Times They're A-Changin'

di Ambaraba
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cose che cambiano ***
Capitolo 2: *** A crashing computer programme ***
Capitolo 3: *** Solo quando perdi qualcosa... ***
Capitolo 4: *** Facciamo finta che sia un segreto ***
Capitolo 5: *** Vietato l'uso di fiamme libere ***
Capitolo 6: *** Ordinaria amministrazione ***
Capitolo 7: *** Family Reunion ***
Capitolo 8: *** Colpa ***
Capitolo 9: *** Giochi di prestigio ***
Capitolo 10: *** Assurdoinsolitoassolutamenteadorabile ***
Capitolo 11: *** John... Anzi, Johnny ***



Capitolo 1
*** Cose che cambiano ***


CHASTANTINE

   Chas era l'unica persona a cui John osasse voler bene davvero.
Nonostante la statura esagerata – due metri netti che obbligavano John a subire dolori cervicali perenni, dal momento che doveva guardare per aria tutte le volte che si parlavano, - era una delle persone più miti che John conoscesse. Non lo aveva mai visto arrabbiarsi – mai sul serio – e, quelle rare volte in cui avevano discusso, Chas non aveva mai perso la calma. Le cose che irritavano Chas avevano quasi sempre a che fare con la coglionaggine di John, e con la tendenza che questi aveva a mettersi nei guai o farsi del male. Quindi, in ultima analisi, anche quando Chas alzava la voce lo faceva soltanto perché era preoccupato per lui. E nessuno aveva mai tenuto a John Constantine in un modo tanto spericolato.
   L'espressione tipica di Chas era preoccupazione mista a scocciatura, con un lieve velo di rimprovero per le stramberie in cui John inevitabilmente lo coinvolgeva; ma nei suoi occhi e nei suoi modi si leggeva anche un affetto sconfinato e sincero. Era l'unico di cui John si fidasse ciecamente.
La bontà di Chas non consisteva soltanto nel farsi uccidere ripetutamente dagli abomini soprannaturali che a giorni alterni risorgevano dall'inferno per fare la pelle a John, sebbene già soltanto questo costituisse una prova indiscutibile della profondità di ciò che li legava.
   Chas era dalla parte di John anche quando quell'esorcista stronzissimo e presuntuoso faceva terra bruciata intorno a sé. Non aveva mai fatto un passo indietro, non lo aveva mai lasciato solo, neanche quando John glielo aveva chiesto – o urlato contro, o tentato di indurlo a farlo.
E John sapeva benissimo di quanto, almeno per questo, fosse fortunato.
   Chas era la cosa più simile a una famiglia che avesse mai avuto. Se “famiglia” significava sostegno, calore e fiducia assoluta, allora Chas era la sua famiglia. Senza quel gigante taciturno, che molto spesso si esprimeva a monosillabi quando non addirittura a grugniti, la sua vita sarebbe stata uno schifo.
   Avrebbe voluto dirglielo. Avrebbe voluto dirgli che gli voleva bene più che ad ogni altro, che si sentiva attratto da lui nonostante fosse goffo e ingombrante e le maniche delle camicie gli andassero sempre troppo corte, costringendolo a rigirarle fino ai gomiti. Avrebbe voluto dirgli che senza di lui la sua vita sarebbe stata un orrore, che sarebbe stata breve e priva di colore; avrebbe voluto ringraziarlo perché Chas c'era sempre, coi suoi modi grezzi ma pieni di premure, attenzioni vere e sincere per lui che invece era un coglione e trattava tutti male e non meritava niente.
Avrebbe voluto dirgli un sacco di cose, ma forse il silenzio era la scelta migliore.
   Negli ultimi tempi, le manifestazioni d'affetto di John nei confronti di Chas erano aumentate – non faceva che mettergli le mani addosso, non appena ne aveva l'occasione, - ma qualcosa gli impediva di spingersi oltre un bacetto ogni tanto. L'ultimo in ordine di tempo glielo aveva dato come si deve, ma erano tutti e due mezzi ubriachi e non sapeva neanche se Chas se lo ricordasse, perché non ne avevano più parlato.
Ricordava il sapore dello scotch e l'odore di Chas, tutto barba ruvida che pizzicava sulla pelle. John, ubriaco fino al midollo, era stato lucido abbastanza da attendere pazientemente che l'altro si sedesse, per poterlo fare, perché altrimenti avrebbe dovuto prendere una corda e scalarlo – e, considerato lo stordimento generale che lo annebbiava, avrebbe rischiato come minimo di cadere nel tentativo, procurandosi un trauma cranico. Era stato un bel bacio: per metà consapevole e per metà no, un bel bacio morbido e senza spigoli, un bacio senza confini netti, un bacio che riscaldava.
   John avrebbe davvero voluto di più, a volte, ma non ce la faceva.
Chas era l'unica persona a cui non avrebbe mai voluto fare del male, e non poteva rischiare la loro amicizia. L'unico dato incoraggiante, tuttavia, era che Chas non si era mai rifiutato: e questo era già qualcosa. Tutti i baci che John gli aveva dato, sobrio oppure no, Chas li aveva accettati di buon grado - ricambiando, anche, con una certa spontaneità. Cosa diavolo erano, a quel punto? Amici particolarmente affettuosi?
   Non lo sapeva più neanche lui. Di sicuro, almeno dal suo punto di vista, le cose erano cambiate. Forse erano cambiate già vent'anni prima, quando si erano conosciuti – John ricordava benissimo l'improvviso senso di abbandono e solitudine che lo avevano indotto a sbronzarsi, all'indomani della notizia che Chas stava per sposarsi, e inizialmente non ci aveva dato molto peso. Ma presto aveva dovuto ammettere che era gelosia, e questo comunque non lo aveva fatto stare meglio. John era stato, indirettamente, anche la causa del fallimento di quel matrimonio. Perché Chas sembrava essersene pentito, in un certo senso, e passava più tempo con John che con la propria moglie. Dopo i primi tempi, le cose tra loro erano tornate come prima: erano di nuovo loro due, soli, a ricacciare indietro le schifezze che l'inferno aveva rigurgitato fuori.
   John era stato egoisticamente sollevato nel riavere di nuovo Chas con sé. Non avrebbe mai saputo cosa fare della propria vita, senza di lui. La verità era che John non era capace neanche di badare a sé stesso, e – fra le altre cose, - Chas si preoccupava anche che non morisse di stenti o per la privazione del sonno o per qualche iniziativa irresponsabile - tipica, per uno con un carattere merdoso e incostante come il suo.
Era Chas che gli toglieva la bottiglia di mano quando stava esagerando; era Chas che gli lavava via il sangue di dosso dopo una notte di esorcismi; era Chas che lo prendeva di peso e lo obbligava a sedersi a tavola e lo minacciava con le posate per obbligarlo a mangiare quando non ne aveva voglia. Ed era ancora Chas che gli nascondeva le sigarette per non fargli sputare i polmoni, era Chas che lo portava in braccio a letto quando qualche demone lo riduceva talmente male da non riuscire a camminare, era Chas che gli restava vicino per farlo dormire ed era ancora Chas che sopportava tutti i suoi sbalzi d'umore e i suoi capricci e gli faceva letteralmente da scudo tutte le volte che qualcuno attentava alla sua vita. Era molto più di quello che avrebbe fatto un amico,    John se ne rendeva conto, ma ora la domanda era un'altra. La lancetta interna di Chas era orientata molto più in là della tacca dell'amicizia, ma quanto era vicina a quella di... Be', qualcosa di più?
Avrebbe voluto saperlo. Cristo, quanto avrebbe voluto saperlo.


   Per Chas, occuparsi di John era la cosa più naturale del mondo.
C'erano almeno un milione di motivi per cui avrebbe fatto meglio a tenersi lontano da uno come lui: ma ognuno di questi motivi perdeva importanza, di fronte alle poche ma spiccate qualità che gli avevano fatto scegliere di restare al fianco di John.
   John era una mina vagante. Era volubile, capriccioso, infantile, a volte; ma era anche intelligente e acuto e aveva una visione della realtà lucida e obiettiva, nonostante a volte fosse lui stesso il primo a dimenticarsene e mettere in dubbio le proprie capacità. Era un misto irresistibile di genialità e bisogni insoddisfatti, in una misura tale da far leva sull'istinto protettivo di Chas senza neanche rendersene conto.
   L'ammirazione che Chas provava per John – per il modo in cui conduceva un'esistenza al limite della schizofrenia, circondato da creature di cui le altre persone non sospettavano minimamente la presenza, e per lo spirito irriverente e sfrontato con cui la affrontava – era compensata da un senso di tenerezza verso tutte quelle cose che John invece non riusciva a gestire. Poteva portare a termine cinque esorcismi in una notte ma, quando si trattava di faccende della vita quotidiana, normale, John era completamente perso.

   La sua vita era sempre stata un casino, fin dai primi anni, ed era cresciuto solo e confuso ed essenzialmente abbandonato a sé stesso. Chas aveva raccolto le sue confidenze in centinaia di sere, centinaia di bicchieri, centinaia di chiacchierate a bassa voce, con le mani tremanti e gli occhi arrossati.
Per quanto John si sforzasse di apparire stronzo – riuscendoci quasi sempre, - Chas lo conosceva abbastanza da non farsi ingannare, e gli piaceva sempre di più. Sapeva che John aveva cominciato a farsi coinvolgere in tutto quel macello esoterico per soddisfare il desiderio di poter parlare con la madre, che non aveva mai conosciuto – e per la morte della quale, forse, si sentiva responsabile, complici anche le continue vessazioni del padre bastardo, - e lo trovava nobile. Perché era esattamente così che vedeva John, dietro le battute acide e il fumo spesso di Silk Cut e l'impermeabile che aveva sempre:
nobile.
   Tenerlo in vita – salvandolo da sé stesso, - era la sua priorità. Chas era sempre al suo fianco, sempre, non importava quanto la situazione in cui si trovavano fosse brutta o spaventosa. John aveva la precedenza su tutto, anche sulla paura. Chas era diventato una persona coraggiosa appositamente per proteggerlo. Proteggerlo dai demoni, proteggerlo dal male che veniva dall'esterno. E proteggerlo dal dolore, dal male che veniva da dentro, quel dolore di cui John non parlava mai ma che c'era, come un fastidioso fischio ad infrasuoni inciso su una bella canzone.
   Chas vedeva John esattamente per quello che era. Forte e fragile, determinato ma allo stesso tempo insicuro. Non aveva la minima idea di cosa desiderare dalla vita, eppure la affrontava con una temerarietà esemplare.
E Chas voleva esserci. Nel bene e nel male, voleva stare al suo fianco. Era una delle poche certezze della sua vita. Una di queste era che, tutte le volte che sarebbe morto, avrebbe riaperto gli occhi soltanto per tornare da lui. Perché John era l'unica persona che tenesse veramente a lui.
John lo aveva reso parzialmente immortale solo perché aveva paura che si schiantasse contro un albero guidando ubriaco. John, John il cinico, si era preoccupato di farlo uscire da quel locale con almeno un mezzo centinaio di vite di riserva. John il cinico non era così cinico come voleva far credere.

   Chas sapeva di voler bene a John in un modo vagamente morboso. Avrebbero dovuto esserci dei confini, dei paletti da non superare, ma sapeva benissimo di averli abbattuti da tempo.

NOTE:

Questa ff nasce dopo aver cominciato a vedere l'adattamento della NBC di Constantine – che, notizia dell'ultimo minuto, forse non è del tutto spacciato e quindi potremo avere una seconda stagione ^^ - ed essere caduta inevitabilmente nel baratro della bromance tra lui e Chas :3 Li trovo piuttosto atipici e buffi, come pairing, ma proprio per questo anche adorabili :)
Ho notato con disappunto che qui la serie non è molto seguita (non ha neanche una sezione), ma volevo lo stesso condividere con voi questa storia - che sto buttando giù più come sfogo tra una simulazione d'esame e l'altra che per puro interesse narrativo >.<
A breve arriverà il prossimo capitolo!
In attesa di pareri/commenti/critiche,
la vostra Ambarabà ^^


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Capitolo 2
*** A crashing computer programme ***


