Times They're A-Changin' di Ambaraba (/viewuser.php?uid=219272)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cose che cambiano ***
Capitolo 2: *** A crashing computer programme ***
Capitolo 3: *** Solo quando perdi qualcosa... ***
Capitolo 4: *** Facciamo finta che sia un segreto ***
Capitolo 5: *** Vietato l'uso di fiamme libere ***
Capitolo 6: *** Ordinaria amministrazione ***
Capitolo 7: *** Family Reunion ***
Capitolo 8: *** Colpa ***
Capitolo 9: *** Giochi di prestigio ***
Capitolo 10: *** Assurdoinsolitoassolutamenteadorabile ***
Capitolo 11: *** John... Anzi, Johnny ***
Capitolo 1 *** Cose che cambiano ***
CHASTANTINE
Chas
era l'unica persona a cui John osasse voler bene davvero.
Nonostante
la statura esagerata – due metri netti che obbligavano John a
subire dolori cervicali perenni, dal momento che doveva guardare per
aria tutte le volte che si parlavano, - era una delle persone più
miti che John conoscesse. Non lo aveva mai visto arrabbiarsi – mai
sul serio – e, quelle rare volte in cui avevano discusso, Chas non
aveva mai perso la calma. Le cose che irritavano Chas avevano quasi
sempre a che fare con la coglionaggine di John, e con la tendenza che
questi aveva a mettersi nei guai o farsi del male. Quindi,
in ultima analisi, anche quando Chas alzava la voce lo faceva
soltanto perché era preoccupato per lui. E nessuno aveva mai tenuto
a John Constantine in un modo tanto spericolato.
L'espressione
tipica di Chas era preoccupazione mista a scocciatura, con un lieve
velo di rimprovero per le stramberie in cui John inevitabilmente lo
coinvolgeva; ma nei suoi occhi e nei suoi modi si leggeva anche un
affetto sconfinato e sincero. Era l'unico di cui John si fidasse
ciecamente.
La
bontà di Chas non consisteva soltanto nel farsi uccidere
ripetutamente dagli abomini soprannaturali che a giorni alterni
risorgevano dall'inferno per fare la pelle a John, sebbene già
soltanto questo costituisse una prova indiscutibile della profondità
di ciò che li legava.
Chas
era dalla parte di John anche quando quell'esorcista stronzissimo e
presuntuoso faceva terra bruciata intorno a sé. Non aveva mai fatto
un passo indietro, non lo aveva mai lasciato solo, neanche quando
John glielo aveva chiesto – o urlato contro, o tentato di indurlo a
farlo.
E John
sapeva benissimo di quanto, almeno per questo, fosse fortunato.
Chas
era la cosa più simile a una famiglia che avesse mai avuto. Se
“famiglia” significava sostegno, calore e fiducia assoluta,
allora Chas era la sua famiglia. Senza quel gigante taciturno, che
molto spesso si esprimeva a monosillabi quando non addirittura a
grugniti, la sua vita sarebbe stata uno schifo.
Avrebbe
voluto dirglielo. Avrebbe voluto dirgli che gli voleva bene più che
ad ogni altro, che si sentiva attratto da lui nonostante fosse goffo
e ingombrante e le maniche delle camicie gli andassero sempre troppo
corte, costringendolo a rigirarle fino ai gomiti. Avrebbe voluto
dirgli che senza di lui la sua vita sarebbe stata un orrore, che
sarebbe stata breve e priva di colore; avrebbe voluto ringraziarlo
perché Chas c'era sempre, coi suoi modi grezzi ma pieni di premure,
attenzioni vere e sincere per lui che invece era un coglione e
trattava tutti male e non meritava niente.
Avrebbe
voluto dirgli un sacco di cose, ma forse il silenzio era la scelta
migliore.
Negli
ultimi tempi, le manifestazioni d'affetto di John nei confronti di
Chas erano aumentate – non faceva che mettergli le mani addosso,
non appena ne aveva l'occasione, - ma qualcosa gli impediva di
spingersi oltre un bacetto ogni tanto. L'ultimo in ordine di tempo
glielo aveva dato come si deve, ma erano tutti e due mezzi ubriachi e
non sapeva neanche se Chas se lo ricordasse, perché non ne avevano
più parlato.
Ricordava
il sapore dello scotch e l'odore di Chas, tutto barba ruvida che
pizzicava sulla pelle. John, ubriaco fino al midollo, era stato
lucido abbastanza da attendere pazientemente che l'altro si sedesse,
per poterlo fare, perché altrimenti avrebbe dovuto prendere una
corda e scalarlo – e, considerato lo stordimento generale che lo
annebbiava, avrebbe rischiato come minimo di cadere nel tentativo,
procurandosi un trauma cranico. Era stato un bel bacio: per metà
consapevole e per metà no, un bel bacio morbido e senza spigoli, un
bacio senza confini netti, un bacio che riscaldava.
John
avrebbe davvero voluto di più, a volte, ma non ce la faceva.
Chas
era l'unica persona a cui non avrebbe mai voluto fare del male, e non
poteva rischiare la loro amicizia. L'unico dato incoraggiante,
tuttavia, era che Chas non si era mai rifiutato: e questo era già
qualcosa. Tutti i baci che John gli aveva dato, sobrio oppure no,
Chas li aveva accettati di buon grado - ricambiando, anche, con una
certa spontaneità. Cosa diavolo erano, a quel punto? Amici
particolarmente affettuosi?
Non
lo sapeva più neanche lui. Di sicuro, almeno dal suo
punto di vista, le cose erano cambiate. Forse erano cambiate già
vent'anni prima, quando si erano conosciuti – John ricordava
benissimo l'improvviso senso di abbandono e solitudine che lo avevano
indotto a sbronzarsi, all'indomani della notizia che Chas stava per
sposarsi, e inizialmente non ci aveva dato molto peso. Ma presto
aveva dovuto ammettere che era gelosia, e questo comunque non lo
aveva fatto stare meglio. John era stato, indirettamente, anche la
causa del fallimento di quel matrimonio. Perché Chas sembrava
essersene pentito, in un certo senso, e passava più tempo con John
che con la propria moglie. Dopo i primi tempi, le cose tra loro erano
tornate come prima: erano di nuovo loro due, soli, a ricacciare
indietro le schifezze che l'inferno aveva rigurgitato fuori.
John
era stato egoisticamente sollevato nel riavere di nuovo Chas con sé.
Non avrebbe mai saputo cosa fare della propria vita, senza di lui. La
verità era che John non era capace neanche di badare a sé stesso, e
– fra le altre cose, - Chas si preoccupava anche che non morisse di
stenti o per la privazione del sonno o per qualche iniziativa
irresponsabile - tipica, per uno con un carattere merdoso e
incostante come il suo.
Era
Chas che gli toglieva la bottiglia di mano quando stava esagerando;
era Chas che gli lavava via il sangue di dosso dopo una notte di
esorcismi; era Chas che lo prendeva di peso e lo obbligava a sedersi
a tavola e lo minacciava con le posate per obbligarlo a mangiare
quando non ne aveva voglia. Ed era ancora Chas che gli nascondeva le
sigarette per non fargli sputare i polmoni, era Chas che lo portava
in braccio a letto quando qualche demone lo riduceva talmente male da
non riuscire a camminare, era Chas che gli restava vicino per farlo
dormire ed era ancora Chas che sopportava tutti i suoi sbalzi d'umore
e i suoi capricci e gli faceva letteralmente da scudo tutte le volte
che qualcuno attentava alla sua vita. Era molto più di quello che
avrebbe fatto un amico, John se ne rendeva conto, ma ora la domanda
era un'altra. La lancetta interna di Chas era orientata molto più in
là della tacca dell'amicizia, ma quanto era vicina a quella di...
Be', qualcosa di più?
Avrebbe
voluto saperlo. Cristo, quanto avrebbe voluto saperlo.
Per
Chas, occuparsi di John era la cosa più naturale del mondo.
C'erano
almeno un milione di motivi per cui avrebbe fatto meglio a tenersi
lontano da uno come lui: ma ognuno di questi motivi perdeva
importanza, di fronte alle poche ma spiccate qualità che gli avevano
fatto scegliere di restare al fianco di John.
John
era una mina vagante. Era volubile, capriccioso, infantile, a volte;
ma era anche intelligente e acuto e aveva una visione della realtà
lucida e obiettiva, nonostante a volte fosse lui stesso il primo a
dimenticarsene e mettere in dubbio le proprie capacità. Era un misto
irresistibile di genialità e bisogni insoddisfatti, in una misura
tale da far leva sull'istinto protettivo di Chas senza neanche
rendersene conto.
L'ammirazione
che Chas provava per John – per il modo in cui conduceva
un'esistenza al limite della schizofrenia, circondato da creature di
cui le altre persone non sospettavano minimamente la presenza, e per
lo spirito irriverente e sfrontato con cui la affrontava – era
compensata da un senso di tenerezza verso tutte quelle cose che John
invece non riusciva a gestire. Poteva portare a termine cinque
esorcismi in una notte ma, quando si trattava di faccende della vita
quotidiana, normale, John
era completamente perso.
La sua vita era sempre stata un
casino, fin dai primi anni, ed era cresciuto solo e confuso ed
essenzialmente abbandonato a sé stesso. Chas aveva raccolto le sue
confidenze in centinaia di sere, centinaia di bicchieri, centinaia di
chiacchierate a bassa voce, con le mani tremanti e gli occhi
arrossati.
Per quanto John si sforzasse di apparire stronzo –
riuscendoci quasi sempre, - Chas lo conosceva abbastanza da non farsi
ingannare, e gli piaceva sempre di più. Sapeva che John aveva
cominciato a farsi coinvolgere in tutto quel macello esoterico per
soddisfare il desiderio di poter parlare con la madre, che non aveva
mai conosciuto – e per la morte della quale, forse, si sentiva
responsabile, complici anche le continue vessazioni del padre
bastardo, - e lo trovava nobile. Perché era esattamente così che
vedeva John, dietro le battute acide e il fumo spesso di Silk Cut e
l'impermeabile che aveva sempre: nobile.
Tenerlo in vita – salvandolo da
sé stesso, - era la sua priorità. Chas era sempre al suo fianco,
sempre, non importava quanto la situazione in cui si trovavano fosse
brutta o spaventosa. John aveva la precedenza su tutto, anche sulla
paura. Chas era diventato una persona coraggiosa appositamente per
proteggerlo. Proteggerlo dai demoni, proteggerlo dal male che veniva
dall'esterno. E proteggerlo dal dolore, dal male che veniva da
dentro, quel dolore di cui John non parlava mai ma che c'era, come un
fastidioso fischio ad infrasuoni inciso su una bella canzone.
Chas vedeva John esattamente per
quello che era. Forte e fragile, determinato ma allo stesso tempo
insicuro. Non aveva la minima idea di cosa desiderare dalla vita,
eppure la affrontava con una temerarietà esemplare.
E Chas voleva esserci. Nel bene e nel male, voleva stare al suo fianco.
Era una delle poche certezze della sua vita. Una di queste era che,
tutte le volte che sarebbe morto, avrebbe riaperto gli occhi soltanto
per tornare da lui. Perché
John era l'unica persona che tenesse veramente a lui.
John
lo aveva reso parzialmente immortale solo perché aveva paura che si
schiantasse contro un albero guidando ubriaco. John, John il cinico,
si era preoccupato di farlo uscire da quel locale con almeno un mezzo
centinaio di vite di riserva. John il cinico non era così cinico
come voleva far credere.
Chas sapeva di voler bene a John
in un modo vagamente morboso. Avrebbero dovuto esserci dei confini,
dei paletti da non superare, ma sapeva benissimo di averli abbattuti
da tempo.
NOTE:
Questa ff nasce dopo
aver cominciato a vedere l'adattamento della NBC di Constantine –
che, notizia dell'ultimo minuto, forse non è del tutto spacciato e
quindi potremo avere una seconda stagione ^^ - ed essere caduta
inevitabilmente nel baratro della bromance tra lui e Chas :3 Li trovo
piuttosto atipici e buffi, come pairing, ma proprio per questo anche
adorabili :)
Ho notato con
disappunto che qui la serie non è
molto seguita (non ha neanche una sezione), ma volevo lo stesso
condividere con voi questa storia - che sto buttando giù più come
sfogo tra una simulazione d'esame e l'altra che per puro interesse
narrativo >.<
A breve arriverà il
prossimo capitolo!
In attesa di
pareri/commenti/critiche,
la vostra Ambarabà
^^
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** A crashing computer programme ***
chastantine 2
Quando finalmente spezzarono i
limiti, non fu una sorpresa per nessuno dei due.
John aveva le mani che tremavano
e la camicia inzuppata di sangue di demone. Era stanco, esaurito. Si
sentiva le gambe deboli, perciò non provò nemmeno ad alzarsi. Restò
seduto sull'erba accanto a Chas, vegliandolo, in attesa che le sue
ferite si rimarginassero e che tornasse in vita. Si era fatto
uccidere, di nuovo, per salvarlo, per dargli il tempo di portare a
termine l'incantesimo. Una volta abbattuto il demone, John aveva
preso Chas e l'aveva trascinato di peso in un angolo più riparato –
non senza qualche difficoltà, - si era tolto l'impermeabile e lo
aveva appallottolato per farne un cuscino, gliel'aveva sistemato con
cura sotto la testa ignorando la fitta che lo tormentava da qualche
parte nel petto. Quella era la parte che odiava. Sapeva che prima o
poi le vite a disposizione di Chas si sarebbero esaurite, e temeva
quel momento con ogni cellula del proprio essere. Odiava vederlo
morire tutte le volte, la sensazione di perdita che lo prendeva
mentre gli sedeva accanto, in attesa. Avrebbe dovuto convincerlo a
tirarsi fuori da quella situazione, prima o poi. Una volta o l'altra,
sarebbe arrivato il momento in cui Chas non avrebbe più potuto
permettersi di rischiare la vita senza sapere se sarebbe tornato
oppure no... E John non voleva spingersi oltre il limite. Avrebbe
dovuto lasciarlo andare, avrebbe dovuto impedirgli di venire con lui,
di farsi coinvolgere. Avrebbe dovuto fare a meno di lui, e impedirgli
di morire – per l'ultimissima volta - per salvare il culo di un
esorcista ingrato. Non era questo che John voleva per lui.
Era l'ultima persona che avrebbe
voluto avere sulla coscienza.
Lo guardò. Teneva ancora gli
occhi aperti fissi verso il cielo. I primi tempi era inquietante: in
quel momento, era solo normale routine.
John cercò a tastoni un
pacchetto di Silk Cut nella tasca posteriore dei pantaloni, lo trovò,
ma poi lasciò stare. Nelle condizioni in cui era, sarebbe morto
soffocato, se si fosse acceso una sigaretta. Si avvicinò di più a
Chas. Ancora nessun movimento. Era ancora andato.
«Svegliati,» sussurrò,
accarezzandogli i capelli. Gli sollevò un lembo della camicia per
controllare la ferita che, fino a pochi minuti prima, si apriva al di
sotto, sul fianco. Era del tutto chiusa, e ne restava soltanto una
cicatrice rosea e lucida. Stava guarendo. John lasciò andare un
sospiro di sollievo, anche se tremava ancora leggermente. Desiderava
con tutta l'anima che quello spilungone si svegliasse. Perché aveva
preso una decisione. Non voleva sprecare più neanche un minuto del
tempo che condividevano. E doveva fare quel passo, dimostrare
coraggio e prendersi anche i rischi.
Aveva bisogno di Chas, un bisogno
devastante. Aveva bisogno dei suoi modi rassicuranti, della sua
lealtà, della sua presenza. L'unica sicurezza cui aggrapparsi in un
mondo caotico.
John era impaziente e teso,
voleva solo che riaprisse gli occhi al più presto per poterlo
stritolare in un abbraccio e dirgli quello che doveva dirgli.
Un rumore soffocato annunciò che
il suo desiderio era stato realizzato. Chas annaspò, cercando di
riprendere a respirare, sbattendo le palpebre mentre rimetteva a
fuoco gli oggetti. Ogni volta che tornava in vita era un piccolo
trauma, il cuore batteva come un martello pneumatico e si sentiva
profondamente disorientato. La prima cosa che distinse chiaramente fu
John; lo sentì stringerlo forte, più del necessario, mormorando
parole che il suo udito ancora non riusciva ad afferrare.
«Stupido,» disse John,
abbracciandolo più forte che poteva. Il sollievo gli scorreva dentro
come sciolto nelle vene, unito alla profonda tenerezza che provava
per Chas e che lo portò a ricoprirlo di baci in un modo insolito,
che risultava strano eppure allo stesso tempo normalissimo per
entrambi.
Appena fu tornato pienamente in sé,
Chas gli posò le mani attorno alla vita e lo allontanò leggermente.
«John? Stai bene?»
Era resuscitato da meno di un
minuto, eppure la sua preoccupazione era già tutta per John, così
nervoso ed eccezionalmente espansivo; così disperato, anche, con
l'aria allucinata e un tremore insistente sottopelle.
