We'd make a lovely mess di Pwhore (/viewuser.php?uid=112194)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 1 *** Capitolo I ***
we'd make a lovely mess
Gerard
schiuse le palpebre, abituate alla penombra assonnata della sua
camera, posò lentamente gli occhi sul soffitto bianco e
espirò
attraverso le narici, lasciando colare i minuti con qualcosa che non
era né placidità né noncuranza o
disattenzione. Interruppe il suo
stato d'inerzia afferrando una maglietta nera dal cesto dei vestiti
puliti che qualche giorno prima era quasi sicuro di aver piegato e si
diresse verso il bagno, un cinque-sei passi dal cumulo di piumoni in
cui si era rannicchiato.
Quando
aveva deciso di volere una stanza tutta per sé ormai tutta
la casa
era stata arredata e non c'era stato molto da fare, quindi si era
fatto bastare il seminterrato in cui idealmente suo padre e sua madre
avrebbero giocato a carte ogni venerdì sera, accompagnati
dalle
chiacchiere controllate dei loro amici. Sua madre aveva un po' storto
la bocca all'inizio, pensando ai muri meno isolanti e alle decine di
cianfrusaglie che avrebbero dovuto spostare in soffitta, ma non si
era mai opposta al volere del figlio e si era anzi detta sollevata
dal fatto che almeno ora aveva uno spazio vitale ben stabilito,
invece di espandersi e occupare quello degli altri. E Mikey–
Mikey
aveva sporto il labbro e arricciato le sopracciglia ma non aveva
ottenuto risposta, e alla fine aveva dovuto ammettere che non poteva
obbligare il fratello a vivere nel suo mondo per sempre.
Gerard
s'infilò la maglietta al buio, spostandosi i capelli dagli
occhi con
un movimento lascivo del polso, raccattò un paio di jeans
dal
pavimento e si dimenticò di allacciarne il bottone.
Uscì dal bagno
senza premere l'interruttore della luce, privo d'interesse verso
ciò
che lo circondava; afferrò il telefono e le cuffie e li
infilò
nella tasca posteriore, scandagliando la stanza con gli occhi, alla
ricerca del suo zaino. Abbandonato ai piedi delle scale, lo raccolse
distrattamente e raggiunse il piano terra.
Il
rumore delle stoviglie guidò i sui piedi verso la cucina,
dove
riempì un termos di caffè nero, indossando una
felpa e fermandosi
davanti alla porta di casa. Aprì lo zaino e ci fece
scivolare
dentro il termos, girandosi per chiamare il fratello prima di
varcare la soglia.
«Aspetta,
ci sono!» arrivò dalla cucina, prima che la corsa
impacciata di
Mikey lo portasse a un passo da lui. «L'autobus è
già qui?»
domandò, un baffo di latte a coprirgli il labbro superiore.
Gerard
scosse la testa, pulendogli la scia col pollice e sistemandogli la
giacca. Mikey tacque, seguendo con lo sguardo il movimento sicuro
delle dita dell'altro. Gerard si staccò e lo
guardò nel complesso,
e Mikey si chiese se lo stesse vedendo davvero. Il
suono di un clacson rimbombò alla fine della via e il
ragazzo
sobbalzò, spostando il fratello di lato e correndo
attraverso il
giardino. «Ciao Gee, buona giornata!»
squittì, salendo sul pulmino
e raggiungendo i suoi amici.
Gerard
lo guardò scomparire, aspettò che il silenzio
tornasse a soffocare
il vicinato e si chiuse la porta alle spalle, fermandosi davanti alla
cassetta delle lettere. Esitò e poi l'aprì,
tirandone fuori uno
spesso involucro ocra, che si rigirò fra le mani, in
silenzio.
Chiuse la cassetta e infilò l'involucro nello zaino, senza
mettere a
fuoco. Si mise le cuffie e cominciò a camminare.
Non
era la prima vola che avevano rifiutato una delle sue storie. Provava
e riprovava ma finora non gli era andata bene neanche una volta, e il
peso dei pacchetti rispediti al mittente non faceva che schiacciarlo,
facendolo crollare sotto l'attacco delle sue insicurezze.
Respirò a
fondo. Disegnare era la sua unica via d'uscita, ma troppo spesso si
trasformava in un dedalo senza soluzione e lui non sapeva come
reinventarsi, per ottenere un paio d'ali e volare via. Del tutto,
magari.
Abbassò
lo sguardo. Odiava pensarlo quando in tanti se la passavano peggio di
lui ma aveva superato da tempo la linea tra vita e morte; erano mesi,
anni forse, che cercava di resistere e tamponare fontane di rosso sui
suoi fianchi, ma alla fine si ritrovava rannicchiato sul pavimento
ogni notte, a soffocare singhiozzi e sperare che qualcuno lo
portasse via, il battito che lo assordava e il vuoto dentro di lui
che si scagliava contro la sua cassa toracica. Cercava di stordirsi
bevendo, tagliandosi, iniettandosi quanto più potesse; e
l'avrebbe
fatto fino a morire se non ci fosse stato Mikey.
Tirò
su col naso. Mikey non sarebbe mai sopravvissuto al suo funerale
–
sempre che ce ne fosse stato uno, sempre che qualcuno oltre a lui lo
amasse abbastanza da dare una pacca sulla spalla a suo padre e
annuire mogiamente senza incrociare gli occhi vuoti di sua madre.
Mikey l'avrebbe seguito, e per questo cercava di evitare il suo
pusher quando tutto si faceva annebbiato e l'unica cosa a cui
riusciva a pensare era il turbine d'insulti che non poteva smettere
di urlarsi contro.
Si
portò la mano alla tempia e vacillò, stordito.
Dire no alle droghe
era già abbastanza difficile, affrontare le conseguenze
dell'astinenza da solo, sebbene lo facesse da settimane, poi, era
pura tortura. Si appoggiò con le spalle a un muro di mattoni
e
permise alle ginocchia di cedergli, abbracciandole e affondandovi la
fronte una volta a terra. Un altro attacco di nausea gli fece
lanciare la testa all'indietro, la gola scoperta tremante e bianca
come la neve. Riacquistò il respiro, si spinse su due piedi
e
riprese a camminare.
Già,
Mikey... ma cosa sapeva Mikey? Fino a che punto era in grado di
guardarlo negli occhi e sapere che stava cadendo a pezzi? Si era reso
conto che ormai non era più lui o pensava che
l'entità che gli
divorava le pupille fosse solo un'altra sua sfaccettatura?
Scosse
la testa. No, Mikey non poteva sapere; non l'avrebbe lasciato da solo
ad avvelenarsi e fare esperimenti con il suo corpo per tutto questo
tempo; avrebbe provato a scuoterlo, trascinarlo, avrebbe pagato oro
per la sua anima infangata in ogni momento; figuriamoci se l'avrebbe
mai lasciato lì in balia della marea.
Affondò
il mento nella felpa e proseguì a testa bassa. Passo dopo
passo il
liceo si stagliava davanti a lui, sempre più imponente e
grigio man
mano che si avvicinava, incurante delle sfumature della sua vita.
Gerard s'immaginava sentinelle, alleanze, trattati e tradimenti,
tunnel segreti e campi di battaglia mai benedetti; e forse era il
mondo fantastico che si tirava dietro e incollava su tutte le pareti
che gl'impediva di impazzire del tutto. Alzò a malapena lo
sguardo
e le porte lo inghiottirono.
«Ammetto
che dopo i temi rigeneranti del trascendentalismo,
il naturalismo possa sembrare un colpo al cuore»
cominciò la
professoressa d'inglese, la signorina Phear, «ma vi assicuro
che per
quanto scettici siate, vi appassionerete allo stesso livello.
L'esponente principale di questa corrente…».
Gerard scribacchiò
distrattamente, reggendo si la guancia con il palmo della mano, poi
abbassò lo sguardo. Un
altro supereroe.
