Vita in te ci credo di germangirl (/viewuser.php?uid=228131)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. Primipara attempata ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. Mattie ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. Tom Johnson ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. Bentornata ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. Notizie da San Diego ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. Momenti concitati ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7. L'alba di una nuova famiglia ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1. Primipara attempata ***
Capitolo 1.
Primipara attempata
Primipara
attempata.
Questo era
riuscita a sbirciare Mac dalla sua cartella clinica appoggiata sulla
scrivania della
dottoressa Sullivan del Naval Medical Center di San Diego che
l’aveva presa in
cura dietro consiglio della sua storica ginecologa di Bethesda. Fare
avanti e
indietro da una costa all’altra del Paese per nove mesi non
avrebbe avuto molto
senso, in particolare nelle sue condizioni, pertanto la scelta di
trovare
qualcuno che la seguisse in California era stata obbligata. La
gravidanza non
aveva creato grossi problemi, anche se l’endometriosi non
deponeva certo a
favore di Sarah.
Tantomeno la
sua età.
Mac era
consapevole di non essere più una ragazzina, ma quelle due
parole le erano
arrivate come un pugno in pieno petto e, se non fosse stata seduta,
probabilmente l’avrebbero fatta vacillare. La sua prima
reazione era stata
quella di ricordare al tenente medico Judith Sullivan di essere il
Colonnello
Sarah MacKenzie Rabb, ergo un suo superiore, e pertanto di rivolgersi a
lei con
il dovuto rispetto, altro che primipara
attempata. Poi però si era repentinamente pentita
di aver solo pensato una
cosa del genere: la nuova ginecologa l’aveva assistita con
grande attenzione,
disponibilità e competenza sin dal primo appuntamento e
certo non si meritava
un trattamento del genere.
Così
non le
era restato che tornare a casa rimuginando su quella definizione. Suo
marito
non era riuscito ad accompagnarla alla visita di controllo per un
delicato
problema di lavoro che gli aveva impedito di lasciare
l’ufficio, sebbene fino a
quel momento le fosse sempre stato vicino, vivendo con lei le gioie e
le ansie
di quel periodo straordinario della loro esistenza. E quel giorno,
più che mai,
avrebbe voluto averlo accanto a sé. Per togliersi dalla
mente quella condanna, attempata,
che sembrava non lasciare
nessuna speranza. Quello stupido aggettivo l’aveva fatta
sentire una vecchia
babbiona che si era ritrovata inspiegabilmente incinta.
Dopo aver
attraversato la porta di ingresso della loro villetta, Sarah raggiunse
il
divano e sprofondò su di esso, lasciando cadere la borsa per
terra. Non aveva
nemmeno la forza di togliersi il cappello. Era entrata nella trentesima
settimana della sua gravidanza. Nonostante fosse solo inizio maggio, a
San
Diego splendeva un sole impietoso che le faceva gonfiare caviglie e
piedi a
dismisura e la faceva sentire più simile a una balena
spiaggiata che a un
essere umano. Meno che mai a un essere umano di sesso femminile.
Attempata.
Quell’aggettivo
continuava a ronzarle nella testa, senza darle tregua.
Accarezzò dolcemente il
pancione, poi si passò una mano stancamente sulla fronte e
infine si massaggiò
le tempie. Dopo aver superato il primo trimestre, nel quale tutto
sommato le
nausee erano state sopportabili anche senza far ricorso
all’addestramento militare,
Mac aveva cominciato ad accusare spossatezza e sonnolenza
più o meno a tutte le
ore del giorno. Dava la colpa alla mancanza di caffeina, visto che per
il bene
della creatura che portava in grembo aveva dovuto rinunciare al suo
caffè
forte, stile marine, per convertirsi alle tisane che suo marito a casa,
e la
sua fedele assistente Coates al lavoro, non le facevano mai mancare.
Certo che
quella bevanda scura, aromatica e corroborante era tutta
un’altra storia…
Doveva
essersi assopita sul divano perché quando riaprì
gli occhi si ritrovò distesa,
senza scarpe e cappello e con un cuscino sotto la testa e uno sotto le
caviglie.
Sorrise e alzò gli occhi in direzione del responsabile di
quel cambiamento.
“Ben
svegliata marine, come è andata la visita?” le
chiese Harm, che la osservava
dalla poltrona di fronte al suo improvvisato giaciglio.
“La
visita
bene, lui è in forma” gli rispose Sarah.
“O
lei…” la
corresse immediatamente Harm. Non avevano voluto sapere il sesso del
nascituro,
preferendo mantenere la sorpresa fino all’ultimo, ma erano
entrambi convinti
che si trattasse, rispettivamente, di un maschio e di una femmina e,
tanto per
cambiare, nessuno dei due aveva voluto dar ragione all’altro.
Come da copione.
La risposta
della moglie, però, non aveva pienamente convinto Rabb che
continuò a indagare:
“E’ successo qualcosa?”
Sarah si
limitò ad annuire muovendo impercettibilmente la testa.
Harm si
spostò dalla poltrona e si avvicinò
immediatamente al divano dove Mac era
ancora sdraiata. “Cosa c’è? Stai male?
Avevi detto che la piccola stava bene…
allora sei tu? Ancora l’endometriosi? Ti accompagno in
ospedale?” Il panico si
era impossessato di lui. Era capacissimo di affrontare situazioni
estremamente
pericolose sotto il fuoco nemico, magari a 80000 piedi di altezza, e
mantenere
una calma glaciale, ma quando si trattava di Sarah e della loro bambina
(“o
bambino”, come lo correggeva sempre lei) perdeva la testa e
andava
immediatamente in iperventilazione.
“Harm
respira. Stiamo bene entrambi, è solo
che…” cercò di calmarlo sua moglie.
“Solo
che
cosa?”
“La
dottoressa mi ha etichettato come primipara
attempata. Harm, sono vecchia!” dichiarò
Mac, non riuscendo ad evitare un
tono piagnucoloso che non riconosceva come suo, ma che ultimamente le
capitava
di assumere sempre più spesso. Accidenti
agli ormoni, pensò fra sé.
“Tutto
qui?”
replicò lui.
“Come
tutto
qui?” si risentì Sarah, colpita dalla mancanza di
sensibilità di suo marito. Ah
già, è pur sempre un uomo, si disse.
Mentre stava
pronunciando quelle parole, Harm si morse la lingua. Sapeva che questa
uscita
avrebbe fatto infuriare Sarah. Aveva imparato che era più
semplice e salutare
far atterrare un Tomcat su una portaerei grande come un francobollo in
mezzo a
una tempesta di neve al largo della Groenlandia piuttosto che sorbirsi
l’ira di
sua moglie, così la prese fra le braccia e le
sussurrò dolcemente in un
orecchio: “Sarah MacKenzie Rabb, mi hai fatto prendere un
colpo. Per me sei la
donna più affascinante, meravigliosa, sexy e giovane che
abbia mai incontrato e
l’unica che voglio avere al mio fianco per il resto della mia
vita.
Quell’etichetta non ti definisce, né ai miei occhi
né a quelli di chi ti sta
intorno. L’ho visto, sai, come ti guardava quello sbarbatello
del maggiore
Smith, sì, l’ultimo arrivato del tuo staff, alla
cena di gala del mese scorso.
Avrei avuto voglia di spaccargli la faccia e ricordargli che non sei
più sul
mercato!”
Mac si
lasciò coccolare da suo marito, che sapeva bene come usare
il suo fascino e la
sua dialettica per tranquillizzarla. Sarah conosceva tutti i trucchetti
del
famigerato avvocato Rabb in tribunale, ma da quando si erano messi
insieme
continuava a stupirsi per la capacità con cui, con poche
parole, il suo
marinaio riusciva a mettere ordine nel suo mondo.
La crisi
sembrava passata, così Harm la aiutò ad alzarsi
dal divano e le consigliò di
fare una doccia rinfrescante mentre lui avrebbe pensato alla cena.
Sarah non se
lo fece dire due volte e si diresse verso la zona notte, lasciando suo
marito
di corvée in cucina.
Togliendosi
la divisa che cominciava di nuovo a starle stretta, nonostante fosse
già
passata alla linea premaman, e la biancheria, Sarah fece un profondo
respiro
che si trasformò in un sospiro di sollievo appena
percepì l’acqua fresca
scorrerle sulla testa e sul corpo. Bastarono pochi gesti per farla
sentire
subito meglio. Si avvolse nell’accappatoio e
frizionò velocemente i capelli con
una salvietta, senza pensare ad asciugarli con il phon: faceva troppo
caldo per
sottoporsi a quell’inutile tortura. Si limitò a
tenerli su con una pinza e
indossò una t-shirt di suo marito e un paio di pantaloni
corti, dopo essersi
regalata un bel massaggio sul suo pancione con la crema idratante alla
vaniglia, un’essenza che piaceva molto anche ad Harm.
Recandosi in
cucina, si fermò sulla porta ad ammirare suo marito che
riusciva ad essere
tremendamente affascinante anche mentre scolava la pasta indossando
degli
improbabili guanti da forno a forma di aragosta.
Avevano
appena finito di consumare le pietanze preparate da Rabb quando udirono
squillare
il telefono. Entrambi si immaginarono beghe lavorative: ricoprivano
posizioni
per le quali l’orario degli impegni era estremamente
variabile e spesso di
lunga durata. Però, se fossero state questioni
professionali, probabilmente
sarebbero stati contattati ai rispettivi cellulari.
