Unseen

di Shichan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Hinoenma ***
Capitolo 3: *** Zashiki-warashi, I ***
Capitolo 4: *** Zashiki-warashi, II ***
Capitolo 5: *** Shiki ***
Capitolo 6: *** Nekomata ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo




I had a brief dream just now,
[…] is it the past?
Or the future?

 

Le fronde degli alberi si muovono pigramente, una brezza leggera che ne accarezza le foglie, portando con sé un assaggio dell’estate ormai prossima. Le chiome offrono un’ombra piacevole nel primo pomeriggio, come ora; il tempio è immerso nel silenzio, ad eccezione del figlio maggiore della famiglia che lo abita da generazioni: è lì, sul vialetto principale, che spazza via la polvere e qualche foglia caduta fuori stagione.
Tiene la schiena dritta e le braccia fanno fare avanti e indietro alla scopa di saggina con cui pulisce. Ha l’espressione assorta di chi compie gesti meccanici pensando ad altro.
Accanto a lui c’è un bambino, non visto: lo osserva curiosamente, girandogli intorno senza alcun motivo se non l’infantile sete di conoscenza di ogni nuova cosa su cui si posa lo sguardo, tipica dell’età che dimostra. È un cucciolo, e lo si nota dalla morbida coda che spunta fuori dal kimono.
Il ragazzo non lo nota, o per meglio dire, non lo vede. Il cucciolo ridacchia, gli gira intorno ancora una volta, poi si allontana; trotterella entusiasta verso uno degli alberi e abbraccia di slancio quella che sembra per lui una figura di riferimento.
«Kami-sama!» esclama allegro e una mano si posa con gentilezza sulla sua testa, lasciandovi qualche carezza che sembra accontentare il piccolo. Lo guida verso un punto più riparato e prende posto a terra, la schiena contro la corteccia di un albero; attende e non deve farlo a lungo: proprio come il piccolo, che prende posto accanto a lui, ci vuole poco perché piccoli youkai arrivino da ogni dove. Alcuni scendono dai rami, altri arrivano dalla terra, altri ancora spuntano vicino a qualche fiore.
Sono tutti spiriti minori che circondano quell’entità che li accoglie cordialmente, giorno dopo giorno.
«Kami-sama» il cucciolo di kitsune richiama la sua attenzione, con successo: «gli umani non ci vedono mai?» domanda con curiosità.
La divinità sorride in maniera enigmatica, a conoscenza della risposta senza bisogno di dover richiamare alla memoria alcuna nozione o ricordo; è una risposta quasi automatica quella che dà, sebbene il tono non perda mai quella sfumatura di pacata dolcezza.
«Quasi nessuno.» ammette, posando un’altra carezza sul capo del piccolo «Non più almeno. Con il passare del tempo gli esseri umani divengono sempre più increduli e scettici, e non è facile vedere le cose a cui non si crede.» replica con pazienza.
Qualche spirito confabula con il vicino, e tra loro uno si fa un poco più avanti: se il giovane umano che si sta occupando del vialetto lo vedesse, non gli sembrerebbe altro che un uomo in miniatura.
«Kami-sama, avete mai parlato con uno di loro?» gli domanda, curioso e dubbioso al tempo stesso.
Sul volto della divinità il sorriso si fa più ampio, gli occhi pieni di cose viste e custodite con cura nel cuore per molto tempo.
«Ne ho conosciuto qualcuno, sì.» confida «Molti, molti anni fa. Forse persino un centinaio.» ammette con un calcolo fatto quasi pigramente e di cui non è sicuro. Sono passati troppi anni e, per chi ha come unica realtà l’immortalità, non è facile tenere il conto.
«Uno di loro viveva qui.» continua, inclinando il collo all’indietro e guardando la chioma dell’albero sotto cui siedono: «Non mi sorprenderei se un giorno un suo erede potesse vederci.» dice, una risata leggera che riempie l’aria e desta ancor più la curiosità degli youkai.
«Era gentile?»
«Era giovane?»
«Era molto forte?»
Le domande si susseguono, e la divinità lascia che ognuno ponga la sua; quando c’è di nuovo un silenzio carico di aspettativa, una mano va ad indicare il giovane che una volta posata la scopa utilizzata si sta stiracchiando, sbadigliando senza troppa attenzione a coprire la bocca, certo di non essere visto.
«Come aspetto si somigliano abbastanza.» inizia, osservando il suo pubblico: «Era un umano difficile, con un tipo di gentilezza molto complicata.» descrive con un’immagine precisa di fronte agli occhi, come se il diretto interessato fosse lì in quello stesso momento.
Si sistema meglio, accomodandosi: sarà un lungo racconto.


Fare la strada a piedi quando le serate al locale giungevano al termine era diventata un’abitudine.
Il suo appartamento non era né vicino né particolarmente distante da dove si esibiva con la band, e forse il clima ormai quasi invernale avrebbe preteso di approfittare almeno di una bicicletta; tuttavia, benché ne possedesse una e fosse conscio che a quell’ora l’ultimo treno fosse già partito, capitava che di tanto in tanto coprisse la distanza fino al suo monolocale a piedi.
Portò una mano a coprire uno sbadiglio, portandola poi di nuovo nella tasca della giacca e affondando un poco il viso nella sciarpa blu che aveva al collo. Quello era l’unico indumento che indossava quasi tutto l’anno: doveva pur preservare la propria voce, dal momento che era il vocalist.
La serata era andata bene, erano stati pagati e avevano tempo per decidere la scaletta della prossima esibizione. Poteva tornare anche più tardi del previsto a casa con la consapevolezza di poter dormire di più la mattina dopo, libero da impegni di alcun genere. Occhieggiò la busta che teneva nell’altra mano, contenente del cibo gentilmente offerto dal locale, avanzato alla chiusura dello stesso; sembrava proprio che potesse evitare la deviazione verso il conbini vicino casa sua.
«Ohi, fermati!» sentì esclamare, il tono piuttosto irritato a quanto sembrava.
Aveva proseguito senza badare troppo ai pochissimi passanti che si potevano incrociare a quell’ora – per lo più impiegati attardatisi sul posto di lavoro e qualche ubriaco innocuo se lasciato andare per la sua strada – e si sentì quasi risvegliato dal proprio torpore da quella voce squillante.
Assottigliò lo sguardo, cercando di distinguere qualcosa di preciso nel buio davanti a sé, fuori dalla luce dei lampioni sulla via; apparentemente nulla.
Inspirò. Di nuovo youkai, forse?
«Stupida, inutile lanterna!» sbottò di nuovo la stessa voce e allora riuscì a distinguere un movimento al proprio fianco; voltando appena il viso, si ritrovò ad osservare un ragazzo che lo sorpassò, svelto.
A dire il vero, prima ancora di lui era stata una luce vista solo con la coda dell’occhio a portarlo per istinto a girarsi: la lanterna in questione – un cosiddetto chochinobake se non ricordava male, uno youkai minore del tutto innocuo – era sfrecciata oltre lui, fuggendo da chiunque fosse il padrone della voce che le inveiva contro. E proprio quest’ultimo era stato il ragazzo rientrato poco dopo nel suo campo visivo.
«Questo succede perché accetti lavori stupidi.» lo redarguì annoiato quello che a una prima occhiata scambiò lui stesso per un altro umano; l’unica cosa che lo fece ricredere fu la sensazione che gli dava: era diversa da quelli di spiriti minori come quella lanterna, ma simile nell’essenza di base.
Hideyuki li vedeva da che aveva memoria e, con il tempo, aveva imparato a non prestarvi troppa attenzione sia per non destare sospetti in chi non li vedeva, sia per non stuzzicare la loro curiosità. A forza di incontrarne, però, era riuscito a distinguere sempre più chiaramente quando erano inoffensivi: aveva letto qualcosa in merito, ma il più era una questione di puro istinto – o, come alcuni lo chiamavano, di “sensibilità”.
La norma era quel chochinobake: spiriti deboli, magari fastidiosi o dispettosi, ma innocui. Poteva essercene qualcuno di medio livello, quello era indubbio, ma non aveva mai incontrato uno youkai che gli desse quella sensazione di pura violenza.
Anche se sembrava del tutto a proprio agio vicino al ragazzo umano che era ormai diversi passi davanti a lui.
Con discrezione, Hideyuki lo guardò; mentre si chiedeva se quel ragazzino fosse vittima di un suo giogo o se ci fosse qualche altra motivazione per quella sospetta vicinanza, lo youkai stesso incrociò il suo sguardo. Un istante di genuina sorpresa fu quello che scorse nei suoi occhi, prima di notare il sorriso divertito che gli dipinse sul volto.
«Oh-oh. Sembra che ci sia un tuo simile, Haruki.» disse, anche se apparentemente non bastò ad attirare l’attenzione del compagno: «Grazie al cazzo, sono in una strada pubblica!» sbottò, credendo erroneamente che quello dell’altro fosse un avvertimento in merito alla presenza di un umano e quindi di orecchie indiscrete.
«E comunque sarà pure inutile ma è un lavoro, e puoi andartene dove ti pare se ti annoi tanto. So occuparmi da solo di una stupida lanterna!»
«Andarmene perdendomi il divertimento delle tue imprecazioni? Mai.» ribatté l’altro.
«Uhm…»
Non era il tono dubbioso né dell’uno né dell’altro, e Hideyuki fu probabilmente l’unico ad accorgersene, perché la voce apparteneva a qualcuno che – dalla posizione dei due litiganti, che al momento si guardavano ignorando la strada – solo lui aveva inquadrato.
«State cercando questa?» azzardò di nuovo avvicinandosi al ragazzo che era stato chiamato Haruki, che finalmente si voltò vedendo la lanterna quasi afflosciata su se stessa che gli veniva porta. La guardò stupito e confuso, prima di inquadrare chi effettivamente l’aveva allungata verso di lui: una ragazza.
«…Tu la vedi.» fu ciò che disse – attestando l’ovvio, a giudicare dal sigillo che proprio lei sembrava aver applicato sulla lanterna.
«Sì.» replicò lei semplicemente, avvicinandogliela ulteriormente.
«Fregato da una ragazzina.»
«E sta’ un po’ zitto!» sbottò all’indirizzo del suo “compagno”, senza allontanare lo sguardo da lei, guardingo.
«Se non ti serve, la libero.» disse solamente lei, piuttosto tranquilla, passando lo sguardo da Haruki allo youkai al suo fianco; Hideyuki era certo che lo vedesse, oltre che sentirlo.
«Mi serve.» disse brusco, prendendola fra le mani senza troppe cerimonie. Lei non parve badarci troppo, interessata più a chi lo affiancava che non al chochinobake.
«Curioso trovare un’umana che non si spaventi di fronte a certe cose.» buttò lì con disinvoltura lo youkai.
«Mai quanto vedere un demone vicino ad un essere umano senza che il primo cerchi di mangiare il secondo.» ribatté, ma non particolarmente seccata.
Hideyuki sbuffò divertito, e questo lo tradì, perché Haruki finalmente sembrò notarlo.
«Che diavolo…?»
«Te l’ho detto» lo interruppe il demone «sembra che ci sia un tuo simile. O addirittura due.»

 

 



 

Note
Conbini:
mini-market aperti 24 ore su 24.
youkai: traducibile con “apparizioni”, “spiriti” o “demoni”, sono una classe di creature della mitologia giapponese. (wikipedia)

La citazione in apertura è della canzone “Buddy”, opening di Last Exile: Fam the Silver Wing, cantata da Sakamoto Maaya.

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Capitolo 2
*** Hinoenma ***


I
Hinoenma

 

Because we, who do nothing but searching,
are very similar to a mirror:
though we connect just by facing each other,
we still can’t touch each other.

 

Dopo quell’infelice uscita da parte del demone avevano passato una manciata di minuti a guardarsi: era stato chiaro da subito che nessuno dei tre quella sera si era aspettato di incontrare altre persone capaci di vedere gli youkai.
Se avesse dovuto sbilanciarsi sulla reazione propria e degli altri due, Chiaki avrebbe affermato che il più giovane dei ragazzi doveva averla trovata una seccatura, mentre per l’altro sembrava una novità degna di nota per i primi minuti: una sorpresa, ma nulla di sconvolgente. Forse conosceva già qualcuno con la propria capacità e non se ne era stupito più di tanto.
Chiaki non avrebbe saputo spiegare bene cosa aveva provato. Curiosità, quella di sicuro: l’unica altra persona con una percezione simile alla sua era suo padre, che non vedeva, ma appunto percepiva; c’era una differenza abissale tra le due cose, ma era ciò che più si avvicinava a quei due.
Era abbastanza certa, nonostante non avesse avuto molto tempo per osservarlo e sincerarsene, che quel demone in compagnia di uno dei ragazzi fosse il più forte che avesse mai visto fino a quel momento. O almeno, la sensazione che aveva avuto era stata quella.
«Chiaki, la colazione!» sentì chiamare dal piano di sotto, la voce femminile familiare ormai.
«Arrivo!» esclamò di rimando, controllando sul piccolo specchio della scrivania che la cravatta della divisa fosse ben annodata sotto il colletto della camicia; recuperò la cartella e uscì dalla stanza.

Avrebbe voluto chiedere loro qualcosa di più e, forse, avrebbe dovuto farlo davvero. La situazione però non gli era sembrata del tutto adatta al fare conoscenza o domande in generale: quello che dei due le era parso il più giovane, sembrava aver totalmente perso interesse nel momento in cui aveva recuperato la lanterna; non c’era molto da stupirsene, se si considerava che era stata il punto focale della sua attenzione fin da quando Chiaki lo aveva sentito parlare per la strada.
L’altro, dopo una prima occhiata interessata, era stato evidentemente intenzionato ad andare per la sua strada.
Chiaki non era certa di voler fermare nessuno dei due, o di voler davvero sapere come fosse stato possibile non incontrarsi mai prima di allora se tutti e tre vedevano le stesse cose.
Farsi gli affari propri era sembrato molto semplice e più comodo, e aveva assecondato quello piuttosto che la curiosità: non aveva detto il proprio nome, non aveva chiesto il loro – anche se aveva dedotto che quello del ragazzo con il demone fosse Haruki, visto che era stato chiamato così.
«Hiiragi-san» si voltò di riflesso, incrociando lo sguardo di una compagna di classe: Aikawa Mizuna era la capoclasse dall’inizio dell’anno, una delle più discrete tra le sue coetanee. La vide che le sorrideva con cortesia, e incurvò le labbra in modo da poter ricambiare.
«Aikawa-san.» salutò, aggiungendovi un cenno del capo. Era per comunicazioni di poco conto che Aikawa la fermava fuori da scuola, di solito; ma a giudicare dalla piccola folla che c’era all’ingresso, pensò che dovesse esserci qualche novità dell’ultimo minuto che coinvolgesse l’intera classe o qualcosa del genere.
«Alla prima ora studieremo per conto nostro. Dovremmo comunque fare l’appello prima possibile, puoi avvisare quelli della nostra classe, se li incontri?»
«…Ah.» le scappò prima che potesse rendersene conto, conscia subito dopo che non suonava molto cortese da parte propria: «Credevo fosse successo qualcosa.» si salvò in corner, con un’occhiata alla folla «Non c’è problema.» assicurò poi in merito al favore chiesto.
«In un certo senso è per la folla.» ammise l’altra con una leggera alzata di spalle: «Uno studente del primo anno è tornato dopo diversi giorni di assenza, e sembra che come prima cosa abbia iniziato una rissa stamattina.» disse sospirando.
Chiaki alternò lo sguardo da lei al punto dove il brusio degli studenti sembrava più forte; avvicinandosi, tra le varie teste, riconobbe quella di Ikeda-sensei: non era un docente particolarmente severo, e insegnava letteratura contemporanea nella classe di Chiaki. Da quanto ricordava, era il responsabile di una classe del primo anno.
«Che diamine avete da guardare?!» sentì sbottare poco più avanti, senza riuscire a inquadrare il padrone della voce a causa delle persone che le coprivano la visuale. Vide però il professore assumere un’aria di rimprovero e muoversi di lato, portando con sé lo studente che stava attirando tanto l’attenzione.
Dalla propria posizione Chiaki non riuscì a sentire cosa disse l’uomo, ma finalmente le fu possibile vedere chi fosse il suo interlocutore.
«Aikawa-san, conosci il nome di quello studente?»
«Mh? Kirihara… credo. Ma non so il nome.» ammise lei, distogliendo l’attenzione da lui e cercando con lo sguardo qualche compagno che potesse essere arrivato nel frattempo: «Allora ci vediamo in classe, Hiiragi-san.» disse, allontanandosi senza aspettare la sua risposta.
Chiaki annuì distrattamente, raggiungendo il proprio armadietto.
Mentre si cambiava le scarpe, pensò che ancor più assurdo del non essersi mai incontrati seguendo gli youkai fosse non aver mai notato Kirihara Haruki lì a scuola.

