The Heart Asks Pleasure First

di mise_keith
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo ***
Capitolo 2: *** Secondo ***



Capitolo 1
*** Primo ***


The Heart Asks Pleasure First

 

Autore: mise_keith

Disclaimer: Masami Tsuda, Hideaki Anno e la Gainax detengono i diritti di Kareshi Kanojo no Jijo. Non posseggo né Soichiro né Reiji (nonostante lo desideri tanto ardentemente), né nessun altro Arima. Ayashibara Watanabe è una mia invenzione dettata dalle necessità della storia.

Beta-reader: Thilwen

Rating: R; per il tema, soprattutto.

Data di creazione: A leggerla non sembra, ma è stata un parto. Concepita ed abbozzata nell’agosto 2007, completata il 10 settembre 2008.

Tipologia: A capitoli (2 parti).

Genere: Introspettivo, Drammatico.

Personaggi: Eiko Arima. Soji Arima, Reiji Arima.

Avvertimenti: Spoiler del volume 18 del manga.

Sintesi: Mi chiamo Eiko Arima.

Ho diciassette anni, e frequento un prestigioso istituto femminile superiore, a Kanagawa.

Mi chiamo Arima, Eiko. Ho un cognome famoso: la mia famiglia ha una lunga tradizione di medici professionisti a Tokyo, risalente al periodo Edo.

Mi chiamo Arima Eiko, sono la presidentessa del consiglio studentesco del mio liceo, e voglio fare il chirurgo.

Mi chiamo Eiko. Ho due braccia, due gambe solide che aiutano il mio cammino sui sentieri più scoscesi. Venti dita, dieci delle mani, dieci dei piedi.

Un cervello, un cuore.

Note dell’autrice: Un avvertimento: questa fan fiction è costruita sulla narrazione di dei sentimenti incestuosi. Se questo vi offende, siete in tempo per tornare indietro. Grazie.

The Heart Asks Pleasure First è nata durante la lettura del diciottesimo volume (e dell’ottantaduesimo capitolo, in particolare) di Kare Kano, a tutt’oggi uno dei miei preferiti. Eiko è rimasta scolpita nella mia mente per molto tempo, ma scrivere questa fan fiction non è stato facile. Ritrovare lo stato d’animo necessario a darle una forma definitiva è stata una fatica indescrivibile. Immagino che chi leggerà, capirà.

Ringraziamenti: Il titolo è dovuto al celeberrimo pezzo di Michael Nyman, ed anche l’idea folle di questo scritto è stata ispirata dal suo pianoforte.

A Chiara, che ha la pazienza di farmi da beta per quanto spesso la lettura di ciò che scrivo sia tanto perigliosa. Grazie per fare da interprete tra me ed il mondo.

Dediche: A Uomo, che non leggerà mai questo scritto (non per mia volontà, almeno). Citarti qui non è un modo per farmi perdonare il resto delle mie indebite chiamate in causa, ma per ringraziarti del tuo sforzo di comprendere sempre.  QQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQkadc

Alle amicizie in boccio, sperando che con la dovuta cura non sfioriscano troppo in fretta.

 

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Parte Prima

 

Mi chiamo Eiko Arima.

Ho diciassette anni, e frequento un prestigioso istituto femminile superiore, a Kanagawa.

Mi chiamo Arima, Eiko. Ho un cognome famoso: la mia famiglia ha una lunga tradizione di medici professionisti a Tokyo, risalente al periodo Edo.

Mi chiamo Arima Eiko, sono la presidentessa del consiglio studentesco del mio liceo, e voglio fare il chirurgo.

Mi chiamo Eiko. Ho due braccia, due gambe solide che aiutano il mio cammino sui sentieri più scoscesi. Venti dita, dieci delle mani, dieci dei piedi.

Un cervello, un cuore.

 

Sono nata in una casa spaziosa e luminosa, arredata all'occidentale.

Uscivo raramente dai confini del parco, almeno prima dell'età scolare. Tutti i parenti venivano sempre alla casa grande per le riunioni di famiglia e non c'era bisogno che ci spostassimo, se non per gli sporadici matrimoni, i funerali, le cerimonie ufficiali. Conducevamo una vita tranquilla, reclusa, circoscritta agli alti cancelli della tenuta, lasciando scorrere i nostri giorni in quel lusso la cui pochezza nessuno di noi riusciva ad afferrare.