chastantine 2

   Quando finalmente spezzarono i limiti, non fu una sorpresa per nessuno dei due.
   John aveva le mani che tremavano e la camicia inzuppata di sangue di demone. Era stanco, esaurito. Si sentiva le gambe deboli, perciò non provò nemmeno ad alzarsi. Restò seduto sull'erba accanto a Chas, vegliandolo, in attesa che le sue ferite si rimarginassero e che tornasse in vita. Si era fatto uccidere, di nuovo, per salvarlo, per dargli il tempo di portare a termine l'incantesimo. Una volta abbattuto il demone, John aveva preso Chas e l'aveva trascinato di peso in un angolo più riparato – non senza qualche difficoltà, - si era tolto l'impermeabile e lo aveva appallottolato per farne un cuscino, gliel'aveva sistemato con cura sotto la testa ignorando la fitta che lo tormentava da qualche parte nel petto. Quella era la parte che odiava. Sapeva che prima o poi le vite a disposizione di Chas si sarebbero esaurite, e temeva quel momento con ogni cellula del proprio essere. Odiava vederlo morire tutte le volte, la sensazione di perdita che lo prendeva mentre gli sedeva accanto, in attesa. Avrebbe dovuto convincerlo a tirarsi fuori da quella situazione, prima o poi. Una volta o l'altra, sarebbe arrivato il momento in cui Chas non avrebbe più potuto permettersi di rischiare la vita senza sapere se sarebbe tornato oppure no... E John non voleva spingersi oltre il limite. Avrebbe dovuto lasciarlo andare, avrebbe dovuto impedirgli di venire con lui, di farsi coinvolgere. Avrebbe dovuto fare a meno di lui, e impedirgli di morire – per l'ultimissima volta - per salvare il culo di un esorcista ingrato. Non era questo che John voleva per lui.
Era l'ultima persona che avrebbe voluto avere sulla coscienza.
   Lo guardò. Teneva ancora gli occhi aperti fissi verso il cielo. I primi tempi era inquietante: in quel momento, era solo normale routine.
   John cercò a tastoni un pacchetto di Silk Cut nella tasca posteriore dei pantaloni, lo trovò, ma poi lasciò stare. Nelle condizioni in cui era, sarebbe morto soffocato, se si fosse acceso una sigaretta. Si avvicinò di più a Chas. Ancora nessun movimento. Era ancora andato.
   «Svegliati,» sussurrò, accarezzandogli i capelli. Gli sollevò un lembo della camicia per controllare la ferita che, fino a pochi minuti prima, si apriva al di sotto, sul fianco. Era del tutto chiusa, e ne restava soltanto una cicatrice rosea e lucida. Stava guarendo. John lasciò andare un sospiro di sollievo, anche se tremava ancora leggermente. Desiderava con tutta l'anima che quello spilungone si svegliasse. Perché aveva preso una decisione. Non voleva sprecare più neanche un minuto del tempo che condividevano. E doveva fare quel passo, dimostrare coraggio e prendersi anche i rischi.
   Aveva bisogno di Chas, un bisogno devastante. Aveva bisogno dei suoi modi rassicuranti, della sua lealtà, della sua presenza. L'unica sicurezza cui aggrapparsi in un mondo caotico.
   John era impaziente e teso, voleva solo che riaprisse gli occhi al più presto per poterlo stritolare in un abbraccio e dirgli quello che doveva dirgli.
   Un rumore soffocato annunciò che il suo desiderio era stato realizzato. Chas annaspò, cercando di riprendere a respirare, sbattendo le palpebre mentre rimetteva a fuoco gli oggetti. Ogni volta che tornava in vita era un piccolo trauma, il cuore batteva come un martello pneumatico e si sentiva profondamente disorientato. La prima cosa che distinse chiaramente fu John; lo sentì stringerlo forte, più del necessario, mormorando parole che il suo udito ancora non riusciva ad afferrare.
   «Stupido,» disse John, abbracciandolo più forte che poteva. Il sollievo gli scorreva dentro come sciolto nelle vene, unito alla profonda tenerezza che provava per Chas e che lo portò a ricoprirlo di baci in un modo insolito, che risultava strano eppure allo stesso tempo normalissimo per entrambi.
Appena fu tornato pienamente in sé, Chas gli posò le mani attorno alla vita e lo allontanò leggermente.
   «John? Stai bene?»
   Era resuscitato da meno di un minuto, eppure la sua preoccupazione era già tutta per John, così nervoso ed eccezionalmente espansivo; così disperato, anche, con l'aria allucinata e un tremore insistente sottopelle.
Chas lo tirò verso di sé, posandogli una mano sulla guancia per obbligarlo a guardarlo in faccia. John era pallido e provato, e questo non andava affatto bene. Avrebbe dovuto portarlo subito a casa e costringerlo a riposare, e--
   Non pensò più nulla, nel momento in cui John gli mise le braccia attorno alle spalle e si chinò a baciarlo. Non fu uno shock: non era la prima volta che succedeva. Ma quasi sempre, era successo quando non erano in grado di controllarsi. Non così, perfettamente svegli e padroni di sé stessi. La prima reazione di Chas fu prenderlo di peso e sistemarselo il più vicino possibile. Non gli era passato per la testa neanche per un attimo di allontanarlo, e non si chiese perché. Sentiva le mani di John sulle guance, ed era una bella sensazione. Sarebbe morto anche altre trecento volte di seguito, se poi ad ogni risveglio avesse potuto avere questo.
   John lo baciò a lungo, con calma, senza fretta. Lo aveva voluto così tanto che, ora che poteva farlo, non ne aveva mai abbastanza. Si prese tutto il tempo che gli serviva. I primi secondi furono tesi, perché non sapeva come Chas avrebbe reagito, una volta ripresosi dalla sorpresa. Ma quando si accorse che non gli dispiaceva, anzi, che lo aveva stretto a sé e aveva ricambiato, l'ansia svanì e John provò soltanto piacere nel fare quello che stava facendo.
Sembrò passare un tempo infinito, prima che si staccassero. Chas continuò a tenere le braccia attorno alla vita di John, che non smetteva di accarezzarlo.
Gli rivolse uno sguardo dubbioso.
   «John-- Non sei...?». Si interruppe a metà, riconoscendo che la domanda che stava per porgergli era stupida – se John fosse stato posseduto, si sarebbe comportato in ben altro modo, - ma era così stordito dagli avvenimenti degli ultimi minuti che pensare gli riusciva difficile.
   «Sono io,» rispose John, sbrigativo, con un sorriso stanco appena accennato, eppure pieno di calore. «Felice di vedere che stai bene.»
   Chas aggottò le sopracciglia. Sentiva ancora un formicolio diffuso, - come tutte le volte che
ritornava, - ma era sopportabile. Si sentiva soltanto confuso, ma quello non aveva a che fare con la recente resurrezione. Aveva a che fare con John, con quel bacio stranissimo che in quel momento, se Chas non avesse avuto le mani ancora saldamente strette all'esorcista, avrebbe potuto giurare di essersi sognato ad occhi aperti. Ma era vero, era successo veramente, e, ora che lo stava realizzando, non sapeva cosa fare.
Lo lasciò andare all'improvviso, staccandosi da lui con un milione di pensieri che gli si sovrapponevano nella testa.
   «Chas--»
Guardandolo in faccia, John si pentì di ciò che aveva fatto. Chas era impallidito di colpo, e sembrava essere andato nel panico. Non lo aveva mai visto così.
John lo afferrò per un lembo del giubbotto, impedendogli di alzarsi.
   «Chas,» ripeté. E poi, con una sfumatura di incertezza: «... Chas?». Avrebbe voluto prendersi a martellate sulle dita, se questo gli avesse consentito di tornare indietro e trattenersi, invece di assalirlo così. Ma forse non doveva tornare indietro, forse doveva solo insistere. Per la miseria, non si era affatto tirato indietro, quando lo aveva baciato! Non doveva permettergli di farsi domande, non doveva lasciargliene tempo. Perciò, lo strattonò con più decisione e lo baciò di nuovo, giusto per mettere le cose in chiaro. Lo sentì trasalire di sorpresa, percepì il suo battito accelerato sotto le dita mentre gli sfiorava il collo; ma, quando ebbe insistito abbastanza a lungo, sentì la mano di Chas salirgli dietro la nuca, e capì che l'attimo di smarrimento era passato.
   Il secondo bacio che si scambiarono fu, se possibile, anche migliore del precedente. John sentì le mani grandi di Chas addosso, e si stupì di quanto sapesse essere delicato. Era un bel contrasto, qualcosa che lo aveva sempre riempito di curiosità e attrazione. Chas aveva il passo leggero e silenzioso, una discrezione e una dolcezza d'animo e di modi che stonavano con la sua taglia. Quel suo modo di preparare la colazione, la mattina, riuscendo a non produrre il minimo rumore, per non svegliarlo; o la levità con cui riusciva a posare una coperta sulle spalle di John quando si addormentava sul divano:
quella era la vera magia.
E John sapeva di esserne dipendente.
   Aveva bisogno di quella leggerezza, nella sua vita. Perché era l'unica cosa che riusciva a renderlo sereno, renderlo felice.


   Chas si era sentito mancare la terra sotto i piedi, quando si era reso conto del salto che avevano compiuto – o meglio, che John aveva deciso di compiere, - e per un attimo aveva fatto tilt. Non sapeva se restare dov'era o scappare via, se restare in silenzio o balbettare qualcosa. Era da quando aveva dieci fottuti anni che non si sentiva così: imbarazzato, incerto, con le mani che tremavano e il cuore in gola. Probabilmente era anche arrossito – sperava che John non se ne fosse accorto-, e si augurò che la barba avesse nascosto sufficientemente quel suo eccesso di emotività. Lo desiderava da così tanto che, nel momento in cui il bacio aveva trovato compimento, si era sentito-- Scombussolato? Qualsiasi parola sarebbe stata un eufemismo. Era stato come se il mondo si fosse ribaltato all'improvviso; come se, per un attimo, non avesse più avuto terra su cui poggiare, più nulla a cui aggrapparsi: e si era spaventato, semplicemente.
   Ma poi c'era stato di nuovo John, che aveva preso in mano la situazione e lo aveva costretto ad affrontarla, John che non gli avrebbe mai permesso di scappare via; e Chas non avrebbe mai avuto parole adatte per dirgli quanto gli era grato per aver deciso al posto suo, per averlo messo di fronte all'evidenza, cancellando tutte le paure.
Poteva davvero esserci qualcosa di semplice, per una volta. John lo voleva e lui voleva John.
Si calmò, si lasciò andare; passò le dita tra i capelli di John per sentirlo più vicino, per fargli capire che aveva scelto, che poteva farlo.
   Da quanto tempo voleva farlo.


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Capitolo 3
*** Solo quando perdi qualcosa... ***


chastantine 3

John ricordava il momento in cui aveva temuto di aver perso l'ultima cosa decente che gli era rimasta con una lucidità feroce, assassina.

   Erano trascorse tre settimane dal matrimonio di Chas, quasi un mese intero.
John si era reso conto gradualmente di quanto ormai non gli restasse più nulla. Non aveva più nessuno. Non aveva una famiglia – non ce l'aveva mai avuta, - e quel che restava dei suoi amici, se tali si potevano chiamare i drogatelli ingenui con cui aveva condiviso rituali e droghe pesanti negli anni dello sbaraglio, o erano morti o si auguravano la
sua morte. E, per quanto fosse abile nel riempirsi il letto con una sgualdrinella diversa ogni sera, c'erano altri vuoti che non riusciva a riempire, altre mancanze a cui non riusciva a sopperire.
   Chas era la persona con cui aveva il rapporto più stretto. Con lui non aveva mai dovuto fingersi diverso, o migliore di quello che era. Con lui poteva essere sé stesso, e non avrebbe mai dovuto temere di essere allontanato o giudicato, perché a Chas andava bene così. Non ricordava di essersi mai sentito così con nessuno, prima di conoscerlo; e anche dopo, il clima di familiarità che c'era tra loro non aveva mai subito scalfiture, anzi: col tempo era solo migliorato, era diventato più caldo e solido.
Finch
é poi non era arrivata Renée, e Chas aveva deciso che era il momento di mettere la testa a posto.
   Cazzate. John Constantine non era mai stato un sostenitore del matrimonio, anzi: era felicissimo di boicottarlo. Non capiva perché mai due esseri umani avessero bisogno di stipulare contratti e liste di doveri, uccidendo sul nascere la spontaneità di un sentimento – sempre ammesso che ce ne fosse uno – che aveva bisogno di ben altro per sopravvivere. Non servivano anelli, non servivano grandi promesse davanti a un prete e, soprattutto, non c'era alcun bisogno che quelle due scellerate persone, che avevano deciso di assecondare la scellerata usanza dello scellerato matrimonio, si stravolgessero la vita a vicenda.
   Da un giorno all'altro, Chas se n'era andato. Perch
é normale che due che si sposano vivano insieme, John," e tutt'intorno si era fatto il vuoto.
Senza contare che John detestava con ogni fibra del proprio essere quella stronza antipatica di Renée, e la cosa era reciproca. Lei non lo sopportava, e non si curava affatto di nasconderlo. Quelle rare volte che erano stati costretti a condividere lo stesso spazio vitale, John si era trattenuto dal prenderla a schiaffi solo perché c'era Chas.
Chas, Chas, Chas.
   Sapeva che c'era rimasto male, quando aveva cortesemente declinato il suo invito alla cerimonia.
No, davvero, non sono fatto per questo genere di cose, ma divertiti anche senza di me, eh?. Ma davvero, davvero, era l'ultima cosa al mondo a cui avrebbe voluto assistere.
   Il primo giorno che aveva trascorso senza di lui era stata pura agonia.
Si era ubriacato, si era addormentato, si era svegliato a testa in giù ai piedi delle scale – come diavolo c'era arrivato? - e si era ubriacato di nuovo, perché si era reso conto con orrore che il tempo non voleva saperne di passare e non voleva restare lì, a fissare le lancette che si spostavano con una lentezza snervante, fino a perdere la ragione. Non aveva avuto ancora il coraggio di dirlo ad alta voce, ma aveva capito benissimo cos'era, quel groppo in gola che gli rendeva difficoltoso anche ustionarsi l'esofago a forza di ingoiare whisky: era la sensazione di aver perso tutto.
Di essere arrivato troppo tardi.
   Rideva di s
é stesso. Cosa mai avrebbe potuto fare, comunque? Dirgli: non mi va che ti sposi, quella squinzia mi sta insopportabilmente sul cazzo, oppure andare più sul soft, cercare di far leva sul suo istinto protettivo, dirgli qualcosa tipo non voglio che te ne vai, perché poi resterò solo, e non saprò più cosa farne di me stesso. Che poi, era la verità. Da quando Chas se n'era andato, John non aveva fatto molto, a parte trascinarsi in giro per casa ubriaco fradicio e tentare sciatti e stupidi incantesimi da prestigiatore di periferia, sotto effetto dell'alcol.
Era andato avanti così per un tempo che gli era sembrato infinito.
Alienante. Logorante.
Si sentiva di merda. Sapeva che non era il tipo di sentimento che avrebbe dovuto provare per
un amico; ma, ora che era solo e poteva guardare in faccia la verità senza doversi preoccupare delle conseguenze, aveva finalmente trovato la consapevolezza di quello che realmente provava. Era da molto, molto tempo che aveva cominciato a voler bene a Chas molto più che ad un amico. Lo sapeva, se ne rendeva conto benissimo. Non lo aveva taciuto a sé stesso per pudore, o per stupidi e insensati dissidi con la propria identità sessuale – era bisessuale dichiarato e, francamente, era orgoglioso di giocare per entrambe le squadre, - ma, piuttosto, perché una parte di lui, quella più razionale e concreta, sapeva che per una cosa del genere non avrebbe mai avuto futuro. E un rifiuto da parte della persona più importante della sua vita era esattamente l'unico rifiuto che non avrebbe mai voluto ricevere.
Perciò aveva taciuto. Prima, durante e dopo.
   E quando Chas telefonava,
ciao come stai, e John schiacciava la sigaretta, bruciata fino al filtro, sul bordo annerito del tavolo prima di rispondere, gli uscivano frasi del tipo: tutto bene, no, non mi annoio, ho un sacco da fare, sì, sì, mangio, non ti preoccuapare, adesso devo andare, eh? Ciao ciao, ci sentiamo presto. E si sentiva un idiota, ma non riusciva a vedere nessuna alternativa.
Continuava ad esserci troppo silenzio in quella casa, soprattutto la sera. E tutte le bottiglie che comprava condividevano il pessimo difetto di svuotarsi troppo velocemente.
   Verso la fine della terza settimana decise che aveva sofferto abbastanza. Se avesse continuato così, avrebbe dovuto comprare una borsa a tracolla e usarla per portare in giro il fegato, dal momento che il suo stile di vita consisteva nell'ingerire derivati dell'alcol etilico, tamponando i crampi allo stomaco con sostanze commestibili solide scarse e sbagliate, e dormire solo durante la sbornia.
   Ad ogni modo, non era solo con questo che doveva fare i conti. Non voleva più sentirsi così a pezzi, così... Mutilato. Doveva dimostrare a s
é stesso di essere perfettamente in grado di controllarsi. Di essere una fottuta persona adulta, per la miseria! Perciò si era sbarbato e profumato ed era uscito di casa, con la decisa intenzione di mettere a tacere, una volta per tutte, quella stretta nel petto che minacciava di farlo a pezzi.
   Doveva farlo. Doveva andare a trovarlo, rendersi conto di come stavano adesso le cose, e farsene una ragione. Doveva vederlo con i propri occhi per mettersi in testa, finalmente, che nulla sarebbe mai più stato come prima e non c'era nulla che potesse fare per impedirlo.
Avrebbe bussato. Sarebbe stato gentile e cortese da essere adorabile. Si sarebbe comportato come una persona normale, -
come un semplice amico, - e avrebbe sorriso, avrebbe detto a Chas che era felice per lui e poi se ne sarebbe andato. Andato, magari sul serio. Forse era ora di ricominciare altrove. Forse, se non lo avesse visto per un bel po' di tempo...
Non aveva tempo di pensarci su, doveva farlo e basta.
Prima che venisse a mancargli il coraggio.
   Prese un pacchetto di dolcetti alla pasticceria all'angolo dove spesso lui e Chas si fermavano a fare colazione di ritorno da una missione. Era aperto a tutte le ore, ed era tutto molto buono. Eppure, già soltanto entrandoci, e ricordando tutte le notti che avevano trascorso seduti a quei tavoli, e le albe che avevano visto sorgere da quelle finestre, John sentì la fitta farsi più insistente, e il suo proposito di comportarsi da persona matura e ragionevole cominciò a vacillare.
   Pagò, stringendosì nell'impermeabile, e uscì in strada.
   Era un settembre insolitamente freddo, più del solito, e il clima di merda non gli rendeva le cose più facili. Stava calando la sera, lentamente; nel giro di qualche settimana, l'inverno avrebbe cominciato a divorare le ore di luce fino a non lasciarne più neanche le briciole.
   Tre fermate di autobus, due di metro. Le affrontò con pazienza, con il pacchetto tra le mani, sulle ginocchia, ripetendosi che era la cosa giusta, che doveva chiudere con questa pagina della propria vita e rendersi conto che innamorarsi del migliore amico era roba da adolescenti, e lui non aveva più l'età per robe del genere – e neanche Chas.
   Non conosceva bene la zona, e si perse un paio di volte. Riuscì ad imboccare la strada giusta nel momento in cui i lampioni si accendevano tutti insieme, come a volergli indicare la via, e rallentò il passo. Più si avvicinava, più il tremore interno che lo scuoteva si faceva più forte, e dovette fermarsi un paio di volte per riuscire a recuperare un minimo di compostezza.

Maturo e ragionevole, pensò. E mentre si ripeteva mentalmente queste due parole, si rese conto di essere arrivato.
   A una decina di metri dal marciapiedi, c'era la porta a cui avrebbe dovuto bussare. Guardò l'orologio. Forse non era il caso, a quell'ora avrebbe disturbato di sicuro... Ma d'altronde aveva anche un pensierino tra le mani; si faceva così, no? Non che fosse così esperto di etichetta, raramente faceva visita a qualcuno
– perché non aveva nessuno a cui far visita, fu il pensiero doloroso, - ma non avrebbero dovuto esserci problemi... Giusto?
   Esitò. Così impalato, in mezzo alla strada, prima o poi avrebbe attirato l'attenzione. Doveva fare qualcosa. Restare o andarsene, non importava, ma fare qualcosa. Guardò il pacchetto che aveva tra le mani –
il fiocco era fatto male, dannazione, – poi si guardò attorno, cercò con lo sguardo il numero civico per essere sicuro al cento per cento di essere di fronte alla casa giusta – a chi vuoi che importi di uno stupido fiocco? - e, infine, alzò lo sguardo.
   E sentì il cuore stringersi all'improvviso e diventare piccolo, nero e sporco come un misero sassolino.
    Sembrava che stessero apparecchiando per la cena. Non si erano accorti di lui e, a giudicare dall'atmosfera animata che c'era tra loro, sembravano troppo presi l'uno dall'altro per accorgersi di qualsiasi cosa – non avrebbero guardato fuori neanche se avessero avuto un elefante parcheggiato sul prato.
Le dita di John si strinsero, la carta del pacchetto crepitò.