Non si era davvero sorpresa quando, fatto l’appello e segnate le assenze sul registro, nella sua classe si era formato subito un brusio di sottofondo. Era chiaro che, se anche qualcuno avesse avuto intenzione di studiare, la scena all’ingresso doveva aver destato troppa curiosità nella maggior parte di loro.
Chiaki aveva tenuto il libro aperto di fronte a sé, segnando di tanto in tanto qualcosa sul quaderno; non era però nulla di così impegnativo da isolarla dai commenti altrui.
Sembrava che Haruki fosse abbastanza “famoso”, tra gli studenti del primo anno: sgarbato e scostante, aveva anche una buona media nel complesso, ma c’erano volte in cui mancava anche per un’intera settimana. Ufficialmente sembrava che la sua famiglia chiamasse sempre per avvisare che si trattava di febbre o visite dal medico e per questo i docenti non avevano mai fatto particolari questioni, da quanto si sapeva. Tuttavia Kirihara non aveva affatto l’aria di un ragazzo cagionevole, e la rissa sfiorata quella mattina non aveva fatto che confermare le supposizioni dei più avvezzi al pettegolezzo.
Chiaki non riusciva a capire il perché di tanto interesse, ma soprattutto il motivo per cui si dovesse ricamare tanto sopra le questioni private di un’altra persona per nessun motivo se non la propria soddisfazione.
Non che fosse una novità non comprendere appieno i suoi coetanei, a dire il vero. Era già da considerarsi un miracolo che non venisse considerata a propria volta una disadattata sociale dai suoi compagni di classe, cosa che doveva principalmente alla capacità di interagire con loro in un modo che – seppur distaccato – era cortese abbastanza da non farla sembrare “strana”, ma solo riservata.
«E quindi? Lo hanno rimandato a casa?»
«No, sembra che sia in infermeria perché nessuno può venire a prenderlo. Così ho sentito da un suo compagno di classe prima, almeno!»
Chissà se in infermeria quel demone gli teneva compagnia, si chiese all’improvviso, senza neanche un vero e proprio motivo. Fermò la penna poco prima che si posasse di nuovo sul foglio per annotare l’ennesimo vocabolo inglese: in effetti, ora che ci pensava, non lo aveva visto nemmeno prima nell’atrio.
Forse era da evocazione? Non le sembrava di ricordare qualcosa del genere, anche se doveva ammettere di non aver ancora controllato i demoni che rientravano in quella categoria e che erano anche di alto livello. Non per negligenza, quanto perché negli appunti generali c’era scritto che contratti con demoni simili avvenivano molto più in passato, ed erano stretti solo con umani dal potere spirituale molto elevato e una formazione rigida per avere a che fare con essi.
Chiaki, però, aveva sempre a che fare con youkai di medio o basso livello, e soprattutto con persone che al massimo ne erano influenzate o possedute, che nemmeno li vedevano – di conseguenza non era plausibile che stringessero alcun patto.
Rabbrividì impercettibilmente: aveva idea che avere un contratto con uno di quelli non fosse niente di positivo. Soprattutto, il prezzo da pagare doveva essere qualcosa che rendeva il contratto davvero pericoloso.
Si chiese chi fosse Kirihara Haruki per fare una cosa tanto sciocca, oppure in quale guaio si fosse cacciato per esservi costretto.

Osservò la porta dell’infermeria con astio, solo al suo interno.
Spostò lo sguardo, portandolo verso la finestra chiusa, visto il freddo che faceva fuori; l’infermiera lo aveva lasciato lì, dicendo che sarebbe andata via il tempo sufficiente a prendere un caffè in sala professori e tornare. Era via da almeno un quarto d’ora.
«Soffri la solitudine?»
«Sta’ zitto. Lasciami perdere quando sono a scuola.»
Shiki ridacchiò, conscio di non poter essere scacciato comunque, e che il lasciar in pace o meno il suo umano preferito dipendesse quindi unicamente dalla sua volontà e bontà d’animo.
«Non che senza di me tu abbia molte persone con cui parlare, comunque.» osservò, fingendo che il commento fosse casuale: «E dire che ieri sera hai avuto l’occasione di fare amicizia. Invece sei andato via con la lanterna. Avevano pure un buon odore, sai? Almeno la ragazza.»
«Maniaco.»
«Non intendevo in quel senso, ma volendo…» insinuò divertito, osservandolo di sbieco lì dov’era, sdraiato con nonchalance sullo stesso letto dov’era seduto Haruki. Lui non si voltò, sospirando seccato e sobbalzando appena solo quando sentì la porta aprirsi.
Per un attimo temette che l’infermiera lo avesse sentito parlare – e ai suoi occhi sarebbe apparso solo nella stanza, come succedeva sempre. Non che fosse una novità, qualcuno che lo pensava fuori di testa o gli dava del bugiardo.
Quando si voltò, tuttavia, non seppe bene cosa provò: se sollievo o una sorta di irritazione per lo più ingiustificata. Di sicuro non aveva idea del perché la ragazza della sera prima rimanesse impalata sulla soglia, specialmente perché non aveva l’aria di chi non si aspettava di trovare l’altro lì, ma quella di chi ha trovato proprio chi stava cercando.
Chiaki rimase ferma per qualche istante, dopodiché entrò definitivamente nell’infermeria lasciando scorrere la porta alle proprie spalle, chiudendola.
«L’infermiera non c’è.» disse subito lui con tono brusco, puntando lo sguardo verso la scrivania vuota.
Lei mosse qualche passo, ma si fermò vicina ad uno sgabello dove solitamente si sedeva chi aveva bisogno di qualche medicazione veloce; vi prese posto in silenzio, composta, le mani poggiate in grembo.
Haruki non si era aspettato il silenzio in risposta, ma ne era ben contento. A dispetto delle parole di Shiki – che poi erano palesemente prese in giro – non aveva alcuna intenzione di fare l’amichetto con due tizi sconosciuti solo perché anche loro vedevano quella roba. Nemmeno se uno dei due, come la ragazza, era della sua stessa scuola.
«Non sono venuta per l’infermiera.» la sentì dire, mandando in pezzi le sue speranze di essere ignorato esattamente come lui aveva intenzione di fare con lei. Chiaki però non fu granché demoralizzata dall’atteggiamento dell’altro: «In verità sono venuta per parlare con lui.» aggiunse, indicando Shiki che aprì un occhio, sentendosi chiamato in causa.
Haruki non poté nascondere del tutto la leggera sorpresa, dovuta di certo al fatto che non fossero molte le persone che lo avvicinavano per parlare con il demone che tecnicamente nessuno avrebbe dovuto essere in grado di vedere.
Sentì Shiki mettersi a sedere, e già immaginava che espressione potesse avere in quel momento; sospirò.
«Lusingato.» disse infatti, osservandola. La stava studiando, poco ma sicuro: «È sempre meglio attirare l’attenzione di una signorina che di un bamboccio scorbutico.» aggiunse in un evidente riferimento a Haruki, il quale fece schioccare la lingua in un verso di stizza.
«Cosa vuoi chiedermi?» la incalzò quindi Shiki, ignorando il suo contraente o qualunque cosa Haruki fosse per lui.
Chiaki non rispose subito. Sembrava prendere tempo, se per elaborare il proprio quesito o la presenza di Shiki Haruki non lo sapeva né era particolarmente interessato a scoprirlo: «Volevo chiederti se hai visto qualche studente posseduto qui a scuola.» espresse infine la ragazza, gli occhi su di lui, senza sfumature spaventate o preoccupate. Quello fece voltare Haruki: poteva essere anche abituata a vedere youkai
come lui, ma era sicuro che non fosse normale incontrare uno come Shiki e che, se davvero era dotata, non era possibile che non percepisse almeno un minimo il livello del demone. E, se così era, che non avesse la minima reazione in sua presenza.
«Se è un modo carino di chiedermi se ho posseduto Haruki, ammetto che almeno è originale.» replicò lui, sardonico.
«In verità non è questo che volevo sapere. Mi sono posta il dubbio, ma credo di aver già trovato la risposta.»
«E quale sarebbe?» domandò incuriosito, più del ragazzo che gli stava accanto.
«La tua riguardo le possessioni qual è?» tornò al discorso iniziale, guardandolo senza scomporsi. Haruki sbirciò l’espressione di Shiki: non aveva particolarmente in simpatia quella ragazza, a pelle; però era anche vero che era la prima volta che qualcuno si rivolgeva al demone con tanta calma. Si chiese cosa fosse abituata a vedere.
Forse Shiki si chiedeva la stessa cosa, o quantomeno doveva essere incuriosito da lei, visto che si prese anche la briga di rispondere: «Non che io abbia notato» disse pigramente «ma ci sono delle presenze, se è quello che ti interessa.»
Chiaki tacque, portando lo sguardo sulle proprie mani, pensando: delle presenze si potevano trovare un po’ ovunque a dire il vero, e le scuole erano affollate; dal punto di vista degli youkai che volevano dei contatti con gli esseri umani erano uno dei luoghi più sicuri dove trovare molti della specie. Ma si trattava molto spesso di spiriti minori, per lo più incuriositi o abituati a fare qualche scherzo innocuo. Non era frequente la presenza di qualcosa di maligno, che invece temeva fosse quello che stava cercando.
«…Ho capito.» pronunciò infine, ancora persa in qualche suo pensiero messo subito da parte per tornare a guardare gli altri due occupanti della stanza: «Ti ringrazio. Cercherò con più attenzione da sola.» decretò, facendo per alzarsi mente Shiki sbuffava divertito.
«Non sembra una cosa molto intelligente da fare.» osservò con fare quasi canzonatorio: «Non capirò mai questa mania di voi esseri umani di immischiarvi nelle faccende che non vi riguardano.»
«Se un essere umano volesse distruggere la tana di alcuni youkai tu li aiuteresti?» chiese lei a bruciapelo, sistemando le pieghe della gonna della divisa. Haruki si chiese se si fossero dimenticati non tanto della sua presenza, quanto del fatto che quella non era una stupida chiacchierata di fronte a una tazza di tè. Iniziava a spazientirsi e lui non voleva nessuno lì dentro, specialmente perché non sapeva nemmeno il nome di quella tizia; anche se almeno, qualora l’infermiera fosse rientrata, nessuno dei due sarebbe sembrato un pazzo che parlava da solo.
«Alcuni lo fanno. Anche se non si piacciono tra loro.» proseguì, forse perché non si aspettava una vera risposta da Shiki: «E poi, non vale lo stesso per gli youkai? Perché vengono nelle scuole, che sono un luogo umano?» domandò, anche se era retorica o almeno così la interpretò Haruki.
Nel silenzio che cadde tra loro, la campanella annunciò il cambio dell’ora. Chiaki piegò un poco il braccio per controllare l’orologio da polso: «Devo tornare a lezione.» disse rivolta più a se stessa che agli altri due, cui rivolse invece un semplice cenno del capo, cortese.
Si voltò, raggiungendo la porta, ma guardò al di sopra della propria spalla verso di loro: «…ti senti male, Kirihara-kun?» chiese studiandolo.
«Eh?» ribatté d’istinto, non avendo idea di come fosse venuta fuori una domanda simile, se non per il fatto che fosse in infermeria. Ma era sicuro che nessuno in quella scuola fosse all’oscuro di quanto avvenuto la mattina all’entrata, perciò era chiaro che fosse lì in attesa che qualcuno venisse a prenderlo.
Haruki odiava buona parte dei suoi coetanei e dei loro modi di fare, ma se c’era una cosa che sopportava meno delle altre, era quando facevano i finti tonti per mostrarsi pieni di buone intenzioni che non erano altro che ipocrisia bella e buona. Si sentiva trattato da stupido e disprezzava tanto loro quanto se stesso, che evidentemente dava l’idea di essere qualcuno di cui ci si poteva prendere gioco in quel modo.
Indurì lo sguardo: «Certo. Come no.» replicò senza neanche provare a nascondere l’ironia nel tono di voce.
«Mh. Allora ti auguro di rimetterti in fretta.» disse soltanto lei, aprendo la porta e uscendo, chiudendola poi una volta fuori dall’infermeria.
Haruki inarcò un sopracciglio, non sapendo chi si fosse fatto prendere in giro, alla fine: lei o lui?


«Perché diamine stiamo tornando a scuola.» si lamentò di nuovo seguendo Shiki, le mani in tasca.
Suo nonno era andato a prenderlo a ridosso della pausa pranzo, ringraziando l’infermiera per essersi presa cura di lui e riportandolo a casa. Non gli aveva chiesto niente, dopo l’iniziale “hai fatto a botte, Haruki?” al quale aveva risposto la verità – “No”.
Suo nonno era così, credeva a quello che diceva, per una specie di tacito accordo che era più che altro una promessa fatta quasi sette anni prima quando era solo un bambino: Haruki aveva giurato di non mentirgli mai, e l’anziano aveva detto che allora gli avrebbe sempre creduto. C’erano stati momenti in cui Haruki non ci aveva nemmeno sperato, invece suo nonno era sempre stato dalla sua parte, senza mettere in dubbio le sue parole. Credeva che fosse una cosa eccezionale, perché lui non sapeva avere tanta fiducia nelle persone.
A parte nell’uomo, certo. Perché si sarebbe sentito orribile, a dubitare di lui.
«Non avevi di meglio da fare comunque.» rispose annoiato Shiki, precedendolo di qualche passo. Haruki avrebbe potuto lasciarlo andare da solo, visto che non aveva motivo di tornare a scuola quando poteva evitarselo; tuttavia Shiki non si spostava mai se non c’era una ragione, questo lo aveva imparato subito. Si chiedeva cosa fosse stavolta.
Non che ci fossero molte possibilità, comunque: a meno che non trovasse il corridoio del secondo piano particolarmente affascinante, doveva stare cercando qualche youkai.
«Che palle.» commentò, pur continuando a seguirlo e alzando lo sguardo perplesso quando vide che si era fermato davanti un’aula la cui targa recitava “2-3”.
Non fece in tempo a chiedergli cosa facessero in una classe del secondo anno – non che fosse importante, in realtà – che il demone aveva aperto la porta ed era entrato; lo seguì, vedendo di sfuggita le sue labbra incurvarsi in un sorrisetto divertito di chi ha trovato quello che si aspettava.
«Oh. Guarda chi c’è.» commentò e, guardando verso le finestre e i banchi vicino ad esse, Haruki riconobbe la ragazza dell’infermeria.
Non sembrava sorpresa di vederli o forse lo mascherava bene, non ne aveva idea.
«Non mi aspettavo che qualcun altro fosse ancora a scuola a quest’ora.» osservò, puntando lo sguardo su Haruki; lui si aspettava già qualche domanda stupida sulla sua salute ma lei distolse lo sguardo, tornando a muoversi fra i banchi come doveva aver fatto prima di essere interrotta dal loro ingresso.
«Allora è qui, quello che credi sia posseduto?» chiese Shiki, come se fosse ovvio fin dall’inizio che era di quello che si stava parlando. La ragazza mosse qualche passo ancora, sfiorando diversi banchi con la mano.
«Sì. E non credo sia posseduto.» disse, alzando lo sguardo su di lui, le sopracciglia appena aggrottate che le conferivano un’aria preoccupata – e la prima vera espressione che Haruki le avesse visto assumere, in effetti: «Sono sicura. E credo di aver anche trovato lo youkai. O almeno di aver capito quale sia. Sto cercando qualcosa che me lo confermi.» spiegò brevemente.
«Parli come un’esorcista di professione. Chi cavolo sei, una bambina prodigio di un tempio sperduto tra le montagne che è stata istruita per salvarci tutti dagli spiriti cattivi?» sputò fuori, antipatico.  
Shiki sbuffò, non stupendosi tanto di quanto Haruki fosse sgarbato quanto del pessimo tempismo che sembrava avere in ogni occasione, nonché della sua capacità di indispettire le persone dalle quali Shiki (o entrambi) volevano informazioni. In compenso la ragazza non sembrava offesa, e se lo era sapeva mascherarlo bene – tuttavia, si redarguì il demone, poteva non mostrarlo con le espressioni ma non era altrettanto sicuro che potesse nasconderlo a lui in altri modi. Ne sentiva il battito del cuore distintamente: era appena più veloce, ma non troppo accelerato.
«Nessuna delle cose che hai elencato.» replicò lei, sorridendo a entrambi. Era una gentilezza superficiale, una sorta di cortesia mista a una buona educazione che una volta appresa diventa una cosa di cui è difficile liberarsi. Haruki la trovava snervante.
«Non sono un’esorcista di professione, non vengo da un tempio sperduto tra le montagne e non devo salvare nessuno, né sono istruita per farlo. Non mi considero neanche una bambina prodigio. Ho solo fonti affidabili sugli youkai.» ammise. Haruki si chiese se fosse capace di cogliere il sarcasmo nelle persone o meno, perché a lui sembrava di no.
«E le tue fonti che direbbero?» domandò scettico. Andiamo, se avesse avuto qualcuno che si intendeva di quelle cose non ci sarebbe stato alcun bisogno che se ne occupasse lei. Beh, magari dentro la scuola sì, ma a conti fatti anche loro due erano lì senza permesso, pur essendo studenti. Sarebbero comunque finiti nei guai, se un custode li avesse trovati.
«Sai cos’è un Hinoenma?» ribatté lei, poggiandosi leggermente contro il banco alle sue spalle. Haruki inarcò un sopracciglio, passando dal guardare lei al guardare Shiki, che con un sorriso enigmatico si era andato a sedere sul banco vicino. Ovviamente non sembrava intenzionato a dare suggerimenti.
Demone di merda.
Il suo silenzio fatto di imprecazioni mentali contro Shiki doveva aver suggerito che no, non ne aveva idea, perché lei continuò a parlare anche se gli occhi sostavano sul banco di fronte, non su uno di loro.
«È uno spirito, un Succubo per essere precisi. Sembra che si nutra dell’energia o del sangue umano, di prede maschili. Non è una figura rara, si incontra in moltissime superstizioni occidentali. Non sono certa che dire che la sua vittima “è posseduta” sia corretto, se per possessione si intende che l’umano in questione viene costretto a compiere azioni di un certo tipo ai danni di qualcun altro. La uso per praticità, comunque.»
Haruki notò che parlava con voce relativamente piatta, come quando si ripeteva una lezione imparata a memoria, o qualcosa spiegata così spesso che ormai non c’era più bisogno di prestare attenzione per non sbagliare. Questo non lo aiutava a inquadrarla.
«Non è facile trovare le tracce dei Succubi o degli Incubi» prese parola Shiki, le braccia incrociate dietro la testa a far da cuscino contro il muro alle sue spalle: «a meno che tu non abbia un olfatto piuttosto sviluppato e senta l’odore del sangue delle loro vittime.» aggiunse beffardo.
«Lo so.» ammise lei scostandosi dal banco e piegandosi sulle ginocchia, guardando sotto quello che aveva avuto di fronte fino a quel momento e che aveva fissato anche mentre parlava. Non le ci volle molto per ritirare la mano, tenendo qualcosa fra le dita.
«…Il tuo indizio sarebbero dei cerotti.» commentò allucinato Haruki. Va bene essere fuori di testa, si rendeva conto che lui non potesse dire molto visto che appariva spesso come uno che parlava da solo, però insomma. Lei gli faceva concorrenza.
«Ieri la scatola era piena.» spiegò avvicinandosi e porgendogliela, in un tacito invito a guardare dentro. Per nulla convinto la prese e sbirciò, dal momento che era aperta: c’erano appena un paio di cerotti.
«Sagara-kun ha iniziato a stare male qualche giorno fa.» riprese senza che lui le facesse nessuna domanda «Ha avuto un mancamento durante Educazione Fisica e lo hanno portato in infermeria. Il giorno dopo mi ha chiesto in prestito un cerotto perché si era tagliato e gli si stava macchiando la divisa. Non ho fatto domande, ma la macchia era vicina al colletto della camicia, e non è un punto dove generalmente è facile tagliarsi. Da quel giorno la sua anemia è peggiorata, e ha iniziato a usare diversi cerotti. Ho pensato che forse erano aumentate le ferite, ma non ha tagli visibili nuovi. È anche vero» si corresse immediatamente, forse preannunciando la replica che Haruki stava per rifilarle «che la divisa scolastica copre un buon 80% del corpo. Per quanto ne so, potrebbe avere tagli ovunque e in posti dove ci si può anche ferire. Ma le anemie non vanno peggiorando e comunque non così tanto da un giorno all’altro.» disse recuperando la confezione quasi vuota.
«Se ne soffrisse di suo fin da bambino, o da abbastanza tempo perché gli sia stata diagnosticata, avrebbe sicuramente una terapia fatta di integratori o qualcosa che comunque non lo faccia collassare nel mezzo del corridoio, oltre che di una lezione. Durante Educazione Fisica l’affaticamento potrebbe aver fatto il resto, ma in corridoio no. Ho pensato che potesse essere un sintomo di qualcosa che non andava, anche se era molto azzardata come ipotesi.»
«Meno male che te ne accorgi da sola!» sbottò Haruki, allargando d’istinto le braccia in un gesto incredulo. Andiamo, ma che senso aveva? – senza contare che quella tizia sembrava una stalker, a sentirla parlare.
«Però» riprese «ho provato a parlargli ieri. Sagara-kun non era in sé, su questo non ho dubbi. A quel punto, l’idea di un Succubo mi è sembrata la più verosimile. Anche perché mi è apparso piuttosto astioso non contro di me nello specifico, ma in generale.»
«Quindi contro una donna.» concluse Shiki per lei, guardandola mentre annuiva.
Haruki li fissò entrambi: «Mai pensato che magari non ti sopporta e basta?»
«Io e Sagara-kun non abbiamo quel tipo di rapporto. Ci siamo parlati molto poco da quando siamo in classe insieme.» fece presente come se non ci fosse nemmeno da prendere in considerazione che fosse una ripicca personale o qualcosa del genere.
Haruki non fece commenti: non è che lui fosse la persona più indicata a parlare di come dovessero essere i rapporti tra compagni. Almeno nel caso di quella pazza si trattava di uno solo; lui a malapena sapeva chi c’era nella sua classe, in pratica.
Sbuffò: «Va beh, come ti pare.»
«E quindi la prossima mossa, signorina?» chiese invece Shiki, tirandosi su e scendendo dal banco. Lei si mosse, ma per raggiungere la porta, non lui.
«Se il conto dei giorni che ho fatto è giusto, ormai sarà quasi ora per il Succubo di cambiare preda. Quindi devo solo trovare Sagara-kun.»
«Per esorcizzarlo?»
«Non proprio. Non sono un’esorcista, l’ho detto. Però c’è qualcosa che posso fare per scacciare il Succubo per il momento. Non posso fare di più, perché non ne ho le capacità.» ammise, sospirando impercettibilmente e facendo scorrere la porta.
«Anche se questo Sagara non ti piace nemmeno?» chiese a bruciapelo Shiki – Haruki lo guardò male, non per un picco di sensibilità nei confronti di lei, quanto perché aveva la sensazione che si stesse immischiando in qualcosa con cui non voleva avere a che fare, visto che non lo riguardava e non era una richiesta di lavoro fatta a lui personalmente.
«Solo perché non ci parliamo non significa che io voglia vederlo morire.» commentò semplicemente la ragazza, voltandosi a guardare il demone. Haruki fu stupito non tanto dal fatto che ci conversasse come se nulla fosse – a quello aveva rinunciato a trovare una spiegazione – quanto più dal fatto che avesse pronunciato quelle parole come se fossero ovvie.
Come suo nonno aveva trovato scontato credere a tutto quello che diceva solo perché Haruki aveva promesso di non mentire quando era bambino.
Non capiva: come si faceva a credere così tanto alle persone o ai propri sentimenti?
«Ohi.» la richiamò «Com’è che ti chiami?»
Lei lo guardò, spiazzata perché evidentemente non si era aspettata quella domanda; Haruki pensò che era ora mostrasse un cambio di espressione normale e degno di essere definito a quel modo. Poi la vide incurvare le labbra in un sorriso che aveva ancora la sfumatura della stessa cortesia di poco prima – ma non c’era educazione, anche se non sapeva dire cosa fosse ad animarle quell’incurvarsi di labbra che sembrava diverso.
«Hiiragi Chiaki. Credevo non ti interessasse, Kirihara-kun.»