La mansione era vasta, un labirinto di ombre percorso dai passi silenziosi delle cameriere in grembiuli inamidati dai bordi di pizzo. Non sono stata figlia unica per molto tempo e non ricordo la stretta tenera di mia madre, il calore morbido del suo petto. Ricordo la mia stanza, grande, con un letto troppo alto perché potessi salirci da sola, e l'armadio laccato di rosa pieno di vestiti immacolati che ogni mattina una ragazza diversa mi abbottonava fino al collo, attenta a non creare grinze. Finito il rito accurato della vestizione, potevo varcare la soglia della mia stanza e cercare un luogo dove, rimpiattata, ascoltare il trascinarsi quieto di quelle giornate sotto vetro.

Ho sempre trascorso molto tempo, specialmente da bambina, nel salone dell'area ovest del palazzo, un'ampia stanza tagliata da un muro di vetrate che dava sulla parte alberata del giardino. I giochi della luce che penetrava tra le foglie disegnavano sul tavolo lucido, quadrato, un mosaico tenue, che muoveva i suoi tasselli sotto i miei occhi schiusi di meraviglia. Io mi mimetizzavo come un soprammobile studiato per l'ambiente, foderato di una fantasia a fiori rosa ed arancio.

Esploravo palmo a palmo quel mondo tiepido, contavo i granelli di polvere dimenticati dalle domestiche e mi guardavo intorno, senza coinvolgere nessuno in quei miei giochi miseri e contemplativi, disturbata appena all'orario dei pasti ed a quello di andare a letto.

La mia scelta era calcolata in vista del muto, incolore imbarazzo che mi colpiva di fronte all'espressione austera che mia madre conservava vagando a passi distratti nei pressi del suo mobile per la toeletta; la vaga nausea per il sentore acido della stanza odorosa di latte dove prima Soji, poi le mie sorelle, piangevano instancabili nella culla; l'estraneità rumorosa della servitù affaccendata nelle cucine. Quel salone, poco frequentato, dalle pareti foderate di dorsi di volumi più o meno stantii, non era un luogo di passaggio, non era un luogo abitato o vivo, ed aveva un solo, occasionale visitatore.

Egli avrebbe fatto il suo ingresso in un momento qualsiasi, inatteso, alla ricerca di un libro, di un oggetto più o meno significativo, più o meno utile ai suoi scopi per me così ignoti e fascinosi; lo spazio sarebbe diventato così assurdamente angusto che, lo avessi desiderato, avrei potuto sfiorare anche dall'angolo più lontano la stoffa morbida dei suoi pantaloni. Così, il mio cantuccio di serenità, faticosamente scavato in quella solitudine, sarebbe scomparso, risucchiato dalla sua presenza così imponente da levarmi il respiro.

Lo guardavo di sottecchi, una bimba pallida ed infiocchettata come una bambola da esposizione, e bevevo la limpida ambrosia della sua apparenza, assetata di un briciolo di attenzione da parte di quell'uomo alto, algido e bellissimo. Lo guardavo, e guardavo, e pensavo che il mio cuore, la mia anima, non avrebbero mai potuto essere di nessun altro.

 

Già dai miei primi anni di scuola, ero la prima della classe. Le maestre mi sorridevano, si complimentavano con me, ed io piegavo gentilmente le labbra come in grato assenso e sollevavo la gonna, scoprendo le caviglie per un lieve inchino. Non mi importava delle loro adulazioni così comuni, abbondanti e sudice, zuccherose e banali. Non era per loro che sacrificavo il valore calante della mia età più spensierata.

Studiavo mio fratello Soji, di un anno più giovane di me, il suo atteggiamento umile e sgraziato che spesso trovavo nei miei coetanei fuori dalla casa grande, e così facevo con gli altri uomini che casualmente incrociavano il mio cammino: passanti, servitori, genitori di compagni di classe, parenti; e pian piano, avanzando sopra i cadaveri dei miei anni, mi rendevo conto che si poteva essere Arima-san, o, nonostante gli sforzi, non riuscire neanche ad assomigliargli.

C'era lui e, anche così vicino al suo mondo, c'era tutto il resto.