Ricoprì il disegno di striature nere, a disagio, e si morse
il
labbro, la delusione che tornava a decomporglisi in bocca. Ma
perché
tra tutti i mondi possibili non poteva essere qualcuno di vincente
almeno in uno?
«Gli
appartenenti a questa corrente artistica possono anche essere
indicati come pessimisti, o fatalisti». Gerard
alzò lo sguardo,
sentendosi bruciare addosso gli occhi e il giudizio del resto della
classe.
«Essi
credevano nella totale mancanza di controllo dell'uomo sul suo
destino e sulla sua vita, dettati dal fato, a sua volta identificato
con la natura». Gerard inclinò distrattamente il
collo,
indifferente. Ricordò
di
aver letto da qualche parte che quello era anche uno dei punti dello
stoicismo, anche se non sarebbe stato in grado di aggiungere
nient'altro.
«Uno
dei più famosi sostenitori di questa concezione è
il
quasi-contemporaneo Ernest Hemingway, nato a Oak Park, Illinois, il
21 luglio 1899. Scrittore dotato e pieno di serietà, vive in
prima
persona la prima e seconda guerra mondiale e la guerra civile
spagnola e sopravvive a due incidenti aerei consecutivi».
Gerard
osservò la professoressa. Pover'uomo.
«Uomo
travagliato e d'incredibile profondità, si sposa numerose
volte,
sebbene le conseguenze della guerra riemergano sempre a torturare
tutti i suoi matrimoni. Dopo una vita di vittorie letterarie,
riconoscimenti e gare di caccia in Africa, acquista una villa a
Ketchum, Idaho, dove, freddo e calcolato, si toglie la vita».
Gerard
spostò lo sguardo sui suoi compagni, improvvisamente
intrigati, e si
chiese se condividessero ciò che lui e lo scrittore
provavano, o se
la loro fosse solo sete di catastrofi.
«Quando
si pensa a Hemingway, vengono sempre in mente i suoi capolavori
letterari e i suoi versi più famosi, ma c'è un
altro lato,
drasticamente dominante nel suo arco di vita, che spesso viene
dimenticato o deliberatamente tralasciato. Fiero esponente e
sostenitore devoto, Hemingway è un fatalista, convinto
dell'irrevocabile e immodificabile piccolezza e fragilità
dell'uomo,
che diventa una nave fuori controllo nell'oceano in tempesta che
è
il fato. Alcolista pesante da anni, la visione pessimista di
Hemingway non fa che peggiorare, incrementata dall'avvento di una
grave malattia che ha colpita prima suo padre, suo fratello e sua
sorella, suicidatesi anch'essi. Convinto che l'unico controllo
dell'uomo sulla sua vita sia il modo in cui egli muore, lo scrittore
inserisce due pallottole nei tamburo della sua arma preferita,
s'infila la canna in bocca e preme il grilletto, considerandosi
finalmente responsabile del l'unica vera scelta della sua
vita».
L'insegnante
tamburellò delicatamente con le dita sul suo avambraccio,
osservando
distrattamente la ventina di alunni attorno a lei, avvolto in un
silenzio di tomba ma che sapeva non era dettato da vero interesse.
Non sbuffò ma serrò le labbra, scuotendo
impercettibilmente la
testa, e si sentì dispiaciuta per tutti gli scrittori e
artisti
degnati di uno sguardo solo quando entrava in gioco il loro decesso.
Fece scorrere gli occhi sui suoi ragazzi, cercando d'irrompere nelle
loro menti o almeno oltre le barricate della loro indifferenza, e
sospirò fra sé e sé, abbassando piano
lo sguardo.
Gerard
percepì la sua delusione e si sentì in colpa, un
altro ascoltatore
casuale per un oratore che non aveva altra scelta che sperare. Fu
tentato dall'alzare la mano e chiederle qualcosa, qualsiasi cosa, ma
un giocatore della squadra di basket lo batté sul tempo,
privo dell'ansia che invece incatenava la lingua dell'altro al suo
palato ogni
volta che voleva emetter suono.
«Quindi
l'insegnamento naturalista è che dobbiamo rassegnarci a
ciò che ci
capita perché tanto non potremo cambiare mai
niente?» domandò il
mucchio di muscoli e riccioli. «Ci credo che era depresso,
sta roba
ti ci trascina a tagliarti le vene» scherzò,
mimando il gesto con
le dita. Parte della classe rise e Gerard si sentì
inghiottire dal
pavimento circostante, il cuore che gli batteva all'impazzata mentre
si sforzava di non guardarsi attorno e vedere chi lo fissava.
«Questa
è solo una chiave interpretativa Artavious, non bisogna per
forza
essere così estremisti per appartenere a questo
movimento» ribatté
gentilmente la professoressa «anzi, la maggior parte di
questi
scrittori era consapevole della fragilità della vita e della
piccolezza
dell'uomo di fronte alla forza impressionante della natura ma viveva
comunque fino in fondo la sua esistenza, lavorando, componendo,
pregando e faticando per i buoni valori in cui
credeva».
Camminò e
si fermò davanti alla lavagna, stringendosi le mani per
invocare
fiducia e sicurezza, e riprese: «ragazzi, non dimenticate che
Hemingway sarà pur stato un genio, ma non aveva tutte le
risposte e
in questo caso si sbagliava: la vita è influenzata da e
riflette
tutte le nostre scelte e opinioni, e per quanto nessuno di noi chieda
di venire al mondo una volta qui abbiamo tutti il diritto di seguire
quello in cui crediamo e applicare il ragionamento che riteniamo
più
lecito. Tenete sempre a mente che avete più del vostro
presente
nelle vostre mani, e che per quanto negative le cose possano essere
non devono per forza rimanerlo».
Una
ragazza a qualche banco di distanza arrossì vivacemente e
annuì,
congiungendo le mani per sottolineare la sua approvazione. Gerard
continuò a cercare di grattar via uno scarabocchio dalla
superficie
scheggiata cui era appoggiato, trovando la prontezza di spirito per
guardarsi attorno solo mentre la campanella suonava.
S'infilò lo
zaino sulle spalle e scivolò fuori dalla classe prima che il
flusso
di studenti diminuisse e fosse costretto a rischiare un confronto con
Miss Phear.
Cinse
le dita attorno a un boccale di birra, sovrappensiero, e si
passò
l'indice sul labbro, aspettando un paio di secondi prima di
abbassarlo assieme allo sguardo, lasciandosi sfuggire un sospiro. La
carta d'identità falsa gli permetteva di non venir buttato
fuori dal
bar ma non di non volersi buttar fuori dalla sua pelle, e alla fine
del giro era quello che avrebbe voluto davvero. O essere felice, ma
quello sembrava ancora più impossibile.
Disegnò
il contorno del boccale con la punta dell'indice e sospirò
piano,
osservando il suo riflesso distorto dall'alcol. Non condivideva
l'opinione di Hemingway ma cristo, lui sì che aveva una
ragione
valida per essere depresso, non come lui che nonostante tutto aveva
avuto un'infanzia anche abbastanza decente.
Si
morse il labbro. Più cercava di non pensarci più
si sentiva
invalido, come se non fosse nient'altro che un bambino viziato
distrutto per una caramella all'arancia piuttosto che alla fragola,
ma più ci si concentrava più sentiva tutto
sfuggirgli dalle dita.
Era cosciente che la sofferenza era sofferenza,
l'insensibilità
era insensibilità e la depressione era depressione
indipendentemente
da ciò che li aveva provocati, ma saperlo a parole non era
come
saperlo emotivamente, e emotivamente non era neanche sicuro di non
essere già marcito del tutto.
Si
strinse la punta del naso tra l'indice e il pollice, strizzando gli
occhi per bloccare il frastuono esterno, e cercò di smettere
di
tremare; non aveva motivo per sentirsi così cristoddio.
Riaprì gli
occhi e si trascinò in bagno, guardando a malapena il
pavimento,
giusto quanto bastava a non sbattere contro un altro cliente.