Il locale dove si esibiva con la sua band era sempre abbastanza frequentato, affollato quando la serata era pubblicizzata; era un posto tranquillo, però, di quelli dove raramente si rischiava di veder uscire persone ubriache che potessero causare problemi a terzi.
A Hide piaceva, ed era per questo che lui e gli altri avevano scelto di restare lì, piuttosto che tentare qualche esibizione altrove per essere più visibili una sera o due, e poi finire chissà dove.
Non poté non stupirsi quando, poco distante, notò un giovane accovacciato e dall’aria di non sentirsi troppo bene; aveva vestiti comuni, ma era abbastanza sicuro che non fosse più grande di lui, anzi.
Si avvicinò con cautela, osservando diversi passanti – per esperienza sapeva che qualcuno che veniva ignorato era, spesso, qualcosa che vedeva solo lui. Diversi passanti però stavano lanciando occhiate al ragazzo per poi continuare per la propria strada, perciò Hide si chinò leggermente verso di lui: «Ehi, è tutto a posto?» lo richiamò, posandogli la mano sulla spalla, con gentilezza.
Il ragazzo inspirò rumorosamente, come se non riuscisse a respirare bene, e puntò lo sguardo su di lui.
A Hide non capitava più di spaventarsi per gli youkai, anche perché per motivi che non comprendeva non lo infastidivano granché, e di questo era grato. Capitavano volte, però, in cui ne vedeva alcuni che gli mettevano davvero i brividi; lo sguardo di quel ragazzo, che di umano non aveva nulla, era l’esempio lampante di quel qualcosa di sovrannaturale che ancora riusciva a metterlo a disagio.
Poi lo vide: un volto di donna parzialmente trasfigurato da un’espressione che era un misto di sadica gioia e l’istinto primordiale della caccia, tipico soprattutto di quei predatori a cui il cibo è stato negato troppo a lungo. Non ne aveva mai visto uno così, specialmente rimanere in parte attaccato ad un corpo che sembrava sul punto di spezzarsi in due, piegandosi in modo innaturale.
Inspirò. Abituato o meno agli youkai, c’erano immagini a cui era certo non sarebbe mai riuscito a rimanere impassibile.
«Sagara-kun?» sentì chiamare e alzò lo sguardo, ritrovando alla propria sinistra e distanti pochi metri i due ragazzi incontrati la sera prima. Demone compreso.
Lei sembrava più sconvolta che inquietata, e Hide non seppe dire quale delle due reazioni fosse la più auspicabile. Aveva la sensazione che la più umana fosse il disgusto, visto il modo innaturale in cui si trovava il corpo del ragazzo che aveva vicino e come quello spirito vi fosse ancora avviluppato.
Lo youkai si voltò bruscamente, puntando lo sguardo sui due più giovani; il cambio di espressione fu visibile, ma lo spirito era già scattato in avanti e Hide non avrebbe saputo dire di preciso quale sentimento stesso animando l’essere che aveva puntato i due ragazzi.
Niente di positivo, però: solo le intenzioni negative avevano quell’odore terribile.
«Shiki, che stai—» chiese Haruki, mentre il demone si sistemava davanti a lui.
«Evito che la mia preda diventi la preda di qualcun altro.» replicò quello con tutta calma, quasi pregustando l’idea di cibarsi di quello spirito che evidentemente non costituiva alcuna minaccia per lui: «Non posso garantire per te, però.» aggiunse rivolto a Chiaki, che strinse tra le mani quello che aveva tutta l’aria di essere un ofuda, anche se Haruki non riuscì a distinguere cosa ci fosse scritto sopra.
«Fermo.» fu l’unica cosa che sentirono pronunciare entrambi, prima di vedere quello stesso spirito bloccarsi lì a nemmeno un metro da loro. Lo osservò basito, guardando Chiaki che sembrava sorpresa quanto lui.
«Permetti?» pronunciò Hide, passando accanto allo spirito e alludendo al sigillo tra le mani della ragazza; lei annuì, porgendoglielo incerta. Preso tra le dita, lo fece aderire sulla fronte dello youkai.
Quello, con un verso strozzato, si fece sempre più inconsistente fino a sparire.

 

 

 

 

Ofuda (o-fuda): talismani attribuiti ai templi shintoisti. Sono realizzati scrivendo il nome di un kami (dio), di un tempio o di un rappresentante del kami su un pezzo di carta, legno, stoffa o metallo. Generalmente utilizzati per protezione, nei manga sono spesso visti come mezzo per combattere gli youkai. In quel caso, il testo appartiene a un sutra o un mantra e possono essere utilizzati per respingere demoni o sigillarli in luoghi chiusi. (wikipedia)

La citazione in apertura viene dalla canzone “Saigo no Kajitsu”, ending di Tokyo Revelations e cantata da Sakamoto Maaya.

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Capitolo 3
*** Zashiki-warashi, I ***


II
Zashiki-warashi, I

 

I’ve been watching all the time.
Seems near, yet so far.
Always… unreachable.

 

Per diversi istanti si guardarono senza dire nulla. Intorno a loro, la città si muoveva nel suo ritmo frenetico giornaliero, tipico soprattutto degli orari in cui gli impiegati cominciavano a rincasare in massa, magari fortunati abbastanza da non doversi trattenere oltre l’orario di lavoro.
Tokyo era fatta di luci, la sera; insegne su insegne che indicavano la via fungendo da punti di riferimento, e al tempo stesso sembravano attirare le persone come falene. Si respirava un’aria piena, in quella città, un’aria fatta di troppe persone e troppi respiri, tanto che se non si era abituati sembrava sempre tutto troppo. Hide era sempre riuscito ad adattarsi facilmente, a cucirsi addosso le strade e a volte anche le persone; Tokyo era piena, quando guardavi le insegne e sentivi passi delle persone picchiettare contro l’asfalto uno dopo l’altro, tutti diretti da qualche parte, chissà dove; eppure quando poi lui usciva dal locale, era silenziosa e fresca, rilassante.
Sola.
«Che cavolo hai fatto…?»
Hide non riuscì davvero a stupirsi del fatto che il ragazzino – Haruki – si fosse espresso in quel modo. Era una reazione comprensibile.
«Ho dato una mano.» commentò semplicemente, un mezzo sorriso rivolto a entrambi. Shiki, non più di fronte al ragazzo, lo squadrava da capo a piedi con espressione indecifrabile; Hide la conosceva abbastanza da capire che in quel momento il demone lo stava studiando, e questo implicava che non avesse ancora deciso se considerarlo una minaccia o meno. In quei frangenti, era sempre meglio non fare movimenti bruschi o che sembrassero un’intimidazione.
«Questo l’ho visto!» sbottò Haruki, incurante delle persone che si sarebbero potute girare, attirate dal suo tono di voce abbastanza alto da far sembrare che ci fosse un litigio in corso; parve rendersene conto anche lui, perché si guardò intorno per qualche istante, prima di riprendere a parlare con voce più bassa.
«Con quello spirito— tu gli hai impartito un ordine.» calcò la parola e non fu un caso. Lui non conosceva tutto ciò che riguardava gli youkai, anche perché era certo che fosse impossibile poterlo fare visto tutto il materiale che esisteva, fatto di anni di leggende e superstizioni. Tuttavia, sapeva abbastanza per capire che uno spirito anche debole non prendeva ordini da un umano se questi non era il suo contraente.
Generalmente, il simbolo del contratto era da qualche parte, ma non era quello che interessava ad Haruki; se quel tipo aveva controllo sullo spirito appena svanito, allora perché questi si era scagliato contro di loro?
O doveva aver perso il controllo, o doveva essergli stato ordinato.
«Posso immaginare cosa tu stia pensando» ammise Hide «ma non è quello che credi.» volle chiarire subito. Anche se si rese conto che suonava persino più sospetto, in quel modo.
Haruki stava per dirgli che non era così fesso da credergli, quando Chiaki mosse un passo in avanti, lo sguardo su Hide: «Quello era… il kotodama?» chiese, il tono abbastanza basso. Haruki portò lo sguardo da lei a lui, sapendo a grandi linee di cosa si trattasse… e che non gli sembrava ci fossero documenti che attestassero l’esistenza di una tale dote, tra quelli che aveva in casa e ai quali aveva dato un’occhiata.
Hide aveva assunto un’aria visibilmente stupita, ma non aveva smesso di sorridere, anzi.
«Avete del tempo?»