   Stupido coglione autolesionista.
Erano felici. Erano felici, e lui non era nessuno. Non aveva nessun diritto di essere lì. Non aveva nessuno diritto di bussare a quella porta.
Guardò Chas. Sembrava felice, davvero. John sentì gli occhi bruciare e il nodo in gola stringersi e pensò che tutto quello che aveva sentito dire sull'amore era soltanto un mare di cazzate.

   Se ami qualcuno, lo lascerai andare eccetera eccetera. Tutte stronzate. Non ce la faceva. Lo amava e, proprio per questo, lo voleva con sé.
   Non aveva senso, quella frase fatta del cazzo. Lasciar andare qualcuno che si ama, se lo si ama davvero, è un controsenso, una violenza contro sé stessi. Avrebbe dovuto essere felice per lui, e lo era. Ma, più di ogni altra cosa, avrebbe voluto essere felice con lui. Perché era umano, e delle frasi fatte buoniste del cazzo non sapeva che farsene.
   L'unica verità tangibile e incontrovertibile era che John stava male, malissimo, senza di lui. Misero e vuoto e senza dimensioni, schiacciato e inutile. E non gliene fregava un accidente di fare gesti nobili, di lasciarlo andare
perché farsi da parte è un atto d'amore e stronzate simili; non gliene importava nulla, perché tutto quello che aveva era soltanto un grande dolore, e non desiderava altro che Chas. Lo rivoleva, anche se non era la cosa giusta; lo rivoleva, perché quel fottuto dolore, quel grumo nero di angoscia, vuoto e solitudine che gli si addensava nel petto, doveva essere curato urgentemente. Era qualcosa di vero, vivo e presente, e non una frase fatta inventata da qualcuno che probabilmente non aveva mai amato in vita sua.
   Non sono un santo, cazzo. Sono un essere umano.
   Non voleva essere il ritratto della virtù. Non si sentiva in colpa per quello che desiderava, anche se era un atteggiamento egoista e forse anche un po' puerile. Ma almeno era onesto con sé stesso, per quello che poteva valere.
E non poteva farci niente, se senza Chas si sentiva spezzato. Non poteva farci niente, se tutto quello che lo attendeva era un futuro di solitudine e di vuoto.
Non poteva farci niente, se tutto intorno a lui ormai c'era solo terra bruciata.
   La pioggerellina che aveva ricominciato a cadere lo riportò alla realtà.
Per quanto tempo era rimasto là, in piedi sul marciapiedi come l'idiota che era? Non ne aveva idea. Così come non aveva idea di quando avesse cominciato a piangere.

   Oh, Cristo! Mi sto proprio rincoglionendo.
   Si sentì la creatura più stupida e patetica del pianeta. Cosa pensava di fare?
Aveva le mani gelate. Tra le dita, contratte e illividite, il pacchetto era ridotto ormai come un fiore avvizzito. Dalla finestra dell'abitazione non arrivava più alcuna immagine – dovevano essersi spostati in un'altra stanza, - ed era meglio così.
   Se prima aveva esitato nel decidere se bussare oppure no, ora non aveva più dubbi.

   Non sarebbe dovuto essere lì. Non avrebbe mai dovuto neanche pensare di essere lì. Quello non era il suo posto, e non lo sarebbe mai stato. Stonava con quell'immagine di calore familiare come una bestemmia in chiesa, e non aveva nessun diritto di imporre agli altri la propria presenza e rovinare tutto.
   Si ritrovò a fissarsi la punta delle scarpe, a disagio, mentre la vista gli si appannava. La pioggia si fece più fitta.
   Pensava che tra loro due le cose non sarebbero mai cambiate. Che Chas non si sarebbe mai dimenticato di lui. Ma ora? Ora che sembrava così felice, ora che aveva altro da fare, quanto poco ci avrebbe messo a capire che viveva molto meglio senza avere John Constantine e i suoi maledetti demoni tra i piedi..?
...Quanto tempo sarebbe passato, prima che cominciasse a dimenticarlo?
   Qualcosa si era completamente demolito, dentro di lui. Come dopo un bombardamento, o un terremoto. Si sentiva informe e disperato come un cumulo di macerie, e non c'era nulla che potesse fare per poter rimediare.
   Stava piovendo forte, ormai. Non si mosse.
Percepì addosso il peso del cielo enorme sopra di lui, schiacciante e cattivo; e si sentì perso in una città che era diventata troppo grande e spaventosa, ora che non aveva più nessuno da cui tornare. Lasciò che il cuore gli si accartocciasse, in silenzio. Sentì le prime lacrime varcare il confine delle ciglia e ricadere sulle guance, e desiderò prendersi a schiaffi da solo per la vergogna. 
   In un giorno qualunque, non si sarebbe mai abbassato a piagnucolare come una ragazzina: non era così che reagiva John Constantine, colui che prende a calci nelle palle i demoni di tutte le latitudini. Ma quello non era un giorno qualunque. Era il giorno più triste della sua vita.
Non c'era più nessuno al suo fianco, e mai più ci sarebbe stato.
   Ora era solo, solo davvero.

   Quando tornarono al mulino, trovarono Zed accoccolata sul divano, con l'album da disegno aperto sulle ginocchia e almeno una decina di fogli sparsi attorno, sul pavimento, sparpagliati come una nevicata di immagini.
Lo sguardo della ragazza si spostò immediatamente sul sangue che inzuppava gli abiti dei due, ma John le rivolse un'occhiata disinvolta e scrollò le spalle, in un gesto che significava tutto e niente, battendola sul tempo e impedendole di fare commenti.
   «Normale amministrazione, love.»
E subito andò a versarsi un bicchiere di quei suoi alcolici spaccabudella che mandava giù come se fossero acqua fresca. Sembrava insolitamente allegro, però, una strana gioia mescolata al consueto atteggiamento da spaccone alcolizzato.
   Zed lo osservò per qualche istante, incuriosita; poi cercò silenziosamente spiegazioni da parte di Chas, guardandolo con aria interrogativa. Si sorprese non poco quando, invece di ricambiare la sua perplessità, l'altro arrossì e distolse lo sguardo.
   Decisamente, stava succedendo qualcosa tra quei due.
Li lasciò stare e non disse niente, quando sparirono al piano superiore per cambiarsi. Ma erano davvero troppo strani, tutti e due, e moriva dalla voglia di sapere cosa stesse accadendo, dannazione.
   Sbuffò, voltando pagina. Poi spezzò in due un bastoncino di grafite, e chiuse gli occhi in cerca di ispirazione.

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Capitolo 4
*** Facciamo finta che sia un segreto ***


CHASTANTINE 4

   I giorni successivi erano trascorsi in modo sempre più singolare, agli occhi di Zed. I suoi due coinquilini non solo si comportavano in maniera inspiegabile, ma evitavano anche accuratamente di spiegarle perché. Quando Zed faceva notare loro che c'era qualcosa di strano, otteneva sempre le solite due reazioni, in risposta: John se la cavava con una scrollata di spalle e una battutina, mentre Chas, improvvisamente, perdeva l'uso della parola e balbettava qualcosa di incomprensibile, prima di scappare via a fare chissà quale cosa urgentissima.
   Zed si era arresa. Anche se era sempre più curiosa, non c'era poi molto che potesse fare. Una parte di lei sperava che le stessero tenendo nascosta qualche svolta importante, qualche caso particolarmente complicato – e di conseguenza interessante – di cui prima o poi sarebbe venuta a conoscenza. Un'altra parte, però, cominciava a nutrire un sospetto che, alla luce dell'amicizia che legava quei due, non era neanche così infondato, dopo tutto. Se era quella, la cosa che le stavano nascondendo... Be', lo stavano facendo piuttosto male. E comunque, non ce n'era alcun bisogno. Sarebbe stata solo contenta per loro.
   Non capitavano molte occasioni per essere felici, da quelle parti: e l'unica cosa veramente saggia da fare era prendersi tutte quelle che c'erano.


   «John?»
   «Mh.»
   «Secondo te lo ha capito?»
   «Mmm... In una scala da zero a dieci? Cento.»
   «Ma siamo stati attenti. Come ha fatto?»
   «È una sensitiva, Chas. E, se non bastasse questo, è una donna. Hanno un sesto senso per questo genere di cose, dovresti saperlo.»
   «Pensi che dovremmo dirglielo?»
John gli rivolse uno sguardo perplesso.
   «Dovremmo? Se proprio vuoi farlo, pensaci tu. Non sono mica la dottoressa della Posta del cuore.»
Chas alzò gli occhi al cielo.
   «Diamine, John. È solo che... È-- È una nostra amica. E dal momento che vive con noi, forse non dovremmo nasconderle una cosa del genere.»
   «Lo so che non vedi l'ora di dire al mondo che stai con l'uomo più figo del mondo, love,» lo canzonò John con un ghigno. «Ma questa cosa fortemente imbarazzante che stai per fare è assolutamente inutile, fidati. Di sicuro non le dirai niente che non sappia già.»
   John si scottò le dita, mentre spegneva un cero votivo. Era tutta la mattina che cercava di mettere insieme un incantesimo degno di questo nome, ma non era ancora riuscito a combinare niente. Aveva voluto che Chas restasse al mulino solo per godersi insieme a lui la privacy momentanea, dal momento che Zed era in città a fare rifornimento di materiali al negozio di belle arti.
   Non erano andati molto oltre, dopo il bacio di quella volta. Si stavano addosso, si cercavano, si scambiavano baci ogni volta che ne avevano la possibilità: ma c'era una specie di accordo silenzioso, tra loro, per cui cercavano di fare le cose con calma, senza bruciare i tempi e godendosi la lenta evoluzione di quel rapporto già profondo che avevano e che si stava trasformando in qualcosa di più.
   John sparecchiò la grossa scrivania con un gesto, accantonando con aria stizzita gli oggetti che vi aveva poggiato precedentemente.
   «Non è decisamente la mia performance migliore,» sbuffò, facendo per accendersi una sigaretta.
   «Sei troppo nervoso,» commentò Chas, sfilandogliela dalle dita. «E dovresti smetterla di fumare così tanto: ti agita ancora di più.»
Stavolta fu John ad alzare gli occhi al cielo.
   «Sì, mamma, certo, mamma. Prometto che ci proverò. Però adesso ridammela, eh?»
Chas lo ignorò.
   «Cos'hai?» chiese invece. Fallire un incantesimo per colpa dell'ansia non era una cosa da John. Doveva esserci per forza qualcosa che non andava.
   «Niente...» fu l'evasiva risposta.
   «John,» ripeté Chas, e stavolta il suo tono sottintendeva qualcosa come Non prendermi in giro, ce l'hai scritto in faccia che c'è qualcosa che non va. John era tentato di ripetergli che non c'era nulla che lo preoccupasse, ma poi Chas gli posò le mani all'altezza dei gomiti e lo obbligò a fronteggiarlo – anche se, per farlo, John doveva sollevare la testa in quel modo così esagerato, come se stesse parlando a un gigante-- be', in effetti stava parlando a un gigante. E insomma, non riuscì a dire nient'altro che la verità.
   «Facciamo le cose senza fretta, ok?» disse soltanto. «Zed o non Zed, non mi va di accelerare troppo le cose.» Si guardò la punta delle scarpe, in imbarazzo. Ora che l'aveva detto, si sentiva molto più che imbarazzato. Era la prima volta che faceva un discorso del genere con qualcuno, e voleva mettere bene in chiaro le cose. Non desiderava il silenzio perché aveva un problema di qualche tipo ad ammettere come stavano le cose, anzi. Aveva solo timore di commettere qualche passo falso, e non voleva che la situazione gli sfuggisse di mano. Chas era l'unica persona di cui gli importasse veramente, e meritava qualcosa di più. Meritava di essere trattato bene.
E se voleva che le cose tra loro andassero veramente bene, John doveva essere sicuro di ogni decisione, di ogni passo.
   Era un sacco di roba da spiegare a voce, e lui non era esattamente il tipo a cui piaceva lanciarsi in dissertazioni filosofiche sui sentimenti, perciò lasciò perdere. Sentì le mani di Chas sfregargli affettuosamente le braccia, come per riscaldarlo.
   «John, qual è il problema?», chiese.
   «Non voglio sbagliare con te.»
Finalmente! Ce l'aveva fatta a dirlo. John si sorprese di come le parole fossero uscite con facilità. Tirò un sospiro.
   «Non stai sbagliando.»
   La voce di Chas era rassicurante come tutte le volte, e anche il calore che le sue mani trasmettevano. Un attimo dopo, con una sincronia perfetta, John sollevò lo sguardo e Chas si chinò su di lui, e ripeterono ancora quel gesto a cui si erano abituati. Veniva sempre tutto in modo molto spontaneo e naturale, come se non avessero mai fatto altro in vita loro. Dovevano essere stati i lunghi anni di rodaggio della loro amicizia ad aver affinato così bene l'intesa che condividevano. John gli mise le braccia al collo, un po' perché semplicemente gli piaceva farlo, e un po' perché così poteva attirarlo a sé mentre si baciavano. Chas lo circondò, lo strinse forte attorno alla vita. Fosse dipeso soltanto da lui, avrebbe bruciato le tappe col lanciafiamme, tanto per fare prima. Sapeva di amare John, lo aveva saputo fin dal momento in cui, nonostante non possedesse ancora il dono dell'immortalità parziale, si era reso conto di essere disposto a morire per salvargli la vita. Lo amava così com'era, pieno di difetti messi in bella vista come trofei, ma ancor più pieno di pregi che teneva ben nascosti in un angolino dentro di sé. Chas voleva esplorarli tutti, quegli angoli, conoscerlo fino in fondo e dirgli che lo amava ogni giorno di più. Perché era la verità. Non c'era nulla che non amasse di lui, e questo era il motivo per cui gli era rimasto sempre accanto.
   John si ritrovò a fare quella cosa che faceva sempre, posargli entrambe le mani sulle guance per poter sfregare quella sua barba ostinata con le dita. Era qualcosa che lo rilassava tantissimo, placava istantaneamente le sue crisi di nervi, meglio delle sigarette. A quel punto, si era persino dimenticato di aver provato il desiderio di accendersene una. Tutto ciò che desiderava era starsene allacciato a quella specie di orso grande e grosso, pieno di premure e istinti protettivi.
Quando Chas scese a baciarlo sul collo, però, non poté fare a meno di ridere. L'altro interruppe quello che stava facendo, lo guardò con aria interrogativa.
   «Che c'è?», chiese, disorientato.
   «Niente... Non smettere,» rispose John, aggrappandosi alla sua camicia per attirarlo di nuovo a sé. L'unico inconveniente di pomiciare con Chas, a parte il solletico, era che la sua pelle si riempiva di piccoli segni arrossati. Ma sparivano quasi subito, e comunque era una sensazione piacevole.
   Ripresero da dove avevano smesso, si strinsero ancora di più. Era come essere tornati improvvisamente all'età di quindici anni, ma era perfetto così. Avevano bisogno di qualcosa di buono, chiaro e pulito, che non venisse bruciato e consumato senza cognizione di causa. Avevano bisogno di uno spazio neutrale, di un territorio soltanto loro, di qualcosa che andava preservato dal male che combattevano ogni giorno. E volevano godersi quel qualcosa senza preoccupazioni, senza farsi problemi inutili. Potevano essere spontanei e sinceri, l'uno con l'altro, essere sé stessi senza paura, ed essere liberi.

   Tla-tlack.

   «Oh merda!»


   Ok. Ora non aveva più dubbi.
Quando era entrata, aveva visto John sobbalzare e Chas scattare dall'altra parte del tavolo, fingendo entrambi di essere improvvisamente concentratissimi a fare chissà che.
   «Sei di ritorno così presto,
love?» aveva chiesto John, con un sorriso fintamente disinvolto che non riusciva a camuffare un certo nervosismo.
   Zed aveva sollevato la busta di carta del negozio, rivolgendogli un'occhiata alla
Guarda che non sono un'idiota... Ma diamine, come siete teneri, e aveva delicatamente sorvolato la domanda.
   «Io vado di sopra... Vedo che siete impegnatissimi,» aveva detto, avviandosi per le scale.
   «A-ah. Incantesimi difficili. Roba da professionisti, tesoro,» aveva risposto John, rigirandosi le maniche – già rigirate, - avendo già recuperato la solita aria da spaccone.
Zed aveva sentito la battuta sulla punta della lingua, e proprio non ce l'aveva fatta a trattenersi.
   «Certo... E uno di questi incantesimi prevede di passare la faccia sulla carta vetrata, per caso?»
   Non appena ebbe pronunciato queste parole, ebbe l'impressione che Chas volesse staccare una tegola dal pavimento e cominciare a scavare con le proprie mani una buca per sotterrarsi.
   John si passò nervosamente una mano sulla faccia.
   «Effetti collaterali...», si giustificò.
Zed salì a passi leggeri i pochi gradini che la separavano dal piano superiore.
Li avrebbe lasciati alle loro cose.

