The sand in the bottom half of the hourglass

di Amphitrite
(/viewuser.php?uid=833627)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1 ***
Capitolo 3: *** 2 ***
Capitolo 4: *** 3 ***
Capitolo 5: *** 4 ***
Capitolo 6: *** 5 ***
Capitolo 7: *** 6 ***
Capitolo 8: *** 7 ***
Capitolo 9: *** 8 ***
Capitolo 10: *** 9 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Lo Smithsonian è gigantesco e fin dall’esterno chiunque, senza esclusioni di sorta, si sentirebbe schiacciato dalla sua mole. È una grandezza che atterrisce ed esalta al tempo stesso: la consapevolezza di essere piccoli, nulla più che formiche in un mondo sconfinato che si mescola all’esaltante consapevolezza di possederla, quella grandezza. Ce l’hai dentro, sembrano dire quelle lunghissime vetrate; non importa quanto tu ti senta piccolo. Se hai la capacità di immaginarla, di sentirla, una tale magnificenza, è perché ne hai un po’ dentro. Una scintilla.
Entra con gli occhi sgranati e il collo che già le fa male, da quanto si sforza di tenere il naso in aria, e rimane ancora di più a bocca aperta. È la perfezione del moderno che incontra l’antico: scale mobili che portano da un piano all’altro in un costante viaggio nel tempo che alterna ricostruzioni storiche a scoppi di modernità, dimostrazioni interattive e proiezioni in 3d che si attivano al passaggio dei vari turisti. Nei saloni echeggia un vociare distante e continuo, una melodia infinita che accompagna ogni ora del giorno, senza sosta né soluzione di continuità.
Il primo ad avvicinarlesi è un ragazzo sulla trentina d’anni con un sorriso scandalosamente bello e due occhi che dovrebbe essere dichiarato illegale mostrare così, senza il dovuto preavviso. “Posso aiutarla?” Si offre con tono cortese.
“Ero venuta a lasciarvi un curriculum per quel posto…”
È come accoltellare un palloncino. Il sorriso si spegne e gli occhi assumono quella sfumatura da ‘desidero la tua morte ora’ che smonterebbero anche la groupie più entusiasta, e più che uno splendido ragazzo sulla trentina ora le sembra di avere davanti il suo vecchio zio quando, di domenica pomeriggio, guardava la partita sul divano. Una gioia ogni tanto, sembra supplicare al cielo, senza però ottenere risultati tangibili. “Ah.” Condensare così tanto odio in un monosillabo così piccolo sembra impossibile. E invece.
“Sì, posso… posso lasciarlo a te?”
“No.” La risposta arriva secca come uno schiocco, caricata dello stesso odio nei confronti dell’umanità.
“Ah. Scusa.”
“Ma figurati, è che io qua non conto un cazzo.”
Una risatina e un’occhiataccia in tralice e il clima funereo viene ripristinato. “Quindi dove lo lascio?”
“Non posso dirtelo.” Scenari improbabili le si profilano in mente: immagini di Capitan America in persona che sfoglia il suo curriculum, colloqui conoscitivi sostenuti con Steve Rogers e Tony Stark in combo vincente, tè presi chiacchierando con Vedova Nera, pioggia di coriandoli che in realtà sono banconote e tutto il campionario. Si fermano – quando, di preciso, hanno iniziato a camminare? E perché lei ha il fiatone? – e lui la guarda negli occhi. “Scappa. Hai ancora una scintilla di gioia di vivere nello sguardo, tu. Scappa.”
“Vedrò cosa fare. A chi lo lascio, allora?”
Il ragazzo sospira, cede e allunga una mano. “A me. Poi però non dire che non ti avevo avvisato.”
 
***
 
Spari.
Bob, al suo fianco, grugnisce tutto il suo fastidio e rotola sull’altro fianco nella speranza di riprendere a dormire.
Ti stanno sparando addosso.
Marge si alza a sedere, dà in una scatarrata degna del miglior scaricatore di porto e sputa a terra. Subito dopo torna a coricarsi mentre, in lontananza, un antifurto inizia a suonare.
Scappa. Corri. Difenditi.
Kevin si alza e, terribilmente infastidito dai suoi lamenti nel sonno, gli sferra un calcetto a una spalla nella speranza che si svegli e la smetta.
L’uomo apre gli occhi e glieli pianta addosso, inchiodandolo sul posto per quella che è una frazione di secondo e che invece gli sembra un’eternità. Kevin non è un’aquila, ma nota tutto: dalla bocca aperta in una smorfia di dolore e rabbia disumani alle pupille, sottili come spilli. L’ultima cosa che nota prima che il tempo riprenda a scorrere a velocità normale, è che qualcosa che dovrebbe essere una mano è appena sbucata da sotto ai cartoni e, con un luccichio sinistro, gli ha appena fracassato uno stinco.
 
Gli altri barboni grugniscono insulti incomprensibili mentre quella piattola di Kevin – sempre a caccia di guai, Kevin – si accascia a terra urlando per chissà quale motivo ridicolo. Come minimo qualche piccione gli avrà cagato addosso, sai che tragedia. Bob di sicuro non si muoverà per una tale stronzata, l’ultima volta Marge è rotolata nel suo lato di letto e non si è più spostata.
Fosse matto.
 
***
 
“Ho portato un curriculum allo Smithsonian.”
“Cercano donne delle pulizie?”
Un cuscino attraversa l’aria e si schianta con un poff che sa di fallimento ai piedi di Claude. “No, stronzo. Guide per la nuova ala.”
La nuova ala. Nessuno ci crede ancora, alla valanga di dati che hanno invaso la rete. Lo SHIELD, l’HYDRA, tutto. Informazioni troppo imponenti, conseguenze troppo serie per potersi mettere a tavolino e leggere, imparare, capire. Non per gente come loro, che di supereroi non ha mai saputo niente e di alieni ha imparato solo di riflesso, quando per uno sgradevole incidente di percorso il mondo è stato messo al corrente di quello che all’epoca credevano essere tutto, e che invece non era niente. Ops, ci dispiace. Pensavate fosse tutto l’iceberg? Erano due fiocchetti di neve, un giro di riscaldamento. Reggetevi alle balaustre del Titanic, che ora inizia il vero spettacolo.
Cosa fa il mondo civilizzato quando scopre di essere finito invischiato nei giochi di potere di due, massimo tre persone? Si arrabbia. Prende atto. Va avanti.
Lo Smithsonian ci apre una nuova ala del museo.
Claude la guarda dall’alto della propria tazza dove, al ritmo cadenzato di un gesto che ormai non ti stai nemmeno più rendendo conto di compiere, sta molleggiando il cordolo di una bustina di tè. “Non hai già un lavoro, tu?”
“Avevo. Poi mi è venuto un attacco di claustrofobia all’idea di morire in quel buco infernale e ho mollato.” Charlotte fa una smorfia disgustata. “Dici che è possibile avere una crisi di mezza età a venticinque anni?”
Claude si stringe nelle spalle. “Non lo so. Ma alla tua età Vedova Nera aveva già rovesciato diverse dittature.”
“Beh, anche questo potrebbe cambiare il mondo. Migliorerò la società un turista alla volta.” Charlotte si punta i pugnetti chiusi sui fianchi e fissa gli occhi castani su una ragnatela, nell’angolo destro del salotto. Avere un’aria ispirata mentre si osserva un ragnetto calarsi placido e beato dall’alto è difficile. Tanto più che Charlotte è aracnofobica, pertanto ciò che ne consegue è un urlo e una supplica a Claude di ammazzare il bastardo ottopode. Claude ride, perché è un essere umano spregevole e ignora quanto possa essere pericoloso far arrabbiare una persona munita di pollici opponibili tutt’altro che sensibile alla vista del sangue. “Dopo me ne occupo. Quando non sarai presente gli darò una sepoltura degna. Che ne dici di un funerale vichingo? Lo metto su uno dei tuoi dischetti per togliere il trucco e do fuoco. Che te ne pare, Charles?”
“Sembra tu stia facendo una sega alla tazza di tè.”
Charlotte gli dà le spalle e si dirige in camera con un sospiro sconfortato. “No, ma davvero!” La voce di Claude la raggiunge, profonda e morbida, piacevole alle orecchie come un drappo di velluto potrebbe esserlo al tatto, “se cercano donne delle pulizie dimmelo che porto un curriculum anche io!”
 
 
Note dell’autrice:
Saaaaalve! :3
Io questa cosa la lascio qua, vediamo che succede…
 
…No seriamente, qualsiasi feedback è più che benvenuto! Fatemi sapere! Lanciatemi contro i pomodori! Basta che non siano troppo acerbi o mi faccio male! :D

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 1 ***


1.
 
Il giorno del colloquio è un ometto basso e panciuto dall’aria tremendamente simpatica, ad accoglierla.
Charlotte trema e traballa un poco, nei tacchi di rappresentanza che ha indossato per fingersi una persona seria, e si guarda attorno con due occhi enormi.
“Le piace proprio, il museo, eh?” L’uomo ridacchia e la scorta in un ufficio dove, assieme ad altri quaranta candidati, avrà modo di dare una pessima prima impressione. Perché sì, Charlotte sa che andrà male. Lo sente nell’ordine dell’universo, non ti presenti per un colloquio e vieni anche assunta. Non al Museo Nazionale di Storia Americana. Queste cose al massimo succedono se ti candidi come netturbina.
…No, nemmeno come netturbina. Ci ha già provato, ma i bastardi volevano gente con esperienza.
 
***
 
Claude attraversa la strada con il solito pacchetto tra le mani. Attento a non rovesciare niente, attento a non scottarsi, attento a tante di quelle cose da non accorgersi di stare per calpestare un senzatetto fino a che non è troppo tardi, e l’unica scelta è tra il buttare il baricentro troppo in avanti o troppo indietro.
Claude non è un cane, per quanto a Charlotte piaccia fingere che sia così, pertanto la scelta è ovvia: butta tutto il proprio peso sulla gamba sbagliata, quella ormai troppo debole per assorbire il contraccolpo e reggerlo, e si lascia cadere di sedere con un tonfo sorto.
“Merda.” Grugnisce, il pacchetto ancora in equilibrio per miracolo.
Marge sorride e si alza di corsa, affrettandosi a dargli una mano. “Claudio!” Lo saluta con la voce arrochita dal sonno. “Claudio, tesoro della zia, ma che ci fai a terra?” Claude indica con un cenno del capo Bob e si stringe nelle spalle, come se la risposta fosse ovvia. Marge – Margherita all’anagrafe, classe ’72, fieramente fuori di testa da ormai diversi anni – spernacchia all’indirizzo dell’altro barbone. “Lui? Potevi anche travolgerlo, mi facevi un favore. Tu sei troppo buono, Claudio. Imparala, un po’ di legge della giungla.”
Claude annuisce, promette solennemente che dalla prossima volta si lancerà di gomito addosso ai passanti urlando MORS TUA e si alza. “Madame…” Fa un mezzo inchino, scarta il pacchetto e porge alla donna una delle scatoline. “Cinese, oggi. La signora è contenta?”
Marge dà in un versetto sdegnato. “Oggi non è giornata di thailandese?”
“Era ieri, Marguerite.”
“Io sono abbastanza sicura che fosse anche oggi.”
“Il cinese lo vuoi o no?”
Marge allunga una mano e, con le movenze di una duchessa, prende una confezione per sé e una per il proprio consorte – Roberto, più pazzo di lei che non affetto da forme cliniche di sorta – e schiocca un bacio sulle proprie dita. Mormora qualcosa in italiano che Claude non capisce e gli sfiora la fronte con i polpastrelli.
“È bava, quella?”
“Amore condensato, Claudio. Si chiama amore condensato.”
“A me sembra bava.”
“Ti ho benedetto, ingrato bastardello. Tieniti la mia saliva e non fiatare.”
“Hai visto Kevin? Ho il pranzo anche per lui.”
Marge fa una smorfia dispiaciuta e si stringe nelle spalle. “Oh, il povero Kevin. Gli hanno rotto una gamba, sai? Stanotte. Ce n’era uno nuovo, a dormire nel vicolo. Kevin lo ha preso a calci e lui gli ha rotto una gamba. Stava ancora piagnucolando che lui non aveva fatto niente di male, mentre lo portavano via in ambulanza.”
“Povero Kevin.”
Bob, sotto di loro, grugnisce qualcosa di incomprensibile e rotola fino a poter guardare Claude negli occhi, stravaccato sul materasso di cartoni di cui si è ormai del tutto impossessato. “Povero Kevin le mie palle, se l’è cercata. Io l’ho detto che a quello nuovo non bisogna dare fastidio. Non sapessi in che anno siamo, lo darei per un reduce del Vietnam. Non gli devi rompere le palle, ai reduci del Vietnam.”
 
***
 
“Cinque.”
Charlotte fischia rumorosamente il proprio apprezzamento. “Addirittura cinque? Cavolo. Non fai confusione?”
Greg scuote la testa e i riccioli castani ondeggiano nella luce artificiale come se fossero bagnati di grazia divina. “Non è niente di complicato, in realtà. Con un po’ di pratica, chiunque potrebbe riuscirci. Anche tu.”
Charlotte si sforza di rivolgergli un sorriso amichevole. “Grazie.” Scandisce con tutto l’odio di cui è capace. E vorrebbe ribattere schiaffeggiandolo moralmente con qualche particolare abilità che lei e solo lei può vantare e che potrebbe arricchire lo staff dello Smithsonian, ma al momento le uniche cose che le vengono in mente riguardano doti mirabolanti che il suo ex attribuiva alla sua, di lingua. Non paga di risultare una candidata inferiore sotto ogni aspetto – Greg ha due lauree e sa cinque lingue, signore iddio – intreccia le dita sotto al mento e rivolge un sorriso affascinante a una lampada al neon sul soffitto. Se continuasse a fissare negli occhi verdi di Greg ci si perderebbe fino a dimenticarsi perfino cosa sta facendo là.
…Dio, lo assumeranno a scatola chiusa. È alto, bello, e parla cinque lingue. Al diavolo, lei lo assumerebbe come valletto personale, se solo avesse i soldi per permetterselo.
“Ehi, ma che belle mani.”
“Oh. Grazie.” Sorride e si osserva le dita con aria più attenta, ora, alla ricerca di eventuali difetti nello smalto. “Ci… ci lavoro.”
No, ma diciamolo qualcosa di orribilmente fraintendibile, ogni tanto, Charles.
Greg fa un’espressione di improvvisa realizzazione e Charlotte sa che è giunto alla conclusione più sbagliata di sempre. “Capisco.”
“La manista!” Esclama, le guance ormai due chiazze rubiconde. “Faccio la manista.”
Greg sorride come a volerle dire che non c’è niente di cui vergognarsi – c’è grossa crisi, chi meglio di un plurilaureato poliglotta può capirlo – e abbraccia lo schienale della sua seggiolina, sempre più sporto col busto verso di lei. “Che nome esotico. E lavori anche con i piedi, ogni tanto?”
 
***
 
La moto sfreccia tra i vicoli di Brooklyn, veloce e silenziosa come un serpente, macina chilometri e sorpassa i palazzi e le case in una nube di colore dai contorni indistinti. Il Capitano scuote velocemente la testa e si impone di non soffermarsi su niente. Niente, prima di raggiungere il suo obbiettivo. Gira a destra, un’ultima svolta prima di fermare la moto con una sgommata che solleva polvere e breccino in quantità tali da stroncare un asmatico con problemi di allergia.
L’insegna del bar si illumina a intermittenza, numerose lettere sono state rotte dal tempo o da qualche sassata, fino a scandire la parola QULO. Steve scuote la testa con un sospiro rassegnato ed entra.
Le finestre sono buie, rese opache dalla polvere. Un cliente particolarmente affezionato grugnisce un insulto quando una lama di luce gli brucia gli occhi indeboliti da tanto buio forzato e minaccia indicibili vendette per ripagare l’onta subita. Steve scuote di nuovo la testa e si avvia al bancone.
La barista è una bella donna. Alta, mora, ha quella bellezza senza tempo di chi ha ormai superato la soglia degli –anta ma si è dimenticato di notificarlo al proprio organismo. I capelli si ostinano a crescere del loro colore originario, un mogano che perfino in quella penombra brilla di riflessi che a Steve paiono tutt’altro che nuovi. Deve sbattere le palpebre un paio di volte più del dovuto per smettere di vedere tutt’altra persona in piedi, fiera e splendente come il sole. “Bella giornata oggi, vero?”
Annuisce con aria assente e nemmeno si disturba a ordinare da bere: prende posto, si guarda attorno, e inizia con le domande. “Da quanto esiste questo bar?”
La donna sorride e riprende a lucidare i bicchieri di birra. Oltre le labbra vermiglie, Steve può vedere una fila di denti bianchi, storti quanto basta a non farla sembrare finta. “Cinquant’anni almeno. Lo ha aperto mio padre. Io avrei voluto vendere, ma alla fine non ce l’ho fatta. Alla fine ti affezioni anche alle cose che credevi di odiare, se ci rivedi le persone a cui vuoi bene.”
Una fitta allo stomaco.
Perché sei rimasto, Steve? Perché continui a portarti dietro quello scudo con la vernice scrostata?
“Capisco.”
Peggy. È per Peggy.
“Come mai tanto interesse?”
No. Per Peggy sei rimasto nello SHIELD. Ora, Steve. Ora perché resti?
“Conoscevo una persona che abitava qua.”
 
***
 
“Come mai vorrebbe fare questo lavoro?”
“Mi piacciono i musei.”
Il responsabile delle risorse umane – Arthur, come ha tenuto a precisare più volte; devono chiamarlo Arthur – la guarda con aria interessata e annuisce. Charlotte capisce che attende una risposta più articolata dopo quarantasette secondi di silenzio e sa di essere fregata. Venti secondi sono sto pensando alla risposta migliore da dare a una domanda importante; quarantasette significano sono stupida.
E non se la sente nemmeno di andare troppo contro questo assioma inconfutabile dei colloqui di lavoro, ora come ora.
L’uomo davanti a lei sospira e scarabocchia qualcosa sulla cartelletta dove ha precedentemente pinzato il suo curriculum. Charlotte non lo vede, ma è sicura che sia una croce. Bella cicciotta. Sulla sua fototessera. Magari ci ha anche aggiunto ‘non assumere mai mai MAI’, se proprio è la sua giornata fortunata.
Sospira e si guarda attorno, mortificata. “Senta,” esordisce con tono accorato, “mi piace davvero questo posto e ho davvero bisogno di un lavoro.”
Arthur la squadra da sopra ai propri occhiali da vista e sospira. “Come se la cava con i bambini?”
“Beh, faccio saltuariamente la baby sitter da diversi anni, ormai.” Silenzio. Charlotte lo guarda. Ancora silenzio. Oh, dannazione, non di nuovo. “Ancora non ne ho ammazzato nessuno.” Aggiunge in un pigolio, nella vana speranza di risultare un po’ meno idiota.
L’uomo si aggiusta gli occhialetti fuggiaschi lungo il ponte del naso e annuisce. “Ammirevole. Temo che il nostro tempo sia esaurito, signorina. Le faremo sapere.”
Con un sospiro di sollievo, Charlotte si alza e si spolvera la gonna. “Ci credo tantissimo.” Mormora con un vigoroso cenno affermativo che le fa sobbalzare lo chignon sulla capoccetta. “Mi saluti tanto l’onanista poliglotta.” Aggiunge, vedendo che è Greg ad alzarsi per andare subito dopo di lei a coprirsi di splendore e gloria.
Cinque passi e sei fuori, continua a ripetersi. Cinque passi senza cadere dai tacchi. Puoi farcela.
“Ah!” Esclama alla fine, quando è ormai sulla porta. “Cercate personale per le pulizie? Un mio amico sarebbe interessato.”
 
***
 
“Tracce del soggetto?”
“Niente di certo. Un ricovero stanotte, al County General Hospital. Una gamba rotta durante una rissa tra barboni.”
La radio emette una scarica sinistra e la voce esce più gelida che mai. “Arriva al punto.”
“Il barbone ricoverato aveva l’osso sbriciolato. E continuava a ripetere che gli era strato stritolato a mani nude.”
Silenzio.
“Sai cosa fare.”
 
 
Note dell’autrice:
Salve salve! :3
Che dire? Spero che la storia possa risultare interessante, almeno un pochino :D
Grazie mille alle anime buone che hanno letto, messo la storia tra le seguite e hanno addirittura commentato, wo-hoooo! <3

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 2 ***


2.
 
“Abbiamo una pista.”
“Sai cosa fare.”
 
***
 
Kevin lo odia, quel figlio di puttana. Oh, ma se solo dovesse vederlo di nuovo…
Con un gesso alla gamba e due stampelle difficilissimi da manovrare, l’uomo si aggira per il dormitorio dove è stato accolto per la serata. E i giorni a seguire, sospetta: non è proprio nelle condizioni di litigare per un angolino libero sopra lo sfiuto dell’aria calda di qualche ristorante. Anche là non si sta male, a ben vedere.
Con un sospiro profondo, Kevin trova il proprio posto su una delle brandine. Due coperte sdrucite sono state appoggiate sul suo letto, in caso ne avesse bisogno durante la notte, assieme a quel poco che dei volontari possono rimediare per aiutare il più possibile gli invisibili della città. Kevin si passa tra le mani il rasoio, lo soppesa e alla fine – che diamine – decide che è passato un po’ troppo tempo da quando ha avuto modo di farsi la barba davanti a uno specchio decente, con un’illuminazione adatta a non mutilarsi gravemente e con tutta la calma possibile. I bagni sono enormi, ci manca solo che arrivi qualcuno a lamentarsi; ha due stampelle, non ci metterebbe nulla a piantarne una nel naso dell’attaccabrighe di turno.
Lui non va a caccia di guai. Mai cercati i guai, Kevin. Sono loro a trovare lui.
 
***
 
La porta viene chiusa con un delicato colpetto di tacco, subito seguito da un sospiro stanco e un tonfo sordo quando, finalmente, Charlotte lascia cadere a terra la borsetta. Claude, dal divano, alza il telecomando in cenno di saluto. “Com’è andata?”
“Hai un colloquio fissato per giovedì.”
“Affascinante.” Sullo schermo passano immagini confuse, in coincidenza con l’ennesimo servizio sull’ennesima aggressione da parte di idioti con troppo tempo libero ai danni di qualche senzatetto. Claude storce il naso, disgustato da tanta crudeltà gratuita.
“Sai dov’è il Museo di Storia Americana, vero?”
Una doccia fredda non potrebbe risultare più devastante. Getta la testa all’indietro, seguendo – per quanto capovolti – i movimenti della coinquilina. “Sei seria? Oh Charles, davvero?
“Nove in punto.” Una scarpa viene lanciata con un toc contro la prima parete libera. “Giacca e cravatta.” La seconda scarpa vola dall’altro lato del corridoio e impatta con un tonfo morbido contro il materasso. “Puntuale.” La giacca viene fatta scivolare a terra, seguita da numerose forcine.
“Sei una persona orribile.”
Charlotte si volta a guardarlo, i capelli resi una nuvola di ricci indomabili dall’acconciatura in cui li ha trattenuti per tutto il giorno, e sorride. Si infila in bagno e, prima di chiudersi la porta alle spalle, Claude vede una minigonna attaversare l’aria e atterrare sul tavolo della cucina.
 