Osservò
il suo riflesso nello secchio e storse la bocca, insoddisfatto e
amareggiato.
Una
fitta allo stomaco gli tolse il respiro e si piegò in
avanti,
aprendo una delle cabine con una spinta frenetica. Schiuse le labbra
e sputò, rimanendo piegato per quelle che gli sembrarono
ore, il
cuore che batteva a perdifiato e i polmoni spappolati tra le costole.
Si accovacciò accanto al water finché le
vertigini non se ne
andarono e si costrinse ad alzarsi, barcollando fino al lavandino per
spruzzarsi un po' d'acqua in faccia. Si asciugò il viso con
la
maglietta e osservò in silenzio i segni rossi attorno
all'ombelico,
pulsanti ma in via di guarigione. Fece una smorfia e tornò
di là.
Il
locale era in penombra e l'aria piena fino a fargli girare la testa,
le pareti allo stesso tempo colme di cianfrusaglie e completamente
asettiche. Avvinghiato al muro si trascinò più
all'interno,
domandandosi se la foschia attorno
a lui ci
fosse davvero o fosse un altro trucco della sua mente per spaventarlo
e piegarlo. Come se ce ne fosse bisogno.
Strinse
le labbra e lottò contro un nodo alla gola, lasciandosi
cadere su
uno sgabello di fronte al bancone e appoggiandovi contro la schiena,
esalando. Si portò una mano davanti agli occhi e la
osservò senza
riuscire a metterla a fuoco, sconcertato dalla sfumatura cadaverica e
segretamente deluso dal suo spessore; chiuse le palpebre per
guadagnare un po' di autocontrollo e la abbassò,
cingendosela con
l'altra e lasciandola riposare sul grembo. La stanza sembrò
farsi
più opaca e la stanchezza del locale gli si
accasciò sul petto e
dietro la fronte, impedendogli di udire la voce calma e controllata
alle sue spalle.
Il
barista lo sfiorò e Gerard sussultò, al sicuro
nella sua maschera
una volta giratosi. «Tutto
bene amico? Non
hai una bella cera, vuoi che ti chiami un taxi?».
Gerard
fu tentato dall'annuire un sì grazie, sarebbe grandioso, ma
qualcosa
lo distrasse e tese l'orecchio. C'era qualcuno che cantava in sala.
Come aveva fatto a non accorgersene? Si girò e
cercò di dare un
senso al turbinio che gli stava demolendo le vene.
«Ciao,
siamo i Pencey Prep e questa era la nostra prima canzone. Spero non
vi abbia fatto troppo schifo ma ad ogni modo ne abbiamo solo un'altra
da parte quindi tenete duro solo un altro po' e sarete liberi per il
resto della serata».
La
musica riprese, inascoltata dalla maggior parte dei frequentatori,
troppo alterati per essere coscienti anche solo della sua esistenza o
di una fascia d'età ben oltre le porte del genere.
Gerard
fissò il gruppo senza spostare lo sguardo dal ragazzo che
aveva
parlato e che ora cantava in un microfono spaventosamente piccolo per
chiunque altro ma perfetto per la sua struttura magra, quasi femminea.
Gerard sentì un tuffo al cuore e per una frazione di
secondo ebbe l'impressione che si fossero scambiati uno sguardo
d'intesa, e la cosa gli mozzò il respiro.
Senza
staccare gli occhi dal palco quasi inesistente si sporse verso il
barista, ancora inchinato verso di lui, e gli chiese chi fossero i
cinque ragazzi, trovando a malapena l'ossigeno necessario a muovere
le labbra. Il barista arricciò le sopracciglia con un 'hm?',
si
voltò a osservare la manciata di liceali che stava suonando
per lui
e scrollò le spalle con un gesto sciolto, scuotendo la
testa, allo
stesso tempo incurante e stupito che qualcuno se ne potesse
interessare.
«Un
gruppetto locale, sai uno di questi che bazzicano ai concerti delle
band più rilevanti e ti regalano il loro CD
sperando che poi tu te lo senta davvero»
disse
semplicemente, «Pencey
Prep mi sembra. Bravi ragazzi, conosco il cantante da una
vita».
Lo
indicò. «Figlio
di amici, l'ho praticamente visto crescere».
Sorrise.
«Gran
personalità la sua; peccato solo voglia dedicare la sua vita
a
questo»
e
indicò il gruppo con un gesto largo della mano
«niente
in contrario alla musica, sia chiaro, ma questo genere… ma
d'altronde che ci vuoi fare, quando un ragazzo così ti
chiede un
favore tu gliene fai mille».
Gerard
annuì, senza rispondere; ringraziò quietamente,
concentrandosi di
nuovo sulla band, e si accorse che la canzone era agli sgoccioli.
Deglutì, improvvisamente teso, e si scoprì a
pochi metri dal palco
qualche secondo dopo, le dita schiuse verso il chitarrista in un
tocco che sperava non fosse mai successo.
Ritrasse
la mano e la guardò, spaventato, la gola improvvisamente
colma di
cemento e le guance in fiamme. Indietreggiò impacciatamente,
gli
occhi sbarrati e le sopracciglia incurvate, pregando in ogni lingua
di non inciampare in nessun cavo o pestare il piede a qualcuno mentre
scappava a una velocità che gli sembrava inesistente.
Quando
fu a distanza di sicurezza strizzò le palpebre, stringendosi
la
punta del naso fra l'indice e il pollice per calmarsi e riprendere
fiato, e si appoggiò
nuovamente al muro, le voci a rimbombargli contro urla e insulti.
Cercò di raccogliersi e quando riaprì gli occhi
notò che il gruppo
aveva terminato di
riporre gli strumenti il palchetto semivuoto di nuovo ripiano per
bottiglie e bicchieri mezzi vuoti.
Deglutì
e si guardò velocemente attorno, cercando il ragazzo nella
penombra
crescente, scandagliando la stanza più e più
volte. Sentì un
macigno posarglisi sulle spalle e si lasciò scappare un
battito,
dirigendosi il più velocemente possibile verso il bagno.
Spalancò
la porta sul nulla e l'adrenalina nelle vene gli si bloccò
di colpo,
lasciandogli un gusto amaro dietro ai denti. Richiuse la porta e
abbassò la testa, senza essere davvero sicuro sul
perché la
delusione gli stesse offuscando gli occhi, e lasciò che i
piedi lo
guidassero all'esterno.
Varcò
la soglia senza dare o ricevere saluti, lo sguardo perso sul
marciapiede screpolato da passanti poco interessati e guidatori mai
multati abbastanza, e scivolò nel vicolo adiacente,
lasciandosi
abbracciare dal freddo pungente e dall'eco incostante del pub.
S'infilò una sigaretta in bocca e sistemò le mani
a coppa,
combattendo contro il vento per il futuro della sua fiamma;
arricciò
le sopracciglia e non si accorse della figura al suo fianco, troppo
assorto nella sua battaglia per un po' di nicotina.
«Ehi,
credi che me ne lasceresti passare una?».
Gerard
alzò lo sguardo su
un paio di occhi vivi quasi quanto il soffio che gli aveva appena
sfiorato le orecchie, incastonati in un viso dai lineamenti dolci, di
una delicatezza decisa e sorridente. «So
che non ci conosciamo ma posso ricambiare con una birra se vuoi»
aggiunse
il moro, cercando di smorzare l'ansia tagliente che li circondava.
Gerard frugò freneticamente
nella tasca della felpa e tirò fuori il pacchetto,
porgendolo al
ragazzo il meno impacciatamente
che poté.
«Ah
merda è l'ultima, non so se posso chiederti tanto»
esclamò
l'altro, esitando.
«Facciamo
che è il mio contributo per la tua band visto che non avete
merce in
vendita» sfuggì a Gerard, che si maledisse
internamente subito
dopo. Il ragazzo sembrò rischiararsi e abbozzò un
sorriso.
