Nuova Genesi di Virgo_Jones (/viewuser.php?uid=827905)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** I ***
Nuova Genesi - 01
I
Stanza buia, stanza fredda. Appoggio una mano sul vetro,
contemplando la vastità del
cielo. Nell’infinito nero
turbinano nubi che promettono tempesta. Nei piccoli sprazzi liberi fra
l’una e l’altra, oltre il viola e il grigio,
brillano le
stelle; luci radiose, fievoli, sfavillanti. Da qui si vedono benissimo.
Appoggio la fronte sulla finestra, pelle calda su superfice
fredda.
“Le vedi quelle stelle? Una stella un desiderio. Una volta
sognavamo divenissero nostre, Jesse. Te lo immagini? Quando ancora
pensavamo di essere soli in questo universo, soli in questo nero. Una
stella per un desiderio, non dimenticarlo mai.”
Passo le dita sull’anello che porto appeso al
collo. «Madre» sussurro. Scuoto la testa.
Riprendo a
guardare fuori. Al di sotto delle nubi, per un tuffo di centinaia di
metri c’è l’ultima città.
Contemplo le luci
fra le strade, dietro i palazzi di vetro e metallo.
Fumo sprizza fuori dai bassifondi, dove fango e terra soppiantano il
cemento. A vederla da qui sembra una macchia marrone. Le persone, da
questa distanza, sono grandi come formiche. E, proprio come delle
formiche, sono uno sciame indaffarato, in movimento. «Sarebbe
bello se fossimo anche così coordinati» penso ad
alta
voce. Ben poche cose sembrano più grandi di una formica
quando
le contempli dall’alto dei cieli, in fondo. Il dissenso
però, quello, il caos, è una prerogativa tutta
nostra.
«Visto qualcosa di
interessante?».
«Zio!»
«Nipote – fa lui venendomi incontro con
un sorriso,
mi mette le mani sulle spalle – ma guardati! Non sei cambiato
di
una
virgola!».
«Neppure tu» gli
rispondo.
Fa un sorriso triste «Non serve mentirmi, ragazzo. Il tempo
non
è stato clemente con
me».
«Prima o poi tocca a tutti – rispondo
voltandomi di
nuovo verso la città – qui invece sembra non sia
cambiato
nulla».
«Eh, potresti stupirti – mio zio solleva una
fiaschetta-
vuoi?».
«Ancora Whiskey?» faccio io portandomi la
fiaschetta alla
bocca.
«Bevi».
E io per bere, bevo. Il bruciore mi scende dritto in gola.
Tossisco. La risata di mio zio riempie la stanza «Vacci piano
ragazzo! E’ roba
forte».
Mi passo una mano sulle labbra «Non è il
solito».
«No – ne beve un sorso- questo lo abbiamo
trovato
nelle rovine. Ovviamente non era nelle migliori condizioni, ma con il
giusto trattamento.. » fissa la fiaschetta, riporta lo
sguardo su
di me. Il suo viso si incupisce «I bassifondi sono
sull’orlo della
rivolta».
«Non mi
stupisce».
«Non dovrebbe infatti, in buona parte è
merito
tuo».
«Mi
sopravvaluti».
«Io? » Mi ghigna in faccia. Una volta
chiamavano mio
zio “la iena”. Era un soprannome azzeccato.
«No
ragazzo, io so di cosa sei capace. Ce l’hai scritto in
faccia.
Questo – indica l’esterno- questo non è
un caso.
Quando si tratta di te Jesse, il caso non esiste. E oltre a tutto
questo ora abbiamo anche i Caduti alle
porte».
«Se non fossero abbastanza vicini da minacciare la
città
non mi avrebbero mai richiamato». Un’affermazione
la mia,
non una domanda. I suoi occhi azzurri mi studiano.
Nonostante l’età i suoi occhi continuano a scavare
nell’anima con la stessa dimestichezza di sempre. Mi guarda
bevendo dalla sua fiaschetta. La ripone in tasca. Posa gli occhi
sull’anello «Tua madre lo indossava
sempre».
«Zio..».
Lui alza una mano «No, no lasciami finire. Lo portava sempre
al
dito. Diceva sempre che era il suo legame indissolubile. “Un
anello è per sempre” diceva, poi mi guardava con
quei suoi
occhi scuri. E io mi dimenticavo come si faceva a respirare. Ci
crederesti? Gran donna tua madre. Hai i suoi stessi
occhi».
«Mph».
Sprofonda nella poltrona dietro di me, sorride «Ma
tu non
sei lei. Hai ereditato molte cose da parte sua ragazzo, ma la tua
spietatezza è tutta nostra. Ma non è questo che
vuoi
sentirti dire, non è vero? Non sei venuto qui per vedermi.
Sei
venuto qui perché vuoi qualcosa da
me».
Anche quella di mio zio è un’affermazione. Ed
è corretta. Drammaticamente corretta. Forse persino diabolicamente.
«Sì»
rispondo.
Fa una smorfia «Sei un Cambria. Non farmi perdere tempo e
dimmi
cosa vuoi,
ragazzo».
«Se seguiremo il piano del consiglio siamo tutti
morti».
«Ah – si passa una mano sulla barba
canuta – il
consiglio
».
«Non possiamo semplicemente ingaggiare battaglia
all’aperto. Una squadra deve infiltrarsi al Divario del
Tramonto
e attivare le
torrette».
«Ah! Ah! – apre la bocca, mi guarda,
sbatte le
palpebre- e scommetto che vorresti essere tu a farlo, non è
vero?».
Risposta secca, risposta unica:
«Sì».
Mio zio socchiude gli occhi
«Perché?».
«Se non lo faremo l’umanità
cadrà».
«Ti sto chiedendo il perché, ragazzo.
Non insultarmi
dicendomi balle. Sì, sono vecchio. E no, non sono
così
vecchio».
«Glielo
devo».
«Glielo devi? Glielo devi?! – urla lui-
non ti ha
insegnato niente la storia di tua madre? E’ quasi morta di
dolore
dopo che tuo padre… che mio fratello – scuote la
testa- e
tu, tu, tu vorresti seguire le sue orme? Oh no». Il vecchio
che
mi ha cresciuto mi guarda in cagnesco «Scordatelo. Non ho
salvato
il figlio di Jim e Jessica per vederlo morire come un cane
là
fuori!».
«Era mio
padre».
«Sì, lo vedo ragazzo. Lo vedo
– stringe i
denti- Hai gli occhi del colore di tua madre, ma il fuoco che
c’è in essi è tutto di mio fratello; ci
puoi
giurare. Aveva sempre quello sguardo. “Per il
popolo!”
diceva prima di andarsene. Pfui. E tentando di prendere il Divario del
Tramonto cosa ha ottenuto se non di lasciare sola tua madre e
te?».
«Non mi fermerai zio. Non questa volta»
stringo i
pugni. Lo guardo respirare profondamente, mentre i suoi occhi
continuano a studiarmi. Nessuna novità in questo:
l’avevo
previsto.
«Sei tutta la mia famiglia Jesse. Sei tutto
ciò che
mi rimane» sussurra
lui.
Chiudo gli occhi «E ti ringrazio per
questo».
«Non ti ho cresciuto e allevato? Non mi sono preso cura di
te?».
«L’hai
fatto».
La sua mano cerca la mia. La trova «Dove ho
sbagliato con
te,
ragazzo?».
«Non sei mio padre. Non comportarti come se lo
fossi»
rispondo
respingendolo.
Questo lo ferisce. La sua schiena si incurva sotto il peso delle mie
parole. Il suo sguardo spento, fissa il
vuoto.
«Mi
dispiace».
Lui scuote la testa. Una singola lacrima gli solca la guancia. La
asciuga con un gesto rabbioso. «Parlerò al
consiglio. Lo
farò. Ma da questo momento in poi non considerarti
più un
membro della mia
famiglia».
«Non volevo finisse
così».
«Ah no? Il mio unico nipote spunta fuori dal buco che si era
scavato e non mi da neanche il tempo di riabbracciarlo che
già
si è scavato in un’altra fossa. Vuoi seguire la
strada di
tuo padre, Jesse? Sei abbastanza cresciuto da fare quello che ti
pare– si prende la testa fra le mani- ma non chiedermi di
farmelo
andare bene- alza gli occhi verso di me, sono di un azzurro
così
profondo da perdercisi- non
chiedermelo».
Annuisco, incapace di dire altro. Cosa posso dire a un uomo uguale a
me? – mi domando fra me e me. Mio zio mi ha insegnato chi
sono.
Mi ha insegnato come pensare, come combattere e sopravvivere. Mi ha
cresciuto e amato. Ma non è abbastanza. Mi volto. La sua
voce mi
raggiunge prima che arrivi alla soglia «Cosa ti ha reso
così Jesse? La ferita? – chino la testa- quella
donna? O
la mancanza
di…».
Tu non sei mio
padre.
«Qualsiasi cosa sia stata zio – lo interrompo- il
ragazzino
che conoscevi è morto molto tempo fa. Ora sono Jesse delle
Bande
Nere».
«Non mentirmi Jesse. Non ne hai bisogno. Pensavo di
avertelo detto: non sono così
vecchio».
«Secondo te zio, mio padre pensava a me
quando..»
stringo i pugni, tacendo per l’emozione. Eh sì,
l’emozione. Così forte da stritolarmi da
dentro.
«Ah, adesso capisco – dice lui- leiaspetta
un
figlio».
«Devo farlo. Per un futuro
migliore».
«Allora lascia perdere. Resta qui, occupati della tua
famiglia e
lascia fare a qualcun altro il lavoro
sporco».
«No».
«Perché ragazzo, perché ti
ostini a seguire
quella
strada?».
«Perché qualcun altro non è
abbastanza». Varco la soglia della stanza. Cammino lungo il
corridoio, lontano dal panorama, lontano dal cielo. Lontano dal mio
patrigno. Digrigno i denti.
Per quanto seguirai le sue orme? Cosa ha ottenuto se non di lasciare
solo tua madre e te?
La testa pulsa, in balia di ricordi che battono contro le tempie. Un
padre e un figlio, una storia che si è vista tante,
così
tante volte. Ma di chi
sono figlio io? Di mio padre o di mio zio? A chi devo di più?
Guardo l’anello. Sospiro.. Dietro le palpebre abbassate, nel
buio
primevo della mia mente, c’è solo un ricordo a
pulsare, un
ricordo ben preciso. Lei.
Una speranza prima, in qualsiasi luogo e tempo, una che segni
l’inizio e la fine di ogni nostra azione.
Riapro gli occhi, riprendo a camminare lungo la
torre.
Ora sono Jesse delle
Bande Nere.
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Capitolo 2 *** II ***
Nuova Genesi - 02
II
Mi
agito nel letto. Apro gli occhi respirando
affannato. Tocco la fronte, è tutta sudata. Mi inarco,
sedendomi nell’oscurità.
Cattivi sogni, simili a boccate di cenere, penetrano sotto pelle,
scavando fin
dentro le ossa.
«Un altro incubo?» domanda lei, appoggiandosi a me.
Mi gratto la barba sfatta «Ti ho svegliata?».
