei più bravo di quanto pensassi a fingere». Feci un amaro sorriso: almeno quello l’avevo imparato. «Boby è per questo che mi hai allontanato, nonostante cercassi in tutti i modi di starti accanto? Perché sapevi che io alla fine l’avrei capito, vero? Tu stai sempre male».
«Sì». L’avevo fatto inconsciamente ma era quello il motivo. «Io ho provato con tutto me stesso ad essere forte, soprattutto per Viola, ma era solo una farsa. Io non sto bene, sono stanco di fingere che vada meglio perché non è così».
«Non devi affrontare tutto da solo. Io sono qui, Viola è qui».
«Non voglio coinvolgerla, lei è così piccola ed è serena adesso, non vorrei farla soffrire ancora».
«Potrai non volerla coinvolgerla ma lei lo capisce. Ricordati che è stata lei a dirci che è preoccupata per te. Ha ragione ad esserlo. E poi c’è questa donna, Monica, hai detto che andava un po’ meglio con lei. Perché questa crisi adesso?».
«Con Monica stavo un po’ meglio, ma la situazione era sempre la stessa. Lei rendeva più sopportabile sopravvivere».
«Non va bene limitarsi a sopravvivere».
«Lo so, è per questo che sono esploso. Credo di non farcela più ad andare avanti così. È da quando ho litigato con lei che sto pensando a quello che mi ha detto. Mi ha dato del codardo e ha ragione. Ha avuto ragione su tutto e sai quanto io detesti avere torto. Io mi sto rifiutando di accettare la realtà e questo non va bene».
«Già, ma Roberto noi l’affronteremo, non puoi isolarti. Non ti fa bene e devi anche chiarire con Monica; devi scusarti con lei. Forse è la persona giusta per ricominciare. Se tu non ci provi non potrai mai sapere se funzionerà». Aveva ragione: se non avessi fatto un tentativo non avrei mai potuto scoprirlo. Forse il passo che dovevo fare era semplicemente buttarmi. Ma sarei riuscito a fare un salto nel vuoto? Il futuro era incerto, il passato era stato il mio porto sicuro. Ma questo doveva cambiare per il mio bene e per il bene delle persone che mi stavano attorno.
 
Più tardi quella sera mi ritrovai disteso sul letto al buio, ripensando per l’ennesima volta a Monica e anche a quello che era successo con Pietro poco prima.
«Papà sei sveglio?». Viola entrò in camera accendendo la luce. Era scalza, con il pigiama e con Lucky alle calcagna.
«Non dovresti essere a dormire?».
«Si ma volevo stare con te. Posso?». Annuii, facendola salire sul letto. Lucky si distese sul tappeto.
«Sono preoccupata per te», mi disse sistemandosi tra le mie braccia.
«Lo so e non vorrei farti preoccupare».
«Non importa come sto io, importa come stai tu», ribatté decisa, fissandomi con i suoi occhioni azzurri. «È per via di Monica? Hai detto che avete litigato, non potete fare pace?».
«Sì, solo che non è così semplice».
«Invece lo è. Lei ti faceva stare meglio, io l’ho visto. Non dovresti separarti da chi ti fa stare bene». Nella sua mentalità di bambina le cose erano molto facili. Fosse bastato semplicemente quello per cancellare la confusione e il dolore che stavo provando.
«Se però non è solo per questo», continuò, «ma è perché ti manca la mamma, papà ti prego allora devi dirmelo». Lo fissai sorpreso per un secondo, poi senza dire una parola annuii. Non ce l’avrei fatta a parlare senza compromettermi.
«Va bene se piangi», mi disse raccogliendo una lacrima che mi era sfuggita. «Manca tanto anche a me, non devi tenerti tutto dentro. Non è un male se per una volta sono io a consolare te».
«Non dovrebbe essere così», sussurrai. «Tu che conforti me. Io sono l’adulto e dovrei essere io ad occuparmi di te».
«Ma tu l’hai fatto papà. Sei stato così bravo con me, io voglio solo vederti stare bene e se adesso piangere ti aiuta, non vedo perché tu non possa lasciarti andare. Ed io rimango qui con te». Sospirai e accettai il suo consiglio. La strinsi fa le braccia e lasciai che tutto quello che mi assillava uscisse fuori.
Piansi tra le braccia di mia figlia come non avevo mai fatto prima. Piangevo per Monica, perché lei aveva ragione ed io mi ero sbagliato. Piangevo per Elena, perché per la prima volta stavo realmente accettando che lei era morta e che presto o tardi avrei dovuto smetterla di sognarla. Piangevo perché capivo che quello che mi ero costruito non era qualcosa di sano, era solo un’illusione che poteva proteggermi sul momento, ma alla lunga si sarebbe solo rivelata qualcosa di nocivo. Piangevo perché capivo che il tempo in cui sarei dovuto stare con Elena era finito e che mi sarei dovuto preparare a dirle addio.
In fondo con quel mio pianto stavo già cominciando a lasciarla andare definitivamente.

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Capitolo 17
*** 16. Promessa ***


Promessa
 
Erano passati un paio di giorni dal mio sfogo e ancora non avevo avuto la possibilità di chiarire le cose con Monica. Non che non fosse capitata l’occasione di parlarle in privato, ma volevo prima chiarirmi le idee e capire cosa dirle veramente.
«Rob senti possiamo parlare», fu lei a cercarmi per prima quella mattina.
«In realtà ti stavo per chiedere la stessa cosa». Mi lanciò uno sguardo sorpreso e mi portò in un corridoio deserto dove potessimo discorrere con più calma.
«Senti», iniziò. «Ti ho già detto che mi dispiace per quello che è successo, che non intendevo essere così brusca e insensibile, ma questo fatto di lasciarti stare per un po’…».
«Avevi ragione», la interruppi.
«Cosa?». Rimase a fissarmi a bocca aperta, in uno dei rari momenti in cui rimaneva senza parole, in attesa che io mi spiegassi.
«Ci ho pensato molto in questi giorni e quello che mi hai detto è vero. Non sto gestendo bene la situazione, continuo a scappare dalla realtà e non va bene».
Tentò di dire qualcosa ma io la fermai. «Lasciami finire, ti prego. La morte di Elena è stata così improvvisa che sono stato sopraffatto dal dolore e non ho voluto affrontarla, non riuscivo a gestire la cosa e quindi ho continuato a scappare. Ho evitato in tutti i modi di accettare la realtà, tu me l’hai detto ed io mi sono rifiutato di ascoltare. Quella sera ho sbagliato a ricambiare il tuo bacio, non per via di Elena, ma perché è stata una mancanza di rispetto nei tuoi confronti. Io devo sistemare le cose prima di poter anche solo pensare a quello che potrebbe accadere tra noi».
«Roberto è stato semplicemente un bacio. Lo capisco che non è facile, ma adesso sono contenta perché vedo che finalmente stai reagendo. Io sono qui e aspetterò; il non parlarci o l’evitarti mi dà il tormento. Per cui, ora che so che hai capito, ti lascio condurre il gioco. Dovrai essere tu a fare il primo passo». Mi prese la mano e la strinse tra le sue.
«Questo cosa vuol dire?».
«Vuol dire che mi sforzerò di esserti soltanto amica fino a quando tu non ti sentirai pronto a chiedermi di più. Ti prego però non metterci troppo». Mi lanciò uno dei suoi sorrisi più dolci, che ricambiai timidamente. Pietro aveva ragione quando affermava che non potevo sempre sperare in un colpo di fulmine. Non sarebbe stato subito vero amore come era stato con Elena, ma chi diceva che non poteva diventarlo? Ogni amore era diverso e in quel momento realizzai che volevo davvero avere più di una semplice amicizia con Monica. Avrei desiderato impegnarmi seriamente con lei, ma, finché non avessi messo ordine nella mia testa, non potevo lasciarmi andare. Dovevo prima riuscire a staccarmi definitivamente da Elena. Solo dopo aver smesso di sognarla, avrei potuto provare ad andare avanti nella vita reale, con Monica.
«Per fortuna siete ancora qui». La voce del primario interruppe i miei pensieri. Ci lasciammo immediatamente la mano e ci voltammo nella sua direzione.
«Dovevo proprio parlare con voi», ci disse avvicinandosi.
«Con noi? C’è qualche problema?», gli domandai.
«No, nessun problema. Ho solo bisogno di voi due per un progetto».
«Un progetto?». Lo fissammo perplessi aspettando che ci spiegasse.
«Visto che siete abbastanza affiatati come coppia sul lavoro, pensavo di affidarvi un compito. È un progetto per l’università. Dovreste fare una presentazione riguardo alle malattie cardiache congenite infantili, approfondendo sia il trattamento medico che l’approccio psicologico».
«È un lavoraccio», protestai.  
«Sì lo so, non è una passeggiata. Ma voi siete i medici più capaci e mi hanno chiesto questo favore. È per le future generazioni di medici. Dovrete presentarlo lunedì mattina».
«Lunedì mattina?», intervenne Monica. «Ma ci mancano solo cinque giorni. Avremmo bisogno di più tempo per fare un progetto all’altezza della fama del nostro ospedale». Stava tentando di addolcirlo con qualche lusinga, ma sapevo già che non sarebbe servito.
«Sono sicuro che farete un ottimo lavoro comunque. Troverete alcune cartelle di pazienti che hanno dato il consenso per il trattamento dei dati e tutte le informazioni sulla mia scrivania». Ci lasciò così su due piedi, senza darci nemmeno il tempo di ribattere.
«No!», si lamentò Monica. «Praticamente non ci ha lasciato scelta, è una marea di lavoro».
«Già. Non ci resta che darci da fare».
«Senti potremmo prendere tutto il materiale e andare a casa mia dopo il turno. Però non stasera ho un impegno», mi propose.
«Nemmeno domani. Sono dai miei suoceri, volevano a cena sia me che Viola. Potremmo fare venerdì. Dopo il cambio potremo andare a casa tua e metterci a lavoro».
«Va bene, ci sarà da farci nottata. Sei pronto a passare tutto quel tempo da solo con me?», scherzò.
«Penso di sì». Lei mi lanciò l’ennesimo dolce sorriso e si avviò dai nostri piccoli pazienti.
 
Le ore passarono veloci e senza neanche accorgermene mi ritrovai a cenare con Renato e Luciana. Ci avevano voluto lì per annunciare che sarebbero stati via un mese: tornavano a Roma a trovare i parenti rimasti là. Era un viaggio che solitamente facevano ogni uno o due anni. Sarebbero dovuti partire l’estate passata, ma la morte di Elena aveva sconvolto tutto. Approfittavano del matrimonio di una nipote, una parente lontana, che non avevo minimamente idea di chi fosse, per poter tornare per un po’ nella loro città natale.
Viola era incuriosita ed eccitata dal viaggio dei nonni e si fece promettere che al prossimo sarebbe andata con loro. La mia sola obiezione fu che il viaggio non le facesse perdere la scuola. Viola aveva tutto il diritto di conoscere le origini di sua madre, ed i suoi nonni erano le persone più indicate per poterle mostrare dove Elena aveva vissuto la prima parte della sua vita.
Mentre tornavamo a casa spiegai a Viola che il giorno dopo avrebbe dovuto dormire dalla nonna. Probabilmente avrei fatto tardi e quindi lei sarebbe stata più tranquilla a casa di mia madre.
«Hai fatto pace con Monica?», mi chiese.
«Sì, penso di sì. Domani sera ci troviamo per lavorare insieme». Solo allora notai che teneva stretto qualcosa tra le mani.
«Cosa hai lì tesoro?».
«Un libro, me l’ha dato la nonna. Era della mamma, mi ha detto che potevo prenderlo e che se non riesco a leggerlo, quando torna mi aiuterà lei».
«Nonna Luciana ha tanti libri della mamma, pian piano sono sicuro che riuscirai a leggerli tutti».
«Ho scelto questo perché mi piaceva la copertina e poi era quello più malridotto».
«Ti ha fatto scegliere e tu hai preso quello più consumato?», scherzai.
«Sì», rispose decisa. «Perché la nonna mi ha detto che era il preferito della mamma».
«Come si intitola?».
«Orgoglio e prigiudizio», lesse.
«Pregiudizio», la corressi. Dovevo immaginarlo: quale altro poteva essere se non quello?
«Ti va bene se parliamo della mamma?», mi chiese seria dopo un attimo di silenzio.
«Sì certo, non devi preoccuparti. Non è un argomento vietato, è giusto parlarne. Dopo che mi sono sfogato va un po’ meglio. Grazie di essere rimasta lì con me».
«Prego, comunque sembra anche a me che vada meglio».
Più tardi quella sera, dopo aver fatto addormentare Viola e aver sistemato Lucky, mi fermai a osservare il libro. Viola l’aveva lasciato sul tavolo in cucina, troppo presa dal suo cane per metterlo a posto nella sua camera.
Lo presi e mi misi a sfogliarlo sul divano. Era esattamente come me lo ricordavo: era così consumato che la copertina sembrava volersi staccare da un momento all’altro. Elena l’aveva sfogliato centinaia di volte.
Ricordavo alla perfezione il giorno in cui me l’aveva letto per la prima volta.
 