«Quindi
ci hai sentito suonare?» domandò, cercando di
nascondere l'emozione
riducendo il sorriso. «Testi
stupidi, eh? Dio, ci provo in tutti i
modi ma
l'inchiostro divora tutti i miei pensieri decenti, giuro che
miglioreremo tantissimo col tempo»
scherzò,
come se sentisse il bisogno di scusarsi
per averci messo l'anima. Gerard scosse la testa.
«Per
quel che conta a me siete piaciuti un sacco» - si
colpì il capo con
il palmo - «un
sacco, cristo non lo usano più manco in quinta elementare».
Frank
rise. «Siamo
due sfigati, direi».
Gerard
sorrise, sentendo la tensione smorzarsi e farsi un tutt'uno col
selciato, e avvicinò di nuovo il pacchetto al chitarrista.
«Sigaretta
fortunata, sperando che la fortuna si ricordi che non ci sono solo
persone fighe al mondo».
Frank
rise e la prese, tenendola in equilibrio con le sue labbra di pesca
prima di prenderla fra indice e medio, alla ricerca del suo
accendino. Quando l'ebbe trovato espirò e una piccola folata
sparse
cenere nel vicolo, facendola volteggiare quasi un fiocco di neve
solitario fosse appena sbocciato dal cielo. Gerard si trovò
a
sorridere e l'altro ragazzo contraccambiò spontaneamente, il
petto
che si alzava e abbassava ritmicamente, riempiendosi d'aria che il
primo si accorse di star ringraziando.
«Magari
mentre la fortuna cerca di svegliarsi possiamo ammazzare il tempo
insieme»
offrì
il più piccolo, portandosi la sigaretta lontano dalle labbra
per
dirigere il fumo verso un cielo nuvoloso e opaco. «Il
mio nome è Frank, ma finché non usi insulti o
brutti
nomignoli
puoi chiamarmi come ti pare».
«Gerard»
disse
l'altro, sperando di non sembrare l'animaletto terrorizzato che si
sentiva. L'altro sorrise e annuì, tirando un altro soffio.
Abbassò
lo sguardo e buttò la sigaretta per terra, pestandola con un
piede.
«Mi
piace. Allora alla prossima, Gerard» mormorò con
un gesto del capo,
riunendosi al resto della sua band.
Cristo,
da quanto erano lì? Si portò una mano sul viso e
si rese conto di
star scottando; impallidì e abbassò entrambe le
mani, appoggiandosi
al muro per non cadere. Onde d'urto gli si stavano
frastagliando
contro il petto e da qualche parte nel suo cervello una sirena stava
urlando
a squarciagola messaggi che si rifiutava di decifrare.
Cristo
santo Gerard ma non impari mai niente?!
Si
lasciò scivolare sul marciapiede e si prese la testa fra le
mani,
strizzando gli occhi ed espirando sonoramente. Alla faccia della
sigaretta fortunata.
Angolo
dell'autrice:
Um ciao sono Pwhore e volevo giusto ringraziare chiunque sia arrivato
fin qui perché sono cosciente che finora i dialoghi siano
pressappoco inesistenti e probabilmente leggere è
più pesante di
quanto non intendessi all'inizio e ugh scusate tanto. So che la
struttura è un po' strana ma sto scrivendo tutto su un
quaderno e
purtroppo così facendo dividere in capitoli diventa
allucinante e
per quanto riguarda le mie scelte purtroppo faccio piuttosto schifo
quindi
sì insomma scusate, so che è un po' un casino.
Spero che la
grammatica non stia cadendo a pezzi, sono in America da fine luglio e
le uniche occasioni che ho per utilizzare l'italiano sono quando
canto assieme ai miei gruppi sfigati se sono a casa da sola o quando
messaggio No (sappi che ti conoscono tutti così),
Frà, Ria, Delf e
letteralmente altre due persone massimo quindi probabilmente i
costrutti sono tutti sfasati o misti a altre lingue e ugh. Ma ehi, il
pensiero è quel che conta, giusto?
Grazie
a tutti quelli che si sono sforzati di arrivare alla fine, vi amo da
morire 3
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
«Quindi
cosa pensi di fare al riguardo?».
Gerard
mandò giù un sorso della sua coca senza
rispondere, scrollò le
spalle guardando il pavimento e respirò in silenzio. La sua
camera-seminterrato era inondata dalla luce del sole, timidamente
filtrata da un paio di tende mai tirate, ma il freddo di febbraio
continuava ad avere la meglio sulle copertine colorate dei fumetti e
sugli schizzi e tazze abbandonati un po' ovunque, facendo sembrare il
locale molto meno confortante di quanto fosse in realtà.
Gerard
scrollò nuovamente le spalle, lo sguardo fisso nel vuoto, e
deglutì.
«Niente. Non posso fare niente» rispose
semplicemente. Bevve
nuovamente e intuì che il fratellino si aspettava una
spiegazione;
posò la lattina sul gradino su cui era seduto e si prese una
mano
nell'altra, rassegnato alla sua situazione ma senza sembrare
afflitto.
«Vedi
Mikey, ci sono cose al mondo che si possono e non si possono fare; e
sebbene a me importi ben poco delle regole di una realtà che
non
rispetto, se vi andassi contro in questo caso ci perderei e
basta»
s'inumidì le labbra «e purtroppo per una persona
nella mia
situazione basta un passo falso per passare dalla padella alla brace;
o se vuoi, dalle bastardate in bagno e corridoio alle botte e a
un'ancora più pubblica umiliazione».
Mikey
distolse lo sguardo e giocherellò con le dita, senza poter
dar torto
al fratello e spaventato di fronte al fardello che il maggiore
cercava in tutti i modi di far rimanere solo suo.
«Credimi,
mi piacerebbe più che da morire andare in giro e cercarlo,
chiedere
di lui comprare un suo disco o cose del genere, ma semplicemente non
posso» si spostò una ciocca dietro l'orecchio,
osservando la base
della parete per non fronteggiare il più piccolo,
«per me e per
lui».
Mikey
sembrò sul punto di dire qualcosa ma poi si morse la lingua
e
tacque, esitante. «E se lo facessi io?»
sputò all'improvviso,
quasi non fosse riuscito a tenere a freno la sua preoccupazione.
«Se
fossi io a chiedere di lui e cercare informazioni? Posso dire che un
mio amico sta organizzando un party e che va pazzo per una nuova band
che gira nella scena post-punk, se per caso qualcuno li conosce di
persona» continuò, l'entusiasmo che gli tingeva la
voce.
Gerard
strinse le labbra e deglutì, a disagio, mentre suo fratello
continuava a tessere scenari e scrivere copioni che non avrebbero mai
visto la luce come avrebbe voluto; si morse il labbro inferiore e
prese un respiro profondo prima d'interrompere l'altro, arrivato a
chissà quale fermata col suo ragionamento fuori rotaie.
«Mikey, sai
bene quanto me che nulla di tutto questo potrebbe mai
succedere»
disse, soppesando le parole. Sapeva che il fratello capiva ma
sperò
che capisse anche quanto sperasse che tutto potesse andare per il
meglio punto, senza piani, sotterfugi e messinscene.
Mikey
si fermò a metà frase, sospirò e diede
ragione al moro con un
movimento abbattuto delle spalle. Se si fosse messo in moto lui se la
sarebbero solo presa di più con Gerard per non avere il
fegato da
cercare da solo il ragazzo – Ragazzo?
Ragazzo, Way? Ma per caso c'è qualcosa che non sappiamo? Ma
che mica
ti piace il cazzo? Eh Way? Passi mica le giornate a smanettare e
succhiar cazzi, Way? È
per
questo che stai sempre col tuo fratellino? O è lui che
organizza i
tuoi incontri? Fai anche film, Way? Dio ragazzi l'avete sentita
l'ultima? Way è frocio e dieci a uno fa pure filmini e pompe
gratis!