Le
sue labbra sfiorano le mie. Un tocco delicato, caldo.
«No».
Sorrido nel buio. La stringo a me. Ci culliamo nella stanza buia
abbracciati, respirandoci a vicenda. Le sue mani intorno al mio collo
sembrano
bruciare. «C’è un modo per evitare i
brutti sogni » mi sussurra all’orecchio.
Porto
la sua mano alle labbra. Bacio la sua pelle blu. «Ah
sì? E come?».
Lei
ridacchia, passandomi le dita sul petto. Mi mordicchia leggermente
l’orecchio,
strappandomi un gemito. «Così». Le sue
mani vagano fin lì dove non batte il
sole. Si infilano sotto i pantaloni, sfiorandomi la pelle
rovente.
«E così». Mi
bacia il collo. Altri piccoli morsi. Tanti
altri piccoli morsi. Chiudo gli occhi. Il suo fiato caldo mi
solletica il
naso. «Hai paura?» domanda lei, scendendo fino
all’ombelico. Altro morso.
Espiro. Nella notte, il mio respiro è fatto di piccole
volute di vapore. E’ una
stanza fredda. I nostri corpi, invece, quelli, sono caldi.
Le prendo la testa
fra le mani, la porto verso di me.
Labbra incontrano labbra, lingua incontra
lingua. I pensieri si annullano, si disgregano. Le nostre dita, quelle
invece,
si intrecciano. Odora di buono, di saliva, di qualcosa di caldo e di
vitale.
«Sì – le dico- ho paura».
«Per
te?» domanda lei. Mi solleva la mano e ne bacia il dorso, le
dita. Tanti, tanti piccoli baci. Sensazioni di calore restano
su pelle,
lì dove le sue labbra mi han toccato.
«Per noi» le dico «per lui»
appoggio la
mano sul suo grembo.
Mi
abbraccia. I suoi seni mi premono contro il petto. Il battito del suo
cuore
riecheggia su di me. Chiudo gli occhi, lasciandomi andare. Mi perdo fra
le sue
braccia. Un posto sicuro, finalmente.
Sono a casa – penso. Rimaniamo così,
nella notte. Io e lei. Il silenzio ci ricopre, rotto solo dai nostri
respiri
lenti. «Ti amo» dice lei.
Le prendo la testa fra le mani, appoggiando la
mia fronte alla sua. I nostri respiri si intrecciano. Stasi. I momenti
si
rincorrono, si inseguono, intrecciandosi in spirali di silenzi e
respiri. Le bacio
la fronte «Anche io».
«Non mi importa cosa deciderà il consiglio, se
tu…».
«Shhh».
La
sento scuotere la testa «No, lasciami parlare. Non posso
sopportare l’idea di
perderti. Lo so che lo stai facendo per una buona ragione ma se ti
capitasse
qualcosa io…».
Le accarezzo la guancia. Asciugo le sue lacrime. «Siamo
guerrieri,
Xana».
Mi
appoggia la testa sulla spalla. La stringo a me. «Almeno
promettimi che mi
lascerai venire con te».
La
guardo «Il bambino..».
Lei si ritrae.
I suoi occhi verdi brillano nella notte. Così atavici,
così unici. Gli occhi di
una insonne. «Siamo
guerrieri, l’hai detto tu stesso».
«Non
voglio perdere mio figlio ancora prima di vederlo nascere».
«Allora non morire!».
«Se ti prometto che
sopravvivrò tu resterai qui? – la accarezzo- ora
devi pensare al nuovo arrivato».
Si appoggia a me. «D’accordo
– dice assorta- d’accordo. Solo…
Jesse, promettimi che farai attenzione».
«Lo prometto».
Momenti
si inseguono e si accavallano su di sé mentre restiamo
abbracciati nel
silenzio. Sorrido.
Xana inarca un sopracciglio «Perché
sorridi?».
«Sai, mia madre era solita leggermi la storia di
un vecchio condottiero.
Si chiamava Giovanni. Giovanni delle Bande Nere».
«Me
l’avevi già detto».
«Ah sì?» le faccio io,
solleticandole il collo.
Scosta la mano «E quindi? Perché
sorridi?».
Le sollevo il mento, guardando i suoi bei lineamenti cesellati
«Prima
della sua ultima battaglia, si dice che Giovanni andò dalla
sua amante. E
quando lui le disse “questa sarà la nostra ultima
notte” sai cosa gli rispose
lei?».
Il mio amore scuote la testa, mi prende la mano e se la
appoggia alla
guancia «Cosa le rispose?».
«
Rispose “allora ci conviene godercela al
massimo”».
Xana
sfrega il naso contro il mio «E’ un
invito?».
«Forse».
«Forse eh!» mi sale
sopra a cavalcioni. La notte ci inghiotte. Due corpi caldi e vivi. Due
persone
in un atto d’amore.
Nell’oscurità c’è
più luce di quanto si pensi. A volte
scintille, a volte di più. Mentre faccio l’amore
con lei realizzo che messe
insieme, tutte quelle piccole luci, potrebbero abbagliare il mondo.
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Capitolo 3 *** III ***
III
III
La
grande sala è gremita. E, a dirla tutta, pure
il fuori. La folla si è accalcata presso
l’entrata, occupando lo spazio vitale.
Mi passo una mano fra la barba. Si sta profilando uno spettacolo e ogni
cittadino dell’ultima città desidera il biglietto
per goderselo in prima
fila.
«Andrà tutto
bene» dice Xana
alla mia sinistra.
«Lo so» rispondo io, stringendo i pugni.
«Lo so» ripeto.
Cammino,
dritto per dritto. Sfilo sotto le arcate; la folla si fa in due per
farmi
passare. Dell’enorme vocio che c’era prima non
è rimasto che silenzio.
Sogghigno. E’ questo che si prova a lasciare senza parole?
Gli insonni dei
bassifondi annuiscono al mio passaggio. Sulle loro labbra, aleggia la
parola
“capitano”. I guardiani, d’altro canto,
assistono al mio passaggio impassibili.
Qualche titano sputa al mio passaggio, qualche classe cacciatore
invece, sorprendentemente,
mi fa un cenno con il capo. Biggs,
il mio luogotenente, tiene la mia destra. Mi sorride. Beh,
diciamo che sfoggia l’espressione più simile a un
sorriso che ha. E’ dura avere
un volto mobile quando sei un uomo di metallo. «Cosa
ne pensi luogotenente? Cambieranno idea su di noi?» mormoro.
«Chi, i consiglieri o i guardiani?».
«Non
sono la stessa cosa?».
Biggs si acciglia. Di nuovo, per quanto
un volto di ferro e acciaio possa “accigliarsi”.
«Mai sentito di un consigliere che sappia
combattere».
Mi avvicino al
centro della sala «Ma come, non sai che sono
veterani?».
«I veterani buoni sono veterani morti, capitano.
Quantomeno – fa un
cenno ai seggi in alto- se sono comandati da gente del
genere».
«E io
sono meglio?» bisbiglio.
Biggs
si ferma. Mi fermo anche io. Mormorii nella sala, chiacchiere a stento
trattenute. Parole, parole e parole. Lui
mi guarda negli occhi, con le sue rosse pupille artificiali. Ghigna
«Per essere
un biologico siete il migliore capitano che si possa avere. Per essere un biologico, si
intende».
Ghigno di rimando «Si intende».
Mi
lascio alle spalle Xana e Biggs. Dritto per dritto, verso il destino
ultimo. I
miei stivali risuonano sul marmo. Respiro profondamente. Il Consiglio
mi
contempla dall’alto dei suoi seggi. La voce del viaggiatore
è una sagoma
sospesa nel mezzo fra le due metà. Mi inginocchio al centro
della stanza, sotto
i gli sguardi senza pietà di coloro che detengono il potere. Il mio mantello
è un’onda nera alle spalle,
adagiata contro il pavimento. La Voce del Viaggiatore, espressione
della sua
diretta volontà, alza una mano. Il consiglio tace, le parole
finiscono. Già, le parole. Il
silenzio è una cappa
che ricopre il mondo. Qualcuno tossisce. Uno
dei due consiglieri dell’avanguardia si alza invocando
l’attenzione
della sala «Cittadino Jesse Cambria, la tua convocazione qui
ha un solo e unico
motivo: la tua reintegrazione con il grado di comandante
nell’esercito e la
riammissione delle Bande Nere nel quadro dell’esercito.
Questo è tutto».
Disordini
e grida fra le folla. Qualcuno cerca di rompere il muro di guardie.
Qualcun
altro alza le braccia. Perlopiù gridano. Molte,
molte grida. Riecheggiano nella sala come un unico frastuono.
Un insonne
sputa per terra e grida «Chiamatelo Capitano Jesse, non
comandante!». Una donna
dai lunghi dread rossi si slancia verso il consiglio. Una guardia le
tira un
pugno al petto, togliendole fiato. Lei digrigna i denti e riprende a
fare
pressione per liberarsi «Vogliamo giustizia!». Un
gruppo di insonni intona in coro «Insonni come pari! Insonni
come pari! Insonni
come pari!».
«Silenzio! – grida il consigliere- silenzio
ho detto!». I guardiani sono lì lì per
sparare.
Certe cose non cambiano mai. Mi
alzo. Sollevo un braccio con un pugno chiuso. Il silenzio, obbediente,
ritorna. Altre sì. Tutti
gli sguardi sono
puntati su di me. Posso quasi sentirne il peso.
Quante responsabilità può sopportare un uomo
prima di crollare? – mi
domando- E quante potrò
sopportarne
io?
Guardo il mio pubblico. Guardo i
consiglieri, guardo la Voce, guardo la folla con i suoi insonni vestiti
di
cenci e i suoi guardiani che indossano corazze e armature. I miei occhi
si
posano su tutto quello che c’è da vedere.
«I Caduti premono alle porte. Un
esercito di saccheggiatori, di reietti, di capitani di caduti, che non
sogna altro che
prendere l’ultima città. E voi – respiro
profondamente- tergiversate».
«Come osi, davanti a questo sacro
consiglio..» comincia un consigliere.
Digrigno i denti «Come osate voi! –spalanco le
braccia- noi delle Bande
Nere abbiamo tenuto sicuri i confini. Noi! La vostra feccia, i
dimenticati, i
poveri, gli esiliati e i diversi. Noi!».
La folla acclama. Le loro ovazioni sono tuoni nella torre, premonitrici
di un diverso genere di tempesta. I consiglieri ci guardano con un
nuovo timore
negli occhi. Oh sì. E ho appena
cominciato.
La Voce osserva,
intelligibile dietro la maschera. «Dove vuoi
arrivare?».
Domande e quesiti nel centro della torre. Oh
sì. Una domanda e un quesito in particolare. «Mi
avete convocato per una missione suicida». Urla, imprecazioni
si levano dai
seggi. Se potessero sputarmi in faccia lo farebbero. I consiglieri,
custodi della
nostra diplomazia, non vedono la prima linea da molto, troppo
tempo. La Voce prende parola «Calma
consiglieri!». E la
calma torna, come la bonaccia dopo la tempesta. O
forse come quella che la precede. Una tempesta che potrebbe chiamarsi
“rivoluzione”.