“Sarà
tua
madre? Le avevo promesso che le avrei fatto sapere come andava la
visita ma mi
sono dimenticata di chiamarla” disse Mac.
Harm
annuì e
disse: “Può darsi. Rispondo io e poi te la
passo”
Si
alzò e
andò nell’ingresso dove si trovava
l’apparecchio: “Rabb”
Una voce
femminile, molto diversa da quella di Trish, gli chiese:
“Comandante Rabb? Sono
l’infermiera Wilson del reparto di terapia intensiva
dell’ospedale di
Blacksburg. Lei risulta fra le persone da contattare per Matilda Grace
Johnson,
è corretto?”
Ad Harm si
gelò il sangue. “Corretto. Sono stato il suo
tutore fino all’anno scorso, mentre
suo padre era in riabilitazione. Cosa le è
successo?”
“Purtroppo
ha avuto un brutto incidente.”
Nota
dell’autrice
Qualche giorno
fa, messaggiando con
un’amica, siamo giunte alla conclusione che entrambe siamo
affette da
“personaggite acuta”. Dicesi personaggite acuta
quella malattia per cui un
autore – o nel caso specifico un’autrice
– non riesce a staccarsi dai
personaggi che ha creato e sente l’impulso irrefrenabile di
accompagnarli
ancora per un po’ lungo la loro strada.
Ecco dunque il
risultato di quella
sindrome: alcuni capitoli su Harm e Mac, post miracolo di Natale.
Grazie al mio
angelo custode che ha
avuto la pazienza di leggere la storia in anteprima e mi ha regalato
tantissimi
preziosi consigli e grazie a tutti voi per avermi donato un
po’ del vostro
tempo ed essere arrivati fino qui.
Deb
|
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Capitolo 2 *** Capitolo 2. Mattie ***
Capitolo 2.
Mattie
Harm
impallidì. Vedendo la sua reazione, Mac si
precipitò accanto a lui.
“Come
sta
Mattie?” riuscì a chiedere
all’infermiera Wilson con voce strozzata
dall’angoscia.
“E’
in coma,
signore. Ha subito una lesione spinale in seguito a un incidente
durante una
lezione di volo. Il suo aereo è precipitato e
l’istruttore è morto sul colpo. Suo
padre è stato con lei la prima sera, poi è
sparito e sono due giorni che non lo
vediamo. Mi scusi se mi sono permessa, signore, ma la situazione
è seria.”
“Ha
fatto
bene a chiamare. Sarò da Mattie domani in
giornata.” Rispose risoluto Harm e
riagganciò.
Mac
abbracciò suo marito, che si appoggiò su di lei.
Quella notizia lo aveva
annichilito, tanto che sembrò essere invecchiato di dieci
anni in un minuto. Da
diverso tempo, Mattie si era riavvicinata a suo padre e le cose stavano
andando
bene fra loro: Tom Johnson si manteneva sobrio e aveva un lavoro
stabile, così
che la ragazzina era potuta tornare alla vita da adolescente che si
meritava di
vivere. Con Harm e Mac si sentivano ogni settimana al telefono. Aveva
accolto
con grandissimo entusiasmo la notizia che presto avrebbe avuto un
ottimo motivo
per tornare in California dopo il matrimonio dei Rabb: la nascita del
bambino
(o della bambina) di Harm e Mac era prevista per
quell’estate.
“Le
abbiamo
parlato solo pochi giorni fa…” disse Rabb, ancora
stordito dalla telefonata che
aveva ricevuto. “Era così felice per quelle
lezioni di volo… diceva che avremmo
volato insieme. Le avevo promesso di farle fare un giro su Sarah la
prossima
volta che veniva a trovarci…”
Mac si
strinse al marito. Anche lei era molto affezionata a quella ragazzina,
ma
doveva ammettere che Harm nutriva un profondo amore paterno per lei.
Proprio
vedendolo alle prese con Mattie, Sarah aveva avuto la conferma che
sarebbe
stato un padre meraviglioso anche per la creatura che stava portando in
grembo,
per il loro miracolo di Natale.
“Ti
cerco il
primo aereo per Washington. Tu intanto chiama il tuo superiore e
comunicagli la
tua situazione. Vedrai che non ti negherà una
licenza.”
Rabb fu
grato al senso pratico della moglie, che contattò
immediatamente l’aeroporto
internazionale di San Diego. Il primo volo sarebbe partito la mattina
dopo alle
6.30, così che prima di sera Harm avrebbe potuto raggiungere
l’ospedale di
Blacksburg. Nel frattempo, suo marito telefonò al suo
superiore, il quale gli
concesse solo tre giorni, poi avrebbero dovuto trovare
un’altra soluzione. In
mancanza di meglio, Rabb lo ringraziò e si
congedò da lui.
In tutto
questo turbinio di eventi, l’affascinante aviatore aveva
quasi dimenticato di
avere una moglie incinta.
Le
accarezzò
il volto e le disse: “Sarah, perdonami. Non ti ho nemmeno
chiesto se vuoi
venire, anche se nel tuo stato preferirei saperti qui”
“Non
ti
preoccupare, marinaio. Ti aspetto a casa e, se avessi bisogno di
qualsiasi
cosa, c’è Coates e ci sono i tuoi genitori. Ah,
dovremmo avvertire Jennifer, anche
lei è molto legata a Mattie. Ma lo faccio io domattina di
persona. Adesso
cerchiamo di riposare almeno un po’: i prossimi giorni
saranno faticosi per te.”
Il volo da
San Diego a Washington gli sembrò infinito. Aveva percorso
quella tratta
numerose volte in entrambe le direzioni, sia per lavoro sia per andare
a
trovare sua madre e Frank nei lunghi anni trascorsi al JAG. A
quell’altitudine
si sentiva sempre a suo agio, ma mai prima d’ora gli era
pesato così tanto. Con
una mano strinse nervosamente uno dei braccioli e con l’altra
afferrò il
bicchiere che la giovane assistente di volo gli aveva servito poco
prima,
accompagnandolo con un sorriso seducente e uno sguardo ammiccante che
la dicevano
lunga su quanto quel passeggero l’avesse affascinata, ma che
non sortirono
alcun effetto su quest’ultimo, con grande disappunto della
donna. Sorseggiando
quel liquido ambrato, la sua mente gli riproponeva di continuo immagini
di
momenti passati con Mattie: quando aveva lavorato per lei alla Grace
Aviation,
la prima volta che lei aveva incontrato Chegwidden, chiamandolo
“pelato”, il
Natale che avevano trascorso insieme, quando Mac aveva convinto suo
padre a
concentrarsi sulla riabilitazione e a lasciarla sotto la tutela di
Harm. E
adesso, quella ragazzina vivace e intelligente, che la vita aveva
già messo
duramente alla prova privandola della madre e facendola crescere fin
troppo in
fretta, si trovava da sola in un letto d’ospedale e per di
più in condizioni
serie.
Quando
finalmente il velivolo toccò la pista del Dulles, Harm
tirò un sospiro di
sollievo. Ormai mancavano pochi minuti e finalmente avrebbe potuto
prendersi
cura di Mattie. E capire dove fosse finito suo padre e cosa diavolo
avesse
combinato.
All’uscita
dalla hall degli arrivi, Rabb si diresse spedito verso la fila dei taxi
e salì
sul primo disponibile, chiedendogli di portarlo a Blacksburg.
Ripensandoci,
forse avrebbe dovuto noleggiare un’auto per avere maggiore
libertà di movimento,
ma si disse che se ne sarebbe occupato il giorno successivo.
Si era
appena accomodato sul sedile posteriore quando sentì
squillare il cellulare.
Pensò che si trattasse di sua moglie che voleva sapere come
fosse andato il
volo. Invece sul display comparve il numero dei Roberts.
“Rabb”
rispose automaticamente.
“Harm?
Sono
Harriett. Ho appena parlato con Mac. Vuoi venire a stare da
noi?” gli chiese
con la consueta dolcezza e il suo tipico senso pratico, rafforzato dal
suo
ruolo di madre di una famiglia molto numerosa e decisamente
matriarcale.
“Ciao
Harriett, ti ringrazio ma ho prenotato una stanza in un albergo poco
distante
dall’ospedale di Blacksburg” rispose Harm.
“Ti va
comunque
di venire a cena qui? Dovrai pur mangiare” insistette la
signora Roberts.
“Voglio
prima
vedere come sta, Harriett. Ti dispiace se ti chiamo più
tardi?”
“Certo,
non
ti preoccupare. Ricordati che puoi contare su di noi, ok?”
Si
salutarono e Harm mentalmente ringraziò il cielo per avergli
donato degli amici
come Bud e Harriett Roberts, sui quali avrebbe sempre potuto fare
affidamento.
Giunto di
fronte all’ospedale, Rabb pagò il tassista e si
diresse velocemente verso il
reparto di terapia intensiva. Si fermò al punto informazioni
e si presentò:
“Sono Harmon Rabb, sono qui per Matilda Johnson”
disse semplicemente, senza
sfoderare né il suo grado né il suo fascino. In
un altro tempo e in un’altra
situazione, avrebbe sfoggiato il suo sorriso brevettato, che avrebbe
indubbiamente fatto una strage fra le infermiere, ma in quel momento
quel
pensiero non gli attraversò nemmeno l’anticamera
del cervello.