***
 
“Berto?” Bob grugnisce il proprio disappunto e stringe un po’ più forte a sé Marge nella speranza, alternativamente, che la sua dolce metà stesse per richiedere proprio quello o di asfissiarla tanto da farle perdere i sensi. Marge scodinzola nel suo abbraccio e sbuffa una risatina infantile. “Tanto lo so che sei sveglio.”
“Fai finta che no.”
Marge ride di più e si gira nel suo abbraccio fino a potergli baciare il naso. “Eddai. Apri gli occhioni, Berto, ho un dubbio.”
“L’uovo.”
Seguono istanti di silenzio alla fine dei quali Bob cede e apre gli occhi. Marge lo osserva in silenzio.
“Che c’entrano le uova?”
“Di solito se mi rompi le palle a quest’ora di notte è perché ti prendono dubbi cretini, tipo se è nato prima l’uovo o la gallina. Magari mi diceva fortuna.”
“Cretino.”
“Lo so. Dimmi tutto, mia amata.”
La donna schiocca la lingua sul palato e gli liscia la giacca sdrucita sul petto, con l’aria di una ragazzina in vena di civettare. Bob sente lo stomaco stringersi, e l’abbraccio con cui le cinge i fianchi si fa infinitamente più protettivo. “Dici che coso… quello che ha rotto la gamba a Kevin… dici che è pericoloso?”
Bob si stringe nelle spalle e, come prima cosa, le bacia la fronte. Era un po’ troppo che non lo faceva. “Non credo.”
“Bene.”
“Perché me lo chiedi?”
“Perché ci sta fissando da mezz’ora, e non sapevo bene se spaventarmi o lanciargli contro qualcosa.”
Silenzio. Tanto silenzio. Bob si volta a guardare e lo trova seduto per terra, la schiena contro un muro e le ginocchia al petto e lo sguardo vitreo che si posa su di loro e su tutto il mondo senza vedere niente. Di nuovo, avverte una morsa alla bocca dello stomaco; ma questa volta sente una tristezza sconfinata nel vedere un uomo così giovane e così irrimediabilmente perso.
“Marge?” La richiama con tono dolce, senza smettere un istante di pettinarle i capelli in punta di dita.
“Sì, amor mio?”
“Prova a dormire un po’.”
 
***
 
La casa è pervasa da un profumo a dir poco celestiale.
…Per quanto celestiali possano essere alette di pollo surgelate e malamente scongelate nel forno, ovvio.
“È pronto!”
Charlotte apre lo sportello dell’elettrodomestico e, brandendo il fedele straccetto asciugapiatti, dissipa un po’ del fumo che sta venendo sprigionato.
“Porti tu, in tavola?”
La voce di Claude giunge dal salotto e la risposta è secca e immediata.
Col cazzo.” Charlotte entra in salotto con l’incedere di una regina che ha appena pestato parti poco nobili comunemente associabili a cani o cavalli e punta un ditino accusatore addosso al coinquilino. “Tuuu!” Esordisce, ululando come un fantasma di qualche film horror di dubbio gusto, “Tu! Tu guadagni con tutto tu! Tu non devi preservare l’incolumità di appendici generiche, tu!
Claude rovescia la testa oltre il bordo del divano e dà in un verso sofferente da balena spiaggiata. “È una teglia di ali di pollo, Charles. Cosa vuoi che ci sia di così pericoloso, per le tue mani?”
“Le mie mani sono la mia unica fonte di guadagno, ora come ora!” È la replica venata di isteria che ne ricava. Assieme a un cuscino sul naso.
Il cuscino non è piacevole.
 
***
 
Claude la sveglia alle sette di mattina, infilandosi in camera sua e accendendo a intermittenza la luce fino a che Charlotte non dà in un barrito da elefantessa morente. Di dolori di parto.
“Perché vuoi farmi venire un attacco di epilessia?” Piagnucola la donna quando, una volta placato l’attacco di follia estemporaneo del coinquilino pazzo, sta pucciando un biscottino triste in un caffellatte ancora più triste che – almeno! – già citato coinquilino pazzo le ha portato a letto.
Claude si siede sul letto con tutta la cautela del caso e le porta una ciocca di capelli dietro l’orecchio con aria premurosa. La viscida serpe. “Ho il colloquio allo Smithsonian, stamattina.”
“E quindi?”
“Quindi dovevi soffrire un po’ anche tu. E devi portare il pranzo ai ragazzi.”
Charlotte, di nuovo, si esibisce in un barrito struggente. “Ma sono le sette.”
“Ed è il tuo turno di fare i piatti.”
“Ma sono le sette.”
“E devi anche fare la spesa.”
Ma sono le sette.
“Ti ho lasciato una cosa sul tavolo, portala a Marge.”
“Claude.” Lo richiama, gli occhi lucidi dalla stanchezza e dagli sbadigli che già stanno susseguendosi in una serie infinita. “Sono le sette.”
“Grazie per il segnale orario. Per il meteo aspetto l’aggiornamento delle sette e cinque?”
Charlotte gli si appende alla giacca “Dovrai essere giudicato da una divinità crudele vendicativa, per questo.”
“Hai dimenticato di dirmi che sono le sette.”
 
***
 
Marge sbatacchia i piedi sotto la coperta di lana nuova fiammante e dà in un verso deliziato. “Carlotta!” Chioccia. “Oh, Carlotta, non dovevi!”
“Era di Claude. Dovresti ringraziare lui, io non ho fatto niente.”
“Tu me l’hai portata! Sei un angelo che dispensa coperte e cibo!”
Charlotte ridacchia e scarta i pacchetti del pranzo. “Bob…” Elenca mentre percorre il vicoletto e distribuisce pasti caldi.
“Grazie, stellina.” Bob sorride e alza il proprio contenitore in un brindisi.
“Prego.” Si sente quasi fiera di sé, quando fa queste cose. Quasi. “Marge…” La donna la guarda e si sporge un po’ più del dovuto, tanto da accarezzarle i polsi fino alla punta delle dita. Charlotte sobbalza così all’improvviso da lasciare la presa sul pranzo della donna. È lei a prenderlo al volo con un risolino. “Scusa! Oddio, scusami Marge. Scusami, scusami, scusami.” È paonazza. Non c’è altro modo per descriverlo, sente il sangue confluire con tanta violenza al viso da rischiare si sprizzarle dalle orecchie.
Marge ride deliziata, un angolo di pizza penzoloni tra i denti. “Tranquilla, Carlottina.” Biascica una volta sconfitto il mare di mozzarella filante. “A volte mi dimentico che ce l’hai su col contatto fisico.”
“Mi dispiace.” Pigola, stringendosi le mani al petto. “È solo finché non trovo un lavoro più stabile, lo giuro.”
Si sente morire.
Finché si tratta di insultare Claude o minacciare di morte sconosciuti nei locali è un conto, ma con Marge… con Marge è diverso. Con Marge si sente un mostro. Negarle quel piccolo contatto come se avesse paura di toccarla, o peggio… “Scusami.” Ripete, la voce un sussurro tremulo.
Marge sorride, intenerita più che mai, e solleva un gomito. “Taffetà, Carlottina.”
Charlotte allunga un gomito a sua volta; ci sono volte in cui i riferimenti culturali di cui è capace Marge la lasciano a bocca aperta.
 
“Anche lui è della comitiva?”
Marge guarda il fagotto di giornali e cartaccia indicato da Charlotte e si stringe nelle spalle. “Kevin non è ancora tornato.”
Charlotte soppesa l’ultimo incarto di pizza e si decide ad attraversare la strada.
 
“Ehi.”
Il nulla risponde.
“Signore?”
Il fagotto si muove. Numerose cartacce scivolano via, rivelando una figura tozza sdraiata su un fianco. Charlotte aggrotta la fronte e rimane un po’ perplessa nel vedere quello sconosciuto con un pezzo di cartone tra il proprio corpo e il braccio che tiene poggiato a terra.
 
La prima risposta che formula è in russo.
 
La sconosciuta lo guarda con gli occhi sgranati, nelle mani un pacchetto con delle scritte in italiano.
“Cosa?” Riesce a ripetere dopo qualche istante.
Il cervello è una tempesta di lingue che non ricorda di aver imparato ma, semplicemente, conosce. Sente una donna, sporta da una finestra sopra di lui, parlare in cinese al proprio figlio. A pochi passi di distanza un uomo impreca in spagnolo al telefono. Sente tutto, e non riesce a capire niente.
“Il pranzo. Lo vuole?”
Charlotte solleva la confezione della monoporzione e gliela porge tenendola con una mano. Le dita, lunghe e sottili, sembrano ancora più affusolate grazie allo smalto: schegge blu che gli saettano davanti agli occhi ogni qualvolta la ragazza fa qualche gesto, dal semplice spostarsi i capelli da davanti agli occhi a qualsiasi – davvero, qualsiasi – altra cosa. Si trova a rincorrere quelle macchie di colore con lo sguardo senza nemmeno accorgersene e per una volta, una sola volta da quando tutto è successo, lo sente arrivare. Il silenzio.
“Signore?” Lo chiama la ragazza, una supplica nella voce.
L’uomo alza lo sguardo su di lei, e anche oltre le ciocche di roba troppo lunga e troppo sporca per assurgere al grado di capelli Charlotte può sentire quegli occhi celesti addosso, tanto fissi da essere a dir poco terrificanti.
“Sì.”
Un sospiro di sollievo. “O… ok. Ok. Io- io ora poggio tutto qua. E vado via. Giuro. Le… le posate sono da qualche parte, ora- …oh, eccole.” Balbetta, poggiando ai piedi del suo giaciglio improvvisato tutto il necessario. Si muove velocemente nel preparare tutto, ben attenta a non toccare niente che non sia suo. “Ecco. Ora io- io vado. Sì, vado.” Si alza di scatto e si spolvera la gonna con movimenti nervosi. Non lo saluta se non con un cenno della mano, senza peraltro ottenere risposta.
 
Meglio, si dice, scuotendo via un brivido al ricordo di quegli occhi che la inchiodavano sul posto.
 
***
 
“Chi era?”
“Quelli dello Smithsonian.”
“Ti vogliono querelare?”
“Peggio. Mi hanno assunto.”
 

Note dell'autrice:
Gente ancora più idiota!
Dialoghi folli!
Spero che l'insensatezza del tutto non abbia toccato vette troppo alte.

Grazie mille a tutti, davvero!

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 3 ***


3.
 
La saletta ristoro è pervasa dall’aroma di caffè stantio e tappezzeria impregnata del fumo di quando ancora non vigeva il divieto. Charlotte si siede con uno sbuffo sul divanetto, scalcia via le scarpe col tacco e poggia i piedi sulle gambe di Mark. Mark non batte ciglio: solleva un po’ di più il libro che stava leggendo e gira pagina. “Quante comitive hai fatto fin’ora?” Chiede con tono assente.
La ragazza rovescia la testa oltre il bracciolo e i capelli, finalmente liberi dall’impalcatura di forcine in cui li tiene costretti il resto del tempo, penzolano tristemente nel vuoto. “Tre. Ma non finiscono mai? Non ci vanno a scuola, ‘sti stronzi, ogni tanto?”
Andrew – i cui occhi continuano a essere catalogabili come armi improprie, ma ai quali Charlotte sta sviluppando una lenta assuefazione – le solleva le gambe prendendole dalle caviglie, si siede accanto a Mark e se le riappoggia in grembo. Charlotte è molto grata per il riguardo nei suoi confronti.
(Nessuno è più comprensivo di lui per quanto riguarda i mali arrecati dai tacchi, da quando il suo fidanzato lo ha convinto con l’inganno a vestirsi da Marilyn Monroe per carnevale.)
“Lottie, mi conosci.” Esordisce l’infame, accarezzandole in punta di dita uno stinco. Lo stomaco di Charlotte potrebbe starsi contorcendo come un ginnasta olimpionico, nel sentire quel tocco lento e costante sulla pelle velata dai collant. “Non sono tipo da dire ‘te l’avevo detto’.” Mark, al suo fianco, grunisce una risata e continua a leggere indisturbato. “Ma te l’avevo detto.”
La porta si apre prima che qualcuno possa dare forma al VAFFANCULO che alegga sulle loro teste – e su quella di Andrew in particolare – e qualcuno comunica l’arrivo della quarta comitiva. Charlotte muggisce il proprio dolore e rotola giù dal divano.
“Vi odio tutti.” Annuncia con una mano sulla porta mentre Mark – l’usurpatore! – ha preso il suo posto sul divano e ne sta approfittando per farsi fare un massaggino alla cute dal proprio, odioso fidanzato. Charlotte fa un verso disarticolato. “Siete disgustosi e adorabili e vi odio.”
Andrew solleva la manina e le fa ciao con aria allegra.
 
***
 
Bucky… mi conosci da sempre.” I cazzotti forti, lenti e pesanti come le zampate di un leone ferito, e la voce che usciva sempre più lenta, affaticata dai colpi. “Il tuo nome è James Buchanan Barnes.”
Zitto!”
Non mi batterò con te. Sei mio amico.”
Un altro colpo, un altro e un altro ancora.
 
Ma non era andata così.
 
Il Soldato d’Inverno si sveglia di soprassalto e, nel buio del vicolo dove ormai dorme da giorni, sente due occhi piantati su di lui. Gli ci vogliono pochi secondi per identificarli in quelli di una signora di mezza età, sveglia come lui nel cuore della notte.
Marge emerge dal cumulo di coperte come un fiore in un campo. Un fiore un po’ sgualcito, non c’è dubbio, ma il sorriso con cui si guarda attorno è splendido.
Per un istante – un solo istante – nella mente del Soldato si affacciano frammenti, troppo piccoli e inafferrabili per essere chiamati ricordi, ma molto simili a immagini. Se solo il Soldato chiudesse gli occhi – e lo fa – potrebbe trovare, in un angolo della propria memoria, lo stesso sorriso contagioso e rassicurante.
Marge piega la testa di lato nel sentirsi osservare così attentamente, ma non accenna a smettere di sorridere né a ritrarsi. Anzi: approfitta di quando l’uomo di fronte a lei chiude gli occhi per alzarsi e carponare fuori dal giaciglio improvvisato da Bob. Lo può sentire brontolare qualcosa sul fatto che non ha più il suo scaldotto adorato, ma lo ignora e gattona fino a potersi alzare.
Sarà alta a dire tanto un metro e mezzo, eppure Bucky ne ha un terrore cieco quando se la vede incombere addosso con una mano protesa. Arretra fino a sbattere contro il muro, e Marge si porta una mano alla bocca per nascondere una risata.
“Ragazzo.” Lo richiama dopo qualche istante, l’accento italiano che ancora va a influire pesantemente sul suo inglese. Bucky non accenna a schiodarsi da là. “Respira, ok?” Marge gli si inginocchia davanti, mani indurite dagli anni e dal freddo, e quando gli prende il viso tra le mani è la presa di una madre che sta riscuotendo suo figlio da un incubo. La delicatezza con cui si vuole cancellare i brutti ricordi, quella con cui gli porta una ciocca di capelli dietro un orecchio. “Va bene. Va bene.” Gli ripete in una nenia bassa e costante che gli si infila sotto pelle, dentro le orecchie e solo dopo diversi istanti riesce a trovare la strada per il suo cervello.
Bucky non lo vede – non potrebbe nemmeno Marge, e tuttavia le sembra di intuirlo nella penombra – ma i suoi occhi smettono, nel tempo di un sospiro che gli parte dal profondo, di essere fissi e glaciali.
Le pupille ricominciano a dilatarsi.
 
E nel buio, a pochi metri da loro, se solo il Soldato tendesse l’orecchio potrebbe distintamente sentire il rumore della sicura di una pistola che viene reinserita.
 
***
 
“Devi portare il pranzo ai ragazzi, oggi.”
Charlotte sta saltellando per l’appartamento senza riuscire a trovare la scarpa mancante alla propria divisa da guida turistica. “Io?” Gracchia, gattonando con aria afflitta per il salotto.
Claude puccia imperturbabile il proprio biscottino nel tè e annuisce con un “Mh-hm!” acuto.
“Perché io?” La ragazza emerge con lo chignon appena fattio e già compromesso senza possibilità di ritorno e ancora nessuna scarpa. In compenso tiene tra le mani la cravatta smarrita di Claude, e di questo il ragazzo non può che essergliene grato.
“Perché io ho un lavoro infame, Charles, che mi costringe a orari del cazzo e a tal proposito, ricordati che c’è un girone all’inferno per gente come te!” Le ruggisce dietro in un crescendo di volume giacché la coinquilina è sparita in camera sua – di lui.
Charlotte saltella nella scarpa finalmente ritrovata e gli rivolge un sorrisone smagliante. “Sei una bellissima donna delle pulizie.” Trotterella all’uscita e, prima che Claude possa dire qualsiasi cosa, lo batte sul tempo. “Ci penso io quando stacco, tu pensa solo a far brillare i pavimenti – e parlo di qua a casa, che è il tuo turno.”
Quando si chiude la porta alle spalle, Claude sta ancora inveendole contro.
 
***
 
“Perché non avete ancora fatto niente?”
“Stavamo per entrare in azione, ma c’erano dei civili coinvolti.”
“Fate quello che dovete alla svelta.
 
***
 
 “Sarà divertente! Al massimo dovrai lucidarmi le scarpe o portare fuori la spazzatura. Andiamo.
Grazie, Buck, ma posso cavarmela da solo.
Il punto è che non devi.” La presa sulla spalla, stretta e quasi soffocante perché era così magro, così gracile… “Io sarò con te fino alla fine, amico mio.
E Bucky invece era il doppio di lui, pronto a proteggerlo perfino da sé stesso.
 
Il telefono squilla nel cuore della notte e la donna, scuotendosi via di dosso lenzuola e capelli, trova a tentoni il cellulare. “Pronto.” Mormora, tutt’altro che conciliante.
“Buongiorno, raggio di sole!”
Si scosta l’altoparlante dall’orecchio ormai ustionato e si puntella sui gomiti per potersi scostare l’ennesima ciocca vermiglia da davanti agli occhi. “Ho ucciso per molto meno.” Annuncia con tono glaciale.
Dall’altro capo, Steve sospira e cerca di dissimulare una risata in un colpo di tosse. “E dovrei spaventarmi per una minaccia che mi arriva dall’altro capo del mondo perché…?”
“Rimarresti sorpreso.” Il sorriso nella voce di Natasha è palpabile.
“La lunga mano dello SHIELD?”
“Nah, eravamo ancora all’epoca del KGB.”
Attimi di silenzio, e Natasha non ha bisogno di sforzarsi per sentire quanto Steve stia fisicamente faticando per esprimere ad alta voce il suo timore più grande. “Nat, io…”
“Ti sei bloccato.”
L’imbarazzo di Steve è quasi doloroso, dio. “Sono un soldato, non- non sono una spia. Non-”
“Preparo le valige.”
 
***
 
Marge è l’immagine della gioia, quando la vede arrivare. “Carlottina! La mia amata Carlottina mi ha portato il pranzo!” Sbrodola tutta felice.
Charlotte sorride e sente il cuore gonfiarsi di un paio di taglie quando Bob si affretta a raccogliere le loro coperte per permettere che la sua dolce metà possa alzarsi e, scodinzolando come una papera grassoccia, correrle incontro per darle una mano con i pacchetti. C’è tanto amore, nello sguardo dell’uomo, che potrebbe oscurare una stella di medie dimensioni.
“Thailandese.” Mormora con tono complice alla donna, ottenendo un versetto di pura gioia.
“Thailandese!” Le fa eco Marge, all’indirizzo del compagno. “Bob, lei è la mia preferita. Carlottina, sei la mia preferita. Sentiti libera di dirlo a Claudio, quando lo vedi.” Annuncia.
Charlotte ride e si affretta a porgerle il primo incarto, le stringe la mano nella propria – ora che ha un lavoro più stabile, ora che non sente il proprio equilibrio finanziario minato alla prima pellicina – e porge il pranzo a Roberto. “Grazie, stella.” La ringrazia l’uomo. E anche da sotto gli strati di barba e lana logora sotto cui si nasconde, Charlotte non può non notare il bagliore verde smeraldo nei suoi occhi. Alterna lo sguardo tra Margherita e l’uomo e per la prima volta si chiede chi fossero prima di diventare Marge e Bob. Chi fossero prima di essere adottati da Claude e da Charlotte per riflesso, prima del vicolo, prima di tutto.
“Ne hai portato uno in più per il mio amico, Carlottina?” Si informa educatamente Marge, il proprio incarto ancora chiuso, pronta a condividere il pasto con quell’amico di cui nessuno – Bob in primis – ha mai sentito parlare.
“Amico?”
“Sì, il tizio dell’altra volta. Quello con gli occhi celesti, che non parla mai.”
Charlotte fa mente locale, ma prima di lei è Roberto a parlare. “Quello che sembra un reduce del Vietnam?” Si informa con tono cauto.
“Sì.” Conferma la donna, sorridendo allegramente. “L’altra sera ha avuto un’altra crisi delle sue. Ne ha un sacco, sai? Se ne sta là, fermo sul posto a fissare avanti a sé e povero caro, Berto, dovresti vederlo, sembra non avere idea nemmeno di chi sia lui, è totalmente sconvolto.”
Roberto non sembra contento. “Margherita.” La richiama all’ordine, l’aria vagamente spazientita.
“…Giusto. Dicevo, se ne stava là a fissare il vuoto avanti a sé e io mi ero svegliata perché mi avevi preso a calci come al solito. Mi prende sempre a calci, sai?” Racconta a Charlotte. “Inizia a borbottare come una pentola di fagioli e poi parte con i calci e guai ad allontanarsi, no!, sia mai. Dice che dopo sente freddo. E io finisco a fargli da sacca…”
Rita.
“Ok, ok!” Replica seccamente la donna. “Era sveglio e io sono andata là a vedere se stava bene. È venuto fuori che no, non stava affatto bene, allora sono rimasta là a tenergli compagnia finché non si è addormentato. Non abbiamo parlato o altro, ma si vedeva che gli faceva bene essere abbracciato.”
“Tu cosa?
“L’ho abbracciato!”
“Sei totalmente fuori di testa?
Bob la osserva inorridito e Marge si limita ad annuire. “C’eri anche tu quando mi hanno interdetta. Carlottina, il pranzo per lui? Se non ce l’hai gli porto il mio, tanto poi dividiamo con Roberto.” Prosegue senza colpo ferire.
 
Charlotte annuisce come in trance e si dirige al mucchio di cartoni dell’altra volta senza una parola.
 
***
 
“Andrew, mi copri mezz’ora? Faccio un salto a prendermi un panino.”
Andrew la guarda con un sopracciglio inarcato, ma il fatto che abbia già messo giù la propria rivista di parole crociate la fa ben sperare. “Ma sei appena tornata dalla tua pausa pranzo.”
“Eh. Ho dato il mio pranzo a un barbone.”
Attimi di silenzio. Andrew lancia via il giornale e si alza in piedi. “La prossima volta dimmi che stavi pensando di diventare anoressica e poi hai cambiato idea.”
“Ma è una balla.”
“Che suona più credibile di quello che mi hai appena detto. Ora vatti a nutrire alla svelta, donna.”
 
 
Note dell'autrice:
TREMILA ANNI DOPO, SIAMO ANCORA QUA.
Bah, sono un caso umano con gli aggiornamenti. Mi spiace ç_ç
A breve rispondo anche alle recensioni, giuro!

PS: I pezzi del film non sono una citazione precisa dal film italiano per il semplice fatto che ho tradotto le battute originali, pertanto di sicuro c'è qualcosa di diverso XD

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 4 ***


4.

 

Più di quanto Claude sia un manipolatore bastardo, quello che sconvolge Charlotte è come gli esseri umani possano abituarsi virtualmente a qualsiasi cosa, se ripetuta costantemente nel tempo.

Impiega due settimane per rendersi conto che “oggi tocca a te” è ormai la nenia costante con cui il cane la saluta al mattino; quel che è peggio, realizza quando il commesso le dà il resto e le porge i pacchetti del take-away, è che ormai si è adattata così tanto a quel compito da non trovarlo minimamente fastidioso o irritante.