Chas lo tirò verso di sé,
posandogli una mano sulla guancia per obbligarlo a guardarlo in
faccia. John era pallido e provato, e questo non andava affatto bene.
Avrebbe dovuto portarlo subito a casa e costringerlo a riposare, e--
Non pensò più nulla, nel
momento in cui John gli mise le braccia attorno alle spalle e si
chinò a baciarlo. Non fu uno shock: non era la prima volta che
succedeva. Ma quasi sempre, era successo quando non erano in grado di
controllarsi. Non così, perfettamente svegli e padroni di sé
stessi. La prima reazione di Chas fu prenderlo di peso e sistemarselo
il più vicino possibile. Non gli era passato per la testa neanche
per un attimo di allontanarlo, e non si chiese perché. Sentiva le
mani di John sulle guance, ed era una bella sensazione. Sarebbe morto
anche altre trecento volte di seguito, se poi ad ogni risveglio
avesse potuto avere questo.
John lo baciò a lungo, con calma,
senza fretta. Lo aveva voluto così tanto che, ora che poteva farlo,
non ne aveva mai abbastanza. Si prese tutto il tempo che gli serviva.
I primi secondi furono tesi, perché non sapeva come Chas avrebbe
reagito, una volta ripresosi dalla sorpresa. Ma quando si accorse che
non gli dispiaceva, anzi, che lo aveva stretto a sé e aveva
ricambiato, l'ansia svanì e John provò soltanto piacere nel fare
quello che stava facendo.
Sembrò passare un tempo infinito,
prima che si staccassero. Chas continuò a tenere le braccia attorno
alla vita di John, che non smetteva di accarezzarlo.
Gli rivolse uno sguardo dubbioso.
«John-- Non sei...?». Si
interruppe a metà, riconoscendo che la domanda che stava per
porgergli era stupida – se John fosse stato posseduto, si sarebbe
comportato in ben altro modo, - ma era così stordito dagli
avvenimenti degli ultimi minuti che pensare gli riusciva difficile.
«Sono
io,» rispose John, sbrigativo, con un sorriso stanco appena
accennato, eppure pieno di calore. «Felice di vedere che stai bene.»
Chas
aggottò le sopracciglia. Sentiva ancora un formicolio diffuso, -
come tutte le volte che ritornava,
- ma era sopportabile. Si
sentiva soltanto confuso, ma quello non aveva a che fare con la
recente resurrezione. Aveva a che fare con John, con quel bacio
stranissimo che in quel momento, se Chas non avesse avuto le mani
ancora saldamente strette all'esorcista, avrebbe potuto giurare di
essersi sognato ad occhi aperti. Ma era vero, era successo veramente,
e, ora che lo stava realizzando, non sapeva cosa fare.
Lo
lasciò andare all'improvviso, staccandosi da lui con un milione di
pensieri che gli si sovrapponevano nella testa.
«Chas--»
Guardandolo
in faccia, John si pentì di ciò che aveva fatto. Chas era
impallidito di colpo, e sembrava essere andato nel panico. Non lo
aveva mai visto così.
John
lo afferrò per un lembo del giubbotto, impedendogli di alzarsi.
«Chas,»
ripeté. E poi, con una sfumatura di incertezza: «... Chas?».
Avrebbe voluto prendersi a martellate sulle dita, se questo gli
avesse consentito di tornare indietro e trattenersi, invece di
assalirlo così. Ma forse non doveva tornare indietro, forse doveva
solo insistere. Per la miseria, non si era affatto tirato indietro,
quando lo aveva baciato! Non doveva permettergli di farsi domande,
non doveva lasciargliene tempo. Perciò, lo strattonò con più
decisione e lo baciò di nuovo, giusto per mettere le cose in chiaro.
Lo sentì trasalire di sorpresa, percepì il suo battito accelerato
sotto le dita mentre gli sfiorava il collo; ma, quando ebbe insistito
abbastanza a lungo, sentì la mano di Chas salirgli dietro la nuca, e
capì che l'attimo di smarrimento era passato.
Il
secondo bacio che si scambiarono fu, se possibile, anche migliore del
precedente. John sentì le mani grandi di Chas addosso, e si stupì
di quanto sapesse essere delicato. Era un bel contrasto, qualcosa che
lo aveva sempre riempito di curiosità e attrazione. Chas aveva il
passo leggero e silenzioso, una discrezione e una dolcezza d'animo e
di modi che stonavano con la sua taglia. Quel suo modo di preparare
la colazione, la mattina, riuscendo a non produrre il minimo rumore,
per non svegliarlo; o la levità con cui riusciva a posare una
coperta sulle spalle di John quando si addormentava sul divano:
quella
era la vera magia.
E
John sapeva di esserne dipendente.
Aveva
bisogno di quella leggerezza, nella sua vita. Perché era l'unica
cosa che riusciva a renderlo sereno, renderlo felice.
Chas
si era sentito mancare la terra sotto i piedi, quando si era reso
conto del salto che avevano compiuto – o meglio, che
John aveva deciso di compiere,
- e per un attimo aveva fatto tilt. Non sapeva se restare dov'era o
scappare via, se restare in silenzio o balbettare qualcosa. Era da
quando aveva dieci fottuti anni che non si sentiva così:
imbarazzato, incerto, con le mani che tremavano e il cuore in gola.
Probabilmente era anche arrossito – sperava che John non se ne
fosse accorto-, e si augurò che la barba avesse nascosto
sufficientemente quel suo eccesso di emotività. Lo desiderava da
così tanto che, nel momento in cui il bacio aveva trovato
compimento, si era sentito-- Scombussolato?
Qualsiasi parola sarebbe
stata un eufemismo. Era stato come se il mondo si fosse ribaltato
all'improvviso; come se, per un attimo, non avesse più avuto terra
su cui poggiare, più nulla a cui aggrapparsi: e si era spaventato,
semplicemente.
Ma
poi c'era stato di nuovo John, che aveva preso in mano la situazione
e lo aveva costretto ad affrontarla, John che non gli avrebbe mai
permesso di scappare via; e Chas non avrebbe mai avuto parole adatte
per dirgli quanto gli era grato per aver deciso al posto suo, per
averlo messo di fronte all'evidenza, cancellando tutte le paure.
Poteva
davvero esserci qualcosa di semplice, per una volta. John lo voleva e
lui voleva John.
Si
calmò, si lasciò andare; passò le dita tra i capelli di John per
sentirlo più vicino, per fargli capire che aveva scelto, che poteva
farlo.
Da
quanto tempo voleva farlo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Solo quando perdi qualcosa... ***
chastantine 3
John ricordava il momento in cui
aveva temuto di aver perso l'ultima cosa decente che gli era rimasta
con una lucidità feroce, assassina.
Erano
trascorse tre settimane dal matrimonio di Chas, quasi un mese intero.
John si era reso conto
gradualmente di quanto ormai non gli restasse più nulla. Non aveva
più nessuno. Non aveva una famiglia – non ce l'aveva mai avuta, -
e quel che restava dei suoi amici, se tali si potevano chiamare i
drogatelli ingenui con cui aveva condiviso rituali e droghe pesanti
negli anni dello sbaraglio, o erano morti o si auguravano la sua
morte. E, per quanto fosse abile nel riempirsi il letto con una
sgualdrinella diversa ogni sera, c'erano altri vuoti che non riusciva
a riempire, altre mancanze a cui non riusciva a sopperire.
Chas
era la persona con cui aveva il rapporto più stretto. Con lui non
aveva mai dovuto fingersi diverso, o migliore di quello che era. Con
lui poteva essere sé stesso,
e non avrebbe mai dovuto temere di essere allontanato o giudicato,
perché a Chas andava bene
così. Non ricordava di essersi mai sentito così con nessuno, prima
di conoscerlo; e anche dopo, il clima di familiarità che c'era tra
loro non aveva mai subito scalfiture, anzi: col tempo era solo
migliorato, era diventato più caldo e solido.
Finché
poi non era arrivata Renée,
e Chas aveva deciso che era il momento di mettere la testa a
posto.
Cazzate.
John Constantine non era mai stato un sostenitore del matrimonio,
anzi: era felicissimo di boicottarlo. Non capiva perché
mai due esseri umani avessero bisogno di stipulare contratti e liste
di doveri, uccidendo sul nascere la spontaneità di un sentimento –
sempre ammesso che ce ne fosse uno – che aveva bisogno di ben altro
per sopravvivere. Non servivano anelli, non servivano grandi promesse
davanti a un prete e, soprattutto, non c'era alcun bisogno che quelle
due scellerate persone, che avevano deciso di assecondare la
scellerata usanza dello scellerato matrimonio, si stravolgessero la
vita a vicenda.
Da un giorno all'altro, Chas se
n'era andato. Perché
"è normale che due che si
sposano vivano insieme, John," e tutt'intorno si era fatto il
vuoto.
Senza
contare che John detestava con ogni fibra del proprio essere quella
stronza antipatica di Renée,
e la cosa era reciproca. Lei non lo sopportava, e non si curava
affatto di nasconderlo. Quelle rare volte che erano stati costretti a
condividere lo stesso spazio vitale, John si era trattenuto dal
prenderla a schiaffi solo perché
c'era Chas.
Chas,
Chas, Chas.
Sapeva che c'era rimasto male,
quando aveva cortesemente declinato il suo invito alla cerimonia.
No, davvero, non sono fatto per questo genere di cose, ma divertiti
anche senza di me, eh?. Ma davvero, davvero, era l'ultima cosa al
mondo a cui avrebbe voluto assistere.
Il
primo giorno che aveva trascorso senza di lui era stata pura agonia.
Si
era ubriacato, si era addormentato, si era svegliato a testa in giù
ai piedi delle scale – come diavolo c'era arrivato? - e si era
ubriacato di nuovo, perché
si era reso conto con orrore che il tempo non voleva saperne di
passare e non voleva restare lì, a fissare le lancette che si
spostavano con una lentezza snervante, fino a perdere la ragione. Non
aveva avuto ancora il coraggio di dirlo ad alta voce, ma aveva capito
benissimo cos'era, quel groppo in gola che gli rendeva difficoltoso
anche ustionarsi l'esofago a forza di ingoiare whisky: era la
sensazione di aver perso tutto.
Di
essere arrivato troppo tardi.
Rideva di sé
stesso. Cosa mai avrebbe potuto fare, comunque? Dirgli: non mi va
che ti sposi, quella squinzia mi sta insopportabilmente sul cazzo,
oppure andare più sul soft, cercare di far leva sul suo istinto
protettivo, dirgli qualcosa tipo non voglio che te ne vai, perché
poi resterò solo, e non saprò più cosa farne di me stesso. Che
poi, era la verità. Da quando Chas se n'era andato, John non aveva
fatto molto, a parte trascinarsi in giro per casa ubriaco fradicio e
tentare sciatti e stupidi incantesimi da prestigiatore di periferia,
sotto effetto dell'alcol.
Era
andato avanti così per un tempo che gli era sembrato infinito.
Alienante.
Logorante.
Si sentiva di merda. Sapeva che
non era il tipo di sentimento che avrebbe dovuto provare per un
amico; ma, ora che era solo e poteva guardare in faccia la verità
senza doversi preoccupare delle conseguenze, aveva finalmente trovato
la consapevolezza di quello che realmente provava. Era da molto,
molto tempo che aveva cominciato a voler bene a Chas molto più che
ad un amico. Lo sapeva, se ne rendeva conto benissimo. Non lo aveva
taciuto a sé
stesso per pudore, o per stupidi e insensati dissidi con la propria
identità sessuale – era bisessuale dichiarato e, francamente, era
orgoglioso di giocare per entrambe le squadre, - ma, piuttosto,
perché una
parte di lui, quella più razionale e concreta, sapeva che per una
cosa del genere non avrebbe mai avuto futuro. E un rifiuto da parte
della persona più importante della sua vita era esattamente l'unico
rifiuto che non avrebbe mai voluto ricevere.
Perciò
aveva taciuto. Prima, durante e dopo.
E quando Chas telefonava, ciao
come stai, e John schiacciava la sigaretta, bruciata fino al
filtro, sul bordo annerito del tavolo prima di rispondere, gli
uscivano frasi del tipo: tutto bene, no, non mi annoio, ho un
sacco da fare, sì, sì, mangio, non ti preoccuapare, adesso devo
andare, eh? Ciao ciao, ci sentiamo presto. E si sentiva un idiota,
ma non riusciva a vedere nessuna alternativa.
Continuava
ad esserci troppo silenzio in quella casa, soprattutto la sera. E
tutte le bottiglie che comprava condividevano il pessimo difetto di
svuotarsi troppo velocemente.
Verso
la fine della terza settimana decise che aveva sofferto abbastanza.
Se avesse continuato così, avrebbe dovuto comprare una borsa a
tracolla e usarla per portare in giro il fegato, dal momento che il
suo stile di vita consisteva nell'ingerire derivati dell'alcol
etilico, tamponando i crampi allo stomaco con sostanze commestibili
solide scarse e sbagliate, e dormire solo durante la sbornia.
Ad ogni modo, non era solo con
questo che doveva fare i conti. Non voleva più sentirsi così a
pezzi, così... Mutilato. Doveva dimostrare a sé
stesso di essere perfettamente in grado di controllarsi. Di essere
una fottuta persona adulta, per la miseria! Perciò si era sbarbato e
profumato ed era uscito di casa, con la decisa intenzione di mettere
a tacere, una volta per tutte, quella stretta nel petto che
minacciava di farlo a pezzi.
Doveva
farlo. Doveva andare a trovarlo, rendersi conto di come stavano
adesso le cose, e farsene una ragione. Doveva vederlo con i propri
occhi per mettersi in testa, finalmente, che nulla sarebbe mai più
stato come prima e non c'era nulla che potesse fare per impedirlo.
Avrebbe bussato. Sarebbe stato
gentile e cortese da essere adorabile. Si sarebbe comportato come una
persona normale, - come un semplice amico, - e avrebbe
sorriso, avrebbe detto a Chas che era felice per lui e poi se ne
sarebbe andato. Andato, magari sul serio. Forse era ora di
ricominciare altrove. Forse, se non lo avesse visto per un bel po' di
tempo...
Non
aveva tempo di pensarci su, doveva farlo e basta.
Prima
che venisse a mancargli il coraggio.
Prese
un pacchetto di dolcetti alla pasticceria all'angolo dove spesso lui
e Chas si fermavano a fare colazione di ritorno da una missione. Era
aperto a tutte le ore, ed era tutto molto buono. Eppure, già
soltanto entrandoci, e ricordando tutte le notti che avevano
trascorso seduti a quei tavoli, e le albe che avevano visto sorgere
da quelle finestre, John sentì la fitta farsi più insistente, e il
suo proposito di comportarsi da persona matura e ragionevole cominciò
a vacillare.
Pagò,
stringendosì nell'impermeabile, e uscì in strada.
Era
un settembre insolitamente freddo, più del solito, e il clima di
merda non gli rendeva le cose più facili. Stava calando la sera,
lentamente; nel giro di qualche settimana, l'inverno avrebbe
cominciato a divorare le ore di luce fino a non lasciarne più
neanche le briciole.
Tre
fermate di autobus, due di metro. Le affrontò con pazienza, con il
pacchetto tra le mani, sulle ginocchia, ripetendosi che era la cosa
giusta, che doveva chiudere con questa pagina della propria vita e
rendersi conto che innamorarsi del migliore amico era roba da
adolescenti, e lui non aveva più l'età per robe del genere – e
neanche Chas.
Non
conosceva bene la zona, e si perse un paio di volte. Riuscì ad
imboccare la strada giusta nel momento in cui i lampioni si
accendevano tutti insieme, come a volergli indicare la via, e
rallentò il passo. Più si avvicinava, più il tremore interno che
lo scuoteva si faceva più forte, e dovette fermarsi un paio di volte
per riuscire a recuperare un minimo di compostezza.
Maturo e ragionevole, pensò. E
mentre si ripeteva mentalmente queste due parole, si rese conto di
essere arrivato.
A una decina di metri dal
marciapiedi, c'era la porta a cui avrebbe dovuto bussare. Guardò
l'orologio. Forse non era il caso, a quell'ora avrebbe disturbato di
sicuro... Ma d'altronde aveva anche un pensierino tra le mani; si
faceva così, no? Non che fosse così esperto di etichetta, raramente
faceva visita a qualcuno – perché
non aveva nessuno a cui far visita, fu il pensiero doloroso, - ma
non avrebbero dovuto esserci problemi... Giusto?
Esitò. Così impalato, in mezzo
alla strada, prima o poi avrebbe attirato l'attenzione. Doveva fare
qualcosa. Restare o andarsene, non importava, ma fare qualcosa.
Guardò il pacchetto che aveva tra le mani – il fiocco era
fatto male, dannazione, – poi si guardò attorno, cercò con lo
sguardo il numero civico per essere sicuro al cento per cento di
essere di fronte alla casa giusta – a chi vuoi che importi di
uno stupido fiocco? - e, infine, alzò lo sguardo.