«Elizabeth era troppo imbarazzata per rispondere alcunché. Dopo un attimo di silenzio, il suo compagno soggiunse: “Siete troppo generosa per prendervi gioco di me. Se i vostri sentimenti sono ancora quelli dello scorso aprile, ditemelo subito. Il mio affetto, i miei desideri sono immutati, ma basta una vostra parola perché questo discorso sia chiuso per sempre”». Eravamo distesi sotto l’ombrellone. Era il tramonto ed Elena appoggiava la testa sopra il mio petto mentre cercava di indurmi ad amare Jane Austen. Io giocherellavo con i suoi capelli ancora umidi e pieni di salsedine.
Sbuffai e lei se ne accorse subito.
«Cosa c’è? È una dichiarazione perfetta», protestò.
«Ma è tutto così assurdo, come puoi pensare che dopo le accuse che lei gli ha rivolto, lui possa fare di tutto per riscattarsi ai suoi occhi e continui ad amarla nonostante tutto».
«Tu lo faresti». Colpito e affondato. Su quello non potevo ribattere, di certo io avrei fatto tutto per Elena. E potevo anche ammettere che allo stesso modo Mr. Darcy avrebbe potuto fare di tutto per la sua Elizabeth.
«Robbie ammetti semplicemente che non ti piace il genere», puntualizzò.
«Non è che non mi piaccia», tentai di mentire.
«Sei solo geloso del fatto che Mr. Darcy è molto più romantico di te. Ogni ragazza vorrebbe un uomo con lui». L’aveva detto per scherzare ma io la presi come una sfida.
«Vuoi il romanticismo? Preparati perché dopo il mio gesto non la penserai più come prima».
«Vedremo», concluse.
Era un po’ di tempo che riflettevo sul chiederle di sposarmi e quello poteva rivelarsi l’occasione giusta. Eravamo in vacanza in Calabria, io ero appena entrato al quarto anno di medicina ed Elena stava per laurearsi in Lettere. Avevamo già pensato di andare a convivere, qualora lei avesse trovato un buon lavoro, ma io volevo di più. Volevo che fosse mia per sempre.
Così il giorno dopo affittai una canoa a due posti e la portai in una grotta che avevo scoperto quando andavo lì da bambino. Era suggestiva perché il sole filtrava a sprazzi e faceva risultare l’acqua più azzurra del normale. In più, in fondo alla grotta si trovava una spiaggia sassosa illuminata dal sole grazie ad una grande apertura circolare sul soffitto roccioso.
«È bellissimo qui», sospirò rimanendo affascinata da quel luogo suggestivo.
«Già». Smisi di remare e le presi le mani. Puntò il suo sguardo nel mio, sorpresa forse dalla mia espressione decisa.
«So di non essere romantico come gli eroi dei tuoi libri, so di non essere all’altezza di un Romeo, di un Cirano, di un Mr. Darcy, ma quello che provo per te è sicuramente qualcosa di più autentico e di più vero. Io ti amo e questo non cambierà mai. I miei sentimenti per te sono così autentici e sinceri e tu lo sai: sei l’unica con cui ho provato sensazioni così intense. Io voglio che questo sia per sempre, per questo sposami». Tirai fuori un anello di plastica che avevo nascosto nella tasca del costume. Non era prezioso, ma per noi aveva un significato particolare.
«E quello dove l’hai preso? Credevo di averlo perso», mi chiese senza fiato.
«Era sulla mensola in camera tua, te l’ho rubato qualche mese fa». Era l’anello che avevo trovato nelle patatine durante uno dei nostri primi appuntamenti. Elena aveva scherzato e se l’era messo al dito dicendo: “se un giorno mai tu vorrai chiedermi di sposarmi dovrai farlo con questo anello, è troppo carino. E sarà una sicurezza sull’esito positivo della tua proposta”.
«Elena Roggi». I miei occhi si intrecciarono ai suoi che brillavano emozionati. «Vuoi diventare mia moglie?».
«Sì, sì». Lasciò che io le infilassi l’anello al dito e poi si catapultò a baciarmi. Il suo movimento fu troppo repentino e la canoa si ribaltò facendoci cadere in acqua. Dovette lasciarmi per evitare di farci affogare entrambi. Nuotammo verso la spiaggia, portando la canoa con noi. Una volta arrivati sulla riva si catapultò di nuovo su di me facendomi distendere sulla battigia sassosa.
«Non è vero che non sei romantico», mi disse tra un bacio e l’altro. «Ti sei ricordato, io non posso credere che tu ti sia ricordato quella sciocchezza che ho detto sull’anello».
«Io ricordo tutto quello che mi dici», le risposi mordicchiandole il labbro. In un meno di un secondo la situazione degenerò. I baci si fecero più intensi, sentii le mani di Elena abbassarmi il costume e aiutarmi ad entrare dentro di lei. Facemmo l’amore sulla spiaggia, pieni di passione e di voglia di amarsi per sempre.
«Promettimi che sarà sempre così», mi disse dopo che avevamo entrambi raggiunto l’apice. Era appoggiata al mio petto, mentre le onde continuavano ad infrangersi calme su di noi.
«Promettimi», continuò, «che vivremo appieno ogni singolo istante, prometti che ogni giorno sarà entusiasmante e perfetto come oggi». La sua voce tremava di emozione.
«Te lo prometto, sarà così». E lo era stato almeno fino a quando eravamo insieme.
 
Aprii gli occhi e fui accecato dal candore della stanza. Dovevo essermi appisolato perso nei ricordi. Elena era davanti a me e mi guardava intensamente, quasi avesse capito quello a cui stavo pensando.
«Non ho mantenuto la mia promessa», sussurrai voltando la testa per non perdermi nel mare dei suoi occhi. Non c’era bisogno di specificare quale, sapevamo entrambi a cosa mi riferivo.
«Non è vero Robbie». Mi prese il viso tra le mani, sedendosi accanto a me, e mi accarezzò una guancia. «Tu l’hai mantenuta. Ogni singolo giorno che io ho passato con te è stato magnifico. Ci sono stati momenti brutti ma sicuramente non avrei potuto desiderare di più; ho avuto una vita bellissima grazie a te».
«Non mi riferivo a quella parte, ti avevo giurato che avrei vissuto appieno ogni istante, ma da quando tu mi hai lasciato non l’ho più fatto». Non disse niente, ma lentamente mi fece voltare verso di lei in modo da incontrare i suoi meravigliosi occhi.
«Tu non sei qui», balbettai. «Tu non dovresti essere qui». Sentii gli occhi pizzicare per le lacrime trattenute.
«Io non dovrei essere qui», ripeté. I suoi occhi si riempirono di lacrime bagnandole le folte ciglia. Le passai un dito per asciugarle la guancia.
«È giusto», sussurrò. «Robbie lasciami andare, va bene così».
«Vorrei dirti tante cose ma non trovo le parole», mormorai abbassando lo sguardo.
«Provaci amore». Appoggiò la testa sulla mia spalla, lasciando che l’abbracciassi e la stringessi a me.
«Non dimenticherò mai quello che c’è stato tra di noi. Sei stata troppo importante per me, sei stata tutta la mia vita fino ad ora, ma non posso continuare così».
«Certo che non puoi, è sbagliato».
«Ti ho amato dal primo istante e non smetterò mai di farlo».
«Sono certa che non lo farai».
«Ma restare attaccato a te è come arrendersi, io devo…». Non riuscii a continuare. Dirlo ad alta voce l’avrebbe reso più evidente di quanto già non fosse.
«Dillo Robbie», mi spronò.
«Devo dirti addio». La strinsi più forte, intensificando quel nostro ultimo abbraccio.
«Mi ero ripromessa di non piangere», mi disse singhiozzando. «Avrei dovuto essere coraggiosa ma è più forte di me».
«Mi dispiace». Le passai una mano tra i capelli, cercando di consolarla e di calmare anche me stesso.
«Non dispiacerti. Io sono felice che stia accadendo. È normale, è la vita». Si staccò da me e si alzò dandomi le spalle.
«Robbie avrei davvero voluto avere più tempo da passare con te. Avrei voluto poter invecchiare con te ma così non è stato. Devi sapere che non ho rimpianti e che sono in pace con me stessa. Ho fatto tutto quello che di più bello si poteva fare. Mi sono divertita, ho amato con tutto il cuore, sono diventata madre ed è stato perfetto anche nelle imperfezioni della vita di tutti i giorni. Io non potevo chiedere di più». Mi alzai e l’andai ad abbracciare da dietro, appoggiando la guancia sulla sua scapola.
«Quando ti ho conosciuto non avevo la minima idea di cosa significasse amare incondizionatamente e neanche tu lo sapevi. Siamo cresciuti insieme e ci siamo completati a vicenda. Però adesso è tempo che tu continui a crescere e a vivere da solo».
«Devo mantenere la nostra promessa», sussurrai.
«Sì». Si voltò e mi mise una mano sul cuore. «Io ti amo e per questo sarò sempre con te, lo sai, così come una parte del tuo cuore mi apparterrà per sempre; questo è inevitabile. Però il tuo cuore è così grande».
Si alzò sulle punte per essere alla mia altezza e poter essere così occhi negli occhi. «Devi amare di nuovo, voglio che tu faccia sentire un’altra donna come hai fatto sentire me. Voglio che tu permetta ad un’altra la possibilità di avere il tuo cuore. So che c’è già qualcuno che sarà in grado di farti sentire speciale. Voglio che tu non abbia paura di buttarti, di amare di nuovo. Devi concedere il tuo cuore, e la persona a cui lo darai sarà così fortunata. Io so cosa significa essere amati da Roberto Cantini ed è indescrivibile. Promettimi anche questo».
«Te lo prometto». Appoggiai la mia fronte alla sua chiudendo gli occhi. Piangevamo entrambi perché ormai il nostro momento era finito, ma allo stesso tempo era giusto così.
«Voglio vederti ridere ed essere felice e spensierato. Voglio che tu trovi un’altra donna che possa fare da madre a Viola, qualcuna che possa darle dei consigli sui ragazzi, su tutti i problemi femminili che potrà avere e che l’aiuti per il suo matrimonio. Tu sei fantastico ma non puoi sostituirmi da solo».
«Viola ha bisogno di qualcuno», sussurrai.
«E anche tu. Lasciati andare Roberto, non avere paura. C’è già qualcuno che ti ama per quello che sei e sono sicura che potresti provare lo stesso per lei».
«Monica…».
«Già, lei mi piace. E piace a Viola, e soprattutto piace a te. Non aver paura di soffrire di nuovo perché questa volta ci sarò io a vegliare su di voi, questo è quello che posso prometterti io».
«Okay». Respirai a fondo per riprendere il controllo ma inutilmente. Sentii le sue mani tra i capelli, in un ultimo disperato contatto.
«È il momento?», le domandai, portandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Penso proprio di sì». Annullò la poca distanza tra di noi e mi baciò. Le nostre labbra si cercarono e si unirono per l’ultima volta, le nostre lingue si intrecciarono prima di salutarsi per sempre. Assaporai il suo sapore e inspirai il suo odore per imprimerlo nella testa. Non l’avrei mai più sentito e avrei voluto ricordarlo per sempre.
Le passai le dita tra i capelli dorati e con l’altra percorsi il suo fianco, sentendo la perfezione del suo corpo, mentre anche le sue mani mi stringevano e mi salutavano.
Per ultimo lasciai che i miei occhi si intrecciassero ai suoi. L’intensità dei suoi lapislazzuli mi travolse e mi tolse il respiro.
Infine ci staccammo, troppo presto ma allo steso tempo anche troppo tardi. Lasciammo solo le nostre dita intrecciate.
«Addio», sussurrai.
«Addio, sii felice». Mi lasciò la mano e si avviò verso la porta della stanza. L’ultima cosa che vidi di lei furono i suoi capelli svolazzanti che ondeggiavano seguendo il suo passo.
Quando aprii nuovamente gli occhi mi ritrovai nel salotto completamente immerso nell’oscurità. Sapevo che non l’avrei più sognata e per quanto potesse in quel momento far male, era anche una liberazione. Da quel momento avevo ripreso il controllo della mia vita e avrei potuto tornare a vivere.
Per troppo tempo avevo tenuto il passo con il sovrannaturale; era il momento di ritornare alla realtà e dalle persone che mi stavano vicino e che continuavano ad amarmi nonostante tutto.