«Ciononostante – riprendo
io- dietro le vostre parole siete tutti consapevoli dello stato delle
cose».
Lui è
impassibile dietro la sua maschera di ceramica. «Parole dure
le tue,
cittadino». Mi
osserva. Io osservo lui.
Il mio occhio buono e quello deturpato fissi contro i suoi freddi occhi
grigi,
a malapena visibili dietro le sottili fessure. Socchiudo i miei, di
occhi «Ma
corrispondono alla verità».
La Voce adagia il
mento fra le mani chiuse a coppa «Tu cosa proponi?».
«Fatemi
prendere il Divario del Tramonto».
«Questa
è una follia! – tuona uno dei consiglieri-
è solo un ragazzo!».
«Il Divario è la nostra unica
speranza – spiego- mentre l’esercito
all’effettivo ingaggerà la battaglia io e una
squadra scelta ci infiltreremo
nella nostra vecchia base e riaccenderemo le torrette. E’
l’unico modo».
«Sei consapevole che il Divario
è presieduto da uno dei membri del casato
dei Diavoli?» domanda il rappresentante in terra del
Viaggiatore.
Annuisco «Non
sarebbe la prima volta che mi occupo di uno di loro».
«Questo è un affronto che non possiamo
tollerare!» grida un altro consigliere.
Mio zio si alza da uno dei seggi. Torna il silenzio. «Tutti
voi sapete
chi sono e la mia storia. Mio fratello – fa un cenno verso di
me- il padre di
Jesse, è morto tentando di prendere quella stessa base. E
con lui molti bravi
uomini e donne». Mormorii
d’assenso
pervadono il consiglio come la folla. «Eppure- continua mio
zio- eccoci qui,
vent’anni dopo, a ponderare la stessa scelta. Anni fa tentai
di dissuadere mio
fratello. Gli dissi che la sua idea l’avrebbe condotto alla
sconfitta e alla
morte. Gli dissi che avrebbe lasciato soli sua moglie e suo figlio. Il
suo
sacrificio è servito o no? Io non lo so. Quello che so
è che il nostro è un
nemico terribile. I suoi attacchi si sono avvicinati nel tempo ai
nostri
confini. Li hanno ampiamente superati, tanto da strapparci anche gli
avamposti
esterni».
Ci fissa, ci
cattura tutti con i suoi occhi azzurri «Io c’ero
sapete? Durante l’attacco
all’ultimo avamposto. Ho visto mio nipote perdere un occhio e
nonostante questo
e i suoi sedici anni continuare a combattere ricoprendosi di sangue
alieno. Io
ho combattuto. E nonostante questo ci sono state perdite. Un numero
enorme,
tremendo di perdite. Anche io lì… -mio zio chiude
gli occhi, il tempo scorre con
solo il suo respiro a riempire lunghi, estenuanti, attimi-
lì io.. io ho perso
qualcuno che amavo con tutto il cuore. E così, Jesse, oltre
al padre perse una
madre, ed io, oltre a un fratello persi una moglie. Eppure eccoci qui!
Oggi non
è come ieri. E Jesse su questo ha ragione: non avremo
un’altra possibilità. Noi
siamo più deboli e il nemico è sempre
più forte. Senza il Divario saremo
perduti». Mormorii
fra i consiglieri. La Voce continua a studiarmi. «Tutti voi conoscete
mio nipote. Esiliato e giustamente – ora è il
turno dei consiglieri di
studiarmi- ed eppure le sue azioni successive offuscano i nostri
screzi. Lui ha
tenuto i confini liberi. Li ha tenuti contro un nemico strategicamente
e
numericamente superiore. Noi lo abbiamo esiliato, e lui, in tutta
risposta, ci
ha donato anni di vita. Ci ha donato speranza. E ha retto. Lui e le sue
Bande
Nere hanno retto. Non conosco nessuno più indicato di lui
per assolvere a
questo compito. Oggi non è ieri. E credetemi, non lo dico
perché è mio
parente».
«Hai altro da aggiungere, Jesse Cambria?» domanda
la Voce.
Annuisco
«Signore, le Bande Nere lottano per il popolo –
ruggiti fra la folla- se
accetterete avremo con tutta probabilità scambiato una
missione suicida per
un’altra. Ma se avremo successo vi chiedo una sola e ultima
cosa».
«Cosa?».
«Di
accettare i termini della costituzione che vi è stata
proposta. Rendete gli Exo
e gli Insonni cittadini con diritti paritari – nuove proteste
si accendono fra i
seggi- e accettate la gli stregoni come terza classe».
«Abomini! Vorresti che dessimo le armi a degli
abomini? Per fare la fine
dell’Alveare!? Devi essere pazzo ragazzo!» ringhia
un consigliere con il volto
livido, alzandosi.
«Lo sono? – gli getto un’occhiata
velenosa- e ditemi, consigliere, chi
era là fuori, a frapporsi fra voi ed il nemico?».
Alzo un pugno «C’ero io! E
c’erano loro! – sguardi si accavallano a guardare
gli insonni - gli
stregoni!».
Dietro di me si
scatena un eco di
acclamazioni: applausi e incoraggiamenti divorano la sala. Un baccano
talmente
intenso da scuotere le fondamenta della città. Un baccano
talmente intenso da
premettere qualcos’altro, taciuto eppure temuto da tutti. La rivolta. I consiglieri sudano freddo.
Sorrido «Molti fra voi
l’avranno già saputo: non sono noto per la mia
diplomazia».
«A dir poco» il consigliere di prima sbuffa.
«Sono
noto perché combatto le mie battaglie – mi volto
verso la Voce del Viaggiatore,
abbasso leggermente la testa – e in genere le
vinco».
Lui
mi studia «E credi di poter vincere questa?».
«Non resta che scoprirlo, sì?».
Il
signore della città, figlio ed espressione del Viaggiatore
annuisce
lentamente. Stasi. I
momenti si accavallano, si inseguono, lì, nella grande sala.
La
tensione cresce. Dopo
quella che sembra un’eternità la Voce annuisce di
nuovo «E sia»
dice.
I consiglieri
sgranano gli occhi «Ma, Voce…».
Lui riprende a parlare «Siamo tutti la stessa
cosa. Non è vero Jesse
Cambria?».
Chino
il capo, mi inginocchio sul marmo freddo.
«Questo consiglio accetta le
richieste del comandante Cambria. Le Bande Nere sono integrate nei
ranghi delle
forze della città. Il nuovo comandante reintegrato
guiderà una task force
all’interno della base e, sfruttando la battaglia
dell’esercito principale,
come diversivo, riattiverà le torrette difensive. In caso di
riuscita gli
stregoni avranno un posto fra i guardiani e nel consiglio. Gli Exo e
gli
Insonni saranno considerati cittadini di pari diritti. Comandante,
accetti
queste condizioni?».
«Sì ».
«Riportaci
il Divario del Tramonto, comandante. Fallo e
l’umanità ti ricorderà come una
leggenda».
La folla, come un
sol uomo, inneggia il mio nome «Capitano Cambria! Capitano
Cambria! Capitano
Cambria!». Mi volto verso la folla. Spalanco le braccia
davanti alla voce e al
cuore della città, alla voce di un popolo.
«Lasciamo che le cose ultime…»
comincio.
«Vengano!»
conclude la folla per me.
«E...» continuo io.
«Che
restino in pace!» grida la folla.
Nel
sentire il loro motto i membri delle Bande Nere, i miei
uomini si battono i pugni sul petto, guardandomi con occhi
pieni di orgoglio. Biggs mi dà una pacca sulla spalla
«Gran bel lavoro,
capitano» dice lui.
Esco fuori, passando fra il fiume di folla che ci fa
spazio, faccio un cenno verso il cielo nuvolo. «Secondo te
cosa portano quelle
nubi, luogotenente?».
«Pioggia?».
Scuoto
la testa «Tempesta. Presto saremo come loro. Questa notte
saremo i figli della
tempesta».
«E sopravvivremo?». Lo guardo. Nelle
sue pupille rosse c’è paura, ma
anche fiducia. E’ curioso come i suoi occhi artificiali, di
vetro e metallo,
riescano ad essere più espressivi di quelli di molti
guardiani vivi e vegeti.
Di sicuro sono molto più vivi di molti dei consiglieri che
mi son lasciato alle
spalle. Sospiro. Mi accendo una sigaretta, osservo il pinnacolo di fumo
che
risale verso il più alto dei cieli. Il sapore del tabacco mi
balla sulla
lingua. «Dipende
da come girerà il vento. Ma in fondo non è la
prima volta che
pensiamo di andare a morire, o no?» tiro un’altra
boccata.
«Che le cose ultime vengano» mormora lui,
appoggiando il pugno al petto.
Si allontana.
«E che restino in pace» sussurro io. Butto fuori
una folata di fumo. La
gola brucia mentre lo soffio via. «E tu lassù
– guardo l’abisso rosso che
rosicchia il sole- farai meglio a farle restare così
».
La cicatrice che
porto in faccia pulsa, foriera di pessime premonizioni. Oh beh, dopotutto la
notte, l’ultima
notte, incombe
su
tutti noi.
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Capitolo 4 *** IV ***
Nuova Genesi - 04
IV
Quattro
Anni Prima
«Jesse – mi batto un pugno sulla corazza- io sono
Jesse – lo indico- tu?».
L’uomo dalla
pelle blu non proferisce parola, si limita a sbattere le palpebre. Le
rare
volte in cui si volta verso di me è come se mi vedesse
attraverso. «Un altro in
stato confusionale».
«Secondo me questi bastardi blu
sono stati puniti per qualcosa, altrimenti non li avrebbero spediti qui
sulla
terra senza ricordi».
Mi volto verso la voce di chi ha
parlato: Willy Roop, classe titano. In qualsiasi tempo, in qualsiasi
luogo, un
nome del genere sarebbe sinonimo di pessimo gusto. Nel caso di Willy
tale nome
si declina in un nuovo e più specifico significato: idiozia.
Willy Roop era, è,
e con tutta probabilità sarebbe stato per tutta la sua
esistenza su questa
terra un idiota. Lo guardo negli occhi «Ah
sì?».
«Sì
sì – dice lui scostando lo sguardo- quindi se ci
pensi bene, visto che sono
criminali, non c’è niente di male a trattarli come
animaletti di
compagnia».
«Quindi
seguendo la tua logica, visto che sei un imbecille non
c’è nessun problema se
ti prendo la testa a calci. Non puoi peggiorare più di
così, sì?».
«Dovresti
piantarla di rispondermi così Cambria. Le tue
insubordinazioni e, peggio
ancora, questo tuo attivismo verso
questi… - lancia un’occhiata disgustata
all’insonne- ..questi animali, sono
state notate».
«Tempus fugit Willy».
«Cosa?».
Gli batto una mano
sulla spalla «Il tempo fugge – traduco- e credimi
Willy, se e quando il tempo fuggirà
abbastanza non vorrai trovarti dalla parte sbagliata della barricata.