E
sentì il cuore stringersi all'improvviso e diventare piccolo, nero e
sporco come un misero sassolino.
Sembrava
che stessero apparecchiando per la cena. Non si erano accorti di lui
e, a giudicare dall'atmosfera animata che c'era tra loro, sembravano
troppo presi l'uno dall'altro per accorgersi di qualsiasi cosa –
non avrebbero guardato fuori neanche se avessero avuto un elefante
parcheggiato sul prato.
Le
dita di John si strinsero, la carta del pacchetto crepitò.
Stupido coglione autolesionista.
Erano
felici. Erano felici, e lui non era nessuno. Non aveva nessun diritto
di essere lì. Non aveva nessuno diritto di bussare a quella porta.
Guardò
Chas. Sembrava felice, davvero. John sentì gli occhi bruciare e il
nodo in gola stringersi e pensò che tutto quello che aveva sentito
dire sull'amore era soltanto un mare di cazzate.
Se
ami qualcuno, lo lascerai andare eccetera eccetera. Tutte
stronzate. Non ce la faceva. Lo amava e, proprio per questo, lo
voleva con sé.
Non
aveva senso, quella frase fatta del cazzo. Lasciar andare qualcuno
che si ama, se lo si ama davvero, è un controsenso, una violenza
contro sé stessi. Avrebbe dovuto essere felice per lui, e lo era.
Ma, più di ogni altra cosa, avrebbe voluto essere felice con lui.
Perché era umano, e delle frasi fatte buoniste del cazzo non sapeva
che farsene.
L'unica
verità tangibile e incontrovertibile era che John stava male,
malissimo, senza di lui. Misero e vuoto e senza dimensioni,
schiacciato e inutile. E non gliene fregava un accidente di fare
gesti nobili, di lasciarlo andare
perché farsi da parte è un atto d'amore
e stronzate simili; non gliene importava nulla, perché tutto quello
che aveva era soltanto un grande dolore, e non desiderava altro che
Chas. Lo rivoleva, anche se non era la cosa giusta; lo rivoleva,
perché quel fottuto dolore, quel grumo nero di angoscia, vuoto e
solitudine che gli si addensava nel petto, doveva essere curato
urgentemente. Era qualcosa di vero, vivo e presente, e non una frase
fatta inventata da qualcuno che probabilmente non aveva mai amato in
vita sua.
Non
sono un santo, cazzo. Sono un essere umano.
Non
voleva essere il ritratto della virtù. Non si sentiva in colpa per
quello che desiderava, anche se era un atteggiamento egoista e forse
anche un po' puerile. Ma almeno era onesto con sé stesso, per quello
che poteva valere.
E
non poteva farci niente, se senza Chas si sentiva spezzato. Non
poteva farci niente, se tutto quello che lo attendeva era un futuro
di solitudine e di vuoto.
Non
poteva farci niente, se tutto intorno a lui ormai c'era solo terra
bruciata.
La
pioggerellina che aveva ricominciato a cadere lo riportò alla
realtà.
Per
quanto tempo era rimasto là, in piedi sul marciapiedi come l'idiota
che era? Non ne aveva idea. Così come non aveva idea di quando
avesse cominciato a piangere.
Oh,
Cristo! Mi sto proprio rincoglionendo.
Si
sentì la creatura più stupida e patetica del pianeta. Cosa pensava
di fare?
Aveva
le mani gelate. Tra le dita, contratte e illividite, il pacchetto era
ridotto ormai come un fiore avvizzito. Dalla finestra dell'abitazione
non arrivava più alcuna immagine – dovevano essersi spostati in
un'altra stanza, - ed era meglio così.
Se
prima aveva esitato nel decidere se bussare oppure no, ora non aveva
più dubbi.
Non sarebbe dovuto essere lì. Non avrebbe mai dovuto neanche
pensare di essere lì.
Quello non era il suo posto, e non lo sarebbe mai stato. Stonava con
quell'immagine di calore familiare come una bestemmia in chiesa, e
non aveva nessun diritto di imporre agli altri la propria presenza e
rovinare tutto.
Si
ritrovò a fissarsi la punta delle scarpe, a disagio, mentre la vista
gli si appannava. La pioggia si fece più fitta.
Pensava
che tra loro due le cose non sarebbero mai cambiate. Che Chas non si
sarebbe mai dimenticato di lui. Ma ora? Ora che sembrava così
felice, ora che aveva altro da fare, quanto poco ci avrebbe messo a
capire che viveva molto meglio senza avere John Constantine e i suoi
maledetti demoni tra i piedi..?
...Quanto
tempo sarebbe passato, prima che cominciasse a dimenticarlo?
Qualcosa
si era completamente demolito, dentro di lui. Come dopo un
bombardamento, o un terremoto. Si sentiva informe e disperato come un
cumulo di macerie, e non c'era nulla che potesse fare per poter
rimediare.
Stava
piovendo forte, ormai. Non si mosse.
Percepì
addosso il peso del cielo enorme sopra di lui, schiacciante e
cattivo; e si sentì perso in una città che era diventata troppo
grande e spaventosa, ora che non aveva più nessuno da cui tornare.
Lasciò che il cuore gli si accartocciasse, in silenzio. Sentì le
prime lacrime varcare il confine delle ciglia e ricadere sulle
guance, e desiderò prendersi a schiaffi da solo per la vergogna.
In
un giorno qualunque, non si sarebbe mai abbassato a piagnucolare come
una ragazzina: non era così che reagiva John Constantine, colui che
prende a calci nelle palle i demoni di tutte le latitudini. Ma quello
non era un giorno qualunque. Era il giorno più triste della sua
vita.
Non
c'era più nessuno al suo fianco, e mai più ci sarebbe stato.
Ora
era solo, solo davvero.
Quando tornarono al mulino,
trovarono Zed accoccolata sul divano, con l'album da disegno aperto
sulle ginocchia e almeno una decina di fogli sparsi attorno, sul
pavimento, sparpagliati come una nevicata di immagini.
Lo sguardo della ragazza si spostò
immediatamente sul sangue che inzuppava gli abiti dei due, ma John le
rivolse un'occhiata disinvolta e scrollò le spalle, in un gesto che
significava tutto e niente, battendola sul tempo e impedendole di
fare commenti.
«Normale
amministrazione, love.»
E
subito andò a versarsi un bicchiere di quei suoi alcolici
spaccabudella che mandava giù come se fossero acqua fresca. Sembrava
insolitamente allegro, però, una strana gioia mescolata al consueto
atteggiamento da spaccone alcolizzato.
Zed lo osservò per
qualche istante, incuriosita; poi cercò silenziosamente spiegazioni
da parte di Chas, guardandolo con aria interrogativa. Si sorprese non
poco quando, invece di ricambiare la sua perplessità, l'altro
arrossì e distolse lo sguardo.
Decisamente,
stava succedendo qualcosa tra quei due.
Li
lasciò stare e non disse niente, quando sparirono al piano superiore
per cambiarsi. Ma erano davvero troppo strani, tutti e due, e moriva
dalla voglia di sapere cosa stesse accadendo, dannazione.
Sbuffò,
voltando pagina. Poi spezzò in due un bastoncino di grafite, e chiuse
gli occhi in cerca di ispirazione.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Facciamo finta che sia un segreto ***
CHASTANTINE 4
I giorni successivi erano
trascorsi in modo sempre più singolare, agli occhi di Zed. I suoi
due coinquilini non solo si comportavano in maniera inspiegabile, ma
evitavano anche accuratamente di spiegarle perché. Quando Zed faceva
notare loro che c'era qualcosa di strano, otteneva sempre le solite
due reazioni, in risposta: John se la cavava con una scrollata di
spalle e una battutina, mentre Chas, improvvisamente, perdeva l'uso
della parola e balbettava qualcosa di incomprensibile, prima di
scappare via a fare chissà quale cosa urgentissima.
Zed si era arresa. Anche se era
sempre più curiosa, non c'era poi molto che potesse fare. Una parte
di lei sperava che le stessero tenendo nascosta qualche svolta
importante, qualche caso particolarmente complicato – e di
conseguenza interessante – di cui prima o poi sarebbe venuta a
conoscenza. Un'altra parte, però, cominciava a nutrire un sospetto
che, alla luce dell'amicizia che legava quei due, non era neanche
così infondato, dopo tutto. Se era quella, la cosa che le
stavano nascondendo... Be', lo stavano facendo piuttosto male. E
comunque, non ce n'era alcun bisogno. Sarebbe stata solo contenta per
loro.
Non capitavano molte occasioni
per essere felici, da quelle parti: e l'unica cosa veramente saggia
da fare era prendersi tutte quelle che c'erano.
«John?»
«Mh.»
«Secondo te lo ha capito?»
«Mmm... In una scala da zero a
dieci? Cento.»
«Ma siamo stati attenti. Come ha
fatto?»
«È una sensitiva, Chas. E, se
non bastasse questo, è una donna. Hanno un sesto senso per
questo genere di cose, dovresti saperlo.»
«Pensi che dovremmo dirglielo?»
John gli rivolse uno sguardo
perplesso.
«Dovremmo?
Se proprio vuoi farlo, pensaci
tu. Non sono mica la dottoressa della Posta del cuore.»
Chas alzò gli occhi al cielo.
«Diamine, John. È solo che...
È-- È una nostra amica. E dal momento che vive con noi, forse non
dovremmo nasconderle una cosa del genere.»
«Lo so che non vedi l'ora di
dire al mondo che stai con l'uomo più figo del mondo, love,»
lo canzonò John con un ghigno. «Ma questa cosa fortemente
imbarazzante che stai per fare è assolutamente inutile, fidati. Di
sicuro non le dirai niente che non sappia già.»
John si scottò le dita, mentre
spegneva un cero votivo. Era tutta la mattina che cercava di mettere
insieme un incantesimo degno di questo nome, ma non era ancora
riuscito a combinare niente. Aveva voluto che Chas restasse al mulino
solo per godersi insieme a lui la privacy momentanea, dal momento che
Zed era in città a fare rifornimento di materiali al negozio di
belle arti.
Non erano andati molto oltre,
dopo il bacio di quella volta. Si stavano addosso, si cercavano, si
scambiavano baci ogni volta che ne avevano la possibilità: ma c'era
una specie di accordo silenzioso, tra loro, per cui cercavano di fare
le cose con calma, senza bruciare i tempi e godendosi la lenta
evoluzione di quel rapporto già profondo che avevano e che si stava
trasformando in qualcosa di più.
John sparecchiò la grossa
scrivania con un gesto, accantonando con aria stizzita gli oggetti
che vi aveva poggiato precedentemente.
«Non è decisamente la mia
performance migliore,» sbuffò, facendo per accendersi una
sigaretta.
«Sei troppo nervoso,» commentò
Chas, sfilandogliela dalle dita. «E dovresti smetterla di fumare
così tanto: ti agita ancora di più.»
Stavolta fu John ad alzare gli occhi
al cielo.
«Sì, mamma, certo,
mamma. Prometto che ci proverò. Però adesso ridammela, eh?»
Chas lo ignorò.
«Cos'hai?» chiese invece.
Fallire un incantesimo per colpa dell'ansia non era una cosa da
John. Doveva esserci per forza qualcosa che non andava.
«Niente...» fu l'evasiva
risposta.
«John,» ripeté Chas, e
stavolta il suo tono sottintendeva qualcosa come Non prendermi in
giro, ce l'hai scritto in faccia che c'è qualcosa che non va. John
era tentato di ripetergli che non c'era nulla che lo preoccupasse, ma
poi Chas gli posò le mani all'altezza dei gomiti e lo obbligò a
fronteggiarlo – anche se, per farlo, John doveva sollevare la testa
in quel modo così esagerato, come se stesse parlando a un gigante--
be', in effetti stava parlando a un gigante. E insomma,
non riuscì a dire nient'altro che la verità.
«Facciamo le cose senza fretta,
ok?» disse soltanto. «Zed o non Zed, non mi va di accelerare troppo
le cose.» Si guardò la punta delle scarpe, in imbarazzo. Ora che
l'aveva detto, si sentiva molto più che imbarazzato. Era la
prima volta che faceva un discorso del genere con qualcuno, e voleva
mettere bene in chiaro le cose. Non desiderava il silenzio perché
aveva un problema di qualche tipo ad ammettere come stavano le cose,
anzi. Aveva solo timore di commettere qualche passo falso, e non
voleva che la situazione gli sfuggisse di mano. Chas era l'unica
persona di cui gli importasse veramente, e meritava qualcosa di più.
Meritava di essere trattato bene.
E se voleva che le cose tra loro
andassero veramente bene, John doveva essere sicuro di ogni
decisione, di ogni passo.
Era un sacco di roba da spiegare
a voce, e lui non era esattamente il tipo a cui piaceva lanciarsi in
dissertazioni filosofiche sui sentimenti, perciò lasciò perdere.
Sentì le mani di Chas sfregargli affettuosamente le braccia, come
per riscaldarlo.
«John, qual è il problema?»,
chiese.
«Non voglio sbagliare con
te.»
Finalmente! Ce l'aveva fatta a
dirlo. John si sorprese di come le parole fossero uscite con
facilità. Tirò un sospiro.
«Non stai sbagliando.»
La voce di Chas era rassicurante
come tutte le volte, e anche il calore che le sue mani trasmettevano.
Un attimo dopo, con una sincronia perfetta, John sollevò lo sguardo
e Chas si chinò su di lui, e ripeterono ancora quel gesto a cui si
erano abituati. Veniva sempre tutto in modo molto spontaneo e
naturale, come se non avessero mai fatto altro in vita loro. Dovevano
essere stati i lunghi anni di rodaggio della loro amicizia ad aver
affinato così bene l'intesa che condividevano. John gli mise le
braccia al collo, un po' perché semplicemente gli piaceva farlo, e
un po' perché così poteva attirarlo a sé mentre si baciavano. Chas
lo circondò, lo strinse forte attorno alla vita. Fosse dipeso
soltanto da lui, avrebbe bruciato le tappe col lanciafiamme, tanto
per fare prima. Sapeva di amare John, lo aveva saputo fin dal momento
in cui, nonostante non possedesse ancora il dono dell'immortalità
parziale, si era reso conto di essere disposto a morire per salvargli
la vita. Lo amava così com'era, pieno di difetti messi in bella
vista come trofei, ma ancor più pieno di pregi che teneva ben
nascosti in un angolino dentro di sé. Chas voleva esplorarli tutti,
quegli angoli, conoscerlo fino in fondo e dirgli che lo amava ogni
giorno di più. Perché era la verità. Non c'era nulla che non
amasse di lui, e questo era il motivo per cui gli era rimasto sempre
accanto.
John si ritrovò a fare quella
cosa che faceva sempre, posargli entrambe le mani sulle guance per
poter sfregare quella sua barba ostinata con le dita. Era qualcosa
che lo rilassava tantissimo, placava istantaneamente le sue crisi di
nervi, meglio delle sigarette. A quel punto, si era persino
dimenticato di aver provato il desiderio di accendersene una. Tutto
ciò che desiderava era starsene allacciato a quella specie di orso
grande e grosso, pieno di premure e istinti protettivi.
Quando Chas scese a baciarlo sul
collo, però, non poté fare a meno di ridere. L'altro interruppe
quello che stava facendo, lo guardò con aria interrogativa.
«Che
c'è?», chiese, disorientato.
«Niente...
Non smettere,» rispose John, aggrappandosi alla sua camicia per
attirarlo di nuovo a sé. L'unico inconveniente di pomiciare con
Chas, a parte il solletico, era che la sua pelle si riempiva di
piccoli segni arrossati. Ma sparivano quasi subito, e comunque era
una sensazione piacevole.
Ripresero
da dove avevano smesso, si strinsero ancora di più. Era come essere
tornati improvvisamente all'età di quindici anni, ma era perfetto
così. Avevano bisogno di qualcosa di buono, chiaro e pulito, che non
venisse bruciato e consumato senza cognizione di causa. Avevano
bisogno di uno spazio neutrale, di un territorio soltanto loro, di
qualcosa che andava preservato dal male che combattevano ogni giorno.
E volevano godersi quel qualcosa senza preoccupazioni, senza farsi
problemi inutili. Potevano essere spontanei e sinceri, l'uno con
l'altro, essere sé stessi senza paura, ed essere liberi.
Tla-tlack.
«Oh
merda!»
Ok.
Ora non aveva più dubbi.
Quando
era entrata, aveva visto John sobbalzare e Chas scattare dall'altra
parte del tavolo, fingendo entrambi di essere improvvisamente
concentratissimi a fare chissà che.
«Sei
di ritorno così presto, love?»
aveva chiesto John, con un sorriso fintamente disinvolto che non
riusciva a camuffare un certo nervosismo.
Zed
aveva sollevato la busta di carta del negozio, rivolgendogli
un'occhiata alla Guarda
che non sono un'idiota... Ma diamine, come siete teneri, e
aveva delicatamente sorvolato la domanda.
«Io
vado di sopra... Vedo che siete impegnatissimi,» aveva detto,
avviandosi per le scale.
«A-ah.