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Capitolo 18
*** 17. Andando avanti ***


Andando avanti
 
Dopo aver finito il turno, quel venerdì, io e Monica prendemmo tutto il materiale e andammo a casa sua. Il compito che il primario ci aveva affidato era difficile e anche immenso ma lei non sembrava scoraggiata.
«Se ci mettiamo sotto sono sicura che riusciremo a fare un buon lavoro», mi disse prendendo il suo portatile e sedendosi sul divano accanto a me. Avevamo disposto tutto il materiale intorno a noi e dovevamo solo capire da che parte cominciare.
«Spero proprio che tu abbia ragione».
Lavorammo con impegno per un paio d’ore. Gli argomenti da trattare erano tanti, ma stavamo andando avanti con un buon ritmo. Stavamo facendo un bel progetto ed era piuttosto semplice confrontarmi e collaborare con lei. Avevamo più o meno le stesse idee e quindi riuscivamo a procedere senza troppi intoppi.
Ad un certo punto cominciai a sentire la testa pesante e faticai a concentrarmi. Mi capitava spesso, anche quando ero all’università. All’improvviso il mio cervello, dopo aver lavorato un bel po’, si disconnetteva e io non riuscivo più a concentrarmi.
«Vuoi fare una pausa?», mi chiese vedendo che il mio sguardo cominciava a perdersi nel vuoto.
«Magari». Le lanciai uno sguardo grato e mi accasciai sul divano.
«Hai l’aria stravolta», sorrise.
«In effetti lo sono. Non sono più abituato a fare un lavoro, diciamo così, più teorico. Io sono abituato ad agire sul campo».
«Già! Che ne dici di un caffè?».
«Se non ti scoccia farlo».
«No, lo prendo anche io. Seguimi». Mi fece un ampio sorriso e mi portò in cucina. Una volta lì aprì uno sportello e tirò fuori una caffettiera. Iniziò a preparare il caffè, interrompendo la sua solita e abituale parlantina.
«Sei silenziosa», le feci notare. Mi appoggiai contro il tavolo per osservarla mentre era all’opera.
«Stavo solo pensando», rispose scrollando le spalle.
«A cosa? Se posso chiederlo».
«In realtà mi chiedevo che tipo eri all’università». Si voltò a guardarmi solo per un secondo, probabilmente per osservare la mia espressione. «Scommetto che eri il classico secchione».
«Non proprio», ribattei. «Studiavo parecchio però non mi sarei definito proprio un secchione».
«Raccontami», mi spronò. Aveva messo la caffettiera sul fuoco, quindi si appoggiò al bancone e mi fissò incuriosita. «Come era Roberto Cantini, lo studente?».
«Io te lo dico solo se tu mi racconti come era Monica Landi, la studentessa».
«Ci sto».
«Alle superiori», iniziai, «non ero un granché. Non mi impegnavo, non avevo trovato ancora la mia strada. Invece, quando sono entrato a medicina, era esattamente quello che volevo fare. Ho iniziato ad impegnarmi seriamente; gli esami erano difficili e mi capitava spesso di rinunciare a uscire a divertirmi perché avevo un esame imminente. Non che fossi fisso a studiare. Ero uno studente normale. Poi visto che anche Elena stava studiando, spesso ci trovavamo impegnati nelle stesso periodo delle sessioni. Io la prendevo sempre in giro perché i suoi esami in confronto ai miei erano una farsa. Non che pensassi che fossero una passeggiata, ma ammetterai che non c’è confronto tra medicina e lettere moderne».
Abbassò lo sguardo e iniziò a fissarsi la punta dei piedi. «E come al solito torni sempre lì», sussurrò. «Ad Elena». L’aveva detto con amarezza, ovviamente la cosa le pesava. Io non l’avevo fatto con intenzione, era stato naturale parlare di lei. Non avevo pensato che la cosa potesse ferirla.
«Mi dispiace, ma lei era parte integrante della mia vita, mi è venuto spontaneo parlarne», mi giustificai.
«Lo so». Alzò di nuovo lo sguardo e mi guardò dritto negli occhi. «Scusami tu, non avrei dovuto dirlo. È logico che tu ne parli. Sono stata stupida ad esprimermi così».
«Ti da fastidio se racconto di lei?».
«No Rob. È ovvio che tu ne parli. È naturale che lei sarà sempre una parte troppo importante di te». Ebbi l’impulso di ribattere alla sua affermazione. Avevo detto addio ad Elena e se anche era una parte fondamentale di me, io potevo permettermi di guardare al futuro.
Purtroppo non feci a tempo. La caffettiera iniziò a gorgogliare e Monica mi diede le spalle iniziando a parlare, raccontandomi del suo periodo universitario.
«Anche io ero più o meno come te. Avevo talmente cazzeggiato alle superiori che poi quando ho iniziato l’università, per i motivi che tu già conosci, mi sono impegnata al massimo. Era un periodo difficile ed io mi sono buttata nello studio. Non volevo più deludere nessuno e volevo che mio padre, almeno lui, fosse orgoglioso di me».
«Io penso che tuo padre lo fosse già», mi intromisi. «Sei così…». Mi interruppi non sapendo come proseguire.
“Così speciale”, avrei voluto dire. Aveva un carattere talmente solare ed era dolce, comprensiva. Mi sarebbe piaciuto avere una minima parte del suo ottimismo o della sua naturale allegria. Nonostante tutto quello che aveva passato aveva sempre un sorriso sulle labbra ed era riuscita a far tornare anche il mio.
«Così come?», mi domandò. Prese due tazzine da uno scaffale e iniziò a versare il caffè, aspettando la mia risposta. La fissai incerto per un secondo.
Voglio che tu non abbia paura di buttarti, di amare di nuovo. Le parole di Elena mi tornarono alla mente chiare e distinte. Era ovvio che provassi dell’affetto per Monica; che fosse più di una semplice amica l’avevo già capito, anche se avevo cercato di negarlo. Se potesse diventare qualcosa di molto più intenso e profondo, non avrei potuto saperlo finché non avessi tentato.
Per la prima volta sentii il desiderio di andare avanti. Che male ci sarebbe stato a fare un tentativo con Monica? Era bella, divertente, radiosa e per di più era innamorata di me. Non volevo prenderla in giro o ingannarla in qualche modo, ma non potevo sapere se sarei riuscito a ricambiarla completamente se non avessi fatto quel salto nel vuoto. Era un passo che dovevo fare.
Lentamente e silenziosamente mi avvicinai a lei, che stava versando il caffè nelle tazzine.
«Sei una bella persona», le sussurrai in un orecchio, abbracciandola da dietro. Il mio gesto, del tutto inaspettato, la colse alla sprovvista. Sussultò e la tazzina le scivolò dalle mani rovesciando il caffè sul piano cottura.
«Che sbadata». Si affrettò a prendere la spugna, lì vicino, e ad asciugare il danno che aveva appena fatto. Era ovvio che non sapeva cosa pensare del mio gesto; faceva la timida, ma d’altronde era stata lei a dirmi che sarebbe toccato a me fare la prima mossa.
Lentamente, misurando ogni mio gesto, le scostai i ricci dal collo, portandole una ciocca dietro l’orecchio. Feci un lungo respiro e chiusi gli occhi.
“Roberto è quello che vuoi”, mi dissi. “Non fermarti, prova a lasciarti andare”. Era l’ora di buttarmi, non ci sarebbe stata un’occasione migliore di quella. Non ci sarebbe stata neanche una donna più adatta di Monica per riuscire a guarire le mie ferite. Così saltai.
Le baciai il collo dolcemente, inspirando il suo profumo. Sapeva di limone e arancio, probabilmente il suo shampoo. Continuai lasciandole una scia di baci fino ad arrivare al suo lobo, mentre toccandole la pancia l’avvicinai di più a me.
«Roberto», sussurrò mettendo una mano sopra la mia. Si voltò lentamente verso di me, rimanendo però intrappolata tra il mio corpo e il bancone. Il suo sguardo emozionato si perse nel mio e io mi abbandonai in quei profondi occhi nocciola. Le sfiorai le labbra con il pollice e sentii una fitta di desiderio salirmi lungo il corpo.
Avvicinai il mio viso al suo e la baciai. Le sue labbra mi ricambiarono prontamente. Sentivo il suo entusiasmo e la sua felicità, ma percepivo anche il suo timore. Voleva che fossi io a condurre, in modo da spingermi solo fino dove fossi sicuro di poter arrivare. Ed io sicuramente in quel momento volevo di più.
Sentii le sue mani tra i capelli mentre approfondivo il bacio e le nostre lingue si intrecciavano, conoscendosi per la prima volta.
Quei baci erano come un bicchiere d’acqua per un assetato, come un pezzo di pane per un affamato, come una scialuppa di salvataggio per una nave che sta per affondare. Ed era proprio così: le sue labbra erano la scialuppa che mi stava salvando dall’oblio in cui ero caduto dopo la morte di Elena. Era quello che mi occorreva per tornare a vivere.
Infilai le dita tra i suoi ricci, per avvicinarla di più a me, mentre con l’altra mano accarezzavo il suo fianco. Anche le sue mani intanto cercavano di conoscere meglio il mio corpo. Però, quando iniziai di nuovo a baciarle il collo, con molta più passione rispetto a prima, mi fermò.
«Aspetta». Mi fece scostare quel tanto da potermi guardare negli occhi, in modo da poter leggermi dentro. Sapevo, ormai, di essere come un libro aperto per lei e capii che doveva aver letto come in quel momento il desiderio fisico di lei avesse preso il sopravvento.
«Vieni». Mi prese per mano e mi guidò in camera. Si tolse il golf, buttandolo per terra, rimanendo così in reggiseno e rivelando il suo corpo perfetto. In un attimo fu di nuovo tra le mie braccia, mentre, senza nessuna fretta anche gli altri nostri indumenti andarono a raggiungere quel primo vestito.
Il desiderio crebbe ancora e a quel punto fu il mio fisico a parlare. Là sopra il suo letto, baciai ogni parte del suo corpo, gustando la sua pelle e il suo sapore. Lasciai una scia di baci partendo dal suo collo, giù sul suo seno, sulla sua pancia, sul suo ombelico fino al suo centro; e poi dalle sue gambe, su di nuovo fino alla sua intimità. Osservavo soddisfatto l’effetto che riuscivo ad avere su di lei, ma allo stesso tempo volevo darle di più. Volevo unirmi a Monica, diventare una sola cosa e perderci insieme nell’estasi più pura e naturale.
Fu così che ci ritrovammo a fare l’amore, immersi nella passione, perdendoci entrambi nel corpo dell’altro. C’era passione, ma anche bisogno. Fare l’amore con lei era quello che mi occorreva, era la cura contro tutti i mali: stavo lasciando il passato alle spalle. Ma non c’era solo il mio bisogno: anche a Monica serviva quel passo. Si era innamorata di me, mi aveva aspettato e adesso aveva bisogno di qualcuno che l’amasse veramente, che la facesse sentire la persona più importante sulla faccia della terra. Ed io ce l’avrei messa tutta per riuscire ad essere quel qualcuno.
 