Quando Haruki aveva accettato l’invito di quel ragazzo a seguirlo, dopo essersi assicurati che Sagara stesse bene e averlo messo su un taxi, non si era di certo aspettato di ritrovarsi in un ristorantino discreto ed economico a farsi offrire una porzione di ramen.
Beh, non che lui rifiutasse del cibo, ma insomma: da due giorni a quella parte gli sembrava di essere finito in un film di animazione di terza categoria che avrebbe potuto avere come titolo un terribile “Haruki e la scoperta degli amichetti magici”; che cazzo, dopo quindici anni di youkai e umani scettici, si ritrovava circondato da gente a dir poco strana e con capacità assurde o incomprensibili.
Che gli dessero tregua.
«Dunque» prese la parola l’altro «sono sorpreso che qualcuno della vostra età conosca cose del genere. Anche se forse non siete poi molto più piccoli di me.»
«Oh sì eh, piacere di mio, hai proprio un gran bel nome.» ironizzò Haruki, guardandolo sbieco; Shiki sicuramente lo avrebbe rimproverato dopo, visto che al momento non era lì – rimproverato per modo di dire, visto che sapeva essere più irritante dello stesso Haruki.
Hide invece sbuffò divertito: «Giusto, scusate. Mi chiamo Hideyuki.»
«Hideyuki come?»
«Hideyuki e basta.» ripeté quello, il sorriso ancora sulle labbra «Voglio dire, ho un cognome, naturalmente. Ma per abitudine non lo comunico a chi è immischiato con gli youkai. Questione di abitudine e sicurezza personale. Naturalmente anche voi potete dirmi solo il vostro nome.» assicurò.
Haruki lo guardò seccato, rivolgendo poi un’occhiata eloquente a Chiaki, dal momento che le poche volte che lei gli aveva parlato lo aveva sempre chiamato per cognome, com’era la norma in effetti.
«Haruki.» borbottò, affossando il naso nel menù.
«Io sono Chiaki.» si presentò la ragazza, che sembrava invece ben decisa riguardo alla propria ordinazione, o semplicemente più interessata a quanto stava accadendo che non al cibo: «Quanti anni hai, Hideyuki-san?»
«Venti. Voi dovreste essere ancora studenti, giusto?» chiese, ricevendo un cenno affermativo con la testa da parte di lei.
«Io sono al secondo anno, Ki— Haruki-kun al primo.»
«Dunque, Chiaki-san» le si rivolse direttamente «cosa sai di preciso del kotodama?» la incalzò, e per un attimo Haruki fu contento che qualcuno finalmente facesse le domande giuste e senza girarci troppo intorno. Guardò di sottecchi la ragazza, seduta al suo fianco: sembrava cercasse le parole adatte, e lui ebbe la fastidiosa sensazione di dejà-vu della sua spiegazione in aula neanche tre ore prima.
«Si pensa e si crede che il kotodama sia una sorta di potere insito nelle parole e nei nomi. Si dice che il suono, articolato in vere e proprie parole, possa influenzare non solo gli oggetti ma anche il corpo, la mente e lo spirito.» pronunciò lei, mantenendo lo sguardo su Hideyuki «Credevo però che si trattasse di parole proprie dei rituali, non avendo mai incontrato nessuno con un potere simile, né documentazioni che accennassero a qualcosa del genere.» ammise, una nota di quella che sembrava curiosità.
Haruki non la capiva: certo, era una cosa che sembrava comoda visti anche i risultati di poco prima, ma aveva imparato che niente di quello che aveva a che fare con il mondo degli spiriti era senza rischi o senza un prezzo. E voleva tenersene ben alla larga, per quanto possibile.
«Purtroppo credo di non poterti essere di grande aiuto.» replicò Hideyuki «Quello che hai detto è corretto, e in effetti rispecchia esattamente quello che riesco a fare. Solo che l’ho imparato da solo, diciamo con la pratica e per necessità.» e chiaramente si riferiva all’averlo scoperto “sul campo” «Non ho mai consultato qualcuno che se ne intendesse. Avrei dovuto spiegare cose decisamente scomode, per farlo.» concluse, lasciando intendere quali fossero queste “cose”.
Né Haruki né Chiaki avevano bisogno di chiedere: sapevano entrambi cosa significasse non poter fare domande sulla propria condizione – entrambi avrebbero preferito non saperlo, forse.
«Ma già che siamo in argomento» riprese Hideyuki, costretto a interrompersi mentre il ramen veniva portato al loro tavolo dalla cameriera «anche voi non mi siete sembrati proprio sprovveduti. Anche se Haruki-kun attira di più l’attenzione, senza dubbio.» scherzò su pacatamente.
Non era difficile cogliere l’accenno a Shiki, ma Haruki provò comunque una sensazione strana: non si era mai trovato nella condizione di dover spiegare perché un demone lo accompagnasse praticamente ovunque, per il semplice fatto che nessuno era mai stato in grado di vederlo oltre lui, e non aveva quindi mai fatto domande. Da qualche parte, dentro di sé, sentiva di essere contento come se avesse finalmente ricevuto un riconoscimento che gli era stato a lungo negato; mise subito a tacere quella sensazione, ricordandosi che non c’era niente di bello in persone come lui che gli chiedessero di parlare di un demone che potevano vedere in tre. Non avrebbe mai migliorato le cose, non avrebbe cambiato la sua vita, e sarebbe stato solo qualcosa di passeggero.
Era un contentino, non un riconoscimento.
«È solo un demone rompicoglioni.» tagliò corto, appropriandosi delle proprie bacchette e prendendo un primo boccone di cibo, rifiutandosi così di parlarne oltre – non che servisse davvero: era abbastanza chiaro, dal momento che Shiki non lo aveva ancora mangiato, che fosse suo alleato o almeno gli evitasse di essere preda degli youkai.
Hideyuki abbozzò un sorriso a metà tra il divertito e il comprensivo, dando ad Haruki la sensazione di chi aveva capito di non dover fare altre domande. Il ragazzo spostò lo sguardo su Chiaki, infatti, in un tacito invito a parlare della sua capacità, qualunque essa fosse.
Fu la prima volta che Haruki scorse in lei qualcosa che somigliava vagamente al disagio.
«Per la verità non credo si possa definire davvero “capacità”.» esordì lei, le bacchette nella mano destra e lo sguardo sulla ciotola ancora lì dove la cameriera l’aveva lasciata: «Ho soltanto studiato delle documentazioni e degli studi fatti sugli youkai e sui rimedi usati in passato per allontanarli e renderli innocui.»
«…Che vuol dire che hai studiato?» chiese incredulo Haruki «Hai idea di quanti youkai esistano?! Vuoi farmi credere che sei un’enciclopedia vivente?» pronunciò come se solo pensarlo fosse assurdo.
«Non a quei livelli. Mi sono concentrata più che altro sulle creature di livello medio-basso, visto che da quando li vedo non mi è mai capitato che ce ne fossero di particolarmente violenti. Forse il demone che è con te è il più forte che mi sia capitato di vedere.» ammise, prendendo finalmente un boccone di ramen a propria volta.
«Posso chiederti da quando vedi gli youkai, Chiaki-san?» interruppe lo scambio Hideyuki, il sorriso leggero ancora sulle labbra e la propria porzione nemmeno sfiorata, l’attenzione totalmente sui due e nello specifico sulla ragazza.
«Tre anni e mezzo.»
«Strano.» commentò pensieroso «Credevo che questo tipo di capacità si sviluppasse da bambini.» ammise, cercando conferma in Haruki con lo sguardo. Lui non disse nulla, ma era d’accordo: per quanto lo riguardava vedeva da quando era piccolo e, a giudicare dalle parole di Hideyuki, lo stesso valeva per l’altro.
Si soffermò su Chiaki per qualche istante, tornando poi al proprio cibo.
Lei non commentò le parole di Hideyuki, limitandosi a mangiare e lasciando che il silenzio animasse il loro tavolo al posto delle chiacchiere che c’erano agli altri occupati qua e là nel locale. Non era pieno, ma aveva una bella atmosfera.
«Avete tempo dopo mangiato? O avete il coprifuoco?» richiamò la loro attenzione il più grande, che aveva iniziato a mangiare a sua volta durante quella pausa «C’è uno youkai che ho individuato da qualche tempo e che non ho ancora idea di cosa sia di preciso. Non ha dato grossi problemi, per ora, ma pensavo che forse sapresti darmi la certezza se sia o meno innocuo, Chiaki-san.» spiegò.
Haruki aveva notato che il tono di quel ragazzo sembrava costantemente cortese, come se nulla riuscisse davvero a sorprenderlo o comunque mai abbastanza da mandarlo nel panico più completo. Iniziava a chiedersi se ad essere strano fosse lui, che aveva reazioni “nella norma” di fronte a cose che normali non lo erano affatto, o se lo fossero quei due e lui ne avesse semplicemente viste troppe poche per raggiungere quella specie di beatitudine perenne che avevano.
A dirla tutta, quel tipo gli puzzava e basta. Anche lei, ma lui di più.
«E che c’entro io, se deve dartela lei la conferma?» fece notare.
«Non suonerebbe sospetto se io invitassi una ragazza e per di più studentessa in casa mia? Sospetto e sconveniente.» spiegò con naturalezza, spiazzando tanto lei quanto lui; Haruki sentì il viso accalorarsi – cioè lo sapeva cosa facevano un maschio e una femmina insieme da soli, in certe situazioni, però la faccia di bronzo con cui quello lì lo accennava era allucinante!
«Perché invece se siamo due maschi non è anche peggio?!» sbottò, imbarazzato. Hideyuki ridacchiò: «Ho pensato semplicemente che con un amico si sarebbe sentita meno a disagio.»
«Noi non siamo amici.» tagliò corto «Stiamo nella stessa scuola e basta.»
«Oh. Questo è un problema, allora. Tu che ne dici, Chiaki-san?» si rivolse a lei, che non si era ancora pronunciata sulla questione.
La osservarono mandare giù un boccone di ramen, prima di guardare Hideyuki: «Lo youkai non è mai uscito da casa tua, Hideyuki-san?»
«Non che io sappia. Ma sono fuori per buona parte della giornata, quindi non è da escludere che lo faccia ma io non lo abbia mai visto. Lo trovo in casa quando torno ed è ancora dentro quando vado via.»
«Che aspetto ha?»
«Se fossi stato in grado di descrivertelo non ci sarebbe stato bisogno di chiederti di passare dall’appartamento. Ho visto sempre e solo un occhio. Diciamo che mi spia o qualcosa del genere. Non mi ha mai fatto nulla, ma per quel poco che ne so potrebbe stare aspettando e basta.»
«E non ti si è mai avvicinato?» chiese, perplessa.
Hideyuki tacque per qualche istante, facendo mente locale: «Mai mentre ero sveglio, di questo sono sicuro.» rispose infine.
Haruki teneva lo sguardo su entrambi, il volto leggermente girato perché anche Chiaki rientrasse nel suo campo visivo: non stava davvero pensando di andare nella casa di uno sconosciuto e, per di più, dove sembrava esserci uno spirito sconosciuto, vero? Non poteva essere così stupida.
Che gentiluomo.
«Shiki vaffanculo.» sibilò a mezza bocca, attirando gli sguardi curiosi degli altri due «Lasciate perdere, tornate a parlare per fatti vostri.» borbottò, risparmiandosi la fantastica spiegazione “il demone mi parla nella testa quando non mi delizia con la sua inopportuna presenza”, che di sicuro lo avrebbe fatto sembrare del tutto normale, certo.
«Hideyuki-san, domani pomeriggio hai qualcosa da fare?» domandò quindi Chiaki, tornando a rivolgersi al più grande, che scosse la testa: «Solo fino alle tre.»
«Andrebbe bene se passassi dopo la scuola? Non ho attività del club, quindi non sarebbe troppo tardi.» aggiunse.
«Non ci sono problemi. Haruki-kun
«Se non avrò da fare. Ma ve lo dico subito, io non mi immischio nelle faccende degli youkai se non è per lavorare.» tagliò corto, dedicandosi al brodo del suo ramen.
Anche gli altri due ripresero a mangiare.


Sbuffò sonoramente, mantenendo lo sguardo davanti a sé, pur avendo Chiaki che gli camminava di fianco. Sapeva bene di essere andato di propria spontanea volontà, ma ancora non gli andava giù; si era dato come scusa il fatto che incontrare qualcuno come lui era un’occasione troppo rara per non sfruttarla, ma a dire il vero non ci credeva molto. Shiki non aveva commentato, stranamente, e dormiva da quella mattina.
«Ci saresti davvero andata da sola?» chiese a bruciapelo, dopo interminabili minuti di silenzio da quando avevano lasciato l’edificio scolastico.
«Sì.»
«Sei stupida?» sbottò lui, affossando di più le mani nelle tasche del giacchetto sopra la divisa. Va bene essere strani, ma quello della ragazza si chiamava “non avere senso pratico” o “non avere istinto di sopravvivenza” (o entrambi).
«Se c’è uno youkai, voglio vedere di cosa si tratta.» spiegò brevemente lei, senza guardarlo.
Haruki sbuffò di nuovo: «Che ci troverete di bello. Più mi stanno alla larga, più ne sono contento.»
«Probabilmente è perché li hai sempre visti, Kirihara-kun.» rifletté ad alta voce lei, sistemandosi la sciarpa attorno al collo. Haruki alzò un sopracciglio.
«Che dovrebbe significare? E poi non usare il cognome e il nome a caso, o uno o l’altro. Tanto sei pure più grande di me.» e lui non era esattamente attaccato alle formalità, anche se si notava senza bisogno di specificarlo.
Chiaki si voltò nella sua direzione, quasi per accertarsi che nelle parole ci fosse stato un reale permesso: «…Haruki-kun, allora.» decretò, tornando a guardare la strada «Hideyuki-san lo ha detto, che di solito si vede fin da bambini. Ma per me non è stato così. Forse pensi che gli youkai siano fastidiosi perché li vedi da molti più anni di me.» chiarì meglio quanto detto poco prima, voltando un angolo secondo le indicazioni che Hideyuki gli aveva lasciato la sera prima.
«No, penso che siano fastidiosi perché lo sono. Li odio.»
«Tranne Shiki-san
«Odio anche lui, ma devo portarmelo dietro comunque. E cos’è quel –san, non è nemmeno umano e di certo se ne frega se anche non aggiungi uno stupido onorifico al suo nome.» puntualizzò. A Chiaki sembrava irritato, anche se non al punto da scoppiare; non ne comprendeva bene il motivo, a dire il vero, a parte l’antipatia per gli spiriti.
«Sei tu che sei strana. Sembra quasi che tu gli youkai te li vada a cercare.» commentò, ricevendo in risposta il silenzio. Non poteva sbilanciarsi visto che quella era sì e no la quinta volta che parlavano, volendo essere buoni e includendo l’incontro con lo spirito lanterna e la conversazione in corso, ma aveva l’impressione che a volte l’altra si isolasse completamente alla ricerca di chissà quale verità della vita da propinare come risposta.
«Siamo arrivati.» disse lei, fermandosi e controllando il foglietto tra le mani «Dovrebbe essere il primo appartamento sulla destra una volta salite le scale.» aggiunse, osservando il condominio davanti a loro. Era una di quelle costruzioni vecchie, dove generalmente si affittavano camere agli studenti universitari, l’affitto accessibile per una stanza spesso singola o poco più grande. Haruki storse il naso, salendo le scale con lei, fino a ritrovarsi di fronte alla porta; sbirciò il campanello, ma non c’erano targhette. Forse era di quei condomini dove la disposizione delle stanze era da richiedere al portiere o al proprietario.
Chiaki suonò il campanello, e dopo pochi istanti la porta si aprì rivelando Hideyuki, che li accolse entrambi con un sorriso facendosi da parte perché entrassero. I due si fecero avanti con un “permesso” appena accennato.
«Vi va del tè?» chiese, osservandoli mentre si toglievano le scarpe.
«No, grazie.»
«Anche io sto bene così.» disse Chiaki «Tutto bene, Hideyuki-san?»
«Sì, tutto bene. Stamattina ho avuto una sorpresa, ma niente di pericoloso, credo.»assicurò, incuriosendo entrambi e invitandoli ad entrare del tutto spostandosi nella stanza più ampia. Era pulita e ordinata, seppure un poco spoglia; l’unica cosa che saltò all’occhio furono delle piccole impronte grigiastre.
«Le ho trovate stamattina quando mi sono svegliato. Pensavo fosse uno youkai che tentava di avvicinarsi mentre dormivo, ma sono per tutta la stanza e penso che se avesse cattive intenzioni mi avrebbe, non so… già strangolato?» azzardò, con un mezzo sorriso. Evidentemente non era affatto preoccupato – anche se avrebbe dovuto.
«Non ho notato altre particolarità, sinceramente, non più del solito.» riprese, adocchiando l’armadio e facendo loro un lieve cenno con la testa in quella direzione. Guardando, notarono che era accostato e non del tutto chiuso: Haruki si avvicinò, ma non fece in tempo a poter sbirciare dentro che quello si chiuse con un colpo secco.
Pure lo spirito timido, ci mancava.
«Che ne dici, Chiaki-san?»
«Mh… Hideyuki-san, questo è sempre stato un condominio?» chiese, l’espressione pensosa; Haruki, osservandola, si immaginò – in maniera forse infantile e un po’ grottesca, ma che rendeva l’idea – una specie di grande archivio fatto di cassetti in cui il cervello di quella ragazza andava ricercando il fascicolo giusto dello youkai in questione.
Si diede del demente, perché non credeva che in natura una cosa del genere fosse davvero possibile.
«Non credo, voglio dire, è molto vecchio ma immagino sia stato costruito in epoca relativamente moderna.» replicò lui, e sembrava che avesse difficoltà a seguire il ragionamento di Chiaki, cosa che fece sentire Haruki meno stupido. La maggior parte di quello che diceva la ragazza gli risultava incomprensibile.
«Perché, hai qualche idea?»
«Forse, solo che da quanto ne so si tratta di uno youkai che di solito occupa case molto grandi e anche datate, immagino. Non combacia molto con la tua stanza, Hideyuki-san. A meno che non fosse qui da prima che questo posto diventasse un condominio.» azzardò lei.
«Scusate» esordì con tono scocciato Haruki «e se invece che fare tutte queste supposizioni aprissimo l’armadio e basta?» fece notare, come se fosse una cosa ovvia che per motivi ignoti nessuno avesse preso in considerazione: «Tanto se avesse voluto maledirti lo avrebbe già fatto.» aggiunse, rivolto a Hideyuki.
«Non è detto. Penso sia un po’ troppo rischioso visto che non sembra intenzionato a uscire da lì.»
«Sarà, ma io non avverto una brutta sensazione, quindi è probabile che non abbia cattive intenzioni. Non ai livelli di maledizioni e roba varia, almeno.» commentò. Lui era un po’ scavezzacollo, era vero, ma non al punto da rischiare di farsi ammazzare e chissà quanto avrebbero impiegato quei due con tutte le loro considerazioni; non voleva passare lì il resto della giornata per una roba di poco conto.
«Riesci persino a capire le loro intenzioni? Devi essere piuttosto sensibile, Haruki-kun.» commentò Hideyuki – Haruki non capì se lo stesse prendendo per il culo o meno, ma decise che per una volta poteva mandar giù un insulto senza per forza rendere partecipi i presenti.
«Hai presente che giro con un demone? Ho un concetto di “aura maligna” un pelino più concreto delle vostre supposizioni.» ribatté, voltandosi verso l’armadio e facendolo scorrere, senza alcun preavviso né altro.
Si ritrovò gambe all’aria, un’ombra che era schizzata fuori investendolo quasi in pieno e che si nascondeva ora dietro Chiaki.
La ragazza rimase immobile, e per una manciata di secondi lo fu l’intera stanza e ogni suo occupante; tranne l’ombra, che lei sentì tremare appena contro le proprie gambe.
A giudicare dalle espressioni di Hideyuki e di Haruki, alle sue spalle sembrava non esserci niente di spaventoso – almeno all’apparenza, che non sempre era indicativa però.
Girò appena il collo, per poter sbirciare da sopra la propria spalla: la figura dietro di lei aveva le fattezze di una bambina a cui non avrebbe dato più di sei o sette anni. L’unica particolarità era il suo vestiario, non tanto perché indossasse uno yukata estivo – per quanto in pieno inverno fosse del tutto fuori stagione – quanto perché era piuttosto consunto, da quel che vedeva.
Provò a muoversi di un paio di passi lateralmente, ma sentì la figura dietro di lei attaccarsi al lembo della sua giacca e seguirla nello spostamento; tentò di nuovo, e si verificò la stessa cosa.
«Che diamine…?» tentò Haruki, fissandola.
«Credo sia uno zashiki-warashi.» decretò infine Chiaki, tenendo d’occhio ora l’uno, ora l’altra.
«Non sono gli spiriti bambini?» chiese Haruki, perplesso. Lei annuì: «Non esattamente, ma li chiamano spesso così. Sono youkai che hanno l’aspetto di bambini e un comportamento molto simile. Fanno dispetti semplici, che di solito non causano danni seri alle persone né le feriscono. Però si trovano in grandi case e soprattutto ben mantenute, quindi non capisco perché sia qui, a dire il vero.» ammise, osservando ora Hideyuki.
«Forse ha perso qualcosa?»
«Non credo.» disse lei, scuotendo appena la testa: «Gli zashiki-warashi sono creature che portano fortuna alla casa che abitano e sfortuna quando l’abbandonano, per dirla in termini molto semplici. Ma non si legano a degli oggetti, semplicemente se ne vanno se trascurati o se troppo curati.» spiegò con la solita calma.
Hideyuki annuì un paio di volte, provando ad avvicinarsi: si piegò sulle ginocchia, in modo da essere ad un’altezza simile a quella dello youkai, ma non appena provò ad allungare una mano in sua direzione, quello si ritrasse, stringendo ancora di più la giacca di Chiaki.
«Forse non gli piaccio perché non sono il padrone di casa?» azzardò, con un mezzo sorriso.
«Non lo so.» ammise Chiaki «Tecnicamente non sei il padrone del condominio, Hideyuki-san, ma se non si sposta mai dalla tua stanza allora si può considerare che il padrone sia tu. In ogni caso c’è un’altra cosa che non capisco.» proseguì, per poi tacere e allungare lentamente una mano; forse si aspettava anche lei che lo youkai si ritraesse, perché quando invece riuscì a sfiorare la testa, Haruki la vide aggrottare la fronte confusa.
«Cosa?» la incalzò quindi, senza staccare gli occhi dallo spiritello – poteva sembrare innocuo quanto voleva, ma aveva imparato che era sempre meglio non fidarsi che farlo e rischiare un arto nel migliore dei casi.
«Per quanto ne so, gli zashiki-warashi risultano visibili solo agli abitanti della casa che occupano e, raramente, ai bambini piccoli. Quindi non ho idea del perché noi riusciamo a vederlo, adesso.»