Me lo dai il culo Way? Prezzo da amico, ve'? – e
l'ultima
cosa che sarebbe dovuta succedere era quella. Quella, e che il
chitarrista si spaventasse e bruciasse tutti i ponti tra di loro.
Rabbrividì e guardò il fratello, pensieroso e
imperscrutabile.
Strinse le labbra e respirò. Chissà che aveva di
sbagliato
dopotutto.
Frank
tirò la palla sopra la testa, la prese con la mano sinistra
e
ricominciò, nascosto dalla penombra della sua camera. Tende
tirate,
luci spente e porta socchiusa, era sdraiato sul suo letto in
silenzio, avvolto dai suoi pensieri e una morsa allo stomaco che non
sembrava volersene andare, come la sensazione di essere a un punto
saliente della sua mappa, anche se per quanto il suo rituale stesse
proseguendo senza intoppi nessuna risposta sembrava emergere dal suo
tutto. Bloccò la sfera e la strinse con entrambe le mani,
chiuse le
palpebre e cercò di respirare a fondo, tuffarsi nel suo caos
e
riemergerne senza morsi e ferite per una volta. Cristo, c'era
qualcosa in quel ragazzo, ma cosa? E poi che avrebbe potuto farci,
una volta scoperta; darsi e dargli una pacca sulla spalla, bravo,
bella giocata? Si morse il labbro, voltando il viso e abbassando lo
sguardo. Dio Frank, che disastro.
Gerard
chiuse lo sportello del suo armadietto con un gesto deciso, come
aveva fatto mille e mille altre volte, raccolse lo zaino da terra e
se lo sistemò su una spalla, senza fare il gesto d'infilarvi
dentro
i libri. Respirò a fondo e si avviò verso la sua
classe di scienze,
schivando i gruppi di ragazzi che affollavano i corridoi e non si
facevano problemi a sbattergli contro senza chiedergli scusa o anche
solo voltarsi a guardarlo, e fece attenzione a non alzare troppo lo
sguardo per non incrociare nessuno. Solo che a volte le precauzioni
non erano abbastanza.
«Guarda
dove vai, femminuccia» esclamò un ragazzo biondo e
alto,
continuando a camminare col dorso e il medio rivolto al moro. Nella
risata generale della cricca al suo fianco, Bryson sparì tra
la
folla, lasciandosi alle spalle decine di occhi incollati su Gerard,
in ginocchio a radunare i suoi libri.
In
silenzio, le guance che bruciavano e un gusto amaro tra i denti, si
rimise in piedi e riprese a camminare. Bussò ma non
ricevendo
risposta provò a ruotare la maniglia, scivolò
nell'aula e si
sedette al suo posto, coperto da uno dei grandi tavoli da
laboratorio. Pian piano la sala si riempì di studenti e un
brusio
strascicato e attivo allo stesso tempo riempì il vuoto,
cessando
solo all'entrata del professore, un uomo dall'età
indefinibile dalla
corporatura vagamente corpulenta ma paternamente rassicurante.
«Tutti
pronti per i nostri gatti?» esclamò cingendo le
mani, con
l'entusiasmo di chi ama davvero il proprio lavoro e cerca di
comunicarlo a chiunque sia disposto ad ascoltare; indicò il
retro
della sala con un gesto ampio finché tutti gli studenti non
si
furono alzati e diretti verso il loro tavolo e si sfregò le
mani.
«D'accordo,
sul bancone principale troverete delle fotocopie con delle
informazioni generali sul catus domesticus e sulla sua anatomia. Una
volta terminato di leggere, alla vostra destra ho sistemato un altro
plico contenente una breve descrizione del processo dissettivo,
seguito da istruzioni passo passo per la rimozione del tessuto
epiteliale» spiegò, accennando ai fogli.
«Scegliete
un partner e un esemplare e cominciate pure»
esclamò quindi,
avviandosi verso due scatoloni da cui sollevò un coperchio
col suo
nome scritto a caratteri cubitali. Il brusio riemerse e Gerard
osservò con angoscia crescente tutti i suoi compagni trovare
un
partner e avviarsi verso il professore, sorridente e rilassato, e
cominciò a scandagliare la stanza alla ricerca di qualcuno,
deglutendo a fatica nel realizzare che no, era rimasto solo un'altra
volta.
Serrò
le labbra e respirò a fondo, cercando di farsi forza; si
alzò e
raggiunse l'insegnante, stringendosi il polso per farsi coraggio.
«Oh, Gerard!» esclamò mister Vaden,
salutandolo e tornando a
scavare nello scatolone. «Sfortunatamente non mi sono rimasti
molti
esemplari, qualcuno ha mescolato i gatti della tua classe con quelli
di un'altra e trovare quello giusto si sta rivelando più
difficile
del previsto ora che la maggior parte dei tuoi compagni è
sistemata».
Tirò
fuori il capo dal suo catalogo 3D
e osservò il moro corrucciando le sopracciglia,
interrompendo il suo
discorso. «E il tuo partner?» domandò
stupito, dando un'occhiata
veloce alla classe, ormai alle prese con le forbici per aprire le
buste. Gerard abbozzò un sorriso impacciato, il cuore in
gola e un
tremore lungo il busto, e si massaggiò il collo con una
mano,
imbarazzato.
«Be',
sarà un po' più difficile ma immagino non sia poi
un così gran
problema, vuol dire che farai più conoscenza col tuo
felino» disse
semplicemente il più alto, tornando a frugare e estraendo un
esemplare a metà tra il giallo e il bianco sporco.
«Ecco qui, un
altro solitario come te» sorrise, passandogli l'animale.
Gerard
si sforzò di sorridere e ringraziò il professore,
che annuì e si
pulì le mani con un gesto deciso prima di ricordarsi di
qualcosa e
avanzare verso il centro della stanza.
«Ah,
ragazzi, prima che apriate le buste, per favore fate attenzione a
tagliare il più vicino possibile alla linea tratteggiata
visto che
continueremo a usarle per le prossime due o tre settimane»
ricordò,
guardandosi attorno per assicurarsi di avere l'attenzione di tutti.
«E un'altra cosa ragazzi: prima di cominciare a tagliuzzare a
caso,
leggete, leggete, leggete i plichi. Troverete anche una descrizione
più dettagliata degli utensili con cui avrete che fare
quindi vi
prego di non considerarlo materiale superfluo. Vi ricordo che ognuno
di questi animali è stato a sua volta vivo e
chissà, magari anche
madre o pare, quindi vi chiedo di riservargli il massimo rispetto e
la massima serietà possibili».
Un
ragazzo di colore, meglio conosciuto per il suo posto nel coro della
scuola e il suo quinto premio al talent show di qualche mese prima,
fece una battuta sciocca e rise assieme al professore, che scosse a
testa divertito. «Vedi di non troncarti la mano con lo
scalpello
Marcus, al resto penseremo tappa per tappa».
Gerard
sorrise e posò il suo gatto sottovuoto sul tavolo da
laboratorio
davanti a lui, accanto a Gabby e Joseph, si diresse verso il bancone
e prese in mano i due pacchi di fogli. Scandagliando le istruzioni
afferrò la busta, la aprì e cominciò a
riempire la busta al suo
interno con dell'acqua corrente.
Quando
pensò di averla riempita abbastanza la chiuse con le dita e
la
scosse, lavando l'animale dal liquido conservante di cui era
ricoperto. Estrasse l'esemplare, lo distese sul vassoio chirurgico
–
diavolo, qual era il termine? Eppure l'aveva appena letto, che cavolo
di memoria – e lo toccò, esitando e voltandosi a
osservare la
gente attorno a lui. Joe sembrava più un fantasma che
l'amante degli
sport leggeri e dei colori acrilici che aveva varcato la soglia del
laboratorio quindici minuti prima ma le cheerleader ridevano e
squittivano allegramente come se la cosa scivolasse loro addosso
senza neanche sfiorarle.