Potrebbe
essere poco salutare». Il
buon Willy mi
guarda a bocca aperta passandosi le mani fra i capelli crespi. I miei
comportamenti sono ciò che sono. E a differenza di chi aveva
notato i miei atteggiamenti, io
sono
molte cose, ma non un idiota. Cammino oltre il mio compagno demente, mi
lascio
alle spalle impronte nella neve, ogni passo è un piccolo
tonfo nel candore
soffice. Davanti a me si profila una donna insonne. Pelle blu,
brillanti occhi
verdi e bei lineamenti. A vederla così sembra quasi una
bambola. Faccio per
parlarle, quando lei, per un attimo, un singolo svicolato momento, mi
fissa.
Non un punto dietro di me, o a caso, no. Lei aveva fissato me. Lei ricorda – realizzo- a differenza degli altri Insonni, lei
ricorda.
Il mio comandante, una creatura più simile a una latrina che
a un
uomo, appoggia il gomito sulla mia testa «Allora nanetto,
dicci a me. Quanti ce
ne stanno di questi animali blu?».
«Venticinque
in
totale. Quattordici maschi e undici femmine. Di quelli da me esaminati
tutti
versano in stato…».
Todd caccia un rutto «Sì sì, ci ho
capito.
Tanti questi animali non ci hanno nessun ricordo in ogni
caso». A vederlo così
sembra un mastino in forma umana. Un’immagine a dir poco
rivoltante.
«Solo
perché succede quasi sempre – ribadisco io- non
è detto che non esista la
possibilità che qualcuno fra loro non possieda dei ricordi..
signore». Mi
impongo a forza di dire quella parola. Niente da fare: continua a
suonarmi di
cattivo gusto se rivolta a lui.
«Ah, novellino. Dimmi a me, che ci ho fatto per
averti qui nella mia pattuglia, uh?».
Socchiudo
gli occhi. «Così noioso e inutile –
continua lui- così incline a proteggere
questi animali qui – sputa davanti all’insonne che
ci osserva- sentimi a me:
questo è un lavoro da schiavi. Da schiavi, ti dico. Noi ci
rischiamo il culo
per queste merdine blu. Ti rendi conto? Io vorrei essere là
– indica le
montagne- a combattere in prima linea. E invece no, sono qui a
occuparmi di
bambini e dannati alieni. Che ci ho fatto di male?».
La vera domanda –
penso io – è cosa ci
faccio io qui. La pattuglia
sessantanove è famosa per essere un covo di ubriaconi e
deficienti. Ah sì –
fisso il mio comandante – e
razzisti.
«Nemici! – Willy corre verso
di noi agitando le braccia- i caduti ci stanno attacc..» il colpo a ricerca termica
impatta.
L’esplosione cancella dalla faccia della terra Willy Roop;
letteralmente. Grumi
di materia cerebrale e pezzi di carne si sparpagliano fra la neve.
«Porca
di una troia! Abbassatevi! Abbassatevi!» raglia il comandante
Todd.
«Dobbiamo pensare agli
insonni!» grido io.
«Vadano a farsene in culo quelle scimmie! Ritirata,
ritirata!».
Vigliacco. Cammino in avanti. «Che ci
stai facendo lì recluta? Torna indietro!» mi
ringhia il rottweiler in forma
umana.
«Il mio lavoro.. signore» rispondo. Questa volta
“signore” suona come
una bestemmia. Nessuna sorpresa: dopotutto se riferita a Todd, Todd il cane,
lo è.
Avanzo
nella neve, sempre più vicino al nemico. Un colpo al plasma,
da
parte di un cecchino, mi sfiora l’orecchio, facendolo
fischiare. Continuo a
correre.
«Devi fermarti recluta! Mi hai sentito a
me?».
Non rispondo al mio
superiore. Ho altro da fare e non ho fiato da sprecare. Una nuova
ondata di
colpi termici sciama verso di me. Digrigno i denti. Sollevo il mio Mk
37. I
proiettili termici scattano verso di me.
Io pure, scatto verso di loro. Scivolo
nella neve puntando il mirino. I proiettili sono a pochi, pochissimi
metri da
me.
Premo il grilletto. Click.
Il gettito di fuoco risucchia i colpi nemici,
innescandoli in un’esplosione che mi fa ribaltare
all’indietro. Do un colpo di
reni, ignoro la vampata di calore che mi piove in faccia e continuo a
correre. Il sistema
scorrevole di riarmo pompa fuori il
proiettile del dragon breath. Ricarico. Il bello di avere un Mk 37 con
scanalatura liscia è che puoi sparare qualsiasi munizione ti
passi per la testa:
l’importante è che sia abbastanza grande da
entrare in canna. La mia scelta
immediata era stato un proiettile che sputava fiamme, soffio di drago,
appunto.
Anche se nella lingua degli antichi suona meglio. Scuoto la testa
tornando alla
realtà: i nemici sulla collina si spostano lentamente verso
di noi. Non è ancora finita. Mi
avvento dietro
un vecchio rottame dei un velivolo dell’età
dell’oro. I criptarchi, se non
ricordo male, lo chiamano “automobile”.
Sbircio fuori. Un colpo al plasma colpisce la neve a poca distanza da
me.
Appoggio lo shotgun accanto a me. Mi intralcerebbe. Sollevo
l’altro Mk 37, il
mio bel cannone portatile. Una magnum che sputa fuori proiettili grandi
come
una mela. Respiro.
Espiro. Esco dal rifugio di fortuna, corro in avanti. I
colpi continuano a risuonare davanti, intorno, dietro di me. Crivellano
e
crivellano. Serro l’aria fra i denti. Altri colpi termici si
indirizzano verso
di me. Sparo verso i razzi blu, facendoli esplodere in aria.
Seguono colpi al
plasma: molti colpi al plasma. Zigzago nella neve, correndo
più veloce che
posso e cercando di ignorare il dolore al braccio: il mio revolver sa
scalpitare per bene quando si tratta di rinculo. Trenta metri, posso
vederli
bene: due saccheggiatori e quattro reietti. Un proiettile colpisce il
punto in cui
la mia testa stava un attimo prima. Scuoto la testa.
L’adrenalina mi rimbomba
nelle vene. Tutum, tutum. Gli
insonni
spariscono. Anche la pattuglia sessantanove e il mio
“superiore” finiscono alle
ortiche. Ora ci sono solo io, il mio respiro e la mia corsa. Il nemico
è solo
l’ennesimo ostacolo.
Ringhio. Proiettili mi sfiorano strappandomi carne e
graffiandomi.
Tutum, tutum, tutum.
Me
ne frego. Mi ficco la linguetta della granata in bocca. Tiro fuori.
Carico sul
destro, il mio braccio buono: lancio. I nemici continuano a sparare,
incuranti
delle granata. Dopotutto, apparentemente, il suo arco è
completamente fuori
strada.
La granata esplode. La terra trema. Tonnellate di neve iniziano a
scrollarsi dalla montagna, trascinando con sé i nemici.
L’apparenza inganna. La valanga corre, corre, verso di me. Potrei
indietreggiare, ma sono fin troppo
consapevole che non si può battere in velocità la
natura primeva. E tonnellate
di neve dirette verso di me rientrano in quest’ultima
categoria.
Faccio un bel
respiro. Corro verso un rottame abbandonato: l’unico ad avere
i finestrini
integri. L’unico.
Apro la portiera.
L’armageddon di neve mi raggiunge. Mi chiudo a posizione
fetale nell’auto. La
neve mi sballotta per centinaia di metri, seppellendomi nel suo bianco.
Ghigno.
«Sono ancora vivo» grido. «Ancora
vivo!». Poi tutto si fa buio.
Mi
risveglio con un gemito.
«E così ci sei ancora
vivo, uh?» dice il rottweiler.
Sputo saliva e sangue; mi ero morso la lingua.
«Già».
«Senti a me novellino: tu ci rispondi ai miei di ordini. Tu
ci fai
quello che io dico. E quello che ti ci dico è che tu non vai
contro il nemico
da solo: finirai solo per farti ammazzare».
Taccio, sentendo il suono del mio respiro. «Non erano soli.
Presto ne
arriveranno altri».
«Fottesega
novellino. Noi per allora ce ne saremo già andati».
«Ma gli insonni…».
Lui
mi punta una mano sul petto, costringendomi a sdraiarmi, mi alita in
faccia
«Dimenticali quegli animali del cazzo».
«..Signore».
Sarebbe così facile fracassare la tua testolina. Così dannatamente facile.
«Ora signorino Cambria, tu ci
consegnerai le armi a me. Dopo che questo sarà avvenuto
tornerai con me in
città e sarai giudicato da una commissione
d’inchiesta. Nel migliore dei casi
morirai con disonore come quel cane di tuo padre,
capi’?».
Gli
sorrido. Quando sono in vena di fare qualcosa di pericoloso, io sorrido
sempre.
Era giunto il momento di far capire al comandante Todd come mai ero
soprannominato “Jesse del sorriso”.
«Allora, passami queste
armi».
Faccio
per allungargli l’arma. Lui fa per prenderla. Ritraggo la
mano. Continuo a
sorridergli «Assolutamente no,
coglione». Gli tiro un calcio dritto dritto ai
suoi gingilli. E un calcio ai gioielli, quando indossi un esoscheletro
che
aumenta il peso del calcio di un buon cinquanta kg, fa parecchio male,
anche se
indossi una corazza da titano. Il buon comandante si inginocchia,
scendendo al
mio livello. Gli prendo la testa fra le mani. Gli rifilo una
ginocchiata. Il
naso di Todd si frantuma come cartapesta.
Crack.
I miei commilitoni e gli insonni mi guardano allibiti. I primi
sconvolti, i
secondi confusi da quell’eccesso di violenza.
C’è un limite che non andrebbe
mai sorpassato. Superato quello, anche le persone più buone
diventano macchine
di morte. E io non sono mai stato una
persona buona. Porto
il gomito
contro il collo del mio superiore. Comincio a premere. La canna di una
pistola
mi tocca la testa, gelida. «Continua a puntarmi quella contro
e ammazzo anche
te». Chiunque me l’avesse puntata la ritrae. I
piccoli occhi porcini di Todd si
iniettano di sangue. Tanti, tanti piccoli capillari scoppiano.
«Stammi a
sentire, faccia di cane. Mettiamo le cose in
chiaro».
Applico un ulteriore
pressione. I suoi occhi son sempre più rossi. «Tu
non hai il comando. Tu non mi
dai ordini. Sei un inetto e un incapace e se riprovi anche solo ad accennare all’idea di
abbandonare qui
questa gente, ti assicuro che i caduti saranno l’ultimo dei
tuoi problemi.
Sbatti una volta gli occhi per dirmi che mi hai inteso».
Le
sue palpebre si abbassano una volta.
«Il
mio vecchio, al contrario di te, era un guerriero. Quindi non
profanerai più la
sua memoria aprendo quella cloaca che hai per bocca. L’unica
cosa che dirai quando
toglierò il mio braccio dalla tua gola è
“sì signore, come desidera signore” e
farai quello che comanderò, fosse anche l’ordine
di fare da puntaspilli per i
caduti. E mi ringrazierai per questo. L’alternativa a questa
scelta è il tuo
collo rotto. Ci siamo intesi?».