 

Mia madre e mio padre divorziarono molto presto, così tanto che il concetto di separazione, in quel mondo ovattato, forbito e formulare, si trovava ancora fuori dalla mia portata. Non ero mai stata forzata a separarmi da niente, né avevo deciso volontariamente di farlo. Tutto ciò che avevo mi accompagnava dalla culla e quando mia madre se ne andò, per poi tornare a trovarci solo sporadicamente e sempre più di rado, non versai una lacrima. Non potevo fare a meno di biasimarla, non riuscivo ad afferrare come potesse anche solo aspirare a dividersi da mio padre, come potesse decidere di vivere lontana da lui. Dalle sue mani che non toccavano, i suoi occhi neri e sottili che non vedevano, dalla sua bocca che non sorrideva ma sezionava, usando le parole come bisturi affilati dai manici candidi, scagliati con la lingua, ad uno ad uno, per ferire. Non potevo fare a meno di assistere quando accadeva che parlasse davanti agli altri e versasse tanto sangue senza macchiarsi, con una grazia incantata, irreprensibile. Per quanto chiunque potesse ferirsi, infangarsi, perire davanti a lui, egli rimaneva sempre immacolato, eretto e puro, una statua intagliata nel cristallo.

Non riuscivo ad impedire alla mia adorazione di trapelare e lasciavo che proliferasse dentro di me come un parassita, un male nascosto di cui si è a lungo a conoscenza e con cui s'impara a convivere. Gli occhi mi brillavano quando ne avvertivo la presenza a poca distanza da me e le viscere mi si stringevano in una morsa che mi lasciava in brandelli, il ventre infestato di emozioni a cui non potevo dare nome, coltivando in un luogo privato e profondo quel mio amore così trascinante e violento da non lasciare in me spazio per nient'altro.

Cercavo di essere bella e fredda, per tentare di assomigliargli, e nutrivo ostinatamente, giorno per giorno, notte per notte, la segreta sicurezza che, dopo l'abbandono di mia madre, avrei fatto qualsiasi cosa per rimanere l'unica donna della sua vita, fino alla fine.

 

Non sarebbe stato facile. Sapevo che il mio amore mi avrebbe permesso di scalare le montagne a mani nude, ma, pian piano, mentre gli anni si accumulavano sulla mia mente sempre più provata dai miei sforzi di un’impeccabile apparenza, mi rendevo conto che l’eleganza del suo distacco nei confronti dei suoi figli non era una mossa di studiata superiorità nei confronti delle madri e padri dei miei coetanei, che dispensavano, nei momenti più comuni, inopportune ed ostentate occhiate e pacche di approvazione. Semplicemente, le sue spalle erette, autorevoli, rivolteci mentre eravamo in sua presenza, erano il più evidente sintomo della sua indifferenza.

Non me ne preoccupai. Avrei dato di più, finché non mi avesse finalmente vista accanto a lui, graziosa, dedita, brillante ed amorevole. E così avrei reso anche Soji, l’unico maschio ed effettivo erede. So, allora, che avrebbe sorriso, aprendo gli occhi e ritrovandosi circondato da quella grazia, quell’ordine. So che mi avrebbe amata; tanto spontaneamente quanto si amano i fiori appariscenti e profumati, o le porcellane pregiate dell’atrio di casa Arima. Me, e il piccolo uomo perfetto che avrei plasmato per lui.

Capii, però, che c’era qualcosa che si opponeva ai miei piani la sera che Soji bussò alla porta della mia camera. Aveva nove anni; varcò la soglia con il viso inquieto e stupito di una bambola di cenci, il bavero della giacca del suo completino grigio stretto in un pugno ed il cravattino slacciato. Chiuse la porta accompagnandola senza un rumore e non aspettò che gli chiedessi di farlo per sedersi sul mio letto, pallido come dovesse vomitare da un momento all’altro sul tappeto.

- Soji? – le sue labbra non si mossero. Posai il libro che stavo leggendo sulla scrivania laccata di bianco e appianai inconsciamente le pieghe del vestito sul mio grembo. Lo guardai. Contemplando la sua immobilità istupidita  mi resi conto che non c’era, nel ragazzino tranquillo, nessuna traccia della febbrile eccitazione che io avrei provato al suo posto quel giorno.

- Com’è andata la visita in ospedale con papà? – domandai ancora.

Scosse la testa.

- Eiko, io… - si portò una mano alla tempia; poi sembrò sorpreso di trovarla lì e la abbandonò su una coscia. Ebbi paura, per via del suo lieve tremore, che l’avrei visto di lì a poco scosso dai singhiozzi, a bagnare di lacrime e di moccio la mia coperta di ciniglia rosa. Ma il suo viso rimase vacuo, come in preda ad un dolore ignoto, di cui nemmeno lui conosceva l’entità.