Quando mi svegliai, quella mattina, la trovai che dormiva accoccolata sul mio petto. I suoi ricci mi solleticavano la spalla, mentre con una mano mi stringeva a sé. Riposava tranquilla, con un sorriso disegnato sulle labbra e quell’aria appagata, che probabilmente dovevo avere anche io, disegnata sulla faccia.
Si mosse leggermente nel sonno, avvicinandosi di più a me per rimanere nel torpore dei nostri corpi. Era davvero bellissima: riusciva a essere splendida anche con i capelli arruffati dopo una notte movimentata, piena di passione.
Era stata una notte fantastica e anche particolare. Avevamo fatto l’amore più volte ed ogni secondo che passava riuscivo a sentirmi sempre più preso da lei. Non era stato strano passare una notte come quella con qualcuno che non fosse Elena, come avevo sempre immaginato. Era stato tutto così naturale, così semplice. In fondo ero stato io il primo a crearmi delle difficoltà. Adesso stavo abbattendo tutti quei muri che io stesso avevo eretto. L’avevo fatto per proteggermi, ma in realtà mi ero solo danneggiato.
Ovviamente, anche se in quel momento avrei dovuto pensare a ben altro, non potei non constatare che era stata la prima notte in cui io non l’avevo sognata. Avevo dormito profondamente e, come sapevo che sarebbe successo, non avevo incontrato Elena. L’addio tra di noi era stato conclusivo. Avrei voluto cancellare quel velo di tristezza che quella verità, senza volerlo,  mi comportava; ma forse solo il tempo e solo Monica avrebbero potuto guarirmi. Nonostante fossi felice per la notte appena trascorsa non riuscivo a sbarazzarmi di quella sensazione di solitudine.
Non ero solo, questo lo sapevo, ma era anche vero che non ero più lo stesso di prima. La notte precedente avevo appena detto addio al vecchio me e alla donna che era stata tutto fino ad allora. Poteva essere considerato quasi normale che provassi emozioni così contrastanti: tristezza e felicità, inquietudine ma anche sicurezza di aver fatto la cosa giusta, solitudine e allo stesso tempo piacere per l’essere in quel letto con Monica.
«A cosa stai pensando?». Non mi ero accorto che si fosse svegliata e che mi stesse fissando. Mi passò una mano sulla guancia facendomi una carezza. Era un gesto rassicurante e aveva anche il potere di riuscire a calmarmi.
«A tutto e a niente», risposi chiudendo gli occhi al suo tocco.
«Non devi dirmelo per forza se non ti va». Sorrisi del fatto, che come al solito, mi aveva capito alla prima.
«Non abbiamo finito il lavoro», dissi per cambiare argomento.
«Non ci mancava molto e devo dire che ho preferito impiegare il tempo così». Si spostò in modo da stendersi meglio accanto a me e poter appoggiare la testa sul cuscino.
«Decisamente anche io». Ci baciammo intensamente e poi rimanemmo a fissarci, occhi negli occhi, naso contro naso, fronte contro fronte. Il silenzio tra noi valeva più di mille parole. Riuscivo a leggere nel suo sguardo tutta la sua emozione. Era felice ma anche preoccupata. Non doveva essere facile per lei riuscire a gestirmi: ero un disastro. Capii che ciò che la turbava era il mio assurdo rapporto con Elena. Le dovevo delle spiegazioni, non avrei potuto rimandarle più a lungo.
«Monica», iniziai. Mi mise un dito sulle labbra per farmi tacere.
«Fai parlare prima me. Rob mi hai molto sorpreso ieri sera. Quando abbiamo parlato l’altro giorno tu mi hai detto che dovevi prima fare chiarezza in te stesso ed io ti ho detto di non metterci troppo, non pensavo però che sarebbe accaduto tutto così velocemente».
«Lo so. Neanche io lo credevo».
«Che cosa è successo allora? Cosa ti ha fatto cambiare idea?»
«Non la sognerò più. Le ho detto addio», ammisi. Sospirai e chiusi gli occhi.
«Mi dispiace». Mi fece una carezza, sfiorandomi le ciglia con il pollice.
Mi alzai di scatto, appoggiandomi su un gomito, e la guardai sbigottito. «Non dovresti dispiacerti, tu dovresti esserne felice. Cioè se io non lo avessi fatto, tutto questo non sarebbe successo». Indicai i nostri corpi nudi sotto le coperte, come se la cosa fosse ovvia.
Sorrise. «Sì certo che ne sono felice, ma so che per te non deve essere stato facile, anzi deve essere stato tutto il contrario. E capisco quanto anche ora, il pensiero di lei…».
«Ssh». La feci tacere. Era davvero dolcissima, metteva la sua felicità in secondo piano rispetto a quello che sentivo io. La baciai di nuovo, questa volta più appassionatamente, portandomi sopra di lei. Accarezzai il suo corpo, dal suo fianco fino ad arrivare al seno e poi al viso.
«Aspetta, stavamo parlando», mi interruppe di nuovo quando mi spostai a baciarle il collo. Mi fece spostare, facendomi distendere di nuovo accanto a lei, solo dalla parte opposta a dove ero prima. Così mi ritrovai sul bordo del materasso con le che mi fissava e che mi aveva appena impedito di proseguire.
«Mi stai fermando un po’ troppe volte per una che mi desidera», scherzai.
«Che ne sai che io ti desidero? Sei un po’ troppo presuntuoso dopo una sola notte passata insieme».
«Andiamo, io lo so che tu mi vuoi», continuai. Lo riuscivo a leggere dal suo sguardo che era così.
«E tu mi vuoi?». Diventò seria e mi guardò intensamente. Mi aveva appena rivelato ciò che la turbava.
«Certo, mi sembrava ovvio». Dopo ciò che era appena successo, dopo ciò che stavo tentando di fare, mi sembrava chiara la mia risposta.
«Ma come mi vuoi?». Sembrava insicura, come non si era mai mostrata, almeno con me.
«Cosa intendi?».
«Hai detto addio ad Elena e va bene. Ma questa notte tra noi, tutto questo, io non so se per te ha lo stesso significato che ha per me. Sono semplicemente una distrazione, un modo per andare avanti? Io lo so che stai uscendo da una storia più che seria, da una storia perfetta ed io non vorrei essere solo qualcosa di passeggero, qualcosa che è tutto il contrario di quello che avevi». Era stata un  fiume di parole e l’avevo riconosciuto per quello che era: il suo atteggiamento nervoso.
«Monica, ascoltami». Mi tirai su a sedere e aspettai che anche lei facesse lo stesso. «Quello che hai detto su Elena è vero, è stata una grande storia d’amore. Ma è finita, ma lo hai detto tu stessa più volte. Io adesso sto cercando di andare avanti e ora come ora non so dirti se quello che c’è tra noi sarà qualcosa di altrettanto forte o duraturo. Ma so che non sto cercando solo una storia leggera e senza impegno, quella storia che si cerca sempre dopo una relazione impegnativa».
«Sicuro?». Il suo sorriso apparve timido sulle sue labbra.
«Io non posso dirti adesso quello che provo per te, perché francamente non lo so. Non sei solo un’amica ma non sono pronto a dirti altro perché è troppo presto».
«Certo questo lo so e mi basta, volevo solo sapere se per te era stato solo sesso oppure no».
«Non lo è stato. Monica io spero, anzi voglio innamorarmi davvero di te e voglio riuscire a ricambiarti e ad amarti come tu ami me, ma devo andarci piano. Devo andare per gradi».
«Oh Rob!», proruppe euforica. Mi gettò le braccia al collo, avventandosi su di me. Mi baciò entusiasta, sbilanciandomi e facendomi quasi cadere dal letto. La ricambiai con altrettanta passione, stringendola più forte e cominciando di nuovo ad accarezzare il suo corpo perfetto.
All’improvviso, mentre eravamo entrambi presi dal corpo dell’altro, Monica si spostò non rendendosi conto che eravamo sul bordo del materasso. La sentii cadere a terra con uno tonfo.
«Ahi». Si rialzò non capendo bene cosa fosse successo. Aveva un’espressione confusa e disorientata ed anche delusa per essere stata interrotta in quel nostro momento di passione. Era talmente buffa che scoppiai a ridere, senza riuscire a trattenermi.
Mi incenerì con lo sguardo mentre mi sganasciavo dalle risate. «Lo trovi divertente?».
Annuii, non riuscendo a fermarmi. «Dovresti vedere la tua faccia!».
«Dovresti sentire che botta ho preso, non rideresti così», protestò rialzandosi.
«È stato troppo divertente». Non ridevo così da troppo tempo, avevo le lacrime agli occhi e mi faceva male la pancia. Era una risata liberatoria; erano mesi con mi sentivo così leggero.
«Sono lieta di essere responsabile del tuo divertimento». Si mise di nuovo a sedere accanto a me.
«A parte gli scherzi, mi piace davvero la tua risata. Non ti avevo mai visto ridere così, dovresti farlo più spesso». Mi sorrise e intrecciò le sue dita alle mie.
In quel momento sentii il mio telefono squillare. Doveva essere rimasto in salotto: ci eravamo completamente dimenticati del mondo esterno. Tentai di alzarmi ma prima che potessi anche solo arrivare alla porta della camera aveva già smesso.
«Direi che è l’ora di tornare alla realtà», mi disse Monica iniziando a rivestirsi. «Che ne dici se ti preparo la colazione? Io ho decisamente fame. Tu intanto vestiti e controlla chi era».
«Già anche io ho decisamente fame». Il mio stomaco aveva brontolato appena lei aveva ricordato il cibo. Così feci come mi aveva detto: mi rimisi i boxer e i pantaloni ed andai a prendere il cellulare.
Era stata mia madre a cercarmi. Ed aveva anche ragione visto che erano le nove passate e non mi ero fatto ancora vivo. La richiamai e seppi che lei e Viola erano a casa nostra. La mattina avevano voluto farmi una sorpresa venendo direttamente a casa, in modo da non farmi stancare troppo dopo quella che doveva essere stata una serata/nottata di lavoro. Ovviamente non trovandomi si erano preoccupate.
Quando dissi a mia madre che ero rimasto da Monica, potei quasi percepire i suoi pensieri. Stava misurando quanto nelle mie parole “rimasto a dormire” ci fossero doppi sensi. Almeno per quella volta aveva ragione: ce ne erano eccome.
Mi lasciò semplicemente dicendo: «Se la tua amica non ha altri impegni perché non la inviti a pranzo da noi. Vi aspetto». Non mi diede né il tempo di confermare né quello di ribattere.
In fondo non sarebbe stata una cattiva idea; avrei potuto presentarle mia madre e sarebbe stato un modo per lei e Viola per approfondire la loro conoscenza.
Quando mi affacciai in cucina, Monica stava apparecchiando la tavola, con indosso la mia camicia.
«Non dirmi che non hai trovato niente di meglio da metterti?», scherzai.
«No, ma volevo essere sexy per te. Ci sono riuscita?». La squadrai: attraverso il tessuto si poteva intravedere tutto, decisamente lasciava poco spazio alla immaginazione
«Decisamente sì», risposi mordendomi il labbro. «Senti hai qualche impegno per oggi?».
«Niente che non posso rimandare, perché?».
«Mia madre ti ha appena invitata a pranzo. Che ne dici accetti?». Annuì regalandomi uno dei suoi meravigliosi sorrisi, uno di quelli che da tempo avevo capito erano destinati solo e soltanto a me.

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Capitolo 19
*** 18. Presentazioni e comunicazioni ***