Un altro battito di palpebre da parte del
buon comandante. Lascio la presa «Lo interpreterò
come un sì». L’ex comandante
Todd tossisce, rotolando nella neve sporca.
Mi volto verso l’exo alla mia destra «Tu, come ti
chiami?». Mi fissa.
«Come ti chiami?» ripeto.
«Secondo
le leggi vicende non ho nome in quanto essere artificiale»
dice il robot.
Sputo per terra «In culo alle leggi del dannato cavolo. Il
tuo nome?»
insisto.
«Biggs» risponde lui.
Batto le mani «Bene Biggs,
considerando il recente passaggio di consegne, sembra che io sia il
nuovo
superiore in carica. Tu sarai il mio secondo».
Todd, dietro di me, si rialza. Arranca con il fucile. «Fossi
in te non
lo farei» dico senza guardarlo.
L’ex
comandante mi ignora. Mi punta il fucile contro. Faccio un respiro
profondo.
Espiro. Lancio il
coltello. Son sempre stato bravo con le lame. Un movimento fluido,
ripetuto
milioni di volte, da’ i suoi frutti. La lama fischia
nell’aria, tranciando un
dito del comandante e facendo rotolare il fucile. Lo calcio via.
«Questo è un
giocattolo che tu non dovresti usare» dico. Riprendo il
coltello, pulendolo sui
pantaloni di faccia di cane.
Il bastardo si dibatte nella neve, gridando «Figlio di
puttana, questa non
me la dimentico! Mi hai sentito a me? Questa non ce la
dimentico!».
Mi chino su
di lui, puntandogli il coltello alla gola. «Non credo di aver
capito. Puoi
ripetere?». Deglutisce.
«Cosa hai
detto?» domando di nuovo.
«Niente signore. Grazie signore».
Gli
faccio due buffetti alla guancia «Bravo
– faccio un cenno al dito- fossi in te metterei la mano nella
neve». Obbediente,
faccia di cane, immerge la mano. A suo favore non fa un gemito. Beh,
non più
del solito. «Altri
dissensi?».
Nessuna
risposta da parte dei miei soldati.
Tutti, indistintamente, si battono il pugno sulla corazza. Buon segno – penso
io.
Gli insonni mi guardano spaventati. A parte
la donna. Già, la donna.
Lei
osserva. Mi osserva. «Tu e tu
– indico due soldati persino più
giovani di me- occupatevi di condurre i superstiti dentro
l’edificio. Ah, portate
con voi il nostro ex comandante – guardo Todd- se prova a
fare qualcosa, qualsiasi cosa,
ucciditelo».
Faccia di cane ha il buonsenso di sbiancare.
«Voialtri, con me. Sarà bene tenere questo posto
come dico io – mi volto verso
gli insonni, guardandone i vestiti laceri – e credo di avere
già avuto una
buona idea».
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Capitolo 5 *** V ***
Nuova Genesi - 05
V
Quattro
anni prima
Wedge
è molte cose. Per dirne una è vecchio,
talmente vecchio da avere più rughe in faccia che peli sulla
barba. Per dirne
due è un ubriacone: non si muove senza la sua fiasca di
Whiskey e il concetto
di “casa” per lui è quello di un posto
dove passare un dopo sbronza. Ma sul
campo di battaglia, con davanti una forza nemica e inesorabile, Horr
Titus
Wedge è un veterano. Magro come un chiodo, abile con le
granate e le pistole,
lui è il tipo d’uomo che ti fa vedere la schiena
solo quando sei cenere alla
cenere e polvere alla polvere. Oltre a tutto questo però, il
guardiano Wedge è
anche sdentato. Parecchio sdentato.
E
il risultato è estremamente spiacevole da sentire.
«Scecondo me sci farai ammasciare tutti – dice-
ragascio».
Gli sorrido. Lui, impassibile, sputa
una ciccata nera di tabacco.
«Se fossimo fuggiti e basta
ci avrebbero raggiunti. Inoltre, quella pattuglia era
insolita».
Sputa
un’altra ciccata «Scecondo me ci farai ammasciare
tutti comunque».
«Rimpianti o lamentele?».
Per quanto sia possibile
per un uomo con sei o sette denti in totale,
lui sogghigna «Nesciuna delle due. Fasciamogli vedere
qualcoscia che non
dimenticheranno, fasciamogli male».
«E
male sia» rispondo io. Biggs annuisce, calandosi il
cappuccio. I nostri passi
affondano nella neve candida. Ci inerpichiamo sotto il cielo azzurro.
Il gruppo
di caduti si staglia su sfondo color ruggine: gli sciacalli alieni sono
intenti
a depredare uno di quegli affari che i criptarchi chiamano
“aereoplani”. Faccio
un cenno ai miei.
«Sciono pronto» dice Wedge. Biggs fa un cenno
d’assenso.
Teniamo le armi ben strette sotto i vestiti di stracci, rosi dalle
tarme. Siamo solo insonni, solo insonni –
mi
dico nella testa. E, a dirla tutta, la mia testa non sembra capirlo
così bene quel
concetto. Sudo freddo sotto il cappuccio. I mirini dei reietti si
posano su di
noi. Iniziano a saltellare sul posto cantilenando «Sheeib,
sheeib!».
Un
saccheggiatore mi scruta con i suoi quattro occhi gialli
«Oberesib, ma’chulaas»
dice agitando le quattro braccia verso di noi. I reietti si guardano a
vicenda,
avanzano verso di noi. Le loro due mani puntate su di noi.
Alzo le mani.
Sorrido. Venti metri di distanza. Sotto quelle che erano gocce son
condensate
in un piccolo torrente che mi scende sugli occhi.
Sbatto le palpebre. Quindici
metri. Biggs scricchiola a ogni passo.
Stringo i denti. Dieci metri. Wedge
continua a ruminare. Mi caccio in gola un respiro profondo; ne butto
fuori uno
della stessa misura.
Cinque metri. L’apri pista dei reietti fiuta verso di me,
scuote la testa, indietreggia «Yuzaab! Nasissaga!
Nasissa..».
Scatto verso di
lui, liberandomi dei cenci: niente giacca da insonne, niente intralci
nei
movimenti. E la libertà di movimento mi serve. Anni prima,
fra la neve e
edifici crollati, avevo trovato un vecchio libro. Caratteri simili a
disegni si
accavallano per descrivere le mosse di sagome in battaglia. Non
conoscevo
quella lingua, non ancora, ma la battaglia, quella, la conoscevo fin
troppo
bene. Nel tempo e con la pratica avevo appreso tutto: le tecniche
dell’antica
disciplina, come la sua lingua. Ju-Jitsu.
L’Haito Uchi non era stato creato per lacerare le corazze
nemiche: il palmo
della mano aperto e la torsione dell’anca avevano un
obiettivo primario:
sbilanciare l’avversario. Io l’avevo reso
secondario: l’obiettivo primario era
diventato di natura decisamente più letale.
Il palmo attraversa la corazza e la
carne dell’avversario, aprendogli un abisso nel petto.
L’alieno non è riuscito
neppure a esalare un fiato. E’ dura fare una cosa, una qualsiasi cosa, quando ti strappano il
cuore. Ritraggo la mano,
gettando il pezzo di carne palpitante a terra. Un altro nemico scatta
verso di
me. Falcio di gambe, un movimento circolare che lo sposta dal suo punto
d’appoggio. A tutti gli effetti, glielo strappa.
L’alieno crolla a terra
portandosi le mani sulle gambe rotte. Punto la canna del Mk 37 sotto la
sua
giugulare. Armo il grilletto. «Ultime parole?».
«R’assib!»
ansima il mostro.
Faccio fuoco. La testa del caduto, semplicemente, cessa di
esistere. Il calibro del proiettile la maciulla da parte a parte,
spargendo
viscere. Il corpo fa un paio di spasmi post mortem, poi smette di
agitarsi.
«Proprio delle ultime parole del cazzo» dico
ricaricando il cannone portatile.
Gli
altri reietti ingaggiano
il fuoco. Troppo tardi: Biggs e Wedge hanno un vantaggio tattico. E sono dei veterani. Biggs atterra sopra
un nemico, spappolandolo sotto il peso della sua mezza tonnellata. Le
sue
braccia d’acciaio serrano nella loro presa la testa di altri
due reietti. Dai
gomiti dell’exo sale una leggera voluta di fumo. Le ossa
degli alieni iniziano
a scricchiolare. L’exo stringe la presa con un ringhio. Crack. I due alieni smettono di agitarsi.
I loro crani
completamente schiacciati sono quasi comici. Quasi.
Wedge ci copre con dei fumogeni «Sciete tutti
miei, defiscenti! Miei!». Il suo fucile d’assalto
canta una nenia di morte.
Sollevo il cannone puntandolo
contro il
reietto che era avanzato verso di me silenziosamente. Il proiettile gli
apre un
altro buco per respirare, direttamente in fronte. Altri grumi di
materia
cerebrale aliena vanno a sommarsi a quelli dispersi sulla neve.
«Wedge,
altri fumogeni! Dobbiamo caricarli!» ordino io. Lui
obbedisce, diffondendo nubi
grigie a furia di esplosioni. Facciamo fuoco a volontà.
Quando la nebbia si
rialza, oltre ai reietti, ci sono anche cinque saccheggiatori morti a
terra:
crivellati. Il fucile d’assalto di Wedge ha dispensato la sua
giusta dose di
piombo.
I saccheggiatori rimasti ci
puntano i fucili elettrici contro. Ai lati, sopra, persino sotto
oltrepassando
un vecchio tombino, i robot ronzanti chiamati "stiletti" in un eccesso
di cattivo gusto ci circondano.
«S’assiba restia. S’assiba,
s’assiba!» ringhia uno di loro. Dai resti del
rottame, dal buio, arrivano dei
tonfi. Clang, clang. Qualcosa si avvicina. Biggs e Wedge guardano nel
nero a
occhi spalancati per il terrore. Quattro occhi rossi mi fissano, dalle
tenebre.
Brillano come quelli dei gatti. L’alieno, il saccheggiatore
più grosso che
abbia mai visto, esce fuori a passi lenti e maestosi. Tatuato, su una
delle
quattro braccia, ha un segno rosso che sembra una corona. Oltre al
respiratore
fissato alla bocca non sembra indossare nessuna corazza, solo parte
dell’armatura inferiore. «S’assiba
desul» dice il saccheggiatore più piccolo.
Il nuovo arrivato unisce le quattro mani sino a comporre un cerchio.
L’altro
saccheggiatore si fa da parte. Gli alieni fanno un passo indietro. Il
gigantesco alieno mi indica. «S’assiba
–dice- dua…due… duiello».
La sua voce è persino più roca di quanto mi
aspettassi.
«Penscio voglia un
duello» mormora Wedge. Respiro
profondamente. Altrettanto profondamente espiro. Getto il cannone
portatile fra
le neve.
«Che diavolo fai?» domanda Biggs
con il dito che trema sul grilletto.