Lancia il portafogli nella borsetta e trotterella al solito vicolo dove, più imbacuccati e folli che mai, la attendono i suoi barboni preferiti.

“Carlottina!” Chioccia felice Marge quando la vede comparire. Bob le rivolge un cenno di saluto e un breve sorriso, troppo concentrato a finire le parole crociate che Charlotte ha rubato ad Andrew il giorno prima. “Il mio angelo del cibo thailandese!”

Charlotte ride e le porge l’incarto di un panino di Subway ignorando le risate rauche di Bob quando Margherita inizia a farneticare di fiducia mal riposta e “confidavo in te, Carlottina. Credevo che tu fossi diversa”, e inizia a elencare. “Marge… Bob…” Fa una piccola piroetta sul posto e individua il cumulo di stracci nell’angolo più remoto della strada. “Kevin Secondo.”

Il barbone sconosciuto – Kevin Secondo, come lo chiamano lei e Claude da giorni – rotola sul solito fianco e accenna ad alzarsi. Gli ci vogliono tre tenativi, uno più fiacco dell’altro, perché Charlotte faccia quell’ultimo mezzo passo che li separa. “Fermo. Tranquillo.” Gli mormora gentilmente. Il Soldato la guarda negli occhi e Charles dà in un singhiozzo improvviso, come una bambina pescata a rubare.

Dire che quell’uomo le metta paura sarebbe una gigantesca balla; ma la pena, oh, quella sì. Sente un dolore immenso ogni volta che si trova a guardarlo, così irrimediabilmente perso.

“Ci penso io.”

Il Soldato annuisce brevemente e, senza una parola, rotola più lontano. Sembra sentire l’imbarazzo di Charlotte ed esserne influenzato a sua volta, sembra… sembra, e Charles questo lo nota solo per caso, più uno scherzo del proprio cervello che una vera e propria intuizione, che abbia paura di essere toccato.

“Panino. Subway. Se hai qualche lamentela rivolgiti a Marge, non vede l’ora di potersi alleare con qualcuno.” Lo sconosciuto la guarda ancora, e Charlotte non sa cosa sia nel suo sguardo, ma le sembra quasi – per un istante – di intravedere l’accenno di un sorriso. “Bene.” Esordisce dopo diversi istanti di nulla in cui, semplicemente, ha trovato naturale fissarlo negli occhi. “Torno a lavoro.” Un saltello ed è in piedi, due passi e sarà fuori dal vicolo. “Buona giornata.”

Per la prima volta, dandogli le spalle, Charlotte è convinta – no, è sicura – di intravedere un breve cenno di saluto. E forse il luccichio che le sembra di vedere provenire dalla sua spalla ogni volta che Kevin Secondo rotola sul posto è un’allucinazione, ma quel cenno, no, quel cenno c’è stato davvero.

 

***

 

Le crisi arrivano di notte, quando Bucky è più indifeso che mai dai mostri che popolano i suoi sogni.

Dapprima erano pochi, lampi di orrore che avevano il potere di riscuoterlo tanto da lasciarlo tremante e col fiato corto agli angoli delle strade. Ma più passa il tempo, più i contorni si fanno definiti.

Tutto si fa più definito, a eccezione del mostro di metallo che gli penzola dalla spalla.

 

Una notte Marge si sveglia e lo trova che sta provando a strapparselo con l’altra mano.

 

“Ehi!” Lo richiama con tono allarmato, affrettandosi a trotterellargli incontro. “Fermati! Fermati, ti ho detto!”

Le ci vogliono cinque minuti di ‘fermati’ e moine generiche, ma alla fine Bucky molla la presa e, con una testata delicata al muro alle sue spalle, si ferma a occhi chiusi a maledire l’universo che lo ha sbattuto in quell’angolo maledetto di mondo.

 

Margherita rimane tutta la notte a cullarlo, e quando le lacrime smettono di scivolargli lungo le guance il Soldato riesce a trovare una sorta di calma apparente. Stremato da quell’ennesima prova, rimane a occhi chiusi a subire il vento gelido sul viso, i ricordi che come animali feroci iniziano a banchettare del suo cervello, della sua sanità mentale.

(Sempre che te ne sia rimasta)

 

Margherita continua a borbottare nella sua lingua madre, e Bucky è troppo provato per chiedersi come fa a capirla. “Ti ci vogliono dei guanti, sai. E un giaccone come si deve. Ci penso io, tu dormi.”

L’uomo sospira e continua a tenere gli occhi chiusi. Ma questa volta le pupille smettono di muoversi come biglie impazzite da sotto le palpebre, e tendendo l’orecchio Marge lo sente scivolare nel sonno nell’arco di pochi minuti.

 

Quella è la prima notte in cui il Soldato concede qualche metro a Bucky e finalmente, finalmente, gli permette di sognare.

 

***

 

Andare a prendere Natasha all’aeroporto si rivela molto meno complicato del previsto.

Steve temeva l’assalto dei giornalisti, non appena si fosse diffusa la notizia di un suo imminente rimpatrio. È emerso, una volta in macchina e in direzione dell’appartamento di Steve, che a Nat è bastato non far diffondere la notizia.

(Steve ha provato a chiederle come, giacché non riesce a muovere un passo oltre i confini del proprio quartiere senza che il Washington Post gli dedichi la prima pagina. Nat si è indicata e poi ha indicato lui, scandendo lentamente “spia” e “soldato”, e il discorso è stato chiuso.)

 

“Vuoi un caffè?”

Natasha lo guarda come guarderebbe un bambino tonto e inarca un sopracciglio. “Iniziamo questa cosa alla svelta, Rogers. A Cayo Largo c’è un mojito col mio nome sopra che mi sta aspettando.”

Steve scatta sull’attenti all’istante. “Cosa ti serve?”

“Giornali. Tutti quelli che riesci a trovare. Da un mese a questa parte.”

Tasha si sbottona la giacca e la lancia su quello che si prospetta essere il suo letto per i prossimi giorni, sentendo il mal di testa salire già così, sulla fiducia.

Non è una questione di poca voglia di mettersi a lavoro – poche storie, Natasha brucia dalla voglia di lavorare ancora. Se lo sente sotto pelle, il bisogno di cacciarsi in qualche guaio – quanto più una questione di sfiducia. Il Soldato è un fantasma, e quando hanno avuto la fortuna di incontrarlo… sente ancora la cicatrice bruciare, al ricordo del proiettile che le bucava il fianco da parte a parte.

E Steve è troppo buono, troppo ottimista, troppo tutto. Natasha ne osserva il profilo mentre le deposita ai piedi pile e pile di quotidiani e trattiene a fatica un sospiro preoccupato: si sta lanciando di testa in qualcosa che lo lascerà distrutto.

 

(“Chi vuoi che sia?”

“Che ne dici di un’amica?”)

 

Maledetto il giorno in cui ha accettato.

 

***

 

I volontari arrivano una mattina, quando il sole splende alto e Roberto le sta borbottando astiosamente contro, lei e la sua fissazione di andare a molestare il reduce del Vietnam.

Sono gentili e cortesi e sorridono un sacco, ma a Marge non piacciono. Soprattutto uno di loro, ha un sorriso che non gli arriva agli occhi e che lo fa sembrare più minaccioso che amichevole.

Distribuiscono ciotole di minestra precotta e ormai fredda, vestiti logori e coperte troppo lise perché possano scaldare ancora. Ma né Margherita né Berto aprono bocca per formulare qualcosa di diverso dai ringraziamenti. Offrono a Bob una visita al loro centro, che l’indomani sarà giorno di rasatura, e iniziano a chiedere quanti di loro vadano a dormire in quel vicolo durante la notte. Devono pur sapere con quante porzioni tornare i prossimi giorni.

“Ci siamo io e Bob.” Risponde Marge con un sorrisone allegro a uno dei ragazzi. “Tu hai dei bei capelli. Come ti chiami?”

“Greg, signora.” È la risposta cortese che ottiene. “Qualcun altro?”

“A volte Kevin. Avete una giacca? Una bella grande. E dei guanti.”

Qualcosa nello sguardo di una ragazza cambia, e i movimenti con cui cerca nel sacco di vestiti da distribuire si fanno più lenti. “Kevin non c’è più.”

“Cosa gli è successo?”

Greg si stringe nelle spalle, un filo a disagio. “Si è… si è suicidato. L’abbiamo trovato nel bagno del centro, aveva richiesto una lametta per farsi la barba e- non sapevamo che stesse così male.” Conclude bruscamente.

Valery – la ragazza, corpulenta e con i capelli a caschetto che ondeggiano a ogni movimento – tira su col naso e si passa una mano sul volto pallido. “Ero andata a chiamarlo per la colazione.” Soffia.

Margherita li osserva in silenzio per qualche istante, e alla fine cede e dà in uno sbuffo infastidito. “Avete mica un cappellino? Con questo sole non ci vedo niente.” Chiede con tono vispo. “Kevin si era rubato il mio.” Precisa infine, come se niente fosse.

Roberto nemmeno si disturba a dirle qualcosa, sconfitto in partenza, ma lo sguardo dei volontari è infinitamente meno amichevole.

 

***

 

“Tieni.”

Il Soldato impiega diversi istanti prima di rendersi conto che quella sconosciuta signora, in piedi accanto all’ingresso del vicolo, gli sta porgendo una palla informe di stoffa. La guarda e guarda la donna, e seppure non lo realizza razionalmente non può che essere grato del fatto che si stia tenendo a distanza, che non gli stia incombendo sopra.

Che non stia rappresentando una minaccia in alcun modo.

Margherita lo guarda e abbozza un sorrisino. “Sono per te. Li ho chiesti oggi ai volontari. Così non dovrai più girare con quello straccio.”

Bucky si guarda la spalla, guarda la coperta logora che usa a mo’ di mantello da giorni e china il capo.

Passano minuti lunghissimi, tanto interminabili che perfino Roberto si accorge che l’amore della sua vita manca da un po’ troppo dal loro talamo nuziale, per essere una semplice gitarella al bagno. Li guarda in silenzio, le labbra ridotte a un filo e il viso in generale una maschera di apprensione.

Poi lo sconosciuto china il capo e allunga il braccio scoperto, e per la prima volta – con la lentezza di un ingranaggio arrugginito che finalmente viene rimesso in funzione – lo sente parlare.

Grazie.

 

 

Note dell’autrice:

Eccoci! Con meno ritardo della volta scorsa, per fortuna.

Ma finalmente – già detto – le vacanze di Natale sono qua, e con esse più tempo per scrivere :D

Grazie a tutti quelli che, malgrado siano passati due secoli e mezzo, continuano a leggere e recensire e che hanno messo la storia tra preferiti/ricordate/seguite. Insomma, grazie! Davvero! :D

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 5 ***


5.
 
 
Non è che Steve Rogers abbia precisamente sottoscritto un abbonamento allo Smithsonian; ovvio che no, quale razza di egocentrico l’avrebbe fatto?
Ma andarci lo rilassa, questo sì.
Lo riporta a quando tutto era più cupo e allo stesso tempo incredibilmente più semplice. Quando lui era quello piccolo e Bucky quello che lo sarebbe andato a prendere per la collottola dall’ennesima rissa in cui si sarebbe cacciato alla prima occasione. Quando erano due ragazzini di Brooklyn, e il mondo era grande quanto un quartiere e tutto iniziava e finiva in quei confini.
Quando era felice.
Cammina per i corridoi con il cappellino da baseball calato fino a coprirgli gli occhi celesti, in silenzio mentre sente il magone crescere a ogni passo verso la sala dedicata agli Howling Commandos. I ricordi si fanno più frenetici, l’angoscia di tutto quello che avrebbe dovuto contro la realtà di quanto non era riuscito a fare.
È allora che nota una guida turistica che lo fissa con la mandibola molle. È una ragazza minuta, dai lineamenti dolci e con l’aria smarrita di una bambina che si è appena persa nel bosco. Gli occhi, resi ancora più grandi dalla sorpresa e di un bel castano scuro, spiccano sull’incarnato pallido punteggiato di lentiggini. I capelli sono raccolti in uno chignon che è a un passo dal crollo strutturale e che comunque ha visto momenti di maggior gloria, ma Steve più che dalla forma è colpito dal colore: la sfumatura di rame, così simile a quello che potrebbe malignamente essere descritto come arancione carota, è evidentemente naturale. La tentazione sarebbe quella di chiederle di fare un passo in avanti, per vedere quali sfumature assumono sotto la luce del sole, ma a giudicare da come lo sta guardando teme che potrebbe avere reazioni quantomeno inconsulte. Si porta l’indice della mano destra alla bocca e, con un sorriso piccolo e colpevole, si tamburella un paio di volte sulle labbra chiuse. Silenzio, sembra supplicarla con lo sguardo.
Charlotte annuisce e continua comunque a fissarlo per cinque minuti abbondanti. Alla fine Steve inizia a sentirsi un po’ troppo come ai vecchi tempi, quando faceva la scimmia ammaestrata circondato da majorette, dà in un colpetto di tosse e fa per accelerare il passo verso un’altra ala del museo; Charlotte sobbalza visibilmente, scuote la testa e trotterella via.
 
***
 
“Credo di aver visto passare Capitan America.”
Ashley non si disturba nemmeno a distogliere lo sguardo dallo specchio, continua a truccarsi come se niente fosse. “Sì, a volte capita.”
“Non dico gli ologrammi. Dico quello vero.”
“Sì.” Ripete la ragazza, la linea di eye-liner appena tracciata dritta come la lama di un coltello. “A volte capita.”
“Ashley, ho visto Steve Rogers passeggiare per un museo dedicato a lui!”
Charlotte è visibilmente sull’orlo di una crisi isterica.
“Gli hai chiesto una foto insieme?”
Era Capitan America!
“…Non te ne fare una malattia, sarà per la prossima volta. Ogni tanto torna.”
Charlotte esala un rantolo e scivola a sedere per terra, accanto alla gamba di Ashley. “Ha un culo strepitoso.”
Vero?” Chioccia la collega, contenta che finalmente Lottie le parli di cose degne di nota.
 
***
 
“Lottie!”
Roberto richiama velocemente l’attenzione di Margherita per indicarle Charlotte che attraversa la strada, chiaramente diretta verso di loro. “Carlotta!” Trilla felice la donna.
Charlotte sorride da orecchio a orecchio, ancora emozionatissima per l’incontro della mattina, e quasi inciampa addosso a Kevin Secondo. “Oddio!” Trilla, scartando di lato e mancandogli una mano col tacco della scarpa di pochi millimetri. O forse no, si trova a pensare: la mano dello sconosciuto sembra così lontana che era impossibile fosse a un soffio dalla sua scarpa. Deve esserselo immaginato.
Così come di sicuro si sta immaginando quel respiro spezzato, nemmeno gli avesse puntato un coltello alla gola. “Scusa.” Si trova a mormorare dopo essere arretrata di un passetto. Lo sconosciuto le pianta addosso quegli occhi celesti che negli ultimi giorni iniziavano a sembrarle più umani, quasi meno freddi, e di nuovo vede le pupille ridotte alle crune di due aghi. “Scusami.” Ripete, mortificata più che mai.
Il Soldato ringhia e scalcia per liberarsi, per sfuggire al controllo di Bucky e fare quello che sa fare meglio, e Bucky non ha racimolato abbastanza forze per opporglisi troppo a lungo. Tanto che quando si rende conto, in un angolo remoto della propria mente, che sta sentendo gli ingranaggi del braccio scivolare e mettersi in moto, Charlotte si è già allontanata da lui. Il sospiro di sollievo che gli sfugge a quel punto è innegabile.
La ragazza parla, parla, parla.
E lui la osserva da sotto in su, e il riverbero del sole sui suoi capelli rossi gli ricorda qualcosa. C’è un pensiero sfuggente che lo tortura ogni volta che li va a trovare, una consapevolezza troppo fugace per poter semplicemente allungare una mano e coglierla, e allo stesso tempo troppo evidente per essere banalmente ignorata.
E poi quelle mani.
Charlotte gesticola velocemente, al ritmo delle proprie parole, e quando ride si copre la bocca con le dita e lo smalto color argento gli si imprime nelle retine a ogni movimento e gli lascia il cervello più vuoto di prima.
Eppure quel pensiero, quel pensiero opprimente non lo lascia andare del tutto.
“Capitan America! Giuro, era lui!”
 
(“Non mi batterò con te. Sei mio amico.”
“Sei la mia missione.”)
 
Bucky aspetta in silenzio che Charlotte annunci di dover tornare a lavoro e saluti Bob e Marge; finge di dormire quando gli passa accanto e quando ormai la ragazza è a un centinaio di metri di distanza si alza. Si cala il cappello che Marge gli ha procurato a coprirsi gli occhi e inizia a seguirla per le strade di Washington.
 
***
 
“Il soggetto è in movimento. Sierra e Tango lo stanno seguendo.”
“Bene.”
“Golf e Victor monitorano il perimetro.”
“Contattami quando avrai aggiornamenti.”
 
***
 
All’ingresso non lo guardano nemmeno, troppo concentrati sull’ennesimo nugolo di turisti scalmanati che sta facendo baccano accalcandosi in fila per entrare alla svelta. Bucky tiene il capo chino e scivola come un’ombra lungo i muri, e quando varca la soglia dell’ala dedicata a Capitan America rimane del tutto annientato dal quantitativo di informazioni che lo aggrediscono. Le guide gli sfrecciano accanto senza degnarlo di uno sguardo, i bambini urlano e in alcuni punti sovrastano qualsiasi altra voce, e Bucky sente sempre vacillare sempre di più il proprio equilibrio. Il Soldato ruggisce per imporsi su di lui, per cancellare i pensieri che stanno formulandosi in maniera sempre più chiara nella sua mente e che, piano piano, iniziano a intervallarsi ai ricordi.
(“Sei la mia missione!”
“E allora portala a termine. Perché io resterò con te fino alla fine.”)
Scuote la testa come per scacciare una mosca, e i ricordi iniziano a sovrapporsi.
(“Io starò con te fino alla fine, amico mio.”)
Stringe i pugni nelle tasche, e può sentire la stoffa lacerarsi sotto il pugno di ferro.
(“Il tuo nome è James Buchanan Barnes.”)
Il pannello davanti a cui si ferma gli restituisce un’immagine che – realizza in quel momento – non ricorda, e che eppure conosce.
 
 
“…E arriviamo finalmente agli Howling Commandos.” Spiega con voce impostata la guida, conducendo al suo seguito un drappello di adolescenti che di tante cose hanno voglia, tranne che di vedere sette manichini con indosso vestiti intrisi di polvere e sangue vecchi di settant’anni. Charlotte cammina all’indietro, ormai a proprio agio per quei saloni che conosce a memoria, e si rende conto solo quando è troppo tardi che non tutti i visitatori si sono spostati al suo passaggio come fanno sempre.
Quando va a sbattere contro Bucky, quindi, sobbalza e si gira di scatto con una risatina nervosa. “Mi scusi!” Si affretta a esclamare con un sorriso leggero. Lo guarda, e finalmente lo vede. “Oh, ma io ti conosco.”
È un sussurro, eppure lui lo sente più forte di una fucilata. Gli riecheggia nelle orecchie, assordandolo e ottenebrandogli qualsiasi forma di buon senso e razionalità potrebbe essere riuscito a raggranellare nel poco tempo che ha avuto a disposizione per capire, per ricordare. La guarda con gli occhi sgranati, le pupille ridotte a due spilli. “No.”
“Sì che ti conosco!” Insiste, il volume ora più alto di un semplice soffio, indicandolo con l’indice della mano sinistra.
L’uomo abbassa lo sguardo sulla sua mano e per un momento tutto ciò che vede è che qualcuno gli sta puntando qualcosa contro, e il suo mondo torna a essere una nebulosa di impulsi e istinti brutali, ed è come scivolare nel sonno. Sente il Soldato che abbatte ogni sua difesa e prende il comando come al solito, e come al solito afferra la mano che regge la pistola – che dovrebbe reggere un’arma – e torce il polso, e quando fa per girare il braccio della ragazza – del suo nemico – e sbatterla al muro sente un crock e un gemito a malapena percepibile.
 
È allora, che James Buchanan Barnes rompe una mano a una guida turistica dello Smithsonian.
 
Quando ti rompi un osso, questo Charlotte l’ha sempre saputo, non è come quando se lo rompono i protagonisti dei film, o direttamente Capitan America. Non ci sono reazioni violente, cazzotti in risposta o calci rotanti a girare. C’è un fischio acuto che le trapassa i timpani mentre tutto si fa grigio e – sopra al sibilo, sopra ai campanellini che le suonano a festa nelle orecchie – lo schiocco delle ossa che le rimbomba nel cervello. L’ultima cosa che nota è che il grandioso figlio di puttana che le ha appena rotto la mano si sta facendo sempre più alto, visto che lei sta accasciandosi sulla moquette appiccicosa di gelato e sporcizia generica portata dentro dai migliaia di visitatori che ogni giorno infestano il museo, e sta svenendo dal dolore.
 
 
Note dell’autrice:
Eeeee abbiamo il primo incontro ufficiale tra Lottie e il Soldato!
Cosa accadrà? Lottie lo ucciderà per averle rotto una delle sue preziosissime mani? Bucky riuscirà a scappare in tempo? Steve riuscirà una volta tanto ad andare allo Smithsonian senza dover contare sulla complicità di gente a caso?
E in tema di prime cose, abbiamo anche la prima descrizione di Charlotte! Fatemi sapere cosa ne pensate :D
 
Giuro, questo cliffhanger non durerà tanto!

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 6 ***


6.
 
Si sveglia quando ormai i paramedici sono già arrivati, e l’unica cosa che riesce a fare è cercare con lo sguardo il bastardo tra la folla. Quando lo trova dà in un gemito sottile e frustrato, incapace di articolare un pensiero compiuto a causa delle continue scariche di dolore che sente a tutta la metà destra del corpo, e comunque prova a richiamare l’attenzione di qualcuno. Chiunque andrebbe bene, devono solo fermarlo. Devono…
Bucky è là, fermo impalato mentre attorno a lui il mondo esplode. E continua a rimanere fermo anche mentre la ragazza in barella viene portata via, anche mentre la vede alzare la mano sana e indicarlo con quelle dita sottili e lunghissime. Muove un passo verso di lei e poi cambia idea, continua a fissarla con gli occhi celesti sgranati, lo sguardo terrorizzato da quanto è appena successo. Da quanto ha appena fatto.
 
In ambulanza la devono sedare, perché nel tempo di un battito di ciglia – un’occhiata alla mano ferita – inizia a urlare. I singhiozzi le fanno dolere la cassa toracica mentre prova disperatamente a muovere un dito e l’ordine non riesce a superare nemmeno la barriera della spalla.
I paramedici le iniettano un sonnifero in vena, e Charlotte si addormenta ancora ansante, le labbra che continuano a ripetere “non lo muovo” senza che un sol fiato ne esca.
 