Incantesimi difficili. Roba da professionisti, tesoro,» aveva
risposto John, rigirandosi le maniche – già rigirate, - avendo già
recuperato la solita aria da spaccone.
Zed
aveva sentito la battuta sulla punta della lingua, e proprio non ce
l'aveva fatta a trattenersi.
«Certo...
E uno di questi incantesimi prevede di passare la faccia sulla carta
vetrata, per caso?»
Non
appena ebbe pronunciato queste parole, ebbe l'impressione che Chas
volesse staccare una tegola dal pavimento e cominciare a scavare con
le proprie mani una buca per sotterrarsi.
John
si passò nervosamente una mano sulla faccia.
«Effetti
collaterali...», si giustificò.
Zed
salì a passi leggeri i pochi gradini che la separavano dal piano
superiore.
Li
avrebbe lasciati alle loro cose.
… Certo,
però, che a nascondere le cose erano proprio negati.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Vietato l'uso di fiamme libere ***
CHASTANTINE 5
Zed trattenne una risata
affettuosa.
Chas sembrava un bambino
intrappolato in un corpo da gigante. Era nervoso, nervosissimo e
imbarazzato, e si tormentava il maglione cercando fili invisibili da
tirare con le dita, cercando di evitare gli occhi della ragazza.
Zed gli mise una mano sul braccio,
una pacca di amichevole conforto.
«Come hai potuto pensare che
potesse essere un problema, Chas?» disse, scrollandolo leggermente.
«Siamo tutti bisessuali più o meno dichiarati, qua dentro. Il fatto
che stiate insieme non cambia assolutamente le cose, sta'
tranquillo.» Doveva aver usato un tono abbastanza rassicurante,
perché il bambino gigante sollevò lo sguardo. «E in realtà non è
neanche una sorpresa, sai,» aggiunse. «Lo sapevo che prima o poi lo
avreste capito, non potevate essere così stupidi da continuare a
ignorarvi a vicenda.»
Chas alzò un sopracciglio,
frastornato: «Come... Che intendi?»
«Intendo che era evidente che
foste attratti l'uno dall'altro. Voglio dire, dal mio punto di vista
era chiarissimo. Continuavate a girarci intorno senza decidervi; un
altro po' e vi avrei organizzato un appuntamento io, almeno avreste
smesso di rimandare la resa dei conti,» disse Zed, con un sorriso.
Chas sembrò rilassarsi, si lasciò
andare sulla sedia. Ignorava che fosse tutto così chiaro e lampante,
visto da fuori. Avrebbe voluto sapere da quanto tempo avevano
cominciato a mostrare segni d'interesse reciproco: probabilmente, da
molto più di quanto potesse immaginare.
Il pensiero andò a John che non era
venuto al suo matrimonio, alle sue telefonate strane... Ma no, non
poteva essere così da così tanto tempo, di sicuro era una cosa
recente... No?
Si chiese quante volte avesse
inavvertitamente ferito John, senza rendersene conto, ed ebbe paura
della risposta.
Zed si accorse del suo cambio
d'umore.
«Ehi... Che hai?» chiese.
«Dovresti essere felice, è una bella cosa. Cos'è che ti
tormenta?». Ma Chas scosse la testa, chissà cosa stava pensando.
Furono interrotti da un'esplosione improvvisa, da una nuvola densa
di fumo. Si scambiarono un'occhiata allarmata e si precipitarono
nella stanza accanto.
«Tutto bene!» John riemerse dalla
nube tossendo, coperto di fuliggine. «Tutto sotto controllo,»
disse, agitando le mani per diradare il fumo e fermandosi
saltuariamente per soffocare i colpi di tosse.
«John,» disse Chas, con una lieve
sfumatura esasperata nella voce, prima di correre a estinguere le
fiamme residue che ancora si alzavano da una specie di piccole
calderone al centro della stanza.
Aggiunse un punto al suo elenco di
post-it mentali:
Mai lasciare John giocherellare
con fiamme libere senza supervisione.
John si era lievemente scottato una
mano, una cosa da niente, ma Chas aveva insistito lo stesso per
fasciargliela.
Doveva ammettere che gli piaceva da
morire il fatto che Chas fosse sempre pronto a fargli da
crocerossina: lo faceva sentire come se finalmente ci fosse qualcuno
a cui importava davvero come stava, ed era una bella
sensazione.
Il fatto che Chas ritenesse
prioritario occuparsi della sua salute e facesse in modo di farlo
vivere il più a lungo e felicemente possibile era nobilissimo.
Il rovescio della medaglia, però,
era che disapprovava fortemente la sua smodata tendenza a fumare, e
di conseguenza John non poteva lasciare un pacchetto di sigarette in
giro perché Chas trovava subito il modo di farlo sparire.
Curiosò tra gli scaffali, sulla
scrivania, persino sotto la poltrona. Quando ritenne di aver cercato
in tutti i posti possibili, si arrese.
«Chas?»
Nessuna risposta. Era al piano di
sopra, chissà che stava facendo.
«Chas?»
Alla seconda chiamata,
l'interpellato comparve in cima alle scale.
«Le sigarette,» disse John,
spalancando le braccia, come per sottintendere che aveva messo
sottosopra tutta la stanza e non le aveva trovate. Aveva troppa,
troppa voglia di fumare; e non poterla soddisfare era frustrante.
«Al solito posto,» rispose
l'altro, sbrigativo, voltandosi per tornare di sopra. John lo
richiamò.
«Non ci sono. Lo so che le hai
fatte sparire...» Cercò di intenerirlo, sventolò la mano fasciata.
«Ti prego, dimmi dove le hai messe. Sono anche ferito, tutto quello
che chiedo è solo una sigaretta... Una povera, innocente sigaretta--
Giusto per riprendermi un po',» disse, sforzandosi di fare la faccia
più adorabile che poteva.
Chas scrollò le spalle, con
un'espressione che significava Guarda che con me non attacca, e
rispose candidamente:
«Sono sul ripiano.»
John inclinò leggermente la testa
di lato.
«Quale ripiano?». Aveva guardato
dappertutto, e nello scaffale della libreria non c'era proprio
niente.
«L'ultimo,» ghignò Chas,
soddisfatto, scendendo le scale. John alzò gli occhi al cielo e
dovette trattenersi per non lanciare un'antica maledizione in
aramaico.
«Ma io non ci arrivo!» protestò,
allargando le braccia e sollevando lo sguardo per poter continuare a
guardare l'altro negli occhi mentre si avvicinava.
«Lo so. Per questo le ho messe
lì,» replicò Chas, intenzionato a ignorare i suoi capricci. «Ti
fanno male, un giorno mi ringrazierai. E poi, penso che sarebbe
meglio se per un po' ti tenessi lontano da qualunque oggetto che
possa provocare scintille,» disse, oltrepassandolo. Voleva dare una
sistemata all'archivio di Jasper: c'era troppo caos, là dentro, e
sapeva che se fosse dipeso da John sarebbe rimasto esattamente così.
Poteva approfittare del tempo libero per catalogare tutto, e--
«Quello... Quello è stato un
errore di distrazione,» si giustificò John, quasi inseguendolo. Si
aggrappò ad un lembo della sua camicia, lo strattonò per richiamare
la sua attenzione. «Ti prego, Gulliver. Prendile, o potrei morire
per l'astinenza,» lo implorò.
«No.»
«Per favore!» John a volte odiava
profondamente la propria condizione. Poteva esorcizzare qualunque
demone, imbastire rituali di ogni genere e viaggiare attraverso le
dimensioni, ma non riusciva a recuperare un dannato pacchetto di
sigarette che si trovava soltanto venti centimetri al di sopra
delle propria portata.
E tutto questo perché un salutista
dispotico, alto due metri e vestito come un fan dei Nirvana fuori
tempo massimo, si ostinava a nascondergli le cose.
Chas si fermò improvvisamente.
«Primo, non chiamarmi Gulliver.
Secondo, se le rivuoi allora devi fare qualcosa per me,» disse. John
sembrò riprendersi subito. Per riavere le sue sigarette, avrebbe
accettato qualunque condizione.
Sorrise, uno di quei sorrisi
maliziosi tipici del John opportunista, la versione con cui
Chas si trovava a fare i conti ogni volta che in ballo c'erano
sigarette o bottiglie di whisky.
«Vuoi che pulisca il taxi? Vuoi
che impari a cucinare?» Fece un occhiolino ammiccante che però
risultò decisamente comico, vista la situazione. «... Vuoi uno
spogliarello?», chiese, con l'espressione sorniona che ricordava
quella di un gatto.
Chas – che, se fosse stato un
altro, avrebbe fatto volentieri un pensierino sull'ultima proposta;
ma non era così meschino da approfittarsene a quel modo, - sbuffò e
alzò gli occhi al cielo.
«Niente di tutto questo,» disse.
«Mi serve una mano a rimettere a posto l'archivio di Jasper. E tu
mi aiuterai,» aggiunse, puntandogli un dito al petto,
torreggiando su di lui. «Quando avremo finito, riavrai il tuo
pacchetto.»
In quelle parole c'era odore di
trappola, ma John era così obnubilato dal bisogno di nicotina che
non ci fece affatto caso.
«D'accordo, tiranno,» disse,
rimboccandosi le maniche della camicia. «Ma sbrighiamoci, però,
eh?»
Si era fatta sera.
Jasper sembrava aver collezionato
ogni cimelio, libro antico, reperto e documento esoterico del mondo:
cercare una collocazione per ogni cosa fu un lavoro immane e anche
faticoso, nonostante Chas si fosse occupato di spostare gli oggetti
più pesanti. Si erano fatti strada nelle stanze del mulino tossendo,
e ne erano usciti coperti di polvere, ma alla fine avevano riordinato
quasi tutto.
«Finito,» annunciò John,
chiudendo l'ultimo scatolone. «Ora dammi ciò che mi spetta, me lo
sono meritato.»
Chas annuì senza dire niente e
scomparve attraverso la porta. Tornò poco dopo con il pacchetto
delle sigarette, glielo lanciò, John lo afferrò al volo. Già
pregustava la sensazione del filtro caldo tra le labbra, il sublime
crepitio della carta che bruciava, l'odore di fumo che Chas detestava
ma che lui adorava, e non vedeva l'ora di fumarsi la sua santa
sigaret--
«Ma è vuoto!» Agitò il
pacchetto vuoto, con l'impressione di essere stato raggirato. Chas si
limitò a scrollare le spalle.
«Ti ho detto che ti avrei ridato
il pacchetto, non le sigarette,» disse.
«Razza di truffatore
insopportabile,» sbraitò John, gettando il pacchetto vuoto nel
cestino e andando a sprofondare nella poltrona. Si sdraiò di
traverso, scompostamente, coprendosi drammaticamente gli occhi con
l'avambraccio. «Maledizione, mi sto sentendo male,» borbottò,
pieno di disappunto, allentandosi la cravatta. Si era spaccato la
schiena per niente. E aveva così tanta voglia di una sigaretta...
Vedendolo così, Chas sembrò
profondamente pentito del proprio gesto e sentì lo stomaco
stringersi per il rimorso.
«Mi dispiace, ma le ho buttate sul
serio,» disse, costernato. «E lo so che mi detesti per questo, ma
davvero vorrei che smettessi. O che almeno ci provassi,»
aggiunse, accucciandosi accanto alla poltrona per poter guardare
John. «È solo questione di volontà.»
L'esorcista si scoprì gli occhi e
si voltò a guardarlo.
«Ma no, scemo, no che non ti
detesto. Magari vorrei prenderti a schiaffi, in questo momento,
quello sì...» Sbuffò. «... Ma lo so che lo fai per me.» Soffocò
uno sbadiglio, si stiracchiò come poteva. Era stanco, e si vedeva;
lo erano entrambi. E forse era la stanchezza ad addolcirlo così, o
forse il fatto che nessun altro si era mai preoccupato così tanto
per lui e questo lo faceva sentire fortunato – anche se a volte
Chas gli faceva venire voglia di strapparsi i capelli e mettersi
urlare dalla disperazione.
Chas allungò una mano ad
accarezzarlo sulla testa, John chiuse gli occhi.
«Davvero non capisco come mai
cerchi in tutti i modi di farti del male,» sussurrò, e John
ridacchiò piano.
«È un puro fatto estetico,»
scherzò. «Sai, il fascino dell'eroe maledetto con tendenze
autodistruttive.» Sbadigliò di nuovo. «Comunque hai ottenuto
quello che volevi,» aggiunse. «Non ho più voglia di fumare... Sto
solo morendo di sonno.» Non fece in tempo a finire la frase che si
sentì sollevare. Quando John lo guardò, dovette trattenersi per non
scoppiare a ridere. Chas aveva un'aria colpevole che lo faceva
sembrare una specie di bambinone, mentre lo trasportava in camera.
«Ti senti in colpa?» domandò
John.
«Un po',» ammise l'altro.
John gli mise le braccia al collo,
lo baciò sulla guancia.
«Allora adesso voglio che sia tu a
fare qualcosa per me,» disse.
«Cosa?» chiese Chas, adagiandolo
sul letto. Ma non ebbe bisogno di ascoltare la risposta, perché
stavolta John lo baciò con tutta l'anima, con le poche energie che
gli erano rimaste.
«Tu stasera resti qua.» Il tono
di John non ammetteva repliche. «Non facciamo nulla di...
Impegnativo,» specificò, per ricordare a entrambi che dovevano
andare piano, che non dovevano aver fretta. «Ma ti impegnerai a
viziarmi e coccolarmi per non farmi tornare voglia di fumare,»
stabilì, e all'improvviso l'astinenza da nicotina non gli sembrò
più così orribile.
Questa volta il bacio fu
un'iniziativa di Chas: e John la subì volentieri.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Ordinaria amministrazione ***
CHASTANTINE 6
«Zed! Zed!»
Chas la vide attraversare in fretta
il cortile buio per raggiungerlo, trafelata, un paio di ciocche ricciolute
appiccicate alla fronte per il sudore e tra le mani una pala – che,
meno di un quarto d'ora prima, aveva sbattuto in faccia al padrone di
casa, posseduto, per riuscire a passare.
Decisamente una ragazza piena di
risorse.
«Zed, dov'è John?» chiese Chas,
preoccupato.
La ragazza impallidì di colpo, illuminata solo dalla luce lunare.
«Come sarebbe, dov'è? Pensavo fosse con te!» L'espressione
di Chas si fece improvvisamente buia.
«Oh, merda.»
Non ebbero bisogno di dirsi altro:
tornarono sui loro passi e ricominciarono a correre, stavolta in
direzione della casa.
«John? John, svegliati. Forza!»
John era perso in un buio privo di
riferimenti.
Quando sentì quella voce che gli ordinava di aprire gli
occhi, si sentì immediatamente sollevato: allora non era del
tutto
solo, in quello strano posto dove era finito. Si sentiva pesante e allo
stesso tempo leggero, confuso, ma obbedì alla voce che lo
chiamava,
che voleva riportarlo indietro; quella voce che conosceva bene e a
cui più di ogni altra cosa avrebbe voluto riuscire a rispondere--
«John!»
La prima cosa che vide fu
l'enorme sagoma di Chas accanto al suo letto, ma ci mise un po' a
distinguerlo chiaramente.
«John, come ti senti?»
John sbatté le palpebre, si
stropicciò gli occhi: era come svegliarsi da un lungo sonno, si
sentiva stordito e fuori fase.
«MmmChas--?», biascicò,
mettendolo a fuoco.
Sentì le mani grandi dell'altro
accarezzarlo gentilmente e le sue dita tra i capelli: delicato e
attento, come sempre.
«Siamo a casa.» Il tono di
Chas era rassicurante e tranquillo. «È tutto finito.»
L'esorcista fece per stiracchiarsi,
ma si bloccò prima ancora di cominciare: gli faceva male tutto, e
una serie di fitte improvvise gli impedirono di proseguire.
«Ugh...» Si lamentò,
stringendo gli occhi. «...Sono stato investito da un camion?»
La mano di Chas si fermò sul suo
stomaco, un peso caldo e gradevole.
«No. Siamo andati a caccia
di un demone, ma ne abbiamo trovati due,» spiegò brevemente.
Appariva preoccupato e stanco. «Come ti senti?», chiese, il pollice
che gli sfregava lievemente una costola.
John coprì la sua mano con la
propria, la strinse. Un gesto istintivo, involontario, forse; ma gli
piaceva sentire il suo calore, e ne aveva sempre bisogno quando non
si sentiva troppo bene.
«Un po' acciaccato... Ma non così
male, dopotutt-- Ahia!»
Non era decisamente in condizione di
muoversi, perciò decise di rinunciare. L'altra mano di Chas gli si
posò sulla spalla, lo rispinse delicatamente giù.
«Non ti muovere,» disse. «Sei un
po'... Rotto.»
John sbuffò.
«Oh, che palle.» Frugò
nella tasca dei pantaloni alla ricerca delle sigarette, ma erano così
schiacciate da essere ridotte a un ammasso di carta e tabacco
sfilacciato. «Odio stare fermo.»