   … Certo, però, che a nascondere le cose erano proprio negati.


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Capitolo 5
*** Vietato l'uso di fiamme libere ***


CHASTANTINE 5

    Zed trattenne una risata affettuosa.
Chas sembrava un bambino intrappolato in un corpo da gigante. Era nervoso, nervosissimo e imbarazzato, e si tormentava il maglione cercando fili invisibili da tirare con le dita, cercando di evitare gli occhi della ragazza.
Zed gli mise una mano sul braccio, una pacca di amichevole conforto.
    «Come hai potuto pensare che potesse essere un problema, Chas?» disse, scrollandolo leggermente. «Siamo tutti bisessuali più o meno dichiarati, qua dentro. Il fatto che stiate insieme non cambia assolutamente le cose, sta' tranquillo.» Doveva aver usato un tono abbastanza rassicurante, perché il bambino gigante sollevò lo sguardo. «E in realtà non è neanche una sorpresa, sai,» aggiunse. «Lo sapevo che prima o poi lo avreste capito, non potevate essere così stupidi da continuare a ignorarvi a vicenda.»
    Chas alzò un sopracciglio, frastornato: «Come... Che intendi?»
    «Intendo che era evidente che foste attratti l'uno dall'altro. Voglio dire, dal mio punto di vista era chiarissimo. Continuavate a girarci intorno senza decidervi; un altro po' e vi avrei organizzato un appuntamento io, almeno avreste smesso di rimandare la resa dei conti,» disse Zed, con un sorriso.
    Chas sembrò rilassarsi, si lasciò andare sulla sedia. Ignorava che fosse tutto così chiaro e lampante, visto da fuori. Avrebbe voluto sapere da quanto tempo avevano cominciato a mostrare segni d'interesse reciproco: probabilmente, da molto più di quanto potesse immaginare.
Il pensiero andò a John che non era venuto al suo matrimonio, alle sue telefonate strane... Ma no, non poteva essere così da così tanto tempo, di sicuro era una cosa recente... No?
Si chiese quante volte avesse inavvertitamente ferito John, senza rendersene conto, ed ebbe paura della risposta.
Zed si accorse del suo cambio d'umore.
    «Ehi... Che hai?» chiese. «Dovresti essere felice, è una bella cosa. Cos'è che ti tormenta?». Ma Chas scosse la testa, chissà cosa stava pensando. Furono interrotti da un'esplosione improvvisa, da una nuvola densa di fumo. Si scambiarono un'occhiata allarmata e si precipitarono nella stanza accanto.
    «Tutto bene!» John riemerse dalla nube tossendo, coperto di fuliggine. «Tutto sotto controllo,» disse, agitando le mani per diradare il fumo e fermandosi saltuariamente per soffocare i colpi di tosse.
    «John,» disse Chas, con una lieve sfumatura esasperata nella voce, prima di correre a estinguere le fiamme residue che ancora si alzavano da una specie di piccole calderone al centro della stanza.
Aggiunse un punto al suo elenco di post-it mentali:
    Mai lasciare John giocherellare con fiamme libere senza supervisione.

    John si era lievemente scottato una mano, una cosa da niente, ma Chas aveva insistito lo stesso per fasciargliela.
Doveva ammettere che gli piaceva da morire il fatto che Chas fosse sempre pronto a fargli da crocerossina: lo faceva sentire come se finalmente ci fosse qualcuno a cui importava davvero come stava, ed era una bella sensazione.
Il fatto che Chas ritenesse prioritario occuparsi della sua salute e facesse in modo di farlo vivere il più a lungo e felicemente possibile era nobilissimo.
Il rovescio della medaglia, però, era che disapprovava fortemente la sua smodata tendenza a fumare, e di conseguenza John non poteva lasciare un pacchetto di sigarette in giro perché Chas trovava subito il modo di farlo sparire.
    Curiosò tra gli scaffali, sulla scrivania, persino sotto la poltrona. Quando ritenne di aver cercato in tutti i posti possibili, si arrese.
    «Chas?»
Nessuna risposta. Era al piano di sopra, chissà che stava facendo.
    «Chas?»
Alla seconda chiamata, l'interpellato comparve in cima alle scale.
    «Le sigarette,» disse John, spalancando le braccia, come per sottintendere che aveva messo sottosopra tutta la stanza e non le aveva trovate. Aveva troppa, troppa voglia di fumare; e non poterla soddisfare era frustrante.
    «Al solito posto,» rispose l'altro, sbrigativo, voltandosi per tornare di sopra. John lo richiamò.
    «Non ci sono. Lo so che le hai fatte sparire...» Cercò di intenerirlo, sventolò la mano fasciata. «Ti prego, dimmi dove le hai messe. Sono anche ferito, tutto quello che chiedo è solo una sigaretta... Una povera, innocente sigaretta-- Giusto per riprendermi un po',» disse, sforzandosi di fare la faccia più adorabile che poteva.
Chas scrollò le spalle, con un'espressione che significava Guarda che con me non attacca, e rispose candidamente:
    «Sono sul ripiano.»
John inclinò leggermente la testa di lato.
    «Quale ripiano?». Aveva guardato dappertutto, e nello scaffale della libreria non c'era proprio niente.
    «L'ultimo,» ghignò Chas, soddisfatto, scendendo le scale. John alzò gli occhi al cielo e dovette trattenersi per non lanciare un'antica maledizione in aramaico.
    «Ma io non ci arrivo!» protestò, allargando le braccia e sollevando lo sguardo per poter continuare a guardare l'altro negli occhi mentre si avvicinava.
    «Lo so. Per questo le ho messe lì,» replicò Chas, intenzionato a ignorare i suoi capricci. «Ti fanno male, un giorno mi ringrazierai. E poi, penso che sarebbe meglio se per un po' ti tenessi lontano da qualunque oggetto che possa provocare scintille,» disse, oltrepassandolo. Voleva dare una sistemata all'archivio di Jasper: c'era troppo caos, là dentro, e sapeva che se fosse dipeso da John sarebbe rimasto esattamente così. Poteva approfittare del tempo libero per catalogare tutto, e--
    «Quello... Quello è stato un errore di distrazione,» si giustificò John, quasi inseguendolo. Si aggrappò ad un lembo della sua camicia, lo strattonò per richiamare la sua attenzione. «Ti prego, Gulliver. Prendile, o potrei morire per l'astinenza,» lo implorò.
    «No.»
    «Per favore!» John a volte odiava profondamente la propria condizione. Poteva esorcizzare qualunque demone, imbastire rituali di ogni genere e viaggiare attraverso le dimensioni, ma non riusciva a recuperare un dannato pacchetto di sigarette che si trovava soltanto venti centimetri al di sopra delle propria portata.
E tutto questo perché un salutista dispotico, alto due metri e vestito come un fan dei Nirvana fuori tempo massimo, si ostinava a nascondergli le cose.
Chas si fermò improvvisamente.
    «Primo, non chiamarmi Gulliver. Secondo, se le rivuoi allora devi fare qualcosa per me,» disse. John sembrò riprendersi subito. Per riavere le sue sigarette, avrebbe accettato qualunque condizione.
Sorrise, uno di quei sorrisi maliziosi tipici del John opportunista, la versione con cui Chas si trovava a fare i conti ogni volta che in ballo c'erano sigarette o bottiglie di whisky.
    «Vuoi che pulisca il taxi? Vuoi che impari a cucinare?» Fece un occhiolino ammiccante che però risultò decisamente comico, vista la situazione. «... Vuoi uno spogliarello?», chiese, con l'espressione sorniona che ricordava quella di un gatto.
    Chas – che, se fosse stato un altro, avrebbe fatto volentieri un pensierino sull'ultima proposta; ma non era così meschino da approfittarsene a quel modo, - sbuffò e alzò gli occhi al cielo.
    «Niente di tutto questo,» disse. «Mi serve una mano a rimettere a posto l'archivio di Jasper. E tu mi aiuterai,» aggiunse, puntandogli un dito al petto, torreggiando su di lui. «Quando avremo finito, riavrai il tuo pacchetto.»
In quelle parole c'era odore di trappola, ma John era così obnubilato dal bisogno di nicotina che non ci fece affatto caso.
    «D'accordo, tiranno,» disse, rimboccandosi le maniche della camicia. «Ma sbrighiamoci, però, eh?»

    Si era fatta sera.
Jasper sembrava aver collezionato ogni cimelio, libro antico, reperto e documento esoterico del mondo: cercare una collocazione per ogni cosa fu un lavoro immane e anche faticoso, nonostante Chas si fosse occupato di spostare gli oggetti più pesanti. Si erano fatti strada nelle stanze del mulino tossendo, e ne erano usciti coperti di polvere, ma alla fine avevano riordinato quasi tutto.
    «Finito,» annunciò John, chiudendo l'ultimo scatolone. «Ora dammi ciò che mi spetta, me lo sono meritato.»
Chas annuì senza dire niente e scomparve attraverso la porta. Tornò poco dopo con il pacchetto delle sigarette, glielo lanciò, John lo afferrò al volo. Già pregustava la sensazione del filtro caldo tra le labbra, il sublime crepitio della carta che bruciava, l'odore di fumo che Chas detestava ma che lui adorava, e non vedeva l'ora di fumarsi la sua santa sigaret--
    «Ma è vuoto!» Agitò il pacchetto vuoto, con l'impressione di essere stato raggirato. Chas si limitò a scrollare le spalle.
    «Ti ho detto che ti avrei ridato il pacchetto, non le sigarette,» disse.
    «Razza di truffatore insopportabile,» sbraitò John, gettando il pacchetto vuoto nel cestino e andando a sprofondare nella poltrona. Si sdraiò di traverso, scompostamente, coprendosi drammaticamente gli occhi con l'avambraccio. «Maledizione, mi sto sentendo male,» borbottò, pieno di disappunto, allentandosi la cravatta. Si era spaccato la schiena per niente. E aveva così tanta voglia di una sigaretta...
    Vedendolo così, Chas sembrò profondamente pentito del proprio gesto e sentì lo stomaco stringersi per il rimorso.
    «Mi dispiace, ma le ho buttate sul serio,» disse, costernato. «E lo so che mi detesti per questo, ma davvero vorrei che smettessi. O che almeno ci provassi,» aggiunse, accucciandosi accanto alla poltrona per poter guardare John. «È solo questione di volontà.»
    L'esorcista si scoprì gli occhi e si voltò a guardarlo.
    «Ma no, scemo, no che non ti detesto. Magari vorrei prenderti a schiaffi, in questo momento, quello sì...» Sbuffò. «... Ma lo so che lo fai per me.» Soffocò uno sbadiglio, si stiracchiò come poteva. Era stanco, e si vedeva; lo erano entrambi. E forse era la stanchezza ad addolcirlo così, o forse il fatto che nessun altro si era mai preoccupato così tanto per lui e questo lo faceva sentire fortunato – anche se a volte Chas gli faceva venire voglia di strapparsi i capelli e mettersi urlare dalla disperazione.
    Chas allungò una mano ad accarezzarlo sulla testa, John chiuse gli occhi.
    «Davvero non capisco come mai cerchi in tutti i modi di farti del male,» sussurrò, e John ridacchiò piano.
    «È un puro fatto estetico,» scherzò. «Sai, il fascino dell'eroe maledetto con tendenze autodistruttive.» Sbadigliò di nuovo. «Comunque hai ottenuto quello che volevi,» aggiunse. «Non ho più voglia di fumare... Sto solo morendo di sonno.» Non fece in tempo a finire la frase che si sentì sollevare. Quando John lo guardò, dovette trattenersi per non scoppiare a ridere. Chas aveva un'aria colpevole che lo faceva sembrare una specie di bambinone, mentre lo trasportava in camera.
    «Ti senti in colpa?» domandò John.
    «Un po',» ammise l'altro.
John gli mise le braccia al collo, lo baciò sulla guancia.
    «Allora adesso voglio che sia tu a fare qualcosa per me,» disse.
    «Cosa?» chiese Chas, adagiandolo sul letto. Ma non ebbe bisogno di ascoltare la risposta, perché stavolta John lo baciò con tutta l'anima, con le poche energie che gli erano rimaste.
    «Tu stasera resti qua.» Il tono di John non ammetteva repliche. «Non facciamo nulla di... Impegnativo,» specificò, per ricordare a entrambi che dovevano andare piano, che non dovevano aver fretta. «Ma ti impegnerai a viziarmi e coccolarmi per non farmi tornare voglia di fumare,» stabilì, e all'improvviso l'astinenza da nicotina non gli sembrò più così orribile.
    Questa volta il bacio fu un'iniziativa di Chas: e John la subì volentieri.


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Capitolo 6
*** Ordinaria amministrazione ***


CHASTANTINE 6

    «Zed! Zed!»
Chas la vide attraversare in fretta il cortile buio per raggiungerlo, trafelata, un paio di ciocche ricciolute appiccicate alla fronte per il sudore e tra le mani una pala – che, meno di un quarto d'ora prima, aveva sbattuto in faccia al padrone di casa, posseduto, per riuscire a passare.
Decisamente una ragazza piena di risorse.
    «Zed, dov'è John?» chiese Chas, preoccupato.
La ragazza impallidì di colpo, illuminata solo dalla luce lunare. «Come sarebbe, dov'è? Pensavo fosse con te!» L'espressione di Chas si fece improvvisamente buia.
    «Oh, merda.»
Non ebbero bisogno di dirsi altro: tornarono sui loro passi e ricominciarono a correre, stavolta in direzione della casa.