Presentazioni e comunicazioni
 
Monica si stava squadrando nello specchietto retrovisore, per quella che forse era la centesima volta. Aveva impiegato un lasso di tempo estremamente lungo per riuscire a prepararsi e anche in quel momento non sembrava ancora soddisfatta.
«Se ti dico che sei bellissima la smetti di preoccuparti per il tuo aspetto?». Eravamo di fronte a casa e stavo solo aspettando che lei fosse pronta a scendere.
«Non prendermi in giro, mi stai per presentare a tua madre. Voglio essere perfetta».
«Lo sei, non devi preoccuparti per questo». La feci voltare verso di me e le diedi un dolce bacio. Quel gesto parve calmarla più di mille parole.
«Va bene allora andiamo». Scese di macchina e aspettò che io la raggiungessi dalla sua parte, prendendola per mano.
Quando aprii la porta mia madre accorse subito. Conoscendo la sua curiosità ero sicuro che non stesse più nella pelle. Era probabile che fosse in ascolto per riuscire a captare il suono delle chiavi nella toppa.
«Finalmente siete arrivati», ci disse venendoci incontro.
«Scusa ma Monica ci ha messo una vita a prepararsi». Quest’ultima mi tirò una gomitata e mi fulminò con lo sguardo. Io le sorrisi facendole la mia espressione da finto innocente.
«Ci scusi per il ritardo signora», intervenne. «Lei deve essere la madre di Roberto, piacere io sono Monica».
Si strinsero la mano. «Il piacere è tutto mio. Ma chiamami pure Anna». Notai lo sguardo di mia madre studiarla a fondo per cercare di coglierne anche i minimi particolari. Sarebbe stato un momento imbarazzante, ma per fortuna in quell’istante Viola accorse con Lucky alle calcagna.
«Papà sei arrivato», esultò saltandomi in braccio. «Non ti abbiamo trovato stamattina ed eravamo preoccupate».
«Ho dormito da Monica, a proposito non si saluta?».
«Ciao!». Scese e andò ad abbracciare Monica. Loro due erano andate d’accordo fin dal primo incontro, quello era sicuramente un aspetto positivo.
«Ciao piccola. Immagino che questo sia il famoso Lucky?». Indicò il cane e si accovacciò per fargli le coccole. Lucky cominciò a scodinzolare e a girarle intorno per farsi accarezzare ancora un po’.
Mentre loro due erano impegnate col cane, mia madre mi prese per un bracciò e mi guidò in cucina.
«Roberto vieni,  ti devo chiedere una cosa», usò come scusa.
«Ehi mamma che c’è?», protestai una volta nell’altra stanza.
«Allora è lei Monica. È davvero molto bella».
«Mi hai portato di qua solo per dirmi questo?», protestai infastidito.
«No ovviamente. Avrei voluto, prima di incontrarla, parlare un po’ con te».
«Mamma ma sei stata tu a invitarla!».
«Certo se no chissà quando me l’avresti fatta conoscere», sbuffò. «Però vorrei capire prima come comportarmi».
«In che senso? Vuoi parlare chiaro». Era più criptica del solito. Perché non si limitava a dirmi cosa voleva, senza troppi giri di parole?
«Vedi Roberto quando mi presentasti Elena sapevo perfettamente chi avevo davanti: tu eri innamorato perso di lei, non facevi altro che parlarne e ti si illuminavano gli occhi al solo pensarla. Ma adesso non è più così. Sicuramente è per tutto quello che è successo, però vorrei capire se Monica è solo una tua amica o mi devo aspettare che diventi qualcosa di più».
«Non è solo un’amica», confessai. «Non so bene come definirla ancora, però lei è di più». Il nostro rapporto, la nostra relazione se potevo definirla già così, non era ancora chiara. Avevamo deciso di andare per gradi, però, nonostante questo, non avevo mai dubitato che fosse una cosa seria.
«Quindi il lavoro di ieri sera era solo una scusa?».
«No non lo era», ribattei contrariato. Non avrei mai mentito a Viola su quel punto, prima di impegnarmi con qualcuno avrei dovuto pensare a mia figlia e capire se la cosa poteva darle fastidio. Era anche per questo che volevo parlarne con lei al più presto. «Però dopo il lavoro è decisamente diventato altro». Sentii le guance avvampare; parlare di quegli argomenti con mia madre mi aveva sempre imbarazzato, anche se lei era sempre stata piuttosto aperta su questioni di sesso.
«Bene», sorrise soddisfatta. «Adesso direi che possiamo tornare di là».
Quando tornammo in salotto lo scoprimmo vuoto. Evidentemente Viola doveva aver mostrato a Monica la casa. Le trovammo nella sua cameretta, entrambe sedute per terra che coccolavano Lucky e che parlavano come due vecchie amiche.
«Sì, è così pignolo certe volte», stava dicendo Monica.
«E poi se non è d’accordo fa quella sua espressione buffa. Si capisce subito se non vuole», continuò l’altra. Ebbi la netta impressione che stessero parlando di me.
«Ehm ehm», richiamai la loro attenzione. «Io sono qui dovrei forse preoccuparmi? Di cosa stavate parlando così animatamente?».
«Di niente», risposero contemporaneamente.
«Ovviamente. Viola hai mostrato a Monica la casa?».
«Sì certo, poi ci siamo messe qui a giocare con Lucky. Tu e nonna eravate spariti».
«Dovevo chiedere una cosa a tuo padre, te l’ho detto», intervenne mia madre. «Adesso sarà meglio che io vada a cucinare, prima che arrivino Pietro e Margherita».
«Pietro e Margherita?», chiesi perplesso.
«Sì, zio Pietro ha chiamato stamattina dopo che eravamo tornate», mi spiegò Viola. «Cercava te e gli ho detto che eri ha dormire da Monica, dopo gli ho passato la nonna, hanno parlato per un po’ e poi nonna li ha invitati a pranzo». Potevo immaginare cosa si erano detti; sicuramente il tema principale eravamo stati io e la mia notte fuori casa.
«Spero che non ti dispiaccia», intervenne mia madre.
«No certo».
«Pietro e Margherita sono proprio loro?», si intromise Monica alzandosi. «Quelli del libro?». Non c’era bisogno di specificare quale. Annuii.
«Allora non vedo l’ora di conoscerli». Mi sorrise felice per poi rivolgersi a mia madre. «Anna vuole che le dia una mano a preparare?».
«Se non ti dispiace, così facciamo due chiacchiere. Però dammi pure del tu». Se ne andarono lasciandomi solo con Viola. Forse quello poteva essere il momento opportuno per parlare con lei. Avevo detto a Monica che prima di tutto avrei dovuto parlare con mia figlia. Non sarebbe stato facile per lei vedermi con un’altra donna. Ero sicuro che avrebbe pensato che volessi sostituire Elena e doveva assolutamente capire che era proprio quello che non volevo.
Mi sedetti sul letto e le feci un cenno di venire accanto a me.
«Mi sei mancata principessa», le dissi abbracciandola.
«Anche tu mi sei mancato», mi rispose accoccolandosi sulle mie ginocchia.
«Non ti dispiace che abbia portato Monica o che sia rimasto da lei stanotte, vero?».
«No perché? Anche io rimango a dormire e porto qui le mie amiche». La questione era decisamente molto diversa.
«Volevo chiederti una cosa, piccola. Può darsi che adesso Monica venga più spesso a trovarci e passi anche più tempo con noi. Voglio che tu mi dica cosa ne pensi».
«A me piace Monica». Non sapevo come riuscire a spiegarle che probabilmente lei non sarebbe stata una semplice amica ma qualcosa di più. Come avrebbe reagito vedendomi avere un atteggiamento con un’altra donna simile a quello che avevo con sua madre? Quell’intimità che si stava creando tra noi era percepibile, anche evitando baci e abbracci di fronte a lei.
«Senti anche a me piace Monica, mi piace tanto», iniziai. «Vedi mi piace così tanto che potrei comportarmi con lei in un modo un po’ diverso rispetto a come tu ti comporti con le tue amiche».
Sembrò riflettere sulla mia frase. Rimase in silenzio per un tempo che a me sembrò interminabile prima di rispondere. «Vuoi dire che potresti comportarti come con la mamma?».
«Non proprio così, ma può darsi. Magari non per adesso ma più in là potrebbe succedere». Rimase zitta e scese per andare a coccolare Lucky. Non mi rivolse neanche uno sguardo e si concentrò sul cane impedendomi di vedere la sua espressione.
Era offesa e contrariata? Era triste,  era arrabbiata?
«Piccola. Io te lo sto dicendo adesso perché voglio capire questo che effetto ha su di te».
«Lei non è la mamma», proruppe furente. Rabbia: almeno quella sapevo come gestirla.
«Certo che non è la mamma, nessuno potrà mai prendere il suo posto».
«Non hai appena detto che vuoi trattare Monica come se fosse la mamma?». Mi guardò intensamente senza staccare lo sguardo, facendomi percepire tutta la sua confusione e tutto il suo dispiacere.
«Ascoltami». Mi inginocchiai accanto a lei e le presi le manine tra le mie. «Tesoro cerco di spiegarti quello che stavo cercando di dire. Io penso di provare per Monica qualcosa di più di una semplice amicizia, e penso che questo potrebbe diventare qualcosa di molto più profondo. Potrei volerle davvero tanto bene, ma questo non ha niente a che fare con la mamma. Monica non prenderà il suo posto e io non sto cercando di sostituirla. Quello che provavamo con la mamma resterà per sempre e nessuno potrà cancellarlo».
«Me lo prometti?», mi chiese con gli occhi lucidi.
«Sì te lo prometto. La mamma non potrà mai essere rimpiazzata. Però Viola ti ho parlato di Monica perché io vorrei davvero provare ad avere un rapporto più stretto con lei, ma voglio che tu sia d’accordo».
«Io non ho scelta», sussurrò.
«Sì che ce l’hai. È per questo che te lo sto chiedendo. Ti va bene se io e Monica diventiamo più che amici?».
«Papà che cosa dovrei dirti?», sbuffò infastidita, stropicciandosi gli occhi.
«Quello che senti, se ti da fastidio oppure no. Sii sincera».
«Io non lo so; però mi pare ovvio che non posso far altro che accettare la cosa. Lei ti fa stare meglio, stamani eri così felice quando sei tornato. Non ti vedevo così da tanto tempo. Senza di lei tu torneresti triste ed io non voglio». Ero rimasto senza parole per la sua dolcezza, non sapevo più cosa dirle. Lei avrebbe accettato la cosa comunque e l’avrebbe fatto solo per me. Era un gesto di amore incondizionato che non mi ero aspettato. Io ero stato pronto a sacrificarmi per lei, non mi aspettavo succedesse il contrario.
«Proviamoci», disse infine. «Non so se vederti con Monica mi farà arrabbiare ma posso provare. Adesso però posso andare a giocare con Lucky in giardino?».
«Grazie». Le diedi un bacio sulla fronte e l’abbracciai forte. «Lo sai che sarei sempre tu la regina del mio cuore, vero?». Annuì e la lasciai andare, raccomandandole di mettersi il giubbotto.
Quando tornai in salotto trovai Monica ferma davanti alla libreria.
«Ehi», le dissi abbracciandola da dietro. «Non dovevi aiutare mia madre? Ti ha già buttato fuori dalla cucina?».
«Sono solo venuta a prendere una tovaglia, poi ho visto questa». Stringeva in mano la foto che tenevamo lì sulla mensola. Eravamo io ed Elena al mare, l’avevamo scattata l’estate della nascita di Viola. Era una delle foto di Elena che avevamo tenuto sparse per la casa. Era stata proprio mia figlia ad impedirmi di metterla via.
«Era davvero bella», sussurrò.
«Già», sospirai, stringendola a me.
«Ho sentito che parlavi con Viola. Le hai detto di noi? Come l’ha presa?».
«Non lo so», sospirai. «Non fa i salti di gioia ma ha detto che ci proverà».
«È una bambina così intelligente e matura, io non so se alla sua età avrei reagito allo stesso modo».
«Ed è così dolce, mi ha spiazzato con quello che ha detto».
«Cosa ti ha detto?», mi domandò reclinando la testa all’indietro e appoggiandola sulla mia spalla.
«Che tu mi fai stare meglio e che per questo non può fare altro che accettare la situazione tra noi perché non vuole che io torni ad essere triste».
Monica non commentò, tornò a guardare la foto prima di rimetterla al suo posto.
«Io non so se ti faccio stare meglio», disse infine. «In questa foto sembri così felice e spensierato. Io non ti ho mai visto così». Guardai di nuovo quell’immagine del mio passato. Era stato uno dei momenti più belli che avevo vissuto, ero appena diventato padre e avevo ottenuto tutto quello che si poteva desiderare dalla vita. Poi, però, mi tornò in mente la scena di quella mattina quando ero scoppiato a ridere e non riuscivo più a fermarmi.
«Invece sì», ribattei. «Stamattina quando sei cascata dal letto, io ho iniziato a ridere e mi sono sentito così leggero e allegro. Tu non sai da quanto tempo non mi sentivo così bene».
«Dici sul serio?». Si voltò verso di me per guardarmi negli occhi.
«Sei tu che mi fai stare bene». Le sfiorai le labbra con le mie per poi baciarla dolcemente. Elena era diventata la mia droga ma Monica adesso era come una boccata di aria fresca; era il mio ossigeno. Il mio angelo, che era sempre stato la mia fonte di vita, era, purtroppo, in quell’ultimo anno diventato una dipendenza malsana. Monica era in quel momento qualcosa di salutare.
Quello che era partito come un tenero bacio si trasformò presto in qualcosa di molto più intenso. Misi le mani nelle tasche dei suoi jeans per avvicinarla a me, mentre lei rimaneva avvinghiata al mio collo, passandomi le dita tra i capelli. Le nostre labbra erano calde le une sulle le altre, e le nostre lingue danzavano insieme creando un ballo tutto loro, solo nostro, un’intimità sempre più crescente.
«Monica sei riuscita a trovarla?». Mia madre uscì dalla cucina sorprendendoci in quel momento di passione. Ci staccammo velocemente, arrossendo entrambi per l’imbarazzo di essere stati colti in flagrante.
«Oh scusate io non volevo interrompervi».
«Non importa», balbettai.
«Dovrei essere io a scusarmi», intervenne Monica. «Mi sono distratta e mi sono completamente dimenticata della tovaglia». Proprio in quel momento, quasi a toglierci dall’imbarazzo, suonò il campanello; così io ebbi l’opportunità di andare ad aprire.
«Allora sei tornato», mi disse subito Pietro ammiccando. Non era neanche entrato in casa che già iniziava con le sue frecciatine.
«Non cominciare», lo fulminai con lo sguardo. «Ciao Margherita come stai?».
«Molto bene grazie». Ci scambiammo un bacio sulla guancia prima di entrare. «Ma anche tu sembri piuttosto rilassato ed allegro».
«Ti prego non ti ci mettere anche tu. Già devo tenere a freno mia madre e tuo marito, abbi pietà di me». Li feci accomodare senza troppi convenevoli. Ormai loro conoscevano la casa come se fosse stata loro. Monica era rimasta ferma dove l’avevo lasciata, aspettando di essere presentata. Invece mia madre era tornata in cucina.
«Pietro, Margherita vi presento Monica». Vidi lo sguardo di entrambi squadrarla attentamente, esattamente come aveva fatto mia madre poco tempo prima.
«Piacere di conoscervi. Ho così tanto sentito parlare di voi». Si fece avanti con il suo solito brio e la sua solita naturalezza.
«Anche noi abbiamo sentito molte cose su di te». Margherita le strinse la mano e aspettò che anche Pietro facesse lo stesso.
«Roberto ci ha così tanto parlato di te che ad un certo punto ho pensato che si fosse inventato tutto. È un piacere vedere che sei una persona in carne e ossa». Monica sorrise, mentre Margherita gli tirò una gomitata.
«Tua madre e Viola sono in cucina?», mi chiese quest’ultima.
«Mia madre sì, Viola deve essere in giardino».
«Allora vado a vedere se Anna ha bisogno di una mano». Si avviò verso la cucina.
«Vengo anche io». Monica la seguì sparendo oltre la porta. Appena fummo soli, Pietro mi prese per un braccio e mi portò verso le camere.
«Cavolo Roberto, è uno schianto. Mi avevi detto che lo era, ma non avendo gusti simili, pensavo che sarebbe stata più il tuo tipo. Invece lei è proprio bella su tutti i fronti». Rimasi in silenzio aspettando il suo interrogatorio. Sapevo che sarebbe arrivato così gli lanciai uno sguardo per indurlo ad iniziare e ad evitare troppi giri di parole.
«Beh cosa credi che voglia sapere? Dimmi stanotte è successo quello che penso?».
«Sì», ammisi. «È successo… più volte».
«E bravo il mio Boby. Così si fa. Ti vedo proprio più rilassato, te l’avevo detto che era quello che ti serviva».
«Forse avevi ragione, comunque non è andata proprio come hai suggerito tu».
«Intendi che non è stata solo una cosa fisica? Lo immaginavo, ti conosco troppo bene».
Annuii «Non so bene cosa provo, però è stato…». Non sapevo come descriverlo. Mentre facevamo l’amore quella notte mi ero sorpreso di come ogni istante potessi percepire esclusivamente la presenza di Monica: lei era ovunque ed io ero totalmente preso da lei.
«Intenso», conclusi.
«E normale», aggiunse dandomi una pacca sulla spalla.
«Già, è stato una cosa naturale. Ma tu piuttosto perché mi cercavi stamattina?». Cambiai argomento, ricordando che se mi aveva telefonato, così di buon ora, probabilmente voleva dirmi qualche cosa di importante.
«Ho un annuncio. In realtà volevo già dirtelo quando siamo usciti a bere l’altra sera. Ma non mi è sembrato più il caso dopo ciò che è successo».
«Dimmelo ora», lo spronai.
«No in realtà voglio lasciarti un po’ sulle spine, proprio come mi fai stare tu. Visto che ti fai tirare le parole fuori di bocca con le pinze, penso che sia corretto che tu aspetti fino alla fine del pranzo».
«Ehi! Non è giusto», protestai.
«Invece lo è. Adesso portami dalla padrona di casa, l’ultima volta le avevo promesso di giocare con lei. Ed io sono un uomo di parola».
«Non so se ha tanta voglia di vedermi ora. Forse è meglio se ci vai da solo: è in giardino». Conoscendo Viola, dopo la nostra piccola discussione, aveva voglia di restare un po’ da sola. Aveva accettato Monica per me, ma non era d’accordo.
«E come mai? Cosa è successo? Viola ti adora, è strano che sia arrabbiata con te».
«Le ho detto di Monica, che con lei potrebbe nascere qualcosa di profondo». Non c’era d’aggiungere altro, sapeva che l’argomento era delicato.
«Hai fatto la cosa giusta parlandone subito con lei. Vedrai che si abituerà».
«Non è per quello. Ha accettato quello che c’è con Monica, ma l’ha fatto solo perché non vuole farmi soffrire. In realtà la cosa non la convince, lo so. Nonostante le mie rassicurazioni ha paura che Monica possa prendere il posto di Elena».
«Col tempo capirà che non è così». Mi lanciò uno sguardo incoraggiante. «Comunque tu vieni con me. Vuol dire che io gioco con Viola e tu ci stai a guardare. Anzi perché non stai col cane?». Sorrisi e lo seguii in giardino.
 