***
 
“Buongiorno, bella addormentata.”
Charlotte guarda senza capire Claude che, barba sfatta ed espressione assente, si punta con i gomiti sul suo letto e si raddrizza contro lo schienale della propria sedia. Ha dormito là? Per quanto? Lottie si porta la mano sinistra alla testa, sentendo già un’emicrania da record salire sempre più.
“Da quanto sei qua?”
Il ragazzo si guarda l’orologio al polso mentre continua a massaggiarsi l’ombra scura di barba sul mento con aria assorta. “Sedici ore.”
Sgrana gli occhi, ma non ha la forza di fare altro. Si sente prosciugata. “Perché?” Chiede quindi. Sente gli occhi già riempirsi di lacrime così, sulla fiducia.
“Non potevo lasciare che te lo dicesse un’infermiera.”
Charlotte si sente morire e solo a quel punto abbassa lo sguardo. La mano destra è totalmente nascosta dentro un’impalcatura di gesso, l’indice e il medio sono stati steccati in una struttura di metallo e gommapiuma, l’anulare e il mignolo fasciati insieme. Lo smalto è stato tolto di malagrazia, e ha tutte le dita sporche, violacee e gonfie. Per non parlare del palmo, per il momento invisibile. Sente il braccio gonfio e pesante, e perfino un’azione semplice come voltarsi le fa venire il fiatone. Per non parlare del freddo, che le sembra penetrare fino alle ossa, sembra… “Mi hanno operata?” Chiede con un filo di voce.
Claude rimane in silenzio per diversi istanti, si umetta le labbra e parla con lo sguardo basso. “Ti hanno ricollocato la spalla, era lussata.” Mormora. “E ti hanno steccato le dita.”
“Claude…”
“Non ti ricordi niente perché ti tengono sedata da che ti hanno caricata in ambulanza. Hanno detto che urlavi e piangevi, e non- non riuscivano nemmeno a tenerti ferma per le lastre.”
Claude.”
Il ragazzo chiude gli occhi e le prende la mano sana tra le sue. “Era scomposta, Lottie. Avevi una frattura scomposta alla mano. Era tanto scomposta, e ti hanno dovuto operare.” Charlotte chiude gli occhi e ricomincia a piangere in silenzio; e Claude, semplicemente, va in panico. “Il chirurgo ha detto che è stato bravo. È il più bravo dell’ospedale. Ha detto che non rimarrà quasi niente, Charles, te lo giuro. Quasi niente.” Farfuglia, senza sapere cos’altro dire o fare. Charlotte continua a piangere, incapace di nascondersi allo sguardo di Claude, vergognandosi come una ladra per stare facendo un tale dramma per una cosa apparentemente così lieve, tanto concentrata sul voler sparire da non rendersi conto che il suo coinquilino – il suo contatto di emergenza, riflette; ecco perché lo hanno chiamato – è salito sul letto, al suo fianco, e poco a poco l’ha guidata a nascondergli il viso contro il petto. Claude sospira e nel silenzio rotto da qualche sporadico singhiozzo le dà un bacio leggerissimo sulla testa. “Ci sono io, ok? A lavoro ci torni quando e se te la senti. Ti placcheranno d’oro, lo sai, sì? Ci penso io. Ci penso io.”
 
***
 
Passa mezz’ora, prima che si renda conto di essersene andato correndo dallo Smithsonian. Sente le gambe dolere e niente, del paesaggio che lo circonda, gli sembra in alcun modo familiare o amichevole.
Bucky si appoggia pesantemente al primo muro utile e scivola a sedere col fiato corto, più che dalla fatica, dalla paura.
Non è la prima volta che fa cose del genere. Lo sa. Quello che non sa e che non capisce è perché questa volta la cosa lo stia corrodendo così tanto. Perché, al solo ricordo del corpo esile della ragazza che gli si accasciava addosso, senta lo stomaco rivoltarsi in un moto di nausea.
I rumori continuano a rimbombargli nelle orecchie: lo schiocco delle ossa che cedevano sotto la sua mano, il singhiozzo sottile come unica reazione e poi il tonfo sordo di quel corpo che gli scivola dalle mani e finisce a terra. Se solo chiude gli occhi – e non vuole, ma non può farne a meno – riesce a vedere la smorfia di dolore che le ha attraversato lo sguardo prima che svenisse. Sotto le dita di metallo continua a sentire le ossa che cedevano, il braccio che avrebbe rischiato di strapparle via se solo quella ragazza – Charlotte Charlotte si chiama Charlotte – non fosse stata così docile nel seguire i movimenti che le stava imponendo.
(Torsione del polso, girare il braccio dietro la schiena e sbattere al muro.
Questo in che esercito l’hai imparato, Soldato?)
Il pensiero di cosa sarebbe potuto accadere se solo avesse terminato il movimento
(Sbatti la testa contro il muro. Sbattila contro il muro. Prendila per i capelli e sbattigliela contro il muro.)
Lo tortura.
Il Soldato si accovaccia in posizione fetale per terra, e quando quella voce – isterica, acuta, un inglese stentato e dai suoni duri – gli esplode di nuovo nella testa
(SBATTILE LA TESTA CONTRO IL MURO, SBATTIGLIELA CONTRO IL MURO FINCHÉ-)
Si gira e vomita fino a sentire il sapore della bile in bocca.
Il Soldato molla la presa, e Bucky riprende finalmente a respirare.
 
***
 
All’ospedale la dimettono il giorno dopo, e Charlotte è felicissima di avere una corposa scorta di antidolorifici a cui attaccarsi perché ogni volta che sente parlare di tornare a farsi togliere i punti butta giù la sua bella pillolina celeste e tutto torna al proprio posto.
Ha appena finito di disporne tre in fila sul tavolo della cucina – una per le stecche, una per le dita fasciate, una per la mano… e ne manca una per la spalla, nota, provvedendo a rimediare – che il campanello suona. Claude corre ad aprire senza darle tempo di trangugiare le sue quattro pilloline del buon umore, e Charlotte accoglie con una pernacchietta infastidita la coppia di poliziotti che varca la soglia di casa sua e la raggiunge per farle compilare la denuncia.
Sono due uomini dall’aria amichevole e, in special modo uno dei due, hanno un sorriso decisamente affascinante. E se di norma Charlotte rimarrebbe colpita dagli occhi blu del poliziotto più giovane, ora come ora lo odia. Li odia entrambi. Vorrebbe solo tornarsene alle sue belle pasticchine celesti.
Rimane a guardarli con un sorriso tirato mentre si accomodano in salotto, appollaiata sulla sedia della cucina e il gesso stretto al petto, e non parla. Lo sguardo saetta da loro al tavolo, agli antidolorifici; solo che non può, non davanti a loro. “Sente tanto male?” Si informa educatamente il poliziotto più giovane quando intercetta per la terza volta il suo sguardo e subito dopo lo perde, in favore dei farmaci disposti meticolosamente sul ripiano.
Charlotte impiega diversi istanti prima di accusare il colpo, ma alla fine abbassa le gambe e rilassa la postura ad avvoltoio con cui stava seduta sulla seggiola e sforza un altro sorriso, falso quanto il precedente. “Non c’è male.”
Il più anziano tra i due si schiarisce la voce e tira fuori il proprio taccuino. “Siamo qua per la denuncia, signorina…”
“Fry. Charlotte Fry.” Replica con tono asciutto Lottie. Non sanno nemmeno il suo nome, è proprio in una botte di ferro. Lo troveranno di sicuro.
(Ma tu sai già dov’è, Lottie, dorme sotto casa tua e tu sei troppo vigliacca per chiamare il 911 e farlo arrestare)
“Ci racconti cosa è successo.”
Charlotte abbassa lo sguardo sulle pillole e deglutisce rumorosamente. Quando alza lo sguardo sugli occhi blu del poliziotto si sente morire.
“Ero… stavo lavorando.”
(Quegli occhi dio quegli occhi la paura era quasi contagiosa)
L’uomo alza lo sguardo e le sorride incoraggiante. Lo stomaco di Charlotte si contorce, e sente una prima punturina di dolore partirle dalla mano. “Abbiamo visto i video, signorina. Speravamo potesse descriverci il suo aggressore.”
(Gli occhi celesti come il cielo le pupille sottili come spilli la bocca contorta in una smorfia e paura paura paura)
“Era alto.” Sussurra. “E… non credo fosse di qua. Era- era come se non capisse cosa stavo dicendo.”
Il poliziotto sembra spazientirsi. “Com’era? Alto? I capelli?”
Charlotte abbassa lo sguardo e perfino il celeste delle pillole, ora, riesce a farle sentire la stessa angoscia di quel giorno. “Scuri.” Soffia, la testa che gira per la portata della stronzata che sa di stare per fare. “Era moro. Alto, capelli e occhi scuri. Direi di origini latine, visti i colori.”
Non si rende conto di quello che succede – non coscientemente – ma le sembra che la temperatura nella stanza cali di qualche grado. “Scuri?” Ripete il poliziotto giovane, senza smettere un istante di fissarla. Charlotte è più a disagio che mai, ma sostiene il suo sguardo.
“Castani. Come i miei.” Precisa con tono monocorde.
“Ne è sicura?”
Annuisce piano piano, perché la spalla le fa ancora male – oh Lottie quanto sei stupida quando ti ci metti – e allunga una mano alla prima pillola sul tavolo. “E la carnagione olivastra.”
Ora i poliziotti si alzano, e Lottie si sente più piccola che mai. Vorrebbe che Claude le stesse vicino, ma si rende conto che non potrebbe fare granché. E non capisce cosa le stia scattando dentro, ma più li vede spazientirsi e più decide di aver preso la decisione giusta. “Signorina…” La richiama uno dei due, “ostacolare le indagini della polizia è un reato.”
Charlotte aggrotta le sopracciglia, rigirandosi la pasticca tra le dita, e non smette un istante di fissarli alternativamente negli occhi. “Moro. Occhi scuri. Carnagione olivastra. Origini latine.” Sputa fuori, la voce ridotta a un ringhio basso che ha il potere di far arretrare i poliziotti di un passetto a ogni frase. “Arrivederci, agenti.
 
***
 
“Lo abbiamo perso.”
 “E lo Smithsonian?”
“Abbiamo i filmati. Pensiamo sia lui, ma non ne abbiamo la certezza.”
Il silenzio è più terrificante di qualsiasi minaccia.
Trovatelo.
 
***
 
“Ma sei deficiente?
Charlotte incassa la testa nelle spalle come se dovesse servire ad attutire le grida di Claude, e sospira stancamente quando – per la decima volta – il suo coinquilino le chiede perché, nel nome di dio, non ha voluto denunciare quel maledetto stronzo.
“Claude no, io…”
“Ti rendi conto che c’è una certa differenza tra fare beneficienza e farsi rompere una mano, sì? Io non sono mai tornato a casa con una mano rotta, cristo!” Charlotte sospira di nuovo. Subito dopo Claude le si siede accanto e le poggia la testa contro una delle ginocchia che ha raccolto al petto. “Scusami.” È un sussurro, ma riecheggia per l’appartamento più forte delle urla di prima. “Scusami, Charles. Ci manca solo che ci metta il carico anche io.”
La ragazza annuisce e gli passa la mano sana tra i capelli castani. “Va bene.” Mormora, senza aggiungere altro.
“Perché non hai detto nulla? Sai benissimo chi è, lo avrebbero arrestato in due secondi.”
“Perché so chi è, Claude.” Risponde in un soffio. “Era terrorizzato. Credo… credo sia un reduce di qualche guerra.” Un flash, e Claude si volta a guardarla.
“Bob mi aveva parlato di uno che sembrava un reduce del Vietnam.”
Charlotte annuisce. “È lui.”
Claude sospira e scodinzola per farsi meglio la cuccia sul divano, la testa ormai in grembo alla coinquilina. “Dovevi farlo arrestare comunque.”
“Claude.” La voce arriva distante, quasi spiritata. “E se fosse un reduce di New York?”
La conversazione muore all’istante e un lungo, imbarazzato silenzio li accompagna per il resto della giornata.
Il barbone non viene più nominato.
 
***
 
Steve si è appisolato sul divano, quando Natasha gli lancia addosso un giornale arrotolato. Si prenderebbe qualche istante per ridere della reazione da gattino lanciato nell’acqua che ne ottiene, ma è troppo impaziente.
Capitan America la guarda in un misto di fastidio e odio, e dopo qualche istante si decide ad aprire il giornale alla pagina che la Vedova gli sta indicando.
 
Quando legge la notizia di un’aggressione al museo avvenuta poche ore dopo essersene andato, si sente sprofondare.
 
Quando realizza che Bucky è , che girano per le strade della stessa città e deve solo avere un po’ di pazienza nel cercarlo, si sente rinascere.
 
 
Note dell’autrice:
Capitolo lunghissimo!
(Per modo di dire)
Ditemi cosa ne pensate, se vi va! :D
A presto :)

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 7 ***


7.
 
Passano due settimane, e una sera Claude torna a casa con uno scatolone dall’aria molto polverosa e molto, molto noiosa.
“Tieni!” Esclama, garrulo e felice all’indirizzo della sua coinquilina.
Charlotte non smette un istante di ingozzarsi di pop corn davanti alla tv, tanto che quando lo nota farfuglia un “cos’è?” accompagnato da una miriade di bricioline sfarfallanti nell’aria.
Claude sospira con aria stanca e si butta sul divano accanto a lei, lo scatolone sul tavolino davanti a loro. “Per te. Tra qualche settimana inaugureranno la nuova ala, devi studiare il nuovo materiale.”
Lottie fa un verso da animale ferito e si acciambella attorno alla ciotola che tiene gelosamente in grembo. “Non voglio.”
“Ma devi.” Le ricorda il ragazzo con tono tanto dolce da essere vistosamente finto. Compiaciuto, quasi. “Ti stanno ricoprendo d’oro per la mano, se non vuoi che chiudano i rubinetti devi tenertelo, il lavoro.”
Charlotte sbuffa, ma non lo contraddice. Le cure mediche sono state totalmente coperte dal museo, così come stanno provvedendo a tenerla ben imbottita di antidolorifici. E sa già che avrà diritto alla fisioterapia riabilitativa una volta tolto il gesso. Tutto, pur di evitare una denuncia per il – evidentemente – pessimo servizio di sicurezza che hanno. “Va bene.” Concede con un sospiro che sa di sconfitta. “Da’ qua.”
“Domani ti porto il resto.”
“C’è un resto?” Guaisce la ragazza.
“Charles…” la richiama con tono esilarato il bastardo, “ci sono altri sei scatoloni di resto.”
 
***
 
Golf. Rapporto.
La radio manda scariche elettriche e, nel silenzio, il nervoso è quasi palpabile.
“Stiamo monitorando il perimetro.”
Sviluppi?
“Ancora niente.” Ci pensa e sospira, e al diavolo. Sono settimane che fissano i soliti barboni senza alcun risultato, la situazione inizia a farsi ridicola. “Se solo potessimo…”
Profilo basso, Golf.
“Roger.”
Chiudo.”
 
***
 
Il primo contatto avviene al telefono.
(Cosa di cui Charlotte non può che essere grata: ha perso il conto dei rompiscatole che le si sono attaccati al citofono. Questa almeno ha il buon gusto di telefonarle.)
 
Il cellulare squilla a un’ora infame della mattina – circa le otto e mezzo, a giudicare dalla radiosveglia – e Charlotte già vorrebbe rispondere con una bestemmia. Ma il numero è sconosciuto, e se fosse il lavoro…
“Pronto?” Biascica quindi, incastrando il telefono tra l’orecchio e  il cuscino e stropicciandosi la faccia con la mano sana. Tutto perché ha voluto fare nottata su quei documenti, ovvio.
(Tutto perché i ‘documenti’ sono prevalentemente foto di Steve Rogers e degli altri Avengers, ovvio.)
“Charlotte? Parlo con Charlotte Fry?” Si informa educatamente la voce dall’altro capo. Calda, amichevole, rassicurante.
Charlotte già la odia.
Nessuna brava persona è sveglia e in grado di funzionare così bene a quell’ora della mattina, è risaputo. “Sì, sono io.” Conferma alla fine di uno sbadiglio che potrebbe chiamare a raccolta numerosi ippopotami.
“La chiamo in merito a quell’aggressione… l’incidente dello Smithsonian, se lo vogliamo chiamare così.” Conclude con una risata preconfezionata, di pura convenienza.
A fregarsene ampiamente di come chiamare quella giornata sono evidentemente in due, realizza Charles.
“Capisco.” Biascica la ragazza, tutt’altro che impressionata. “Con chi parlo?”
“Se volesse essere così gentile da rispondere a qualche domanda…” prosegue imperterrita la donna dall’altro capo del telefono.
Charlotte si schiarisce la voce più rumorosamente del normale. “Sì, ma io con chi parlo?”
Nel silenzio, le sembra di sentire quasi fisicamente la sua interlocutrice roteare gli occhi. “Anastasia Fleming, scrivo per il Post, vorremo intervistarla per sapere…”
“Ma che gliene frega al Post della mia mano?”
Se ci sono sviluppi, signorina Fry.” La corregge in un ringhio la donna. Charlotte non capisce perché, ma si sente fisicamente minacciata da quel semplice cambio di tono e la cosa la terrorizza.
“No. Non- nessuno sviluppo.” Si affretta quindi a bofonchiare.
La donna sospira e sforza un tono più conciliante. “Sì, se potessimo incontrarci per-”
“Nessuno sviluppo. Arrivederci.”
Charlotte riattacca senza pensarci su un secondo di più.
 
Dall’altro capo della città, Steve osserva Natasha senza capire.
“Allora?” Chiede.
La donna gli scocca un’occhiata assassina. “Allora niente. Ha riattaccato.”
Capitan America prende posto al fianco della Vedova Nera e le rivolge un’occhiata di pura apprensione. “Dici che ha capito?”
“No.” Scuote la testa. “No. È da escludersi.”
“Allora?”
Natasha sospira. “Dovrò andare a farci due chiacchiere da donna a donna.”
 
***
 
I volontari tornano dieci giorni dopo, quando il sole splende e Marge è impegnatissima a mettere in ordine la cuccia matrimoniale in cui alloggia con Bob.
(E Bob apparentemente è impegnatissimo a bofonchiare lamentele che tutta quella ventata di ordine e pulizie comporta per lui, costretto ad aspettare lontano dalle coperte, seduto mestamente in un angolo.)
Greg le sorride con condiscendenza quando si sente chiedere un abat-jour, ma non aggiunge altro. A giudicare dall’occhiata che si scambia con Valery non crede valga nemmeno la pena spiegare alla donna che oltre a una lampada da camera dovrebbero anche portarle una presa elettrica.
“Potrebbe venire al nostro centro, signora.” Le propone invece la ragazza. “Ogni settimana viene anche un parrucchiere che potrebbe tagliarle i capelli.” prova a ricordarle. Marge fa una pernacchietta e scuote la testa.
“No tesoro, grazie.” Chioccia, la cadenza italiana sempre ben udibile. “Preferisco qua.” La osservano perplessi in due, le razioni di zuppa in mano e un implicito invito a spiegare. “Non me la cavo bene, in posti del genere.” Racconta allegramente la donna. Dà un’ultima sprimacciata alla coperta ancora soffice, ancora calda che le hanno regalato Claude e Charlotte, e guarda in alto con un sospiro. “Non si vedono le stelle, da là.”
Greg e Valery si guardano negli occhi e, ulteriormente convinti della follia della donna, riprendono a distribuire il pranzo.
“Non c’era anche un altro?” Si informa dopo qualche istante la ragazza, guardandosi attorno con aria perplessa.
Bob scuote la testa in cenno negativo. “Kevin,” spiega, “ma sai meglio di me cosa gli è successo.” Bofonchia l’uomo.
Valery serra la mascella e annuisce. “Giusto.” Mormora, ancora visibilmente turbata. “Beh- abbiamo portato una porzione in più. Volete?” Propone con un sorriso nervoso, incerta più che mai.
Margherita la guarda da sotto in su e si copre gli occhi con una mano per schermarsi dai raggi del sole. “No grazie, stella. Noi qua stiamo bene, portala a chi ne ha più bisogno.” Chioccia con tono dolce dolce.
Greg la osserva con uno sguardo indecifrabile, e Marge sostiene il suo sguardo con aria allegra. No, quel ragazzo non le piace per nulla.
 
***
 
Charlotte non sogna spesso.
Se l’è sempre spiegato dicendosi che, conducendo un’esistenza in uno stato di costante privazione di sonno, quando finalmente le capita di dormire il suo cervello non ha forze da bruciare in cose inutili come i sogni, figurarsi in incubi.
(Quello, di solito, è Claude.)
Quando si sveglia di soprassalto con la fronte imperlata di sudore e il fiato corto, quindi, ci mette più del necessario per capire. Ricorda la morsa di terrore che le costringeva lo stomaco e il petto, impedendole di respirare bene, e poi il rumore di qualcosa di apparentemente innocuo – come degli ingranaggi ben oliati che si mettevano in movimento – e una scarica di adrenalina tanto violenta da farla sobbalzare sul materasso.
Claude si affaccia in camera sua con i capelli sparati in ogni direzione e l’aria più perplessa che preoccupata. “Charles?” La chiama con tono interrogativo, la torcia del cellulare puntata sul soffitto per poter controllare che sia tutto ok.
“Un incubo.” Sussurra la ragazza, sentendo la t-shirt del pigiama aderirle alla schiena sudata.
“Tu non hai mai incubi.”
Charlotte annuisce e si alza a sedere a fatica. “Credo fosse un incubo.”
“Hai urlato.” Mormora. La guarda con aria incerta e si siede ai piedi del letto con cautela. “Cos’era?” Tutto, nei suoi movimenti, è un tentativo di non agitarla ulteriormente. Lottie gliene è grata, ma non capisce nemmeno lei perché lo faccia. Tanto più che non ricorda nessun particolare.
“Non ne sono sicura.” Sussurra.
Claude le prende la mano sana nelle proprie e sforza un sorriso incoraggiante. “Cosa ricordi?”
Charlotte, di nuovo, si stringe nelle spalle. “Credo mi abbiano fatto male tutti quei file sull’Hydra.” Spiega con una risata zoppa. “Sai,” esordisce ora con tono più squillante, “pare avessero un agente… uno- uno tipo Capitan America. Non credo che a quelli dello Smithsonian gliene freghi nulla, erano degli articoli di qualche teorico del complotto e nulla di più. Ma era terrificante.” Rimangono a fissarsi in silenzio, la voce di Charlotte spettrale e distante malgrado il tentativo di farla suonare più allegra, meno spaventata.
Claude si umetta le labbra e si guarda attorno con un sospiro, incerto su cosa dire o fare.
(Non è lui, quello che sa consolare gli altri dopo un brutto sogno.
Quella, di solito, è Charlotte.)
“Vuoi che ti porti un po’ d’acqua?”
La ragazza scuote la testa. “No,” sorride, “non c’è bisogno.”
Claude se ne va dopo pochi istanti e Lottie, ben accucciata sotto le coperte, è contenta che non abbia insistito per sapere cosa ricordava.
(Si sarebbe sentita tanto, troppo stupida nell’ammettere che l’unico ricordo che ha è di qualcosa di incredibilmente celeste che le brillava davanti agli occhi.)
 
Non torna a dormire.
 
Sbuffa e si alza a fatica, le gambe che ancora tremano senza alcun motivo logico, e a tentoni ritrova la cartella che stava sfogliando prima di arrendersi alla stanchezza e decidere di riposare.
Quando accende la luce, la prima immagine che si trova davanti è una foto di Capitan America – prima di essere Capitan America, prima del siero, prima di tutto – che, sorridente come non mai, viene tenuto da un altro ragazzo in una posa da lotta greco romana. Charlotte aggrotta la fronte e sbuffa una risata: il più grosso dei due tiene il futuro miglior uomo della nazione con un braccio attorno al collo, piegato in avanti per raggiungere Steve in altezza e già che c’è imporgli una posizione ancora più scomoda, e con l’altra mano accenna a sfregargli il pugno sulla chioma biondissima.
(E tuttavia tutto, nella loro postura, rende evidente che si sono messi in posa. Steve potrebbe in ogni momento liberarsi, l’altro sconosciuto è pronto a lasciare la presa da un istante all’altro.)
Charlotte sorride e gira l’immagine per leggere la storia dietro a quel teatrino: ‘Steve Rogers e James Barnes, 1942 ca.
Torna a guardare la foto e ridacchia, nel vedere tanta gioia e spensieratezza. Si alza in piedi per tornare a letto con, tra le braccia, la scatola nella quale ha iniziato a frugare quella sera: è piena di documenti e foto della seconda guerra mondiale e in generale della vita di Steve Rogers prima del siero e, in cima a tutto, Lottie nota una foto di un soldato in uniforme.
Rimane ferma a fissarla con aria assorta, i colori così vividi da sembrare incredibile sia un’immagine così vecchia, e di nuovo la gira per cercare una spiegazione.
Sergente James Buchanan Barnes, 1943 ca.’, e poco più sotto un’altra nota, ‘Immagine modificata digitalmente per ripristinarne i colori originali.’
Charlotte torna a fissare l’immagine, ormai a un passo dal letto, e non capisce cosa le stoni in quella foto così semplice: Bucky Barnes – di cui ha imparato a memoria la storia a furia di ripeterla durante le visite guidate – era il miglior amico di Capitan America, è morto in guerra e tanto basta. E – oh! – faceva parte degli Howling Commandos, giusto.
(E aveva una faccia da schiaffi il sorriso strafottente e allegro e lo sguardo che bruciava di vita e.)
E lei sa di aver già visto quegli occhi celesti, ma non ricorda dove.
 