    «John? John, svegliati. Forza!»
John era perso in un buio privo di riferimenti. 
Quando sentì quella voce che gli ordinava di aprire gli occhi, si sentì immediatamente sollevato: allora non era del tutto solo, in quello strano posto dove era finito. Si sentiva pesante e allo stesso tempo leggero, confuso, ma obbedì alla voce che lo chiamava, che voleva riportarlo indietro; quella voce che conosceva bene e a cui più di ogni altra cosa avrebbe voluto riuscire a rispondere--
    «John!» 
La prima cosa che vide fu l'enorme sagoma di Chas accanto al suo letto, ma ci mise un po' a distinguerlo chiaramente.
    «John, come ti senti?»
John sbatté le palpebre, si stropicciò gli occhi: era come svegliarsi da un lungo sonno, si sentiva stordito e fuori fase.
    «MmmChas--?», biascicò, mettendolo a fuoco.
Sentì le mani grandi dell'altro accarezzarlo gentilmente e le sue dita tra i capelli: delicato e attento, come sempre.
    «Siamo a casa.» Il tono di Chas era rassicurante e tranquillo. «È tutto finito.»
    L'esorcista fece per stiracchiarsi, ma si bloccò prima ancora di cominciare: gli faceva male tutto, e una serie di fitte improvvise gli impedirono di proseguire.
    «Ugh...» Si lamentò, stringendo gli occhi. «...Sono stato investito da un camion?»
La mano di Chas si fermò sul suo stomaco, un peso caldo e gradevole.
    «No. Siamo andati a caccia di un demone, ma ne abbiamo trovati due,» spiegò brevemente. Appariva preoccupato e stanco. «Come ti senti?», chiese, il pollice che gli sfregava lievemente una costola.
    John coprì la sua mano con la propria, la strinse. Un gesto istintivo, involontario, forse; ma gli piaceva sentire il suo calore, e ne aveva sempre bisogno quando non si sentiva troppo bene.
    «Un po' acciaccato... Ma non così male, dopotutt-- Ahia!»
Non era decisamente in condizione di muoversi, perciò decise di rinunciare. L'altra mano di Chas gli si posò sulla spalla, lo rispinse delicatamente giù.
    «Non ti muovere,» disse. «Sei un po'... Rotto.»
John sbuffò.
    «Oh, che palle.» Frugò nella tasca dei pantaloni alla ricerca delle sigarette, ma erano così schiacciate da essere ridotte a un ammasso di carta e tabacco sfilacciato. «Odio stare fermo.»
Chas, da bravo infermiere, gli passò un bicchiere d'acqua e un blister di antidolorifici.
    «Prendi queste, ma non esagerare,» si raccomandò. «Un po' di riposo e torni come nuovo.»
    L'espressione seccata e vagamente imbronciata che l'altro gli rivolse convinse Chas che no, John non aveva nessuna voglia di riposare, e dopo due minuti sarebbe stato di nuovo in piedi a combinare qualche guaio – e magari a dare inavvertitamente fuoco al mulino, tanto per mantenersi in esercizio.
Inaspettatamente, però, John obbedì, prese bicchiere e pastiglie e mandò giù il tutto. Guardò il bicchiere vuoto con aria disgustata:
    «Acqua? Dove l'hai trovata, l'acqua?»
Chas alzò un sopracciglio, perplesso.
    «Come, dove? Dal rubinetto, no?»
John ghignò in quel suo modo particolare, insolente e irresistibile.
    «Ma io volevo due dita di Jack!»
Chas roteò gli occhi.
    «Non con le pasticche,» tagliò corto. «E adesso prova a dormire un po'. È tutta la notte che stiamo in giro e avrai dormito sì e no un'oretta scarsa, da quando siamo tornati. Devi recuperare, John.»
    L'esorcista lo guardò, e il suo sorriso cinico si addolcì leggermente, in un modo che non capitava quasi mai.   
    «Quanto mi piace quando ti preoccupi per me,» ghignò, per poi soffocare uno sbadiglio subito dopo. «Ma non ho sonno...»
Chas gli accarezzò il braccio, guardandolo con una luce lievemente intenerita negli occhi - quasi come se l'adulto irresponsabile e capriccioso che aveva davanti fosse davvero un bambino, - e sorrise appena.
    «Se vedessi che faccia che hai... Stai crollando.»
John si stropicciò di nuovo gli occhi, si voltò a guardarlo. Aveva gli occhi socchiusi, già appannati dal sonno, e sembrava più docile e tranquillo di quando era nel pieno delle sue funzioni - sempre teso come un filo scoperto e con un interminabile corollario di frecciatine sarcastiche a disposizione.
    «Resti con me?»
    John batté la mano sul letto, accanto a sé.
Chas non rispose, ma si alzò e si sistemò accanto a lui. Lasciò che si sdraiasse su un fianco e lo abbracciò da dietro, facendo attenzione a non stringere troppo per non fargli male. Lo accarezzò a lungo - come spesso capitava, quando tornavano da una notte particolarmente difficile e si ritrovavano a dover prendere sonno mentre invece la gente normale si svegliava. Era in momenti come quello che John smetteva di essere in guerra con il resto del mondo e si lasciava semplicemente abbracciare, e a Chas piacevano quei momenti. Erano rari, preziosi. Non avevano bisogno di parlarsi, non avevano bisogno di spiegarsi; stavano incollati l'uno all'altro, e la vicinanza e il calore erano la rassicurazione migliore che potevano offrirsi. Era la conferma che anche quella notte ce l'avevano fatta, e finalmente potevano tirare un sospiro di sollievo, occuparsi dei dolori e delle ferite e trovare un po' di sollievo nel riposo.
Indovinò il contorno di una serie di lividi scuri disseminati sul corpo di John, attraverso il tessuto sottile e quasi trasparente della sua camicia bianca – ora tendente più al grigio scuro per via della polvere e della fuliggine, - e si sentì in colpa per non essere riuscito a proteggerlo come avrebbe dovuto. 
Forse doveva seriamente prendere in considerazione l'idea di legargli al collo un segnalatore GPS o di piazzargli una grossa freccia al neon sulla testa, per non perderlo mai di vista.
    Stava per dirgli qualcosa; ma poi lo aveva sentito russare lievemente, la guancia posata sul suo braccio piegato e una mano intrecciata alla sua, e aveva preferito non svegliarlo. Vedere John così sereno, così quieto e spensierato era una vera rarità.
    Era ancora mattina presto, e pensò che forse poteva approfittarne anche lui per sonnecchiare un po'. Si prese qualche istante per guardarlo, - era così tranquillo e angelico, quando dormiva, - e si sentì sollevato.
Quell'esorcista eccentrico e scapestrato, che lui aveva il compito di tutelare come se fosse l'ultimo esemplare di una specie protetta, era lì, serenamente agganciato addosso a lui, e stava bene.
    E Chas non riusciva a immaginare nulla di più bello.


    Qualche ora dopo, erano in cucina: John seduto al tavolo a consultare uno dei diari di Jasper e Chas intento ad armeggiare con le padelle, con la consueta destrezza. Quei rumori e quei profumi, quel clima di serena attesa, per John erano familiari e rassicuranti.
    «Trovato niente?» chiese Chas, mettendo due uova a friggere.
    «
Non ancora,» mugugnò John, una sigaretta spenta tra le labbra – a volte ne teneva una così, semplicemente per abitudine, e Chas lo rimbrottava con frasi tipo “gli psicologi dicono che la fase orale dovrebbe concludersi nei primi anni di vita”, eccetera eccetera, ma John proprio non poteva farci niente.         «Sembra che non esistano demoni in grado di sdoppiarsi come quello con cui abbiamo fatto amicizia noi,» aggiunse, sollevando lo sguardo dal grosso volume. Osservò Chas muoversi – così spropositatamente grande e grosso, eppure leggero, - e per un attimo dimenticò i doloretti che ancora lo flagellavano e il disappunto per non aver trovato niente, sostituiti da una sensazione di calma e di calore.
    Chiuse di colpo il librone, poi si alzò e si diresse verso l'amico, lo abbracciò goffamente mentre si sciacquava le mani - facendolo sussultare di sorpresa, perché un gesto del genere giungeva piuttosto inatteso, da parte sua.
Sulla faccia di Chas si disegnò un grosso punto interrogativo.
    «John..? Ti senti bene?» domandò, con un sopracciglio alzato.
    «
Sì...» mugolò John, contro la stoffa della sua camicia. «Voglio solo che tu sappia che non do per scontato nulla di ciò che fai.» Si alzò in punta di piedi e contemporaneamente si aggrappò alla sua maglietta per attirarlo giù, gli diede un bacio rapido e insolitamente innocente sulla guancia. «Grazie,» disse, alzando la testa per guardarlo.
    «Sei così appiccicoso, ultimamente. Stai covando qualche influenza strana, credo,» replicò Chas, ma sorrideva – la versione più morbida di John era stranissima ma adorabile. Si abbassò per restituirgli il bacio, ma prima gli sfilò la sigaretta spenta dalle labbra. «Siediti, è quasi pronto.»
    John guardò con malinconia la sigaretta che gli era stata sottratta - e che sarebbe sparita nel nulla insieme a tutte le altre, lo sapeva, - ma poi la sua attenzione venne distolta dal lieve ruggito che cominciava a salirgli dallo stomaco, e obbedì docilmente.   

    «Sì, mamma,» disse, prendendolo in giro; e quello che rimediò in risposta fu una mestolata amichevole sulla testa, giusto per ribadire quali erano le gerarchie in cucina: mai discutere con un gigante con la sindrome della massaia. 

NOTE:

Capitolo che non aggiunge nulla di nuovo, ma avevo bisogno di zucchero perciò ecco tanto fluff :) 

A.


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Capitolo 7
*** Family Reunion ***


CHASTANTINE 7

    Nei giorni seguenti, John rimase un po' acciaccato e sottosopra. Avere a che fare con un demone incideva sempre un po' su di lui, fisicamente, e a volte gli restavano nausee e emicranie e fastidiose febbriciattole per giorni. Chas lo sapeva e lo lasciava riposare; ma ora si ritrovava a dover risolvere anche un altro, piccolo problema.
Sarebbe dovuto partire per raggiungere sua figlia, quella mattina. Aveva pochi fine settimana a disposizione, per vederla, e molte volte non poteva andare da lei perché era impegnato in qualche missione. Non lo faceva mai pesare a John: sapeva che la vita che avevano scelto comportava dei sacrifici, e ne pagavano il prezzo entrambi - anche se in modi diversi. E poi, molto spesso John ne usciva a pezzi, e per Chas era naturale restare ad occuparsi di lui. Dopotutto, sua figlia era sempre al sicuro: chi invece aveva più bisogno di lui era John, sempre coinvolto in pessime faccende che da cui non riusciva a tirarsi fuori se non con qualche brutta ferita. E quando tornavano al mulino, stanchi e distrutti, Chas faceva del suo meglio per rimetterlo in sesto e pensava che, dopotutto, quello che facevano rendeva il mondo un posto più sicuro anche per Geraldine.
    John stava ancora smaltendo gli effetti dell'ultimo scontro. Cercava di anestetizzare il dolore bevendo più del solito e Chas lo aveva rimproverato duramente, per questo: un paio di sere prima, si era arrabbiato con lui come non succedeva quasi mai, poi lo aveva raccolto e portato a letto. John era troppo sbronzo persino per camminare da solo, e aveva finito col vomitare lungo le scale. Quando finalmente era riuscito a farlo addormentare e a ripulire tutto, Chas aveva provveduto a svuotare ogni riserva alcolica nello scarico del bagno – tanto per evitare altre scene imbarazzanti, in futuro.
    L'esorcista non era ancora nel pieno delle sue condizioni: aveva l'aria sbattuta di qualcuno appena uscito dalla centrifuga della lavatrice, e non aveva un colorito molto sano. Però sapeva che quel giorno Chas aveva degli impegni familiari da rispettare; così, scese le scale e glielo fece presente subito. John sapeva che, se non gli avesse detto niente, neanche Chas avrebbe accennato alla faccenda: sarebbe rimasto al mulino, accanto a lui, fedele come sempre, per tenergli compagnia e accertarsi che stesse bene. Ma John non voleva che Chas rinunciasse a una cosa tanto importante a causa sua. Lo aveva già fatto centinaia di volte, e John non voleva che diventasse una routine.
    «Chas, è tardi,» disse, scendendo le scale. «Dovresti già essere per strada.»
L'altro lo salutò con un cenno. Stava preparando la colazione.
    «Lo so,» rispose. «Ma non vado, oggi. Non esiste che ti lascio da solo se non stai bene.» John gli si avvicinò, gli rivolse un sorriso sicuro.
    «Sto una favola, Chas. Smettila di preoccuparti per me e va' da tua figlia,» gli intimò. Chas aggrottò le sopracciglia.
    «Una favola? Non credo proprio,» replicò. Posò la padella per mettergli una mano sulla fronte. «Scotti ancora, idiota,» lo rimbrottò. «Non me ne vado.»
    «Chas...»
John gli prese la mano e la scostò delicatamente.
    «Posso badare a me stesso. Sono una persona adulta, nel caso non te lo ricordassi,» disse; e subito si beccò un'occhiata perplessa da parte dell'altro. L'espressione di Chas sembrava dire
Davvero? Ti metti nei guai più volte di un bambino piccolo e stupido, John. «Davvero, non voglio che resti qui. Gera è tua figlia, ha bisogno di te; e tu hai già poche occasioni per vederla, non dovresti rinunciare per-- Per colpa mia.»
    Chas abbassò lo sguardo su di lui. Sapeva che John odiava Renée tanto quanto amava Geraldine. La bambina lo chiamava
zio John e lo adorava, nonostante sua madre parlasse sempre male di lui. Chas lo difendeva sempre, nelle discussioni con la propria ex-moglie, e ogni volta finivano col litigare, compromettendo ancora di più la posizione di Chas nei confronti della figlia. Poteva vederla poche, pochissime volte al mese, ormai; quasi sempre, la prendeva e la portava a fare un giro lontano da casa, per godersi la sua compagnia senza dover aver a che fare con Renée.
    Era combattuto. Alla fine, John e Geraldine erano le due persone che amava di più al mondo – in modi diversi, ma con la stessa intensità, - e si sentiva a disagio all'idea di dover scegliere tra sua figlia e... Be',
la persona che amava.
Rimase in silenzio per un po', valutando le possibili opzioni. John gli tirò leggermente la camicia per scuoterlo un po'.
    «Vai, Chas. Sto bene, davvero. E poi Zed fa di continuo avanti e indietro--»
    «Zed ha detto che non sa quando torna,» lo interruppe Chas. «Ha detto che sta raccogliendo informazioni sulle attività di suo padre.»
    John sbuffò.
    «Come puoi essere così testardo?», gli chiese: ma era più una domanda retorica che altro.
Chas appoggiò entrambe le mani sul bordo del tavolo. In effetti, un modo per non compromettere nulla ci sarebbe stato...
    «John,» disse, voltandosi a guardarlo. «Senti... Non è che verresti con me?» chiese, goffamente. Sapeva che John non voleva interferire con quella parte della sua vita. Non voleva intromettersi nelle sue faccende di famiglia e, soprattutto, non voleva esporsi ad ulteriori frecciatine da parte di Renée. Ma Chas sapeva anche che John amava follemente Geraldine, che gli piaceva passare del tempo con lei e che gli avrebbe fatto piacere rivederla – anche se non lo avrebbe confessato neanche sotto tortura: avrebbe stonato troppo con la copertura cinica che si era costruito, negli anni.
    John sollevò un sopracciglio.
    «Me lo stai chiedendo sul serio?»
    Chas annuì.
    «Sì. Voglio dire... In questo modo, non salterò la visita a Gera e tu sarai con me, se dovessi aver bisogno di qualcosa. Sarebbe... Sarebbe ok,» rispose. «E poi scommetto che Gera sarà felice di vederti. Ti vuole bene, lo sai.» Chas attese. A quelle ultime parole, vide un mezzo sorriso affiorare sulle labbra di John, uno di quelli spontanei che a volte gli sfuggivano e non riusciva a controllare. L'altro si riprese subito, però, e si nascose di nuovo dietro un ghigno.
    «Va bene. Basta che non mi fai vedere quell'arpia di Renée,» disse, accarezzandogli distrattamente una spalla. «O giuro che le tirerò addosso qualche maledizione vudù che si ricorderà per il resto della vita.»
    Chas sorrise. Gli faceva piacere che John avesse acconsentito: si sentiva sollevato all'idea di poter vedere Geraldine senza dover stare in pensiero per John, e soprattutto gli faceva piacere l'idea di trascorrere il fine settimana assieme alle due persone che amava di più.
    «Tranquillo, non accadrà. Neanch'io ho voglia di vederla... Vado solo per Gera, lo sai,» si sentì di rassicurarlo, e John sorrise ancora.
    «Dammi un minuto. Vado a fare la borsa.»
Prima che si allontanasse, Chas lo trattenne per un braccio e lo abbracciò rapidamente. John lasciò che la presa si prolungasse, ricambiandola a sua volta.
    «Grazie,» mormorò Chas. Poi lasciò che l'altro scomparisse verso il piano superiore, spense il fornello e uscì per mettere in moto il taxi.

    Il viaggio in macchina richiese qualche ora. Chas era di ottimo umore, mentre guidava con John seduto accanto – con gli occhiali da sole calati sugli occhi, perché la luce diretta gli acuiva il mal di testa: ma questo non lo aveva detto a Chas. Ascoltarono musica di gruppuscoli punk sconosciuti e chiacchierarono, durante il tragitto. Ogni tanto, John sollevava lo sguardo e si voltava a rubare immagini di Chas: gli piaceva vederlo così sollevato e sereno, quella specie di orso premuroso al volante.
    «Come stai?» gli chiedeva, ogni tre per due. Alla terza volta, John scoppiò a ridere.             «Come stavo cinque minuti fa, Chas. Sta' tranquillo, mh?»
Quando finalmente raggiunsero casa di Gera, John si sfilò gli occhiali e si stiracchiò sul sedile. «Aspetta qui,» gli disse Chas, chiudendo lo sportello. «Arriviamo subito.»
    Un minuto dopo, lo vide uscire dalla porta con la bambina per mano. Lei corse verso la macchina non appena si accorse che c'era anche John.
L'esorcista scese –
aw, che mal di schiena, - e si chinò ad abbracciarla. Quella bambina viveva con la donna più stronza del mondo ma era riuscita a restare adorabile. Era merito del patrimonio genetico che aveva ereditato da Chas, pensò John. Da uno come lui, non poteva che venire fuori qualcosa di buono.
    «Zio John!», esclamò lei, afferrandogli la cravatta. «Che hai?» chiese, subito dopo, notando che in effetti lo zio John non aveva una bella cera.   
    Lui sorrise. «Dormo poco,
love,» la apostrofò, dandole una pacca leggera sulla testa.
Chas li guardò insieme e sorrise. Sapeva che probabilmente Renée li stava guardando e gli avrebbe fatto una ramanzina tremenda, la prossima volta che si fossero visti, per aver portato anche John: ma non gli importava. Era la cosa più bella che avesse mai visto, lui e lei insieme, e non avrebbe permesso a nessuno di rovinare quel momento.
    «Dai, andiamo,» disse Chas, posando lo zainetto rosa di Gera sul sedile posteriore.
Avevano quarantott'ore tutte per loro, e sarebbero state belle.