Metto una mano sul suo fucile, glielo abbasso «Mi libero del
superfluo»
svito la corazza. Il gelo della Russia antartica mi entra nei polmoni.
Ogni
respiro è fuoco liquido.
«Scei scicuro scia una buona idea Jesce? Il basciatardo
è del casciato
dei diavoli».
E’
la prima volta in cui Wedge dice il mio nome. Avrei preferito non lo
facesse.
Mi
tolgo il casco. I miei dread grondano sudore. Imbraccio le lame,
posizione
d’ingaggio, presa ricurva. Il mio avversario accende le sue
lame energetiche
con un crepitio. Le scintille azzurre che le avvolgono mi fanno capire
che, a
differenza delle mie lame di titanio, le sue se mi sfiorano mi faranno
molto,
molto più male. Sorrido. Io, nelle situazioni di pericolo,
sorrido sempre
«Fatti avanti bestione». Lui ringhia e si avventa
contro di me. Una lama mi
schiva a pelo, facendomi fischiare un orecchio. Le altre tre cercano di
raggiungere il mio petto. Schivo proiettandomi in avanti, con una
capriola. Non
è stata una buona idea: l’impatto con la neve
è uno shock. Mi rialzo
intirizzito. Lui mi fissa attento.
«Siamo fottuti» un’ affermazione quella
del
mio secondo. Pronunciata con un tono artificiale che vorrebbe essere la
sua
versione del “beh, è stato carino
conoscervi”.
Scuoto la testa. Il caduto, simile a un gigantesco ragno, sta per
scattare. Lo sento. Mi lancio sul
fianco proprio quando lui si avventa verso di me così veloce
da far fischiare
l’aria. L’alieno si volta verso di me con un nuovo
rispetto negli occhi.
Probabilmente erano in pochi a sopravvivere a quel colpo. Ghigno. Lui
ringhia,
avventandosi di nuovo. Stavolta non mi faccio da parte, eh
no. Gli corro incontro. Salto appena prima
dell’impatto. I suoi
quattro arti puntano dalla parte sbagliata. Taglio, sbrindello, lascio
che le
mie lame cantino la loro canzone di metallo. Un braccio del comandante
crolla a
terra, reciso.
«Sciai, una volta ho
scentito di un tizio chiamato Jesce del sciorriso».
«Mh? No ti sbagli, non può
essere lui, non è possibile» fa
Biggs.
L’alieno del casato dei diavoli, nobile fra i suoi simili
salta. Tre,
quattro, cinque metri. Scende verso di me, con il suo peso di
cinquecento kg.
Sollevo il suo braccio; l’arma energetica funziona ancora.
Rotolo appena prima
del suo impatto, lasciandogli il mio dolce ricordino. Il figlio di
puttana
finisce trafitto dalla sua stessa arma. Scariche elettriche si dipanano
dalla
ferita nel petto. Il suo corpo trema, burattino delle convulsioni.
«Scecondo me
è molto poscibile».
Salto su di lui, colpendogli la testa con il manico di uno dei miei
pugnali. Il caduto cade all’indietro.
«Ti credevi forte? Questo è il potere
dell’umanità. Non sottovalutarci». Gli
punto il coltello contro il respiratore. Taglio. Lui si rialza a
stento, agitato
dal bisogno ossessivo di non morire, ma è tardi, fin troppo
tardi. I suoi occhi
rossi si spengono, il suo corpo enorme crolla con un tonfo.
Mi passo
una mano fra i capelli. Ho vinto.
Il
momento sembra cristallizzarsi: noi da un lato e dall’altro
gli alieni che ci
guardano immobili, basiti. Poi, un reietto grida
«Ass’sham, ass’sham!».
I
nemici ci puntano contro le loro armi. Guardo Biggs «Potrei
quasi dirti che è
stato un piacere».
«E io che è stato un
onore, biologico. Quasi» dice lui. L’exo mi sta
sempre più simpatico.
Chiudo gli occhi: i Deus Ex Machina non
arrivano mai quando servono. Ora non mi resta che morire. Spalanco le
braccia
come fossero ali. Magari,
dall’altra
parte, si vola veramente. Sarebbe bello: essere dispersi nel cielo
azzurro
trascinati solo dal vento. Il momento si infrange.
Seguono spari, molti
spari. E grida, molte grida.
Non sono
nostre.
Sbatto le palpebre. Gli alieni sono crollati a terra, maciullati da
proiettili al tugsteno. Intorno a noi tre ci sono gli insonni che
avevamo
salvato, tutti armati. Una fra loro, la
donna, viene verso di me.
Punta i suoi occhi
verdi nei miei e annuisce. «S’assiba Hume.
Namae?».
Mi batto un pugno sul petto «Jesse –la indico-
tu?».
Il
sorriso di lei, sotto il sole invernale, è di un calore che
mi spazza via
qualsiasi altro pensiero cosciente «Xana – si batte
il pugno sul petto e
continua a sorridere. A sorridermi-
Xana».
Lei
ricorda.
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Capitolo 6 *** VI ***
Nuova Genesi - 06
VI
Estratto
dal diario di Adam Cambria, zio del “capitano”
Jesse Cambria.
Siedo
sull’orlo dell’abisso; dico, durante la pausa
pranzo.
Mentre gli altri criptarchi traducono, parlano fra loro, eventualmente
mangiano. Ecco: io invece me ne sto lì, sul ciglio, a
duecento metri d’altezza.
Me ne sto lì a riflettere. Penso a cosa gli altri
vedano.
Prima
subentra la
spiegazione scientifica e razionale: il terreno è venuto
fuori dal contatto di
placche tettoniche, dal loro scontro e dal conseguente grumo che ha
generato
fiumi, montagne e pianure. Un po’ come quando lasci un
tappeto in disordine,
con tutti i suoi bozzi fuori, in bella vista. A un livello sociale
è persino più
semplice: noi, esseri umani, padroni del
pianeta, abbiamo creato questa magnifica città. E, un
po’ meno magnificamente,
ci siamo chiusi dentro a doppia mandata quando sono arrivati gli alieni
cattivi. E così, dai tanti, tanti mondi che avevamo, questa
è diventata la
nostra nuova realtà.
Facile
pensarla
così, sì? I miei colleghi la pensano
così; loro sul ciglio dell’abisso vedono
questo. Loro.
Io, chissà come mai, la
penso diversamente. Forse dipende dal fatto che sono un Cambria. La
nostra, è una
famiglia nota per la sua eccentricità e durezza. Forse, e
non è detto che la
cosa non sia strettamente connessa alla precedente, è
perché sono un uomo
spezzato. Me ne rendo conto, a modo mio. Perché quando io
vedo sul ciglio
dell’abisso non vedo il paesaggio che mi sta davanti. Non
vedo la grande, gloriosa, ultima
città.
Io ci vedo la
natura che fa il suo corso.
Una volta la terra era il territorio dei dinosauri;
rettili che si elevavano per metri e metri d’altezza.
Predatori ed erbivori,
poco importava, alla fin della fiera, il mondo era tutto loro. Poi la
natura
fece il suo corso. Un meteorite vagante penetra
nell’atmosfera. Boom. Distrugge
tutto e tutti. L’evoluzione procede: vengono fuori i
mammiferi. Poi le scimmie.
Poi, stando ai libri dell’età dell’oro
su cui ho messo le mani, siamo arrivati
noi. Ecco, noi. Noi. Nessuno mi
capisce, non veramente, quando dico
che noi violiamo l’equazione.
Le altre razze prendono e vivono in equilibrio, i
predatori piuttosto che gli erbivori, loro sanno starsene nel loro
ecosistema.
Noi invece lo sputtaniamo il dannato ecosistema. Ci arroghiamo a
signori e
padroni e dopo prediamo tutto e tutti. La cosiddetta età
dell’oro non era altro
che un bel modo per dire che noi zampettavamo, infettavamo
nuovi pianeti.
Prendevamo un ammasso di roccia senza
atmosfera o con atmosfera densa e lo cambiavamo come volevamo
noi.
Perché?
Per
avere nuove risorse da consumare. Siamo un virus. Ecco, l’ho
detto.
Noi siamo
un dannato virus. In questa escalation ci siamo sostituiti a Dio,
ammesso e non
concesso che un Dio esista. Come Dio abbiamo detto “che gli
Exo siano!”. E gli
Exo sono. E, guarda un
po’ che
novità, sono a nostra immagine e somiglianza. Uno sbaglio
dell’evoluzione che
perpetra un altro sbaglio. Ma la natura, si compensa sempre, oh
sì. Ed ecco gli
alieni. Razze sconosciute che ci danno la caccia, che ci vogliono
morti.
Ogni
giorno, durante il mio pranzo, siedo su quel ciglio e mi domando
perché non
salto. Un passo e la gravità, in tutta la sua schiacciante
onnipresenza, mi
farebbe volare per qualche centinaio di metri. E dopo mi finirebbe.
Basta con i
pensieri, sì? Ogni giorno, durante il mio pranzo, realizzo
che non ne ho il
coraggio.
A
che serve ormai? Forse siamo già tutti morti. Forse dopo una
vita da parassiti
eccoci qui, all’inferno.
E i Caduti, l’Alveare, tutti quei maledetti tizi, sono
i nostri diavoli personali. Il Viaggiatore? Il nostro falso idolo. O
forse la
nostra morte di Dio. La prova che quel pazzo di Nietzche dopotutto non
era così
pazzo. Chi decide, eh? Noi? Loro? Chi è nel giusto o nello
sbagliato? Chi si
lascia conquistare o chi conquista? Rubiamo da millenni, ma ora siamo
tutti
innocenti quando qualcun altro ha avuto la bella idea di fare
altrettanto?
Quello che
non reggo è l’ipocrisia. Se i Guardiani dicessero
che combattono per sé stessi,
per guadagnarsi il pane e darsi un senso qui, in questo vuoto, allora
capirei,
davvero. E invece no. Loro combattono per la luce.
Luce contro oscurità, eh certo. Bene contro male,
altrettanto
vero. Maschi contro femmine. Vita contro morte. Quanti dualismi, quante
illusioni.
Prendiamo
me. Sì, ecco, prendiamo me. Me. C’era una volta,
tanto tempo fa, in cui avevo
una cosa che mi dava un senso.
Si chiamava Jessica.
La guardavo all’accademia,
mentre studiava sui suoi libri, con la sua bella fronte
aggrottata.
I suoi
capelli castani che circondavano un bel viso da angelo
dall’incarnato scuro. Mi
domandavo cosa si celasse in quei suoi occhi nocciola. Mi immaginavo
mille
possibili scenari, chiedendomi cosa avrei potuto dirle e che reazioni
avrebbe
avuto.
Poi arriva Jimmy. Quello più in gamba era sempre stato lui:
io a fare il
criptarca, lui a fare il guardiano. Più bello,
più nobile, più forte. E così
qualcosa finì per destare delle reazioni in Jessica: qualcuno.
Mio fratello.
Nella mia visione d’allora, il mio
fratellino era diventato l’ostacolo insormontabile fra me e
la felicità. Nella
mia visione da insetto, credevo che lui mi avesse tolto qualcosa dalle
mani.