Chas, da bravo infermiere, gli
passò un bicchiere d'acqua e un blister di antidolorifici.
«Prendi queste, ma non esagerare,»
si raccomandò. «Un po' di riposo e torni come nuovo.»
L'espressione seccata e vagamente
imbronciata che l'altro gli rivolse convinse Chas che no, John non
aveva nessuna voglia di riposare, e dopo due minuti sarebbe stato di
nuovo in piedi a combinare qualche guaio – e magari a dare
inavvertitamente fuoco al mulino, tanto per mantenersi in esercizio.
Inaspettatamente, però, John obbedì, prese bicchiere
e pastiglie e mandò giù il tutto. Guardò il bicchiere vuoto con
aria disgustata:
«Acqua? Dove l'hai trovata, l'acqua?»
Chas alzò un sopracciglio, perplesso.
«Come, dove? Dal rubinetto, no?»
John ghignò in quel suo modo particolare,
insolente e irresistibile.
«Ma io volevo due dita di Jack!»
Chas roteò gli occhi.
«Non con le pasticche,» tagliò
corto. «E adesso prova a dormire un po'. È tutta la notte che
stiamo in giro e avrai dormito sì e no un'oretta scarsa, da quando
siamo tornati. Devi recuperare, John.»
L'esorcista lo guardò, e il suo
sorriso cinico si addolcì leggermente, in un modo che non capitava
quasi mai.
«Quanto mi piace quando ti
preoccupi per me,» ghignò, per poi soffocare uno sbadiglio subito
dopo. «Ma non ho sonno...»
Chas gli accarezzò il braccio,
guardandolo con una luce lievemente intenerita negli occhi - quasi
come se l'adulto irresponsabile e capriccioso che aveva davanti fosse
davvero un bambino, - e sorrise appena.
«Se vedessi che faccia che hai...
Stai crollando.»
John si stropicciò di nuovo gli
occhi, si voltò a guardarlo. Aveva gli occhi socchiusi, già
appannati dal sonno, e sembrava più docile e tranquillo di quando
era nel pieno delle sue funzioni - sempre teso come un filo scoperto
e con un interminabile corollario di frecciatine sarcastiche a
disposizione.
«Resti con me?»
John batté la mano sul letto,
accanto a sé.
Chas non rispose, ma si alzò e si
sistemò accanto a lui. Lasciò che si sdraiasse su un
fianco e lo
abbracciò da dietro, facendo attenzione a non stringere troppo
per
non fargli male. Lo accarezzò a lungo - come spesso capitava,
quando tornavano da una notte particolarmente difficile e si
ritrovavano a dover prendere sonno mentre invece la gente normale si
svegliava. Era in momenti come quello che John smetteva di essere in
guerra con il resto del mondo e si lasciava semplicemente abbracciare,
e a Chas piacevano quei momenti. Erano rari, preziosi. Non avevano
bisogno di parlarsi, non avevano bisogno di spiegarsi; stavano
incollati l'uno all'altro, e la vicinanza e il calore erano la
rassicurazione migliore che potevano offrirsi. Era la conferma che
anche quella notte ce l'avevano fatta, e finalmente potevano tirare un
sospiro di sollievo, occuparsi dei dolori e delle ferite e trovare un
po' di sollievo nel riposo.
Indovinò il contorno di una serie di lividi scuri
disseminati sul corpo di John, attraverso il tessuto sottile e quasi
trasparente della sua camicia bianca – ora tendente più al grigio
scuro per via della polvere e della fuliggine, - e si sentì in colpa
per non essere riuscito a proteggerlo come avrebbe dovuto.
Forse
doveva seriamente prendere in considerazione l'idea di legargli al
collo un segnalatore GPS o di piazzargli una grossa freccia al neon
sulla testa, per non perderlo mai di vista.
Stava per dirgli qualcosa; ma poi
lo aveva sentito russare lievemente, la guancia posata sul suo
braccio piegato e una mano intrecciata alla sua, e aveva preferito
non svegliarlo. Vedere John così sereno, così quieto e spensierato era una vera
rarità.
Era ancora mattina presto, e pensò
che forse poteva approfittarne anche lui per sonnecchiare un po'. Si
prese qualche istante per guardarlo, - era così tranquillo e
angelico, quando dormiva, - e si sentì sollevato.
Quell'esorcista eccentrico e
scapestrato, che lui aveva il compito di tutelare come se fosse
l'ultimo esemplare di una specie protetta, era lì, serenamente
agganciato addosso a lui, e stava bene.
E Chas non riusciva a immaginare
nulla di più bello.
Qualche ora dopo, erano in cucina:
John seduto al tavolo a consultare uno dei diari di Jasper e Chas
intento ad armeggiare con le padelle, con la consueta destrezza. Quei
rumori e quei profumi, quel clima di serena attesa, per John erano
familiari e rassicuranti.
«Trovato
niente?» chiese Chas, mettendo due
uova a friggere.
«Non
ancora,» mugugnò John, una
sigaretta spenta tra le labbra – a volte ne teneva una così,
semplicemente per abitudine, e Chas lo rimbrottava con frasi tipo
“gli psicologi dicono
che la fase orale dovrebbe concludersi nei primi anni di vita”,
eccetera eccetera, ma
John proprio non poteva farci niente. «Sembra che non esistano
demoni in grado di sdoppiarsi come quello con cui abbiamo fatto
amicizia noi,» aggiunse, sollevando lo sguardo dal grosso volume.
Osservò Chas muoversi – così spropositatamente grande e
grosso, eppure leggero, - e per un attimo dimenticò i doloretti che
ancora lo flagellavano e il disappunto per non aver trovato niente,
sostituiti da una sensazione di calma e di calore.
Chiuse
di colpo il librone, poi si alzò e si diresse verso l'amico, lo
abbracciò goffamente mentre si sciacquava le mani - facendolo
sussultare di sorpresa, perché un gesto del genere giungeva
piuttosto inatteso, da parte sua.
Sulla
faccia di Chas si disegnò un grosso punto interrogativo.
«John..?
Ti senti bene?» domandò, con un sopracciglio alzato.
«Sì...»
mugolò John, contro la stoffa della sua camicia. «Voglio
solo che tu sappia che non do per scontato nulla di ciò che fai.»
Si alzò in punta di piedi e contemporaneamente si aggrappò
alla sua maglietta per attirarlo giù, gli diede un bacio rapido e
insolitamente innocente sulla guancia. «Grazie,»
disse, alzando la testa per guardarlo.
«Sei
così appiccicoso, ultimamente. Stai covando qualche influenza
strana, credo,» replicò Chas, ma sorrideva – la versione più
morbida di John era stranissima ma adorabile. Si abbassò per
restituirgli il bacio, ma prima gli sfilò la sigaretta spenta dalle
labbra. «Siediti, è quasi pronto.»
John guardò con malinconia la sigaretta che
gli era stata sottratta - e che sarebbe sparita nel nulla insieme a
tutte le altre, lo sapeva, - ma poi la sua attenzione venne distolta
dal lieve ruggito che cominciava a salirgli dallo stomaco, e
obbedì docilmente.
«Sì, mamma,»
disse, prendendolo in giro; e quello che rimediò in risposta fu
una mestolata amichevole sulla testa, giusto per ribadire quali erano
le gerarchie in cucina: mai discutere con un gigante con la sindrome
della massaia.
NOTE:
Capitolo che non aggiunge nulla di nuovo, ma avevo bisogno di zucchero perciò ecco tanto fluff :)
A.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Family Reunion ***
CHASTANTINE 7
Nei
giorni seguenti, John rimase un po' acciaccato e sottosopra. Avere a
che fare con un demone incideva sempre un po' su di lui, fisicamente,
e a volte gli restavano nausee e emicranie e fastidiose
febbriciattole per giorni. Chas lo sapeva e lo lasciava riposare; ma
ora si ritrovava a dover risolvere anche un altro, piccolo problema.
Sarebbe
dovuto partire per raggiungere sua figlia, quella mattina. Aveva
pochi fine settimana a disposizione, per vederla, e molte volte non
poteva andare da lei perché
era impegnato in qualche missione. Non lo faceva mai pesare a John:
sapeva che la vita che avevano scelto comportava dei sacrifici, e ne
pagavano il prezzo entrambi - anche se in modi diversi. E poi, molto
spesso John ne usciva a pezzi, e per Chas era naturale restare ad
occuparsi di lui. Dopotutto, sua figlia era sempre al sicuro: chi
invece aveva più bisogno di lui era John, sempre coinvolto in
pessime faccende che da cui non riusciva a tirarsi fuori se non con
qualche brutta ferita. E quando tornavano al mulino, stanchi e
distrutti, Chas faceva del suo meglio per rimetterlo in sesto e
pensava che, dopotutto, quello che facevano rendeva il mondo un posto
più sicuro anche per Geraldine.
John
stava ancora smaltendo gli effetti dell'ultimo scontro. Cercava di
anestetizzare il dolore bevendo più del solito e Chas lo aveva
rimproverato duramente, per questo: un paio di sere prima, si era
arrabbiato con lui come non succedeva quasi mai, poi lo aveva
raccolto e portato a letto. John era troppo sbronzo persino per
camminare da solo, e aveva finito col vomitare lungo le scale. Quando
finalmente era riuscito a farlo addormentare e a ripulire tutto, Chas
aveva provveduto a svuotare ogni riserva alcolica nello scarico
del bagno – tanto per evitare altre scene imbarazzanti, in futuro.
L'esorcista
non era ancora nel pieno delle sue condizioni: aveva l'aria sbattuta
di qualcuno appena uscito dalla centrifuga della lavatrice, e non
aveva un colorito molto sano. Però sapeva che quel giorno Chas aveva
degli impegni familiari da rispettare; così, scese le scale e glielo
fece presente subito. John sapeva che, se non gli avesse detto
niente, neanche Chas avrebbe accennato alla faccenda: sarebbe rimasto
al mulino, accanto a lui, fedele come sempre, per tenergli compagnia
e accertarsi che stesse bene. Ma John non voleva che Chas
rinunciasse a una cosa tanto importante a causa sua. Lo aveva già
fatto centinaia di volte, e John non voleva che diventasse una
routine.
«Chas,
è tardi,» disse, scendendo le scale. «Dovresti già essere per
strada.»
L'altro
lo salutò con un cenno. Stava preparando la colazione.
«Lo
so,» rispose. «Ma non vado, oggi. Non esiste che ti lascio da solo
se non stai bene.» John gli si avvicinò, gli rivolse un sorriso
sicuro.
«Sto
una favola, Chas. Smettila di preoccuparti per me e va' da tua
figlia,» gli intimò. Chas aggrottò le sopracciglia.
«Una
favola? Non credo proprio,» replicò. Posò la padella per mettergli
una mano sulla fronte. «Scotti ancora, idiota,» lo rimbrottò. «Non
me ne vado.»
«Chas...»
John
gli prese la mano e la scostò delicatamente.
«Posso
badare a me stesso. Sono una persona adulta, nel caso non te lo
ricordassi,» disse; e subito si beccò un'occhiata perplessa da
parte dell'altro. L'espressione di Chas sembrava dire Davvero?
Ti metti nei guai più volte di un bambino piccolo e stupido, John.
«Davvero, non voglio che
resti qui. Gera è tua figlia, ha bisogno di te; e tu hai già poche
occasioni per vederla, non dovresti rinunciare per-- Per colpa mia.»
Chas
abbassò lo sguardo su di lui. Sapeva che John odiava Renée tanto
quanto amava Geraldine. La bambina lo chiamava zio
John e
lo adorava, nonostante sua madre parlasse sempre male di lui. Chas lo
difendeva sempre, nelle discussioni con la propria ex-moglie, e ogni
volta finivano col litigare, compromettendo ancora di più la
posizione di Chas nei confronti della figlia. Poteva vederla poche,
pochissime volte al mese, ormai; quasi sempre, la prendeva e la
portava a fare un giro lontano da casa, per godersi la sua compagnia
senza dover aver a che fare con Renée.
Era
combattuto. Alla fine, John e Geraldine erano le due persone che
amava di più al mondo – in modi diversi, ma con la stessa
intensità, - e si sentiva a disagio all'idea di dover scegliere tra
sua figlia e... Be', la
persona che amava.
Rimase
in silenzio per un po', valutando le possibili opzioni. John gli tirò
leggermente la camicia per scuoterlo un po'.
«Vai,
Chas. Sto bene, davvero. E poi Zed fa di continuo avanti e
indietro--»
«Zed
ha detto che non sa quando torna,» lo interruppe Chas. «Ha detto
che sta raccogliendo informazioni sulle attività di suo padre.»
John
sbuffò.
«Come
puoi essere così testardo?», gli chiese: ma era più una domanda
retorica che altro.
Chas
appoggiò entrambe le mani sul bordo del tavolo. In effetti, un modo
per non compromettere nulla ci sarebbe stato...
«John,»
disse, voltandosi a guardarlo. «Senti... Non è che verresti con
me?» chiese, goffamente. Sapeva che John non voleva interferire con
quella parte della sua vita. Non voleva intromettersi nelle sue
faccende di famiglia e, soprattutto, non voleva esporsi ad ulteriori
frecciatine da parte di Renée. Ma Chas sapeva anche che John amava
follemente Geraldine, che gli piaceva passare del tempo con lei e che
gli avrebbe fatto piacere rivederla – anche se non lo avrebbe
confessato neanche sotto tortura: avrebbe stonato troppo con la
copertura cinica che si era costruito, negli anni.
John
sollevò un sopracciglio.
«Me
lo stai chiedendo sul serio?»
Chas
annuì.
«Sì.
Voglio dire... In questo modo, non salterò la visita a Gera e tu
sarai con me, se dovessi aver bisogno di qualcosa. Sarebbe... Sarebbe
ok,» rispose. «E poi scommetto che Gera sarà felice di vederti. Ti
vuole bene, lo sai.» Chas attese. A quelle ultime parole, vide un
mezzo sorriso affiorare sulle labbra di John, uno di quelli spontanei
che a volte gli sfuggivano e non riusciva a controllare. L'altro si
riprese subito, però, e si nascose di nuovo dietro un ghigno.
«Va
bene. Basta che non mi fai vedere quell'arpia di Renée,» disse,
accarezzandogli distrattamente una spalla. «O giuro che le tirerò
addosso qualche maledizione vudù che si ricorderà per il resto
della vita.»
Chas
sorrise. Gli faceva piacere che John avesse acconsentito: si sentiva
sollevato all'idea di poter vedere Geraldine senza dover stare in
pensiero per John, e soprattutto gli faceva piacere l'idea di
trascorrere il fine settimana assieme alle due persone che amava di
più.
«Tranquillo,
non accadrà. Neanch'io ho voglia di vederla... Vado solo per Gera,
lo sai,» si sentì di rassicurarlo, e John sorrise ancora.
«Dammi
un minuto. Vado a fare la borsa.»
Prima
che si allontanasse, Chas lo trattenne per un braccio e lo abbracciò
rapidamente. John lasciò che la presa si prolungasse, ricambiandola
a sua volta.
«Grazie,»
mormorò Chas. Poi lasciò che l'altro scomparisse verso il piano
superiore, spense il fornello e uscì per mettere in moto il taxi.
Il
viaggio in macchina richiese qualche ora. Chas era di ottimo umore,
mentre guidava con John seduto accanto – con gli occhiali da sole
calati sugli occhi, perché la luce diretta gli acuiva il mal di
testa: ma questo non lo aveva detto a Chas. Ascoltarono musica di
gruppuscoli punk sconosciuti e chiacchierarono, durante il tragitto.
Ogni tanto, John sollevava lo sguardo e si voltava a rubare immagini
di Chas: gli piaceva vederlo così sollevato e sereno, quella specie
di orso premuroso al volante.
«Come
stai?» gli chiedeva, ogni tre per due. Alla terza volta, John
scoppiò a ridere.
«Come stavo cinque minuti fa, Chas. Sta'
tranquillo, mh?»
Quando
finalmente raggiunsero casa di Gera, John si sfilò gli occhiali e si
stiracchiò sul sedile. «Aspetta qui,» gli disse Chas, chiudendo
lo sportello. «Arriviamo subito.»
Un
minuto dopo, lo vide uscire dalla porta con la bambina per mano. Lei
corse verso la macchina non appena si accorse che c'era anche John.
L'esorcista
scese – aw, che mal di
schiena, - e
si chinò ad abbracciarla. Quella bambina viveva con la donna più
stronza del mondo ma era riuscita a restare adorabile. Era merito del
patrimonio genetico che aveva ereditato da Chas, pensò John. Da uno
come lui, non poteva che venire fuori qualcosa di buono.
«Zio
John!», esclamò lei, afferrandogli la cravatta. «Che hai?»
chiese, subito dopo, notando che in effetti lo zio John non aveva una
bella cera.
Lui
sorrise. «Dormo poco, love,»
la apostrofò, dandole una pacca leggera sulla testa.