Quel giorno, incapaci di trovare una spiegazione o una soluzione, sia Chiaki che Haruki erano rientrati lasciando lo youkai lì con Hideyuki; appurato che non sembrasse avere cattive intenzioni – specie considerando che era passato dal nascondersi dietro la ragazza al tornare chiuso nell’armadio –, i due si erano congedati. Chiaki aveva assicurato che avrebbe dato un’occhiata ad alcuni documenti che erano in casa e così aveva fatto, ma non aveva trovato indicazioni che spiegassero per quale motivo tutti e tre vedessero quello spirito.
Forse, si era detta, era dovuto semplicemente al fatto che tutti e tre vedevano gli youkai in generale; eppure era ben consapevole che la sua vista e quella di Haruki fossero diverse, non solo perché una si era sviluppata nell’infanzia e l’altra no.
«Hiiragi-san?» fu distratta, sentendo una mano posarsi gentilmente sulla sua spalla. Alzò lo sguardo, ritrovandosi a guardare negli occhi Endou, una delle sue compagne; intravide dietro di lei, vicine alla porta dell’aula, Takahashi – della loro classe – e una ragazza della sezione accanto con cui entrambe parlavano spesso.
Tornò con l’attenzione su Endou: «Scusami, mi ero distratta.» disse, un sorriso leggero verso di lei che scosse la testa allontanando la mano.
«Non preoccuparti. Vieni a pranzare in cortile con noi, Hiiragi-san?» chiese, il tono entusiasta. Endou era una ragazza minuta, ma un concentrato di energie, la classica ragazza che sembrava sempre un po’ bambina e che riusciva a strapparti un sorriso in ogni occasione. Era spontanea e Chiaki non ricordava una sola volta in cui non le si fosse rivolta in quel modo, l’aria allegra e il fare semplice.
«Ti ringrazio dell’invito, ma non posso.» replicò «Devo passare a consegnare un libro che ho preso in prestito e prenderne un altro, non vorrei impiegarci troppo e rovinarvi la pausa.» aggiunse, stringendosi appena nelle spalle e abbozzando un sorriso dispiaciuto.
«Oh, non preoccuparti! Se vuoi raggiungerci, però, siamo giù.» aggiunse, raggiungendo le due sulla soglia e avviandosi.
Attese qualche momento, per poi recuperare un libro e il bentou dalla cartella, abbandonando la classe a propria volta.

«Devo riconsegnare un libro, eh?» le fece eco Shiki, cogliendola evidentemente di sorpresa – era assorta nei propri pensieri ma, soprattutto, non si era aspettata nessun altro lì sulla terrazza. Nessuno che la approcciasse in quel modo, almeno.
Alzò lo sguardo, individuando il demone senza troppe difficoltà. La osservava divertito, quasi curioso: a Chiaki ricordò il fare di un felino che dopo aver intrappolato la preda non faceva che giocarci finché quella non smetteva di cercare invano una via di fuga.
«Pensavo che tu fossi sempre insieme ad Haruki-kun.» osservò, mettendo da parte il libro che aveva sì portato con sé, ma unicamente per leggerlo.
«Io invece pensavo che tutti gli umani cercassero la compagnia degli altri umani. A parte Haruki, ma lui è un caso speciale.» commentò distrattamente, senza interrompere il contatto visivo: «Sai cosa penso? Che forse a te gli umani non piacciono poi tanto.»
Chiaki tacque. Era vero che aveva detto, nell’infermeria e in aula, che solo perché non era amica di qualcuno vittima di uno youkai non significava che potesse far finta di nulla; e aveva anche rivolto una domanda specifica a Shiki, ossia se sarebbe rimasto a guardare di fronte a uno spirito in difficoltà solo perché non gli andava particolarmente a genio.
Era convinta, però, che il demone non si riferisse unicamente a quello: parlava con la sicurezza di chi aveva osservato a lungo un comportamento per poterlo decifrare.
Si sentì fastidiosamente a disagio.
«Non direi che non mi piacciono.» affermò, inspirando lentamente.
«Però li eviti.» disse lui con sorriso beffardo, facendosi più vicino tanto che il suo viso era ben poco distante da quello di lei; Chiaki deglutì, non potendoselo evitare. Non era tanto la vicinanza a darle fastidio, quanto la sensazione di venire schiacciata e che era certa fosse dovuta alla natura di Shiki.
«Non è crudele, da parte tua? Hai dovuto anche mentire.»
«Non è più crudele quello che stai facendo tu, Shiki-san?» ribatté, non esattamente a tono, ma assottigliando lo sguardo. Non capiva dove volesse andare a parare, né cosa interessasse a lui dei suoi scarsi rapporti sociali con le compagne di classe.
«Oh? Ma allora te la prendi per qualcosa, ogni tanto. Qualcosa che non abbia a che fare con gli youkai.» osservò, fingendo che fosse casuale: «Persino Haruki è confuso da quello che fai. Anche se ovviamente non lo dice, perché in fin dei conti non è poi così importante come ti comporti, dal momento che non siete amici né niente di simile. Ma io sono più curioso di lui, e soprattutto più interessato a saziare la mia curiosità. D’altra parte, le persone che vedono di solito sono allontanate dagli altri ma non sono le prime ad allontanare.» mormorò, sibillino.
Chiaki si chiese se era questo che si provava di fronte alle tentazioni dei demoni: la sensazione di qualcosa che ti si insinuava dentro anche se non volevi, consumandoti e piegando la tua volontà come se tu non stessi nemmeno opponendo resistenza.
«È vero che non sono a mio agio con le persone.» iniziò, mantenendo lei stessa il contatto visivo «E che, forse, sono più a mio agio con gli spiriti. Non importa se tu o Haruki-kun non ne capite il motivo, visto che non penso di dover dare spiegazioni a nessuno dei due. E ti sarei davvero grata, Shiki-san, se tu ora ti allontanassi.» concluse. Era sicura di non aver mascherato del tutto il proprio disagio dato dalla sua presenza, ma non voleva nemmeno parlare di una cosa tanto personale con qualcuno che nemmeno conosceva: non erano affari che riguardavano né il demone, né Haruki, né Hideyuki. Si erano conosciuti per puro e caso e, per quanto ne sapeva, avrebbe potuto smettere di incrociarli in qualsiasi momento.
Non doveva spiegazioni.
Assolutamente no.
«Non sei affatto divertente.» si lamentò il demone, rimanendo esattamente dov’era – per dispetto, suppose «Non trovi che sia particolarmente stupido per un’umana immischiarsi nelle faccende degli spiriti solo perché non sa rapportarsi con quelli della sua specie? Magari è proprio perché hai a che fare con creature simili che ti succede questo, ci hai mai pensato?» rincarò la dose.
Non guadagnava nulla da quella conversazione, se non un proprio personale divertimento e allontanarla da Haruki; era conscio di un proprio desiderio di monopolizzazione del ragazzo e non si sentiva di certo turbato dalla cosa: era un demone e Haruki era la sua preda. Non era contemplato che qualcuno – fosse Chiaki, quell’Hideyuki o chiunque altro – influenzasse quell’anima che a Shiki tanto piaceva.
«…Mi stai dicendo che anche se li vedo, non ho il diritto di mettermi in mezzo? O che solo chi è maledetto come Haruki-kun può farlo?» chiese lei a bruciapelo, il tono così basso che forse Shiki non avrebbe sentito nemmeno a quella distanza, se solo fosse stato umano.
Sorrise, ferino: dunque sapeva perfino della maledizione.
Si accostò ancora di più, deviando dal viso della ragazza e spostandosi vicino al suo orecchio.
«Tu sai e vedi davvero un po’ troppe cose, per i miei gusti.»

 

 

 

Note
1. Ramen: tipico piatto giapponese (di origini cinesi) a base di tagliatelle di tipo cinese di frumento, servite in brodo di carne o di pesce, spesso insaporito con altri ingredienti.
2. Yukata: un indumento estivo tradizionale giapponese, generalmente indossato durante gli eventi estivi. È un tipo di kimono molto informale, indossato anche negli alberghi dopo il bagno.

La frase in apertura è della canzone “Ebb and Flow” (Ray), seconda opening dell’anime Nagi no Asukara.

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Capitolo 4
*** Zashiki-warashi, II ***


III
Zashiki-warashi, II


The longer I stand here, the louder the silence.
I know you’re gone,
but sometimes I swear that I hear your voice when the wind blows.

 

Shiki continuava a fissarla. Nel suo sguardo c’erano molte cose che a Chiaki sembrava di conoscere bene – il divertimento di fronte a una situazione inaspettata ma curiosa, il leggero fastidio di chi era geloso anche dei propri pensieri, l’indecisione di quando si hanno due possibilità ugualmente stimolanti ma non si riesce a decidere tra esse –, eppure al tempo stesso le sembrava di vedere un viso impossibile da decifrare.
Immobile e ancora nella stessa posizione, pensò che forse era in quelle piccole sfumature che persino un demone dall’aspetto tanto simile a un umano si rivelava per ciò che era. Era come se le emozioni di Shiki fossero incontenibili e sfuggissero al controllo altrui, investendo chi lo circondava come un’onda anomala che non può essere fermata né trattenuta.
Si chiedeva cosa passasse nella mente di un demone in momenti come quello: forse stava decidendo se valesse la pena – o se fosse necessario – ucciderla, liberandosi di qualcuno di scomodo. Ma, sebbene non riuscisse a pensare con lucidità in quella situazione, era abbastanza sicura di non avere una tale importanza da risultare “scomoda” a un essere che avrebbe impiegato meno di una manciata di secondi a liberarsi di lei.
Lo vide sbuffare e ritrarsi, l’aria seccata ma non intenzionato a farle del male.
Almeno per il momento.
«Se non fosse un’immensa seccatura toglierti di mezzo non staremmo nemmeno qui a parlarne.» chiarì, guardandola. Chiaki non si era nemmeno accorta di essere tanto nel panico finché, con Shiki lontano, non aveva ripreso a respirare – rendendosi conto di aver trattenuto il respiro fino a quel momento.
«Generalmente gli umani mi piacciono abbastanza, ma su di te non saprei pronunciarmi.» continuò, come se non fosse realmente necessaria la partecipazione di lei in quel discorso: «Come sai che Haruki è maledetto?»
«L’ho sentito.» ammise Chiaki dopo qualche istante; Shiki doveva essersi aspettato qualcosa di diverso, che lo avesse letto da qualche parte, scoperto, intuito magari.
«Quando ci siamo incontrati la prima volta, tu e Haruki-kun stavate seguendo un chochinobake, ricordi?»
Shiki annuì, sistemandosi a gambe incrociate di fronte a lei.
«Quella è una strada che faccio abbastanza spesso. Quando sono passata di nuovo lì, c’erano alcuni youkai che ne parlavano e dicevano che “quella notte il ragazzino maledetto aveva preso la lanterna”. Ho pensato che non dovessero esserci molti altri ragazzini del genere a parte lui. Anche se non so di che maledizione parlassero: ho immaginato si riferissero a te.»
«Grazie tante, ti sembro una maledizione?»
«Non lo sei?»
Non era la prima volta che Shiki lo notava, ma la ragazza aveva il vizio di ribattere alle domande ponendone lei stessa. Era anche interessante, in un certo senso, ma ciò che gli sfuggiva era perché solo in quei momenti l’umana sembrasse non avere timore. O non essere proprio toccata da sentimenti quali la paura – poi però, come poco prima, la sentiva quasi le scorresse nelle vene insieme al sangue.
A prescindere da quello, comunque, non aveva intenzione di fare il bravo e risponderle.
«Questo è un segreto mio e di Haruki.» pronunciò, un sorriso quasi ammiccante e il tono di chi sta insinuando qualcosa senza nemmeno accertarsi di non essere scoperto mentre lo fa.
«Tu piuttosto? Non dovresti preoccuparti di recitare meglio la tua parte?» domandò, mentre Chiaki iniziava a raccogliere le sue cose. Non gli sembrava che avesse finito il suo pranzo, né di leggere il libro che aveva con sé; era facile intuire che il suo fosse un tacito modo di allontanarsi da lui e dal loro discorso.
«Comunque non mi interessa cosa fai con gli altri umani. Ma non metterti in mezzo. Forse quelli della mia specie ti trovano curiosa, ma se provi a cercare un modo per togliere ad Haruki quella che pensi sia una maledizione… allora non esiterò a farti passare la voglia.» minacciò, il sorriso che gli incurvava le labbra che non si estendeva anche gli occhi, creando così un’espressione che la bloccò lì sul posto.
Inspirò. In fondo, Shiki aveva ragione: non erano affari suoi.

Dire di non essere rimasta sorpresa quando, alla fine delle lezioni, aveva intravisto per puro caso Haruki che si affacciava dalla porta avrebbe significato mentire. Dopo la conversazione con Shiki era più che convinta che il demone avrebbe intimato al ragazzo di starle lontano; forse era lì per dirle che sapeva cosa si erano detti? O per rincarare la dose in merito a non impicciarsi dei fatti suoi?
«Hiiragi-san!» verso il suo banco si stava dirigendo Endou, un ampio sorriso sulle labbra; le si avvicinò tanto da poter abbassare la voce ed essere comunque ben udibile: «Quello alla porta non è Kirishima-kun?» domandò incuriosita, ma Chiaki notò che almeno a giudicare dal tono non sembrava esserci nessuna insinuazione di fondo. Somigliava più che altro a un’amica che ti chiede con fare complice cosa c’è tra te e un compagno con cui ti vede parlare spesso.
«Sì. Perché?»
«Credo ti stesse aspettando, ha chiesto di te!» replicò lei divertita, senza nasconderlo minimamente.
Chiaki poteva immaginare che idea si sarebbero fatti di lì a poco i compagni che avessero fatto caso al ragazzo, ma non lo riteneva troppo grave: non aveva nessuno che le piacesse al punto da temere i malintesi.
«Ti ringrazio per avermi avvis—»
«Ohi, Chiaki, muoviti.» sbottò Haruki dalla soglia, impaziente. Probabilmente si era reso conto di essere al centro dell’attenzione, che stesse in silenzio o meno.
Sospirò piano, mettendo nella cartella gli ultimi quaderni e raggiungendolo, con un semplice cenno della mano a Endou; una volta uscita, quasi poté immaginare il brusio in classe.
«Ti serve qualcosa?» domandò, osservando Haruki che camminava con una mano in tasca e l’altra a reggere la cartella, poggiata sulla spalla. Chiaki non era ancora riuscita a capire quanto l’altro facesse volutamente lo sbruffone e quanto, invece, lo fosse sul serio.
«Non dobbiamo andare da Hideyuki?» le fece eco l’altro, perplesso.
«…Giusto. Lo zashiki-warashi.» rifletté lei. Non le capitava spesso di distrarsi da un caso che aveva a che fare con gli youkai, ma aveva dato così per scontato che Shiki avesse parlato con Haruki e che quest’ultimo fosse venuto per chiarire ulteriormente la situazione, che l’accordo a trovarsi nel pomeriggio da Hideyuki le era del tutto passato di mente.
Aveva trovato poco e nulla, per essere sincera: quasi solo conferme di quanto aveva già detto agli altri due, e nessuna novità su insospettabili intenti omicidi di uno spirito tutto sommato innocuo. Non aveva potuto fare ricerche sul perché sia lei che Haruki, pur non essendo padroni di casa nell’appartamento di Hideyuki, vedessero comunque lo spirito. Aveva tentato di dare per scontato che la vista di Haruki, in quanto autentica, fosse la ragione principale per quel che lo riguardava; ma lei? Lei non vedeva per dote naturale. Forse le due cose non erano affatto collegate.
Magari, anche se non era attestato, lo zashiki-warashi poteva decidere autonomamente a chi mostrarsi e solo i bambini a volte ci riuscivano anche se non erano scelti.
«Lo stai facendo di nuovo.» sbottò Haruki, alzando un poco il tono e dando un colpetto agli armadietti all’ingresso dove non si era nemmeno accorta di essere arrivata. Sbatté un paio di volte gli occhi e lo guardò, confusa: «Fare cosa?»
«Chiuderti in quel silenzio inquietante in cui non so mai se stai pensando che hai scordato un quaderno a scuola o ai mille modi di uccidere e torturare youkai, che spero non siano comunque applicabili alle persone, visto che ultimamente sto sempre con te.» commentò.
Fu più forte di lei, e non tentò nemmeno di nasconderlo – non che servisse: portò una mano a coprire la bocca, uno sbuffo divertito che si trasformò quasi subito in un ridacchiare leggero.
Nemmeno Haruki se l’era aspettato, a giudicare dalla faccia che fece quando se ne accorse.
«Non ho mai detto che conosco “mille modi di uccidere e torturare youkai”.» fece presente, cambiandosi le scarpe e mettendo a posto quelle che aveva indossato fin lì.
Haruki approfittò di dover fare lo stesso per darle le spalle: «Che ne so, dici che studi un sacco di roba del genere.»
«Ho studiato solamente i tipi di spiriti che potevo trovare anche qui e i metodi base per difendermi o impedirgli di fare del male alle persone. Ma non ho capacità per esorcismi o simili, quindi non ho studiato troppo in là i rituali. Non sarei comunque in grado di applicarli, forse.»
«Quel forse è inquietante.»
«Credevo volessi dirmi di starti lontana o qualcosa del genere.» disse, anche se non sapeva bene perché. Non aveva particolare interesse a interagire con Haruki, per quanto le sue capacità le sembrassero quasi un segno del dover avere a che fare con lui. Ma la vista sarebbe potuta essere un dono di chiunque e sarebbe stato lo stesso, tanto che tra lui e Hideyuki non trovava differenze in quel senso.
Non era questione né di preferirne la compagnia, né di non voler essere odiata.
Aveva solo la sensazione che Haruki, nei limiti del possibile, fosse sempre immancabilmente sincero. Si sentiva in colpa, a mentire a una persona così.
«Perché mai?»
«Perché ho parlato con Shiki-san, e immaginavo te lo avesse riferito.» spiegò lei, iniziando a muoversi verso l’uscita.
«Lo ha fatto.» chiarì lui quando l’affiancò, senza fermarsi ma proseguendo per uscire e incamminarsi verso casa di Hideyuki: «Più o meno. Potrebbe non avermi detto tutto. Non farti l’idea di due persone molto amiche che si dicono ogni cosa perché non è affatto così. Specialmente se non rivelarmi i dettagli è una cosa che finisce col divertirlo.» si fece seccato, su quell’ultima parte, ma non sembrava arrabbiato.
«Quindi ti ha detto che so che sei maledetto?»
«Sì, ma che non hai idea di quale sia la maledizione. Ma non è questo granché: è ovvio che se vedo cose del genere o che se mi porto dietro un demone, tanto normale non posso essere. Non che tu sia messa meglio di me comunque, maledizione o non.»
Chiaki non era sicura che fosse un’offesa, anche se di sicuro non era nemmeno un complimento. Si limitò a tacere, continuando a camminare.
«Non mi chiedi niente?»
«No. Shiki-san dice che è un segreto tra te e lui.»
«E ti fidi?»
«Non è per fiducia. Penso solo che ci siano cose che non vuoi dire, e in fondo io non ho davvero bisogno né il diritto di saperle. Va bene, visto che ci conosciamo appena.» spiegò, senza approfondire troppo la cosa.
Avrebbe voluto dire che capiva, perché anche se la portata dei loro segreti era diversa, lei – come tutti – aveva cose di cui non voleva parlare né con le persone care, né con le altre. Seppure lei e Haruki fossero stati amici di vecchia data, pensava, non sarebbe stata comunque in grado di dirgli nulla.