    John si dimenticò a poco a poco del malessere che lo aveva tormentato in quei giorni. Seguì Gera e Chas in giro per la città, e per qualche ora non pensò più a nulla. Dimenticò i demoni, i fantasmi, l'Oscurità Crescente e tutto il resto, e un po' alla volta si rilassò.
    «Me lo fai vedere ancora?» chiese Gera, quando John gli mostrò un giochetto semplice semplice di mentalismo, una cosetta da prestigiatori che però aveva sempre un certo fascino, soprattutto sui bambini. Qualche istante dopo, Chas tornò con il gelato per Gera e li trovò intenti a discutere animatamente.
    «C'è un trucco, zio, non sono mica scema,» diceva lei.
    «Forse sì, forse no. Ma se te lo dico, poi che gusto c'è?» la scherniva lui, con il suo bel sorriso da truffatore trionfante.
    «Tanto lo scopro,» lo sfidò lei, guardandolo dritto negli occhi.
    «E io dico di no,» replicò John, sollevando un angolo della bocca: e Chas ebbe l'impressione di assistere alla discussione tre
due bambini, invece che tra un adulto e una bambina. Posò il gelato di fronte a Gera, un bicchiere di caffè lungo davanti a John e un altro per sé.
    «Papà, zio John imbroglia!» Gli disse la bambina, non appena si sedette.
    «Può darsi,» ammise l'interpellato, sorridendo. Ringraziò Chas per il caffè, visto che non glielo aveva nemmeno chiesto: ma l'altro sapeva sempre cosa gli andava, senza neanche bisogno che lo dicesse.
Chas scosse la testa, guardandoli con una certa dolcezza negli occhi. Lui non se ne accorse, ma a John non sfuggì. L'esorcista pensò che era davvero una bella sensazione vederlo così sereno.
    «Non litigate, su» disse Chas, sentendosi come un baby sitter alle prese con due marmocchi difficili.
    «Lo scoprirò,» promise Gera a John, prima di aggredire il gelato.

    Le ore erano passate fin troppo in fretta. Il primo giorno insieme era volato via, e ora erano di nuovo davanti alla casa di Gera, sotto una fila di lampioni accesi a rischiarare la sera.
    «Mi dispiace che devi già andare via,» disse Gera a Chas, che la prese in braccio e la abbracciò.
    «Abbiamo anche domani, tesoro» la rassicurò, baciandola sulle guance. «Vai a riposare adesso, ok?» La bambina annuì.
«Mi accompagni?» chiese, la mano piccola chiusa attorno a quella grande e attenta di Chas, che si voltò a guardare John, confuso.
John era appoggiato all'automobile e li guardava; sorrise e gli fece un cenno col capo, come a dire che andava bene, che poteva andare, che lo avrebbe aspettato lì e non si sarebbe mosso di un millimetro.
    «Ok,» rispose Chas. Prima che si avviassero verso la porta di casa, Gera si voltò per abbracciare John, aggrappandosi alla stoffa del suo trench.
    «Ciao, zio imbroglione,» disse. John le accarezzò la testa, un po' sorpreso. Rimaneva sempre leggermente stordito di fronte a manifestazioni d'affetto incondizionato come quelle.
    «Buonanotte,
love,» le rispose, ammorbidito.
Chas non si trattenne più del necessario, soprattutto per evitare altre discussioni con Renée – la quale invece, dalla faccia che aveva, doveva averne molta voglia. Lui e John si rimisero in macchina.
    «Come ti senti?», chiese Chas, prima di accendere il motore. John si rilassò sul sedile passeggero, lo guardò.
    «Bene,» disse, annuendo. «Davvero.»
Si diressero alla pensione dove avrebbero trascorso la notte – la stessa in cui Chas era solito prendere una stanza, quando andava a trovare Gera da solo, - e davvero John si sentiva meglio, tant'è che, diversamente dal solito, si addormentò non appena toccò il cuscino.


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Capitolo 8
*** Colpa ***


CHASTANTINE 8

    Astra.
John sentì la tensione crescere. I suoi occhi, la sua pelle scura. La sua voce che lo chiamava.
Quella bambina era innocente.
Quella bambina era all'inferno.
    Per colpa sua.


    John si svegliò di soprassalto, le mani artigliate alle coperte e il cuore che batteva contro il petto come se volesse uscire. Si accorse di aver urlato solo quando vide la grande sagoma scura di Chas emergere dalle coperte, nel letto accanto al suo, e accendere di corsa la luce.
    «John! » L'altro si alzò, fu subito vicino.
John era bianco come un lenzuolo, tremava. Si passò nervosamente una mano tra i capelli, cercando di riprendere a respirare. Chas gli prese una mano, la tenne saldamente stretta, mentre con l'altra gli accarezzava con dolcezza una guancia.
    «Di nuovo?» chiese.
    «Sì.» John annuì, con un filo di voce. «Adesso passa.» Aprì il cassetto del comodino , alla ricerca delle sigarette e dell'accendino. Per tre volte accese la fiamma senza riuscire a centrare la sigaretta, tanto gli tremavano le mani; perciò gettò tutto per terra, frustrato. «Merda!» esclamò, scuotendo la testa e coprendosi la faccia con le mani. Odiava sentirsi così, odiava sentirsi debole, odiava essere perseguitato dagli incubi...
Dalla colpa.
    Chas gliele prese entrambe, le mani, stavolta, obbligandolo a scoprirsi e guardarlo. Non era la prima volta che John si svegliava nel cuore della notte in preda al panico. E ogni volta, la paura aveva a che fare con quella notte in cui aveva stretto il patto con Nergal, quel demonio, e a farne le spese era stata una bambina.
Astra, il nome di una stella. Ora brillava negli inferi, condannata a stare con quel demone finché John non fosse riuscito a batterlo.
    «John...»
    «Non finirà mai, Chas.» John aveva gli occhi lievemente cerchiati di rosso, appena appena inumiditi. Vederlo così era una pugnalata nel cuore.
    «Sì che finirà,» disse Chas, guardandolo negli occhi. Erano entrambi ancora assonnati e confusi per il risveglio improvviso, ma i sentimenti uscivano lucidi e netti. «Ogni giorno in più...» cominciò, liberando una mano per accarezzarlo sui capelli. «Ogni volta che rispediamo un demone al suo posto... Ogni volta, ci avviciniamo un po' di più alla fine di questa storia. E alla liberazione di Astra, hai capito?» John teneva gli occhi bassi. «Guardami,» gli ordinò Chas.
    L'altro obbedì, anche se così si sentiva ancora più scoperto. C'erano momenti in cui non riusciva ad avere controllo sulle proprie reazioni, e questo lo spaventava. Ma se c'era Chas, a guidarlo, allora poteva anche permetterselo. Poteva perdere il controllo di sé stesso, poteva permettersi di sentirsi debole, perché sapeva che c'era Chas pronto a prenderlo, a sorreggerlo, a impedirgli di scivolare. Chas sapeva tutto di lui, sapeva sempre come prenderlo. E l'unico di cui John si fidasse ciecamente era lui.
Era l'unico che non aveva mai approfittato delle sue debolezze, anzi. Lo aveva custodito e protetto quando si era sentito fragile, lo aveva difeso da tutto quello che avrebbe potuto fargli del male. E poi lo aveva rimesso in piedi, tutte le volte: con cura, con pazienza, con amore. Lo aveva aiutato a tornare forte, a riprendere in mano la situazione.
Chas era sempre stato con lui, nei momenti peggiori. Persino a Ravenscar...
    «John, ce la faremo.»
    …Persino a Ravenscar, quando John aveva deciso di farsi ricoverare, Chas era sempre stato con lui. Andava a trovarlo ogni giorno. A volte, gli elettroshock avevano surriscaldato i neuroni di John così tanto che non riuscivano a scambiarsi una parola per ore. Eppure, Chas non aveva desistito. Continuava a presentarsi tutti i giorni, e a portargli i biscotti. Biscotti. Un gesto così normale, così patetico. Ma davvero sperava che potesse risvegliare in lui un qualche tipo di interesse. Torna a casa, avrebbe voluto dirgli Chas. Non hai bisogno di stare qui. Ci penso io a te, te lo prometto.
    «Non sono abbastanza,» mormorò John, affranto. «Ho giocato contro un avversario troppo forte, e ho perso. Stavolta io non so se--»
    «John, tu ce la farai, come hai fatto sempre,» lo interruppe l'altro, con un tono che non ammetteva repliche. «Altre volte ti è sembrato che gli ostacoli fossero troppo grandi, ma poi abbiamo comunque trovato un modo di superarli. O di aggirarli,» gli ricordò. «Perciò non devi dubitare mai, nemmeno per un istante, di potercela fare.»
    John lasciò vagare i propri occhi scuri sull'altro. Le mani di Chas, il suo calore, la convinzione con cui parlava, erano il conforto migliore che potesse ricevere: gli facevano riacquistare piano piano fiducia in sé stesso. Restò in silenzio per un po', cercando di schiarirsi le idee. Infine sospirò, cercando di dimenticare le immagini del suo incubo – la bambina, il demone; gli artigli di lui, le mani di lei. E le richieste di aiuto, aiuto, aiuto...
    «Ok... Ok.» Respirò profondamente. «È stato solo... Un momento,» disse, cercando di sembrare convincente.
Senza attendere che aggiungesse altro, Chas si chinò verso di lui e lo baciò.
John si sentì immensamente sollevato da quel gesto, e lo accettò chiudendo gli occhi, cercando di perdersi nella sensazione – poteva cacciare via il malessere, poteva restituirgli serenità, lo sapeva. Doveva soltanto tenere le palpebre chiuse, sincronizzare il respiro con quello di Chas, e sarebbe andato tutto bene.
    Il modo in cui l'altro lo accarezzava era così attento, così delicato, che riuscì a strappargli ogni brutto pensiero dalla testa. Quando si separarono, John non era ancora pronto. Voleva che Chas continuasse a restargli vicino, ma non aveva idea di come chiederglielo senza doversi vergognare troppo. Si sarebbe sentito un po'... Un po' stupido, a chiedergli di dormire insieme nonostante, in pratica, lo stessero già facendo. C'erano meno di cinquanta centimetri tra i loro letti, a voler essere generosi. Ma erano troppi, continuavano ad essere troppi, perché John voleva stargli addosso come quando dormivano al mulino. Non conosceva sistema migliore per calmare i nervi. Era persino meglio dell'alcol, meglio delle sigarette.
    «Aspetta,» disse Chas, alzandosi. Spostò con un gesto il comodino tra i due letti, poi girò intorno al proprio e, semplicemente spingendo un paio di volte col piede, lo avvicinò a quello di John. L'altro lo guardò e sorrise.
    «Devi essere telepatico, o qualcosa del genere. Davvero,» commentò, ora pienamente tornato in sé.
    «Ora smettila di chiacchierare e dormi,» replicò Chas, spingendogli delicatamente una spalla per invitarlo a distendersi. John obbedì. Quando l'altro si sdraiò accanto a lui, l'esorcista gli si raggomitolò addosso, premendo la guancia sul suo petto. La quiete che apparentemente aveva recuperato duro solo pochi secondi, perché poi ricominciò a parlare.
    «Dico sul serio. Forse, col passare del tempo, hai sviluppato una forma di empatia che--»
    «Sssst
    «Ok, ok. Ora smetto.»
    «Zitto,» gli ordinò Chas, fermo ma dolce, accarezzandogli lentamente la testa, le spalle, la schiena, e poi risalendo. Sapeva che John era drogato di attenzioni semplici come quelle, anche se non lo diceva mai, anche se non le chiedeva mai – mai poi approfittava di ogni occasione per farsi accarezzare un po'. Dopo pochi minuti, entrambi sentirono di nuovo il sonno che premeva sugli occhi.
    «Notte,» disse Chas.
    «Notte,» mormorò John.

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Capitolo 9
*** Giochi di prestigio ***