Posò
i gomiti sul tavolo e si prese la testa fra le mani, espirò
velocemente e prese in mano lo scalpello, fermandosi a guardarne la
lama – cristo, era una di quelle che tagliano strati di
lattine
come se fossero petali, che avrebbe potuto distruggere libri se solo
avesse provato. Strizzò gli occhi e si strinse le tempie,
cercando
di mantenere la calma, ma ogni volta che schiudeva le palpebre non
riusciva a non immaginare quanto a fondo sarebbe potuto andare,
quanto dolcemente l'avrebbe aperto in due, che enorme differenza
avrebbe fatto comparata alle sue.
Scosse
la testa e si obbligò a deglutire e pensare ad altro,
tornando a
guardare il suo esemplare. Ne accarezzò il pelo, digrignando
la
mascella nello scontrarsi con la durezza del rigor mortis, lo
voltò
in modo che il ventre potesse vedere la luce e premette le dita sulla
cassa toracica, scendendo a individuare l'intestino e i reni. Strinse
le dita attorno alla coda e alle zampe, faticando a ricollegarle a un
qualcosa di animato e reale, e individuò il punto d'entrata
della
siringa, a circa metà gamba posteriore, dove il tessuto
adiposo era
pressappoco inesistente. L'iniezione di siero rosso aiutava a
riconoscere le arterie mentre quella di liquido blu esaltava le vene,
identiche all'apparenza e nella struttura differenziabili solo in
base al movimento del flusso sanguigno rispetto al cuore.
Risalì
fino al collo e passò lentamente le dita sui punti di sutura
che
tenevano unita la gola, rimediando a quella che Gerard riteneva una
sgozzatura, anche se il taglio era verticale invece che orizzontale.
Si
guardò nuovamente attorno e notò che a differenza
di Cole
indossavano tutti un paio di quanti, così si
sciacquò velocemente
le mani e ne agguantò un paio, infilandoseli senza troppa
attenzione. Deglutì e prese in mano il taglierino.
Com'era
possibile che a sé stesso avrebbe fatto di peggio ma a un
animale
morto, senza la minima possibilità di provare una goccia di
dolore,
non riusciva neanche a torcere un pelo? Respirò a fondo,
chiuse la
presa più decisamente e affondò la lama nella
gola del gatto,
trattenendo il respiro. Dio dio dio quanto voleva essere quel gatto.
Posò lo scalpello accanto al torace, si cinse la testa fra i
gomiti
e perse la concezione del tempo.
«Si
può sapere che ti è preso?» Shaun diede
una pacca sulla spalla al
moro, cercando di buttarlo fuori dallo stato catatonico in cui si era
chiuso a doppia mandata una ventina di minuti prima, e quello
sussultò, voltandosi a guardarlo con un
«uh?».
«Dico
davvero, tutto okay? Sono un paio di giorni che sei più
strano del
solito, c'è qualcosa che non va per caso? Chessò,
tua madre è più
stretta del solito, tuo papà si è fatto vivo
all'improvviso–».
«Non
nominare mio padre» l'interruppe il più piccolo;
realizzò di
essere stato brusco e aggiunse: «per favore. Non
c'è niente che non
va; sono solo stanco, tutto qui».
L'amico
lo guardò in silenzio e non disse nulla, corrugando le
sopracciglia
in un'espressione preoccupata senza voler invadere lo spazio
dell'altro. «Se serve siamo tutti qui però,
okay?» gli ricordò,
dandogli un pugnetto sulla spalla.
Frank
abbozzò un sorriso di circostanza, annuì e
cambiò argomento,
indicando la porta del garage col capo. «Tuo padre si
è rotto delle
scrostature?» domandò, realizzando che in qualche
modo ci si era
stranamente affezionato.
Shaun
si strinse nelle spalle, appoggiandosi distrattamente al muro.
«Nah.
Penso solo che il vecchio bastardo si sia stancato di vederci
allargare il problema volta dopo volta» commentò
senza troppo
interesse, «non sono ben sicuro del perché ma
questo rosso fa solo
sembrare il resto molto più decrepito».
Frank
annuì. Di certo togliere di mezzo un po' di ragnatele
sarebbe stata
una mossa più azzeccata. «A che ora hai detto che
torna?» domandò,
lanciando uno sguardo a John, appoggiato a una scala arrugginita e
nel bel mezzo di finire di rollare uno spinello.
«Una
– due ore» rispose passivamente l'altro,
«ma non preoccuparti,
tempo di fumare e siamo tutti a chilometri da qui».
Frank
annuì nuovamente, stringendo le braccia lungo al tronco, le
mani
magre irrigidite nelle tasche dei jeans stracciati. John accese la
sua meraviglia e diede il primo tiro, esalando una tempesta di
foschia bianca mentre la passava a Neil. Neil eseguì la
stessa
procedura, trattenendo il fumo giusto pochi secondi più
dell'altro
prima di buttarlo fuori e passare la canna a Tim.
Uno
dopo l'altro finirono di fumare e Tim cominciò a ridacchiare
scuotendo la testa, mentre Neil apriva la finestra e John la porta
del garage, sventolando la mano verso l'uscita con un
«coraggio,
tutti fuori». Frank rimase alla coda del gruppo, a disagio, e
osservò i suoi amici correre lungo i marciapiedi verso casa
del
batterista, pronti a sfondarsi di patatine e videogiochi.
Attraversarono
un vicinato con cui non era familiare e si guardò attorno
infilandosi le mani ancora più a fondo nelle tasche, il nodo
alla
gola che cresceva sempre di più, bloccandogli la
circolazione e
soffocandogli i pensieri. Si voltò verso una casa bianca a
due
piani, ammorbidita da dell'edera rampicante, e gli parse di scorgere
una sagoma passare davanti a una finestra. Strinse gli occhi ma non
percepì nessun altro movimento, senza riuscire a scacciare
la strana
sensazione che si era impossessata del suo petto.
«Frank
andiamo, muoviti!» urlò una voce di sottofondo; il
moro scosse il
capo per riprendersi e si rese conto che gli altri erano già
quasi
alla fine della strada. Lanciò un ultimo sguardo alla casa,
insolitamente avvolta nel silenzio, e lesse velocemente il nome sulla
cassetta delle lettere, sentendo la foschia farsi più e
più
opprimente nella sua testa e una strana fiamma accenderglisi dietro
le clavicole. Un altro grido lo svegliò parzialmente dalla
sua
realtà a specchio e cominciò a camminare verso i
suoi amici,
voltandosi di tanto in tanto per osservare l'edificio finché
non fu
troppo lontano per percepirne dettagli e accelerò il passo,
scoprendosi a correre prima di averlo davvero deciso.
Mikey
scivolò da dietro la tenda e rimase in silenzio ad osservare
il moro
allontanarsi sempre di più. Un groppo alla gola gli
rubò il respiro
e tirò le tende di scatto, dando le spalle alla strada.
Gerard non
sarebbe mai entrato in un giro del genere.
Gerard
mosse il cibo da una parte all'altra del piatto, sorreggendosi la
guancia con la mano, lo sguardo assorbito da pensieri di cui lui
stesso non era pienamente cosciente. Era stato assente per la maggior
parte della giornata e Mikey si chiese se stesse osservando il solito
Gerard, intrappolato nell'inferno delle sue emozioni e dei suoi mezzi
illeciti di fuga dalla realtà o se quel fantasma, quasi un
manichino
nelle mani di qualcosa che non riusciva a individuare, fosse il
risultato di esplosioni e realizzazioni sottocutanee, ricordi di
altri amori finiti in catastrofi e incidenti aerei noti prima della
partenza stessa. Strinse le labbra.