Haruki inspirò lentamente, cercando di calmare la fastidiosa sensazione di un mal di testa feroce insieme alla nausea di chi soffriva di mal d’auto e aveva appena fatto dieci minuti ininterrotti di curve.
Impiegò diversi secondi per riuscire a fare mente locale, uscire da quello stordimento in cui nemmeno capiva bene dove fosse, e rimettere insieme gli ultimi avvenimenti. Lui e Chiaki erano arrivati fino a casa di Hideyuki, di questo era sicuro: lui li aveva fatti accomodare, aveva offerto loro il tè e Haruki aveva passato cinque minuti buoni in silenzio mentre Chiaki e l’altro si scambiavano opinioni in base a quello che la ragazza aveva letto su alcuni documenti. Non che ci fossero stati sviluppi inattesi.
Non ricordava bene secondo quale logica si fosse arrivati a tentare un secondo contatto con lo youkai nell’armadio, ma alla fine era sembrata l’unica cosa da fare e fino ad un certo punto Haruki era anche abbastanza sicuro che non ci fossero stati intoppi.
Ma poi…?
«Haruki, stai bene?» sentì chiedere alla propria sinistra e alzò lo sguardo, ancora un po’ intontito, trovando Hideyuki al proprio fianco. Annuì più per riflesso che altro: «Perché sembra come se un camion mi avesse investito?» borbottò, mettendosi a sedere più composto – riuscì finalmente a distinguere l’ambiente dell’appartamento di Hideyuki e a inquadrare, davanti a sé, Chiaki. Era seduta e sveglia, ma non aveva l’aria di chi stava bene.
«Non ci pensare.» lo anticipò Hideyuki «La tua sensazione di essere finito sotto un camion è il risultato di un tentativo di avvicinarti a Chiaki.»
«…Eh?» ribatté, sicuro di non avere un’espressione molto intelligente al momento, mentre qualcosa tornava in modo piuttosto frammentario a farsi strada nei suoi ricordi.
Armadio, spirito, e poi… poi cosa?
«C’è un secondo youkai. Temo abbia posseduto Chiaki.» parlava lentamente, il tono grave ma calmo; Haruki sgranò gli occhi, non capendo come potesse essere tanto tranquillo. Fece per mettersi in piedi, ma una mano di Hideyuki poggiata sulla sua spalla lo trattenne.
«Che diamine stai facendo?!»
«Non ho idea di quale youkai sia, non so come tirarlo fuori da lì e anche se usassi il kotodama rischierei di farle del male senza volere. A me sembra più sensato cercare di capire che cosa stia succedendo. A meno che tu non riconosca uno spirito a vista.» insinuò, in un’ironia piccata e leggera, diversa da quella strafottente di Shiki o da quella seccata dello stesso Haruki.
Digrignò i denti: non ne sapeva un accidente di possessioni, e l’unica che sarebbe servita con tutte le sue stupide nozioni era la posseduta.
«Porca merda.»
«Avverto il bisogno di liberarla solo per dirle “te lo avevo detto di stare lontana dagli youkai”.» proruppe la voce di Shiki, che l’istante dopo era materializzato al fianco di Haruki. Sembrava annoiato per qualcosa che aveva previsto, e seccato perché consapevole che avrebbe perso tempo prezioso.
«Sai di quale spirito si tratta?» lo interrogò Hideyuki, portando lo sguardo su di lui. Era la prima volta, o almeno Haruki non ne ricordava altre al momento, in cui quel ragazzo si rivolgeva direttamente a Shiki; al di là della sorpresa – che ultimamente era sempre minore – nel vedere un essere umano parlare con lui, ad Haruki ricordò vagamente la calma con cui la stessa Chiaki parlava con Shiki. Lei aveva un modo più “impersonale” di rivolgersi al demone, come se parlare con lui o con un umano non facesse alcuna differenza. Hideyuki invece era come qualcuno che non può e non vuole avvicinarsi al fuoco perché sa che brucia, ma che non è spaventato dalla fiamma o dal dolore che essa potrebbe provocargli. Era qualcosa di più, a cui non riusciva a dare un nome preciso.
Shiki incrociò le braccia, sedendosi a terra come se fossero tutti lì per una partita a carte: «Hai idea di quanti youkai effettuino una possessione appropriandosi del corpo e della mente degli umani? Fammi pensare… tutti? O quasi. Cosa vuoi che ne sappia.» ribatté acido, quasi.
Hideyuki aggrottò appena le sopracciglia, ma non disse nulla.
«Questo non significa che non sappia come liberarla.» proseguì il demone «Ma vi avviso che non sarà divertente. Per voi.»
«Puoi farla breve, Shiki? Hai già rotto il cazzo.»
Non era la prima volta che Haruki gli rispondeva a tono, e Hideyuki aveva sempre pensato che – sebbene in un modo che non avrebbe mai compreso – quello fosse il loro modo di comunicare, per quanto strano e particolare. Per questo si stupì quando, contrariamente a tutte le altre volte, Shiki si mosse così veloce da non essere nemmeno visto: in un istante era davanti ad Haruki, una mano al suo collo e l’espressione ferina mentre lo fissava.
Hideyuki lo vide leccarsi le labbra, e stava per aprire bocca – non era sicuro che il kotodama funzionasse sui demoni di alto livello, ma non poteva restare a guardare – quando Shiki, contro ogni previsione, si limitò a parlare; Haruki lo fissava come se nulla fosse, e Hideyuki non capì come si potesse in quella situazione.
«Chiariamo una cosa: io non ho obblighi verso nessuno, tanto più se si tratta di salvare gli esseri umani. Non faccio la carità, e il mio unico interesse è che tu rimanga in vita ancora per un po’. Non scordarti che se non sei ancora morto è perché ci sono io.» sibilò. Nessuno si mosse, finché un mugolio non attirò la loro attenzione: Chiaki si era mossa di pochissimo, e la testa ora ciondolava verso il petto.
Di nuovo silenzio.
Shiki sbuffò, tornando nella posizione iniziale: «L’unico modo è risvegliarle la coscienza e staccare a forza la sanguisuga che ci si è attaccata.» spiegò in breve. Hideyuki e Haruki si guardarono, incerti.
«Non ho idea se quello schifo debba essere cacciato fisicamente o no. Proietterò entrambi nella sua coscienza, ma non potrò fare niente se non comunicare con Haruki e vedere quello che vede lui. C’è anche il rischio che facciate danni, e quando sarà finita – se la ragazzina sarà di nuovo cosciente – non sarà stato piacevole per nessuno.» concluse sbrigativo, guardandoli.
Sbuffò, leggendo la risposta nel cambio di posizione di entrambi.
E dire che lui odiava mescolarsi alla coscienza umana.

«Non mi piace per niente, questa cosa.» borbottò muovendosi con circospezione, Hideyuki un passo dietro di lui.
«Sei sorprendentemente gentile, Haruki.» osservò con un sorriso leggero, facendo la stessa attenzione ad ogni movimento. Nessuno di loro aveva mai pensato che la coscienza fosse così: Hideyuki se l’era sempre immaginata come un lungo corridoio scuro, con tante finestre quanti erano i ricordi che fungevano almeno da perno, o al massimo quelli più vividi per la memoria umana. Magari ce n’era davvero una così, ma non era il caso di Chiaki: niente corridoio con le finestre, niente sala con i quadri, niente stanza piena di porte.
Era solo tutto bianco. Per quanto ne sapevano poteva essere anche una camera di qualche tipo, ma l’assenza di qualsiasi altro colore non gli permetteva di capire se ci fossero dei muri o un soffitto, né da dove fossero entrati data l’assenza di una porta – né da dove sarebbero usciti, tra l’altro.
L’unico concetto materiale era quello di un pavimento, dato che camminavano su una superficie e di fronte a loro c’erano gli oggetti più disparati a terra: un peluche in fondo a sinistra, un vaso di fiori non troppo distante, dei libri sulla destra, una cravatta quasi al centro (sempre che un centro ci fosse), un quadro a terra, quelli che sembravano fogli sparpagliati e così via.
«Gentile un corno.»
«Nemmeno a me piace l’idea di ficcanasare troppo in cose private. Ma non abbiamo scelta, immagino.» osservò, raggiunto poco dopo da un’eco distante che riconobbero entrambi come la voce di Shiki.
Gli oggetti sono la base della coscienza. Di solito rappresentano qualcosa che l’ha influenzata tanto da renderla com’è ora. Per comodità diciamo che è per colpa di questi pezzi di coscienza che voi umani siete come siete.
«Non avrei saputo dirlo meglio…» ironizzò Haruki a mezza bocca: «E adesso?»
Adesso cercate. Chiunque la stia possedendo, è da qualche parte. Di solito una volta che si possiede un frammento di coscienza è perché è il più adatto ad essere posseduto: non sempre è per debolezza, può essere anche il contrario.
«In pratica, cerchiamo alla cieca.» decretò Hideyuki, iniziando ad avanzare. Non aveva la minima idea di che ordine seguire, se dall’oggetto più vicino al più distante, o se dovesse cercare in base ai gusti di Chiaki; ma anche se fosse stato quello il caso, non sapevano affatto quali fossero.
La consapevolezza di non conoscersi affatto lo fece sentire ancora più colpevole all’idea di indagare così nell’anima di qualcun altro.
Non che avessero scelta.
Raggiunsero entrambi il vaso di fiori, sollevandolo da terra.

Chissà perché anche i bambini erano in grado di riconoscere le stanze d’ospedale: anche se ci andavano per la prima volta, anche se erano troppo piccoli per cogliere appieno cosa fosse un ospedale e cosa succedesse al suo interno, loro comunque lo riconoscevano. Capivano, intimamente, che era un posto dal quale non sempre uscivano tutti felici.
Chiaki era una bambina sveglia, lo era sempre stata: c’era chi diceva che avesse preso tutto dal papà, Hiiragi Koichi, che se era un docente universitario doveva pure esserci un motivo. Altri sostenevano che fosse tutta la mamma, che fino a prima del matrimonio era stata una pianista piuttosto famosa e ora insegnava ai piccoli che volevano coltivare il dono per la musica. Sua figlia, stranamente, non aveva mai imparato; tuttavia era una bambina brillante, senza per forza essere la migliore del suo anno a scuola. Aveva più che altro la vivacità mentale di chi ricerca la conoscenza continuamente senza che questa debba essere fissata da un voto scolastico.
Quando la zia – la sorella di suo padre – le aveva detto che sarebbero andate a trovare la mamma insieme, Chiaki aveva capito non tanto che non l’avrebbe più vista, ma che la donna non sarebbe tornata indietro con loro.
Ai suoi occhi, sua madre era pallida e un poco sciupata, ma non sembrava stare male tanto da non poter più scendere dal letto. Promise, come farebbe qualunque bambino, che si sarebbe presa cura di lei: non era brava a cucinare, ma poteva imparare. O poteva cucinare la zia, e lei avrebbe fatto tutto il resto – anche se cosa ci fosse nel “tutto” non lo sapeva.
La zia Hiroko le spiegò che la mamma non stava male fisicamente: «Sta male qui.» e le sfiorò la tempia con le dita, perché non avrebbe pronunciato la parola “pazzia” per tre lunghi anni ancora.
Chiaki non saltò una visita, né dopo mesi, né dopo più di un anno probabilmente.
Vedendola bambina, che raccontava a sua madre cosa aveva fatto a scuola, Hideyuki vide che sul comodino un vaso di fiori freschi colorava una stanza altrimenti troppo bianca e impersonale.

Una volta Chiaki aveva fatto un tema, a scuola: “il lavoro del mio papà”.
Aveva raccontato che suo padre era un insegnante che però faceva lezione con i “bambini grandi”, che leggeva un sacco di libri difficili e che poi le raccontava cosa aveva studiato durante il giorno. Gli parlava di figure che lei non riusciva sempre a immaginare, ma che somigliavano un po’ ai mostri delle favole, solo che non tutti erano brutti e cattivi.
Li chiamava “youkai”, e sosteneva che da qualche parte sicuramente esistevano. A lei il lavoro di suo padre piaceva molto, e ogni giorno non vedeva l’ora che tornasse a casa per raccontarle qualcosa di nuovo – anche se ogni tanto la mamma si arrabbiava perché diceva che alcuni mostri erano troppo spaventosi e che Koichi non avrebbe dovuto dirle quelle cose, che poi lei non avrebbe dormito.
Ma Chiaki e suo padre avevano un’arma segreta – questo nel tema non lo scrisse – una formula magica che pronunciata prima di dormire avrebbe tenuto gli spiriti lontani.
Ogni tanto, quando Hiiragi Koichi faceva tardi nel suo piccolo studio, Chiaki sgattaiolava fuori dalla sua stanza, pronta a usare il bagno come scusa visto che si trovava poco distante; lo vedeva chino su tanti fogli con simboli complicati o la carta giallognola, e pensava che suo padre un giorno avrebbe scoperto il mondo degli spiriti e che insieme sarebbero andati a fare amicizia con quelli buoni.
Nella sua mente di bambina non c’era né il concetto di derisione di chi ridicolizza a priori i sogni altrui, né di pericolo di fronte all’ignoto.
Non seppe mai che quelle ricerche erano qualcosa da temere in più di un modo, finché alla morte di suo padre sua madre non la sgridò, impedendole di cercare o leggere “quelle stupide ricerche che me lo hanno portato via”.
Avrebbe capito solo qualche anno dopo che forse erano state davvero quelle, a fare del male al padre di cui avrebbe conservato solo una vecchia cravatta, regalata chissà quando.

Dopo che sua madre era stata ricoverata, la zia Hiroko l’aveva accolta in casa come se fosse figlia sua, esattamente come i suoi due cugini – che figli lo erano davvero.
Anche se all’inizio aveva cercato di seguire le regole che sua madre aveva imposto alla morte di suo padre, alla fine Chiaki aveva curiosato tra i vecchi documenti di Koichi: ricerche che erano lontane dalle favole a cui era stata abituata, parlavano di creature a volte mostruose e crudeli, altre piccole e innocue. C’erano centinaia di fogli e decine di libri che non parlavano di altro che cultura, folclore, di spiriti che nessuno vedeva; e poi la ricerca di suo padre, quella scritta di suo pugno nemmeno fosse un diario: percezioni di presenze, di esseri non visti e non sentiti, ma che Koichi aveva sempre saputo essere lì.
Ci aveva messo tempo, a ritrovare un ordine in tutti quei documenti, specie perché le prime volte aveva paura di essere sorpresa da Hiroko e rimproverata, o che buttasse via tutte quelle cose che le ricordavano suo padre. Ma con il tempo ci era riuscita, e aveva passato ore a leggere, dalle cose che sembravano più semplici a quelle più difficili, e alla fine era stato come ritrovarsi ad essere l’assistente e l’erede di quel padre che non c’era più.
Gli youkai la spaventavano all’idea che potessero aver fatto del male al padre, ma avevano un fascino che non c’entrava con la mitologia, il folclore o tutto il resto; capiva che non erano immortali, ma erano molto più difficili da uccidere degli uomini, avevano molto più tempo e la maggior parte di loro si consumava dopo secoli di vita o veniva sigillato.
Quella morte che le aveva portato via entrambi i genitori – perché sua madre, lì dov’era senza più percezione di cosa la circondasse, non era più del tutto se stessa –, dava in qualche modo significato alla sua esistenza. Sentiva, però, un’inquietudine terribile: c’erano youkai, nella sua stanza? In casa? A scuola?
Quando camminava per le strade la seguivano perché aveva un odore simile a Koichi? Oppure la ignoravano?
Suo padre aveva creduto nella loro esistenza senza vacillare un solo attimo, affidandosi a niente più di una percezione. Lei non sentiva nulla, o a volte sentiva troppo, e non capiva se fosse perché si autosuggestionava o meno.
«Koichi amava queste cose. Anche se è probabile che tutti lo credessero pazzo.» le aveva detto Hiroko quando aveva scoperto che si perdeva per ore a leggere quei documenti «Quando ha cominciato si era appena iscritto all’università. Avrei voluto dimostrare che non mentiva e che non era pazzo, ma ormai nessuno crede a quello che non vede.»
Chiaki poteva, questo si era detta.
Con un libro tra le mani, e un rituale di marchiatura per permettersi di vedere, avrebbe potuto scoprire se suo padre mentiva oppure no.
Aveva quattordici anni, quando iniziò a vedere gli youkai: erano lì, non toccati dal tempo umano, forti di un’esistenza quasi eterna. Osservandoli con quanta più discrezione le riusciva, si abituava alla loro presenza, e sentiva sempre maggiore disagio verso gli esseri umani.
«Sarà quello?» sussurrò Hideyuki, indicando davanti a sé; ad Haruki sembrò di riemergere da un sonno durato anni. Seguendo quell’indicazione, capì a cosa si riferiva l’altro e desiderò di non averlo visto affatto: era come una grande sanguisuga, in questo Shiki non aveva sbagliato ad apostrofare quello spirito. Le fattezze erano diverse, sì, ma il modo in cui era avviluppato alla Chiaki di quel frammento di coscienza faceva venire la nausea.
Si mosse senza pensare, e con il senno di poi l’avrebbe sicuramente etichettato come qualcosa di molto stupido, ma avere Hideyuki che si muoveva al suo fianco quasi nello stesso istante lo illuse che forse era meno idiota di quanto sembrasse.
Loro tre non avevano nulla da spartire, eppure l’aria in quel posto era così irrespirabile – o almeno aveva quella percezione – che non riusciva a concepire qualcuno che potesse stare bene lì, o al quale avrebbe augurato di restarci.
Allungò la mano, e rimpianse di averlo fatto: un urlo anche troppo acuto per essere umano era iniziato nello stesso attimo in cui sia lui che Hideyuki si erano protesi verso quella Chiaki che era, indubbiamente, più piccola di quella reale. Lei si era ritratta urlando come se l’avessero torturata con quell’unico gesto.
Hideyuki fece un passo indietro, tenendosi la testa fra le mani, senza riuscire a vedere come se la stesse cavando Haruki.
Nella sua testa, risuonava solo quell’urlo insopportabile e un senso di terrore al solo essere sfiorati e che gli fece girare la testa.
Chiaki e tutto il resto sparirono.