- Non sono come lui. Lo sapevo già, ma tutti non hanno fatto che ripeterlo, oggi. – alzò lo sguardo su di me e, vedendo il mio dubbio, sembrò spronato a continuare – Non mi ha guardato una volta, non mi ha chiamato per nome, non mi ha domandato di seguirlo… -

Lo interruppi, sollevando una mano per quietare il suo fervore, provando a calmarlo con uno studiato, allenato sorriso condiscendente: - Soji, non c’è bisogno di prenderla in questo modo. Probabilmente era troppo impegnato per notare i tuoi sforzi, lo sai. Ma io sono contenta che sia nostro padre. Non c’è alcuno come lui e sono convinta che noi siamo suoi figli per un motivo. Per… -

Non ci fu bisogno che Soji si sforzasse in alcuna calcolata parodia di un adulto per zittirmi. Basita, vidi gli angoli della sua bocca abbassarsi e la sua espressione asciugarsi in una forma a me inspiegabilmente nota, ma fredda ed estranea sul suo volto paffuto. Un incredulo, sprezzante, rifiuto.

- Parli come se lo conoscessi o riuscissi a comprenderlo. Ma nessuno può e, sì, nessuno è come lui, Eiko, tantomeno tu ed io. -

So che Soji lasciò la stanza dopo poco, o così credo. Rimasi paralizzata per lungo tempo, incredula, scossa da un solido terrore che mi avrebbe accompagnata da quel momento per tutta la vita. Dall’incrollabile sicurezza che lo sguardo di mio fratello quella sera era lo stesso che trovavo in mio padre, ogni volta che sorprendevo i suoi occhi su di me.

 

 

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Capitolo 2
*** Secondo ***


Parte Seconda

 

- Eiko. Cosa intendi fare dopo il diploma? -

- Voglio andare all’università, papà. Diventare un chirurgo per aiutarti in ospedale. -

Il silenzio che cala sulla stanza non è il solito. È gelido e viscido, denso. Respiro, e sembra che non ci sia più ossigeno. Sento le alghe scivolarmi su per le narici, lunghe e molli radici di ninfee, acqua stagnante. È come affogare in una zuppa di piante acquatiche.

Alzo lo sguardo su di lui, timidamente. Il suo viso ha un taglio rapace: la luce della finestra alla sua destra ne bagna per metà i lineamenti, arricciati in qualcosa simile al disgusto.

Il brivido che mi corre lungo la schiena ha a che fare con la stretta convulsa del tovagliolo che ha in mano. Lo abbandona accanto al piatto, come mettesse via la mia adorazione informe, usata, lurida.

- Sarebbe meglio che scegliessi di fare qualcos’altro. -

 Poggio il mio cucchiaio, riverso, sul bordo del piatto. Non sento i miei passi che lasciano la stanza.

Mi addormento affondando il viso nel cuscino madido di lacrime.

 

È notte. La luce ha smesso da tempo di accarezzare le pareti scivolando come brezza fuori dalla finestra aperta, lasciando lo scialbo lucore del riflesso lunare a creare ombre pallide nella mia camera. Il massiccio albero di magnolia tende i rami carichi di fiori verso il davanzale, ed il profumo è violento, ostinato, sembra un urlo di pazzia in una terra disabitata, sorda.

È ripugnante. Il suo olezzo di agonia mi fa torcere le budella, un memento per la mia insonnia testarda.

Stesa sul letto, fisso il soffitto, bianco, come intonacato di nuovo sotto il velo della penombra, ma questo ha smesso da tempo di emanare un odore. È tutto così fermo, senza macchia, che credo per qualche istante di essere morta.

Arriccio le dita dei piedi. Il formicolio che sale su per le mie gambe mi sembra una prova sufficiente per la mia esistenza. Mi alzo, lentamente, apro uno spiraglio di porta con la cautela di uno spettro pavido.

Il corridoio è un lungo limbo buio. Lo percorro a tentoni fino alla tromba delle scale, tastando le pesanti cornici dei quadri come carne familiare. Il suono dei miei piedi contro il parquet è attutito dalle spesse, alte calze blu della divisa scolastica. Si arrampicano su per i miei polpacci, sudati sotto l’elastico; mi sudano anche i piedi e temo di sentire i miei passi scricchiolare mentre salgo le scale, come cuoio bagnato.

Sul pianerottolo il buio sembra più fitto e soffocante, simile ad una maschera di maglia sul viso. Le doppie porte sulla sinistra sono sbarrate. Provo comunque ad abbassare la maniglia ed un cigolio attutito risuona, inaspettato, per il piano deserto. Le porte non si aprono. Tutto sembra continuare a riposare.