 
Note dell’autrice:
Eccoci qua! Dopo altri tremila anni!
Scusate ç_ç
In compenso il capitolo è più lungo del solito, anche se ancora meno utile :///D
Chiamiamolo di transizione, via. Prometto che dal prossimo inizieranno ad accadere cose. Tante cose!
(E potrebbero anche arrivare nell'arco di qualche giorno, vedere CW mi ha fatto ricominciare a scrivere e ho qualcosa come quindici pagine di appunti da risistemare!)

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 8 ***


8.
 
La consapevolezza arriva mentre fa colazione, una settimana dopo quella notte e ormai a tre giorni dal farsi levare il gesso. Lo smalto è ancora fresco, e tamburella con le dita più per godersi la ritrovata mobilità che non per aiutare le unghie ad asciugarsi prima.
(Si sente un po’ ridicola a girare con una sola mano smaltata, ma ha già provato a chiedere aiuto a Claude e il bastardo l’ha colorata virtualmente ovunque tranne che sulle unghie della mano sana.)
“Claude.” Lo richiama quindi con tono spettrale, lo sguardo perso nel vuoto e il biscotto che stava pucciando nel caffellatte ancora alzato a mezz’aria.
Claude non alza nemmeno lo sguardo dal giornale, volta pagina e mormora “No.”
(Perché è un bastardo, ovviamente.)
Claude.” Ripete Charlotte, l’aria più spiritata.
Finalmente alza lo sguardo su di lei. “Charles.” Risponde. “Piantala con quello smalto e mangia.”
Charlotte gli lancia contro il biscotto unicamente perché non sa nemmeno da dove iniziare a dare voce a quell’idea che le è comparsa in testa, e tutto a un tratto si rende conto di quanto potrebbe suonare scema se detta ad alta voce.
“Demente,” la riprende il suo coinquilino osservando il biscotto spiaccicato mestamente al suolo. “Cosa volevi dirmi?”
Charles all’improvviso decide di non voler dire quello a cui stava pensando. Come con i poliziotti, sotto sotto sa perfettamente cosa dovrebbe fare – parlare con loro, tenere la bocca chiusa con Claude – eppure, immancabilmente, fa il contrario.
“Dovrei fare una cosa, ma mi serve una mano.” Claude la osserva con un sopracciglio inarcato e si rimangia qualsiasi battuta a riguardo. Charles ne è lieta, quella storia inizia a stancarla. “Al vicolo ci sono solo Marge e Bob?”
Non ci vuole un genio, per capire cosa sta cercando di scoprire Charlotte. Claude la guarda e, prima di risponderle, prima di qualsiasi cosa, alza una mano per imporle il silenzio. “Charles,” inizia quindi con tono serio, “in una scala da uno a ‘invadere la Russia in inverno’, quanto credi sia pessima la tua idea?”
Lottie distoglie lo sguardo e, con aria nervosa, si mordicchia l’unghia del pollice. “Cacciare Hitler dall’Accademia di Belle Arti.” Mormora alla fine.
“Appunto.” Commenta con tono asciutto il ragazzo, alzandosi.
Lottie lo insegue e gli trotterella dietro come un’ombra chiassosa e invadente. “Non voglio fare niente di male, devo solo rivederlo.” Spiega con tono concitato.
Claude si volta di scatto e le troneggia sopra, forte dei venti centimetri abbondanti che li separano in altezza. “Ti ha rotto una mano.” Sibila, velenoso. “Cos’è, ti sei affezionata al gesso e vuoi portarlo un altro mese?”
Lottie apre bocca per rispondere e invece prende fiato.
Lo sguardo indugia sulla parete di camera sua dove, anche da quell’angolazione, si può distinguere nitidamente la foto di James Barnes appesa.
(Zitta Lottie questa volta zitta non dire niente ti prenderà per pazza)
“Credo di conoscerlo.”
 
***
 
Claude la prende per pazza, ma non rifiuta in blocco di darle una mano.
La esorta un paio di volte a controllare gli ingredienti degli antidolorifici che trangugia come se fossero caramelle per escludere a priori stati di allucinazione, questo è vero; ma quando il giorno dopo va a portare il pranzo a Marge e Bob si ricorda della conversazione avuta con Lottie.
“Marge,” la richiama quindi. La donna lo guarda coprendosi di nuovo gli occhi con una mano a causa del troppo sole e annuisce, segno che ha sentito. “Quel tizio che stava qua. Quello che sembrava un reduce…”
“Oh, il mio amico!”
Se si sforzasse un pochino, Claude potrebbe sentire fisicamente Bob che rotea gli occhi. “Quello.” Conferma. “È ancora da queste parti?”
“No.” Risponde con vocetta acuta Margherita. “È un mese che non si vede, spero non sia morto. Bob, dici che è morto? Anche se in effetti nemmeno Carlottina si vede più, ma lei non credo sia morta, altrimenti me l’avresti detto. Spero. Vero che me l’avresti detto?” Si informa senza nemmeno una pausa per respirare. Claude la osserva vagamente spiazzato da quel fiume in piena di informazioni e annuisce con un cenno lento del capo. “Ma perché lo cerchi?” Chiede infine, il tono vispo e l’aria incuriosita.
Il ragazzo si stringe nelle spalle, l’aria vagamente a disagio. “Lo cerca Charlotte.” Mormora.
Roberto si fa più vicino a Marge e le sussurra qualcosa all’orecchio, facendola ridere come una ragazzina alla prima cotta. Claude si trova a invidiare quella complicità, l’amore tanto evidente da trasparire dalle più piccole cose. “Dille di cercarlo dalle parti del museo.” Gli suggerisce l’uomo a mezza bocca. “Forse è là.”
Claude annuisce e se ne va dopo una manciata di minuti.
 
***
 
Quando il citofono squilla, Charlotte gattona fuori da cartelle e fogli volanti tra cui si è fatta il nido e arranca fino alla porta. Nemmeno si disturba a chiedere chi sia, fin troppo abituata a quel mentecatto di Claude che non solo lascia appositamente le chiavi a casa, ma più l’ora è infelice e più si accanisce a suonare melodie articolate.
(Charlotte ride e scherza, ma ancora ricorda quel nefasto giorno in cui, alle quattro e quarantacinque della mattina, Claude si è annunciato cercando di intonare l’inno alla gioia.)
Il citofono suona di nuovo, e Charlotte sbuffa. “Ti ho aperto il portone, mentecatto.” Gracchia all’interfono, “quando arrivi di sopra bussa e ti vengo ad aprire.”
Dall’altro capo non riceve risposta, e dà per scontato che Claude abbia già preso l’ascensore.
Quando sente bussare sbuffa di nuovo, e va ad aprire la porta in una litania di insulti. “Sei un cretino, Claude. Ma che poi le chiavi le hai, si può sapere che divertimento trovi nel farti aprire? Arriverà il giorno in cui mi beccherai in bagno e allora rideremo tantissimo, guarda.”
Davanti a lei non c’è Claude.
Mollemente poggiata contro la ringhiera che dà sulle scale, gli occhiali da sole calati sul naso e i capelli un manto di boccoli rosso fuoco, Natasha Romanoff le sorride amichevolmente. “Charlotte Fry?” Chiede per conferma.
Lottie annuisce senza sapere cos’altro dire. La Vedova Nera la supera in silenzio, e con passo felpato ed elegante va a prendere posto sul divano. “Chiudi la porta. Io e te dobbiamo fare due chiacchiere.”
Charlotte esegue, e all’improvviso capisce di essere morta.
Si guardano per diversi istanti, e alla fine Nat piega la testa di lato osservandola con un sorriso cortese, invitandola a dire qualcosa. Qualsiasi cosa, davvero. Charles si umetta le labbra e prende fiato. “Posso… offrirle qualcosa?” Propone con vocetta isterica.
Natasha allunga le braccia verso di lei in un apri-chiudi lento delle mani, come potrebbe fare una vecchia zia e, una volta che Charlotte ha seguito l’implicito invito e le si è avvicinata abbastanza, la guida a sederlesi accanto.
“Vedi, Charlie… posso chiamarti Charlie, vero?” Le chiede, la voce vispa e squillante, come se non fosse a un passo dal crocifiggerla con i tacchi delle scarpe.
(Charlotte sa che sta per farlo, è scritto nell’ordine del cosmo.)
“Hai fatto una cosa abbastanza stupida.” Le spiega parlando con tono lieve.
“Sì,” balbetta Lottie, più piccola che mai, “ne faccio tante, ultimamente.”
(Tra cui aprire la porta senza chiedere chi sia. Tra cui decidere di andare alla ricerca di uno sconosciuto che le ha sbriciolato la mano. Tra cui accogliere Vedova Nera nel proprio salotto.)
“Cerca di far tornare in pari il bilancio e fai una cosa molto saggia, ora.” Scandisce le parole con lentezza, annuendo incoraggiante di quando in quando. È evidentemente consapevole di quanto la sua semplice presenza può terrorizzare, e se la sta godendo da impazzire.
“Cosa?”
“Adesso io e te ci prendiamo una bella tazza di tè, e tu mi racconti per filo e per segno di chi ti ha fatto quel regalino.” Conclude a bassa voce, come se stesse raccontandole un segreto, indicandole con l’indice il gesso ormai rovinato.
È allora, mentre con movimenti meccanici cerca nella dispensa un paio di tazze e i filtri del tè, che nella mente di Charlotte si fanno spazio due consapevolezze: la prima, è che il barbone è davvero qualcuno di importante. La seconda, è che deve aver fatto qualcosa di incredibilmente grave per avere alle calcagna la spia più letale del mondo.
Lottie sente un moto di apprensione ingiustificato e totalmente irrazionale, e si trova ad abbracciare il barattolo dello zucchero senza rendersene conto.
 
Pochi istanti dopo qualcun altro citofona.
 
Charlotte va a rispondere con gli stessi movimenti automatizzati di prima, come se si fosse innescato l’autopilota. Mormora qualche parola all’interfono e riaggancia, e si rivolge alla donna seduta che la osserva con aria incuriosita. “È il mio coinquilino.” Balbetta come unica spiegazione. Natasha accavalla una gamba sull’altra con un movimento sinuoso e allarga le braccia, ben spiaggiata sul divano, come se lo stesse già invitando a unirsi a loro.
Qualcosa però cambia nel suo sguardo quando nota il tremore alla mano di Charlotte.
(Evidentemente, non è ancora sazia di scelte idiote.)
“Non dirgli niente.” Scandisce con estrema lentezza, una minaccia inespressa in quel semplice ordine.
Charlotte annuisce e torna in cucina ad aspettare che il bollitore fischi.
 
Claude entra e i rumori le giungono ovattati, ma lo può sentire salutare Natasha con la voce già più stridula di un paio di ottave. Lo vede precipitarsi in cucina e guardarla con l’espressione di chi non ci sta chiaramente capendo un cazzo, salvo poi tornare in salotto e tornare di nuovo dalla sua coinquilina nell’arco di una manciata di secondi, indicando alle proprie spalle con aria parecchio perplessa. Il che fa il paio con la faccia sconvolta di Charlotte.
“Quella seduta sul nostro divano…” inizia il ragazzo con cautela.
“Sì.” Gracchia.
“È lei?” Charles annuisce. “Vedova Nera. Sul nostro divano.” Ricapitola Claude. Charlotte annuisce di nuovo. “Perché, se posso saperlo?”
La ragazza alza la mano ingessata. “Augurarmi una pronta guarigione.”
Nemmeno li avesse sentiti – e Charles sotto sotto non può escludere a priori questa possibilità – Natasha li interrompe prima che Claude possa far notare che razza di ignobile balla gli abbia appena raccontato la sua coinquilina. “Charlie?” Gorgheggia quindi con tono allegro e vispo, “credo che il bollitore stia fischiando.”
Charlotte guarda sul fornello, dove la pentola sta ormai gridando disperata da diversi minuti, e si affretta a versare l’acqua calda nelle tazze.
(Si ustiona un paio di volte, perché l’enfasi con cui prepara tutto è talmente tanta che solleva schizzi di acqua bollente che arrivano a colpirla fino sulla pelle tenera del collo, ma non si lascia sfuggire nemmeno un singhiozzo sorpreso. La paura, semplicemente, è troppa.)
Con il vassoio in mano, Lottie si volta verso Claude e decide di compiere l’ennesima – ultima – scemenza. “Chiuditi in camera.” Gli sussurra, lo sguardo un misto di paura e disperazione. “Chiudi a chiave camera mia e nascondi la chiave.”
 
“Allora.” Natasha schiocca la lingua sul palato e poggia il proprio tè sul tavolino, l’aria di una ragazza in vena di pettegolezzi. “Il gesso.”
Charlotte ha un senso di nausea che le impedisce perfino di respirare. A ben guardarla è anche un po’ verdina. “Da dove… inizio?” Balbetta.
La donna piega la testa di lato e sorride, intenerita.
(Quella scenetta da super spia terrificante la diverte senza dubbio, ma non ci tiene a mandare una sconosciuta dall’analista unicamente per aver calcato un po’ troppo la mano. Sorvolando sul fatto che Steve, dall’auricolare, le sta intimando di darsi una regolata da mezz’ora buona.)
“Inizia dall’inizio,” dice gravemente, “e vai avanti fino alla fine. A quel punto fermati.*” Quando Lottie riconosce la citazione sbuffa una risata che sa di pianto, e Natasha trova semplicemente naturale sistemarle una ciocca di capelli dietro l’orecchio con fare materno. “Non voglio farti del male.” La rassicura, il tono più morbido. “Ma è molto importante che tu mi dica tutto quello che sai.”
Charlotte tira su col naso e un paio di gocciolone le scendono lungo le guance. “Sì. Scusi.” Balbetta con la voce crinata.
(Steve, come una sorta di fastidioso grillo parlante annidiato nei recessi più remoti della sua mente, sta già insinuando che Nat passi i finesettimana a uccidere cuccioli di foca così, a mo’ di passatempo.)
Natasha sospira impercettibilmente e le si fa più vicina. “Parti dalla mattina. Dimmi tutto quello che ti ricordi.”
Lottie si asciuga il viso col dorso della mano sana e, di nuovo, fa la risata più triste del mondo.
(Natasha non prende per hobby a calci i cuccioli nel parco come tanta gente la accusa di fare, ma all’improvviso la percepisce come un’azione meno spregevole di quanto ha appena fatto.)
“Ho visto Capitan America.” Racconta la ragazza. “Era venuto al museo, e Ashley- è una mia collega… insomma, mi hanno detto che era normale, e io- io non mi è sembrato vero.” Un sorriso imbarazzato, di chi si sta vergognando da morire di quanto sta raccontando – soprattutto a chi lo sta raccontando – “e poi sono andata a mangiare, e quando sono tornata ho visto questo… questo armadio a quattro ante, era enorme. Gli sono andata a sbattere addosso e lui-” Racconta confusamente, mischiando verità e bugie in un mix caotico, i singhiozzi che ricominciano appena lo sguardo le scivola sul gesso.
Nat realizza in quel momento che la normalità della vita di Charlotte è una realtà che non capirà mai.
(Mai più, per la precisione.)
Charlotte è, molto banalmente, una civile.
Ma quando per anni sei stato abituato a considerare l’esistenza di civili solo quando in pericolo, alla stregua di ostacoli da rimuovere per poter tornare a combattere liberamente o di fastidiose seccature verso cui far convergere forze che sarebbero meglio impiegate in attacco che non in difesa, la loro tridimensionalità di persone vere diventa un concetto vagamente labile.
Natasha la osserva come se la vedesse per la prima volta, e davanti a sé vede solo una ragazzina spaventata con i capelli color carota che considera l’apice della propria giornata l’aver incontrato un notevole pezzo di carne scongelato che lei – lei che vuole credere di non aver mai saputo cosa fosse normale, prima di essere catapultata in un mondo infinitamente più pericoloso e terrificante – vede ogni giorno.
“Ok. Avete sbattuto.” Ricapitola a bassa voce, il tono improvvisamente gentile, quasi affettuoso. “E lui ti ha rotto la mano.” Lo dice al posto suo, perché è evidente che gli scoppi di lacrime costanti che sta avendo Charlotte sono dovuti all’incapacità di dirlo ad alta voce.
(A lei, che si è beccata più pallottole di quante non ne voglia ricordare e che ha dovuto andare avanti a testa bassa anche quando ogni terminazione nervosa le mandava scariche di dolore tanto intense da farle desiderare solo di accasciarsi e morire. Ma lei è un’assassina. Charlotte, d’altronde, è solo una civile.)
Lottie annuisce e tira su col naso con aria patetica, gli occhi gonfi che guardano ovunque tranne che verso Natasha. “Poi?” Le suggerisce la donna.
“Poi…” un sospiro tremulo, e la mano sana ad asciugarsi il viso congestionato. “Sono svenuta. Mi sono svegliata in ospedale.”
Nat annuisce piano e le pettina di nuovo una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Deve averla presa alla stregua di un cucciolo abbandonato sotto la pioggia, e di questo Charles non può che esserne grata. “L’avevi mai visto?”
Lottie prende fiato e
(Stupida Lottie dio quanto sei stupida)
Scuote la testa in cenno negativo.
“Non lo conoscevi?”
Si massaggia la fronte, il mal di testa atroce che le sta già martellando il cervello, e di nuovo fa cenno di no. “Mai visto.”
 
***
 
Charlotte se lo trova davanti due giorni dopo, dalle parti dello Smithsonian.
(Come ha suggerito Claude.)
Le luci del museo si vanno spegnendo poco a poco e anche nella semioscurità del tramonto è chiaro che tutto, nella figura incappucciata di quell’uomo, è solitudine e disperazione.
(E paura, tanta paura che non si misura nemmeno)
Si guardano per pochi istanti, lo sguardo del barbone saetta dai capelli – così incredibilmente rossi – agli occhi castani e infine al gesso alla mano della ragazza, e sente l’ansia mordergli la gola al pensiero, al ricordo.
(Perché questo te lo ricordi, vero, Soldato?)
“Aspetta!” Charlotte gli corre incontro, passetti piccoli e nervosi e i ricci che sobbalzano da tutte le parti, e quando lo raggiunge il barbone la guarda senza capire. Lottie si umetta le labbra e sforza un sorriso incerto e tanto, tanto nervoso. “Io ti conosco.” E sente la paura scorrerle lungo la spina dorsale come una scossa elettrica nel ripetere quel copione che, a malapena un mese fa, l’ha portata dov’è adesso. L’uomo aggrotta la fronte, è evidente che si stia chiedendo cosa le si sia inceppato in testa per rimettersi nella stessa identica situazione, e di nuovo resta in silenzio. Ha l’impressione che non riuscirebbe ad articolare alcunché nemmeno se volesse. “Non… non parlo del vicolo. Non solo.” Prosegue Lottie. “Io credo di conoscerti, credo che tu sia… aspetta,” borbotta, armeggiando con la borsa. Una volta trovato quello che le interessa si illumina tutta e gli mette davanti una foto. “Tu sei lui, vero?”
Il Soldato la osserva e una scarica tanto dolorosa da lasciarlo piegato in due gli attraversa il cervello.
(“Sei stato assegnato?”
“Centosettesimo. Sergente James Barnes, salpo per l’Inghilterra domani all’alba.”)
Rialza la testa, lo sguardo smarrito più che mai, e Lottie sa di aver fatto centro.
“Sei lui.” Ripete in un soffio. “Oh Dio, sei lui per davvero.”
Il barbone la guarda e arretra, e in un battito di ciglia il Soldato riprende il controllo. Scuote nervosamente la testa e si gira per andarsene, ed è allora che le risponde, la voce che risuona come un meccanismo arrugginito, a un passo dal rompersi definitivamente. “No.”
(E la pronuncia, la pronuncia è distorta da una cadenza russa che non dovrebbe esserci e Lottie non sa nemmeno perché ma la trova una cosa terrificante.)
Charlotte non dovrebbe, eppure lo insegue. Per la precisione, gli gira attorno e cerca di sbarrargli la strada col proprio corpo, mostrandogli di nuovo quell’immagine. “Sei lui, vero?”
Il Soldato ringhia e le incombe addosso cercando di risultare più minaccioso che mai. Lottie sente il panico morderle la gola, un brivido lungo la schiena. “No.” Prova a superarla, cerca di scartare di lato e di muovere qualche passo nervoso lontano da lei, lontano dai propri pensieri. Charlotte, esattamente come gli spettri che popolano i suoi sogni, non accenna a mollarlo.
“Sei James Buchanan Barnes.” Bucky geme, sofferente, e il Soldato tira un pugno contro un muro in un tentativo di riprendere il controllo, di distogliere l’attenzione di quella odiosa ragazzina, di spaventarla. I mattoni che ha colpito
(Ma dovresti fare altro, Soldato, se te la vuoi togliere di mezzo per davvero.)
Si sbriciolano.
Charles singhiozza, terrorizzata, ma non demorde. “James.” Lo richiama in un sussurro incerto. L’uomo si ferma con la mano ancora sollevata e china il capo, sconfitto. Charlotte lo raggiunge e gli mette di nuovo davanti quell’illustrazione in cui è inciampata, e il contrasto è tanto forte da sembrare assurdo: tanto più è viva la foto, tanto è spento lo sguardo della persona in piedi davanti a lei. E in quel momento, finalmente, capisce. “Tu eri lui.”
Il barbone esala un sospiro che sembra un rantolo e alla fine, pugni stretti lungo i fianchi e occhi fissi – quasi vitrei – su quella foto, annuisce.
(E ora chi sei, Soldato?
Ora cosa sei, Soldato?)
Tutto intorno a loro si fa un silenzio glaciale, e Lottie non sa bene come relazionarsi a una persona che – visibilmente – non ha idea di quale sia non già il proprio posto nel mondo (e chi ne ha la certezza, di questi tempi?) ma perfino qualcosa di così basilare come il proprio nome.
“Te lo ricordi?” Chiede cautamente. L’uomo fa una smorfia indecifrabile, gli occhi ancora su quella foto, e si stringe nelle spalle. Quello che ha in testa è qualcosa di troppo confuso per poter essere paragonato a dei ricordi, c’è solo caos. Charlotte lo guarda, in apprensione, lo sguardo incerto che solo di quando in quando si poggia sul gesso ormai ingrigito ma che in generale non si stacca un istante da James Barnes.
(Quel James Barnes che avrebbe dovuto essere morto e che invece è in piedi davanti a lei senza alcuna idea di cosa fare della propria vita.)
Tossisce un paio di volte per richiamare la sua attenzione, riprende la foto e si piega sulle ginocchia fino a incrociare i suoi occhi con i propri. E non sa cosa le stia dicendo la testa, ma. “Sono una maleducata.” Mormora come se questo dovesse spiegare tutto, “non mi sono nemmeno presentata. Io sono Charlotte.” Dice con tono allegro, e tuttavia sempre ben attenta a scandire lentamente ogni parola.
Il Soldato la guarda come se la vedesse per la prima volta, piega la testa di lato e serra la mascella, apre e chiude i pugni e dopo quella che sembra un’eternità alza la mano – quella vera, non il mostro di metallo che si è trovato addosso da un giorno all’altro – e la allunga verso di lei.
(Questo ti ricordi ancora come si fa, Soldato?)
Charlotte azzarda una risatina isterica e rimane ferma a fissarlo.
“Non…” la voce esce roca e graffiata, e deve tossire due o tre volte per riuscire a riprendere il controllo delle proprie corde vocali. Dio, gli sembra di non parlare da anni. “Non ti farò male.”
Davanti a lui, la ragazza deglutisce rumorosamente e alla fine
(Stupida Lottie sei una stupida incosciente)
Lo imita a specchio. “Charlotte.” Ripete a bassa voce, timorosa senza rendersene conto di un gesto così banale e che eppure le sembra così solenne.
È in quel momento, con la semplicità di una stretta di mano, che l’uomo smette di essere solo il Soldato d’Inverno e ricomincia timidamente a essere James.
 