“Buonasera
signor Rabb, sono l’infermiera Wilson, ci siamo sentiti ieri
sera” gli rispose
una signora bionda, di un’età indefinibile, ma
dallo sguardo buono. “La
accompagno dalla paziente, poi potrà parlare con il medico
che la sta seguendo”
Harm
annuì e
la seguì nel corridoio verso la stanza di Mattie.
Aprendo la
porta della camera, la vide e temette che il suo cuore si fermasse.
Aveva il
volto e le braccia coperte dalle escoriazioni e un collare le teneva
immobile
la testa. Perse il conto dei tubi che collegavano quel corpicino ai
macchinari.
Gli sembrò ancora più minuta in quel letto,
circondata da aggeggi elettronici
che monitoravano costantemente il suo stato ed emettevano dei beep
inquietanti.
Si sedette
sulla sedia vicina al suo capezzale e le prese delicatamente una mano
fra le
sue.
“Ciao,
Mattie, sono Harm…” le disse dolcemente. Poi si
voltò verso l’infermiera Wilson
e le chiese: “Quando uscirà dal coma?”
“Non
lo
possiamo sapere. Potrebbe svegliarsi fra 5 minuti o fra 5
giorni… o anche
oltre. Però le posso dire che adesso non sta
soffrendo” gli rispose, cercando
di confortarlo in qualche modo.
“Ha
mai
ripreso conoscenza?” si informò Rabb.
L’infermiera
scosse la testa, poi aggiunse: “Credo che abbia perso i sensi
appena l’aereo è
precipitato.”
“Quali
conseguenze potrebbe avere?”
“A
questa
domanda posso risponderle io” annunciò una voce
maschile dalla porta della
stanza di Mattie. “Sono il dottor Daniels. Lei è
il tutore di Matilda?”
Harm si
alzò
e strinse la mano al medico: “Piacere, dottore. Sono il
Comandante Harmon Rabb.
Sono stato il tutore di Mattie in passato e sono rimasto in contatto
con lei,
anche dopo che è tornata a vivere con suo padre. Come
sta?”
“La
situazione è stazionaria. Purtroppo non sappiamo quali
saranno le conseguenze della
lesione spinale finché Mattie non riprende conoscenza.
Potrebbe avere seri
problemi di deambulazione, con una paralisi più o meno
permanente degli arti
inferiori” dichiarò Daniels con tono asciutto.
Harm chiuse
gli occhi davanti a quella diagnosi lapidaria e pregò il
cielo che la sua
piccola Mattie uscisse presto dal coma e non riportasse danni
irreparabili.
Nota
dell’autrice
Quella
telefonata ha riportato Harm a
Washington con il cuore assai più pesante di quando aveva
lasciato la capitale a
dicembre, dopo il loro miracolo di Natale: la situazione di Mattie
è seria e
suo padre è sparito.
Grazie di cuore
per l’affetto con cui
avete accolto questa storia e per aver letto anche il secondo capitolo!
Al prossimo,
Deb
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 3. Tom Johnson ***
Capitolo 3.
Tom Johnson
Il giorno
successivo Harm si recò in ospedale nel primo mattino. La
situazione purtroppo
non era cambiata rispetto alla sera precedente. Trascorse alcuni minuti
al
capezzale di Mattie e le raccontò di San Diego, del suo
lavoro alla base Nato, della
gravidanza di Sarah e di quanto sarebbe piaciuto loro che lei li
andasse a
trovare appena fosse arrivata la sua sorellina o il suo fratellino.
Non poteva
fare molto per aiutare quella ragazzina dal punto di vista medico,
pertanto la
lasciò nelle sapienti mani del personale sanitario.
Però indubbiamente poteva
intanto cercare suo padre. La sua licenza non gli permetteva di perdere
tempo. Per
prima cosa noleggiò un’auto, così da
potersi muovere per la città in modo
indipendente. Partì dal magazzino dove Tom lavorava e
lì alcuni colleghi gli
dissero che non lo vedevano dal giorno dell’incidente. Rabb
temeva di sapere
dove avrebbe potuto trovare Johnson: la tragedia che aveva colpito sua
figlia
doveva aver rappresentato un terremoto devastante per il suo fragile
equilibrio, faticosamente raggiunto dopo mesi di disintossicazione. E
la
tentazione di cercare rifugio nell’oblio dell’alcol
doveva essere stata
irresistibile.
Washington
offriva una scelta decisamente troppo ampia di bar e locali e le chance
di
individuare immediatamente Johnson erano scarse. In ogni caso, Harm non
voleva
nemmeno che Mattie si svegliasse da sola in quel letto di ospedale,
senza un
volto amico accanto a sé. Decise dunque di ritornare a
Blacksburg e di
dedicarsi a quella ragazzina.
Mangiò
un
sandwich al volo, rigorosamente vegetariano, nel bar
dell’ospedale e si avviò
di nuovo verso il reparto di terapia intensiva. L’infermiera
Wilson lo
riconobbe e lo accolse con un sorriso: “Venga, signor Rabb, i
parametri vitali
di Mattie stanno dando segnali incoraggianti!”
Harm si
precipitò nella camera e si sedette di nuovo accanto al
letto. Le prese una
mano e le parlò con dolcezza: “Andiamo, Mattie,
sono qui con te. Prova ad
aprire gli occhi, forza…”
I monitor
indicarono un cambiamento dell’attività cerebrale
per alcuni minuti, poi ritornarono
di nuovo alla loro calma piatta. Harm sospirò.
“Signor
Rabb, deve avere pazienza. Vedrà che si sveglierà
appena sarà abbastanza forte
da farlo. Il corpo umano segue dei percorsi non sempre spiegabili
scientificamente e ha i propri tempi” lo consolò
il dottor Daniels. Harm non si
era nemmeno reso conto che il medico fosse entrato nella stanza.
“Possiamo
comunque essere moderatamente ottimisti. Sta facendo piccoli progressi
ogni
giorno e questo è un buon segno. Dovremo però
prendere delle decisioni appena
vedremo quali saranno le sue effettive condizioni al risveglio. Dalla
cartella
clinica della signorina Johnson sappiamo che la madre è
deceduta anni fa e non
abbiamo più visto suo padre. Lei ha la tutela
legale?”
Harm scosse
la testa. “Sono stato il tutore di Mattie quando suo padre si
stava
disintossicando, ma da un po’ si era rimesso in riga e aveva
ripreso il suo
ruolo genitoriale. Lo sto cercando anche io, ma finora non ho avuto
successo.”
“Capisco”
fu
l’unico commento del medico. Poi riprese: “Se trova
il signor Johnson, gli dica
di contattarmi quanto prima” Detto questo, si
congedò e uscì dalla stanza,
lasciando Harm in compagnia dei suoi pensieri e del beep emesso dai
macchinari
che monitoravano lo stato di Mattie.
Nei due
giorni successivi l’unico cambiamento fu rappresentato dalla
telefonata che
Harm ricevette dal suo superiore. Questi gli concesse di rimanere a
Washington
solo a patto che si fosse appoggiato alla base Nato della capitale per
poter riprendere
quanto prima a lavorare da lì. Si organizzò con
la sua assistente affinché gli
inviasse i fascicoli dei casi di cui si stava occupando e si mise in
contatto
con un collega per attivare in poche ore una postazione con una
scrivania, un
telefono e una presa per il suo portatile. Non era certo il massimo, ma
questo
almeno gli permetteva di stare accanto a Mattie. Era preoccupato anche
per sua
moglie, ma ogni sera parlavano a lungo al telefono e lei stessa gli
aveva ricordato
che il suo posto al momento era accanto a quella ragazzina. Sarah era
un marine
e se la sarebbe cavata anche al settimo mese di gravidanza. E comunque
non
sarebbe stata da sola nell’assolata San Diego: avrebbe sempre
potuto contare su
Jennifer e sui Burnett.
Il resto
della settimana trascorse in modo frenetico. Harm sfruttava le tre ore
di
differenza di fuso orario per rimanere con Mattie la mattina e lavorare
la sera
fino a tardi, per poi farsi qualche giro nei bar alla ricerca di Tom
Johnson,
riducendo drasticamente le ore di sonno.
Quando ormai
stava per perdere le speranze, finalmente lo individuò in un
locale squallido
in cui l’odore acre di liquori di pessima qualità
si mischiava a quello di
sudore e di fumo, creando una combinazione vomitevole che
colpì Harm come un gancio
destro sferrato violentemente alla bocca dello stomaco, togliendogli
quasi il
respiro. Tom Johnson era seduto al bancone e con sguardo vacuo fissava
il
bicchiere contenente un liquido ambrato. Harm riuscì a
stento a trattenersi dal
prenderlo a pugni. Gli si sedette vicino, gli mise una mano su un
braccio e gli
disse: “Johnson, hai bevuto abbastanza. Andiamo, vedi di fare
il padre almeno
per una volta nella tua vita”
“Ah,
guarda
chi è arrivato… il comandante Harmon Rabb, il
cavaliere puro dall’armatura
scintillante… ma chi ti credi di essere, eh? Vieni qui e
pretendi di darmi
lezioni su come si fa il genitore…” gli rispose
con una voce strascicata, la
lingua impastata da chissà quanto alcol e gli occhi
iniettati di sangue.