Dovetti comunque aspettare fino alla fine al dessert prima di sapere cosa mi nascondeva Pietro.
Il pranzo fu abbastanza tranquillo. Monica sembrava molto a suo agio, aveva fatto subito amicizia con Margherita e sembrava andare d’accordo anche con mia madre. Viola era più titubante di prima nel rivolgerle la parola. Era taciturna e sentivo il suo sguardo addosso. Ci osservava e studiava il nostro atteggiamento. Trattava Monica sempre con gentilezza, ma sentivo che non era aperta e spontanea nei suoi confronti come prima. Però le stava simpatica ed io sapevo che non farsi coinvolgere dall’allegria e dalla leggerezza dell’altra le costava un certo sforzo, che lentamente si sarebbe concluso.
«Bene direi che Roberto ha atteso fin troppo. Marghe, tesoro, credi che possiamo dirglielo?».
«Oh sì, puoi dirglielo Pietro. Monica, Anna e Viola lo sanno già». Quindi ero io l’unico all’oscuro?
«Bene. Caro Boby, preparati perché presto e per la prima volta diventerai zio. Io e Margherita aspettiamo un bambino». Solo in quel momento notai i particolari: lei non aveva toccato un goccio di vino, era più radiosa ed ecco perché ultimamente mi chiedeva sempre di tenere Viola.
«È magnifico», esultai. «È una notizia stupenda. Diventerai papà». Gli diedi un pugno sulla spalla e gli feci l’occhiolino.
«In realtà Roberto c’è un’altra cosa che volevamo chiederti», intervenne Margherita. «A te e a Viola».
«Dicci, siamo tutti orecchie».
«Ancora non sappiamo se è un maschio o una femmina», continuò Pietro. «Però abbiamo iniziato a pensare ai nomi».
«Se è una femmina vorremmo tanto chiamarla Elena. Significherebbe davvero molto per me. Ma voglio sapere se a vuoi due va bene?». Rimasi senza parole. Mi resi conto che anche Margherita aveva avuto il cuore infranto come il mio. Elena era la sua migliore amica. Certe volte quest’ultima mi diceva che se avesse dovuto scegliere qualcuno di cui fidarsi ciecamente, oltre a me, avrebbe scelto lei. Erano più di semplici sorelle, perché loro non erano legate da un vincolo di sangue ma si erano trovate e scelte.
«Viola tu che ne pensi?», chiesi.
«Per me va bene, zia. Alla mamma piacerebbe».
«Sono d’accordo. Elena ne sarebbe onorata», continuai. «Sono sicuro che sarebbe commossa dal tuo gesto. A questo punto spero proprio che sia una femmina».
«Grazie». Si alzò e venne ad abbracciarmi. Notai che aveva gli occhi umidi.
«Adesso puoi dare la colpa agli ormoni», scherzai.
«Giusto. La userò spesso questa scusa».
Sentii la mano di Monica cercare la mia sotto il tavolo e intrecciare le dita con le mie. Le lanciai un occhiata e incontrai il suo sguardo che mi osservava intensamente. I suoi occhi erano così intensi da lasciarmi senza fiato.
Fu in quel preciso istante, quando mi sorrise in tutto il suo splendore, che capii che lei non mi avrebbe più lasciato. Non avevo capito fino in fondo l’intensità dei suoi sentimenti nei miei confronti. Monica non solo mi amava ma probabilmente l’avrebbe fatto per sempre. Ero già stato guardato in quel modo, solo da una donna diversa, e sapevo che dietro i suoi occhi nocciola si celava una tacita promessa di fedeltà.
Da quando tutto era successo avevo perso fiducia in quelle due semplici parole: per sempre. Ma in quel preciso istante potei capire che in realtà erano continuate ad essere valide.
Quante volte io ed Elena ci eravamo ripromessi quel per sempre nei più svariati modi!
Ti amerò per sempre: era ancora vero non avrei mai smesso di amarla.
Resteremo insieme per sempre: lei, anche se non più fisicamente, sarebbe stata nel mio cuore ogni giorno della mia vita.
Per sempre saremmo rimasti, nella parte più celata della nostra anima, Roberto ed Elena, due giovani follemente innamorati.
Fu quando mi persi nei profondi occhi nocciola di Monica, mentre le nostre mani erano intrecciate, che capii che un per sempre ci sarebbe stato anche per noi e che stava cominciando proprio in quel momento. Potevamo iniziare a scrivere le prime pagine della nostra storia.

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Capitolo 20
*** 19. Un anno dopo l'inizio ***


Un anno dopo l’inizio
 
Era il 15 aprile. Era esattamente passato un anno da quando tutto era cominciato.
Un anno: 4 stagioni, 12 mesi, 52 settimane, 365 giorni, 8760 ore, 525 mila 600 minuti. Erano passati esattamente 31 milioni e 536 mila secondi da quando il cuore di Elena aveva cessato di battere.
Ricordavo tutto come fosse successo l’istante prima. Il suo sorriso la mattina, la telefonata, l’attesa, lo sguardo del medico che anche senza parlare mi aveva già fatto capire tutto, il dolore, la disperazione, l’incredulità. All’inizio non riuscivo a capacitarmi dello scorrere del tempo, poi era diventato più semplice o forse avevo solo lasciato che le ore mi scivolassero addosso. In fondo era solo passato meno di tre settimane da quando avevo ripreso il controllo della mia vita.
Nonostante che con Monica le cose andassero più che bene, quella data sul calendario incombeva e premeva sulla ferita che stavo tentando di rimarginare. Ero sicuro che in quella ricorrenza, in ogni anno futuro, non sarei più stato lo stesso e che quello sarebbe diventato il mio giorno oscuro. Anche ad ottanta anni avrei ricordato quel giorno con dolore e tristezza.
In quel triste anniversario saremmo andati tutti a rendere omaggio sulla tomba di Elena. L’idea, in realtà, era stata di Viola. Voleva che tutte le persone più vicine a sua madre fossero presenti per farle in qualche modo sentire che lei restava una parte fondamentale di noi. Era stata una buona idea e non avevo avuto problemi a realizzare il desiderio della mia bambina.
L’avvicinarsi di quel giorno mi rendeva malinconico e notavo lo stesso effetto anche su Viola. Era logico che i nostri pensieri si soffermassero su di lei più spesso in quel periodo. In quell’anno mi era successo di tutto, ma ciò che era più importante era che lei semplicemente non aveva avuto la possibilità di viverlo, e nonostante adesso le cose stessero andando per il verso giusto la sua mancanza era evidente.
Monica era dolce e gentile anche su questo punto. Non mi faceva domande e mi distraeva con la sua allegria. Quel giorno sarebbe venuta anche lei, voleva starmi vicino e aveva cambiato il turno proprio per potermi accompagnare. La cosa interessante stava nel fatto che era stata proprio Viola a darle il permesso.
Era successo due giorni prima. Io e Monica avevamo discusso sulla questione ed io avevo concluso che la sua presenza sarebbe stata inopportuna. Sebbene volesse starmi accanto sapevo che Viola non avrebbe gradito e non era certo il caso di aggiungere altra sofferenza a quella che sicuramente avrebbe provato.
«Se la tua obiezione si basa solo sui sentimenti di Viola, lasciami parlare con lei», aveva concluso Monica. Poi senza lasciarmi il tempo di ribattere si era avviata verso la sua cameretta.
L’avevo seguita cercando di protestare ma lei mi aveva di nuovo zittito. «Rob lasciami fare e aspetta qui». Avevo sospirato arrendendomi e mi ero appoggiato alla parete in modo da ascoltare la loro conversazione senza essere visto.
«Viola posso parlarti?», aveva iniziato.     
«Certo». Il tono era sospettoso. Nonostante loro due avessero fatto progressi, il loro rapporto non era tornato come prima della mia confessione. Il fatto che Monica ed io avessimo una storia le dava ancora fastidio.
«Volevo chiederti una cosa. Vorrei sapere se sabato posso venire anche io a trovare la tua mamma». Ci fu un silenzio e mi maledissi per non aver scelto un posto dove poter anche osservare la scena.
«Ti sto chiedendo il permesso», continuò Monica. «Non è qualcosa che voglio importi, Viola puoi benissimo dirmi di no».
«Bene allora non puoi venire». “Te l’avevo detto”, fu il mio primo pensiero.
«Okay però vorrei solo spiegarti le mie ragioni», insistette. Era testarda, ma mia figlia non era da meno quando ci si metteva.
«Ed io ti spiego le mie: tu non c’entri nulla con la mamma, non la conoscevi neanche. Cosa ci verresti a fare?».
«Per stare accanto a te e a tuo padre».
«Beh mi dispiace io non ho bisogno di te e papà per una volta potrà fare senza. Mi sembra che ti vede già abbastanza». Di solito non era mai così esplicita, ma probabilmente l’argomento Elena, era un tasto troppo delicato e importante.
«Forse hai ragione. Però…». Sentii dei passi poi Monica riprese. «Ti prego fammi finire. Io non sarei venuta solo per tuo padre. Ti ho detto che sarei venuta anche per te. Io so cosa significa perdere la mamma, e so cosa vuol dire il fatto che sia passato un anno dalla sua scomparsa. Sabato quando sarai lì sulla sua tomba il dolore tornerà. Ricorderai il giorno in cui tutto e successo e la ferita del tuo piccolo cuoricino si riaprirà, anche se questa volta saprai già come affrontare il tutto e tornerai subito a quella che adesso è la tua normalità. Quando è morta mia madre, l’anno dopo la sua scomparsa, io sono andata da sola al cimitero. In quel momento Viola avrei solo voluto che ci fosse accanto a me qualcuno che capisse quello che stavo passando. Ed è vero che io ero molto più grande di te e che tu non sarai sola, ma il dolore che tu stai provando adesso io l’ho già vissuto». Ci fu un attimo di silenzio. Certe volte mi dimenticavo quanto anche Monica avesse sofferto, la sua allegria e vivacità potevano facilmente trarre in inganno.
«Sul fatto che io non conoscevo Elena», riprese, «hai ragione. E mi dispiace tantissimo di non averla potuto conoscere. Credimi Viola io lo so perché mi tieni a distanza, ma tu non sai quanto io avrei desiderato conoscere tua madre. Vorrei poterti parlare di lei, raccontarti storie e aneddoti particolari, dirti qualcosa su di lei che tu non sai, descriverti il suo carattere ma non posso. Io posso solo sapere che ti voleva tanto bene e che sarebbe orgogliosa di te, almeno io lo sarei, cioè lo sono». Ritornò il silenzio; questa volta però durò molto più a lungo.
Siccome nessuna delle due riprendeva a parlare decisi di affacciarmi alla porta per vedere cosa stesse succedendo. Ciò che vidi mi lasciò per un attimo senza fiato. Viola stava abbracciando Monica, affondando la testa nei suoi riccioli. Quest’ultima, che era voltata verso di me, alzò lo sguardo ed incrociò il mio. Aveva gli occhi lucidi ma mi rivolse un sorriso soddisfatto.
«Credo che tu possa venire», sospirò Viola.
«Grazie tesoro, sono davvero contenta che tu abbia accettato».
«Tu le saresti piaciuta. La mamma ti avrebbe trovato subito simpatica». Si staccò da lei, ed io tornai giusto in tempo al mio nascondiglio senza essere visto.
«Tu dici? Sono sicura che anche lei mi sarebbe piaciuta tanto e che probabilmente saremmo diventate amiche. Ascolta Viola che ne dici se, invece di essere io a raccontarti di lei, fossi tu a parlarmene, ovviamente se te la senti e se per te non è un problema. Mi piacerebbe conoscere Elena attraverso i tuoi occhi».
«Mi piacerebbe. Non è un problema parlarne per me. Io lo vorrei davvero».
Si era così sciolto quel sottile strato di ghiaccio che si era creato tra loro.
«Adesso le cose andranno meglio tra me e Viola», mi aveva detto quando era tornata da me. Era vero, mi era bastato sentire l’ultima risposta di mia figlia per capirlo.
 