Scivolo lentamente sulle ginocchia ed appoggio un orecchio al buco della serratura.

Gli ansiti soffocati ed in rapida accelerazione vengono rotti da un gemito che è un anelito a lungo trattenuto, strappato via dalle labbra lamentose, quasi sofferenti. È come una colpa sollevata, mi viene da pensare, di una dolcezza improvvisa, liberatoria.

Avverto in me costruirsi, indesiderata, una tensione rigida, i miei muscoli bloccati in una pastoia di sudore, le mie viscere torte in un nodo di un dolore lancinante. Mentre il sollievo umido di quella voce sconosciuta mi piove addosso, io non posso fare a meno di sentirmi più sporca.

Tornata nella quiete patinata della mia camera da letto, mi chiedo, con una lucidità sconcertata, vigile, quale sia il mio posto. In questa casa, tra gli affetti di mio padre.

Non ho la determinazione necessaria, per rispondermi.

 

Il mio fidanzato si chiama Ayashibara Watanabe. Ha frequentato lo stesso liceo di Soji, ma è di qualche anno più vecchio. Suo padre è fra i primi produttori di strumenti radiologici del Giappone. Non è alto. Ha la bocca larga, ma non parla molto. Il suo viso schiacciato e rotondo assomiglia ad un grosso, traslucido piatto da portata.

Ci sposeremo fra sei mesi. Abbiamo il tempo di conoscerci un po’ e poi avremo lo stesso anello all’anulare sinistro e divideremo due sponde dello stesso letto. Non ho mai dormito molto. Quando ho realizzato che avremmo diviso una camera, ho pensato per la prima volta alla mia insonnia come ad una forma di redenzione. Spero abbia il sonno di un animale in letargo; quando, finalmente, mi assopisco, non mi piace essere spiata.

L’accordo prematrimoniale mi sancisce erede del patrimonio di entrambi, dovessi morire prima che uno dei nostri figli sia indipendente.

Siamo usciti insieme un paio di volte. Abbiamo passeggiato per il parco che circonda la mansione, nascondendoci dietro le cortine di bambù, inspirando l’odore denso di pianta annegata che sale dallo stagno. Mi ha baciata, una volta, credo per farci l’abitudine. La sua bocca aveva il sapore di miso fermentato, e di un che di crudo e palustre come pesci d’acquario. Mentre si staccava da me, ho pensato alle tende bianche del salone fluttuare nel vento tiepido del mattino come in un mondo subacqueo.

È un buon affare, in fondo. Non posso avere l’amore di mio padre. Non potrò mai. Ma posso fare in modo di avere tutto ciò che possiede, finché non sarò l’unica cosa rimastagli.

 

Watanabe mi solleva tra le sue braccia per attraversare la soglia della camera da letto. Mi deposita sul giaciglio con una delicatezza preziosa e fragile, inattesa, come con un soprammobile di tulle e vetro sottile di cui gli è stato raccomandato di prendersi cura.

L’intimità che ci lega in questo momento necessario è scomoda, pericolosa, ma lui è bravo a fingere che non gli importi. Le sue mani slacciano con calcolata rapidità i numerosi bottoni del mio vestito da sposa, ed io lo lascio spogliarmi in quella sua intensa e meticolosa attenzione che dedica alle faccende di cui conosce il rischio di fallimento, sopprimendo a malapena lo sgradito brivido che corre lungo la mia spina dorsale. I suoi movimenti sono fermi, il suo volto privo di espressione; il vestito scompare, ammonticchiandosi come neve granulosa ai piedi del letto. Le dita slacciano e sganciano fino a che non rimango che io, senza un lembo addosso, e la mia risoluzione a non mostrare il terrore profano che rimbomba ritmico dentro di me e scroscia sul mio cuore e sui polmoni, strappandomi un respiro affannato, come colpevole.

Un palmo caldo sulla parte interna di una mia coscia mi spinge ad allargare lo spazio fra le gambe, e le sue dita cominciano a frugare di me senza preavviso, urgenti, cercando qualcosa che nessuno di noi due conosce, secondo una procedura tante volte udita e sempre spinta in qualche angolo della mente, dove non potesse essere toccata dal pensiero casuale e dalle nostre supposizioni inesperte.