“Mattie
ha bisogno
di te, Tom” riprese Harm.
“E’
ancora
in coma?” gli chiese, tenendo lo sguardo basso.
“Sì
e le
serve suo padre” replicò Rabb, tentando di
controllare la rabbia.
“Io
non sono
di nessuna utilità” ammise Tom. “Non
sono in grado di aiutarla, Rabb. Guardami,
sono un completo fallimento” aggiunse, abbassando il tono
della voce.
“Johnson,
Mattie ha bisogno di suo padre, ha bisogno di qualcuno che la aiuti a
risvegliarsi. Non puoi abbandonarla adesso” cercò
di nuovo di convincerlo, ma
Tom scosse la testa e lo interruppe: “Se ci tieni tanto,
è tutta tua, Rabb. E
ora vattene e lasciami in pace, voglio finire il mio whisky”
Harm lo
guardò per pochi secondi, poi si alzò e si
allontanò, sconfitto. Sentiva tutta
la stanchezza di quei giorni pesargli sulle spalle come un macigno.
Appena
fuori da quel sudicio bar, prese un respiro profondo e cercò
di ripulire
polmoni, cuore e cervello dalla schifezza che aveva respirato.
L’aria fresca lo
aiutò a far chiarezza nella sua mente e capì che
gli rimaneva solo una cosa da
fare: parlare con sua moglie, con la roccia della sua vita.
La consueta
telefonata serale con Sarah fu più lunga del solito. Sin dal
tono della voce
con cui l’aveva salutata, Mac si era resa conto che
c’era qualcosa che non
andava.
“Harm,
è
successo qualcosa a Mattie?” gli chiese preoccupata.
“No,
non è
cambiato niente… è ancora in coma. Ma ho
rintracciato suo padre. Mac, lui…”
sospirò. Non riusciva a capacitarsi di come un genitore
potesse rinunciare a
una figlia. Lui non lo avrebbe mai fatto. Scosse la testa e riprese:
“Se ne è
lavato le mani, Sarah”
Da ex
alcolista, Sarah poteva comprendere almeno in parte lo stato
d’animo di
Johnson, il suo senso di fallimento e di inadeguatezza. Ma da quasi
mamma
sentiva che non avrebbe mai potuto abbandonare la sua creatura. E
quella
ragazzina le faceva una gran pena: il destino si era accanito fin
troppo contro
di lei.
“Harm,
dobbiamo prenderci cura di lei. Possiamo avviare le pratiche per
richiederne la
custodia legale. Te l’hanno concessa quando eri da solo,
vedrai che adesso che
siamo sposati sarà più semplice. Puoi rivolgerti
a Bud affinché ti rappresenti
in Tribunale, sono sicura che sarà più che felice
di aiutarci” disse Sarah, con
un tono di voce dolce ma deciso.
Il marine e
la moglie erano entrati in azione!
Harm chiuse
gli occhi per trattenere le lacrime e formulò una silenziosa
preghiera nella
sua mente, ringraziando il cielo per avergli donato una donna
straordinaria
come Mac.
“Hai
idea di
quanto ti amo?” le disse sottovoce, temendo di svelare quanto
le parole di sua
moglie lo avessero commosso.
“Mai
quanto
ti amiamo io e tuo figlio” gli rispose Sarah, accarezzandosi
la pancia in un
gesto che ormai le era diventato spontaneo.
“O mia
figlia” replicò Harm.
Nota
dell’autrice
Harm
è riuscito a trovare Johnson, ma
quest’ultimo non ha intenzione di occuparsi di sua figlia.
Fortunatamente,
dalla costa occidentale del paese arriva la soluzione: saranno i
coniugi Rabb
ad accogliere Mattie nella loro famiglia.
Ora basta solo
che si svegli…
Grazie per aver
letto anche questo
capitolo!
Al prossimo,
Deb
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 4. Bentornata ***
Capitolo 4.
Bentornata
Dopo la
telefonata fiume con sua moglie, grazie alla quale era riuscito a
ritrovare un
livello di serenità insperato, il comandante Rabb
digitò il numero del suo
fidato amico Bud Roberts. Questi fu ben lieto di mettersi a sua
disposizione
per supportarlo dal punto di vista legale e concordarono di vedersi il
giorno
successivo a pranzo per discutere in dettaglio come procedere,
così da
risolvere la questione nel modo più rapido e indolore per
tutti, avendo a cuore
principalmente il bene di Mattie. In questo modo, la mattina Harm
avrebbe
potuto trascorrere un po’ di tempo in ospedale con lei e
darle la notizia, per
poi concentrarsi di nuovo sul suo lavoro.
Quando
entrò
nel reparto di terapia intensiva, notò immediatamente
l’assenza del volto amico
dell’infermiera Wilson dalla sua consueta postazione, ma si
disse che
probabilmente era in giro per prestare assistenza a qualche paziente o
che
forse non era di turno. A uno sguardo più approfondito, si
rese conto che c’erano
dei movimenti strani nella camera della sua quasi figlia adottiva.
Affrettò il
passo e, quando giunse alla porta, il suo cuore ebbe un sussulto.
Mattie si
era svegliata e stava rispondendo alle domande del dottor Daniels, che
stava
passando una specie di martelletto sugli arti inferiori e superiori,
mentre
l’infermiera Wilson annotava prontamente i risultati di
quella specie di test
sulla cartella clinica della ragazza.
Appena lo
inquadrò nel suo campo visivo, Mattie accennò un
sorriso, per quanto glielo
permettessero i graffi sul volto e il rigido collare, e
pronunciò il suo nome,
con voce roca.
Ad Harm
parve di non aver mai udito una musica più celestiale in
tutta la sua vita.
Si
avvicinò
al letto e le sorrise a sua volta, non sapendo bene come comportarsi in
quella
situazione. Da una parte avrebbe voluto abbracciare quella ragazzina,
per
dimostrarle il suo affetto e la sua felicità nel vederla di
nuovo nel mondo dei
vivi, ma dall’altra temeva di intralciare il lavoro di medico
e infermiera. Si
limitò a sussurrare un “Bentornata,
Mattie” e a continuare ad avere un sorriso estatico
e commosso stampato sul volto, rimanendo in piedi in fondo al letto,
con le
braccia incrociate sul petto, senza perdere di vista le mosse dei due
sanitari
davanti a lui nemmeno per un secondo.
Appena
terminata la visita, il dottor Daniels si rivolse ad Harm:
“Signor Rabb, credo
che lei e Mattie vogliate parlare un po’, ma mi raccomando,
non la affatichi
troppo: ha ancora bisogno di riposo. La aspetto nel mio ambulatorio,
d’accordo?”
Rabb
annuì
al medico, si sedette accanto al letto e prese dolcemente una mano
della ragazza.
“Come stai?”
“Ho la
mente
un po’ confusa e non riesco a sentirmi le gambe…
La tua mano invece è bollente!”
rispose Mattie, facendo una smorfia con il naso e parlando a fatica.
Poi
continuò: “Il dottor Daniels mi ha fatto un sacco
di domande sull’incidente…
non ricordo tutti i particolari…”
“Vedrai
che
la memoria tornerà. A me è successo
così dopo essere finito a mollo nell’oceano
qualche anno fa: ho sofferto di amnesia per un po’, ma poi i
ricordi sono
affiorati piano piano” le disse, cercando di consolarla.
La ragazza
si schiarì la gola e riprese: “Quando sei
arrivato?”
“Qualche
giorno fa”
Rimasero in
silenzio per alcuni secondi, poi Mattie gli pose la domanda che Rabb
temeva di
più: “Papà
dov’è?”
“Non
preoccuparti per lui adesso, pensa solo a rimetterti. Sai che quando mi
sono
eiettato è stata Mac a dire alle squadre di soccorso dove
localizzarmi, in
mezzo all’oceano in tempesta? Pensa, avevano ormai deciso di
interrompere le
ricerche, che erano state infruttuose per diverse ore, e continuare a
cercarmi
significava mettere a repentaglio anche la vita dei soccorritori. Ma
lei ha
avuto una visione, lo so che sembra strano, ma…”
l’avvocato stava cercando di portare
il discorso su un altro argomento, ma non aveva fatto i conti con la
determinazione adolescenziale, per nulla indebolita
dall’incidente e dal coma,
di una ragazzina sveglia che aveva già vissuto fin troppe
esperienze
traumatiche nella sua giovane età.
Mattie
strinse a malapena la mano dell’uomo:
“Harm… ha ricominciato a bere, vero?”
Rabb si
limitò a fare un breve cenno di assenso con il capo e le
disse: “Adesso riposa,
Mattie. Sappi solo che non sarai più da sola: io e Sarah non
abbiamo alcuna intenzione
di abbandonarti. Ci sono alcune cose da sistemare, ma vorremmo che tu
venissi a
stare con noi. E con la tua sorellina. Anche se Mac continua a
sostenere che
sia un maschio, sai quanto è testarda quando ci si
mette… Da questo punto di
vista, siete proprio identiche!”