Perciò quel sabato mattina ci ritrovammo tutti sulla sua tomba: io, Viola, Monica, mia madre, Luciana, Renato, Pietro e Margherita. Tutti pronti a ricordarla, ad un anno dalla sua scomparsa, esattamente come era.
I miei suoceri non videro di buon occhio che io fossi accompagnato. Ma poco mi importava: ero lì per loro figlia e per nessun altro. Anche se avevo una relazione con un’altra donna a così poco tempo dalla sua dipartita, questo non significava che quello che provavo per Elena fosse sminuito. Era stato il mio primo e perfetto amore e lo sarebbe rimasto per tutta la mia vita.
Era una bella giornata; il cielo era limpido ed il sole alto. Mi ritrovai a pensare che in qualche modo quella giornata rispecchiava Elena al cento per cento. In giorni come quelli lei risplendeva e illuminava tutto ciò che aveva intorno.
La sua tomba era come sempre piena di fiori, ma nonostante quello Viola teneva in mano un grosso mazzo di tulipani. Si era arrabbiata quando le avevo detto che sarebbe stato impossibile trovare dei girasoli degni di tale nome in quel periodo. Erano i fiori preferiti di Elena ma era ancora troppo presto per poterglieli portare. Alla fine avevamo optato per dei magnifici tulipani gialli, belli e accessi come era lei.
Non c’era molto da dire in quel contesto, né molto altro da aggiungere oltre a quello che era già stato ribadito fin troppe volte. Il silenzio non era opprimente, ma al contrario era carico di significato. Era come se i pensieri inespressi di tutti i presenti fossero impregnati in quel tacito momento.
Percepì appena le dita di Monica che si intrecciavano alle mie, talmente ero perso nei miei pensieri e nei miei ricordi.
Viola si chinò per mettere i fiori nel vaso. «Ciao mamma, ci manchi tanto». Era un pensiero comune e l’unica cosa che sembrava sensato ribadire ancora una volta.
Non saprei dire quanto tempo rimanemmo lì. Sembrò, da una parte, un periodo infinito, ma dall’altra, quando gli altri cominciarono ad allontanarsi, mi parve anche fin troppo presto.
Alla fine rimanemmo solo noi tre davanti alla sua lapide, incapaci di staccarci da lì.
All’improvviso Monica lasciò la mia mano per cercare qualcosa nella sua borsa. Tirò fuori quella che sembrava una lettera. La guardai perplesso metterla sulla tomba accanto ai fiori.
«Che cosa è?», le chiesi prima che potesse farlo Viola.
«Una lettera per Elena», rispose. «Lo so che è stupido e che non potrà certo leggerla ma volevo in qualche modo farle sapere quello che sento».
«Sono sicura che da lassù riuscirà a leggerla», intervenne Viola.
«Tu credi? Non ho mai avuto abbastanza fede da tentare un gesto del genere ma stavolta ho sentito che era diverso».
«La mamma troverà il modo, altrimenti sono comunque sicura che saprà lo stesso quello che volevi dirle».
«Lo credo anche io», aggiunsi. Elena avrebbe saputo e compreso, non sapevo come, ma sentivo che sarebbe stato così.
Anche se ero curioso di sapere il contenuto della lettera, non avrei fatto domande. Quello doveva rimanere un segreto tra loro due, era giusto che io non ne fossi a conoscenza. Era come se in quel momento si stesse chiudendo un cerchio; quella lettera era la fine di un capitolo ma anche l’inizio del successivo.
«Viola sei pronta ad andare? O vuoi restare ancora un po’?».
«No possiamo andare», mi rispose. «Ciao mamma, torniamo presto, anche se so che sei sempre con noi». La presi per mano e ci avviammo fuori dal cimitero. Monica ci seguiva a pochi passi di distanza.
Mentre percorrevamo il viale che portava fuori da quel triste luogo, sentii la sua manina scivolare via dalla mia.
«Viola che stai facendo?». Non feci a tempo a finire la mia domanda che lei mi aveva già ripreso per mano dall’altra parte. Ma la cosa più importante fu che allo stesso tempo aveva allungato il braccio verso Monica, in quel che era un evidente invito a imitare il nostro gesto.
Monica sgranò gli occhi sorpresa, guardò lei poi alzò lo sguardo verso di me. Le sorrisi incoraggiante, pronunciando un “forza” silenzioso. Non se lo fece ripetere due volte: afferrò la mano di Viola sorridendo felice.
Era la risposta che stavo aspettando e che desideravo con tutto il cuore. Quel “proviamoci” di mia figlia si stava trasformando in un “va bene”. Viola con quel suo gesto mi stava dicendo che aveva capito e che non sarebbe più stato un problema. Stava accettando la nostra relazione e lo stava facendo perché aveva compreso che Monica non era una minaccia per il ricordo di sua madre, e non lo sarebbe mai stata.
Nonostante quel triste giorno, almeno una cosa per cui essere felici l’avevo trovata. Forse proprio grazie ad Elena. Mi ero spesso chiesto se tutto quello fosse successo grazie a lei. Era forse il mio angelo che stava orchestrando tutto per riuscire ancora una volta a farmi felice? L’incontro con Monica, la sua amicizia, la sua allegria, l’essersi innamorata di me. E se quello che tutti chiamavano fato o destino per me in quell’ultimo anno si fosse semplicemente chiamato Elena?
Non avrei mai potuto saperlo, ma questo non mi impediva di crederlo. Quello era stato un enorme cambiamento per me: da medico che credeva solo nella scienza ero diventato una persona di fede. Ma in fondo la mia fede non riguardava propriamente Dio; riguardava la donna che mi aveva amato per tutta la sua vita e che avrebbe continuato anche oltre, sfidando quelli che erano i confini della mera realtà.
 
Fissavo la sveglia sul comodino aspettando che i numeri cambiassero. Stavo aspettando, disteso sul letto, che quel giorno finisse. Anche se in fondo era un giorno come un altro, i ricordi che aveva portato con sé erano troppi. Di solito lo scorrere delle normali attività quotidiane impediva ai quei pensieri dolorosi di affacciarsi in continuazione, ma quella giornata era stata dedicata alla rievocazione. Il suo viso, il suo sguardo, la sua espressione si erano affacciate più volte nella mia mente. Nonostante le avessi detto addio e stessi voltando pagina, quella ferita era comunque rimasta e faceva male.
Finalmente la mezzanotte scattò: poteva tutto tornare alla “normalità”, la ferita poteva tornare ad essere in secondo piano.
Mi rigirai sul letto e affondai la testa nel cuscino. In quel momento non sarei riuscito a prendere sonno, non lì e non da solo. Sentii il bisogno di vedere Monica e di stare con lei, sebbene ci fossimo lasciati solo poche ore prima.
Mi alzai e mi infilai i primi vestiti che mi capitarono tra le mani. Per fortuna quella sera mia madre era rimasta a casa nostra, così, seguendo il mio impulso, sarei potuto uscire senza lasciare Viola da sola.
«Esci?». Quella voce mi prese alla sprovvista mentre ero sulla soglia di casa.
«Mamma, credevo che già dormissi». Era in piedi accanto alla porta della cucina con un bicchiere d’acqua in mano.
«Ti avrei sentito lo stesso. Non hai proprio il passo felpato». Rimase un secondo in silenzio poi riprese. «Comunque puoi andare, domattina dirò a Viola che sei dovuto uscire presto per andare in ospedale. Le dirò che la saluti».
«Non…». Il suo sguardo mi impedì di continuare. Aveva capito benissimo da chi stavo andando. «Grazie».
Presi la macchina e sfrecciai per le strade deserte. Poco dopo parcheggiai davanti al palazzo di Monica. Decisi di chiamarla invece di suonare il campanello, vista l’ora.
Rispose dopo un po’, tanto che pensai che fosse già andata a letto. «Ehi ciao! Non mi aspettavo che mi chiamassi a quest’ora».
«Dormivi? Ti ho svegliato?».
«No, stavo finendo di asciugarmi i capelli e non sentivo. Allora tutto bene?».
«Sì più o meno, avevo soltanto voglia di vederti».
«Di sentirmi», mi corresse.
«No, sono qui sotto. Mi apri?».
«Qui?», mi chiese incredula. Non capii se era più piacevolmente sorpresa o più presa alla sprovvista dalla notizia.
«Sì, se mi apri il portone salgo da te. Sempre che tu voglia vedermi».
«Sali scemo», scherzò.
Quando arrivai al suo piano, lei mi aspettava sulla porta. Indossava un pigiama con disegnate delle mucche, delle pantofole con brontolo, era struccata e aveva i capelli gonfi. Riusciva ad essere bella anche in quel modo.
«Ciao». Le diedi un bacio a fior di labbra ed entrai in casa, prendendola per mano.
«Perché non mi hai avvisato che passavi?», mi rimproverò. «Mi sarei fatta trovare in condizioni più decenti».
«Sei bellissima lo stesso», le dissi sedendomi sul divano accanto a lei.
«Certo come no. Pensavo di farti aspettare ancora qualche mese prima di mostrarti la mia versione da… pigiamosa diciamo così».
Sorrisi. «Mi piace la tua versione pigiamosa». La baciai, facendole sentire quanto si sbagliasse su quel punto.
Non era passato neanche un minuto e già mi sentivo meglio. Monica aveva quel potere: spazzava via i miei pensieri tristi e mi passava tutta la sua spontanea gaiezza.
«E poi non sapevo che sarei venuto», aggiunsi quando mi staccai dalle sue labbra. «È stata una decisione dell’ultimo minuto».
«Ah sì? E come mai?».
«Mi mancavi e avevo bisogno di stare con te. Dopo questa giornata, non vedevo l’ora che finisse».
«Adesso sono qui e questa giornata è finita, non devi più preoccuparti». Mi fece una carezza e io chiusi gli occhi, lasciandomi andare al suo tocco. Continuò ad accarezzarmi la guancia, scendendo poi alla spalla e lungo il braccio. Il suo tocco era delicato ed era un gesto semplice e pieno d’affetto.
Terminò sul palmo della mia mano, dove iniziò a disegnare dei fantasiosi ghirigori con le sue dita affusolate. Con l’altra mano mi infilò le dita tra i capelli, iniziando a pettinarli e sistemandomi una ciocca dietro l’orecchio.
«So che non è stato facile oggi», sussurrò. «Ne vuoi parlare?».
«Non so. In teoria dovrebbe essere un giorno come un altro, cioè non è cambiato nulla rispetto ad una settimana fa o alla settimana prima».
«Però questo è stato il giorno che più ti ha ricordato quello che hai perso», continuò.
«In un anno sono cambiate così tante cose», sospirai. «Non ho solo perso Elena, ho conosciuto te». Aprii gli occhi e la vidi sorridere a quella affermazione. «Io sono cambiato».
«Penso che sia normale. È logico, dopo la morte di una persona così cara, non essere più quelli di prima. Il dolore ti indurisce e tu fai di tutto per non provare di nuovo quella sofferenza».
«Tu non sei così, sei sempre così allegra e solare».
«Forse ora, ma non in passato», replicò. «Sono stata male tu non sai quanto. Sembro sempre così allegra perché è il miglior modo per evitare che gli altri ti facciano domande, ma questo non vuol dire che dentro mi senta in quel modo». Rimasi in silenzio riflettendo su quello che aveva detto. Avevo già notato più volte che la sua spontaneità spesso nascondeva un velo di amarezza; solo non credevo che fosse a quel livello. Soffriva e non lo dava mai a vedere.
L’abbracciai di più stringendola forte, e permettendole di accoccolarsi meglio sopra di me, appoggiando la testa sulla mia spalla.
«Sai per certi versi penso», soffiò vicino al mio orecchio, «che il tuo carattere sia meglio del mio».
«Io non credo, so di essere complicato la maggior parte delle volte».
«Invece no, ti sembra di esserlo ma in realtà sei semplice. Tu non fingi di stare bene: se sei triste sei cupo ed è come se avessi attorno una sorta di aurea nera. E anche se tu cerchi di far credere che vada tutto bene, non ne sei capace. Credimi Viola ti asseconda solo per non farti capire che ha capito che tu stai recitando».
«Sembra un discorso un po’ contorto, non ti pare?».
«Forse ma ha una sua logica. Invece io sorrido sempre anche se dentro sto piangendo. È autolesionismo e anche sapendo come stanno le cose non posso farci nulla». Forse aveva ragione lei, ma non era neanche facile avere il mio carattere.
«Sei triste adesso?», le domandai passandole le dita tra i ricci.
«No, adesso no. Questa giornata è stata un po’ malinconica e mi ha fatto solo un po’ rattristare. Ora qui con te sto bene».
«Altro che rattristare», sorrisi amaramente. «Però ora qui con te va meglio».
«Già, però hai ancora la tua aria tetra. Sai all’inizio è stata proprio quella ad attrarmi. Eri sempre così distaccato ed imbronciato; non ti sforzavi neanche di essere gentile. Sulle prime credevo che fossi uno di quei medici pomposi che si danno un sacco di arie. Però avevo la netta sensazione che ci fosse qualcosa sotto. Fin dal primo istante ho avuto la netta impressione che tu non fossi realmente così. Beh avevo ragione».
«Invece tu ti sei mostrata da subito per quello che sei veramente, anche se solo ora posso dire di notare anche quel tuo raro velo di malinconia».
«Ah sì?». Si staccò da me per guardarmi in faccia, portandosi le mani ai fianchi. «E sentiamo come sarei veramente?».
«Bellissima, vivace, dolce e completamente pazza», scherzai.
«Completamente pazza?», ripeté rivolgendomi un sorriso furbo. «Bene direi che te lo sei voluto!». Iniziò a farmi il solletico nei punti più sensibili, facendomi contorcere dalle risate. Continuavo a ridere cercando di bloccarla, ma inutilmente. Non riuscivo a prenderle le mani per tenerla ferma, e a quanto pareva soffriva il solletico molto meno di me.
«Basta pietà», sussurrai infine. Mi faceva male la pancia e l’unica soluzione era arrendermi. «Ritiro quello che ho detto».
«Sarà bene». Smise la sua tortura guardandomi soddisfatta. Ero finito disteso sul divano, con la testa sul bracciolo. Monica era a cavalcioni sopra di me, per immobilizzarmi, e mi guardava soddisfatta. Aveva le guance arrossate, il respiro ansante, i ricci ancora più scompigliati di poco prima e gli occhi pieni di vitalità. Riuscivo a scorgere, attraverso la sottile stoffa del pigiama, la forma dei suoi seni e dei suoi fianchi, percependo ancora più intensamente il suo corpo sopra al mio.
In meno di cinque minuti era riuscita ad affrontare argomenti seri e dolorosi, per poi riuscire a ridere e scherzare. Era stata così brava da farmi ridere anche dopo una giornata come quella.
Avevo fatto bene ad andare da lei, era quello che mi occorreva e quello di cui aveva bisogno anche lei. Era l’unica persona al mondo, ancora in vita, che riusciva a farmi sentire così leggero anche nei momenti più brutti. Sapevo che potevo contare su di lei per questo e Monica, d’altra parte, era meravigliosa. Così stupenda da voler impedire a chiunque di farle del male. Avrei voluto cancellare le sue sofferenze come lei aveva fatto con me.
Rivelandomi la vera natura del suo carattere gaio si era completamente mostrata per come era veramente. Mi aveva fatto vedere quella parte di lei più fragile, che teneva nascosta a tutti. Ma non ci sarebbe più stato bisogno di nasconderla perché io sapevo e sarei stato lì per lei.
Le scostai una ciocca di capelli dal viso, portandola dietro l’orecchio. I nostri occhi si incrociarono per l’ennesima volta, sempre in quella solita posizione strana ma anche intima.
«Ti amo». Le parole mi uscirono spontanee di bocca più vere che mai. La fissai per osservare la sua reazione. Spalancò gli occhi sorpresa, rimanendo spiazzata. Nel giro di pochi secondi, la sua espressione passò dall’incredulità allo stupore, dallo stupore all’emozione, dall’emozione alla felicità, dalla felicità alla dolcezza.
«Ti amo anche io», disse infine, chinandosi a baciarmi.
Molti potrebbero obbiettare che forse era troppo presto per poter provare sentimenti come quelli di nuovo. Ma sicuramente non c’è un tempo fisso e stabilito in cui un uomo deve portare il lutto e che  deve lasciar passare prima di innamorarsi nuovamente di un’altra donna. Ogni persona ha il suo tempo, ed ogni storia è particolare. Sicuramente Monica lo era ed innamorarmi di lei era stato semplice come respirare, quasi naturale e fisiologico.
I miei nuovi sentimenti non avrebbero tolto nulla al passato, sarebbero stati invece la base per costruire un futuro. Non sarebbe stato quello che avevo sempre immaginato da ragazzo, ma non era detto che non potesse essere altrettanto bello.
Forse, nonostante tutto, potevo considerarmi un uomo fortunato: ero riuscito ad essere amato da due donne fantastiche e meravigliose, riuscendo a provare per loro lo stesso intenso sentimento. Avevo avuto l’occasione di poter vivere l’unica e più perfetta e anche complicata esperienza che valga la pena vivere: l’amore.