Chas
li guardò insieme e sorrise. Sapeva che probabilmente Renée li
stava guardando e gli avrebbe fatto una ramanzina tremenda, la
prossima volta che si fossero visti, per aver portato anche John: ma
non gli importava. Era la cosa più bella che avesse mai visto, lui e
lei insieme, e non avrebbe permesso a nessuno di rovinare quel
momento.
«Dai,
andiamo,» disse Chas, posando lo zainetto rosa di Gera sul sedile
posteriore.
Avevano
quarantott'ore tutte per loro, e sarebbero state belle.
John
si dimenticò a poco a poco del malessere che lo aveva tormentato in
quei giorni. Seguì Gera e Chas in giro per la città, e per qualche
ora non pensò più a nulla. Dimenticò i demoni, i fantasmi,
l'Oscurità Crescente e tutto il resto, e un po' alla volta si
rilassò.
«Me
lo fai vedere ancora?» chiese Gera, quando John gli mostrò un
giochetto semplice semplice di mentalismo, una cosetta da
prestigiatori che però aveva sempre un certo fascino, soprattutto
sui bambini. Qualche istante dopo, Chas tornò con il gelato per Gera
e li trovò intenti a discutere animatamente.
«C'è
un trucco, zio, non sono mica scema,» diceva lei.
«Forse
sì, forse no. Ma se te lo dico, poi che gusto c'è?» la scherniva
lui, con il suo bel sorriso da truffatore trionfante.
«Tanto
lo scopro,» lo sfidò lei, guardandolo dritto negli occhi.
«E
io dico di no,» replicò John, sollevando un angolo della bocca: e
Chas ebbe l'impressione di assistere alla discussione tre due
bambini,
invece che tra un adulto e una bambina. Posò il gelato di fronte a
Gera, un bicchiere di caffè lungo davanti a John e un altro per sé.
«Papà,
zio John imbroglia!» Gli disse la bambina, non appena si sedette.
«Può
darsi,» ammise l'interpellato, sorridendo. Ringraziò Chas per il
caffè, visto che non glielo aveva nemmeno chiesto: ma l'altro sapeva
sempre cosa gli andava, senza neanche bisogno che lo dicesse.
Chas
scosse la testa, guardandoli con una certa dolcezza negli occhi. Lui
non se ne accorse, ma a John non sfuggì. L'esorcista pensò che era
davvero una bella sensazione vederlo così sereno.
«Non
litigate, su» disse Chas, sentendosi come un baby sitter alle prese
con due marmocchi difficili.
«Lo
scoprirò,» promise Gera a John, prima di aggredire il gelato.
Le
ore erano passate fin troppo in fretta. Il primo giorno insieme era
volato via, e ora erano di nuovo davanti alla casa di Gera, sotto una
fila di lampioni accesi a rischiarare la sera.
«Mi
dispiace che devi già andare via,» disse Gera a Chas, che la prese
in braccio e la abbracciò.
«Abbiamo
anche domani, tesoro» la rassicurò, baciandola sulle guance. «Vai
a riposare adesso, ok?» La bambina annuì.
«Mi
accompagni?» chiese, la mano piccola chiusa attorno a quella grande
e attenta di Chas, che si voltò a guardare John, confuso.
John
era appoggiato all'automobile e li guardava; sorrise e gli fece un
cenno col capo, come a dire che andava bene, che poteva andare, che lo avrebbe aspettato
lì e non si sarebbe mosso di un millimetro.
«Ok,»
rispose Chas. Prima che si avviassero verso la porta di casa, Gera si
voltò per abbracciare John, aggrappandosi alla stoffa del suo
trench.
«Ciao,
zio imbroglione,» disse. John le accarezzò la testa, un po'
sorpreso. Rimaneva sempre leggermente stordito di fronte a
manifestazioni d'affetto incondizionato come quelle.
«Buonanotte,
love,»
le rispose, ammorbidito.
Chas
non si trattenne più del necessario, soprattutto per evitare altre
discussioni con Renée – la quale invece, dalla faccia che aveva,
doveva averne molta voglia. Lui e John si rimisero in macchina.
«Come
ti senti?», chiese Chas, prima di accendere il motore. John si
rilassò sul sedile passeggero, lo guardò.
«Bene,»
disse, annuendo. «Davvero.»
Si
diressero alla pensione dove avrebbero trascorso la notte – la
stessa in cui Chas era solito prendere una stanza, quando andava a
trovare Gera da solo, - e davvero John si sentiva meglio, tant'è
che, diversamente dal solito, si addormentò non appena toccò il
cuscino.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Colpa ***
CHASTANTINE 8
Astra.
John
sentì la tensione crescere. I suoi occhi, la sua pelle scura. La sua
voce che lo chiamava.
Quella
bambina era innocente.
Quella
bambina era all'inferno.
Per
colpa sua.
John
si svegliò di soprassalto, le mani artigliate alle coperte e il
cuore che batteva contro il petto come se volesse uscire. Si accorse
di aver urlato solo quando vide la grande sagoma scura di Chas
emergere dalle coperte, nel letto accanto al suo, e accendere di
corsa la luce.
«John!
» L'altro si alzò, fu subito vicino.
John
era bianco come un lenzuolo, tremava. Si passò nervosamente una mano
tra i capelli, cercando di riprendere a respirare. Chas gli prese una
mano, la tenne saldamente stretta, mentre con l'altra gli
accarezzava con dolcezza una guancia.
«Di
nuovo?» chiese.
«Sì.»
John annuì, con un filo di voce. «Adesso passa.» Aprì il cassetto
del comodino , alla ricerca delle sigarette e dell'accendino. Per tre
volte accese la fiamma senza riuscire a centrare la sigaretta, tanto
gli tremavano le mani; perciò gettò tutto per terra, frustrato.
«Merda!» esclamò, scuotendo la testa e coprendosi la faccia con le
mani. Odiava sentirsi così, odiava sentirsi debole, odiava essere
perseguitato dagli incubi...
Dalla
colpa.
Chas
gliele prese entrambe, le mani, stavolta, obbligandolo a scoprirsi e
guardarlo. Non era la prima volta che John si svegliava nel cuore
della notte in preda al panico. E ogni volta, la paura aveva a che
fare con quella notte in cui aveva stretto il patto con Nergal, quel
demonio, e a farne le spese era stata una bambina.
Astra,
il nome di una stella. Ora brillava negli inferi, condannata a stare
con quel demone finché John non fosse riuscito a batterlo.
«John...»
«Non
finirà mai, Chas.» John aveva gli occhi lievemente cerchiati di
rosso, appena appena inumiditi. Vederlo così era una pugnalata nel
cuore.
«Sì
che finirà,» disse Chas, guardandolo negli occhi. Erano entrambi
ancora assonnati e confusi per il risveglio improvviso, ma i
sentimenti uscivano lucidi e netti. «Ogni giorno in più...»
cominciò, liberando una mano per accarezzarlo sui capelli. «Ogni
volta che rispediamo un demone al suo posto... Ogni volta, ci
avviciniamo un po' di più alla fine di questa storia. E alla
liberazione di Astra, hai capito?» John teneva gli occhi bassi.
«Guardami,» gli ordinò Chas.
L'altro
obbedì, anche se così si sentiva ancora più scoperto. C'erano
momenti in cui non riusciva ad avere controllo sulle proprie
reazioni, e questo lo spaventava. Ma se c'era Chas, a guidarlo,
allora poteva anche permetterselo. Poteva perdere il controllo di sé
stesso, poteva permettersi di sentirsi debole, perché sapeva che
c'era Chas pronto a prenderlo, a sorreggerlo, a impedirgli di
scivolare. Chas sapeva tutto di lui, sapeva sempre come prenderlo. E
l'unico di cui John si fidasse ciecamente era lui.
Era
l'unico che non aveva mai approfittato delle sue debolezze, anzi. Lo
aveva custodito e protetto quando si era sentito fragile, lo aveva
difeso da tutto quello che avrebbe potuto fargli del male. E poi lo
aveva rimesso in piedi, tutte le volte: con cura, con pazienza, con
amore. Lo aveva aiutato a tornare forte, a riprendere in mano la
situazione.
Chas
era sempre stato con lui, nei momenti peggiori. Persino a
Ravenscar...
«John,
ce la faremo.»
…Persino
a Ravenscar, quando John aveva deciso di farsi ricoverare, Chas era
sempre stato con lui. Andava a trovarlo ogni giorno. A volte, gli
elettroshock avevano surriscaldato i neuroni di John così tanto che
non riuscivano a scambiarsi una parola per ore. Eppure, Chas non
aveva desistito. Continuava a presentarsi tutti i giorni, e a
portargli i biscotti. Biscotti.
Un gesto così normale,
così patetico. Ma davvero sperava che potesse risvegliare in lui un
qualche tipo di interesse. Torna
a casa, avrebbe voluto
dirgli Chas. Non hai
bisogno di stare qui. Ci penso io a te, te lo prometto.
«Non
sono abbastanza,» mormorò John, affranto. «Ho giocato contro un
avversario troppo forte, e ho perso. Stavolta io non so se--»
«John,
tu ce la farai, come hai fatto sempre,» lo interruppe l'altro, con
un tono che non ammetteva repliche. «Altre volte ti è sembrato che
gli ostacoli fossero troppo grandi, ma poi abbiamo comunque trovato
un modo di superarli. O di aggirarli,» gli ricordò. «Perciò non
devi dubitare mai, nemmeno per un istante, di potercela fare.»
John
lasciò vagare i propri occhi scuri sull'altro. Le mani di Chas, il
suo calore, la convinzione con cui parlava, erano il conforto
migliore che potesse ricevere: gli facevano riacquistare piano piano
fiducia in sé stesso. Restò in silenzio per un po', cercando di
schiarirsi le idee. Infine sospirò, cercando di dimenticare le
immagini del suo incubo – la bambina, il demone; gli artigli di
lui, le mani di lei. E le richieste di aiuto, aiuto, aiuto...
«Ok...
Ok.» Respirò profondamente. «È stato solo... Un momento,» disse,
cercando di sembrare convincente.
Senza
attendere che aggiungesse altro, Chas si chinò verso di lui e lo
baciò.
John
si sentì immensamente sollevato da quel gesto, e lo accettò
chiudendo gli occhi, cercando di perdersi nella sensazione – poteva
cacciare via il malessere, poteva restituirgli serenità, lo sapeva.
Doveva soltanto tenere le palpebre chiuse, sincronizzare il respiro
con quello di Chas, e sarebbe andato tutto bene.
Il
modo in cui l'altro lo accarezzava era così attento, così delicato,
che riuscì a strappargli ogni brutto pensiero dalla testa. Quando si
separarono, John non era ancora pronto. Voleva che Chas continuasse a
restargli vicino, ma non aveva idea di come chiederglielo senza
doversi vergognare troppo. Si sarebbe sentito un po'... Un po'
stupido, a chiedergli di dormire insieme nonostante, in pratica, lo
stessero già facendo. C'erano meno di cinquanta centimetri tra i
loro letti, a voler essere generosi. Ma erano troppi, continuavano ad
essere troppi, perché John voleva stargli addosso come quando
dormivano al mulino. Non conosceva sistema migliore per calmare i
nervi. Era persino meglio dell'alcol, meglio delle sigarette.
«Aspetta,»
disse Chas, alzandosi. Spostò con un gesto il comodino tra i due
letti, poi girò intorno al proprio e, semplicemente spingendo un
paio di volte col piede, lo avvicinò a quello di John. L'altro lo
guardò e sorrise.
«Devi
essere telepatico, o qualcosa del genere. Davvero,» commentò, ora
pienamente tornato in sé.
«Ora
smettila di chiacchierare e dormi,» replicò Chas, spingendogli
delicatamente una spalla per invitarlo a distendersi. John obbedì.
Quando l'altro si sdraiò accanto a lui, l'esorcista gli si
raggomitolò addosso, premendo la guancia sul suo petto. La quiete
che apparentemente aveva recuperato duro solo pochi secondi, perché
poi ricominciò a parlare.
«Dico
sul serio. Forse, col passare del tempo, hai sviluppato una forma di
empatia che--»
«Sssst.»
«Ok,
ok. Ora smetto.»
«Zitto,»
gli ordinò Chas, fermo ma dolce, accarezzandogli lentamente la
testa, le spalle, la schiena, e poi risalendo. Sapeva che John era
drogato di attenzioni semplici come quelle, anche se non lo diceva
mai, anche se non le chiedeva mai – mai poi approfittava di ogni
occasione per farsi accarezzare un po'. Dopo pochi minuti, entrambi
sentirono di nuovo il sonno che premeva sugli occhi.
«Notte,»
disse Chas.
«Notte,»
mormorò John.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Giochi di prestigio ***
CHASTANTINE 9
La
mattina dopo, John ebbe bisogno di qualche secondo per ricordarsi di
dove si trovassero e perché. Aveva trascorso il resto della notte
dormendo beato, e la sensazione di familiarità era così forte che
si svegliò convinto di essere al mulino. Ma poi aveva spostato lo
sguardo sull'orribile carta da parati del piccolo albergo e aveva
pensato che sì, Jasper avrà pure avuto tanti difetti, ma di sicuro
non avrebbe mai rivestito le pareti del mulino con quel motivo
agghiacciante. Sentì il calore e il peso del braccio di Chas attorno
alla vita, e lo sentì mugugnare qualcosa nel sonno – sembrava
proprio un orso, a volte, col suo modo di emettere versi animaleschi
e anche un po' inquietanti.
Dopo
aver fatto colazione ed essersi preparati rapidamente – nessuno dei
due menzionò l'episodio della notte appena trascorsa, - si
presentarono di nuovo davanti a casa di Geraldine, e stavolta John
vide Chas discutere con quell'arpia di Renée. Non ci voleva un genio
per capire quale fosse il motivo del litigio: lei non lo voleva lì.
Non voleva che quel delinquente farabutto rubamariti alcolizzato
pervertito - e magari anche un po' tossicomane - di John
Constantine portasse sulla cattiva strada la piccola Gera. La bambina
raggiunse l'automobile da sola, sporgendosi dal sedile posteriore per
dare un bacio sulla guancia a John. Lui la accarezzò rapidamente
sulla testa, sperando che la discussione finisse presto.
«Mamma
dice che sei una brutta persona, ma secondo me non è vero,» disse
Gera candidamente.
John
sospirò, lasciandosi andare sul sedile.
«Forse
ha ragione,» mormorò, con una leggera punta di disagio nel petto,
ripensando all'incubo della notte prima. I bambini tendevano a fare
una brutta fine, quando capitavano nel suo raggio d'azione.
Decisamente.
John
vide Chas, arrabbiato, chiudere la porta e raggiungerli con poche
falcate – uno dei vantaggi di essere alto due metri. Nel breve
tragitto dalla porta di casa alla macchina, il più grande si sforzò
di assumere un'espressione meno incazzata; ma, quando gli si sedette
accanto, John percepì chiaramente quanto fosse nervoso.
«Tutto
bene?» si azzardò a chiedere, anche se sapeva che non andava
affatto bene. Chas gli rivolse un'occhiata che diceva No, non
riesco ancora a capire come possa essere stato così stupido da aver
sposato quella stronza, una volta; ma queste sono le ultime
ventiquattr'ore che passiamo tutti e tre insieme e non voglio
pensarci, non voglio rovinarle.
«Tutto
bene,» rispose invece, mettendo in moto. John gli accarezzò
discretamente la mano e la gamba, mentre partiva, e Chas gli rivolse
uno sguardo un po' meno teso.
John
si accoccolò sul sedile mentre Gera e Chas chiacchieravano –
sentirli discutere era l'esperienza più meravigliosamente normale
che John avesse mai provato, - e senza rendersene conto restò a
guardarlo, per tutto il viaggio, con un'espressione di vaga
adorazione sul viso. Sapeva che Chas aveva preso le sue parti ancora
una volta, sapeva che Chas lo avrebbe sempre difeso da chi parlava
male di lui: e sperò di essere all'altezza di tanta fiducia. Sperava
di poter ricambiare, un giorno, tutto il bene che Chas aveva fatto
per lui. Ma non sapeva, davvero, se ne sarebbe stato capace. Forse
era davvero una brutta persona. Forse, anche se le sue intenzioni
erano buone, non poteva proprio fare a meno di fare del male alle
persone che aveva intorno.
Di
condannare gli innocenti.
Astra.
Si
obbligò a non pensarci, ma era difficile. A Chas non sfuggì il suo
calo di umore.
«John,
resta qui. Con noi. Ora,» disse soltanto, guardandolo
dritto negli occhi e restituendogli una lieve carezza lungo il
braccio.