«Non
hai fame Gee?» domandò accennando col capo alla
pasta sfiorata a
malapena, sistemata a formare un mucchio con un circolo di pomodori
al centro. Gerard sembrò cadere dalle nuvole e rendersi
conto solo
allora di trovarsi nel bel mezzo di una cena coi suoi genitori e suo
fratello minore, ma dopo la frazione di secondo in cui lo stupore era
prevalso il suo viso tornò imperscrutabile, né
contratto né
rilassato.
«C'è
forse qualcosa che ti preoccupa?» suggerì il
padre, in un tentativo
di estrargli parole di bocca che non si aspettava realmente uscissero
davvero allo scoperto.
Come
previsto, il figlio maggiore scosse la testa, portandosi una
forchettata alla bocca senza particolare decisione. «Stavo
pensando
a come continuare la nuova serie su cui sto lavorando»
buttò lì,
una mezza bugia per ricordarsi che doveva veramente cominciare a
mettere a fuoco qualche nuovo personaggio.
Il
padre annuì, senza ulteriori attenzioni o dubbi, e la cena
continuò
pacatamente, scivolando serena mentre gli eco soffusi della
televisione rimediavano al consueto e rilassato silenzio che
caratterizzata buona parte dei pasti dei Way.
Appena
i genitori si furono alzati da tavolo e il moro ebbe cominciato a
sparecchiare e prendersi cura degli avanzi rimasti, il biondo
scivolò
al suo fianco, si guardò attorno e lanciò
un'occhiata al fratello.
«Si può sapere che ti prende?».
Gerard
arcuò le sopracciglia, ricambiando lo sguardo del minore, e
riprese
a lavorare, inimpressionato. «Non mi prende niente, non so di
cosa
stai parlando» tagliò corto, dirigendosi verso la
cucina.
Mikey
non demorse e lo seguì, inquieto e deciso a far luce
sull'abisso che
la mente di suo fratello era per lui. «Dico davvero, smettila
di
fare il finto tonto».
«Che
vuoi che ti dica Mikey?» scattò il più
grande, voltandosi di
scatto. «Seriamente, che risposta cerchi? Mi sembra di essere
già
abbastanza ovvio così, non c'è poi
così tanto da dire su quello
che non succede tra me e un ragazzo che ho visto una volta sola in
tutta la mia vita e che probabilmente non mi rivolgerà mai
più la
parola neanche se dovessimo rincontrarci». Serrò
le labbra,
amareggiato.
Mikey
tacque, abbassando gli occhi, e annuì. Forse era stato
troppo
invadente, dopotutto il fratello non sarebbe mai riuscito a trovarlo
di nuovo. «Hai ragione, scusa» disse, annuendo
piano un paio di
volte, «credo di aver esagerato».
Gerard
riprese a lavorare, intrappolato nuovamente nel suo universo
parallelo, e il biondo contemplò se dirgli una bugia fosse
meglio
d'indirizzarlo su una strada non voleva seguisse. Da una parte odiava
mentirgli, dall'altra era convinto fosse a fin di bene e che quella
del fratello fosse solo una cotta passeggera, una sbandata fugace per
cui non valeva la pena fargli imboccare vicoli destinati ad altra
gente.
Respirò.
«Penso di averlo visto qualche ora fa».
Gerard
si voltò di scatto, rischiando di far cadere a terra il
piatto che
stava per infilare nella lavastoviglie; «che?!».
Mikey
osservò i suoi occhi sgranati e la profondità
interminabile delle
sue pupille, e prima di aprire nuovamente bocca esitò,
leggendogli
sul viso una speranza che non vedeva da tempo. «Non eravamo
spalla a
spalla ma sono piuttosto sicuro fosse lui» affermò.
Un
sorriso si fece strada sulle labbra del moro, che posato il piatto si
spinse in avanti e gli strinse le spalle. «Davvero? E come
sta?»
domandò, una vitalità crescente nella sua voce di
cristallo.
Mikey
si scrollò di dosso il senso di colpa ricordandosi che lo
stava
facendo per lui e trattenne il sorriso che gli stava nascendo in
petto, optando per un tono più grave. «Ecco, non
sono sicuro ma...»
esitò e Gerard pendette dalle sue labbra, «aveva
l'aria
scombussolata, ha voltato l'angolo verso la fabbrica abbandonata
quasi di corsa».
Il
sorriso di Gerard sparì.
«Non
volevo dirtelo perché sì, insomma, non volevo lo
sapessi, ma penso
sia meglio che scoprirlo di prima mano» aggiunse mordendosi
il
labbro inferiore. Gerard sembrò essere rimasto al buio nel
bel mezzo
del suo momento di gloria, circondato da macerie che sarebbero dovute
essere i suoi sogni. Deglutì in silenzio per un paio di
secondi, gli
occhi incollati al pavimento, poi riacquisì
l'abilità di emettere
suoni.
«Non
hai vere prove però» mormorò.
Mikey
esitò, angosciato nel vedere il fratello reagire come aveva
temuto
sin dall'inizio. «Gerard» cercò di fare
appello al suo buonsenso,
guardandolo espressivamente negli occhi, «certe volte non hai
bisogno di vedere una persona con un ago in endovena per capire che
si buca, sniffa o si fa in qualche modo». Tacque, una mano
sulla
spalla dell'altro, e sperò per il meglio.
«Ma
non hai prove concrete» ripeté invece il maggiore,
sembrando più e
più risoluto a ogni respiro. Mikey provò ad
aprire nuovamente bocca
ma il fratello scattò in piedi, spostandosi la mano di
dosso, e
abbozzò un sorriso crescente in quella che il biondo
riconobbe come
una terribile idea. Si alzò per fermarlo e proseguire la
conversazione ma non fu abbastanza veloce e si ritrovò solo
accanto
al lavello, conscio di aver solo peggiorato la situazione. Si prese
la testa fra le mani e imprecò silenziosamente.
«Drogato?
Seriamente? Ma non potevi semplicemente dirgli che l'hai visto
baciarsi con una?» si sgridò, a metà
sibilando e a metà
immaginandoselo. Scosse nuovamente il capo e finì di
prendersi cura
delle stoviglie, cercando di farsi venire in mente un nuovo piano.
Tossicodipendenza?
Gerard non riusciva a crederci. O forse sì, dopotutto non
sapeva
nulla di lui, se non che aveva degli occhi d'ambra antica
più della
galassia, un sorriso più dolce di ogni cantilena che gli
fosse mai
stata sussurrata per scacciare i mostri che lo perseguitavano fin
dentro ai sogni e un modo di suonare che sembrava snodargli le vene,
riempirlo di bollicine e farlo sentire bollente quanto una stella. Si
morse un'unghia, preoccupato, e s'inumidì le labbra.
Sì,
ma lui che poteva farci?
Si
alzò dal pavimento del seminterrato, afferrò una
felpa che aveva
lasciato sul corrimano e corse al piano superiore, fiondandosi fuori
dalla porta di casa. Le troppe sigarette e notti insonni si fecero
sentire ancor prima che uscisse dal vicinato e fu costretto a
fermarsi, piegandosi in avanti, le mani sulle ginocchia, combattendo
il fiatone con quanta forza aveva in corpo. Riprese a camminare a
passo svelto ma a metà strada la mente smise di vorticargli
e si
fermò, improvvisamente lucido. Cosa stava andando a fare?
Si
batté il palmo sulla fronte, insultandosi. Era stato un
tossico
anche lui dopotutto, come aveva potuto pensare che sarebbe stato
plausibile trovarlo di nuovo lì se Mikey era rientrato da
poco più
di due ore?
Abbassò
lo sguardo e sentì il cuore stringerglisi mentre girava i
tacchi e
si dirigeva nuovamente veso casa. Che idea idiota, Gerard.
«Dico
davvero, lo conosci o no?» sbottò Frank, stufo fin
sopra ai capelli
dei giochetti dell'altro; «non ho tutta la vita da buttarti
appresso, posso chiedere ad altra gente».