Conversarono
ancora per qualche minuto, spostandosi su temi più leggeri,
poi Harm si congedò
da lei per lasciarla riposare e si recò
nell’ambulatorio del medico. Essere
riuscito a parlare con lei gli aveva riempito il cuore di un quieto
ottimismo,
ma aveva bisogno di sentirsi dire quali fossero le sue reali condizioni
fisiche
e quali danni avesse effettivamente riportato. L’angoscia non
era stata ancora
del tutto sopita.
La porta era
aperta e il dottor Daniels era seduto alla scrivania, chino su alcuni
fogli che
sembravano aver catturato la sua totale attenzione. Rabb
bussò allo stipite e
il medico, sollevando lo sguardo, gli fece cenno con la mano di entrare.
“Si
accomodi, signor Rabb” lo invitò con un tono di
voce molto serio, che fece
vacillare l’atteggiamento moderatamente fiducioso di Harm.
“Dottore,
qual è il suo responso?”
“Dovrei
parlare di queste cose con il padre di Mattie, è riuscito a
trovarlo?”
Harm gli
raccontò brevemente cosa era successo il giorno prima con
Johnson e quali
fossero le intenzioni, sue e di sua moglie, a proposito della ragazza.
Il
medico lo guardò fisso negli occhi per qualche istante, poi
annuì
impercettibilmente, quasi avesse seguito un ragionamento interiore, si
schiarì
la gola e disse: “Mattie ha mantenuto la motilità
agli arti superiori, che a un
primo esame sembrerebbero non aver riportato alcun danno grave
dall’incidente,
se non qualche contusione ed escoriazione superficiale.”
“Mi ha
stretto debolmente una mano e si è lamentata che la mia mano
era troppo calda”
confermò Rabb. “Però mi ha anche detto
che non si sentiva più le gambe.”
“Infatti,
come già le avevo accennato, il problema serio pare
riguardare gli arti
inferiori. La visita neurologica cui ha in parte assistito ha rivelato
una
ridotta sensibilità alle gambe. Dovremo effettuare altri
test per capire la
gravità della situazione e stabilire quanto possa recuperare
tramite il ricorso
alla fisioterapia o a eventuali interventi chirurgici”
spiegò Daniels.
“Cosa
posso
fare per aiutarla?”
“Al
momento
le stia vicino. Quando avremo il quadro completo della situazione di
Mattie decideremo
insieme come procedere”
Harm
ringraziò il medico e prese subito il telefono per informare
sua moglie del
risveglio della ragazza. Poi si recò nel suo ufficio,
lavorò per un paio d’ore
e infine incontrò Bud a pranzo. Il suo amico e legale gli
disse che la cosa
migliore sarebbe stata la rinuncia formale da parte di Tom Johnson al
suo ruolo
genitoriale, così da non far intervenire in maniera ridotta
i servizi sociali
che avrebbero reso la faccenda molto più squallida, lunga e
dolorosa per tutte
le parti coinvolte. La precedente esperienza di Rabb in
qualità di tutore
legale di Mattie deponeva certamente a suo favore, così come
il fatto che
adesso, con Sarah, avrebbero potuto offrirle una vera famiglia. Il
Capitano di
Corvetta Roberts si sarebbe poi impegnato a raccogliere le deposizioni
da parte
di altri membri influenti della comunità che avrebbero
perorato la causa,
sostenendo l’idoneità dei coniugi Rabb. Aveva
già in mente chi contattare ed
era certo che nessuno di loro si sarebbe tirato indietro.
Ora bastava
solo avere pazienza.
Nota
dell’autrice
OK, anche questa
è sistemata! Mattie
si è svegliata e Bud si occuperà della questione
legale, così che la ragazza
possa essere affidata ai Rabb.
Tutto sembra
volgere al meglio,
dunque.
Al prossimo
capitolo,
Deb
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Capitolo 5 *** Capitolo 5. Notizie da San Diego ***
Capitolo 5.
Notizie da San Diego
Accarezzandosi
con entrambe le mani il pancione, sempre più ingombrante,
Mac sospirò
pesantemente.
Le mancava
suo marito. Terribilmente.
La sua parte
razionale le diceva che Harm era nel posto giusto, a prendersi cura di
una
ragazzina che aveva bisogno di lui, molto più di lei. Ma la
sua parte emotiva,
quella che ultimamente stava prendendo sempre più il
sopravvento, le ripeteva
che avrebbe voluto averlo lì con sé subito,
seduta stante, per potersi
rifugiare nelle sue braccia grandi e forti, per farsi coccolare e
rassicurare
che tutto stava andando nel migliore dei modi. Accidenti
agli ormoni.
Quanto era
cambiata da quando stavano insieme!
Aveva
imparato ad appoggiarsi a qualcuno, a poter fare affidamento su una
persona che
mai l’avrebbe abbandonata, che si sarebbe presa cura di lei.
Sempre. Era una
sensazione che aveva cominciato a provare solo da quando aveva fatto
entrare
Harm nella sua vita da vero coprotagonista: durante
l’infanzia e l’adolescenza,
infatti, i suoi genitori non erano stati certo in grado di proteggerla
e di
coccolarla, come si sarebbe meritato ogni bambino. Ma dopo il bagno in
quel
lago dorato, l’amore sconfinato di Rabb aveva nutrito la sua
fame ancestrale di
affetto e adesso che lui era lontano l’impressione di essere
stata ancora una
volta lasciata sola si stava affacciando di nuovo nel suo cuore,
rendendola
inquieta e sofferente.
Sospirò
di
nuovo.
Harm mancava
da casa da un mese e mezzo ormai. In quel lungo periodo era tornato a
San Diego
solo una volta, per una delicata questione di lavoro che non poteva
gestire a
distanza, ma era riuscito a trascorrere con sua moglie solo poche ore
prima di
volare nuovamente a Blacksburg.
Non si era
pentita minimamente di aver suggerito a suo marito di far venire Mattie
a
vivere con loro, ma non poteva negare a sé stessa che la
cosa la impensieriva
un po’, visto il carico emotivo che quella scelta avrebbe
comportato.
Sentì
il
bambino muoversi nella sua pancia e, rivolgendosi a lui, gli chiese:
“Piccolo
marinaio, manca anche a te, vero? Senti anche tu la nostalgia per le
canzoni
che ci cantava papà accompagnandosi con la
chitarra?”
Una lacrima
le scivolò furtivamente su una guancia.
Qualcuno
bussò
alla porta e la distolse dal suo dialogo con il figlio. Non aspettava
nessuno a
quell’ora, ma sollevandosi con qualche difficoltà
dal divano, si asciugò gli
occhi e, prima di aprire, controllò dallo spioncino.
Ciò che vide la sorprese,
ma tolse immediatamente il chiavistello e fece entrare i due visitatori.
“Frank,
Trish, entrate, tutto bene?” li salutò, facendo
loro cenno di accomodarsi.
“Ciao
Sarah,
ti disturbiamo? Passavamo da queste parti e volevamo sapere se avevi
bisogno di
aiuto per sistemare la casa…” disse Trish.
Mac sorrise.
Nonostante fosse stanca e il suo programma per la serata avesse
previsto di
starsene sdraiata sul letto, con l’aria condizionata accesa,
possibilmente in
mutande e con i piedi sollevati, non poté far a meno di
essere grata per
l’affetto che i suoi suoceri nutrivano nei suoi confronti.
“Non
solo.
Come al solito, Trish ha esagerato in cucina e ci è avanzato
un sacco di roba,
quindi mi faresti davvero un favore se tu ci aiutassi a smaltire questi
manicaretti, altrimenti a me toccheranno per le prossime due
settimane!”
aggiunse Frank, facendole l’occhiolino.
“Grazie,
siete davvero gentili. Posso offrirvi del tè
freddo?” disse Mac, genuinamente
riconoscente.
“Volentieri!
Come procedono i lavori delle camere?” si informò
l’uomo.
“Venite,
vi
faccio vedere” li invitò Sarah.
Da quando
avevano deciso di accogliere Mattie a casa loro, Mac si era fatta
carico di
allestire una stanza per la ragazza in modo da venire incontro alle sue
esigenze. Gli esami approfonditi cui era stata sottoposta avevano
infatti
rivelato che la lesione spinale causata dall’incidente era
meno grave di quanto
temessero e che un intervento chirurgico, seguito da una lunga
fisioterapia, le
avrebbe restituito la quasi completa capacità di camminare
senza ausili. La
notizia aveva rallegrato tutti, da un capo all’altro degli
Stati Uniti. Non
sarebbe stato un processo immediato, ma con grande pazienza e
determinazione
Matilda Grace Johnson si sarebbe rimessa in piedi. E specialmente la
seconda
dote non le mancava di certo. Fortunatamente la villetta di Carmel
Valley era a
un piano, così per lei sarebbe stato più facile
muoversi anche con la sedia a
rotelle, almeno all’inizio, o le stampelle. Anche
l’assistente sociale che
aveva fatto visita a Mac, dietro richiesta del Giudice Minorile di
Washington,
aveva espresso parere favorevole sulla sistemazione logistica.
E,
naturalmente, c’era da arredare anche la stanza del
bebè! I futuri genitori pensavano
che avrebbero potuto occuparsene insieme, poi però avevano
ricevuto quella
telefonata da Blacksburg e tutti i loro piani erano stati stravolti.