John
annuì, cercando di riprendere il filo del discorso che Gera aveva
cominciato – ma quanto parlava, quella bambina? - e di
inserirsi nella discussione. Lei era contenta di parlare con lui: era
curiosa, perché lo vedeva poco e perché lo zio John sembrava
davvero diverso dalla gente normale, era una miniera di
sorprese. Insistette affinché John le facesse vedere altri trucchi,
e lui la assecondò. Passeggiarono a lungo, tutti e tre insieme –
Gera in mezzo e loro due ai lati, tenendole una mano ciascuno; e per
John era davvero strano camminare in quel modo, come se quella fosse
anche la sua famiglia, come se fosse normale, come se ne facesse
parte, - e con la giornata sfumarono anche le preoccupazioni. Quando
fu sera, Gera era stanchissima, e Chas si offrì di portarla in
braccio per l'ultimo tratto di strada che la separava da casa. John
sorrise obliquo, con la sigaretta – rigorosamente spenta, perché
di fumare in presenza della bambina non se ne parlava proprio, -
appesa all'angolo della bocca. Chas aveva un sacco di qualità. Il
suo continuo preoccuparsi per gli altri, per la loro felicità e il
loro benessere, lo rendeva la persona migliore che si potesse avere
accanto.
John
si sentì fortunato.
«Quando
ci rivediamo?» chiese Gera, mentre il padre la posava delicatamente
a terra, sul vialetto d'ingresso.
Chas
sembrò preso alla sprovvista. Non sapeva mai cosa rispondere... Non
con la vita che faceva. Non sapeva se la volta successiva sarebbe
stato tutto così tranquillo, o se avrebbe dovuto rinunciare di nuovo
a vedere Gera per qualche missione.
«Non
lo so, piccola,» rispose quindi. Non se la sentiva di mentirle. «Ma
spero presto. Lo sai che ci provo sempre.»
John
si sentì in colpa. Restò in disparte, mentre i due si salutavano,
pensando che, se non avesse mai coinvolto Chas in quel genere di
cose, ora lui sarebbe libero di vedere la figlia quando voleva.
Questo tipo di pensieri fu interrotto quasi subito, però, dalla mano
di Gera che gli scuoteva un lembo dell'impermeabile.
«Verrai
anche tu?» chiese lei, la testa sollevata per guardarlo.
John
si sfilò la sigaretta dalle labbra e la ripose in una tasca, prima
di inginocchiarsi per poterle parlare alla sua altezza.
«Non
credo,» disse, accennando un mezzo sorriso. Si sentiva sempre troppo
impacciato, quando doveva relazionarsi con i bambini. «Meglio non
fare arrabbiare tua madre, love.»
Ne
aveva abbastanza di essere giudicato, e per giunta sempre male. Ma
non poteva farci niente. Era tutta la vita che la gente non faceva
che bollarlo come un soggetto dannoso per il resto della società.
Era qualcosa con cui poteva convivere.
L'espressione
di Geraldine si incupì leggermente.
«Quindi
non ci vediamo più?», chiese ancora.
John
non sapeva cosa rispondere. Gli dispiaceva. Quei due giorni che
avevano passato tutti e tre assieme erano stati i più normali e
tranquilli e... Belli della sua vita. Semplici. Ma non voleva
fare il terzo incomodo e infilarsi in una famiglia che non era la
sua.
Evitò
la domanda.
«Vuoi
ancora sapere qual era il trucco per fare quel giochino di ieri?» le
chiese. Gera annuì. John le sussurrò la soluzione nell'orecchio e
le fece rapidamente rivedere il tutto, e la bambina ridacchiò.
«Lo
sapevo che c'era il trucco!», disse, soddisfatta. Poi allungò le
braccia e, del tutto inaspettatamente, gliele mise al collo, lo
abbracciò forte e gli diede un bacio sulla guancia. John subì, del
tutto inerme di fronte alla reazione della bambina.
«Non
è vero che sei cattivo, zio John,» disse lei, e le sue parole
suonarono come un'assoluzione. John chiuse gli occhi, poi si fece
coraggio e prudentemente ricambiò l'abbraccio.
Quanto
vorrei che avessi ragione, pensò, mentre la teneva stretta.
Chas
attese che finissero di salutarsi, poi la prese per mano e la
condusse alla porta. Si scambiò un'occhiata con John, una di quelle
che voleva dire Torno subito, e fu di parola. Probabilmente,
quella mattina si era arrabbiato così tanto che Renée non aveva
voglia di riprovarci. Chas faceva davvero paura, quando perdeva la
calma.
Nel
taxi, rimasero in silenzio per un po'.
«John...»
«Mh?»
«Stai...
Bene?»
L'esorcista
non rispose. Sembrava perso dietro a chissà quali pensieri. Si
sfregò un paio di volte la guancia, irruvidita da un leggero velo di
barba, col pollice.
«Sei
un papà fantastico,» disse infine, con un tono dolce e un sorriso
mite che non erano affatto da lui. Chas lo guardò interrogativo,
prima di rendersi conto che John diceva sul serio, che c'era una
parte di lui che stava prendendo il sopravvento – un lato più
morbido, più incline a manifestare ciò che provava; un lato a cui
Chas non era abituato.
«Dico
davvero,» continuò John. «Non sei con lei tutti i giorni, è vero,
ma... Quando ci sei, sei perfetto. Seriamente.» Sembrava che
parlasse più a sé stesso che con lui, però. «Ci sono padri che ci
sono sempre ma che sono dei veri bastardi,» aggiunse; e i
riferimenti autobiografici in quella frase erano più che evidenti.
«Tu invece ci sei poco... Ma sei speciale.»
Chas
gli prese una mano, la strinse nella propria.
«John,
mi dici che hai?», gli domandò, col tono comprensivo e gentile di
sempre.
L'altro
scosse la testa, si stropicciò gli occhi con la mano libera.
«Niente...
Pensavo, così,» rispose, il tono di chi è leggermente stanco.
La
mano di Chas risalì ad accarezzargli la guancia, e a quel punto John
si voltò a guardarlo. «John, tu sei parte della mia famiglia.» La
voce di Chas era ferma e calma e non c'era traccia di esitazione, in
quelle parole. «Tu e Geraldine siete la mia famiglia.»
Gli
occhi di John sembravano ancora più scuri, ancora più caldi.
«Lo
pensi davvero?»
«Sì.»
John
deglutì.
«Ho
così tanta paura di sbagliare,» ammise. «Anche quando cerco di
fare qualcosa di buono, finisco col mandare tutto a puttane. Che
palle,» ringhiò. Aveva un'aria così smarrita e corrucciata che
invitava ad abbracciarlo e non lasciarlo andare mai più.
«Non
succederà,» lo rassicurò Chas, passandogli delicatamente una mano
tra i capelli. John inspirò profondamente, poi espirò, con
lentezza.
«Tu
sei tutto quello che ho,» confessò infine, e gli sembrò già di
aver sbagliato qualcosa, soltanto per averlo detto. Chas strinse di
nuovo la sua mano – stava diventando un gesto frequente, segno che
entrambi avevano bisogno di contatto – e lo guardò negli occhi per
un tempo indefinito, per un istante lunghissimo in cui John si sentì
nudo e scoperto.
«Smettila
di aver paura, John,» mormorò Chas, circondandogli le spalle con un
braccio. Quando premette le labbra sulle sue, la bocca di John si
schiuse docilmente, come se ne avesse abbastanza di tenere alta la
guardia. Mentre lo esplorava delicatamente, Chas gli sfiorò il collo
e sentì il suo battito sotto i polpastrelli. Forte, veloce. Quando
ripresero il contatto visivo, si resero conto entrambi che anche un
altro tipo di sentimento, ora, stava affiorando. Si chiamava
attrazione, desiderio; li spingeva ad approfondire quel bacio e poi a
spingersi un po' più oltre. Ma avevano deciso di procedere un passo
alla volta, piano piano; così si costrinsero ad accantonarlo, almeno
per il momento, anche se faceva male. John non aveva mai avuto più
bisogno di qualcuno come in quel momento, e Chas non aveva mai
sentito attrazione più forte di quella che stava provando allora –
quando aveva sentito il battito chiaro ed emozionato di John, e lo
aveva sentito vivere sotto le sue mani, aveva provato il desiderio di
stargli dentro, di sentirlo vivere fino in fondo, di fondersi con
lui, di diventare un tutt'uno. Si piacevano, si erano sempre
piaciuti ed erano sempre stati attratti in un modo contorto l'uno
dall'altro, anche se ci avevano messo una vita a capirlo.
Il
viaggio verso l'albergo fu silenzioso e teso.
Ognuno
restò nel proprio letto, quella notte, ma nessuno dei due riuscì a
chiudere occhio.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Assurdoinsolitoassolutamenteadorabile ***
chastantine 10
«Ha
telefonato Zed,» annunciò Chas, il giorno dopo.
Erano
tornati al mulino che era quasi ora di pranzo, dopo svariate
difficoltà. Erano successe molte cose strane, quella mattina, e non
sapevano come spiegarsele.
«Dice
che forse riesce a tornare oggi,» aggiunse Chas, avvicinandosi al
tavolo per scrutare cosa avesse attirato così tanto l'attenzione di
John, che da un paio d'ore se ne stava chino su un libro con uno
strano aggeggio in mano – sembrava un ingranaggio, o qualcosa del
genere, ma aveva l'aria di essere antico e di certo non proveniva da
un motore.
«A-ah,»
mugugnò distrattamente John, con una righina di concentrazione tra
le sopracciglia, agitando l'affare misterioso.
«Cos'è
quel coso?» domandò Chas, allungando una mano per sfiorarlo.
«No!»
esclamò John, allarmato, scostandolo bruscamente. «Non toccarlo.
Proviene dall'impalcatura della torre di Babele,» spiegò. «Traduce
tutte le lingue sconosciute dell'universo, se chi lo tocca è
protetto dall'apposito incantesimo; ma, se lo tocchi senza
protezioni, potrebbe avere degli effetti collaterali molto gravi.»
«Tipo?»
«Tipo,
potresti cominciare a parlare in un idioma morto da quattro millenni,
e io potrei non capirti. Oltretutto, il processo è irreversibile,»
John chiuse l'aggeggio di Babele tra le pagine del libro, alzando lo
sguardo sull'altro. «Va bene che sono abituato a tradurre i tuoi
grugniti, ma questo... Be', è tutta un'altra storia,» ghignò, in
quel suo solito modo strafottente. «Ma che simpatico,» lo
rimbrottò Chas, aggrottando le sopracciglia.
«Zed
ha scoperto qualcosa sui giri loschi del paparino?», chiese di
rimando John. Che il padre di Zed non fosse candidabile per il premio
papà dell'anno era assodato. Quello che ancora restava da
scoprire era quanto fossero loschi, quei suoi giri, e su
quanti appoggi potesse contare. Zed ormai gli aveva dichiarato guerra
e aveva deciso che era stanca di fuggire da lui: era arrivato il
momento di combatterlo. Sabotava i suoi piani in ogni modo possibile.
«Solo
che è invischiato fino al collo con la Brujeria, anche lui,»
commentò asciutto Chas. «Ma sembra che ormai tutto il mondo ne
faccia parte,» constatò, mestamente.
John,
nel frattempo, si rigirava tra le dita un fiammifero spento.
«Da
uno che vuole sfruttare i poteri psichici della figlia per i propri
scopi, non mi aspettavo nulla di meglio,» rispose. Il fiammifero
prese fuoco da solo. Lo spense.
«Dovremmo
starle vicino,» disse Chas, preoccupato.
Sempre
pronto a prodigarsi per il bene altrui, pensò John, dandogli
un'occhiata rapida e accennando altrettanto rapidamente un sorriso.
«Lo
faremo,» rispose l'esorcista. «Combatteremo con lei, e chiuderemo
questa storia una volta per tutte. Non abbiamo scelta,» rifletté.
Non avrebbe mai pensato di trovarsi con un carico di responsabilità
così pesante sulle spalle, ma era successo. Ce l'aveva, e Manny si
faceva vivo, una volta ogni tanto, per ricordarglielo. Mai una volta
che muovesse il culo quando ne avevano bisogno, però, pensò John.
Sarà stato pure un angelo, ma come custode faceva piuttosto schifo--
Fu
in quel momento che un fruscio e uno spostamento d'aria attirarono
l'attenzione di entrambi. La luce nella stanza cambiò, tutto il
resto si fermò. John vide che il fascio di pulviscolo luminoso che
solitamente aleggiava di fronte alla finestra aperta era
perfettamente immobile. Nessun movimento, nessuno slittamento di
spazio e tempo.
L'angelo
ritirò le ali con la solita teatralità.
«Quanto
ti piace fare questa scena tutte le volte, eh?» lo schernì John,
con sarcasmo evidente nella voce. «Sembri un pavone che fa la
ruota.»
«Ma
chi diavolo--? Lo conosci?» domandò Chas, disorientato, e John si
voltò sorpreso. Di solito, le visite di Manny restavano tra loro
due, escludendo il resto dei presenti. Quella volta, invece, l'angelo
aveva scelto di mostrarsi anche a Chas. Strano.
«Diavolo
non è la scelta lessicale più appropriata.» L'angelo
parlò, posando le iridi giallo dorate su di loro e avvicinandosi di
qualche passo, dopo essersi spolverato la giacca con disinvoltura.
«Chas,
questo è Manny,» disse John. «E di solito porta brutte
notizie, oltre che brutte giacche.»
La
creatura angelica non raccolse la frecciatina. Girò intorno al
tavolo, studiando in silenzio i volumi che John stava consultando
fino a un istante prima. All'esorcista non piaceva, quel suo
atteggiamento: gli sembrava che lo stesse esaminando, e la cosa lo
irritava non poco. Aveva sempre l'impressione che Manny cercasse di
ricordargli che era solo una pedina e doveva limitarsi ad obbedire,
ma a John questo non stava affatto bene. Aveva accettato di
ricacciare indietro l'Oscurità Crescente nel tentativo di riscattare
la propria anima e di riparare agli errori che aveva commesso – uno
su tutti, la brutta fine di Astra, - ma questo non significava che
quel coglione con le ali potesse disporre di lui come un oggetto. Non
era la prima volta che litigavano a riguardo.
«Ho
un incarico per te,» disse infine l'angelo. Gli occhi dorati
risplendevano troppo, erano quasi inquietanti, in contrasto con la
pelle scura. «Devi partire subito. Sta succedendo qualcosa in New
Mexico.»
John
sentì il fusibile della pazienza che gli scoppiava nel cervello,
come tutte le volte.
«No, non devo andare in New Mexico. Ho
già abbastanza da fare qui,» rispose, allargando le braccia
per mostrargli la confusione che regnava nel mulino. «Sono stato via
due giorni e tutti i demoni del circondario sono usciti fuori a fare
festa. Non sono in vena di fare altre trasferte finché non avrò
riportato la situazione alla normalità, da queste parti,» disse.
Manny scosse la testa.
«Quelle
che ricevi da me non sono richieste, John. Sono ordini.»
Piantò i suoi occhi alieni sull'esorcista. L'angelo appariva calmo,
ma si intuiva la rabbia che stava per esplodere. Chas si mosse
istintivamente a protezione di John, e l'angelo lo guardò.
«Tranquillo, non farò del male al tuo amico,» lo rassicurò.
«Anche se una bella lezione gli servirebbe.»
«Certo
che non puoi,» disse John, spazientito. «Ti servo. Dove lo
trovi un altro stronzo che si sporca le mani con tutta la merda che
ti sei fatto scappare dall'inferno?» Si alzò, puntando le mani sul
tavolo, e fronteggiò lo sguardo dell'angelo con una smorfia di sfida
che conteneva anche un po' di derisione. «Quando ti chiamo io, sei
sempre in giro a fare chissà che. Perciò no, non mi muoverò di
qui, perché questa zona è diventata Mostrolandia e ieri sera
una tizia è stata mangiata dal marito. Non sta scritto da nessuna
parte che io debba fare tutto quello che dici.»
John
si stava davvero arrabbiando. Quando lui e Chas erano tornati,
avevano scoperto che il mondo intorno a loro era in preda alla
follia. Mostriciattoli che uscivano dai tombini, poltergeist che
gettavano nel panico interi condomini, alberi che prendevano vita e
strangolavano la gente, macchine che investivano i passanti da
sole. Sembrava che quella parte di Terra fosse diventata una
succursale dell'inferno. John era rimasto piuttosto contrariato dopo
essersi reso conto della gravità della situazione, perché sapeva
che avrebbe dovuto faticare come un matto per rimettere tutto a posto
– motivo per cui aveva cominciato a consultare i libri più antichi
della collezione di Jasper, con l'ausilio del traduttore universale
di Babele, in cerca di una soluzione. Ma niente, sembrava che nulla
potesse aiutarli, e che dovessero soltanto rimboccarsi le maniche e
lavorare sodo.
L'arrivo
di Manny era un'ulteriore distrazione. Con le sue pretese assurde e i
modi da dominatore del mondo, già non godeva della simpatia di John.
In un momento come quello, poi, era davvero l'ultimo con cui avrebbe
voluto fare due chiacchiere. Soprattutto se veniva per imporgli degli
ordini inconcepibili che avrebbero avuto, come unico risultato,
quello di mandare ulteriormente a puttane la situazione.
Manny
lo incenerì con lo sguardo.
«Se
dico che devi andare, tu vai. So benissimo quali sono le
condizioni, qui.»