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Capitolo 21
*** Epilogo ***


Epilogo
 
14 Aprile
Cara Elena,
Non so se mai potrai leggere questa lettera. In effetti, sembra ridicolo anche a me quello che sto facendo. Non ho mai avuto quella fede cieca nell’aldilà che spinge le persone a credere ad una esistenza oltre la morte; ma per una volta voglio sperare che tutto questo sia reale. Se tu ci stai veramente osservando da lassù spero davvero che riuscirai a leggere la mia lettera. Ho molte cose che vorrei che tu sapessi e che comprendessi.
Prima di tutto ti devo ringraziare. Non credere che sia un grazie per essere morta, non sono così sadica. Sarei però ipocrita se ti dicessi che non ho tratto vantaggio dalla tua dipartita. Questo lo so e posso solo dirti che vorrei che le cose fossero andate diversamente per Roberto e per Viola, ma di certo non per me. Questo che sta cominciando potrebbe essere uno dei periodi più felici di tutta la mia vita e non lo sarebbe altrettanto se tu fossi viva.
Ma non sono qui per offenderti, ma bensì ti ringrazio per aver cresciuto una bambina così speciale e per aver aiutato Roberto ad essere l’uomo che è oggi. So che in gran parte è merito tuo e so anche che solo una grande donna e un grande amore potevano farlo diventare l’uomo di cui mi sono innamorata.
Ho spesso cercato di mettermi nei tuoi panni, anche grazie a quello che Roberto mi raccontava di te. Sono giunta alla conclusione che l’unica cosa che io verrei se le parti fossero invertite è che la mia famiglia fosse felice. Questo è quello che io ti posso promettere.
Ti prometto che mi prenderò cura di loro e che cercherò di farli sorridere e divertire il più possibile. Farò tutto quello che è nelle mie possibilità per far sì che siano felici. Sempre che Roberto mi permetta di farlo, ma su questo punto penso che gli occorra solo del tempo.
Ho scritto questa lettera non tanto per ringraziarti, quanto per assicurarti quelle che sono le mie intenzioni e prometterti alcune cose che sono sicura apprezzerai. Io non sono madre, non lo sono mai stata ma so come ci si sente senza. Io so come si sentirà Viola quando sarà grande e voglio evitare che si ritrovi un enorme vuoto nel petto nei momenti cruciali della sua vita.
Per questo ti prometto che, se me ne darà la possibilità, io sarò lì per lei e farò esattamente quello che avresti dovuto fare tu, ma che purtroppo non potrai fare. Non voglio con questo dire che sto cercando di sostituirti e che prenderò il tuo posto. Tu sarai sempre Elena, la sua adorata mamma ed io sarò semplicemente Monica.
Vorrei averti potuto conoscere per poterle raccontare di te ma, visto che non è successo, farò in modo che tu viva in lei e che la sua amata mamma abbia una posto fondamentale nel suo cuore. Io farò in modo che non ti dimentichi e che sappia quanto saresti orgogliosa di lei. Sono sicura che tu lo eri già ma non hai avuto il tempo per dirglielo. Non smetterò di ripeterle che persona meravigliosa eri e quanto bene le volessi. Io non sarò la sua nuova mamma, quella resterai per sempre tu e soltanto tu.
Quello che però voglio dire è che ti farò da “sostituto terreno”. Sarò lì quando svilupperà e diventerà una giovane donna, sarò lì per ascoltarla e consigliarla quando avrà le sue prime cotte e i suoi primi ragazzi. Ci sarò io quando affronterà i soliti problemi adolescenziali che le sembreranno insormontabili. E quando dico che sarò presente intendo non solo nell’assecondarla. Sarò io che le dirò che sta sbagliando se dovesse accadere e sarò io a rimproverarla se farà qualcosa di stupido. Se dovesse incontrare un cattivo ragazzo, uno che si approfitta di lei, sarò io a impedirle di vederlo, come sono sicura che avresti fatto tu. Forse durante l’adolescenza mi odierà e mi dirà che non sono sua madre per poter decidere della sua vita; ma forse sto solo fantasticando un po’ troppo e lei sarà una ragazza modello. Però come sai tutti facciamo degli errori ed è solo così che si impara. Quindi lei sbaglierà, perché è umano ed io sarò presente per farle comprendere i suoi errori e per aiutarla a maturare.
Ci sarò ancora io quando incontrerà quello giusto, e osserverò con attenzione il modo in cui lui la guarderà per capire se, anche per lui, Viola è quella giusta. L’aiuterò a scegliere la sua strada e a farla diventare donna. Poi la sosterrò il giorno del suo matrimonio, anche se sono sicura che preferirebbe avere al fianco te piuttosto che me. Io non mi sono mai sposata, ma so che se succederà il pensiero di voler condividere quel momento con mia madre sarà inevitabile.
Infine sarò lì quando diventerà madre e quando il cerchio della vita si ripeterà. Vivrò per te quei momenti che ti sono stati ingiustamente portati via.
Questo è quello che posso prometterti per Viola.
Per Roberto la questione è diversa. Lui è speciale e spero di riuscire a farmi amare anche solo una minima parte di quanto ha amato te. Per lui è più difficile che per Viola. Questo l’ho capito subito; so per esperienza che perdere la madre è doloroso ma perdere una parte di sé stessi è ancora più difficile. E tu eri tutto il suo mondo.  È inevitabile che lui pensi al suo passato e che pensi a te. Questo francamente mi spaventa; il paragone che lui può fare tra me e te mi terrorizza. Non so se sarò mai alla tua altezza, o almeno di quello che tu rappresentavi per lui. Non è facile dover competere con un amore come il vostro e con una figura così tanto idealizzata. Sono sicura che anche tu avevi i tuoi difetti ma il fatto che Roberto non li notasse non mi aiuta di certo.
Quello che ti assicuro è che io lo amo davvero e tanto. Il mio sentimento è profondo e posso affermare con certezza che è qualcosa di duraturo. Avevo creduto in passato di essere innamorata, e sicuramente lo ero; solo adesso però ho capito cosa si intende per vero amore.
Voglio che tu capisca la profondità e la durata dei miei sentimenti, per dirti con convinzione che impedirò che qualcosa o qualcuno possa ferirlo di nuovo, compreso me stessa.
Ho visto alcune vostre foto – la maggior parte me le hanno mostrate Anna e Margherita – e ho notato in lui quella spensieratezza che sembra aver perso. Ti giuro che farò in modo che torni ad essere il Roberto di quelle foto: felice, spensierato, divertito. So che ci vorrà del tempo prima che quel velo di tristezza, che ormai lo caratterizza, scompaia però, ti assicuro, che la spunterò. Già adesso riesco a farlo divertire e a farlo evadere un po’ dal passato, quindi non sarà un impresa impossibile.
Sarò io che lo farò tornare a vivere, come già sto cercando di fare. Immagino che potresti essere gelosa di me, ma immagino anche che il desiderio di vederlo felice superi di gran lunga quel sentimento egoista. Non sarai tu a stargli accanto, ad invecchiare con lui e spero tanto di poter essere io la donna che sceglierà di volere al suo fianco per il resto della sua vita. Comunque anche se non dovessi essere quella donna, sappi che le miei promesse nei confronti di Viola saranno sempre valide, che io sia o meno la donna amata da suo padre.
Credo di essermi dilungata anche troppo su questo e prima di concludere voglio solo farti sapere qualcosa su di me. Noi non abbiamo una storia simile, leggendo il tuo libro l’ho capito. Io sono stata una bambina vivace, un’adolescente irrequieta e sovversiva. Ho commesso così tanti errori e come punizione per il mio comportamento è arrivata la malattia e la morte di mia madre. Quella è una cosa che ti cambia e da allora non sono più stata la stessa. Sono maturata; poi ho anche creduto di aver trovato l’amore e la felicità quando in realtà era solo un’illusione e mi sono ritrovata ferita e calpestata un’altra volta.
Ti starai chiedendo perché ti stia raccontando tutto questo. Il motivo è molto semplice: il dolore non mi è estraneo. Non lo faccio vedere ma soffro. Sono stata male quando Roberto mi ha rifiutata dopo il nostro primo bacio e non voglio che succeda di nuovo. Fino a quando non l’ho conosciuto ero ferma sulla mia decisione di non lasciarmi più coinvolgere. Poi è arrivato lui e mi ha completamente disorientato. Mi attraeva perché vedevo in lui le stesse sofferenze che io avevo provato e nei suoi occhi riuscivo a scorgere qualcosa di più profondo di quello che in realtà mi volesse mostrare. Tentava di fingere anche se non ci riusciva, come io avevo fatto spesso, solo che io sono un’attrice molto più brava di lui. L’ho trovato subito un’anima affine, anche se potrebbe sembrare che non ci somigliamo molto.
Ma mi sto ancora dilungando e non sto arrivando al punto. Nella mia vita ho affrontato ferite profonde, sono guarita, mi sono rialzata e sono andata avanti. Ma non credo di riuscire a sopportare un’altra batosta. Se da una parte è vero che Roberto ha bisogno di me per riuscire ad andare avanti, è vero anche il contrario. Io ho bisogno di lui e di essere amata da lui nel solo modo in cui lui riesce ad amare: profondamente. Ho la necessità di essere guardata nella maniera in cui tu sei stata osservata tante volte, di essere protetta e confortata. Ho bisogno di qualcuno che mi faccia sentire speciale e che farebbe di tutto per me. So che Roberto potrebbe diventare quell’uomo e forse è anche per questo che mi sono innamorata di lui.
Quando ho letto il tuo libro, ti ho così invidiato! Avrei voluto essere considerata così speciale da qualcuno, ma nessuno mi aveva mai osservata con quegli occhi. Poi con Roberto è successo, inconsciamente ha iniziato a considerarmi importante ed io mi sono sentita allo stesso tempo in paradiso e all’inferno. In paradiso perché adoravo il fatto che stessi diventando una parte importante della sua nuova vita, e all’inferno perché sapevo che dietro il suo sguardo comunque restava la tua costante e inesorabile presenza.
Quello che quindi voglio ribadire è che la nostra relazione non è solo un bene a senso unico. Entrambi traiamo vantaggio l’uno dall’altra. Per questo lotterò con le unghie e con i denti, perché io non voglio più soffrire e Roberto è l’uomo che potrà realizzare il mio desiderio.
Detto questo non ho altro da aggiungere, da spiegare o da ribadire. Spero che le mie parole siano arrivate a destinazione e che non restino solo dell’inchiostro su della carta. E se questa mia speranza si è realizzata, spero anche che avrai gradito queste mie confessioni. Questi sono i miei sentimenti e le mie promesse e ho fiducia che tu mi ritenga degna di stare accanto alla tua famiglia.
Non so se tu potrai in qualche modo osservarci da lassù o darci una mano; ma se puoi allora aiutali a trovare la strada della felicità. Io ti ho solo mostrato come in quel futuro desidererei essere accanto a loro e come sarei disposta a tutto per entrambi. A te la scelta di aiutarmi, se no sappi che lotterò per la mia felicità e sono un tipo testardo. Non mi arrenderò e se capirò che il mio destino è stare con loro io ci riuscirò, te lo posso garantire.
Non so come si conclude una lettera del genere. Augurarti “eterno riposo” mi sembra un po’ strano. Un ciao Elena mi sembra più opportuno.
Quindi ciao Elena, con affetto
 
Monica.


 
Ciao a tutti! Finalmente sono riuscita ad arrivare alla fine.
Spero che la mia storia vi sia piaciuta e vi abbia appassionato, come ha appassionato me nello scriverla. Vorrei ringraziare chi ha inserito la mia storia nelle preferite, nelle seguite e nelle ricordate, chi ha ricensito e chi mi ha inserito negli autori preferiti. Un grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Grazie mille e a presto! 

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