***
 
Le tolgono il gesso un martedì mattina qualsiasi.
Claude le tiene la mano sana e si assicura che Charlotte non guardi nemmeno per errore mentre il medico le sfila i punti dalla ferita ormai rimarginata, sospirando di sollievo nel vedere il risultato finale.
“È bella.” La rassicura in un sussurro all’orecchio.
Charlotte sbuffa un paio di lacrime e passa il resto del tempo a farsi muovere la mano dalle infermiere, per controllare che sia tutto a posto.
Quando rientra in possesso della propria mano e si sfiora la cicatrice – lunga, sottile, che le corre dal polso lungo il lato fino all’attaccatura del mignolo – sente la testa girare.
“Quando posso iniziare la fisioterapia?” Si informa con tono distante, in un tentativo di concentrarsi sui lati positivi.
Il medico – un gentile signore sulla sessantina d’anni con due baffi a manubrio che vibrano ogni volta che ride – le sorride cortesemente. “Dalla prossima settimana. Intanto può iniziare a fare qualche esercizio con questa.”
La pallina antistress che le porge è celeste, e Lottie si sente presa per il culo dall’universo come non mai.
 
***
 
Sono le cinque di pomeriggio quando Charles inciampa nell’ennesimo fascicolo polveroso risalente alla seconda guerra mondiale, lo apre, e si imbatte nello stato di servizio del sergente Barnes.
 
Claude si affaccia pochi minuti dopo in salotto, sentendo sbuffi e imprecazioni dovuti ai mille problemi della sua coinquilina nel vestirsi da sola con una mano ancora ammaccata, e la trova che saltella per infilarsi le scarpe senza l’aiuto delle mani.
“Dove, nel nome di Dio, stai andando?” Le chiede con tono tutt’altro che preoccupato, piuttosto esasperato.
Charlotte – che nel mentre ha vinto la lotta sulle calzature – lo guarda con un sorriso incerto a tenderle le labbra, un piede già oltre la soglia. “A invadere la Russia in inverno.”
 
***
 
“La civile è in movimento.”
Manda Echo in avanscoperta. Non fatevi vedere.
“Roger.”
 
***
 
“Credo di poterti aiutare.”
Bucky la osserva con sguardo indecifrabile e Charlotte sente una morsa allo stomaco. Pena e apprensione e per favore non scappare via.
“Come?”
La ragazza gli rivolge un sorrisino piccolo e accennato, e il Soldato sente un moto di rabbia partirgli dal fondo della gola – perché sì, perché si sente in trappola e non capisce nemmeno lui perché.
“A casa… ho dei documenti. Alcuni sono su di te. Forse potrebbero aiutarti a ricostruire qualcosa.”
L’uomo rimane a fissarla in silenzio per diversi istanti – di nuovo, come sempre fa –, si guarda attorno e osserva la strada, sudicia e inospitale. Le ombre attorno a loro si stanno allungando sempre più e a breve spariranno, inghiottite dalla notte. Bucky guarda il cielo e perfino le prime stelle che riesce a trovare, al di là della cappa di inquinamento luminoso, gli sembrano all’improvviso minacciose.
“Ok.”
Si alza dopo diversi tentativi, dopo che Charlotte ha sbuffato una risata zoppa e incerta e gli ha porto la mano. Dopo che ha puntato i piedi contro i suoi e ha fatto perno per alzarsi, e perfino quel contatto così semplice gli è sembrato quasi familiare. Dopo che, in piedi a una manciata di centimetri da lei, l’ha di nuovo fissata negli occhi. Ma questa volta oltre l’incertezza e lo smarrimento a Lottie sembra di vedere una scintilla di qualcosa di diverso, di infintamente più vivo, come un sorriso.
“Ok.” Gli fa eco la ragazza, indietreggiando frettolosamente. “Tu vieni con me.” Ricapitola parlando veloce, quasi a macchinetta. Arretra ancora, e James la osserva con la testa piegata di lato senza capire bene cosa stia accadendo. Charles arrossisce appena e tossicchia per scacciare il nervoso. Ormai la cazzata l’ha fatta, o lo tratta come tratterebbe un qualsiasi altro essere umano o farebbe tanto meglio ad andarsene. “E appena arriviamo ti fai una doccia, perché puzzi peggio di un cadavere.”
Bucky resta in silenzio per qualche istante e poi, con uno sbuffo simile a quello di una macchina che viene rimessa in moto dopo anni, inizia a ridere.
È un suono basso e contenuto, e Charlotte sente una vampata di qualcosa scaldarle le guance a quel semplice suono.
(In un angolo remoto del suo cervello, il Soldato ringhia e scalpita, ma non si sente in trappola. Non è l’ansia di una gabbia che si sta chiudendo sempre più stretta su di lui, quella che sente. È paura di essere lasciato da parte.)
 
***
 
Aggiornami, Echo.”
“Lo ha trovato. Si dirigono insieme al suo appartamento.”
Segui il protocollo.
 
***
 
Camminano in silenzio lungo le strade, lo sguardo basso e nessuna voglia di chiacchiere inutili; quando passano davanti al vicolo di Marge e Bob, Charlotte non riesce a trattenersi e li cerca con lo sguardo.
Margherita li nota all’istante e le rivolge un sorrisone allegro, le fa ciao con la mano… e quando nota Bucky al suo fianco alza entrambi i pollici in segno di approvazione. Alle sue spalle, lo sguardo di Bob è indecifrabile.
(Ma gli occhi verdi brillano come stelle, e Charles è convinta che sia perché Marge si è fatta praticamente la cuccia addosso a lui.)
Bucky li osserva in silenzio, e quando incrocia lo sguardo con la ragazza sembra in procinto di chiedere qualcosa. Dopo qualche istante si arrende, però, e torna a guardare per terra. “Li conosco da un po’, sai.” Racconta Lottie in risposta a quella domanda che non è mai arrivata. “Ha iniziato Claude, portava loro il pranzo quasi ogni giorno. Dopo un po’ ho incominciato a dargli il cambio. E poi sei arrivato tu.” Conclude.
“Già.” Gracchia l’uomo. “Grazie.”
Il silenzio cala di nuovo, ma è qualcosa di meno pesante, meno teso di prima.
Sembra quasi intimo.
Per entrare nel condominio le dita di Charlotte inciampano sulla serratura. È nervosa, tanto; quando Bucky se ne accorge le tiene aperta la porta con la mano nuda – perché un guanto solo? – e la lascia andare avanti per assicurarsi che il portone sia chiuso per davvero.
“Ascensore?” Propone la donna pigra. L’uomo la guarda in tralice. “…Ok. Ok. Scale.” Corregge in un borbottio.
Questa volta James la precede, e quando Charles mette un piede in fallo l’unica cosa di cui è conscia l’istante successivo è che si è schiantata contro qualcosa di incredibilmente massiccio che però ha avuto il buon gusto di risparmiarle il setto nasale.
Bucky la guarda dall’alto, in tralice a causa di quel goffo abbraccio in cui si sono all’improvviso trovati, e la rimette in piedi con un movimento elegante della mano guantata. “Attenta.”
“Ci provo.” Mormora Lottie, rossa da poter brillare al buio. “Quello scalino non era là.” L’uomo inarca un sopracciglio e le scocca un’occhiata fin troppo divertita. “Dico davvero!” Insiste, trotterellandogli impacciata accanto, massaggiandosi la spalla con cui gli è andata a sbattere addosso. “Ma tu perché sei così scomodo?” Borbotta alla fine.
James la imita a specchio, si massaggia il braccio con la mano nuda e si stringe nelle spalle. “Ho le ossa grandi.” Mormora, la pronuncia così assurdamente crinata dalla cadenza russa da sembrare una parodia di sé stesso. Charlotte lo guarda a lungo senza una parola, ed è solo quando le sembra di vederlo quasi a disagio che si sforza di spiegargli il perché di quell’occhiata.
“Questa è una grossa e grassa bugia, James Barnes.” Gli spiega quindi. “Pensavo che sotto quel cappotto ci fosse un denso strato di ciccia comoda contro cui schiantarsi, cos’è questa storia delle ossa grandi?”
Bucky distoglie lo sguardo, e Lottie gli vede bruciare qualcosa nello sguardo che ha il potere di lasciarla con la bocca improvvisamente secca. “Mi sei caduta addosso apposta, allora?”
“Come, prego?”
James nemmeno la ascolta. Continua a salire le scale come se niente fosse, rivolgendo un sorriso piacevolmente sorpreso al nulla davanti a sé. “Non pensavo di poter fare ancora questo effetto.”
Come, prego?
 
***
 
Claude torna a notte fonda, perché il turno di pulizie serali inizia quando il museo chiude e in generale la vita non è altro che un cammino lastricato di sofferenze e fastidi generici.
(E lui odia Charlotte per avergli trovato quel lavoro, ovvio.)
Le bussa alla porta e le entra in camera senza aspettare risposta e, come sempre fa – perché è chiaramente la progenie di Satana – accende qualsiasi luce sia in suo potere accendere.
Stronzo, pensa Charlotte. “Fanculo.” Dice quindi, perché non le piace ripetersi.
Claude le si siede sul letto e lascia scivolare via i fogli ammonticchiati sulle lenzuola prima che il sonno si facesse troppo pressante e la sua idiotissima coinquilina decidesse di dormire, e la guarda fisso negli occhi. “Perché c’è un barbone nel mio salotto?”
“È il nostro salotto.” Lo corregge con vocetta stizzita.
“Non mi hai risposto.”
“Ho provato a mostrargli camera tua, ma gli ha fatto schifo e allora ha ripiegato sul salotto.” Bofonchia, girandosi fino a dargli la schiena e appallottolandosi in posizione fetale per ricominciare a dormire.
Claude le sfila il cuscino e glielo dà in testa, e Charlotte si gira infastidita per guardarlo con tutto l’odio di cui è capace.
Charles!
Cosa!” Replica nello stesso sibilo velenoso.
“Perché il barbone che ti ha aggredito è nel nostro salotto?”
Lottie si umetta le labbra. “È una storia lunga.” Mormora, più incerta di prima, incredibilmente più lucida. “Solo… fidati di me? Puoi?” Propone.
Claude sbuffa e si alza in piedi. “Se rompe qualcosa, lo ripaghi tu.”
Prima di andarsene le lancia di nuovo il cuscino sul naso e Charlotte si addormenta così, fingendo di abbracciare tutt’altro (un tutt’altro molto muscoloso, molto patriottico e, manco a dirlo, molto riconoscente per avergli ritrovato il miglior amico senza consegnarlo a superspie di sorta).
 
***
 
La mattina dopo trova James seduto sul tappeto dove ha insistito per dormire, le gambe incrociate e l’espressione terrorizzata da – a occhio e croce – qualsiasi cosa.
“Cosa?” Gracchia con la voce ancora arrochita dal sonno.
Bucky la guarda, e gli occhi celesti tornano appena più umani, le pupille si dilatano quanto basta a metterla a fuoco e scuote la testa. “Non dormivo al chiuso da un po’.” Spiega semplicemente.
“Sai cos’altro non fai da un po’ e che farai oggi?” Risponde Charlotte, il tono lieve mentre si rimbalza tra le mani la pallina per la riabilitazione. Bucky non ci fa apposta, ma la osserva passarsi quell’oggetto tra le dita e resta fermo a fissarla, ipnotizzato, ignorando qualsiasi cosa gli stia dicendo. Ha lo smalto su una sola mano, e con le unghie laccate di quel rosso sembra di vedere i lapilli che si alzano da un falò scoppiettante. “Ehi.” Lo richiama dopo un po’, schioccandogli davanti le dita pulite.
James si riscuote a fatica, ma riesce a guardarla negli occhi. “Cosa?”
“A fare la doccia, sergente Barnes.” Gli intima, indicandogli il bagno con l’indice teso della mano. “Scattare.”
La osserva in silenzio e, con movimenti lenti ed eleganti, si alza in piedi. Non smette un istante di fissarla negli occhi castani se non quando, l’ombra di un sorriso a tendergli le labbra, si avvia verso il bagno con un semplice “Sissignora.”
Charlotte avvampa, e non sa nemmeno lei perché.
 
 
 
Note dell’autrice:
Saaaalve! :D
Come promesso, questo capitolo arriva puntuale.
Ed è lunghissimo! Avrei voluto tagliarlo, ma non sapevo materialmente dove e insomma, mi spiace se lo trovate troppo lungo.
Prometto che proverò a essere un po’ meno logorroica – o almeno a capire dove interrompere. <3
 
*= “Begin at the beginning," the King said, very gravely, "and go on till you come to the end: then stop.”
Lewis Carroll, ‘Alice in Wonderland’
Natasha stava citando Alice nel Paese delle Meraviglie, insomma :D
 
NB: La frase che Claude dice a Charles all’inizio, “su una scala da 1 a ‘invadere la Russia in inverno’”, è presa da tumblr. Mi ha fatto talmente tanto ridere la prima volta che l’ho letta che non sono riuscita a trattenermi e l’ho dovuta usare :D
Trovate il post qua: http://cnt.likealaugh.org/120LongDong/20130704-003110-120-263.jpg
 
 
(In caso qualcuno se lo stesse chiedendo, ancora non so se ci sarà una scena della doccia. Il capitolo successivo è già pronto, in realtà, ma vorrei tenere la storia a rating giallo e non so quanto ne potrei essere in grado descrivendo il Soldato d’Inverno come mamma l’ha fatto :°D)
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 9 ***


9.
 
“Ti ho portato degli asciugamani.”
Bucky annuisce semplicemente, segno che la sta ascoltando. Charlotte li appoggia sul ripiano del lavandino e se ne va dal bagno.
“Ah, se ti vuoi fare la barba il rasoio di Claude è nel mobiletto.”
Di nuovo annuisce, e di nuovo Charlotte si chiude la porta alle spalle.
“Lo shampoo è il flacone celeste.” La osserva in silenzio. “Vado.” Mormora la ragazza, improvvisamente in imbarazzo.
Quando entra di nuovo – senza bussare né annunciarsi in altro modo – lo trova col giaccone sfilato fino a metà braccia. L’uomo la guarda negli occhi, e sembra genuinamente spaventato. Si affretta a sollevare di nuovo i lembi della giacca, e Charlotte deve sbattere le palpebre un paio di volte prima di decidere di aver avuto una mezza allucinazione (da dove poteva mai provenire quel bagliore metallico, altrimenti?). “Il miscelatore è un po’ difettoso, ogni tanto l’acqua esce gelida, ma in generale- funziona. Insomma, a sinistra l’acqua calda e a destra quella fredda.”
“Charlotte.” La richiama alla fine l’uomo.
Solo in quel momento Lottie si decide a guardarlo. “Sì?”
“Avevamo le docce anche negli anni quaranta.” La rassicura con tono morbido, fin troppo divertito dalla situazione.
Charlotte diventa viola, ma non dice altro.
 
Rientra in bagno dopo dieci minuti abbondanti che l’acqua sta scrosciando, per essere sicura che Bucky sia in doccia e quindi ben nascosto dietro i pannelli opachi, e in punta di piedi gli mette un altro cambio di abiti a disposizione.
L’uomo non dà cenno di averla notata, e Lottie rimane per qualche istante più del dovuto a fissarne i contorni sfocati. Che fosse alto se ne sarebbe accorto chiunque, ma che fosse così… massiccio, beh, non era così scontato. Claude è alto quanto lui, ma è evidente anche così a colpo d’occhio che pesi un terzo. La ragazza piega appena la testa di lato nel vederlo girarsi di profilo, e di nuovo sbatte le palpebre, incredula.
(Cos’è quel luccichio?)
“Charlotte?” La chiama l’uomo, il tono più perplesso che allarmato nel trovarsi una persona in bagno così, a sorpresa.
Lottie gira su se stessa e cerca di uscire tanto di fretta da menomarsi una spalla contro lo stipite. Rincula con un tonfo sordo e si copre la zona dolorante con l’altra mano, sforzandosi con ogni fibra del suo essere di non piagnucolare come invece vorrebbe fare.
(E solo per un istante si trova a dirsi che grazie tante che le fa malissimo la spalla, è la stessa che le è stata dislocata dal pazzo sotto la doccia)
“Charlotte, sei tu?”
“No!” Risponde con voce stridula, imbarazzata più che mai, chiudendo la porta con tanta enfasi da far tremare le pareti.
 
Mezz’ora dopo lo scroscio d’acqua si interrompe.
Lottie sospira e si massaggia le tempie, e quando sente la porta del bagno aprirsi si prepara mentalmente alla conversazione più umiliante della sua vita.
(Opzione a: chiamerà la polizia e la denuncerà per aver provato ad abusare di un insospettabile ottuagenario chiaramente incapace di intendere e di volere.)
Bucky le compare davanti con indosso la tuta di Claude e un asciugamano ancora a coprirgli la visuale, frizionandosi la testa con entrambe le mani – e quel guanto, dio, se lo sarà levato almeno mentre si lavava? – e camminando un po’ alla cieca per l’appartamento.
(Opzione b: potrebbe sempre romperle l’altra mano.)
Charlotte strizza ferocemente la pallina per la riabilitazione e lo osserva muoversi a piedi nudi per il salotto, e quando finalmente James si lascia scivolare via l’asciugamano dalla testa la inchioda sul posto fissandola con quegli occhi assurdamente celesti. I capelli gli ricadono in ciocche scomposte ai lati del viso e con una mano passa ad asciugarsi distrattamente il resto della faccia, dalla barba incolta al collo – attorno a cui appende l’asciugamano subito dopo. Lottie si umetta le labbra e le sembra che il tempo si dilati all’infinito mentre, in silenzio, l’uomo la fissa altalenando lo sguardo tra il suo volto e i suoi capelli. È semplicemente impietrita, e lui continua a scrutarla piegando un po’ la testa di lato, studiandola come se non fosse di questo pianeta. Charlotte si umetta le labbra e lo sguardo dell’uomo si concentra sulla sua bocca.
(Opzione c: potrebbe più facilmente ammazzarla.)
“Che fai?”
La sua voce è un mormorio basso e roco, un suono che a Charles ricorda un vecchio vinile danneggiato, ma che comunque – malgrado tutto – riesce ancora a suonare.
(Ed esattamente come un vecchio disco, ogni imperfezione sembra solo un pregio che rende il suono unico e inconfondibile.)
Lottie lo guarda ancora per qualche istante e si sistema gli occhiali da vista scivolati a metà naso con un movimento fulmineo – e le unghie sono rosse come il fuoco e Bucky si trova a rincorrerne il movimento anche quando lei gli parla, anche mentre la vede grattarsi nervosamente la nuca perché non sta ricevendo risposta.
“Ehi?” Lo richiama alla fine. L’uomo si riscuote velocemente e smette di fissarla come se volesse mangiarsela, e di questo Charlotte non può che esserne grata. La guarda con aria decisamente smarrita, e con un sospiro la ragazza decide di ripetere quanto detto fino a quel momento. “Sto mettendo tutto in ordine cronologico,” gli spiega, indicandogli il mare di documenti ingialliti dal tempo, fogli spiegazzati di giornale e lettere risalenti a chissà quale guerra in chissà quale angolo del mondo da cui è circondata. “Questa è la roba di uno scatolone. Ne ho già sistemati un paio, li trovi all’ingresso. Ne restano altri quattro,” prosegue, indicandogli le scatole ammonticchiate in un angolo del salotto. “Ma non so cosa c’è dentro.” Un colpo di tosse e, sotto lo sguardo indecifrabile dell’uomo, si trova a ridere nervosamente. “…Ovviamente. Scusa.” Aggiunge, sentendosi estremamente stupida. Si stringe nelle spalle con un sorrisino teso e piega la testa, esponendosi maggiormente ai raggi del sole che entrano dalla finestra spalancata. “Se vuoi iniziare da quelli che ho già sistemato, accomodati.” Lo esorta.  Qualcosa cambia nello sguardo di Lottie e per un istante – uno solo, piccolo piccolo – sembra quasi minacciosa. “Lascia tutto come trovi.” Mormora. “Altrimenti qua è un casino e puoi fare un po’ il cazzo che ti pare.” Conclude con tono infinitamente più lieve.
Bucky la ascolta in silenzio e alla fine – solo alla fine – annuisce, si mette a sedere per terra e si allunga verso la prima cartella che trova sottomano.
“Ma che fai?”
Il Soldato sobbalza e la osserva, già in preallarme di fronte a quella esclamazione acuta e improvvisa, e istintivamente cerca con lo sguardo gli oggetti più vicini a sé che potrebbero essere usati come armi.
Charlotte deglutisce rumorosamente quando lo vede impugnare un fermacarte a forma di torre Eiffel e tossisce nervosamente. “Intendevo…” mormora, la voce improvvisamente più bassa, “il divano. Non- non devi metterti per terra. È scomodo.” Gli spiega lentamente.
Bucky sbatte le palpebre un paio di volte e poggia l’oggetto sul tavolino con una lentezza esasperante. “Ok.” Sussurra dopo un po’.
(Promemoria: far sparire tutti gli oggetti contundenti)
 
“Prima eri tu, in bagno?” Si informa dopo una decina di minuti di religioso silenzio.
Lottie singhiozza e cambia almeno tre toni di rosso diversi, ma non alza lo sguardo dal fascicolo che sta studiando.
Deve tossire tre volte, prima di trovare un briciolo di ossigeno – e faccia tosta – per rispondere. “No.”
Anche da quell’angolo innaturale che le sta facendo male al collo, Charlotte riesce a vedere l’uomo inarcare un sopracciglio e scrutarla con maggiore attenzione. “Eri tu.” Insiste con tono morbido, quasi… divertito. Sì, è divertito. Oh, come osa?
Charles si schiarisce di nuovo la voce e si decide a sostenere il suo sguardo – per quanto gli occhi così celesti le facciano stringere lo stomaco in una presa mortale. “Il guanto?” Chiede con tono lieve, indicandolo con gli occhiali da vista che si è sfilata per avere un po’ di tregua dal dolore incessante che sente al ponte del naso.
Bucky sembra infinitamente più sulla difensiva di prima. “Cosa.” Mormora quindi, il tono troppo brusco e marziale perché possa sembrare anche interrogativo.
Bingo.
“Perché lo indossi?”
Si fissano negli occhi in silenzio per quella che a Charlotte sembra un’eternità, e solo alla fine James risponde. “Non eri tu in bagno.” Concede in un sospiro.
Ma c’è una cosa che Charlotte non riesce del tutto a ignorare; per un istante, tra quel sospiro e il movimento brusco con cui l’uomo ricomincia a studiare i documenti, come un lampo, le è sembrato di vedere un sorriso.
 