Così
nelle
ultime settimane Mac aveva dedicato il suo tempo libero a svuotare la
camera
degli ospiti e lo studio, in modo da fare spazio alla nursery e alla
stanza di
Mattie. Certo, avrebbe voluto condividere quei preparativi con Harm, ma
l’assenza di suo marito era dovuta a un motivo più
che valido. La vita
dell’uomo a Washington, poi, non era certo una passeggiata:
fra il lavoro, l’assistenza
a Mattie e la questione della richiesta di tutela le sue giornate si
susseguivano con un ritmo infernale. Fortunatamente, come lui stesso le
aveva
raccontato, qualche giorno dopo che la ragazza aveva subito
l’intervento, ben
riuscito, si era visto arrivare in ospedale Harriet Beaumont Sims
Roberts con
piglio deciso e a passo di marcia. La dolce moglie di Bud lo aveva
–
metaforicamente – sollevato di peso dalla sedia accanto al
capezzale della
ragazzina e lo aveva spedito a casa a dormire. Alle rimostranze di
Harm,
Harriet gli aveva risposto di aver contattato la tata e di averle
affidato la
sua ciurma di bambini, così che lei avrebbe dato il cambio a
Rabb per farlo
finalmente riposare. “Se crolli non servirai a nessuno,
Harm” gli aveva sussurrato
dolcemente. “Va’ a dormire e torna stasera. Io e
Mattie ce la caveremo, stai
tranquillo”. A quelle parole, ad Harm non era restato altro
che ubbidire
all’ordine perentorio dell’ex tenente Sims, ormai
membro della riserva navale, e
concedersi qualche ora di sonno.
Frank e
Trish si affacciarono alla camera che avrebbe accolto il loro nipotino,
come
sosteneva Sarah (o nipotina, come invece precisava Harm) e notarono gli
scatoloni ammucchiati e i mobili della nursery in parte montati.
“Mac,
non ti
sarai mica affaticata eccessivamente?” le chiese con sguardo
severo, eppure
benevolo, la suocera.
“Tranquilla,
Trish, me la sono presa comoda. Infatti, come vedi, siamo ancora in
alto mare”
commentò la futura mamma, sospirando davanti a quel caos che
avrebbe dovuto
accogliere suo figlio (perché era convintissima che fosse un
maschietto, in
barba all’assoluta certezza di suo marito che invece si
aspettava una
femminuccia).
“Beh,
si dà
il caso che io abbia la mia cassetta degli attrezzi in macchina, magari
potrei
terminare di montare almeno la culla mentre voi signore fate due
chiacchiere in
salotto, che ne dite?” propose Frank.
Sarah gli
rivolse uno sguardo riconoscente e non se lo fece ripetere due volte.
Sebbene
avesse detto a Trish di non essersi stancata troppo, in
realtà non si era certo
risparmiata in quegli ultimi giorni. Ma anche se al parto mancavano
ancora
quattro settimane, Harm e Mattie sarebbero rientrati prima e lei non
voleva far
trovare loro una casa che assomigliava a un campo di battaglia su cui
era stato
sganciato un ordigno devastante.
Mentre
l’uomo si dava da fare con viti e tasselli, dimostrando
notevoli capacità di
bricolage, le due donne si sedettero sul divano, sorseggiando il
tè freddo in
silenzio.
“Mac,
va
tutto bene?” le chiese Trish.
“Sì…
sono
contenta che Harm fra poco torni a casa” rispose Mac,
sforzandosi di sorridere.
“Con
Mattie”
aggiunse Trish.
“Con
Mattie”
ripeté Sarah.
“Sei
preoccupata per lei?”
Mac
annuì.
“Mi impensierisce l’idea di passare da zero bambini
a un neonato e un’adolescente
nel giro di poco tempo. Non posso certo far ricorso ai miei ricordi di
figlia
per capire come si fa la madre…” aggiunse,
aggrottando la fronte al pensiero di
cosa era stata la sua infanzia e quale modello avessero rappresentato i
suoi
genitori per lei.
Trish le
strinse una mano e le disse: “Non sei da sola in questa
avventura, Mac. Non ho
mai visto mio figlio tanto felice come da quando ha saputo che avreste
avuto un
bambino. E poi ci siamo anche noi e, se ce lo permetterete, saremo ben
lieti di
darvi una mano. Sia con il piccolo che con Mattie. Vedi, anche Frank
è stato,
in qualche modo, un genitore adottivo per Harm. E, credimi, si
è preso una
bella gatta da pelare, perché il giovane Harmon Rabb junior
era tutt’altro che
un ragazzino facile da gestire! Ma Frank ha una cosa in comune con te:
entrambi
avete un cuore grande. E questo ti permetterà di trovare il
tuo equilibrio con
Mattie”
Sarah le
sorrise con gli occhi colmi di lacrime e si
sentì più sollevata. Sì, ce
l’avrebbe
fatta. E, in ogni caso, avrebbe potuto contare sul loro aiuto e,
più che altro,
su quello di suo marito.
Quando i
coniugi Burnett si congedarono, oltre un’ora più
tardi, Mac infilò nel
microonde uno dei manicaretti che le avevano portato e si
apprestò a cenare.
Improvvisamente, una fitta dolorosa al ventre le tolse il respiro. Le
sembrò
che una lama appuntita le avesse trapassato le viscere da parte a parte.
Fece per
alzarsi dallo sgabello cui si era appoggiata e sentì un
liquido caldo e viscido
colarle fra le gambe. Abbassò lo sguardo e vide con orrore
una macchia
vermiglia sbocciare come una rosa sui suoi pantaloni chiari.
Il panico si
impossessò di lei.
Nota
dell’autrice
Le cose si
stavano sistemando troppo
bene e troppo velocemente ma, lo sappiamo tutti per esperienza diretta,
la vita
è imprevedibile.
Cosa
succederà a Mac e al suo piccolo
marinaio? Pochi giorni e lo saprete.
Al prossimo
capitolo,
Deb
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Capitolo 6 *** Capitolo 6. Momenti concitati ***
Capitolo 6.
Momenti
concitati
Nooooooo, il
mio bambino nooooooooooooo.
Pensa, Mac,
pensa, non ti far
prendere dal panico.
Oh Dio mio,
non voglio perderlo, Harm aiutami!
Harm non
è qui con te ma ce la puoi
fare lo stesso.
Noooooooooo,
non può nascere ora, è troppo presto!
Forza Mac,
concentrati, Harm non c’è
ma non sei da sola.
Nella mente
di Sarah, sconvolta dal dolore e dalla paura, si alternavano momenti di
lucidità e altri di terrore nello spazio di pochi secondi.
Le fitte lancinanti
che le trafiggevano le viscere le impedivano di pensare in modo
coerente. Il
senso di colpa non le dava pace: nelle ultime settimane non si era
certo
risparmiata e adesso temeva che tutto questo stesse succedendo a causa
sua.
Aveva messo a repentaglio la vita di suo figlio spostando mobili e
scatoloni.
Come aveva
potuto essere tanto stupida?
Se gli fosse
successo qualcosa non se lo sarebbe mai perdonato. Mai.
Il suo
addestramento militare, che l’avrebbe dovuta mantenere
razionale e concentrata,
era completamente svanito di fronte alla paura di perdere il suo amato
bambino,
il loro miracolo di Natale. Improvvisamente, si ricordò le
parole di Trish: “se
ce lo permetterete, saremo ben lieti di darvi una mano”. Era
il momento di
approfittarne. Dopo aver sentito la prima sciabolata di dolore era
scivolata
sul pavimento, così si trascinò a fatica fino al
tavolinetto accanto al divano
e afferrò il cellulare. Digitò il numero della
suocera.
Irraggiungibile.
Di nuovo
un’ondata di panico si impossessò di lei. La
sensazione di essere stata ancora
una volta abbandonata si diffuse nel suo cuore sconvolto dal dolore.
Era un
sentimento che l’aveva accompagnata per buona parte della sua
esistenza e che
si era assopito solo a partire da quell’incontro sul lago
dorato.
Poi si
rammentò
che Trish le aveva detto che sarebbe andata al cinema con
un’amica, quindi
probabilmente aveva spento il telefonino.
Allora
contattò Frank.
Al secondo
squillo, l’uomo rispose.
Sarah
riuscì
solo a dire “Frank, aiutami, sto male… il
bambino…”
Lui le disse
semplicemente: “Chiamo l’ambulanza e
arrivo”
Nel giro di
pochi minuti, dapprima il suocero e poi i paramedici giunsero alla
villetta a
Carmel Valley. Le prestarono le cure immediate e, quando Frank disse
loro che
Mac era un colonnello dei marine, contattarono immediatamente il Naval
Medical
Center. La mente di Sarah, annebbiata dal dolore e
dall’angoscia, riuscì a
percepire soltanto emorragia antepartum,
probabile
distacco di placenta. E si sentì morire. Sapeva
che quest’ultimo costituiva
una delle cause principali di morte perinatale.
Nel cervello
di Mac si formò un unico devastante pensiero: Nooooooo,
non posso perdere il nostro bambino!
I barellieri
la fecero distendere sulla lettiga e poi la issarono
sull’ambulanza. Mentre
l’angoscia e il senso di abbandono si facevano sempre
più spazio nel suo cuore,
sentì una mano stringere la sua: non si era accorta che
Frank era salito sul
mezzo e si era seduto accanto a lei. Le accarezzò
paternamente i capelli e
disse: “tranquilla, Sarah, adesso ti portiamo in ospedale.