«Ohi! Ohi, Hide! Svegliati, cazzo!»
Aprire gli occhi fu la cosa più difficile degli ultimi mesi, se non anni. Sentiva il corpo pesante, e impiegò diversi istanti per mettere a fuoco Haruki che lo scuoteva. La seconda cosa che realizzò fu che c’erano dei colpi di tosse: gli ricordarono vagamente quando era andato in piscina con il gruppo con cui suonava, e quell’idiota di Mitsu aveva bevuto acqua e tossito per i cinque minuti successivi.
Si tirò su, cercando una sorta di equilibrio anche senza un muro a cui poggiarsi. Lentamente i dettagli si fecero più nitidi: la sua stanza, Haruki, Shiki e Chiaki.
«Chiaki…?» anche articolare una frase era complicato al momento, ma almeno era sicuro che la sua mente stesse riacquistando lucidità. L’altro ragazzo si fece di lato, voltando la testa verso Chiaki: tossiva e aveva il respiro velocizzato, ma sembrava essersi ripresa e soprattutto essere cosciente.
Shiki le stava accanto, ma più che altro la teneva d’occhio.
«Ne hai di risorse, eh. Oggetti di protezione per casi disperati come questo, e marchi chissà dove.» esordì quando i colpi di tosse sembrarono farsi più radi e lei parve riuscire a respirare in maniera decente.
Hideyuki, la mano di Haruki sulla spalla, lo sentì stringere la presa fino a fargli male; avrebbe voluto farglielo notare, ma sapeva – lo intuiva, più che altro – che si stava trattenendo.
Riportò lo sguardo su Chiaki che Haruki aveva già esaurito il briciolo di pazienza rimasta.
«Ne sarà valsa la pena, immagino.» mormorò, la voce che gli tremava, finché non le puntò lo sguardo addosso: era arrabbiato, ma Hideyuki pensò che sembrava più che altro incredulo, deluso, e soprattutto sopraffatto da una tristezza così grande da schiacciarlo.
«Marchiarsi con un rituale per vedere gli youkai e farsi quasi ammazzare. Spero ti divertirai la prossima volta, e quella dopo ancora.» aggiunse, il tono che si era andato alzando così come lui, che era in piedi.
Hideyuki non riuscì a vederne l’espressione, ma le spalle che tremavano gli bastarono.
«Io e te non ci siamo mai incontrati.» sibilò.
Anche dopo che la porta dell’appartamento ebbe sbattuto, dividendo loro due da Haruki e Shiki, Chiaki non alzò mai lo sguardo.
Nemmeno quando se ne andò a sua volta, da sola.



 



 

 

Stavolta niente note da Chiakipedia *muore*
Unica cosa, i credits per la citazione in apertura, della canzone “Words” (Skylar Grey).

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Capitolo 5
*** Shiki ***


IV
Shiki

Was what you tried to protect with your hands,
someone you loved?
Staring at your hands awash in red,
you finally recognize your sins.


Erano passati giorni da quando Hideyuki aveva visto Chiaki e Haruki l’ultima volta.
Per la precisione, la ragazza si era presentata al suo appartamento il giorno dopo l’incidente, tornando da scuola a giudicare dall’orario. L’aveva fatta accomodare, ma dopo quasi mezz’ora di completo silenzio – ad eccezione di piccole cose come “vuoi un tè?” e “sì, grazie” –, aveva iniziato a temere che non sarebbero andati da nessuna parte o che lei non sapesse da dove cominciare. In realtà non riusciva ad intuire se ad averla spinta lì fosse il volersi scusare o l’arrabbiatura per ciò che lui e Haruki avevano fatto; potevano giustificarlo sostenendo di volerla aiutare, ma questo non cambiava che avessero visto e sentito cose che Chiaki avrebbe di certo voluto tenere per sé, specie con due sconosciuti.
Il vedere gli youkai, chi per un motivo e chi per un altro, gli aveva fatto dimenticare quell’aspetto: si conoscevano a malapena.
Invece Chiaki non si era presentata in casa sua né per scusarsi, né per aggredirlo.
«Non ti darà più problemi.» aveva interrotto così il silenzio, lo sguardo sulla tazza di tè davanti a sé.
«Cosa?»
«Lo zashiki-warashi. Fin dall’inizio era qui solo per proteggere te che vivi nell’appartamento, Hideyuki-san. Mi dispiace di non essermi accorta dell’altro spirito.» aveva spiegato brevemente. Lui l’aveva osservata tacendo per qualche istante, scuotendo la testa: «Nessuno di noi se ne era accorto. Hai fatto anche più di quanto ti avessi chiesto.» l’aveva rassicurata, almeno su quell’aspetto. Aveva avuto la sensazione che Chiaki fosse davvero fragile in quel momento, più di quanto gli fosse sembrato dai precedenti incontri. Lui non era certo molto più grande di lei o di Haruki, eppure si considerava fortunato: aveva sempre vissuto abbastanza bene la sua capacità, senza che questa lasciasse mai in lui ferite troppo profonde. Forse perché aveva appreso abbastanza presto il kotodama ed era riuscito a farne un uso tale che fingere di non vedere era diventato molto semplice. Oppure doveva essere stato fortunato e niente di più.
Vedere frammenti dell’animo di Chiaki aveva lasciato in lui un segno più profondo di quanto avesse creduto quando si era ripreso: non si era trattato solo di sentirsi addosso la tristezza di un’altra persona, ma di un insieme di cose – probabilmente era aver visto Chiaki bambina, o poco più, avere a che fare con qualcosa di tanto grande.
«Mi dispiace.» aveva esordito quindi «Anche se fatto con le migliori intenzioni, non deve essere stato piacevole sapere cosa abbiamo visto io e Haruki.»
Lei era rimasta in silenzio, senza mai alzare lo sguardo. Era come se non sapesse cosa dire, se fosse combattuta tra troppe cose. Poi, continuando a guardare il tè nella sua tazza, aveva scosso impercettibilmente la testa: «Non sono arrabbiata.» aveva detto «Non per quello.»
Lo aveva colto alla sprovvista, doveva ammetterlo; sebbene avesse messo in conto la sua rabbia come se fosse una cosa scontata, sentirle pronunciare quelle parole era stato strano, dal momento che Chiaki non aveva mai mostrato una vasta gamma di espressioni o di sentimenti, in sua presenza. Non le faceva il torto di crederla insensibile – dubitava che qualcuno che poteva vedere potesse esserlo – ma fino a quel momento era sembrata più che altro una fantasia, qualcosa che poteva esistere ma senza alcun riscontro nella realtà.
L’aveva vista alzarsi, lasciandola tazza di tè per metà piena.
«Allora per cosa sei arrabbiata?» l’aveva accompagnata alla porta, osservandola varcare la soglia senza sapere se fosse il caso di fare altre domande nel caso lei non avesse risposto. Inaspettatamente, Chiaki gli aveva risparmiato la scelta sbagliata.
«Io non so cosa tu o Haruki-kun abbiate fatto fino a pochi giorni fa. Per la verità non so molto della vostra vita nemmeno adesso.» aveva detto, come se ci avesse ripensato all’ultimo momento: «Ma non ho mai giudicato nemmeno le cose che mi sembravano più insensate di voi. Mi fa arrabbiare che invece vi sia bastato vedere cose che non avreste mai dovuto nemmeno sapere, per sentirvi in diritto di pensare quello che volevate.» aveva replicato quasi bruscamente, congedandosi con un breve cenno della testa.
A Hideyuki era sembrata più sola e fragile che mai.
Ma la stranezza di quella giornata non era stata tanto la visita di Chiaki, quanto quella che le era seguita; appena la ragazza non era rientrata più nel suo campo visivo, a palesarsi era stato Shiki.
«Non sta bene origliare.» gli aveva detto, senza un reale rimprovero nel tono, conscio che sarebbe stato comunque inutile rivolgergliene uno. Il demone non aveva ribattuto subito, guardando nella direzione in cui si era allontanata la ragazza.
«Haruki-kun non è con te?»
«Ti sorprenderà sapere che non gli sto sempre appiccicato come può sembrare.» aveva detto ironico, portando l’attenzione su di lui. In silenzio era scivolato nella sua abitazione, e Hideyuki lo aveva seguito richiudendosi la porta alle spalle. Rispetto a quando aveva accolto Chiaki, tuttavia, non lo aveva invitato ad accomodarsi, rimanendo fermo dov’era; Shiki doveva aver colto il senso della sua immobilità perché aveva sorriso divertito.
«Non mi piace proprio, il tuo odore.»
«Credo che sia inevitabile, come il fatto che a me non piaci tu. Né quello che fai ad Haruki-kun, anche se immagino che una cosa come quella sia una scelta.» aveva detto, parlando chiaramente e senza sorrisi o cortesie di circostanza. Il volto di Shiki si era fatto più cupo, il ghigno ferino sulle belle labbra.
«Non che siano affari tuoi.»
«In effetti no. Se non avessi visto il marchio per puro caso, magari non mi sarebbe mai venuto in mente. Anche se devi ammettere che un demone che gira con un ragazzino non è proprio una cosa che si vede tutti i giorni, nemmeno quando hai la cosiddetta vista.» era stato il suo commento, muovendo qualche passo verso l’interno: «A cosa devo la visita?»
«Ho seguito l’odore della ragazzina, per la verità.» aveva ammesso con una scrollata di spalle; Hideyuki si era chiesto perché Shiki volesse avere ancora a che fare con Chiaki, quando le parole di Haruki avevano lasciato chiaramente intendere che non ne aveva alcuna intenzione, soprattutto nell’immediato futuro. Si era ritrovato a sorridere, senza nemmeno accorgersene, finché Shiki non aveva inarcato un sopracciglio perplesso.
«Forse lei ti piace tanto perché è l’unica a cui puoi piacere tu.» aveva osservato, con fare innocente.
«A me non piace.» aveva tagliato corto «E a lei non piaccio io. È solo attaccata agli spiriti, anche troppo.»
L’attimo dopo Hideyuki era solo nella stanza.

Haruki non si sentiva in colpa. Non gli interessava nemmeno sapere cosa ne pensasse Hideyuki, o la stessa Chiaki, né che lo considerassero crudele per quanto aveva detto dopo ciò che aveva visto.
Era proprio per quello che era convinto di essere dalla parte della ragione: quale persona cercava il dolore di propria spontanea volontà? Avrebbe potuto capire se le ricerche del padre di Chiaki fossero state di importanza vitale e lei fosse stata l’unica a poterle portare avanti, o ancora avrebbe potuto fare uno sforzo se marchiarsi in modo da poter vedere avesse significato salvare molte persone o il padre stesso. Ma così non era, Chiaki aveva scelto di fare quel che aveva fatto solo per sentirsi vicina al padre, e per quanto Haruki si sentisse vicino alla propria famiglia, sapendo bene quale peso fosse vedere gli youkai non lo avrebbe mai cercato per se stesso.
Aveva passato la vita a chiedersi come liberarsi di quella capacità maledetta, e ora incontrava qualcuno che non era schiavo della cosa che lui più odiava, ma si era condannato da solo.
Era sicuro della propria decisione di tenersi alla larga da Chiaki e da Hideyuki: dopotutto non aveva mai pensato che sarebbero potuti essere gli amici che lo avrebbero compreso nel profondo. Erano troppo umani, e quando si trattava di youkai, per assurdo lo erano troppo e troppo poco al tempo stesso. Haruki aveva passato anni a trovare il giusto distacco, a cercare dentro di sé solo i sentimenti che gli avrebbero permesso in qualche modo di combatterli senza avere alcuna pena per loro, e adesso che finalmente credeva di riuscirci… quei due arrivavano, improvvisandosi amici suoi e degli spiriti.
«Ohi, Kirihara.» alzò lo sguardo con qualche secondo di ritardo, come quando non si era abituati a un appellativo, inquadrando uno dei suoi compagni che si avvicinava al suo banco. Haruki non aveva un buon rapporto con la classe, o per meglio dire, non aveva un rapporto: qualche chiacchiera in più con i maschi, forse, ma perché le ragazze erano più guardinghe nei confronti di quello che era considerato uno studente problematico.
Il compagno si fermò a un paio di passi da lui, accennando con la testa alla porta della classe: «Ti cercano.» comunicò semplicemente, andando ad unirsi di nuovo ai suoi amici poco più in là.
Haruki portò lo sguardo verso l’entrata della classe, convinto di trovarvi Chiaki: dubitava che ci fosse qualcun altro nella scuola che potesse avere interesse a parlare con lui tanto da scomodarsi; se era per le risse, lo aspettavano direttamente fuori.
Invece fu smentito quando riconobbe vagamente la compagna di classe di Chiaki, di cui non ricordava affatto il nome, ma che era sicuro fosse quella a cui aveva chiesto di chiamare l’altra ragazza da parte sua. Si alzò perplesso, raggiungendola.
«Ciao.» pronunciò lei, un sorriso disteso sulle labbra, anche se sembrava meno a proprio agio di quanto non fosse stata in classe; non ci diede troppo peso, essendo abituato a quel tipo di reazione: «Tu sei…
«Endou. Sono in classe con Hiiragi.»
«Sei quella a cui ho chiesto di chiamarmi Chiaki l’altra volta, sì.» convenne, giusto per accorciare i tempi, dal momento che dubitava l’altra fosse lì solo per comunicargli come si chiamava. La vide indugiare qualche attimo, dopo il quale raddrizzò la schiena. Sembrava quasi che si fosse convinta che quel che aveva da dire fosse più importante di qualsiasi forma di timidezza o di timore.
«Ho visto che tu e Hiiragi-kun non state più insieme. Quando arrivate o quando andate via da scuola.»
«Non è che siamo andati via insieme così tante volte.» commentò lui seccato. Cos’era, bastava andarla a prendere in classe una volta o essere visto con lei perché la gente si facesse idee contorte e sbagliate?
«Nessuno è mai andato via con Hiiragi-kun a parte te, Kirihara-kun.» lo corresse lei, con un sorriso mite: «Di solito non sono impicciona. Sono brava a capire quando le persone non vogliono che gli si facciano delle domande.» riprese prima ancora che lui potesse ribattere «Penso di aver capito da tempo che tu non sei cattivo, in fondo, come Hiiragi-kun non è soltanto “più matura della sua età” come dicono i professori per spiegare che lega poco con la nostra classe.» affermò, schietta nel parlare, senza nascondere la verità.
Ma Haruki si chiedeva ancora cosa volesse da lui.
«Scusami quindi se vengo a chiederti questo. Non voglio sapere cos’è successo tra voi due, solo se sai come sta di recente.» chiarì «Forse lei non mi considera un’amica, e non posso definirci così nemmeno io, ma è una brava persona. Ho la sensazione che non leghi con noi per paura di… non lo so. È un po’ forte come espressione, ma direi “essere deleteria”.» soppesò, arricciando un poco il naso. Haruki fece per interromperla, ma lei piantò lo sguardo nel suo, mettendolo a tacere come poche persone riuscivano a fare: «Spero che sia tutto a posto. Che lo sia abbastanza da non dovermi preoccupare sul serio. Se la vedi, dille che la sto cercando, mh?» aggiunse, aspettando qualcosa, forse un cenno positivo.
Haruki non gliene diede uno, ma ad un certo punto lei sembrò comunque soddisfatta e si voltò per andarsene così com’era venuta.
Allora Haruki lo vide, avendo il campo visivo libero: uno youkai debole, che aveva incrociato qualche volta per i corridoi, fingendo di non vederlo. Era una massa abbastanza informe, in parte trasparente, come se stesse svanendo nel preciso istante in cui la si guardava. La cosa più definita di quell’essere era una maschera, con due fessure piccolissime al posto degli occhi, e decorata con motivi apparentemente astratti. Non era grandissimo, e rimaneva fermo in un luogo, anche quando gli passavano davanti delle persone.
Ma ora si stava muovendo, e fu questo che fece uscire Haruki dall’aula.