Dayton
ridacchiò sotto i baffi, divertito dall'avere il coltello
dalla
parte del manico e dall'espressione irritata e vulnerabile del moro;
prese una lunga boccata dalla sua sigaretta e si sistemò i
lunghi
riccioli castani dietro l'orecchio, prendendosela comoda. Frank
sbuffò di nuovo, accendendosi una Marlboro e fumandola
velocemente,
cercando di alleviare la tensione che lo stava facendo impazzire da
quando aveva menzionato Gerard a quello stupido imbecille. Cristo
quanto detestava chiedergli qualcosa.
Dayton
sorrise affilatamente, guardando il moro con cattiveria; «e
se te lo
dico che ci guadagno?».
«Se
non la smetti un cazzo di pugno in faccia» sibilò
l'altro.
Dayton
rise, consapevole del bluff dell'altro, e alzò le mani in
segno di
resa. «Calma fratello, non è mica una faccenda di
stato» lo
sminuì, tenendo la sigaretta in bilico tra le labbra fine,
«da
quanto ne so è una nullità proprio come
te».
Frank
ignorò l'insulto, continuando ad aspirare e espirare
intensamente.
«Se vuoi saperla tutta ha debuttato nella mia scuola
elementare come
un Peter Pan palla di lardo, fregando la parte a uno degli attuali
lavacessi giù da Toot's» sorrise di nuovo,
divertito «non che lui
fosse poi così bravo a cantare, comunque».
Frank
arcuò le sopracciglia, improvvisamente in controllo dei suoi
sensi.
Quindi era un cantante. Ora sì che stava cominciando ad
arrivare da
qualche parte, magari qualche locale sulla scena avrebbe saputo
dirgli qualcosa di più.
«Ad
ogni modo, perché lo cerchi? Non pensavo fossi abbastanza
uomo da
voler fare a botte» lo sfotté nuovamente il
riccio, senza sforzarsi
per nascondere un ghigno mentre spostava la testa all'indietro e
espirava verso l'alto. «È forse un rito
d'iniziazione per smettere
di essere una ragazzina?».
«Ho
un favore da ricambiare» ribatté Frank, senza
abboccare all'amo.
«Tutto
questo casino per un atto di beneficenza? Non me la bevo»
ribatté
il castano.
«Non
tutti al mondo sono come te» replicò Frank,
spegnendo la sigaretta
e andandosene. Dayton rimase con la schiena contro la parete
scrostata, le braccia incrociate e un disegno cattivo a formarglisi
in testa.
Un
favore, sì, certo. Sta a vedere che c'è qualcosa
di grosso che
bolle in pentola. Sputò la sigaretta a terra e
mandò un messaggio
alla sua cricca, voltandosi a osservare il vicolo imboccato dal moro.
Qualcosa di molto grosso.
«Non
capisci Gerard, se uno sconosciuto è gentile con te e ti
dice “alla
prossima” non significa che ti sta chiedendo di cercarlo e
accollarti i suoi problemi; ti prego ragiona» insistette
Mikey,
cercando di far leva sulla parte realista del fratello; «per
quanto
ne sai potrebbe essere un ragazzo padre che ha messo incinta una
delle sue groupie ed è stato buttato fuori di casa dai suoi
genitori
per lo stesso motivo, e che ora si fa per non dover convivere con
l'incredibile pressione che gli è caduta sulle
spalle».
«Un
motivo in più per essergli amico»
ribatté pronto il più grande,
deciso; «se è arrivato a drogarsi vuol dire che da
solo non è
riuscito a ricucirsi tutte le ferite che gli altri gli hanno lasciato
addosso e che tutto lo sta schiacciando, è mia
responsabilità fare
qualcosa».
«No
Gerard, non lo è» insistette l'altro, esausto
dalle continue
conversazioni a vicolo cieco col fratello; «non è
neanche detto che
sia per la sua vita che si droga, magari ha solo voglia di
divertirsi».
«In
ogni caso» tagliò corto Gerard, senza mai perdere
la sua calma
quasi irreale «devo trovarlo e fare in modo che qualcosa
succeda».
Prese un sorso dal suo smoothie alla frutta e Mikey sospirò,
passandosi la mano sul volto, esasperato dalla testardaggine del
moro.
«Giuri
almeno che ti terrai alla larga da quella parte della
città?»
supplicò quasi.
«Andrò
dove ce ne sarà bisogno» rispose semplicemente il
fratello,
guardando mitemente l'orizzonte. «E poi non si sa mai, magari
potrei
incontrarlo al negozio di dischi qui attorno».
«Gerard,
quel negozio è a miglia di distanza» gli fece
notare il biondo.
«Per
me, ma per lui?» obiettò il moro.
Osservò l'espressione del più
piccolo e posò il bicchiere sul tavolo, alzando i palmi per
rassicurarlo: «guarda Mikey, capisco preoccupazioni e tutto
ma non
mi succederà niente. Sono un perdente, non in
pericolo».
Prese
a ridere, tranquillo, ma Mikey impallidì e
esclamò: «Gerard
attento!» pochi secondi prima che una presa decisa lo
afferrasse per
il colletto della maglietta e lo sollevasse di peso dalla sedia.
Mikey
scattò in piedi di riflesso e Gerard si voltò
terrorizzato,
annaspando nei meandri della sua memoria per portare alla luce il
viso semi-familiare che gli stava sorridendo cattivamente in faccia,
per niente toccato dall'essere in pieno pubblico. Dopotutto erano in
New Jersey, risse e percosse erano l'ordine del giorno.
Prima
che potesse mettere assieme i tasselli del puzzle, Gerard si
ritrovò
a stringersi la mascella con entrambe le mani, gli occhi strizzati
per contrastare il dolore e una risata divertita echeggiante
nell'aria attorno a lui.
«Gerard!»
esclamò il fratello facendosi avanti, superato lo shock
iniziale. Un
ragazzo di qualche anno più grande di lui, un braccialetto
di pelle
al polso sinistro e un anello di un colore metallico al medio, lo
strinse da dietro e lo tenne fermo mentre il riccio assestava un
altro pugno nello stomaco del moro.
«Ehilà
sfigato, ti ricordi di me?» gli soffiò in faccia,
a pochi
centimetri dalla pelle. Gerard rantolò e il ragazzo
sentì un'altra
scarica di adrenalina attraversargli il corpo. «Siamo
cresciuti
insieme, te lo ricordi?».
Altro
pugno, altro mugolio, altro dolore lancinante. Certo che se lo
ricordava, come si scordava uno come Dayton?
«Io
non me lo ricordavo mica, ma l'altro giorno un uccellino è
venuto da
me e mi ha rinfrescato la memoria» cinguettò,
maligno «e una delle
cose che questo uccellino mi ha detto è una gran puttanata.
Ma una
cosa che l'uccellino non sa è che io le stronzate le
riconosco a
chilometri di distanza, e che nessuno muove così tanto le
acque per
una nullità come te».
Lo
guardò quasi con disgusto, senza però decretarlo
degno di un
sentimento tanto radicale. «Cosa stai combinando sotto il mio
naso,
insetto del cazzo? In che cazzo di giro ti sei ficcato per essere
improvvisamente qualcosa di più della gomma sotto le scarpe
dell'intera comunità?».
Lasciò
la presa e Gerard cadde a terra, tossendo. «Questo
è il mio
territorio, siamo intesi? La prossima volta che sento il tuo nome non
sarò così clemente» ringhiò
il più grosso, sputandogli a pochi
centimetri dalla spalla prima di fare un cenno ai suoi amici e
scomparire da dove erano venuti.
Mikey
corse verso Gerard e si piegò su di lui, mettendogli una
mano dietro
la nuca per sorreggerlo. Gerard alzò la mano per dirgli che
era
tutto okay e per una frazione di secondo gli parve di riconoscere un
volto nella folla che aveva cominciato a ricomporsi. Quando fu sul
punto di metterlo davvero a fuoco tutto si fece nero e si perse in un
paio d'occhi d'acero tra le urla d'aiuto del fratello.
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