Vedrai che andrà
tutto bene”.
Giunsero al
centro medico militare a sirene spiegate e durante il viaggio la mano
di Frank
non lasciò mai quella di Sarah. L’uomo
seguì la barella fino alla porta del
blocco operatorio, poi dovette arrendersi alle insistenze dei
paramedici che lo
invitarono ad accomodarsi nella sala d’attesa e a permettere
loro di fare il
proprio lavoro, senza stargli fra i piedi.
Si
lasciò
scivolare in una delle poltroncine e si passò le mani fra i
capelli. Aveva il
battito cardiaco accelerato e il respiro affannato. Pregò il
cielo di non
sentirsi male: ora non sarebbe proprio stato il momento per farsi
venire un
infarto. Si impose di inspirare ed espirare lentamente, ad occhi
chiusi, per
calmare l’angoscia che gli saliva dalle viscere. Mise una
mano in tasca e tirò
fuori un portapillole, dal quale estrasse le sue medicine per il cuore.
Ne
ingoiò una al volo, senza nemmeno pensare a cercare
dell’acqua. Poggiò la testa
al muro dietro di lui e prese un respiro profondo. All’inizio
il rapporto con
Harm non era stato facile: si era dovuto scontrare con
l’assenza ingombrante di
un padre eroe, scomparso in Vietnam. Con gli anni era riuscito a farsi
accettare e poi a farsi voler bene da quel ragazzo, divenuto uomo e
adesso in procinto
di diventare genitore a sua volta. Non avrebbe potuto essere
più fiero di lui
nemmeno se fosse stato suo figlio biologico. Mac era arrivata nella
loro vita
da poco tempo, eppure aveva subito conquistato il suo affetto e quello
di Trish
ed entrambi l’avevano accolta a braccia aperte nella loro
famiglia, visto che
era palese quanto rendesse felice Harm. E adesso lei rischiava la
propria vita
e quella del loro nipotino, mentre suo marito era all’altro
capo del paese a
prendersi cura di Mattie, che presto li avrebbe raggiunti in
California. Anche
quella ragazzina si meritava un po’ di pace e
serenità.
Nella
concitazione del momento si rese conto di non aver ancora avvertito
Harm. Del
resto, a distanza non avrebbe potuto fare molto per aiutare sua moglie.
Però
aveva il diritto di sapere come stavano le cose. Completamente immerso
in
questi pensieri, sentì il cellulare vibrare: un messaggio lo
informò che il
telefonino di sua moglie era nuovamente raggiungibile. Evidentemente
Trish era
uscita dal cinema. Non fece in tempo a digitare il suo numero che la
donna lo
richiamò.
“Frank,
cosa
è successo? Ho visto che Mac mi ha cercato. Ho provato a
telefonarle ma il suo
numero squilla a vuoto” gli chiese la donna con voce
preoccupata.
“Trish,
siamo al Naval Medical Center. Sarah ha avuto un’emorragia e
adesso è in sala
operatoria” le disse, pentendosi subito dopo per essere stato
così franco con
sua moglie, per non essere riuscito a indorarle la pillola.
“Oh
mio Dio,
arrivo” rispose lei e riattaccò.
In
un’altra
stanza, non distante da dove si trovava Frank, Mac era terrorizzata.
Non si era
mai sentita tanto sola e spaventata come in quel momento, nonostante
fosse
circondata da diversi infermieri e medici che si prendevano cura di
lei.
Aveva
freddo.
Un freddo
che non aveva mai provato prima.
Un freddo
che le partiva dal cuore.
“Colonnello,
sono la dottoressa Sullivan” le disse una figura coperta da
una mascherina. Mac
la riconobbe dalla voce e dagli occhi e si sentì un
po’ più al sicuro. La
ginecologa conosceva bene il suo quadro clinico. “Purtroppo
c’è stato un
distacco di placenta e dobbiamo far nascere il suo bambino”
“Mancano
ancora quattro settimane…” riuscì a
dire Sarah.
“Lo
so,
colonnello, ma non possiamo aspettare. Il suo battito cardiaco si sta
facendo
più debole” replicò il medico, con tono
calmo ma determinato.
“Vi
prego,
salvate il mio bambino”
“Siamo
qui
per questo. Dobbiamo ricorrere a un cesareo d’urgenza, non
c’è tempo da
perdere. Adesso l’anestesista le farà
un’epidurale. Ma ho bisogno della sua
collaborazione, colonnello. Si deve rilassare. Si metta seduta con le
braccia
avanti e la testa piegata sul petto….” Mac
ubbidì e la ginecologa riprese: “Ecco,
così. Sentirà un po’ di fastidio
all’inizio ma vedrà che durerà poco.
L’importante è che stia ferma, non si deve
muovere. Capito? … OK, colonnello,
bene così, brava… Sentirà gradualmente
una sensazione di intorpidimento negli
arti inferiori” le spiegò la dottoressa Sullivan.
Mac si
limitò ad annuire e ad eseguire gli ordini, non riuscendo ad
impedire alle
lacrime di scorrerle lungo il volto. In quel momento, la mancanza di
suo marito
le invase completamente il cuore.
In pochi
minuti l’anestesia fece effetto e Sarah smise di provare quel
dolore lancinante
che l’aveva trafitta poco più di un’ora
prima, anche se le sembrava fosse
passata un’eternità da quando la prima stilettata
l’aveva fatta scivolare a
terra. Perse la sensibilità alle gambe, ma i suoi sensi
erano completamente
allertati da ciò che si svolgeva al di là di quel
telo grigioazzurro che le
impediva la visuale sul suo ventre. Avrebbe voluto accarezzare il suo
pancione
per prendersi cura di suo figlio, ma aveva le braccia immobilizzate e
un
infermiere le stava applicando un ago per facilitare
l’accesso venoso, qualora
ci fosse stato bisogno di una flebo. Udiva il parlottio di medici e
infermieri,
che si passavano strumenti e istruzioni, ma il suo cuore aspettava con
ansia di
sentire il primo vagito del suo bambino, pregando affinché
tutto andasse bene.
Nota
dell’autrice
Mai un momento
tranquillo, vero?
Viste le condizioni di Sarah, l’unico modo per salvare lei e
suo figlio è il
cesareo, nonostante manchino ancora quattro settimane.
Per la stesura
di questo capitolo
devo ringraziare davvero di cuore il mio angelo custode, senza il cui
aiuto non
sarei proprio riuscita a scrivere una storia sensata.
Spero che
perdonerete le eventuali
imprecisioni mediche: prendetele come una licenza poetica della
sottoscritta.
Al prossimo
capitolo,
Deb
|
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Capitolo 7 *** Capitolo 7. L'alba di una nuova famiglia ***
Capitolo 7.
L’alba
di una nuova famiglia
In quelle
stesse ore, a Washington fervevano i preparativi per il trasferimento a
San
Diego. Da una settimana Matilda Grace Johnson era stata affidata
legalmente ai
coniugi Rabb. Era stato il giudice Johanna Houghton del Tribunale dei
Minori a
decretarlo ufficialmente. Le sue parole riecheggiavano continuamente
nella
mente di Harm: “Ricopro questo incarico da molti anni ormai e
nella mia lunga
carriera ho giudicato innumerevoli casi di minori coinvolti nelle
situazioni
più dolorose, assurde o violente. Mi è capitato
molte volte di dover togliere
dei bambini ai propri genitori e non sempre è stato facile
collocarli presso
famiglie affidatarie. Questa volta però il mio istinto mi
dice che voi rappresentate
la soluzione ideale per Matilda. E lo dimostrano anche le numerose
testimonianze della vostra idoneità, raccolte dal Capitano
di Corvetta Roberts,
fra le quali spicca la dichiarazione di un ammiraglio in congedo,
Albert Jethro
Chegwidden. Una vera arringa da manuale! Se anche mi fosse rimasto
qualche
dubbio, le sue quattro pagine, fitte e manoscritte, me lo avrebbero
tolto
definitivamente.”
Ancora una
volta, AJ si era comportato come un padre per Harm e Sarah.
Il
comandante Rabb non vedeva l’ora di poter avere tutta la sua
famiglia riunita finalmente
sotto lo stesso tetto. La mancanza di sua moglie gli faceva male
fisicamente,
contraendogli lo stomaco ogni volta che pensava a lei, e la data del
parto si
stava avvicinando a grandi passi e per niente al mondo se la sarebbe
voluta
perdere.
Dal canto
suo, sebbene fosse felice di andare a vivere con Harm e Sarah a San
Diego,
Mattie era molto nervosa all’idea di salire nuovamente su un
aereo. Certo, il
747 che li avrebbe portati in California non aveva nulla a che spartire
con il
biposto con il quale si era schiantata al suolo nemmeno due mesi prima,
ma il
ricordo dell’impatto era troppo vivo per affrontare il
viaggio senza ansia. Si
consolava dicendo che aveva ancora qualche giorno per farsene una
ragione,
procrastinando il momento in cui avrebbe dovuto fare i conti con le sue
paure.
Harm stava
concordando con il dottor Daniels le accortezze da usare per rendere le
lunghe
ore di volo meno stressanti per Mattie quando il suo cellulare
squillò. Il
display lo informò che si trattava di Frank. La cosa lo
sorprese, perché di
solito era sua madre a chiamarlo, così rispose
immediatamente: “Frank, va tutto
bene?”