CHASTANTINE 9

    La mattina dopo, John ebbe bisogno di qualche secondo per ricordarsi di dove si trovassero e perché. Aveva trascorso il resto della notte dormendo beato, e la sensazione di familiarità era così forte che si svegliò convinto di essere al mulino. Ma poi aveva spostato lo sguardo sull'orribile carta da parati del piccolo albergo e aveva pensato che sì, Jasper avrà pure avuto tanti difetti, ma di sicuro non avrebbe mai rivestito le pareti del mulino con quel motivo agghiacciante. Sentì il calore e il peso del braccio di Chas attorno alla vita, e lo sentì mugugnare qualcosa nel sonno – sembrava proprio un orso, a volte, col suo modo di emettere versi animaleschi e anche un po' inquietanti.
    Dopo aver fatto colazione ed essersi preparati rapidamente – nessuno dei due menzionò l'episodio della notte appena trascorsa, - si presentarono di nuovo davanti a casa di Geraldine, e stavolta John vide Chas discutere con quell'arpia di Renée. Non ci voleva un genio per capire quale fosse il motivo del litigio: lei non lo voleva lì. Non voleva che quel delinquente farabutto rubamariti alcolizzato pervertito - e magari anche un po' tossicomane - di John Constantine portasse sulla cattiva strada la piccola Gera. La bambina raggiunse l'automobile da sola, sporgendosi dal sedile posteriore per dare un bacio sulla guancia a John. Lui la accarezzò rapidamente sulla testa, sperando che la discussione finisse presto.
    «Mamma dice che sei una brutta persona, ma secondo me non è vero,» disse Gera candidamente.
John sospirò, lasciandosi andare sul sedile.
    «Forse ha ragione,» mormorò, con una leggera punta di disagio nel petto, ripensando all'incubo della notte prima. I bambini tendevano a fare una brutta fine, quando capitavano nel suo raggio d'azione. Decisamente.
    John vide Chas, arrabbiato, chiudere la porta e raggiungerli con poche falcate – uno dei vantaggi di essere alto due metri. Nel breve tragitto dalla porta di casa alla macchina, il più grande si sforzò di assumere un'espressione meno incazzata; ma, quando gli si sedette accanto, John percepì chiaramente quanto fosse nervoso.
    «Tutto bene?» si azzardò a chiedere, anche se sapeva che non andava affatto bene. Chas gli rivolse un'occhiata che diceva No, non riesco ancora a capire come possa essere stato così stupido da aver sposato quella stronza, una volta; ma queste sono le ultime ventiquattr'ore che passiamo tutti e tre insieme e non voglio pensarci, non voglio rovinarle.
    «Tutto bene,» rispose invece, mettendo in moto. John gli accarezzò discretamente la mano e la gamba, mentre partiva, e Chas gli rivolse uno sguardo un po' meno teso.
John si accoccolò sul sedile mentre Gera e Chas chiacchieravano – sentirli discutere era l'esperienza più meravigliosamente normale che John avesse mai provato, - e senza rendersene conto restò a guardarlo, per tutto il viaggio, con un'espressione di vaga adorazione sul viso. Sapeva che Chas aveva preso le sue parti ancora una volta, sapeva che Chas lo avrebbe sempre difeso da chi parlava male di lui: e sperò di essere all'altezza di tanta fiducia. Sperava di poter ricambiare, un giorno, tutto il bene che Chas aveva fatto per lui. Ma non sapeva, davvero, se ne sarebbe stato capace. Forse era davvero una brutta persona. Forse, anche se le sue intenzioni erano buone, non poteva proprio fare a meno di fare del male alle persone che aveva intorno.
Di condannare gli innocenti.
    Astra.
Si obbligò a non pensarci, ma era difficile. A Chas non sfuggì il suo calo di umore.
    «John, resta qui. Con noi. Ora,» disse soltanto, guardandolo dritto negli occhi e restituendogli una lieve carezza lungo il braccio.
John annuì, cercando di riprendere il filo del discorso che Gera aveva cominciato – ma quanto parlava, quella bambina? - e di inserirsi nella discussione. Lei era contenta di parlare con lui: era curiosa, perché lo vedeva poco e perché lo zio John sembrava davvero diverso dalla gente normale, era una miniera di sorprese. Insistette affinché John le facesse vedere altri trucchi, e lui la assecondò. Passeggiarono a lungo, tutti e tre insieme – Gera in mezzo e loro due ai lati, tenendole una mano ciascuno; e per John era davvero strano camminare in quel modo, come se quella fosse anche la sua famiglia, come se fosse normale, come se ne facesse parte, - e con la giornata sfumarono anche le preoccupazioni. Quando fu sera, Gera era stanchissima, e Chas si offrì di portarla in braccio per l'ultimo tratto di strada che la separava da casa. John sorrise obliquo, con la sigaretta – rigorosamente spenta, perché di fumare in presenza della bambina non se ne parlava proprio, - appesa all'angolo della bocca. Chas aveva un sacco di qualità. Il suo continuo preoccuparsi per gli altri, per la loro felicità e il loro benessere, lo rendeva la persona migliore che si potesse avere accanto.
John si sentì fortunato.
    «Quando ci rivediamo?» chiese Gera, mentre il padre la posava delicatamente a terra, sul vialetto d'ingresso.
Chas sembrò preso alla sprovvista. Non sapeva mai cosa rispondere... Non con la vita che faceva. Non sapeva se la volta successiva sarebbe stato tutto così tranquillo, o se avrebbe dovuto rinunciare di nuovo a vedere Gera per qualche missione.
    «Non lo so, piccola,» rispose quindi. Non se la sentiva di mentirle. «Ma spero presto. Lo sai che ci provo sempre.»
    John si sentì in colpa. Restò in disparte, mentre i due si salutavano, pensando che, se non avesse mai coinvolto Chas in quel genere di cose, ora lui sarebbe libero di vedere la figlia quando voleva. Questo tipo di pensieri fu interrotto quasi subito, però, dalla mano di Gera che gli scuoteva un lembo dell'impermeabile.
    «Verrai anche tu?» chiese lei, la testa sollevata per guardarlo.
John si sfilò la sigaretta dalle labbra e la ripose in una tasca, prima di inginocchiarsi per poterle parlare alla sua altezza.
    «Non credo,» disse, accennando un mezzo sorriso. Si sentiva sempre troppo impacciato, quando doveva relazionarsi con i bambini. «Meglio non fare arrabbiare tua madre, love
    Ne aveva abbastanza di essere giudicato, e per giunta sempre male. Ma non poteva farci niente. Era tutta la vita che la gente non faceva che bollarlo come un soggetto dannoso per il resto della società. Era qualcosa con cui poteva convivere.
L'espressione di Geraldine si incupì leggermente.
    «Quindi non ci vediamo più?», chiese ancora.
John non sapeva cosa rispondere. Gli dispiaceva. Quei due giorni che avevano passato tutti e tre assieme erano stati i più normali e tranquilli e... Belli della sua vita. Semplici. Ma non voleva fare il terzo incomodo e infilarsi in una famiglia che non era la sua.
Evitò la domanda.
    «Vuoi ancora sapere qual era il trucco per fare quel giochino di ieri?» le chiese. Gera annuì. John le sussurrò la soluzione nell'orecchio e le fece rapidamente rivedere il tutto, e la bambina ridacchiò.
    «Lo sapevo che c'era il trucco!», disse, soddisfatta. Poi allungò le braccia e, del tutto inaspettatamente, gliele mise al collo, lo abbracciò forte e gli diede un bacio sulla guancia. John subì, del tutto inerme di fronte alla reazione della bambina.
    «Non è vero che sei cattivo, zio John,» disse lei, e le sue parole suonarono come un'assoluzione. John chiuse gli occhi, poi si fece coraggio e prudentemente ricambiò l'abbraccio.
Quanto vorrei che avessi ragione, pensò, mentre la teneva stretta.
    Chas attese che finissero di salutarsi, poi la prese per mano e la condusse alla porta. Si scambiò un'occhiata con John, una di quelle che voleva dire Torno subito, e fu di parola. Probabilmente, quella mattina si era arrabbiato così tanto che Renée non aveva voglia di riprovarci. Chas faceva davvero paura, quando perdeva la calma.
Nel taxi, rimasero in silenzio per un po'.
    «John...»
    «Mh?»
    «Stai... Bene?»
L'esorcista non rispose. Sembrava perso dietro a chissà quali pensieri. Si sfregò un paio di volte la guancia, irruvidita da un leggero velo di barba, col pollice.
    «Sei un papà fantastico,» disse infine, con un tono dolce e un sorriso mite che non erano affatto da lui. Chas lo guardò interrogativo, prima di rendersi conto che John diceva sul serio, che c'era una parte di lui che stava prendendo il sopravvento – un lato più morbido, più incline a manifestare ciò che provava; un lato a cui Chas non era abituato.
    «Dico davvero,» continuò John. «Non sei con lei tutti i giorni, è vero, ma... Quando ci sei, sei perfetto. Seriamente.» Sembrava che parlasse più a sé stesso che con lui, però. «Ci sono padri che ci sono sempre ma che sono dei veri bastardi,» aggiunse; e i riferimenti autobiografici in quella frase erano più che evidenti. «Tu invece ci sei poco... Ma sei speciale.»
Chas gli prese una mano, la strinse nella propria.
    «John, mi dici che hai?», gli domandò, col tono comprensivo e gentile di sempre.
L'altro scosse la testa, si stropicciò gli occhi con la mano libera.
    «Niente... Pensavo, così,» rispose, il tono di chi è leggermente stanco.
La mano di Chas risalì ad accarezzargli la guancia, e a quel punto John si voltò a guardarlo.     «John, tu sei parte della mia famiglia.» La voce di Chas era ferma e calma e non c'era traccia di esitazione, in quelle parole. «Tu e Geraldine siete la mia famiglia.»
Gli occhi di John sembravano ancora più scuri, ancora più caldi.
    «Lo pensi davvero?»
    «Sì.»
John deglutì.
    «Ho così tanta paura di sbagliare,» ammise. «Anche quando cerco di fare qualcosa di buono, finisco col mandare tutto a puttane. Che palle,» ringhiò. Aveva un'aria così smarrita e corrucciata che invitava ad abbracciarlo e non lasciarlo andare mai più.
    «Non succederà,» lo rassicurò Chas, passandogli delicatamente una mano tra i capelli. John inspirò profondamente, poi espirò, con lentezza.
    «Tu sei tutto quello che ho,» confessò infine, e gli sembrò già di aver sbagliato qualcosa, soltanto per averlo detto. Chas strinse di nuovo la sua mano – stava diventando un gesto frequente, segno che entrambi avevano bisogno di contatto – e lo guardò negli occhi per un tempo indefinito, per un istante lunghissimo in cui John si sentì nudo e scoperto.
    «Smettila di aver paura, John,» mormorò Chas, circondandogli le spalle con un braccio. Quando premette le labbra sulle sue, la bocca di John si schiuse docilmente, come se ne avesse abbastanza di tenere alta la guardia. Mentre lo esplorava delicatamente, Chas gli sfiorò il collo e sentì il suo battito sotto i polpastrelli. Forte, veloce. Quando ripresero il contatto visivo, si resero conto entrambi che anche un altro tipo di sentimento, ora, stava affiorando. Si chiamava attrazione, desiderio; li spingeva ad approfondire quel bacio e poi a spingersi un po' più oltre. Ma avevano deciso di procedere un passo alla volta, piano piano; così si costrinsero ad accantonarlo, almeno per il momento, anche se faceva male. John non aveva mai avuto più bisogno di qualcuno come in quel momento, e Chas non aveva mai sentito attrazione più forte di quella che stava provando allora – quando aveva sentito il battito chiaro ed emozionato di John, e lo aveva sentito vivere sotto le sue mani, aveva provato il desiderio di stargli dentro, di sentirlo vivere fino in fondo, di fondersi con lui, di diventare un tutt'uno. Si piacevano, si erano sempre piaciuti ed erano sempre stati attratti in un modo contorto l'uno dall'altro, anche se ci avevano messo una vita a capirlo.
    Il viaggio verso l'albergo fu silenzioso e teso.
Ognuno restò nel proprio letto, quella notte, ma nessuno dei due riuscì a chiudere occhio.



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Capitolo 10
*** Assurdoinsolitoassolutamenteadorabile ***


chastantine 10

    «Ha telefonato Zed,» annunciò Chas, il giorno dopo.
Erano tornati al mulino che era quasi ora di pranzo, dopo svariate difficoltà. Erano successe molte cose strane, quella mattina, e non sapevano come spiegarsele.
    «Dice che forse riesce a tornare oggi,» aggiunse Chas, avvicinandosi al tavolo per scrutare cosa avesse attirato così tanto l'attenzione di John, che da un paio d'ore se ne stava chino su un libro con uno strano aggeggio in mano – sembrava un ingranaggio, o qualcosa del genere, ma aveva l'aria di essere antico e di certo non proveniva da un motore.
    «A-ah,» mugugnò distrattamente John, con una righina di concentrazione tra le sopracciglia, agitando l'affare misterioso.
    «Cos'è quel coso?» domandò Chas, allungando una mano per sfiorarlo.
    «No!» esclamò John, allarmato, scostandolo bruscamente. «Non toccarlo. Proviene dall'impalcatura della torre di Babele,» spiegò. «Traduce tutte le lingue sconosciute dell'universo, se chi lo tocca è protetto dall'apposito incantesimo; ma, se lo tocchi senza protezioni, potrebbe avere degli effetti collaterali molto gravi.»
    «Tipo?»
    «Tipo, potresti cominciare a parlare in un idioma morto da quattro millenni, e io potrei non capirti. Oltretutto, il processo è irreversibile,» John chiuse l'aggeggio di Babele tra le pagine del libro, alzando lo sguardo sull'altro. «Va bene che sono abituato a tradurre i tuoi grugniti, ma questo... Be', è tutta un'altra storia,» ghignò, in quel suo solito modo strafottente. «Ma che simpatico,» lo rimbrottò Chas, aggrottando le sopracciglia.
    «Zed ha scoperto qualcosa sui giri loschi del paparino?», chiese di rimando John. Che il padre di Zed non fosse candidabile per il premio papà dell'anno era assodato. Quello che ancora restava da scoprire era quanto fossero loschi, quei suoi giri, e su quanti appoggi potesse contare. Zed ormai gli aveva dichiarato guerra e aveva deciso che era stanca di fuggire da lui: era arrivato il momento di combatterlo. Sabotava i suoi piani in ogni modo possibile.
    «Solo che è invischiato fino al collo con la Brujeria, anche lui,» commentò asciutto Chas. «Ma sembra che ormai tutto il mondo ne faccia parte,» constatò, mestamente.
John, nel frattempo, si rigirava tra le dita un fiammifero spento.
    «Da uno che vuole sfruttare i poteri psichici della figlia per i propri scopi, non mi aspettavo nulla di meglio,» rispose. Il fiammifero prese fuoco da solo. Lo spense.
    «Dovremmo starle vicino,» disse Chas, preoccupato.
Sempre pronto a prodigarsi per il bene altrui, pensò John, dandogli un'occhiata rapida e accennando altrettanto rapidamente un sorriso.
    «Lo faremo,» rispose l'esorcista. «Combatteremo con lei, e chiuderemo questa storia una volta per tutte. Non abbiamo scelta,» rifletté. Non avrebbe mai pensato di trovarsi con un carico di responsabilità così pesante sulle spalle, ma era successo. Ce l'aveva, e Manny si faceva vivo, una volta ogni tanto, per ricordarglielo. Mai una volta che muovesse il culo quando ne avevano bisogno, però, pensò John. Sarà stato pure un angelo, ma come custode faceva piuttosto schifo--
    Fu in quel momento che un fruscio e uno spostamento d'aria attirarono l'attenzione di entrambi. La luce nella stanza cambiò, tutto il resto si fermò. John vide che il fascio di pulviscolo luminoso che solitamente aleggiava di fronte alla finestra aperta era perfettamente immobile. Nessun movimento, nessuno slittamento di spazio e tempo.
L'angelo ritirò le ali con la solita teatralità.
    «Quanto ti piace fare questa scena tutte le volte, eh?» lo schernì John, con sarcasmo evidente nella voce. «Sembri un pavone che fa la ruota.»
    «Ma chi diavolo--? Lo conosci?» domandò Chas, disorientato, e John si voltò sorpreso. Di solito, le visite di Manny restavano tra loro due, escludendo il resto dei presenti. Quella volta, invece, l'angelo aveva scelto di mostrarsi anche a Chas. Strano.
    «Diavolo non è la scelta lessicale più appropriata.» L'angelo parlò, posando le iridi giallo dorate su di loro e avvicinandosi di qualche passo, dopo essersi spolverato la giacca con disinvoltura.
    «
Chas, questo è Manny,» disse John. «E di solito porta brutte notizie, oltre che brutte giacche.»
    La creatura angelica non raccolse la frecciatina. Girò intorno al tavolo, studiando in silenzio i volumi che John stava consultando fino a un istante prima. All'esorcista non piaceva, quel suo atteggiamento: gli sembrava che lo stesse esaminando, e la cosa lo irritava non poco. Aveva sempre l'impressione che Manny cercasse di ricordargli che era solo una pedina e doveva limitarsi ad obbedire, ma a John questo non stava affatto bene. Aveva accettato di ricacciare indietro l'Oscurità Crescente nel tentativo di riscattare la propria anima e di riparare agli errori che aveva commesso – uno su tutti, la brutta fine di Astra, - ma questo non significava che quel coglione con le ali potesse disporre di lui come un oggetto. Non era la prima volta che litigavano a riguardo.
    «Ho un incarico per te,» disse infine l'angelo. Gli occhi dorati risplendevano troppo, erano quasi inquietanti, in contrasto con la pelle scura. «Devi partire subito. Sta succedendo qualcosa in New Mexico.»
    John sentì il fusibile della pazienza che gli scoppiava nel cervello, come tutte le volte.
    «No, non devo andare in New Mexico. Ho già abbastanza da fare qui,» rispose, allargando le braccia per mostrargli la confusione che regnava nel mulino. «Sono stato via due giorni e tutti i demoni del circondario sono usciti fuori a fare festa. Non sono in vena di fare altre trasferte finché non avrò riportato la situazione alla normalità, da queste parti,» disse.
    Manny scosse la testa.
    «Quelle che ricevi da me non sono richieste, John. Sono ordini.» Piantò i suoi occhi alieni sull'esorcista. L'angelo appariva calmo, ma si intuiva la rabbia che stava per esplodere. Chas si mosse istintivamente a protezione di John, e l'angelo lo guardò. «Tranquillo, non farò del male al tuo amico,» lo rassicurò. «Anche se una bella lezione gli servirebbe.»
    «Certo che non puoi,» disse John, spazientito. «Ti servo. Dove lo trovi un altro stronzo che si sporca le mani con tutta la merda che ti sei fatto scappare dall'inferno?» Si alzò, puntando le mani sul tavolo, e fronteggiò lo sguardo dell'angelo con una smorfia di sfida che conteneva anche un po' di derisione. «Quando ti chiamo io, sei sempre in giro a fare chissà che. Perciò no, non mi muoverò di qui, perché questa zona è diventata Mostrolandia e ieri sera una tizia è stata mangiata dal marito. Non sta scritto da nessuna parte che io debba fare tutto quello che dici.»
    John si stava davvero arrabbiando. Quando lui e Chas erano tornati, avevano scoperto che il mondo intorno a loro era in preda alla follia. Mostriciattoli che uscivano dai tombini, poltergeist che gettavano nel panico interi condomini, alberi che prendevano vita e strangolavano la gente, macchine che investivano i passanti da sole. Sembrava che quella parte di Terra fosse diventata una succursale dell'inferno. John era rimasto piuttosto contrariato dopo essersi reso conto della gravità della situazione, perché sapeva che avrebbe dovuto faticare come un matto per rimettere tutto a posto – motivo per cui aveva cominciato a consultare i libri più antichi della collezione di Jasper, con l'ausilio del traduttore universale di Babele, in cerca di una soluzione. Ma niente, sembrava che nulla potesse aiutarli, e che dovessero soltanto rimboccarsi le maniche e lavorare sodo.
    L'arrivo di Manny era un'ulteriore distrazione. Con le sue pretese assurde e i modi da dominatore del mondo, già non godeva della simpatia di John. In un momento come quello, poi, era davvero l'ultimo con cui avrebbe voluto fare due chiacchiere. Soprattutto se veniva per imporgli degli ordini inconcepibili che avrebbero avuto, come unico risultato, quello di mandare ulteriormente a puttane la situazione.
    Manny lo incenerì con lo sguardo.
    «Se dico che devi andare, tu vai. So benissimo quali sono le condizioni, qui.»
    «No, non lo sai! Non hai dovuto ripulire tu quel che rimaneva di un povero autostoppista mentre i necrofagi facevano un maledetto banchetto!» Mentre rincasavano, all'alba, si erano trovati davanti un brutto scenario. I necrofagi solitamente si annidavano nei cimiteri sconsacrati e non attaccavano gli uomini; ma qualcuno di loro doveva aver deciso di fare una gita fuori porta e, già che c'era, di consumare cibo locale. Di quel ragazzo non era rimasto quasi niente, e John aveva dovuto improvvisare un falò con la benzina della macchina, mentre Chas li respingeva colpendoli sulla testa con il cric. Alla fine erano riusciti a incenerirli tutti, ma non avevano idea di quante altre vittime avessero fatto, nel corso della notte. Era stato un rientro davvero traumatico. «Non posso allontanarmi da qui. Ripassa domani, eh?»
    L'angelo non apprezzò il tono di John. Manny non aveva senso dell'umorismo, anzi: tendeva a reagire sempre in maniera troppo drammatica e teatrale, quando perdeva la pazienza.
    «Forse hai bisogno che ti ricordi come stanno le cose,» sibilò Manny, sotto lo sguardo diffidente di Chas. L'angelo e l'esorcista continuavano a guardarsi in cagnesco.
    «Ok, uhm, senti,» disse il più grande, frapponendosi tra loro due. «Non so chi sei e non so esattamente cosa state combinando, ma credo che dovreste darvi una calmata e discutere in modo più... Pacifico, va bene?» Guardandolo bene, Chas constatò che gli occhi di Manny sembravano quelli di un gatto alieno: persino la pupilla era stretta e allungata. Non sapeva se questo Manny fosse un tipo ragionevole oppure no, ma Chas era sempre pronto a fare da mediatore per evitare che la situazione degenerasse.
L'angelo lo scrutò, in risposta, come per soppesarlo.
    «Tu sei davvero un alleato fedele,» sentenziò. «Una delle tante cose che questo ingrato non sa apprezzare,» aggiunse poi, rivolto a John, con uno sguardo di fuoco.
    L'esorcista invitò Chas ad allontanarsi, prendendolo per un braccio.
    «Stanne fuori, amico,» borbottò. E poi, rivolto a Manny: «Tu... Davvero non dovresti essere qui.»
    Manny non sembrò impressionato dal tono che l'altro aveva usato. «Dovresti imparare a riconoscere chi sta dalla tua parte, John,» lo rimproverò. «Gli ordini che ti impartisco servono a mantenere l'equilibrio--», cominciò, ma John non gli diede il tempo di finire.
    «Falla finita con questa stronzata dell'equilibrio!», sbottò. «Se proprio vuoi che mi allontani, allora risolvilo tu questo casino!» Era davvero arrabbiato. Questa storia degli ordini dall'alto lo faceva uscire di testa, tutte le volte, lo faceva sentire usato. «Ma non lo farai, nemmeno questa volta, perché non puoi interferire e bla, bla, bla, giusto?» Quasi ringhiò, esasperato. «Allora sai che ti dico? Che puoi andare affan--»
    Prima che potesse accorgersene, prima che persino Chas potesse fare qualcosa, una luce più forte esplose nella stanza. Per qualche istante, i due umani rimasero quasi accecati. Uno strano fumo denso si levava tutt'intorno, e lo spostamento d'aria aveva sparpagliato in giro un po' di carte e alcuni oggetti. Quando Chas si guardò intorno, non vide più John.
    «Ma che cazzo--?» Istintivamente, fregandosene del fatto che fosse un angelo e potesse incenerirlo con un'occhiata, Chas afferrò Manny per il bavero della giacca e lo sollevò. «Dov'è John?» chiese, intimidatorio. L'altro rimase impassibile e accennò un sorriso, con quei suoi occhi strani che brillavano di furbizia. «Esattamente dov'era prima. Guarda meglio,» disse, e Chas lo posò a terra e si voltò.
    Seduto sulla sedia, con i vestiti che gli penzolavano addosso troppo grandi, l'aria smarrita e il labbro inferiore contratto in una smorfia di broncio, c'era un marmocchio che poteva avere al massimo quattro anni - a voler essere generosi. E aveva i capelli biondi come John, gli occhi scuri come John, il naso dritto come John – linee appena appena smussate dai pochi anni d'età, - gli angoli della bocca leggermente all'ingiù come John e il mento sollevato in una di quelle smorfie strafottenti tipiche di John, ma--