Ecco il succo del discorso: togliere
qualcosa.
Ma Jessica non era una cosa, e tantomeno mi apparteneva. Ma nella
mia visione prepotente e egoista io la presupponevo come tale.
Era amore?
Era
davvero l’amore di cui la gente si bagna la bocca?
Poi arriva l’occasione, eh
sì, perché un’occasione arriva
sempre.
Mio
fratello decide di andare al Divario
del Tramonto, ci giura che ci salverà tutti.
E così, mentre mio fratello muore
in guerra, io vado con l’oggetto del mio desiderio. Viene
fuori che io desidero
Jessica quanto lei desidera me. Lui, il migliore, muore. Io, il
peggiore vivo,
e ottengo Jessica senza aver mai fatto veramente qualcosa per
averla.
Questo è
giusto?
Siamo
un cancro. Noi e la nostra umanità. E questo peso, questa
colpa
prima, la passiamo alle nuove generazioni.
Nascono già colpevoli, già complici.
Anche Jesse.
Ha gli occhi della madre, quella sua ferinità di movimenti.
Ha il
fuoco di mio fratello negli occhi e negli ideali, la sua sanguinaria
risolutezza. Ed eppure è inconsapevole, proprio come Jimmy.
Se glielo dicessi,
cosa cambierebbe in fondo?
Basterebbe prenderlo da parte e dirgli “Jesse, sono
tuo padre”. Sono solo quattro parole, sì? Il sole
smetterebbe di brillare e la
terra di ruotare? No, certo che no.
Comparata alla grandiosa dimensione delle
cose noi siamo solo corpi di carne che si convincono di avere
un’anima, un
senso, una personalità. Ed eppure, bisogna riconoscerlo,
alcuni sono più deboli
di altri.
Perché io, davanti a mio figlio, sono esattamente nella
stessa
posizione della mia pausa pranzo: ho troppa paura.
Ora Jesse ha detto di voler
conquistare il Divario del Tramonto. Ci
riuscirà? Non ci riuscirà?
Aspetta un
figlio, e quindi un altro povero essere si addosserà le
nostre colpe, vivendo
in questo purgatorio o inferno che voler si dica. Questa è
la sua motivazione.
E’ giusta? No?
Ho scelto di fidarmi del suo
fuoco. E ora ho una paura ben peggiore della gravità che mi
spappola a terra, o
di vedere la natura che finalmente compie la sua opera ultima.
Ho la paura di
ogni padre: il terrore di dover seppellire mio figlio.
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Capitolo 7 *** VII ***
Nuova Genesi - 07
VII
Stringo il metallo
lucido. Fra le mani il mio Mk 32 sembra avere acquistato il doppio del
suo
peso. «Credete che finirà?».
La mia domanda riecheggia nel corridoio buio
«Coscia?».
«Tutto» faccio io. Mi gratto la barba
«Tutto» ripeto.
Biggs mi
guarda «Capitano, sei strano».
«Mph. Quanto prima di arrivare?».
Wedge
alza una mano. Smettiamo di parlare. Rumore di spari dietro di noi.
Intorno a
noi. Nei corridoi circostanti urla picchiano e risuonano fra le pareti.
«Squadra Delta? – mormora Biggs- squadra
Delta?».
«Fzzzz».
«Merda!»
Biggs smanetta con la ricetrasmittente – Bravo? Ci ricevete?
Tango? Omega?».
Nessuna risposta: solo un crepitio statico.
L’uomo di metallo continua a metterci mano, continua a
pigiare tasti, ad
accendere spie. Metto una mano sulla sua spalla. Al contatto, la sua
pelle è
calda come la nostra. «Basta – dico- basta. Sono
andati».
«L’intera
squadra?! Non è possibile!» sussurra Biggs. Nei
suoi occhi rossi c’è il
terrore. Li abbiamo creati per la guerra.
E guarda qui il suo terrore alla perdita di un amico. Spiacente
compare, ti
abbiamo reso fin troppo umano. Ora
sei
fallibile come noi. Già – penso a lei- fallibile
come noi.
«Capitano?- domanda
Wedge –sono morti? Tutti morti?».
Scuoto la testa «Non è detto. Magari le
comunicazione sono semplicemente
interrotte. O magari hanno perso il modo per contattarci. Ora
però – faccio un
cenno al corridoio scuro- dobbiamo andare avanti. Ricordati la nostra
priorità».
«Jesse – mi guarda- non ce la
faremo».
Sorrido
triste «E quando mai avevo detto il contrario? Eravamo
pronti, no?».
Arlan, il quarto annuisce. Il suo cappuccio fruscia al movimento.
E’
muto, ma sa farsi capire.
«Eravamo pronti scì. Capitano. Coraggio, ci sciamo
quasci» Wedge ci fa
strada.
Condutture
e ammassi di cavi d’acciaio ci accompagnano
nell’intrico. Mi incammino. Per
qualche strana ragione il cuore mi batte a mille. Cattivi presagi e
cattive
azioni. Scendiamo verso il centro della terra, sotto tonnellate di
lamiera e
acciaio, di ruggine e caduti. Sempre più lontani dalle
stelle, sempre più
inchiodati verso il nucleo. Wedge ci conduce avanti senza dire una
parola. Non
mastica neppure tabacco. Il mio exo preferito, invece continua a
gettare
sguardi all’indietro. Arlan è l’unico
imperturbabile, con il viso ridotto a un
gioco di chiari e scuri fra le ombre del cappuccio. Wedge si ferma
«Sciamo
arrivati». Guardo lo spiazzo in cui siamo giunti:
un’enorme piazza mezza
franata, piena di acqua grumosa e muffa.
«Sei sicuro?».
«Scì. Però.. è
insciolito».
«Cosa?» interviene Biggs.
«Voglio dire, non sciamo entrati un po’ troppo
fascilmente? Dovremmo già
avere incontrato dei caduti, tanto sciamo scesi in bascio».
Qualcosa brilla fioco sul fondo, lo distinguo fra le tenebre: un occhio
rosso. «Attenti! – grido estraendo la pistola-
è una trappola!».
Arlan mi mette una mano sulla spalla. I suoi poteri si azionano: il
vuoto, il divorante e folle potere del vuoto, mi tiene fermo. Non posso neppure muovere un muscolo.
Il
mio exo si volta verso di me, aprendo la bocca. Si guarda stupito il
petto,
dove un enorme squarcio rivela circuiti crepitanti.
«Capitan..» crolla a terra.
Olio s’allarga come una pozza di sangue.
Grido. Almeno credo. Il mondo diventa
sempre meno nitido.
Wedge
continua a colpire, a colpire duro. «Maledetto traditore! Che
tu scia
maledetto, inscionne!».
Arlan dietro di me ride «Siete così stupidi, voi
umani. Così stupidi».
Schiocca le dita.
Il
riverbero degli spari riempie il sotterraneo. Wedge cade a terra; una
marionetta di carne cui sono stati recisi i fili. Guardo i miei amici
morire.
Provo a dibattermi, a fare una qualsiasi cosa. Penso a lei,
penso alla mia famiglia. A mio figlio. Niente da fare: la
presa dello stregone è qualcosa di assoluto. Davanti a me il
caduto del casato
si avvicina. Mi solleva il mento con una delle quattro mani, mi studia.
«S’asshab dinah – si volta verso una
figura incappucciata emersa dalle tenebre-
Nevah su’spa».
«Derioh
tanah Gervollah. S’asshab nemo – risponde la figura
con una voce familiare- lui
è più forte di quello che tu pensi». La
figura avanza verso di me «Non è vero?».
Si toglie il cappuccio.
Stacco. La testa gira. La testa ronza.
«No» lacrime mi bagnano le guance
«No..» sussurro di nuovo.
I suoi occhi verdi
mi fissano. Lei mi fissa
«Invece
sì».
«Perché?» le mie labbra tremano.
«E’ un incubo?». Sì, deve
esserlo.
«Siamo
guerrieri Jesse. C’è chi è in prima
linea – mi appoggia una mano calda sulla
guancia – e chi si infiltra oltre le linee nemiche».
«Mi avevi
detto che avevi deciso di lasciarti la Regina alle spalle! –
grido- me l’avevi
detto!».
«Mentivo»
ritrae la mano.
Avevo
sempre creduto che sentire il proprio occhio bruciare, con le fiamme
che
scavano e spingono scariche di dolore fin dentro al cervello, fosse il
dolore
più grande che potessi provare in tutta la mia vita. Mi
sbagliavo. Guardo la
donna che amo. La guardo in tutta la sua perfezione e bellezza, con
tutta la
disperazione di cui sono capace. Davanti alla sua espressione
indifferente
sento il mio cuore creparsi. Lo sento spezzarsi.
«Perché?» domando di nuovo,
lascio ciondolare la testa, le lacrime offuscano qualsiasi cosa.
«Eravamo… noi
eravamo…».
«Tu non sai proprio nulla, eh Jesse? C’è
un motivo se la tua famiglia è
così letale e così pericolosa. Credevi davvero
che la città fosse l’ultima
speranza? Che il Viaggiatore avesse ricorso solo a cose come la Voce o
i
Guardiani? No, certo che no – fa una pausa, appoggia le
labbra al mio orecchio
– ce l’hai nel sangue. E’ scritto tutto
qui – mi sfiora il petto con un dito- E
ora, quell’arma – si appoggio una mano sul grembo-
è in mano nostra».
Chiudo
gli occhi. «Interrogatelo- dice -dopo uccidetelo».
Sento i suoi passi allontanarsi,
dietro di me. Lontana lontana, perduta. Perduta.
I
nemici caricano le armi. Il caduto del casato avanza verso di me.
In mano ha un
coltellaccio di ferro.
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Capitolo 8 *** VIII ***
Nuova Genesi - 08
VIII
Quattro
Anni Prima
«Esciliato
uh? – Wedge sputa una ciccata nera- e
chiscenefrega».
Il tramonto riflette sul ghiaccio d’una malsana luce rossa.
Sembra una
ferita.
«Ho fatto le mie scelte, non
me ne pento. Voi invece – li guardo- perché siete
qui?».
Biggs sogghigna
«C’è piaciuto lì fuori,
signore».
«Macché Scignore?
Lui è un capitano. No ragascio? Non scei tu che per tutto il
tempo durante il
tuo ritorno sciansciavi riguarda a un scerto Sci..
scio…».
«Giovanni» conclude Biggs.
L’altro grugnisce «Scì, quello
lì. Forsce è desc… desc..».
«Destino?».
«Come disce il robottone».
«Biologici»
Biggs scuote la testa. Si sorridono a vicenda.
Mi sorridono.
«Un capitano?» domando io,
guardandoli. «Io?».
«Perché no? In fondo sai combattere
– una voce femminile ci raggiunge da
dietro – per essere un umano».
«Tu».
«Io – conferma lei- e sei anche leale a quanto
sembra. Perché non hai
detto alla tua gente che non ho perso i ricordi?».
«Qualsiasi cosa sei venuta a fare, mi hai
salvato la vita. Non
dimentico».