Nella fitta straziante del mio imene lacerato tutto diventa bianco, abbagliante, e non posso fare a meno di realizzare che non è il membro duro, intruso, di mio marito a lavarmi in una pioggia di traspirazione e lacrime, ma lo sguardo distante, acuminato, di mio padre, che sento come un peso su di me.

Il pulsare pressante dei miei spasmi passa sullo sfondo, ed i miei sospiri gridati tra piacere e dolore sono un canto d’amore per il solo uomo che io abbia mai desiderato avere con me.

 

Il caldo settembrino pervade il salone come nebbia, quasi esalasse dall’imbottitura delle poltrone eleganti, massicce, di pelle e broccato vittoriano.

Soji sembra molto interessato a un vaso Ming esposto su una cassettiera. Riflette un alone rotondo sulla parete opposta, mi accorgo, come un pianeta appena sorto sulla carta da parati.

Quando parla, è come se la sua voce provenisse dalla stanza accanto, bisbigliata come una confessione.

- Dovresti sforzarti di trattare meglio nostro fratello, Eiko. -

La mia espressione incredula incontra solo il muro delle sue spalle.

- Come fai a considerarlo nostro fratello! È il figlio illegittimo di una sgualdrina! – le parole risuonano incontrollate e vibranti, un’accorata protesta – Sebbene, – mi sfugga ancora, in un sibilo astioso – Papà gli abbia dato il nome del successore della famiglia Arima… - giungo le mani in grembo, accomodandomi sul bracciolo del divano. Stringendole, la fede dorata scava nelle mie falangi lasciando due piccoli solchi nella pelle tenera.

Soji si gira verso di me, accogliendo la mia reazione con un’occhiata distratta, muta e diafana.

Come vedesse nella situazione qualcosa che io non posso cogliere. Qualcosa che non mi sfiora.

Il suo sguardo non è l’unico posato su di me, nella stanza. Voltandomi a scrutare fuori della porta-finestra noto i due occhi piccoli e scuri che mi bucano come spilli. Mi sollevo dalla mia posizione in uno scatto di rabbia. Reiji è lì, sulla soglia, a fissarmi con una caparbietà che ha qualcosa della sfida.

Dopo lo schiaffo, la mia mano pulsa ed il sangue mi tambureggia nelle orecchie con la rozza cadenza di un pesante martello.

- Ti ho già detto che non puoi venire qui! Devi stare in quella casa da solo e non farti vedere! Sei la vergogna della famiglia! -

Lui non si muove. C’è un che di acerbo ma violento in lui, capace di spaventarmi.

Ha gli occhi di mio padre. Sul viso il segno sottile ma certo della bocca di mio padre. E la sua lingua tagliente. Ma questo posso solo immaginarlo, perché non mi ha mai rivolto la parola. Sta lì, per imprimermi nel cervello la lama arrotondata del suo rigetto, ricambiato, e scappa via per andarsi a nascondere in qualche luogo riparato, a lui proibito, ma ove io non possa trovarlo; ogni volta.

- Eiko… - Soji mormora dietro di me. Fissa il punto in cui Reiji è scomparso, denudando le rughe precoci sulla fronte - È solo un bambino. Non c’è bisogno di essere così severi. Tirare fuori tutto quell’odio, come se ne avesse colpa. -

- Se conoscessi quel bambino, capiresti che non è degno di alcuna compassione, fratello. -

Una punta di fastidio sprezzante modella severa i suoi zigomi aridi.

- È questo di cui senti tanto la necessità da nostro padre, allora? La compassione? -

Non rispondo, ma non sono sicura che Soji desideri che io lo faccia.

Il mio pensiero corre alla stanza quieta in cui reco, ogni giorno, pranzo e cena a mio padre, ed al suo morbido odore di marcescenza; ogni boccone arriva alla sua bocca accompagnato dalla mia mano, con gentile, amorevole, senso materno.

Guardo un fiore di magnolia cadere ai miei piedi, una bianca e tetra culla di disgrazia.

No. Avrei voluto tenere per me una sua immaginaria tenerezza; almeno dopo la sua morte.

Lo sguardo fremente del giovane Reiji scava nel sangue torbido pompato dal mio cuore.

 

Fin.

 

Note finali: Suppongo ringraziare ancora Chiara sia inutile (e pleonastico). Il mio ultimo arigato è implicito, ed è comunque per te, tesoro. Per le tue parole di sostegno: per i miei scritti, per le mie paure.

Grazie anche a chi ha letto il frutto di questo lavoro. *bows*

Alla prossima.

 

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