Non poteva essere John.
    «...È uno scherzo, vero?» domandò Chas, confuso.
L'angelo girò attorno alla sedia mentre miniJohn lo guardava come se avesse voluto saltargli addosso e graffiarlo – e magari spennarlo, una piuma alla volta, con le proprie mani. Gli diede una pacca affettuosa sulla testa a cui il bambino si sottrasse, guardandolo storto.
    «Diciamo più un bel bagno d'umiltà,» rispose Manny, con la consueta compostezza. «Gli farà bene.» E un attimo dopo, non c'era più.
Chas si guardò attorno, smarrito.
    «Aspetta! Ma quanto dura questa cosa?» chiese, rivolto al nulla. «Manny!» chiamò. Nessuna risposta.
Si voltò, e vide che miniJohn stava cercando di sfilarsi la camicia e di liberarsi le gambe dai pantaloni. I vestiti del John adulto erano una specie di camicia di forza, per lui, stoffa inutile che gli impediva di muoversi. Chas non fece in tempo ad afferrarlo prima che si sbilanciasse e cadesse dalla sedia con un piccolo tonfo.
    «John!», esclamò, preoccupato.
Il bambino si massaggiò un ginocchio, poi alzò gli occhioni grandi e scuri e guardò Chas con la stessa espressione corrucciata e spaesata con cui lo avrebbe guardato il John adulto.
    «Ahia,» disse soltanto; poi Chas si accucciò accanto a lui e lo prese in braccio, sorprendendosi di quanto fosse leggero e di quanto gli sembrasse familiare e allo stesso tempo estraneo. Il bambino si aggrappò alle sue spalle e lo guardò con curiosità.
    «Ti sei fatto male?» gli chiese Chas, disorientato. Come doveva parlargli? Era davvero soltanto un bambino, o c'era ancora una parte del John adulto e razionale in quel fagottino profumato coi capelli spettinati?
    «'Gno,» fu la risposta, data seriamente e sempre con quella smorfia alla John sul faccino morbido e imberbe.
Chas restò per un secondo a guardarlo in silenzio, sentendosi perso e preso in giro come la vittima ignara di una candid camera. Il bambino lo scrutò a sua volta, con i suoi occhi spalancati e pieni di domande e le guance rosa.
    «Oh merda,» sospirò infine Chas, realizzando che no, purtroppo non si trattava di uno scherzo. Era tutto vero.   
    Il piccolo Johnny ridacchiò per la parolaccia, completamente inconsapevole dello stravolgimento che aveva appena investito la vita di tutti loro, lì al mulino.


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Capitolo 11
*** John... Anzi, Johnny ***


chastantine 11

    «Zed... Ciao, sì, lo so che stai arrivando... Quanto ti manca? No, non è successo niente di grave, no, non ti sto chiamando per questo... Cioè, sì, in effetti è successo qualcosa, ma-- Stiamo tutti bene, solo-- C'è stato un imprevisto. Senti, non so come spiegartelo per telefono, penso che dovresti vederlo di persona... No, non ti preoccupare. Ci vediamo al mulino. Ok, ok. A dopo, ciao.»
    Quando Chas riattaccò, vide miniJohnny che sgambettava in giro allegramente, tenendo su con entrambe le mani lo strascico di una maglietta troppo grande per lui – una semplice t-shirt, la più piccola che Chas aveva trovato: ma ovviamente gli stava enorme, come una tunica. Sempre meglio che continuare a lasciarlo infagottato nella camicia e nei pantaloni di John, aveva pensato il più grande, ma doveva comunque trovargli dei vestiti adatti al più presto. Un secondo dopo, sul volto di Chas si dipinse un'espressione inorridita e dovette attraversare la stanza con un balzo per poter acchiappare Johnny al volo, perché lo spericolato si era arrampicato sullo scaffale della libreria col chiaro intento di lanciarsi di sotto, in un'improbabile simulazione di volo.
    «Dio, John, NO.» Chas era esasperato. Cinque minuti di convivenza con il piccolo John e già non ce la faceva più. «Perché hai questa pessima tendenza al suicidio?» lo sgridò, ma il bambino ovviamente non capì e rise. Chas alzò gli occhi al cielo.
    «Senti, io non lo so se sei ancora là dentro e se puoi sentirmi,» disse, dopo essersi seduto per terra di fronte a Johnny. «Ma ho bisogno di tutta la tua collaborazione, se vogliamo sopravvivere a questa cosa, ok?» Silenzio. Chas si sentiva stupido. Il bambino lo guardò con l'aria perplessa e interrogativa di uno che non ha capito una sola parola, poi sorrise e si guardò intorno, spensierato, alla ricerca del prossimo posto da cui buttarsi di sotto. «Ok, come non detto,» si arrese Chas, sospirando. Poi raccolse il bambino e lo sostenne, tenendolo con un braccio, mentre con la mano libera cercava le chiavi del taxi nella tasca dei jeans.
    «Adesso andiamo a prendere un po' di cose,» gli disse; ma tutto l'interesse di miniJohn era concentrato a passare le manine sulla sua barba. «Poi torniamo al mulino e aspettiamo che torni Zed, e poi... Poi non lo so,» ammise, affranto. Guardò il bambino e, per la prima volta da quando lo aveva tra i piedi, pensò che John era stato un bambino davvero adorabile, con quel nasino all'insù e l'aria pestifera, e davvero non riuscì a capacitarsi di come suo padre avesse potuto avere il coraggio di maltrattarlo. Sentì un lieve moto di rabbia nei confronti del padre di John, ma lo soffocò rapidamente. Il passato era passato, e non c'era più molto da fare, in proposito. Tutto quello che poteva fare, ora, era concentrarsi sui bisogni di John e rendergli questa parentesi infantile, se non bella, almeno piacevole. «Fa' il bravo. Ti prego,» lo implorò. MiniJohnny gli mise le braccia al collo e posò la testa sulla sua spalla. Sembrava calmarsi un po', quando lo prendeva in braccio.
    «Ok,» concesse Chas. «Così va meglio.»
Lo sistemò come meglio poteva sul sedile anteriore del taxi, accanto a quello del guidatore – il posto in cui solitamente sedeva John, quando viaggiavano. Il taxi non era attrezzato per scarrozzare un marmocchio, ma Chas fece comunque del suo meglio per tenerlo al sicuro, mettendogli la cintura e bloccando lo sportello.
    «Non toccare niente,» gli disse. MiniJohn lo guardò, seduto compostamente accanto a lui, con aria leggermente intimidita. Chas non riuscì a trattenersi e lo accarezzò sulla testa, arruffandogli i capelli.
    «Non fare quella faccia. Non sono arrabbiato con te,» lo rassicurò. MiniJohnny sorrise – e quel sorriso conteneva già una traccia del ghigno che poi avrebbe caratterizzato il John adulto.
    «Chas,» disse il bambino, perfettamente a suo agio.
    «Ti ricordi come mi chiamo?», domandò l'adulto, con un briciolo di speranza. Forse, c'era ancora qualcosa del John stronzo cinico e bastardo, in quella deliziosa creatura.
    «Sì,» rispose il bimbo, estremamente soddisfatto, le manine aggrappate alla cintura di sicurezza.
    «Che altro ti ricordi?» chiese Chas, speranzoso.
Il bambino si guardò attorno, assorto, come se si stesse sforzando di far riemergere un ricordo. Poi si sporse e afferrò qualcosa da sotto il sedile.
    «Le sigarette!» esclamò felice, come se avesse vinto qualcosa. Chas si affrettò a sfilargliele di mano, allibito.
    «Impazzirò, me lo sento,» mormorò, lanciando il pacchetto fuori dal finestrino. MiniJohn lo guardò imbronciato e offeso, a braccia conserte.
    «Non guardarmi così! Ne riparliamo quando torni... Be', quando torni normale,» balbettò l'adulto, mettendo in moto. Dispettoso, con un'innata tendenza a farsi del male e un continuo bisogno di attirare l'attenzione: se davvero esistevano delle differenze, tra il John adulto e il John bambino... Be', Chas faticava a vederle.
    Seriamente.

    Al supermercato, tenere d'occhio Johnny si rivelò un'impresa impossibile: il piccolo molestatore si infilava dappertutto, correva tra i reparti e approfittava della piccola taglia per fare scherzi alla gente senza essere visto. Chas fu costretto a infilarlo nell'apposito spazio del carrello, per non perderlo di vista. Il piccolo John era una vera peste, ma era anche stupendo; e, più passavano i minuti, più Chas sentiva che si stava affezionando a lui – nonostante gli risultasse ancora molto strano rapportarsi con John in quella forma così anomala. Amava il John adulto, e si sarebbe preso la massima cura del Johnny bambino. Doveva solo fare in modo che stesse bene fino alla fine di quello strano incantesimo, poi tutto sarebbe tornato alla normalità. Poteva farcela.
    Gli prese due cambi d'abito e due paia di scarpe, un pigiama, e tutto quello che poteva servire a un bambino di quattro anni. Fortunatamente, grazie alla precedente esperienza con Geraldine, Chas non era del tutto impreparato ad affrontare la cosa. Quando stavano andando alla cassa per pagare, una signora sulla settantina si avvicinò al carrello.
    «Ma che bel bambino! È suo?» chiese la donna, e Chas, che era lievemente esaurito, pensò: No, l'ho rubato. Che razza di domande.
    «Sì...» rispose invece, anche se poco convinto. Poi vide gli occhi del piccolo Johnny brillare di una strana luce, solo per un istante – lo sguardo di qualcuno che ha appena avuto un'idea malvagia. La signora non aveva intenzione di schiodare.
    «Quanti anni hai, bel bambino?»
    Johnny alzò quattro dita, esibendosi in un sorriso tutto miele e innocenza infantile, tanto irresistibile quanto fasullo. Poteva cascarci chiunque, ma non Chas. Lo conosceva troppo bene per non sapere che, se Johnny diventava improvvisamente zuccheroso, era perché sperava di ricavare un qualche vantaggio dalla situazione.
    «Ma che bravo...! Suo figlio è un amore,» insistette l'anziana, ormai soggiogata.
Chas non disse nulla, anche se sentire chiamare John “suo figlio” gli suonava sbagliato. Riuscì a liberarsi della presenza della vecchia solo quando la fila alla cassa cominciò a scorrere, e la donna dovette allontanarsi per pagare. Quando anche Johnny e Chas furono usciti dal negozio, l'adulto scaricò la spesa nel bagagliaio e poi assicurò di nuovo il bambino al sedile. Johnny lo guardava con aria compiaciuta.
    «Cos'era quello sguardo, John?» gli chiese Chas, alzando un sopracciglio. «Lo so che avevi in mente qualcosa,» aggiunse. A quelle parole, il bambino infilò una mano sotto la maglietta ed estrasse un portafogli.
All'interno, la foto sulla carta d'identità ritraeva la povera signora di poco prima, ignara del furto che aveva subito.
    «Piccolo ladro ruffiano,» commentò Chas, ma era troppo sorpreso per poterlo sgridare sul serio. Era il genere di cose che il John adulto faceva di continuo. «Dopo glielo andrò a restituire, ho capito,» sbuffò, roteando gli occhi.
    «Sono stato bravo?» chiese Johnny, con un sorriso di attesa e speranza. Chas sospirò. Non sarebbe mai riuscito a sgridarlo, se lo guardava così.
    «Non si fanno queste cose, Johnny,» gli spiegò soltanto. «Adesso andiamo a casa, ci cambiamo e aspettiamo Zed, va bene?» Lanciò il portafogli della signora sul sedile posteriore e accarezzò il bambino sulla testa. Il marmocchio si liberò velocemente della cintura di sicurezza – l'escapismo era un'altra delle abilità del John adulto che evidentemente il John bambino già coltivava – e si agganciò al suo braccio.
    «John, devo guidare. Siediti,» cercò di dirgli Chas, ma il bambino continuava a guardarlo con quell'espressione che richiedeva attenzioni, e alla fine Chas fu costretto a metterselo sulle ginocchia. «Se ci ferma la stradale mi fa un culo così. Non dovrei portarti in questo modo, sai? È pericoloso,» borbottò; ma il bambino rimase accoccolato buono buono contro di lui, saldamente aggrappato alla sua giacca e con la testa posata sul suo petto per tutto il viaggio, e Chas proprio non se la sentì di farlo spostare.


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