***
 
Li sente discutere una sera, quando sono convinti che stia dormendo – una fitta di un dolorosissimo qualcosa lo stringe al petto, quando come una coperta pesante sente calare su di sé il fantasma di un ricordo, una cappa di tristezza e nostalgia e ‘Stanno dormendo tutti, James, non alzare la voce’.
“È pericoloso!”
“Ha bisogno di aiuto.”
Claude cammina senza soluzione di continuità, misura la cucina a grandi passi e gesticola con un braccio solo, l’altro stretto al petto per poter incrociare le braccia tra una frase e l’altra. Charlotte, al contrario, se ne sta appollaiata come al solito su uno degli sgabelli della penisola con le ginocchia abbracciate dalla mano sana. Quella debole, che ancora le manda scariche di dolore ogni volta prova a stringere più forte la pallina riabilitativa, giace sul tavolo, apparentemente inanimata. La confezione di antidolorifici – amici antidolorifici che non la tradiranno mai, a portata di vista e di mano come al solito.
“E glielo vorresti dare tu? Andiamo, Charles.” Si guardano negli occhi per un lunghissimo istante, e il ragazzo si passa una mano tra i capelli più per interrompere quel contatto così imbarazzante che per altri motivi. “Ti prego, sii ragionevole.”
Charlotte sospira e si porta la mano sinistra a coprirsi gli occhi e a massaggiarsi le tempie. Il ragazzo nota la cicatrice, quella corda di pelle più chiara che le corre lungo il dorso della mano e sente lo stomaco annodarsi dall’angoscia.
“Se ne deve andare.”
Charlotte capitola e parla. “Lo cercano, ok? Credi che Vedova Nera sia venuta qua per sapere come mi stava la mano e basta?
“Charles…”
Vedova Nera, Claude!” Incalza la ragazza, alzandosi in piedi per dare maggiore enfasi a quanto sta dicendo. “Quel poveraccio a momenti non sa nemmeno mangiare per conto suo e tu vorresti che lo consegnassi alla spia più letale del mondo? Seriamente?
Sono a un soffio di distanza, e Claude non ha mai desiderato così tanto poterle infilare un calzino in bocca per farla tacere.
Lo sa, dannazione. Lo sa pure lui che sarebbe una carognata della peggiore specie, ormai.
Ma c’è un ma.
Deglutisce rumorosamente e, di nuovo, distoglie lo sguardo da quello della sua coinquilina. “Ho paura.” Sussurra. “Quelli come lui sono guai su gambe, Charles. Non durerà tanto, inizieranno a cercarlo e ci andremo di mezzo noi.”
Charlotte trattiene il fiato e annuisce perché grazie tante, ci era arrivata anche lei. “Per allora se ne sarà andato.” Promette semplicemente, anche se sanno bene in due che stanno prendendosi in giro a vicenda. Claude sospira e, sconfitto, si copre il viso con entrambe le mani.
“Almeno hai scoperto chi è?”
Lottie abbassa lo sguardo e si gratta nervosamente la nuca, come sempre fa quando deve inventare una balla al volo e non sa materialmente da dove iniziare. “Ecco.” Inizia con voce più stridula, a un volume più alto dei sussurri con cui stavano parlando prima, “Ci stiamo lavorando.”
Claude non sembra per niente convinto né rassicurato. “Un nome, Charles. Ce l’avrà un nome, santo cielo? Sei in grado di battezzare perfino le piante e ancora non sei riuscita a scoprire come si chiama?” Incalza con tono più isterico di prima – perché litigare di scemenze è rassicurante, molto più del pensiero di aver accettato dentro casa una persona evidentemente pericolosa, e Claude può abbassare la guardia e permettersi di dare un po’ di matto.
La risposta arriva dal salotto, perché chiaramente quella di essere inquietante è un’arte che Bucky ha appreso e affinato in anni e anni di duri allenamenti.
James.
Claude sobbalza così violentemente da tirare uno schiaffo sul naso di Charlotte, troppo impegnata a ridere istericamente per lamentarsene per bene.
 
***
 
James – che per il momento è solo James, perché non ha ancora il coraggio di accettare le implicazioni che un altro nome comporterebbe – si adatta con sorprendente velocità a quella nuova situazione.
La mattina si sveglia presto, alle prime luci dell’alba, e sfoglia il materiale contenuto negli scatoloni che trova in giro finché anche gli altri si sono svegliati. Lottie prepara la colazione e lui la osserva a distanza, seduto su una sedia microscopica in un angolo di quella cucina troppo piccola, per un gigante come lui, ipnotizzato da quelle mani che si muovono freneticamente per poter fare tutto nel minor lasso di tempo possibile. Quasi ogni giorno le unghie sono di un colore diverso, e James la sera si trova a scacciare gli incubi elencandosi mentalmente quelli che ricorda.
(Li ricorda tutti.)
(Ma non sempre funziona.)
Claude si vede poco o niente, ma quando è nella loro stessa stanza l’atmosfera oscilla tra l’essere estremamente allegra e lieve, a una cappa pesante di nervoso e malcontento che James – Bucky Bucky Bucky – non arriva a capire del tutto.
(Si offre di andarsene quasi ogni giorno, ma nessuno dei due accetta. Paradossalmente, Claude è quello che insiste di più.)
 
***
 
“Carlottina, ma il mio amico?”
Charlotte guarda Marge come se la vedesse per la prima volta e solo dopo diversi istanti fa mente locale e capisce. “Oh!” Esclama quindi, per farle capire che non è stupida, è solo un po’ lenta di comprendonio. Non che a Marge sembra interessare, a giudicare dal sorriso allegro con cui continua a fissarla. “Sta da noi.” Le spiega semplicemente.
Marge non sembra per niente convinta. Gattona per arrivarle più vicina e la tira per un lembo del cappotto. “Sì, ma come sta?”
La risata isterica di Lottie la dice lunga sulla situazione. “Una meraviglia.” Risponde con una scrollata di spalle e un sorriso palesemente falso. “L’altra notte si è svegliato urlando solo tre volte, e oggi quando gli è venuto da vomitare per l’ennesima crisi ha mancato di solo venti centimetri il gabinetto.” Conclude con una risata pomposa e un cenno della mano che dovrebbe minimizzare quanto detto, e che invece la fa apparire più disperata di prima.
Margherita la osserva senza dare cenno di aver capito la gravità di quanto Charlotte ha appena raccontato, già appagata nella propria curiosità da quell’iniziale ‘una meraviglia’ che non ha nemmeno per un istante preso per un commento sarcastico, e Lottie vorrebbe piangere un pochino.
Bob è quello che parla.
“Quando il mio vecchio è tornato dalla guerra era messo nello stesso modo.” Racconta tra un boccone e l’altro, lo sguardo fisso avanti a sé con l’aria assorta di chi si sta sforzando di ricordare una lezione imparata a memoria troppi anni fa, e per troppi anni non ripetuta. “Urlava, non mangiava quasi niente e quando tuonava in cielo lui si pisciava addosso.”
Charlotte rabbrividisce più al pensiero di cosa potrebbe farle Claude se capitasse qualcosa al loro divano, che non al pensiero di un armadio quattro stagioni che si fa la pipì addosso dalla paura. “Orribile.”
Bob annuisce. “E balbettava. Non c’era verso di rimettergli a posto il cervello, nonna era disperata.” Margherita gli torna vicina e gli si fa la cuccia addosso, abbracciandogli i fianchi con un braccio e poggiandogli il mento sulla spalla per sbrodolargli dolcezze in italiano all’orecchio. Roberto sorride malgrado tutto e si gira per baciarle dolcemente una guancia. “Alla fine ci ha pensato mamma.” Prosegue con tono più basso, quasi stesse facendo loro una confidenza.
“Come?” Sussurra Lottie, tanto è il timore di spezzare quell’equilibrio che si è venuto a creare.
“Parlavano.”
 
***
 
Charlotte non capisce come facciano ogni volta, ma dopo aver iniziato a controllare l’ennesimo fascicolo di documenti sul divano sono finiti di nuovo sul pavimento del salotto. Forse è semplicemente che è più comodo per poter appoggiare tutto, sparpagliato, a disposizione di entrambi senza doversi disturbare a vicenda chiedendosi ora un fascicolo, ora un altro.
(Forse è che il divano è troppo morbido per chi è abituato ormai da troppo tempo a dormire per terra.)
Sospira e scodinzola, infastidita dalla fitta di dolore al sedere che sente dopo tre ore che se ne sta seduta a gambe incrociate sul parquet, e all’ennesimo teorico del complotto in cui inciampa nell’arco di pochi minuti sbuffa più sonoramente.
Bucky – immerso nella lettura di sa il signore cosa – le scocca un’occhiata un filo infastidita per quella distrazione, ma alla fine cede e le chiede cosa abbia trovato di così noioso.
(Anche se non glielo chiede precisamente così, il senso è lo stesso. Anche se si tratta di un “Che c’è?” tutt’altro che amichevole, il discorso non cambia.)
“Articoli di gente paranoica.” Racconta Lottie. “Teorici del complotto.” Prosegue. “È una leggenda metropolitana che si sono rimbalzati i giornali meno affidabili del globo terracqueo a secoli di distanza gli uni dagli altri, nemmeno capisco perché sto continuando a trovare roba.”
Qualcosa nello sguardo di Bucky si indurisce, ma è una frazione di secondo – e Charles nemmeno lo sta guardando, troppo intenta a scartabellare documenti. “Cosa?”
“Il Soldato d’Inverno.” Spiega muovendo anche le mani, per dare meglio l’idea di spettralità di quanto sta raccontando. “L’assassino più letale che ci sia che se ne va in giro indisturbato ad ammazzare chiunque gli dicano di ammazzare e- boh, presumibilmente dorme in una vasca di formaldeide a fine giornata per non invecchiare di un giorno, dato che dicono giri dalla fine della seconda guerra mondiale.” Charlotte sbuffa un’altra risata e, dopo aver appallottolato il figlio di giornale, lo lancia nel cestino dell’immondizia. (O almeno ci prova, la pallina vola ben più lontano e cade precisamente sul divano.)
Lo sguardo di James è indecifrabile. “Tu ci credi?”.
“Non proprio.” Charlotte si stringe nelle spalle. “Insomma, dopo Capitan America è abbastanza chiaro che degli esperimenti sui soldati li facessero davvero, ma da là a creare un’arma del genere… ah, qua dicono anche che abbia un braccio di metallo, te l’immagini?” Gli chiede con una risata. “Pensa quanti barattoli di sottaceti avrà aperto in tutti questi anni.”
 
***
 
“Novità?”
Steve sospira e cambia spalla con cui sta appoggiato al muro, gli occhi celesti persi nel vuoto davanti a sé. “Nulla,” risponde quindi, “non esce nessuno.”
Dall’altro capo dell’auricolare, Natasha ride. “Non vorrei dire ‘te l’avevo detto’, Steve…” inizia, godendosi ogni parola come se stesse mangiando un dolce particolarmente buono, “ma te l’avevo detto.”
“Sì.” Concede l’uomo. “Lo so.”
“Io te l’avevo detto, che stava mentendo.” Gongola la donna, girando il cucchiaino nella propria tazza di caffè e facendo tintinnare il metallo contro la ceramica prima di dare un generoso sorso. Il salotto di Steve è più comodo del previsto, in special modo il suo divano. Sapere che nel mentre il legittimo proprietario è inchiodato da ore in piedi all’angolo di un’insulsa stradina per colpa della sua testardaggine, poi, lo rende ancora più confortevole.
“Stava piangendo, Nat.” Le ricorda con tono vagamente scocciato l’uomo.
Natasha sospira e rotea gli occhi, e Steve ne ha la percezione quasi fisica. “Rimane che potresti risolvere la cosa in meno di cinque minuti, se solo non fossi un grande e grosso testardo.”
Cap sbuffa sonoramente. “No.” Risponde seccamente.
“Ma se solo-”
Non proverò a sedurre una sconosciuta per avere informazioni, Tasha!” Replica, in un misto esilarante di imbarazzo e irritazione perché come osa accusarlo di poter fare una cosa così vile?
(O più verosimilmente, come osa proporgli una missione che per la quasi totalità della sua vita sarebbe stata semplicemente suicida? Sedurre una sconosciuta? Certo, come no. Col suo aspetto? Quello in grado di rigirarsi chiunque attorno a un dito con un sorriso storto non era certo lui.)
(Ci sono giorni – sempre di meno, e con sempre meno insistenza – in cui Steve si guarda attorno e non riconosce quel gigante biondo che vede riflesso negli specchi e nelle vetrine.
Ci sono giorni in cui si aspetta di veder comparire allo specchio quel ragazzino mingherlino e gracile, e quando non succede Steve non capisce da dove gli venga quel pensiero, ma ne è quasi deluso.)
“Peggio per te, allora. Goditi l’appostamento.”
Steve sbuffa e cambia di nuovo posizione. Non è l’appostamento, a infastidirlo. È il doversi tenere più nascosto possibile per non farsi riconoscere.
“Se potessi venire a darmi il cambio per un paio di ore…” Inizia con tono più morbido.
“Oh no, Capitano,” lo interrompe con tono allegro la donna, “l’hai detto all’inizio. Tu soldato, io spia. Io ho spiato, ora tu soldateggia e aspetta sviluppi.”
“Ho fame, Nat.” Si lagna con tono querulo.
Natasha ridacchia e sorseggia il proprio caffè. “Dammi un’oretta, tempo di asciugarmi lo smalto e arrivo.”
 
***
 
“Vado a fare la spesa, ti serve qualcosa?”
Charlotte distoglie a fatica lo sguardo dalla pagina di wikipedia che stava studiando e accoglie la tazza di tè che Claude le porge con un sorriso grato. “Pannoloni da adulto.”
Il ragazzo alza gli occhi al cielo. “No.”
“Mi servono!”
“Non ti servono, Charles. Ti diverte sapere che in un angolo di mondo io sto vergognandomi a morte.”
“Che è un po’ lo stesso motivo per cui mi hai mandato a comprarti la crema per le emorroidi.”
Claude sorride deliziato e annuisce. “Esattamente.”
“E allora perché non posso avere i miei pannoloni da adulto?” Piagnucola la ragazza.
“Perché la vita è ingiusta.” Replica semplicemente il ragazzo, allontanandosi – non prima di averle infilato una penna tra i capelli perché sì, per vedere dopo quante ore se ne accorgerà questa volta – e dirigendosi alla porta.
Bucky esce dal bagno in quel momento, con Charlotte che sta supplicando il suo coinquilino di comprarle sa il cielo cosa e lui che, semplicemente, sghignazza.
“Eddaiiiii!” Piagnucola la ragazza.
Claude fa orecchie da mercante e apre la porta, ed è in quel momento che Charlotte guarda in un angolo non ben identificato del salotto e sbianca. L’istante successivo è ridotta a una palla, la tazza di tè stretta al petto e l’indice puntato nel vuoto, sempre più piccola sul divano.
“Ragno!” strepita. “Ragno! Ragno! Claude, ragno!
Claude – che è il solito bastardo ignaro di quanto i ragni siano in realtà creature malvage che mirano allo sterminio del genere umano – si chiude la porta di casa alle spalle con tanta enfasi da far tremare le pareti e, di conseguenza, la ragnatela enorme da cui sta calandosi il mostro.
Bucky è in piedi, a pochi centimetri dalla libreria in cui sta per dileguarsi la bestia immonda, e la guarda con gli occhi sgranati. Le pupille sono di nuovo sottili, le iridi due monete celesti come il cielo che corrono per la stanza alla ricerca del nemico.
“Ragno!” Strepita ancora Charlotte, indicando alle sue spalle. Bucky si gira e lo nota e torna a guardare Charlotte. Muto, immobile, in attesa. “Uccidilo!”
Dopo tanto tempo, il Soldato può tornare finalmente a fare quello che gli riesce meglio.
Obbedire.
 
Bucky sbatte le palpebre, vagamente sconvolto, quando si vede lanciare in faccia il cappello. “Andiamo.” Lo esorta Charlotte, saltellando per l’appartamento per rivestirsi più in fretta possibile senza al contempo dimenticare nulla. Si volta a guardarlo negli occhi e resta ferma per una frazione di secondo; subito dopo schiocca velocemente le dita verso di lui come a volerlo risvegliare da quello stato di trance. “Hop hop hop, veloce.” Lo esorta, concitata. James fa appena in tempo a infilare il berretto che si trova praticamente sbattuto in strada.
“Dove andiamo?” Prova a chiedere, più perplesso che altro.
Lottie accenna un sorriso incerto e nervoso. “Lontano.” Mormora semplicemente, avviandosi ad ampie falcate verso il nulla.
 
***
 
“Il soggetto è in movimento. Direzione nord-ovest, lontano dal solito tragitto.”
Agite.
 
***
 
Il cellulare le squilla meno di un paio d’ore dopo, quando ormai sono a diversi isolati di distanza e Claude, a giudicare dal tono con cui le parla, è appena tornato a casa. “Charles.” La saluta infatti, la voce che trema appena. “Sai che mi piace quando mi dai una mano col volontariato.”
Charlotte non perde tempo e dà in un sospiro sconfitto e colpevole. “Non è colpa mia.” Piagnucola.
“Ci stiamo spingendo un po’ troppo in là, non pensi anche tu?” Prosegue nel recitare quel copione che – è evidente – si è preparato a tavolino prima di chiamarla.
Lottie, se potesse stringersi ancora più nelle spalle, sarebbe ormai ridotta a un’immagine a due dimensioni. “Io volevo solo che uccidesse il ragno.”
La risposta arriva così forte che perfino Bucky riesce a sentirla. “È un cazzo di buco nella parete, Charles!” Charlotte fa una smorfia sofferente e allontana l’apparecchio dall’orecchio congestionato quando ormai è chiaramente troppo tardi. Claude continua a sbraitare a pieni polmoni, la voce distorta dalla chiamata che arriva comunque chiara da quanto sta gridando. “Come glielo spieghiamo, al padrone di casa?
La ragazza si morde nervosamente l’unghia del pollice, lo sguardo ostinatamente fisso avanti a sé, il telefono nella mano che non si sta torturando con i denti. “Lo copriamo con un poster finché non chiamiamo un muratore.” Pigola. “Stavo giusto cercandone uno carino per quando fossi tornato.”
Io non voglio nemmeno sapere come cazzo avete fatto, ma giuro- Dio, Charles, sei morta. Oh, quanto sei morta.
James le sfila il telefono di mano senza doversi impegnare particolarmente, e Charlotte lo guarda in un misto di raccapriccio e gratitudine. “È colpa mia.” Lo vede parlare al telefono con aria fin troppo tranquilla per uno che ha appena spaccato una parete, l’accento russo ancora incredibilmente – inspiegabilmente – marcato. Dall’altro capo Claude sta insultando anche lui, perché quando si tratta di essere uno stronzo sa essere molto democratico, ma Bucky nemmeno lo sta ascoltando. “Lo sistemo io.” Promette. Claude sta cercando di aggiungere qualcosa – che Charlotte teme possa avere a che fare con la mamma di Bucky – ma veloce come le ha preso il telefono si affretta a chiudere la conversazione e passarle nuovamente il cellulare. Al volo, costringendola a farsi rimbalzare l’oggetto tra le mani di pastafrolla che si ritrova in un tentativo di non farlo schiantare al suolo.
“Dicevi davvero?” Gli chiede dopo diversi minuti di silenzio.
James si stringe nelle spalle e la osserva senza capire. “Quale parte?”
“Quando ti sei offerto di sistemare il buco.” Bofonchia.
L’uomo la osserva in tralice senza smettere di camminarle al fianco, le mani calate nelle tasche e un sopracciglio inarcato. “Ti ho rotto un muro davanti e la tua preoccupazione è che io sia in grado di ripararlo?” Si informa, per essere certo di aver capito bene.
La ragazza apre bocca per rispondergli, e in quel momento girano l’angolo, e qualcosa di incredibilmente doloroso la colpisce alla schiena.
Si trova a cadere senza riuscire nemmeno a pensare a quanto sta accendo, e un’altra scarica di dolore le appanna la vista quando si trova a sbattere le ginocchia sull’asfalto. Sente voci concitate, ordini sbraitati in una lingua che non capisce e che eppure non le suona del tutto nuova alle orecchie, e poi qualcosa di metallico e terrificante insieme.
Un colpo che viene caricato in canna.
(Per la precisione, sono quattro colpi in quattro canne diverse.)
Charlotte osserva i quattro sconosciuti che li hanno circondati con gli occhi sbarrati, troppo sconvolta per lasciarsi sfuggire un solo suono dalle labbra, e in un angolo del proprio cervello non può che trovare perfetto il modo in cui l’hanno fatta cadere. In ginocchio, pronta per essere ammazzata.
(Oh dio ci siamo è andata oh dio oh dio oh-)
Il primo ad alzare l’arma su di lei è quello alla sua destra. Charles chiude gli occhi con un singhiozzo sottile e quello che sente dopo sono rumori per lei incomprensibili, tonfi sordi e un lamento soffocato. Con un crock che sperava di non dover mai più risentire nella propria vita, il primo aggressore le cade accanto, privo di sensi e con un braccio sbriciolato.
(La frattura è orrenda a vedersi, la pistola penzola da quella che un tempo era una mano e che ora è un grumo informe di carne e sangue. Charlotte crede di intravedere una scheggia bianca di osso e distoglie lo sguardo all’istante.)
Gli altri tre si fanno avanti insieme, perché evidentemente non sono dentro un film d’azione di serie Z e non intendono lasciare che Bucky – Bucky che rompe muri e ossa e quant’altro incroci sul proprio cammino – abbia la possibilità di raccontare quell’esperienza.
Charles lo cerca con lo sguardo e vede gli stessi occhi di quando si erano visti al museo, le pupille sottili come spilli e l’aria più letale e pericolosa che mai.
Chiunque stia fronteggiando quegli uomini, realizza all’improvviso, non è la stessa persona con cui stava parlando fino a pochi minuti prima.
 
In quel mare di istinti e impulsi scatenati dall’adrenalina, James si sente scivolare sempre più via mentre sente tutt’altro tipo di personalità prendere il sopravvento. E non dovrebbe – dovrebbe combatterlo – ma non riesce a opporsi.
Nota uno dei tre uomini alzargli l’arma contro e fare fuoco e, ormai troppo vicino per schivare, prova a deviargli il colpo in un unico, rapido, movimento. La pallottola lo colpisce di striscio sulla protesi e va a conficcarsi nella gamba dell’uomo alle sue spalle, che cade a terra in un grido improvviso. Strattona più forte che riesce e gli strappa la pistola dalle mani. Un altro strattone per trascinarlo dalla parte dei suoi due compagni, per avere un valido scudo umano, e lo spinge via con un calcio allo sterno per poter quantomeno guadagnare tempo e capire come attaccare.
(Dalla radio appesa alla cintura di uno degli uomini, una voce inizia a strillare ordini in russo.)
Il Soldato serra la mascella e ringhia, schiva agilmente i pugni e, sporgendosi per caricare meglio il colpo da sferrare, sfila uno sfollagente a molla dalla cintura di uno degli aggressori a terra. Lo apre con un movimento fulmineo del polso e – ancora per qualche istante, ancora in attesa di trovare qualcosa di più definitivo – riesce a rallentare i movimenti dell’uomo.
Alle sue spalle sente movimenti indistinti e lamenti sordi, e fa appena in tempo a tendere l’orecchio che l’ultimo aggressore ancora in piedi sbraita uno “Sparagli, cazzo!” a uno dei suoi compagni, feriti ma malgrado tutto ancora presenti a loro stessi.
Il Soldato esita per una frazione di secondo, quanto basta all’uomo dietro di lui per sollevare la pistola e avere l’illusione di stare prendendo la mira. L’illusione di poter vincere.
Gli è addosso in una scivolata, il calcio più forte che riesca a tirargli da quella poca distanza per poter prendere la rincorsa, e la protesi a stringergli la mano con cui regge l’arma. Gli strappa via la pistola ignorando le sue urla di dolore, pochi istanti per calibrare il colpo, e anche l’ultimo uomo è a terra, a reggersi una spalla con la mano sana.
 