«No,
non lo sai! Non hai dovuto ripulire tu quel che rimaneva di un povero
autostoppista mentre i necrofagi facevano un maledetto
banchetto!» Mentre rincasavano, all'alba, si erano trovati davanti
un brutto scenario. I necrofagi solitamente si annidavano nei
cimiteri sconsacrati e non attaccavano gli uomini; ma qualcuno di
loro doveva aver deciso di fare una gita fuori porta e, già che
c'era, di consumare cibo locale. Di quel ragazzo non era
rimasto quasi niente, e John aveva dovuto improvvisare un falò con
la benzina della macchina, mentre Chas li respingeva colpendoli sulla
testa con il cric. Alla fine erano riusciti a incenerirli tutti, ma
non avevano idea di quante altre vittime avessero fatto, nel corso
della notte. Era stato un rientro davvero traumatico. «Non posso
allontanarmi da qui. Ripassa domani, eh?»
L'angelo
non apprezzò il tono di John. Manny non aveva senso dell'umorismo,
anzi: tendeva a reagire sempre in maniera troppo drammatica e
teatrale, quando perdeva la pazienza.
«Forse
hai bisogno che ti ricordi come stanno le cose,» sibilò Manny,
sotto lo sguardo diffidente di Chas. L'angelo e l'esorcista
continuavano a guardarsi in cagnesco.
«Ok,
uhm, senti,» disse il più grande, frapponendosi tra loro due. «Non
so chi sei e non so esattamente cosa state combinando, ma credo che
dovreste darvi una calmata e discutere in modo più... Pacifico, va
bene?» Guardandolo bene, Chas constatò che gli occhi di Manny
sembravano quelli di un gatto alieno: persino la pupilla era stretta
e allungata. Non sapeva se questo Manny fosse un tipo ragionevole
oppure no, ma Chas era sempre pronto a fare da mediatore per evitare
che la situazione degenerasse.
L'angelo
lo scrutò, in risposta, come per soppesarlo.
«Tu
sei davvero un alleato fedele,» sentenziò. «Una delle tante cose
che questo ingrato non sa apprezzare,» aggiunse poi, rivolto a John,
con uno sguardo di fuoco.
L'esorcista
invitò Chas ad allontanarsi, prendendolo per un braccio.
«Stanne
fuori, amico,» borbottò. E poi, rivolto a Manny: «Tu... Davvero
non dovresti essere qui.»
Manny
non sembrò impressionato dal tono che l'altro aveva usato. «Dovresti
imparare a riconoscere chi sta dalla tua parte, John,» lo
rimproverò. «Gli ordini che ti impartisco servono a mantenere
l'equilibrio--», cominciò, ma John non gli diede il tempo di
finire.
«Falla
finita con questa stronzata dell'equilibrio!», sbottò. «Se proprio
vuoi che mi allontani, allora risolvilo tu questo casino!»
Era davvero arrabbiato. Questa storia degli ordini dall'alto lo
faceva uscire di testa, tutte le volte, lo faceva sentire usato. «Ma
non lo farai, nemmeno questa volta, perché non puoi interferire e
bla, bla, bla, giusto?» Quasi ringhiò, esasperato. «Allora sai che
ti dico? Che puoi andare affan--»
Prima
che potesse accorgersene, prima che persino Chas potesse fare
qualcosa, una luce più forte esplose nella stanza. Per qualche
istante, i due umani rimasero quasi accecati. Uno strano fumo denso
si levava tutt'intorno, e lo spostamento d'aria aveva sparpagliato in
giro un po' di carte e alcuni oggetti. Quando Chas si guardò
intorno, non vide più John.
«Ma
che cazzo--?» Istintivamente, fregandosene del fatto che fosse un
angelo e potesse incenerirlo con un'occhiata, Chas afferrò Manny per
il bavero della giacca e lo sollevò. «Dov'è John?» chiese,
intimidatorio. L'altro rimase impassibile e accennò un sorriso, con
quei suoi occhi strani che brillavano di furbizia. «Esattamente
dov'era prima. Guarda meglio,» disse, e Chas lo posò a terra e si
voltò.
Seduto
sulla sedia, con i vestiti che gli penzolavano addosso troppo grandi,
l'aria smarrita e il labbro inferiore contratto in una smorfia di
broncio, c'era un marmocchio che poteva avere al massimo quattro anni
- a voler essere generosi. E aveva i capelli biondi come John, gli
occhi scuri come John, il naso dritto come John – linee appena
appena smussate dai pochi anni d'età, - gli angoli della bocca
leggermente all'ingiù come John e il mento sollevato in una di
quelle smorfie strafottenti tipiche di John, ma--
…Non
poteva essere John.
«...È
uno scherzo, vero?» domandò Chas, confuso.
L'angelo
girò attorno alla sedia mentre miniJohn lo guardava come se
avesse voluto saltargli addosso e graffiarlo – e magari spennarlo,
una piuma alla volta, con le proprie mani. Gli diede una pacca
affettuosa sulla testa a cui il bambino si sottrasse, guardandolo
storto.
«Diciamo
più un bel bagno d'umiltà,» rispose Manny, con la consueta
compostezza. «Gli farà bene.» E un attimo dopo, non c'era più.
Chas
si guardò attorno, smarrito.
«Aspetta!
Ma quanto dura questa cosa?» chiese, rivolto al nulla. «Manny!»
chiamò. Nessuna risposta.
Si
voltò, e vide che miniJohn stava cercando di sfilarsi la camicia e
di liberarsi le gambe dai pantaloni. I vestiti del John adulto erano
una specie di camicia di forza, per lui, stoffa inutile che gli
impediva di muoversi. Chas non fece in tempo ad afferrarlo prima che
si sbilanciasse e cadesse dalla sedia con un piccolo tonfo.
«John!»,
esclamò, preoccupato.
Il
bambino si massaggiò un ginocchio, poi alzò gli occhioni grandi e
scuri e guardò Chas con la stessa espressione corrucciata e spaesata
con cui lo avrebbe guardato il John adulto.
«Ahia,»
disse soltanto; poi Chas si accucciò accanto a lui e lo prese in
braccio, sorprendendosi di quanto fosse leggero e di quanto gli
sembrasse familiare e allo stesso tempo estraneo. Il bambino si
aggrappò alle sue spalle e lo guardò con curiosità.
«Ti
sei fatto male?» gli chiese Chas, disorientato. Come doveva
parlargli? Era davvero soltanto un bambino, o c'era ancora una parte
del John adulto e razionale in quel fagottino profumato coi capelli
spettinati?
«'Gno,»
fu la risposta, data seriamente e sempre con quella smorfia alla
John sul faccino morbido e imberbe.
Chas
restò per un secondo a guardarlo in silenzio, sentendosi perso e
preso in giro come la vittima ignara di una candid camera. Il bambino
lo scrutò a sua volta, con i suoi occhi spalancati e pieni di
domande e le guance rosa.
«Oh
merda,» sospirò infine Chas, realizzando che no, purtroppo non si
trattava di uno scherzo. Era tutto vero.
Il
piccolo Johnny ridacchiò per la parolaccia, completamente
inconsapevole dello stravolgimento che aveva appena investito la vita
di tutti loro, lì al mulino.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** John... Anzi, Johnny ***
chastantine 11
«Zed...
Ciao, sì, lo so che stai arrivando... Quanto ti manca? No, non è
successo niente di grave, no, non ti sto chiamando per questo...
Cioè, sì, in effetti è successo qualcosa, ma-- Stiamo tutti bene,
solo-- C'è stato un imprevisto. Senti, non so come spiegartelo per
telefono, penso che dovresti vederlo di persona... No, non ti
preoccupare. Ci vediamo al mulino. Ok, ok. A dopo, ciao.»
Quando
Chas riattaccò, vide miniJohnny che sgambettava in giro
allegramente, tenendo su con entrambe le mani lo strascico di una
maglietta troppo grande per lui – una semplice t-shirt, la più
piccola che Chas aveva trovato: ma ovviamente gli stava enorme, come
una tunica. Sempre meglio che continuare a lasciarlo infagottato
nella camicia e nei pantaloni di John, aveva pensato il più grande,
ma doveva comunque trovargli dei vestiti adatti al più presto. Un
secondo dopo, sul volto di Chas si dipinse un'espressione inorridita
e dovette attraversare la stanza con un balzo per poter acchiappare
Johnny al volo, perché lo spericolato si era arrampicato sullo
scaffale della libreria col chiaro intento di lanciarsi di sotto, in
un'improbabile simulazione di volo.
«Dio,
John, NO.» Chas era esasperato. Cinque minuti di convivenza con il
piccolo John e già non ce la faceva più. «Perché hai questa
pessima tendenza al suicidio?» lo sgridò, ma il bambino ovviamente
non capì e rise. Chas alzò gli occhi al cielo.
«Senti,
io non lo so se sei ancora là dentro e se puoi sentirmi,» disse,
dopo essersi seduto per terra di fronte a Johnny. «Ma ho bisogno di
tutta la tua collaborazione, se vogliamo sopravvivere a questa cosa,
ok?» Silenzio. Chas si sentiva stupido. Il bambino lo guardò con
l'aria perplessa e interrogativa di uno che non ha capito una sola
parola, poi sorrise e si guardò intorno, spensierato, alla ricerca
del prossimo posto da cui buttarsi di sotto. «Ok, come non detto,»
si arrese Chas, sospirando. Poi raccolse il bambino e lo sostenne,
tenendolo con un braccio, mentre con la mano libera cercava le chiavi
del taxi nella tasca dei jeans.
«Adesso
andiamo a prendere un po' di cose,» gli disse; ma tutto l'interesse
di miniJohn era concentrato a passare le manine sulla sua barba. «Poi
torniamo al mulino e aspettiamo che torni Zed, e poi... Poi non lo
so,» ammise, affranto. Guardò il bambino e, per la prima volta da
quando lo aveva tra i piedi, pensò che John era stato un bambino
davvero adorabile, con quel nasino all'insù e l'aria pestifera, e
davvero non riuscì a capacitarsi di come suo padre avesse potuto
avere il coraggio di maltrattarlo. Sentì un lieve moto di rabbia nei
confronti del padre di John, ma lo soffocò rapidamente. Il passato
era passato, e non c'era più molto da fare, in proposito. Tutto
quello che poteva fare, ora, era concentrarsi sui bisogni di John e
rendergli questa parentesi infantile, se non bella, almeno piacevole.
«Fa' il bravo. Ti prego,» lo implorò. MiniJohnny gli mise le
braccia al collo e posò la testa sulla sua spalla. Sembrava calmarsi
un po', quando lo prendeva in braccio.
«Ok,»
concesse Chas. «Così va meglio.»
Lo
sistemò come meglio poteva sul sedile anteriore del taxi, accanto a
quello del guidatore – il posto in cui solitamente sedeva John,
quando viaggiavano. Il taxi non era attrezzato per scarrozzare un
marmocchio, ma Chas fece comunque del suo meglio per tenerlo al
sicuro, mettendogli la cintura e bloccando lo sportello.
«Non
toccare niente,» gli disse. MiniJohn lo guardò, seduto
compostamente accanto a lui, con aria leggermente intimidita. Chas
non riuscì a trattenersi e lo accarezzò sulla testa, arruffandogli
i capelli.
«Non
fare quella faccia. Non sono arrabbiato con te,» lo rassicurò.
MiniJohnny sorrise – e quel sorriso conteneva già una traccia del
ghigno che poi avrebbe caratterizzato il John adulto.
«Chas,»
disse il bambino, perfettamente a suo agio.
«Ti
ricordi come mi chiamo?», domandò l'adulto, con un briciolo di
speranza. Forse, c'era ancora qualcosa del John stronzo cinico e
bastardo, in quella deliziosa creatura.
«Sì,»
rispose il bimbo, estremamente soddisfatto, le manine aggrappate alla
cintura di sicurezza.
«Che
altro ti ricordi?» chiese Chas, speranzoso.
Il
bambino si guardò attorno, assorto, come se si stesse sforzando di
far riemergere un ricordo. Poi si sporse e afferrò qualcosa da sotto
il sedile.
«Le
sigarette!» esclamò felice, come se avesse vinto qualcosa. Chas si
affrettò a sfilargliele di mano, allibito.
«Impazzirò,
me lo sento,» mormorò, lanciando il pacchetto fuori dal finestrino.
MiniJohn lo guardò imbronciato e offeso, a braccia conserte.
«Non
guardarmi così! Ne riparliamo quando torni... Be', quando torni
normale,» balbettò l'adulto, mettendo in moto. Dispettoso, con
un'innata tendenza a farsi del male e un continuo bisogno di attirare
l'attenzione: se davvero esistevano delle differenze, tra il John
adulto e il John bambino... Be', Chas faticava a vederle.
Seriamente.
Al
supermercato, tenere d'occhio Johnny si rivelò un'impresa
impossibile: il piccolo molestatore si infilava dappertutto, correva
tra i reparti e approfittava della piccola taglia per fare scherzi
alla gente senza essere visto. Chas fu costretto a infilarlo
nell'apposito spazio del carrello, per non perderlo di vista. Il
piccolo John era una vera peste, ma era anche stupendo; e, più
passavano i minuti, più Chas sentiva che si stava affezionando a lui
– nonostante gli risultasse ancora molto strano rapportarsi con
John in quella forma così anomala. Amava il John adulto, e si
sarebbe preso la massima cura del Johnny bambino. Doveva solo fare in
modo che stesse bene fino alla fine di quello strano incantesimo, poi
tutto sarebbe tornato alla normalità. Poteva farcela.
Gli
prese due cambi d'abito e due paia di scarpe, un pigiama, e tutto
quello che poteva servire a un bambino di quattro anni.
Fortunatamente, grazie alla precedente esperienza con Geraldine, Chas
non era del tutto impreparato ad affrontare la cosa. Quando stavano
andando alla cassa per pagare, una signora sulla settantina si
avvicinò al carrello.
«Ma
che bel bambino! È suo?» chiese la donna, e Chas, che era
lievemente esaurito, pensò: No, l'ho rubato. Che razza di
domande.
«Sì...»
rispose invece, anche se poco convinto. Poi vide gli occhi del
piccolo Johnny brillare di una strana luce, solo per un istante –
lo sguardo di qualcuno che ha appena avuto un'idea malvagia. La
signora non aveva intenzione di schiodare.
«Quanti
anni hai, bel bambino?»
Johnny
alzò quattro dita, esibendosi in un sorriso tutto miele e innocenza
infantile, tanto irresistibile quanto fasullo. Poteva cascarci
chiunque, ma non Chas. Lo conosceva troppo bene per non sapere che,
se Johnny diventava improvvisamente zuccheroso, era perché sperava
di ricavare un qualche vantaggio dalla situazione.
«Ma
che bravo...! Suo figlio è un amore,» insistette l'anziana, ormai
soggiogata.
Chas
non disse nulla, anche se sentire chiamare John “suo figlio” gli
suonava sbagliato. Riuscì a liberarsi della presenza della vecchia
solo quando la fila alla cassa cominciò a scorrere, e la donna
dovette allontanarsi per pagare. Quando anche Johnny e Chas furono
usciti dal negozio, l'adulto scaricò la spesa nel bagagliaio e poi
assicurò di nuovo il bambino al sedile. Johnny lo guardava con aria
compiaciuta.
«Cos'era
quello sguardo, John?» gli chiese Chas, alzando un sopracciglio. «Lo
so che avevi in mente qualcosa,» aggiunse. A quelle parole, il
bambino infilò una mano sotto la maglietta ed estrasse un
portafogli.
All'interno,
la foto sulla carta d'identità ritraeva la povera signora di poco
prima, ignara del furto che aveva subito.
«Piccolo
ladro ruffiano,» commentò Chas, ma era troppo sorpreso per poterlo
sgridare sul serio. Era il genere di cose che il John adulto faceva
di continuo. «Dopo glielo andrò a restituire, ho capito,» sbuffò,
roteando gli occhi.
«Sono
stato bravo?» chiese Johnny, con un sorriso di attesa e speranza.
Chas sospirò. Non sarebbe mai riuscito a sgridarlo, se lo guardava
così.
«Non
si fanno queste cose, Johnny,» gli spiegò soltanto. «Adesso
andiamo a casa, ci cambiamo e aspettiamo Zed, va bene?» Lanciò il
portafogli della signora sul sedile posteriore e accarezzò il
bambino sulla testa. Il marmocchio si liberò velocemente della
cintura di sicurezza – l'escapismo era un'altra delle abilità del
John adulto che evidentemente il John bambino già coltivava – e si
agganciò al suo braccio.
«John,
devo guidare. Siediti,» cercò di dirgli Chas, ma il bambino
continuava a guardarlo con quell'espressione che richiedeva
attenzioni, e alla fine Chas fu costretto a metterselo sulle
ginocchia. «Se ci ferma la stradale mi fa un culo così. Non dovrei
portarti in questo modo, sai? È pericoloso,» borbottò; ma il
bambino rimase accoccolato buono buono contro di lui, saldamente
aggrappato alla sua giacca e con la testa posata sul suo petto per
tutto il viaggio, e Chas proprio non se la sentì di farlo spostare.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3098441
|