Mi lancia un’occhiata languida «No, certo che no
– le sue labbra piene
si aprono in un sorriso- tu non dimentichi».
«Quindi
come dovremmo chiamarsci?».
Guardo la neve; si
estende sterminata per km e km. Le montagne sfidano il divino,
ergendosi verso
le stelle. Stringo la mano intorno al mio anello. Una
stella un desiderio.
«Noi oggi saremo le Bande Nere. Saremo il lutto dei buoni, il
funerale
degli onorevoli, i becchini di ciò che era bello e giusto.
Saremo l’avanguardia
dei rifiutati; coloro che apriranno la porta e fronteggeranno la paura,
la
disperazione, tutto quello che verrà- mi volto verso di loro
– e ce lo faremo
andare bene. Lasciamo che le cose ultime vengano. E che restino in
pace».
«In
pace» dice Biggs, guardandomi con i suoi occhi rossi.
«In pasce» dice Wedge fra i denti, annuendo
sommessamente.
«In
pace» dice lei, sorridendomi con le labbra piene.
L’orizzonte sembra
tenere in
scacco i nostri futuri. Oltre quella linea nessuno sa cosa ci sia.
Luoghi che
nessuno ha mai visto o visitato, meraviglie antiche e pericolose.
Un giorno – mi riprometto- un
giorno.
Accendo una sigaretta. «In pace» mormoro.
Le Bande Nere si radunano intorno a
me. Ci avviamo.
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Capitolo 9 *** IX ***
Nuova Genesi - 09
IX
Decadimento
e discesa. Una spirale che mi trascina
giù, inchiodandomi ad una croce.
Il Cristo si
era sentito così, quando era stato tradito?
Osservo coloro che mi
stanno uccidendo. Li guardo dalle mie palpebre tumefatte per i calci
del
fucile. Le cicatrici su petto e schiena bruciano. Sangue scorre fuori
dalle
ferita, imbrattando il mondo di rosso. Il mio rosso. Una smorfia
deforma le mie
labbra spaccate.
Fiumi e fiumi di sangue, e per
cosa?
Il
caduto mi incide un lato del costato. La lama penetra dentro di me con
un suono
viscido. La sento rigirarsi fra le budella. Mi mordo le labbra per non
urlare.
I denti lacerano croste secche. Il sapore metallico del sangue mi
fionda in
gola.
Forse siamo già tutti
morti.
Dei chiodi mi fissano contro una superficie
fredda. Il ferro arrugginito mi attraversa le ossa e le articolazioni.
Scariche
di dolore mi tengono in un costante dormiveglia.
E
forse questa è la nostra punizione. Troppa arroganza.
Abbiamo voluto
controllare l’universo.
L’ossigeno manca: non
sale alla testa e ogni respiro è una lotta vinta a malapena.
Nell’aria vibrano
colori: arancio, azzurro, ma soprattutto viola. Una luce che pulsa al
ritmo del
mio cuore.
Non abbiamo mai considerato come l’universo
controlla noi.
Il
caduto continua a tagliare. Lembi di carne stravolti, allucinati,
pendono in
pieghe grottesche.
Esiste un Dio, là
fuori? Forse lo scopo del
Viaggiatore dopotutto non era elevarci: voleva punirci.
«Puoi farlo smettere quando vuoi,
Jesse. Devi solo dirmi le coordinate dei generali.
Nient’altro».
Il suo fiato mi soffia
nell’orecchio «E dopo, tutto questo dolore
finirà, te lo prometto».
Qualcosa
si incrina e si spezza. Frammenti di quello che ero mi circondano come
bolle
d’aria. Socchiudo gli occhi.
Forse la morte è un grande oceano:
pieno di bolle. E di silenzio.
Il dolore sordo continua. Il dolore sordo pulsa. Il dolore sordo sente. Fitte lungo lo
stomaco e il costato, lì dove
il rosa è divenuto una nube color porpora. Sprizza e
sprizza, il sangue che mi
scorre. Una pioggia rossa che non posso fermare. E forse nemmeno lo
voglio più.
«Una promessa – sta dicendo lui- è una
promessa. Tu ci dici quello che vogliamo
sapere e noi ti lasciamo andare».
Andare? Tutto è
già andato.
Promessa? Menzogne basate su falsa testimonianza e falsa speranza.
Speranza? La
mia, di speranza, ha varcato la soglia di questa stanza ore, giorni,
forse anni
fa. Vallo a capire. E’ persa, la speranza.
Una
voce che non è una voce riecheggia nella mia mente. «No» dice.
«No cosa?» penso
io.
La
voce ancestrale mi picchia nelle tempie «La
speranza brilla, figlio».
Gemo. Ma non per il dolore. Non quello fisico almeno. «L’ho
persa».
«No» risponde di nuovo la voce.
«No?».
«No».
«Cosa
mi resta? La guerra? La battaglia selvaggia contro di lei? Che
rimane?».
«Il futuro».
«Meglio l’oblio del dannato futuro».
«Sei
prescelto in nuova genesi, figlio – rivela la
voce- il tuo destino giace fra le
stelle».
«Che vada alle ortiche il destino – penso-
e anche tu».
Nuove scariche di dolore. Elettricità statica mi attraversa,
facendomi prendere da spasmi. Carne martoriata, non più
corpo. Coscienza sul punto
di smarrirsi, non più mente. Una bocca ringhia dal dolore.
La mia. «E comunque chi
sei?».
«Il Viaggiatore, figlio».
«Non
sono tuo figlio».
«Sei carne
della mia carne, generato per uno scopo».
Apro gli occhi. L’odore della putrefazione, della mia stessa
carne
bruciata, si disperde nell’aria. Il fumo si scosta. Oltre i
caduti, oltre lo
scantinato in cui mi ritrovo, ben oltre. Una sagoma appena tratteggiata
mi sta
innanzi. «Cosa…».
«Il
tradimento e la caduta presagiscono rinascita. Risvegliala».
«Tu… cosa?» mormoro.
«Serviva una connessione diretta. Tu sei
l’emblema del futuro. In te v’è la luce
prima».
«L-luce?».
Il
mio torturatore mi tira uno schiaffo «Di’ qualcosa
di sensato» dice.
«Ricerca la luce, guardiano. Un giorno i miei spettri
troveranno e
genereranno altre nuove connessioni. Ma tu sei il primo. Risvegliala».
Chiudo di nuovo gli occhi. Mi concentro sul mio respiro. Tiro dentro
e butto fuori. La mente si inizia a schiarire. «Così»
dice la voce. La
mia
carne diviene corpo. La mia coscienza diviene mente. La mia anima
diventa luce.
La sento: calore rovente mi brucia nel petto.
«Prendila».
Mi lascio
scorrere la luce lungo le vene. La guido nelle diramazioni della mia
testa,
delle mie braccia, delle mie gambe. Un bagliore che mi scorre intorno,
dentro,
fuori. Divengo folgore.
«Usala».
I
chiodi si fondono fra le mie mani. Sono calore in forma umana.
Risplendo e
avanzo. Il caduto e l’insonne mi guardano con aria stupita.
Intorno a loro sembra
esserci una cortina oscura. Faccio un passo avanti. Concentro la luce
nella mia
mano.
«Richiamane la
forma».
Fra
le dita prende vita nella forma che più mi è
consona. La lama di luce canta fra
le mie mani.
«Liberane
la potenza».
«D’ashalla!»
il caduto del casato corre verso di me. Muovo il coltello in avanti: il
fulmine
è un’esplosione abbagliante. Quando la luce
sfiorisce lui è solo cenere.
L’insonne cade all’indietro, protende una mano
verso di me «No, no! E’ stata
un’idea sua! Mi hanno costretto, capisci?».
Il muto non era così
muto. Niente luce per lui. Non se
la merita lui.
Prendo una spranga di ferro in terra. La mia preda squittisce dal
terrore,
ritraendosi contro il muro.
Colpisco la sua testa con un colpo secco.
Una
volta, due volte, tre volte. Arranco, riprendo fiato. Colpisco di
nuovo. E
ancora. E ancora.
Quando ho finito la sua testa ha cessato di esistere:
c’è
solo un grumo indistinto di rosa e rosso. Lascio cadere la spranga con
un
tintinnio.
«Per di qua». Seguo la
sagoma, guardandola ronzare davanti a me, una forma simile a un occhio
nella
penombra. Inciampo nel pavimento disgregato, rotolando
nell’acqua putrida. Mi
rialzo barcollando sulle mie gambe.
«Manca
poco» mi rassicura la voce. Seguo la sagoma. Ogni
passo è un dolore che
infiamma reni e viscere, sollevo la gamba sembra sempre più
pesante, più vicina
all’ultimo sforzo. Sgrano gli occhi: la console dei comandi
mi sta innanzi.
«E’ già tutto pronto, premi il bottone
rosso».
Lo pigio, il bottone rosso. Sullo schermo lettere formano parole:
Runtime
1080101:
Programma
Spettro avviato
…Attendere
…Subroutines
di difesa avviate
Un
enorme clangore scuote la terra. Pietrisco crolla
dal soffitto in una polvere sottile, mentre il mondo intero
scricchiola. Da un
spiraglio sul soffitto crepato, vedo la luce del sole.
Un’enorme torre e una
parabola lo oscurano un attimo dopo. Il
rumore di spari riempie il mondo. Le enormi torri fanno fuoco.
Rilascio_route_0686967_in_corso…
..attendere…
..attendere..
..stato
programma: ..operativo.
..avvio
spettri eseguito.
Crollo
sul pavimento. Macchia rossa sotto di me. Sangue: molto sangue. Penso.
Alzo.
La. Testa. Sagoma. Di fronte. Corpo
non risponde.
«Hai
fatto quello che dovevi
guardiano. Ora verrai trasferito. Un giorno la tua luce
tornerà a brillare. E
quel giorno, ci porterai il futuro».
Mano.
Scompare. Occhi. Chiusi. «In… pace».
Sussurro.
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Capitolo 10 *** Epilogo ***
Nuova Genesi - Epilogo
Epilogo
Nel
nero non c’è luce. Nel nero non
c’è calore. Nel
nero non c’è corpo.
C’è solo coscienza. Orbito
in spirali di diversi tipi di buio. Contemplo la vita e i ricordi del
corpo in
cui risiedevo. La mia anima ha vaga coscienza di sé. Sono
sospeso fra momenti
di consapevolezza e silenzio.
Nel nulla c’è pace. Ma non, non,
compimento.
Nel
buio assoluto compare una crepa. Una sorta di spiraglio da cui spira
vento e luce.
«Guardiano..». Alzo
una mano. Le crepe si moltiplicano
tendendo il buio oltre un punto di non ritorno. Socchiudo gli occhi
davanti
alla maestà del sole. «Guardiano..».
Mi torna alla mente una frase: una stella, un
desiderio.
Il
nero crolla con si infrange come vetro. Sbatto le palpebre.
La sagoma è davanti a me: un occhio sospeso
nell’aria.
«Guardiano, ha funzionato: sei vivo! Non sai da quanto tempo
ti sto
cercando».
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