Charlotte percepisce che è finita dal sospiro che sente tirare a Bucky, qualcosa di più profondo del semplice sollievo.
(Liberazione.)
 
La radio, ancora intera malgrado la colluttazione, manda scariche elettriche e la voce dall’altro capo – una donna, riflette Lottie; una donna tremendamente incazzata – ha smesso di sbraitare ordini. Bucky lascia scivolare a terra la pistola e cammina a passo lento verso l’uomo da cui provengono quei rumori. E guardandolo muoversi di spalle con quel passo cadenzato, Charlotte non può non pensare a un cowboy di qualche vecchio film, i passi scanditi dagli speroni e una taglia a sei zeri sulla testa.
(Non ha nemmeno idea di quanto sia vero.)
Si china e prende la radio con la mano coperta dal guanto e a quel punto, con la stoffa squarciata su una stella rossa dove dovrebbe esserci la pelle nuda, Lottie ne ha la certezza: quel luccichio che le sembrava di vedere non se l’è mai immaginato. Bucky ha davvero una protesi metallica. “Я не вернусь.*” Scandisce lentamente, le dita strette attorno al walkie talkie. Charlotte tende l’orecchio, e le sembra di sentire il rumore di una macchina con gli ingranaggi perfettamente oliati che si mette in movimento.
L’istante successivo l’oggetto è in briciole.
Il Soldato ignora il suo singhiozzo sorpreso e continua a guardarsi attorno, studiando il perimetro alla ricerca di altri eventuali pericoli. Charlotte annaspa per riprendere fiato, ma alla fine riesce a rialzarsi in piedi e a raggiungerlo, e a fatica riesce a trovare il coraggio di parlare. “Sei tu.” Balbetta quindi. “Sei lui. Il Soldato.” James serra la mascella e, ormai scoperto, annuisce. Charlie gli è addosso in una frazione di secondo e con movimenti nervosi cerca di ricomporgli la giacca, riavvicinando i lembi squarciati della manica senza alcun risultato. “Hai bisogno di altri vestiti.” Sussurra con tono concitato.
Il Soldato la guarda senza capire, e Lottie
(Stupida Lottie sei sempre così stupida)
Parla in un soffio a malapena udibile. “Claude non deve saperlo.”
Bucky annuisce.
“Dobbiamo andare, la polizia arriverà tra poco.” Le parla in un inglese perfetto, privo di qualsiasi cadenza se non per l’inflessione tipica di New York – di Brooklyn, si corregge da sola –, e Charlotte lo osserva come se lo vedesse per la prima volta, genuinamente sconvolta da quell’improvvisa calma e lucidità. Lui la osserva e sostiene il suo sguardo, e la guarda tanto intensamente che per un istante – uno solo, piccolo piccolo – Lottie sente la testa girare. Poi James si schiarisce la voce e guarda altrove, l’orecchio teso a quei suoni che ha imparato a conoscere ed evitare tanto bene. “Andiamo. Ora.”
Charles lo sente così autoritario da faticare a riconoscerne la voce – ma un sergente è pur sempre un sergente, e lui evidentemente è abituato a dare ordini – e per un breve istante sente l’idiotissimo istinto a mettersi sull’attenti.
 
All’inizio se ne vanno lentamente, dalla parte opposta alle sirene, per non destare sospetti. Quando Bucky le dà il via libera, Charlotte prende il comando e inizia a camminare a passetti veloci e nervosi, si liscia la gonna con una mano e con l’altra strizza la pallina per la riabilitazione a ritmo frenetico. James la osserva da sotto la visiera del cappellino ed è ugualmente dispiaciuto e allarmato – quelle, a rigor di logica, sono le avvisaglie di una crisi isterica in piena regola. “Ok,” balbetta la ragazza dopo un po’, indicandogli un palazzo enorme, “qua dentro. È abbastanza caotico.” Si alza sulle punte e si guarda attorno, facendoglisi più vicina. Armeggia con il colletto della sua giacca, si sporge e si contorce e finalmente trova la taglia. “Ok. Tu mi aspetti là,” gli spiega, indicandogli un vicoletto. “Io vado e torno. Non ci vorranno più di cinque minuti.” L’uomo annuisce con lentezza, decisamente sollevato all’idea di non dover entrare in un negozio a più piani gremito di gente.
Lottie torna dopo cinque minuti, esattamente come promesso, e gli trotterella incontro con aria decisamente agitata. “Questa dovrebbe andare bene.” Annuncia, mettendogli in mano un brandello di stoffa sgualcita e dai bordi frastagliati. Bucky la osserva senza capire bene cosa stia accadendo, più perplesso che altro.
“È una manica.” Realizza a mezza bocca.
Charlotte diventa di un bel rosso acceso e la pallina, tra le sue dita, riceve una robusta strizzata. “Sì beh, spiacente ma sono troppo povera per farti giocare a Pretty Woman.” Liquida a mezza bocca. “A casa te la cucio sotto al giaccone, ora muoviti prima che ci vedano.” Restano a fissarsi ancora per una manciata di secondi, e quando le sembra di vedere gli occhi di Bucky farsi più vispi, quasi divertiti, gli infila velocemente la manica mutilata in una tasca e gli schiocca le dita davanti per incitarlo a darsi una svegliata. “Hop hop hop.” Incalza. “A casa.”
A nasconderci.
 
***
 
“Indovina chi ha rischiato di essere ammazzato oggi pomeriggio?” Esordisce con tono squillante Natasha.
Steve rotola sul letto con un verso sofferente. “Ho fatto la nottata in bianco, Nat.” Le spiega con la voce impastata di sonno, a giustificare perché stesse dormendo a quell’ora.
“Lo so! Sei stato quasi ventiquattr’ore di piantone qua e non è successo niente. Vengo a darti il cambio e nemmeno mezz’ora dopo vedo scendere il tuo amico a braccetto con la nostra piccola bugiarda! Parola mia, Steve, se fossi un po’ più superstiziosa direi che porti sfortuna.”
 
***
 
“Vado a farmi una doccia.” Balbetta Charlotte, pallida e ancora tremante.
Bucky la osserva con le labbra ridotte a un filo e l’espressione fin troppo dispiaciuta e annuisce. “Me ne andrò.” Promette una volta che la ragazza gli ha dato le spalle, lo sguardo fisso sui ricci rossi che tremano un po’, ora che non la può più guardare in faccia, ora che Charlotte sta lasciando sfogare la paura e l’adrenalina piangendo a getto continuo. “Mi… mi serve ancora qualche giorno.” Prosegue, sentendosi infinitamente a disagio.
Lottie si passa una mano sugli occhi e sospira – un suono sottile che sa di lacrime da un miglio di distanza. “Ok. Non… non ti preoccupare. Basta che ce ne stiamo a casa, no? Profilo basso.” Prova con tono incerto.
Bucky non ha il coraggio di darle torto, ma sanno entrambi che il meccanismo che si è messo in moto non è di quelli che si arresteranno da soli.
 
Claude dà di matto come pronosticato, e a nulla valgono le suppliche di Charlotte di avere un po’ di tregua.
(Lui, d’altronde, non ha rischiato di essere giustiziato come un cane in un vicolo. Lui, d’altronde, non sta coscientemente nascondendo a casa propria uno degli assassini più pericolosi del mondo e della storia.
Di questo, Charlotte non se la sente di fargliene una colpa.)
“Claude, sto provando a seguire.” Borbotta astiosamente indicando con il telecomando la televisione. Non sa nemmeno cosa sta millantando di stare seguendo, ma tanto basta. Le voci alla tv la distolgono dal rumore che le riecheggia in testa ininterrottamente da quel pomeriggio – il click delle pistole, il colpo caricato in canna, il crock delle ossa.
“Almeno posso sapere come avete fatto a bucare il muro, o è un mistero della fede?” Chiede con tono lieve il ragazzo. “Se c’entra qualche strana pratica erotica che hai deciso di sperimentare senza dirmi nulla sappi che sei una grande egoista, Charles.”
“Cosa?” Chiede senza nemmeno realizzare. Si guardano negli occhi e solo in quel momento Charlotte realizza – complice l’ampio cenno con le sopracciglia di Claude all’indirizzo di Bucky. “Oh cristo santo, Claude!” Sbraita con voce acuta. “Viviamo nella maledetta casa delle barbie e hai il coraggio di stupirti se i muri si bucano facilmente?” Prova a difendersi, facendosi sempre più rossa al pensiero di cosa potrebbe aver immaginato il suo coinquilino. “Ti ho già detto che chiamerò io per farlo sistemare, piantala di rompere le palle e fammi seguire la tv.”
Claude non pare per niente soddisfatto. Si schiarisce la voce con fare da zitella inacidita dagli anni e si dirige verso la cucina. “E comunque il muratore lo paghi tu.”
Charlotte non distoglie nemmeno lo sguardo dalla televisione. Afferra la prima cosa che le capita sotto mano e la scaglia con quanta forza ha nel braccio – che non è stato bloccato per un mese ma purtroppo non è quello dominante – all’indirizzo del proprio coinquilino.
Claude urla spaventato e schiva, e una tazza va a fracassarsi contro lo stipite della porta a diversi centimetri dalla sua gamba. “Pazza!” Gracchia.
In un angolo del salotto Bucky aggrotta la fronte e si schiarisce la voce.
“Mira a quarantacinque gradi.”
Charlotte smette di fissare la televisione e fissa lui. L’aria a dir poco infastidita e selvatica scema velocemente, nel trovarsi davanti i soliti occhi celesti con un insolito bagliore. Una scintilla di vita diversa dal solito. “Uh?” chiede quindi, perché è chiaramente incapace di formulare domande più articolate.
L’uomo si stringe nelle spalle – arruffa le penne è una descrizione più valida – come se fosse a disagio nel ripetere quanto detto, come se la trovasse una cosa tremendamente fastidiosa da fare. Ma alla fine ripete. “Se miri a quarantacinque gradi il colpo è più preciso.”
Charles fa questa cosa stranissima, ogni tanto (ogni spesso, in realtà): continua a guardare o a fare quello che stava guardando o facendo fino a due secondi prima e, contemporaneamente, inizia a fare altro. Come prima con la tazza, non distoglie lo sguardo da lui e, allo stesso tempo, richiama Claude con voce squillante. “Vieni un attimo qua, che ho un esperimento da fare.”
Claude si affaccia dalla cucina, scopa e paletta in mano e qualche coccio della tazza ancora da raccogliere in giro. “L’esperimento prevede te che lanci cose?”
Il Soldato inizia a sentirsi a disagio, nel vedersi scrutare con tanto interesse, ma non distoglie lo sguardo. Gli occhi castani di Charlotte brillano di divertimento, e fissarli lo fa sentire stranamente a posto con la coscienza, come se fossero abbastanza vivi per entrambi. “Sì.” Claude le fa una pernacchia e torna a pulire senza degnarla di ulteriore risposta.
Continuano a fissarsi ancora per diversi minuti, in silenzio. Poi le sembra di vedere un angolo della bocca dell’uomo piegarsi in un sorriso, e Charlotte distoglie lo sguardo con un colpetto di tosse imbarazzato.
 
***
 
Quella notte il Soldato torna più forte che mai, e James si sveglia tra le urla sotto lo sguardo preoccupato di Charlotte e di Claude.
“Lode a dio.” Esala il ragazzo, porgendogli un bicchiere d’acqua – perché sì, perché non sa cos’altro fare quando la gente ha incubi. Innaffiare le angosce con l’acqua pare una buona idea.
Claude è una maschera di paura e apprensione, ma non parla oltre. Charlotte si siede sul divano accanto a Bucky, e quando l’uomo le appoggia la testa sulla spalla e socchiude gli occhi con un sospiro tremulo che sa di paura e sollievo mescolati insieme, il suo coinquilino si limita a porgerle una coperta per potersi coprire.
 
“Così non va.” Pigola la ragazza una volta che Claude è tornato in camera.
Bucky apre a fatica gli occhi e la osserva senza capire, e si scosta appena si accorge che vuole alzarsi. “Soffri di sindrome da stress post traumatico.” Ricapitola Charlotte, sbandierando felice i risultati delle proprie ricerche su google. “Ed è chiaro che ti servono delle cure.” Cammina per la stanza e sembra una leonessa in gabbia. Alla fine si risolve a tornare a guardare Bucky negli occhi, poggiandosi con entrambe le mani sullo schienale di una sedia. “Da adesso in poi parlerai.” Gli intima. “Devi parlare. Qualsiasi cosa andrà bene, ma devi ricominciare a farlo.”
L’uomo la guarda senza capire – rifiutandosi di capire – e si stringe appena nelle spalle. Inizia a sentirsi messo alle strette, e la cosa non gli piace.
(Il Soldato ringhia e scalcia, e le corde in cui è stato imbrigliato sembrano all’improvviso meno salde.)
“Io parlo.” Mormora come unica difesa.
Charlotte lo osserva con un sopracciglio inarcato e sbuffa. “Sembra di avere a che fare con una macchina, con te.” Gli spiega. “Parli solo quando devi, ‘grazie’, ‘prego’, e ogni tanto qualche richiesta. Non ne uscirai mai, se non inizi a fare qualcosa.” Sospira e gira attorno alla sedia, fino al divano. Lo osserva dall’alto in basso, il labbro inferiore stretto tra i denti candidi. “Hai un casino, dentro, e io non riesco a rimettertelo in ordine. Non sono una strizzacervelli. Devi rimetterti a posto la testa da solo, ma devi iniziare a farlo.” James la guarda senza capire.
(E il Soldato strattona più forte, la paura cieca di una tigre di fronte al fuoco)
Lottie prende di nuovo fiato e gli si siede accanto. “Hai tanto veleno in corpo che ci stroncheresti un elefante. Ma ti sta qua,” spiega, toccandosi il plesso solare. “E non riesci a buttarlo giù, perché ti hanno costretto a farlo per anni. Adesso o lo sputi fuori o ti ci strozzi una volta per tutte.”
Bucky la osserva in silenzio, ugualmente perplesso e affascinato da questa diagnosi totalmente arbitraria. “Non credo sia il caso.” Sussurra mentre, come se fosse intrappolato dentro sé stesso, qualche ricordo supera la barriera che ha provato ad alzare e davanti agli occhi gli esplodono immagini terrificanti di sangue e guerra e morte.
(E per un istante a Bucky sembra di sentire il Soldato ridere, riacquistare forza.)
Charlotte gli sta troppo vicina, si sporge verso di lui e James percepisce con sconvolgente chiarezza qualcuno, in un angolo della sua testa, che gli ordina di metterle la mano attorno alla gola e, semplicemente, stringere. “Raccontami com’era.”
L’uomo socchiude gli occhi e piega la testa con una lentezza terrificante, come se il minimo movimento brusco potrebbe spingerlo di nuovo oltre l’orlo della follia. “Ho visto-” si morde le labbra, perché è la cosa più comoda da dire, ma non è quella vera, “ho fatto delle cose orrende.” Si corregge in un sussurro.
Lottie alza una mano a mezz’aria e resta così, a un soffio dalla sua spalla. Bucky ne sente il calore, ma non fa nulla. La sente prendere fiato, cercare qualcosa da dirgli. “Parlami di Brooklyn.” Alza lo sguardo e la osserva, sconvolto. Sul volto di Charlotte, un sorriso piccolo e incerto. “Parti dalle cose belle. Al brutto si fa sempre in tempo ad arrivare.”
Bucky annuisce, prende fiato e inizia a raccontare.
(Il Soldato, spossato, si adagia sotto le catene che lo costringono.)
 
***
 
All’inizio i racconti sono brevi. Frammenti di ricordi, schegge di vita fugaci che si muovono troppo in fretta perché Bucky riesca ad afferrarle. Spesso è il modo in cui Claude beve (Una volta Steve aveva riso così tanto che gli era uscito il latte dal naso), o come Charlotte cucina (Mia madre mi faceva i pancake, la mattina di ogni gara), o lampi fugaci di colori che gli saettano davanti agli occhi (L’Expo di Stark, i flash della macchina che si alzava in volo, le labbra rosse delle majorette).
Sono informazioni improvvise che gli tornano in mente in un lampo e, alla stessa velocità, se ne vanno.
James stringe i pugni e indurisce la mascella, cercando disperatamente di piegare di nuovo la testa allo stesso angolo di prima per scatenare lo stesso flash. “Stavo… era una cosa…” mormora, il dolore palpabile dalla voce.
Charlotte gli dà le spalle e continua a insaponare i piatti, analizzando di quando in quando le stoviglie alla luce della finestra per essere sicura che escano pulite per bene. Le tende sono aperte per permettere alla luce di entrare ogni qualvolta le nuvole – nuvoloni enormi che preannunciano un temporale con i fiocchi e Lottie non si è mai trovata a supplicare con così tanta intensità che non tuoni – lasciano spazio ai raggi del sole. Il vento, forte come non mai, le lancia da ogni lato del cielo creando giochi di luce grigia e opaca che si trasforma in scoppi di celeste così intensi da fare male agli occhi ogni qualvolta vengono spazzate lontane dal sole. “Tranquillo,” lo rassicura sforzando un tono lieve, “te lo ricorderai.”
Ma non ci crede nemmeno lei.
Troppe, le volte che James inizia a raccontare e si interrompe.
Troppi, i flash che non trovano in tempo la strada per la bocca.
(Un disco rotto, un vinile con crateri dove un tempo c’erano scanalature. Bucky è un disco spezzato e mal rattoppato e lo sanno tutti, ma nessuno ha il coraggio di dirlo.)
Con un rombo che potrebbe preannunciare il diluvio universale, l’ennesima folata di vento spazza via una nuvola grigia come il piombo, e per un istante la cucina viene investita da un fascio di luce brillante come una mattina d’agosto.
James assottiglia gli occhi celesti per abituarli alla luce, e Charlotte si sporge per analizzare controluce un bicchiere, ed è allora, col riverbero del sole che splende su quei ricci così rossi in un gioco di riflessi che spazia dal rame al biondo oro, che qualcosa nella testa di Bucky fa click. Come un ricordo che viene sbloccato.
(Come un muro che viene abbattuto)
“Gli sarebbero piaciuti.” Mormora tra sé e sé. Charlotte fissa avanti a sé senza capire e si gira per osservarlo subito dopo, senza chiedere niente per non interromperlo. “Avevo un amico.” Racconta l’uomo a mezza bocca. “Disegnava. Era bravo. Gli sarebbero piaciuti i tuoi capelli.” Conclude.
Lottie distoglie lo sguardo, perché il sorriso di Bucky è così nostalgico, così legato a doppio filo con quel suo amico da sentirsi di troppo perfino nell’osservarlo di sfuggita. “Come si chiamava?”
“Steve.”
 
***
 
Claude prende il discorso a tradimento un giorno in cui Charlotte è seduta sul divano col portatile in grembo ed è tremendamente impegnata nell’ennesimo schema di Candy Crush.
“Quindi quanti anni ha?” Le chiede con tono lieve.
Charlotte drizza le antenne e si mette in preallarme, ma decide di glissare. “Boh? Trenta? Credi sia davvero importante?”
“Charles.”
Alza lo sguardo dal computer e guarda Claude. E visto che si sente scoperta come non mai, decide di sparare altissimo. “Puoi sempre provare a chiederglielo, eh. Se non ti prende a calci magari ti risponde.” Conclude, mostrandogli la mano  infortunata nella speranza che attacchi.
Ovviamente non attacca. “Charlotte.”
Cosa.”
Claude schiocca la lingua sul palato e, complice lo scroscio dell’acqua che proviene dal bagno, si sente autorizzato a parlare chiaro. “Poco fa mi ha raccontato di quanto il suo amico Steve si è comprato un paio di scarpe ritraendo le signore della casa di riposo di Brooklyn e lui è stato quasi molestato da una signora di ottant’anni.”
“Cosa? Oddio, ma che schifo.” Borbotta, tornando a dedicarsi alle proprie caramelline da far scoppiare.
“Charlotte, stiamo ospitando il migliore amico di Capitan America?”
Non distoglie lo sguardo dallo schermo, ma dalla reazione – come se qualcuno le avesse pizzicato il sedere – è chiaro che Claude abbia fatto centro. “Potremmo.”
Mi stai dicendo che ha novant’anni, Charles?” Sibila il ragazzo con aria sconvolta.
“Potrebbe.”
“E tu non vuoi dargli qualche nozione base su come funzioni la società, Charles? Seriamente?
Charlotte, di nuovo, alza lo sguardo dallo schermo e fissa gli occhi di Claude con l’aria di chi ha attentamente ponderato la questione – cosa che Charlotte non ha fatto, ovviamente. “Oh, andiamo, non è così disadattato.”
Claude sostiene il suo sguardo in silenzio, e quando James riemerge dal bagno pochi istanti dopo Lottie lo invita a sedersi al suo posto sul divano.
 
“Abbiamo un problema.”
“Cosa?”
“Dobbiamo rieducarti come essere umano funzionante nella nostra società odierna.” Dichiara Charlotte, pomposa come non mai.
Bucky la osserva e si stringe nelle spalle. “Credo sia un problema piuttosto grosso.” Conviene con lei dopo una breve pausa di riflessione.
“Inizieremo dalle cose basilari. Un po’ di musica e qualche film. Alla tv ci arriveremo più avanti.”
“Internet?”
Charlotte lo guarda con il più puro raccapriccio dipinto in volto. “Dopo. Tipo- molto dopo.”
“Cos’ha che non va internet?”
Lottie tossicchia e una leggera vampata di rosso le colora le guance. “Le donne nude.”
È Claude a rispondere, ancora intento a controllare sa il cielo cosa sul proprio cellulare. “Il che mi sembra l’opposto di un problema.” Bucky non dice nulla, ma alza la mano e lo indica come a voler sottolineare che quel discorso, ehi, ha perfettamente senso.
“Donne nude che si accoppiano con dei cavalli.” Prosegue Charlotte, lo sguardo fisso sul proprio coinquilino, quasi in cenno di sfida.
Claude si stringe nelle spalle, le dita che si muovono come schegge impazzite sullo schermo. “Continuo a non vedere particolari problemi.”
“Ed è precisamente per questo che hai perso qualsiasi diritto a scegliere cosa vedere quando facciamo serata cinema, Claude.” Sottolinea con tono lieve la ragazza.
“Disse la donna del Centopiedi Umano.”
Charlotte sorride deliziata. “Cagasotto.”
 
 
 
 
 
Note dell’autrice:
Ok, ho scritto tantissimo. Vorrei poter dare la colpa del fatto che non ho più aggiornato alla luna, al fato, a qualsiasi cosa, ma la verità è che l’università è un postaccio che assorbe il mio tempo e la mia voglia di vivere -_-”
Ma! Una buona notizia: i capitoli sono pressoché già scritti, e non sono tanti. Potrei farla molto più lunga, ma mi trovo sempre con questi capitolozzi chilometrici che non so mai dove tagliare e insomma, spero la lettura non risulti troppo pesante.
Se così fosse, fatemelo sapere e proverò a sforbiciare! :D
 
 
*= [Ià ne vernús], “Non tornerò”.
 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3089162