“Harm,
dovresti anticipare il rientro a San Diego. Sarah è in
ospedale” gli disse.
“Come…
cosa…
come sta?” riuscì a chiedergli appena il cuore
riprese a battere più o meno regolarmente.
“I
medici si
stanno prendendo cura di lei e del bambino, ma ha bisogno di suo
marito”
No, Frank
non poteva aver detto bambino. Mancavano ancora quattro settimane alla
data del
parto. E poi Sarah aspettava una femminuccia, su questo non
c’erano dubbi.
“Il
bambino?” gli chiese titubante.
“Le
hanno
fatto un cesareo d’urgenza. E’ un maschietto, Harm.
Sei diventato papà!” lo
informò Frank, con un tono di voce che mischiava gioia e
preoccupazione. “Sono
entrambi monitorati e stanno rispondendo bene, ma la fase critica non
è ancora completamente
superata” aggiunse.
“Arrivo
con
il primo volo. Ah, Frank?”
“Dimmi,
figliolo”
“Prenditi
cura di loro” lo esortò.
“Sono
la mia
famiglia, Harm, non potrei fare altrimenti” lo
rassicurò l’anziano, con un tono
sicuro e determinato.
Harm chiuse
la comunicazione e appena riuscì a fare mente locale
spiegò brevemente al
dottor Daniels cosa era successo. Dovevano anticipare il trasferimento
a San
Diego e non si sarebbe mosso senza Mattie. Si recarono pertanto
entrambi nella
stanza della ragazza.
Appena li
vide entrare, Mattie capì subito dall’espressione
corrucciata del suo tutore
che era successo qualcosa di serio.
Dopo aver
concluso la telefonata con Harm, Frank tornò in camera di
Sarah. Sua moglie era
seduta al capezzale della puerpera e le stringeva una mano.
L’uomo si avvicinò
a lei dall’altro lato del letto e le accarezzò i
capelli. In quel momento, Sarah
comprese, per la prima volta in tutta la sua vita, cosa volesse dire
essere
figlia e avere dei genitori che si prendessero cura di lei. Anche se
Harm era
lontano, anche se il loro bambino era nato prematuro e riposava in una
culla
termica, sua moglie cominciò nuovamente ad avere fiducia che
tutto si sarebbe
risolto nel modo migliore. Aveva una famiglia che le voleva bene.
Il volo
verso San Diego gli parve interminabile. Dietro consiglio del dottor
Daniels,
avevano prenotato in business, così che Mattie avrebbe
potuto distendere completamente
le gambe e assumere una posizione più comoda. Gli era
costato un patrimonio, ma
per i suoi figli era disposto a tutto.
Figli.
Si
ripeté
quella parola più volte nella mente.
Adesso aveva
una figlia adolescente e un maschietto. Era diventato doppiamente
papà e non
poteva chiedere altro alla vita. Era riuscito a parlare con Sarah al
telefono
pochi minuti prima di salire a bordo dell’aereo e le parole
della moglie lo
avevano rassicurato che lei e il piccolo si stavano riprendendo.
Avrebbero
dovuto trascorrere ancora qualche giorno in ospedale, ma la fase
critica era
stata superata e non vedevano l’ora di abbracciarlo di nuovo
e di accogliere
Mattie nella loro famiglia.
Si
ritrovò a
sorridere al pensiero di poter finalmente rivedere Mac e conoscere il
loro
bambino. Il suo stato d’animo era decisamente molto diverso
rispetto a quello
che lo aveva accompagnato un mese e mezzo prima, quando si era recato a
Washington con il cuore pesante per le condizioni di Mattie. Adesso
stava
ritornando a casa con la famiglia al completo.
Appena
arrivarono al San Diego International Airport, Harm aiutò
sua figlia ad
accomodarsi sulla sedia a rotelle che ancora usava per percorrere i
tragitti
più lunghi, poi raccolse i loro bagagli e si avviarono
all’uscita. Ad
attenderli c’era il sottufficiale di prima classe Jennifer
Coates che abbracciò
entrambi con grande trasporto, in barba al protocollo e alla divisa e
con buona
pace di Rabb. Le due ragazze nutrivano un profondo affetto reciproco
che si era
consolidato durante il periodo in cui avevano vissuto insieme
nell’appartamento
accanto a quello dell’affascinante comandante Rabb.
“Signore,
lascio lei all’ospedale e accompagno Mattie a casa,
d’accordo?” propose
Jennifer.
“Harm,
voglio venire anch’io a trovare Mac!”
protestò immediatamente Mattie.
“Non
se ne
parla, ragazzina. Il volo è stato lungo e faticoso, hai
bisogno di riposare”
decretò Rabb con un tono di voce che non ammetteva repliche.
“Ma se
ho
dormito per la maggior parte del tempo! Dai, voglio venire
anch’iooooooooo”
insistette.
“Matilda
Grace, ci verrai domani. Promesso. Adesso va’ a casa con
Jennifer e fa’ la
brava” ordinò Harm e con queste parole concluse la
diatriba, nonostante il
volto imbronciato della figlia che riusciva a passare da un
comportamento infantile
e sbraitante a un atteggiamento maturo e posato nello spazio di un
battito di
ciglia. Benedetta adolescenza.
Come concordato,
Jennifer fece tappa al Naval Medical Center e poi proseguì
verso Carmel Valley.
Sceso
dall’auto, Harm si precipitò al reparto
maternità. Nella hall incontrò sua
madre, che lo abbracciò e lo accompagnò a
conoscere il resto della famiglia.
Appena
entrato nella stanza di sua moglie, Harm si avvicinò al suo
letto e la strinse
forte a sé. Rimasero così, persi l’uno
nell’altra, per alcuni minuti. Poi si
staccarono e, mentre asciugava teneramente le lacrime di commozione che
avevano
bagnato il bel volto dell’uomo, Mac disse: “Questa
volta non sono la sola a
piangere”
Sorrisero
entrambi
al ricordo di quando invece tanti anni prima, mannaggia, era stata lei
l’unica
a piangere perché Harm aveva deciso di abbandonare il JAG
per tornare a volare
i suoi amati Tomcat in servizio attivo sulla USS Patrick Henry,
lasciandola
senza nemmeno una pianta da annaffiare nel suo appartamento. Quanto
tempo era
passato da allora! Quanti anni avevano sprecato!
Poi Rabb,
per alleggerire la situazione, aggiunse: “Marine, devo
ammettere che avevi
ragione: in quel pancione nascondevi un maschietto”
“Ebbene
sì,
marinaio. Ricordati che noi berretti verdi siamo sempre
avanti!” rispose a tono
Mac. Poi qualcun altro si aggiunse alla loro conversazione. Udirono un
vagito
provenire dalla culla posta accanto al capezzale di Sarah.
Entrambi si
voltarono nella sua direzione e Harm, titubante, domandò:
“Posso prenderlo?”
“Certo,
è
tuo figlio!” gli rispose Sarah.
Con grande
cautela,
il comandante Rabb sollevò il piccolo dal lettino e questi
lo osservò con
attenzione, chiedendosi chi fosse quel gigante dall’odore
buono e dalle mani
calde che lo stava cullando. La mamma aveva il profumo più
buono del mondo, ma
anche questo non era male.
Un’ondata
di
amore puro travolse il cuore di Harm appena le sue iridi cerulee
incontrarono
quelle madreperlate del figlio.
“Vedo
che
sul braccialetto c’è ancora scritto
“baby Rabb”… non avevamo detto che se
fosse
stato un maschietto lo avremmo chiamato Matt come tuo zio?”
chiese a sua moglie
appena quel groppo di commozione che gli stringeva la gola gli permise
di
pronunciare una frase con un tono di voce percettibile.
“Ti ho
aspettato perché ho cambiato idea” gli
sussurrò.
Harm le
rivolse un’espressione interrogativa, continuando a cullare
fra le sue braccia
quel frugoletto con il pagliaccetto azzurro con la scritta Proprietà congiunta del corpo dei
marines e della Marina – ma dove
caspita l’aveva trovato Sarah? – dal quale sembrava
non riuscire a staccarsi.
“Vorrei
che
avesse un secondo nome” riprese Sarah. Poi spostò
lo sguardo sulla coppia
anziana che li osservava con affetto dalla porta della stanza, si
schiarì la
gola e disse decisa: “Vorrei che nostro figlio si chiamasse
Matthew Frank Rabb”
Sollevando
gli occhi, Harm incontrò quelli commossi dell’uomo
che era stato accanto a lui
e a sua madre per la maggior parte della loro esistenza e disse
semplicemente:
“E’ perfetto”
Nota
dell’autrice
Forse avrei
dovuto intitolare questa
ff “Padri”, perché in fin dei conti
presenta figure paterne diverse fra loro:
Harm, Tom, Frank e persino AJ. Ma quella canzone racchiude un messaggio
troppo
importante per non farvi riferimento. Nonostante tutto, nonostante le
difficoltà e gli ostacoli, vita in te ci credo. Lo dicono
– con i loro comportamenti
– i protagonisti di questa storia e prova a farlo anche
questa umile autrice.
Grazie per
avermi regalato il vostro
tempo e la vostra attenzione ed essere arrivati fino qui.
Un abbraccio,
Deb
|
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