Non aveva nemmeno badato ai corridoi in cui girava, lo sguardo attento e fermo sullo spirito che stava seguendo. Non dava troppo nell’occhio, essendo ancora nel pieno della pausa, studente in mezzo ad altri coetanei che si alternavano in un via vai generale. Nemmeno lo spirito lo aveva notato, e per una volta l’assenza di Shiki era un bene: probabilmente lui sarebbe stato percepito, e come minaccia.
Haruki non era mai stato il tipo da fare pulizia a scuola per un qualche senso del dovere nato dal semplice vedere gli spiriti; tuttavia, con il tempo si era preso almeno la briga di assicurarsi che non facessero danni ai quali – irrimediabilmente – si sarebbe ritrovato in mezzo pur non volendolo. In quei casi li seguiva senza dare segnali sul vederli o meno, fino a che non passavano oltre un muro verso l’esterno o si rifugiavano negli sgabuzzini. A quel punto, tornava sui suoi passi e li abbandonava a se stessi così come aveva iniziato a seguirli; non badava mai troppo a dove andava, se era l’edificio scolastico: non c’erano luoghi in particolare dove la sua presenza avrebbe potuto dare nell’occhio o dove rimanere intrappolati sarebbe stato pericoloso.
Per questo non faceva troppo caso al corridoio in cui camminava, né alla presenza di sempre meno studenti, fino a che non si ritrovò ad essere l’unico a far risuonare i propri passi insieme a una senpai che andava nella direzione opposta alla sua e che incrociò quasi a metà.
Troppo concentrato sullo youkai, impiegò diversi istanti per registrare il suono proveniente dall’aula di musica: quella stanza era sfruttata, lontano dalle lezioni, o dal club omonimo o dagli studenti che approfittavano delle pause per esercitarsi; si trovava in un’ala meno trafficata dei corridoi che ospitavano le aule normali, per cui era il luogo ideale, privo di visitatori e – quindi – di seccatori.
Se Haruki si fermò fu perché anche lo youkai fece lo stesso: galleggiava a mezz’aria, sulla soglia, come se stesse ascoltando. Con discrezione, il ragazzo si accostò alla parete. Forse non era saggio avvicinarsi tanto a uno spirito, per quanto innocuo fosse, ma l’alternativa sarebbe stata piazzarsi davanti all’aula e magari attirare l’attenzione di chi era dentro, agitando lo spirito. Aveva imparato che non era mai una buona cosa.
Tutte quelle elucubrazioni per cui Shiki lo avrebbe preso in giro, tuttavia, furono rese vane dallo stesso youkai che oltrepassò la soglia entrando nell’aula. Haruki attese qualche istante, prima di sbirciare dentro: il suono del pianoforte che proveniva dalla stanza era fluido, una melodia non troppo lenta, ma che non avrebbe definito esattamente allegra. Sembrava il ripetersi della stessa parte, come se chi stava suonando avesse dimenticato il resto della canzone ad eccezione di quel passaggio; poi cambiava, un movimento simile ma con note diverse. Haruki non aveva mai capito nulla di musica, ma se avesse dovuto provare a descrivere quella melodia, avrebbe detto che sembrava un addio, un ultimo saluto ad accompagnare chi partiva per non tornare più.
E quando, finalmente, sbirciò all’interno dell’aula se ne pentì: a suonare era Chiaki, gli occhi attenti sui tasti – e in quel momento Haruki notò l’assenza di uno spartito e che lo spirito l’aveva ormai raggiunta, affiancandola e continuando a guardarla, galleggiando quasi pigramente.
Strinse i pugni, deciso ad andarsene: Chiaki sapeva benissimo cavarsela da sola, quello che le accadeva non era affar suo, e quanto allo spirito non avrebbe comunque creato problemi.
«Dovresti andare.» la sentì pronunciare, e si sporse definitivamente per ribattere che non era lì per scusarsi come poteva sembrare, ma per seguire quello stupido youkai a cui lei era rivolta. E lo capì quando seppe di essere rientrato nel suo campo visivo e la notò irrigidirsi, assumendo l’espressione di chi ha visto l’ultima persona che si aspettava di incontrare.
Fu felice almeno dell’assenza di Shiki: quel malinteso idiota sarebbe stato la sua rovina, altrimenti.
A volersi aspettare una reazione, pensava che Chiaki gli avrebbe intimato di andarsene; lei, invece, tornò con lo sguardo sullo youkai e Haruki seppe di essere appena stato ignorato. O almeno la sensazione avuta era esattamente quella.
La osservò mentre allungava una mano, sfiorando con la punta delle dita quello spirito che, l’istante dopo, si dissolse nel nulla. Non era la prima volta che Haruki li vedeva sparire: non aveva mai saputo se “morire” fosse un termine esatto, quindi aveva sempre sostenuto che si dileguassero e basta, finendo chissà dove. Lo aveva visto succedere con quegli youkai fuori dalla sua portata e di cui era capitato si occupasse Shiki; non era accaduto spesso, ma non era mai stato uno spettacolo piacevole. Haruki non amava gli spiriti, quindi non si sentiva emotivamente legato al concetto di morte o sparizione che fosse, ma gli aveva sempre lasciato addosso una pesantezza che né il riposo né altro riusciva a mandare via per diversi giorni.
Si ridestò notando che Chiaki tremava. Abbassando lo sguardo, la vide stringere i pugni così forte che le nocche erano sbiancate.
Farsi coinvolgere era esattamente ciò che non avrebbe dovuto fare. Eppure, prima di riuscire a comprenderne il motivo, le fu davanti e entrambe le sue mani presero la sinistra di lei, facendo una pressione leggera in un tacito intimarle di smettere di conficcarsi le unghie nei palmi della mani. Lentamente lei rilassò la stretta, inspirando lentamente e buttando fuori l’aria in silenzio; i segni c’erano, ma le unghie non avevano scavato tanto a fondo da ferire la carne. In compenso, ora la mano tremava leggermente e Haruki, nel tenerla nelle proprie senza sapere cosa fare, rimpianse di aver agito d’istinto.
Non era stato per Chiaki. Era stato perché lei gli aveva ricordato quando da piccolo, impaurito dagli spiriti che vedeva, stringeva le mani nello stesso modo nella speranza che il dolore lo svegliasse da quello che credeva fosse un incubo. In quelle occasioni suo nonno si avvicinava e gli teneva pazientemente le mani, rilassando la sua stretta fino a scioglierla, posandogli carezze rassicuranti sia sul palmo che sul dorso, fino a calmarlo.
Haruki, però, non stava facendo lo stesso. Era fermo senza sapere quanto pericoloso fosse, rivolgerle quel trattamento che era per le persone che sapevano prendersi cura degli altri e lenire il loro dolore, una cosa che lui non aveva mai imparato, riuscendo a malapena a convivere con la propria di sofferenza, e facendolo come un animale ferito che per istinto si rivolta verso chiunque.
Era fermo, piegato sulle ginocchia senza aver avvicinato una sedia per sedersi – non sapendo nemmeno lui se volesse trattenersi o meno –, con quella mano tra le sue che fissava, come se la risposta dovesse arrivare da lì.
La sentì contrarsi impercettibilmente e fu tentato di alzare lo sguardo, ma le parole di Chiaki glielo inchiodarono lì dov’era, un po’ a terra e un po’ su quella mano: «Mio padre è scomparso così.»
Haruki non avrebbe saputo dire perché lei gli stesse confidando una cosa simile, dopo quello che lui aveva detto e che lei non aveva che pensato, senza ribattere nulla. La presa del ragazzo si fece più debole, forse con l’intento di lasciarla andare, e lei non si oppose, facendo cadere mollemente le mani in grembo.
«Non è sparito nel nulla, non lo hanno rapito gli spiriti.» chiarì, come se Haruki avesse chiesto spiegazioni che invece non era nemmeno sicuro di voler sentire. Ma Chiaki, incurante delle sue volontà o come se lui non fosse nemmeno lì, continuò a pronunciare quel flusso di coscienza: «Ne aveva percepiti tanti, andare via. E lo aveva raccontato solo a mia zia. Le aveva chiesto di aiutarlo a pensare a un modo per accompagnarli, visto che non potevano esserci lapidi o niente del genere. E allora mia zia scrisse una canzone.» proseguiva guardando le proprie mani, i capelli lunghi che ne nascondevano in parte il volto, impedendo ad Haruki – se anche avesse alzato lo sguardo – di scorgerne l’espressione.
«Pensava che se anche gli youkai non esistevano, avrebbe potuto distrarre mio padre. Che se quelle erano solo fantasie per non sentirsi solo, una canzone lo avrebbe fatto sentire amato, visto che lei l’aveva scritta per lui. Ma mio padre continuava a suonarla anche dopo essersi sposato, e dopo che io ero nata, e… non era solo. Voleva solo dire addio. E quando lo sentivo suonare, mi diceva che stava salutando un vecchio amico: che gli spiriti secondo lui diventavano luce, perché quando qualcuno di loro spariva e lui sentiva l’assenza, poi gli sembrava sempre di vedere un bagliore nella stanza.» continuò a raccontare.
Haruki avrebbe voluto farla smettere, dirle che non le interessava e che non glielo aveva chiesto, ma quando apriva bocca per farlo gli tornavano in mente le scene viste nella sua coscienza, quell’urlo di quando lui e Hideyuki avevano provato a raggiungerla. E allora si sentiva un macigno pesare sul cuore e nello stomaco, e ogni parola rimaneva lì in gola.
«Mio padre non li vedeva e non li sentiva parlare. Avvertiva solo delle presenze, avrebbe potuto ignorarle ma non lo fece mai. Anche se nessuno ci credeva. Anche se tutti pensavano fossero solo fantasie.» Haruki sentì che la voce le tremava e sgranò un poco gli occhi, deglutendo – codardo, non alzava ancora lo sguardo. Ma quando lo fece, fu in tempo per vederla fare lo stesso e sentirsi spingere senza troppa forza, ma con convinzione. Finì sedere a terra, non un grande danno visto che era comunque in una posizione per cui si era trovato vicino al pavimento. Ma l’impatto era più che altro emotivo: di Chiaki non aveva mai visto grossi cambi di espressione, e anche quando le aveva rivolto parole dure e cariche di rabbia a casa di Hideyuki, lei non aveva detto nulla. Ora, invece, aveva gli occhi lucidi – quelli di quando non piangere richiedere uno sforzo enorme, destinato comunque a fallire.
«Mio padre non era un bugiardo!» esclamò «Io ora li vedo, e so che mio padre non ha mai mentito. Lui sapeva che c’erano, e cercava di dirgli addio. E anche se fosse stato uno youkai a portarmelo via, gli esseri umani lo hanno abbandonato molto, molto prima che morisse!» continuò, alzandosi in piedi: «Tu non hai il diritto di biasimarmi per quello che ho fatto. Non ce l’hai, né lo ha quel demone che ti porti dietro, né Hideyuki-san. E io non penso di aver fatto nulla di male. Non mi scuserò con te. Mai.» pronunciò, andandosene via senza nemmeno aspettare una risposta.
Ma Haruki, che guardava dov’era stata seduta fino a poco prima, non avrebbe avuto comunque niente da dire.
Anche le sue mani tremavano.


«La vuoi smettere di seguirmi?!» sbottò Haruki, seccato, le mani in tasca e Shiki che sembrava entrato in sciopero. Era sparito dopo avergli sussurrato all’orecchio che c’era un ospite indesiderato, facendogli anche alzare la guardia convinto che si trattasse di uno youkai, e invece non aveva visto altri che Hideyuki e Shiki non si era più manifestato.
«Hai detto che stai andando ad occuparti di un lavoro, giusto? C’è una cosa che vorrei chiederti, però.» ammise Hideyuki con tono affabile e pacato, affiancandolo come se Haruki non l’avesse invitato per l’ennesima volta a lasciarlo in pace. Il più giovane alzò gli occhi al cielo e sospirò seccato, senza nemmeno impegnarsi a nasconderlo: «Non puoi chiedere e poi andartene?»
«Si tratta di una questione lunga, temo.»
«Allora non sono sicuro di volerla sentire. O puoi dirmela dopo.» tagliò corto, senza far desistere l’altro, visto che non si fermò né diede segno di voler rallentare in alcun modo.
«Se non ti dispiace, vengo con te.» disse Hideyuki, con quel mezzo sorriso sulle labbra che caratterizzava la sua cosiddetta espressione cordiale, che ebbe il potere di irritare Haruki in mezzo secondo. “Se non ti dispiace”, diceva. Come se non fosse palese che non lo voleva in mezzo alle scatole.
Affrettò il passo, con cipiglio contrariato: «Odio avere gente fra i piedi quando lavoro.»
«Il che è curioso, potrei anche darti una mano.» rimbeccò il più grande, come se fosse ovvio che non aveva altra intenzione che quella di aiutare.
«Non ti ho chiesto una mano.»
«Per come la vedo io, non mi chiederesti aiuto nemmeno se uno youkai ti stesse uccidendo lentamente, Haruki. Questo non vuol dire che potrei girarmi dall’altra parte e fingere di non vedere.» fece presente Hideyuki con calma invidiabile, continuando ad affiancarlo, velocizzando l’andatura di pari passo con l’altro.
«Sta’ a sentire.» sbottò fermandosi senza preavviso, fortunatamente senza finire addosso a nessuno visto che non si trovavano in una strada trafficata «Lo so dove vuoi andare a parare. Se ti dispiace per Chiaki, vai a dirlo a Chiaki. Io ho chiuso, non ho intenzione di sentirmi in colpa per nessuno, e—»
«Ti senti già in colpa.» lo redarguì, il tono e lo sguardo più severi, anche se non particolarmente duri: «E ti senti anche in dovere di essere arrabbiato. Diciamo anche che lo capisco, in parte, dal momento che anche io ho una vista naturale, se così vogliamo chiamarla. Ma rispondi a questo: credi che Chiaki, per com’è, potrebbe odiare gli spiriti come li odi tu?» lo interrogò, guardandolo dritto negli occhi.
Haruki non capiva nemmeno dove volesse andare a parare, ma anche senza conoscere la ragazza da più di qualche giorno, quella era una cosa così ovvia dal primo istante in cui avevano interagito da non dover essere nemmeno ponderata più di qualche istante.
«Figurati.» sputò fuori seccato «Quella quasi li preferisce alle persone.» commentò pungente.
«E tu potresti farti piacere gli youkai come fa lei?»
«Mai.»
«Esatto. Perché da te, non so come e non voglio saperlo, si sono fatti odiare. Da lei no. Non puoi pretendere che li odi perché tu lo fai, lei non può sperare che li apprezzi solo perché così li percepisce. Hai le tue esperienze, lei le sue, e se sei convinto che non conti nulla allora sei davvero un ragazzino che ha bisogno più della balia, che di un demone che lo segua.» commentò aspro Hideyuki, sorprendendolo anche, perché non aveva mai usato niente più di un tono vagamente severo nei loro confronti o in loro presenza.
«Sai che il fare da saputello mi sta veramente sul cazzo? Come se—» ma il termine di paragone, qualunque esso fosse, si perse con l’apparizione di Shiki e il suo ringhiare con gli occhi fissi davanti a sé.
In un primo momento, quando entrambi i ragazzi portarono lo sguardo in quella stessa direzione e videro l’unica figura presente, sarebbe stata una scena quasi ilare se vista da esterni: Shiki ringhiava contro Chiaki. Ma la comicità durò ben poco: la ragazza stava correndo nella loro direzione, e lo faceva perché era inseguita da qualcosa.
Bastò uno sguardo a entrambi per riconoscerlo: era lo youkai che avevano visto nella coscienza di lei, quella cosa grande e informe che si era avviluppata ad un frammento di anima della ragazza, stordendoli per il solo aver tentato di tirarlo via e lontano dalla vittima. Sembrava più grande, però, e questo non parve un buon segno a nessuno dei due.
«Ma quel coso non muore mai?!» sbottò Haruki indietreggiando di mezzo passo e addossandosi al muretto alle proprie spalle. Non sapeva se dovesse consolarli, il fatto che al momento non passasse nessuno che avrebbe potuto prenderli per tre pazzi; considerando che la cosa si doveva al loro essere in una zona residenziale in un orario dove le casalinghe erano già rientrate e gli impiegati erano ancora a casa, forse non era poi così positivo. Ci mancava solo che inglobasse qualche casa.  
«Se non lo uccidi direi di no!» rimbrottò Shiki sarcastico – ed in effetti si erano preoccupati tanto delle condizioni psico-fisiche di Chiaki, nonché delle loro, che né lui né Hideyuki avevano mai mosso un dito contro quello spirito se non per allontanarlo dalla ragazza.
Haruki si diede dell’idiota. In tanti anni a contatto con gli youkai si era fatto sfuggire la cosa più importante: se hai fatto infuriare uno spirito, assicurati o che sia sparito per sempre o che sia stato sigillato. Non aveva fatto nessuna delle due cose ed ecco il risultato.
Hideyuki allungò una mano, riuscendo ad afferrare al volo Chiaki per un braccio e tirandola verso di sé; lo spirito sembrò avere riflessi troppo lenti, ritrovandosi ad avanzare ancora per qualche metro per poi fermarsi confuso, come se non avesse la minima idea di dove fosse improvvisamente sparita la sua preda.
In quel breve lasso di tempo, i tre si guardarono.
«Grazie.» pronunciò Chiaki, liberandosi con un gesto lento della presa di Hideyuki: «Posso farcela da sola.» aggiunse.
«Lo escludo.» replicò subito Hideyuki «Se c’è qualcuno che rischia più degli altri, sei tu che sei già stata posseduta, Chiaki.» chiarì, sentendo Haruki sbuffare.
«Stare con voi è veramente una rottura di palle. È per questo che non mi piace la gente che si immischia negli affari degli spiriti: poi succede questo.» sbottò, voltandosi nella direzione dello youkai, Shiki al suo fianco che non aveva mai perso di vista quella creatura che evidentemente gli causava un certo disgusto vista l’espressione che aveva.
«Pensavo che non volessi più avere a che fare con me.» commentò lei, gli occhi sul più giovane e lo sguardo indecifrabile; Hideyuki l’affiancò e guardò a sua volta Haruki: «Vedremo di non starti tra i piedi.» disse «Dopotutto hai detto che non ti serve aiuto, giusto?» lo riprese, riferendosi a quanto si erano detti mentre arrivavano lì.
Haruki gli rivolse un’occhiataccia, ma Shiki ne richiamò l’attenzione visto che lo youkai si stava lanciando contro di loro.
Hideyuki probabilmente non si aspettava di scatenare una cosa simile, rifiutandogli l’aiuto. O forse accadde perché a dispetto di quanto sembrasse innocuo, lo spirito era innegabilmente maligno e per questo tutto tranne che docile. La cosa si era resa evidente quasi subito, specialmente quando Haruki era rimasto ferito, sebbene di striscio, imprecando a mezza bocca. Ciò che ancora di più aveva lasciato basito Hideyuki – e, supponeva, anche Chiaki – era stato il fatto che Shiki fosse rimasto… fermo. Entrambi si erano erroneamente fatti l’idea che il demone fosse una sorta di guardia del corpo, ma a giudicare da come era rimasto e rimaneva ancora fermo, senza intervenire nonostante le evidenti difficoltà di Haruki, dovevano aver male interpretato il loro rapporto.
Ma non avevano ancora capito davvero. E questo fu invece chiaro quando Haruki finì per cozzare contro il muro, il respiro mozzato e del sangue che colava sia dalla tempia – doveva essersi ferito di striscio battendo la testa – che dal braccio precedentemente colpito. Hideyuki aveva lasciato Chiaki e si stava per muovere in avanti, quando Haruki gli sbraitò contro di rimanersene al suo posto.
«Non ho bisogno del tuo aiuto!» gridò infatti, allungando il braccio verso Shiki dopo aver tirato su la manica con l’altra mano; teneva gli occhi sullo youkai e Shiki guardava invece il ragazzo con una luce negli occhi che a Chiaki mise i brividi.
Capì poi perché. Lo comprese quando Haruki pronunciò qualcosa che lei non riuscì a comprendere e il marchio che aveva intravisto sul suo braccio la prima volta sembrò muoversi per qualche strano e inquietante gioco di luci. E quando Shiki incurvò le labbra in un sorriso ferino, posizionandosi alle spalle di Haruki, lei non riuscì a visualizzare subito cosa stesse per succedere; non finché il demone non affondò le fauci nella carne alla base del collo del ragazzo e non sentì quest’ultimo emettere un grugnito dolorante.
Allora e solo allora, tutto acquisì un significato: il marchio, la presenza di Shiki, l’avversione di Haruki per gli spiriti. Era schiavo di un contratto fatto per salvarsi, fatto per tenere lontane creature che non avrebbe mai saputo come combattere – che, senza Shiki, lo avrebbero consumato in ogni modo in cui era possibile consumare l’anima di un essere umano e il suo corpo.
Era il primo a ripudiare quella scelta, ma sapeva di averla compiuta autonomamente; lasciava che un demone si cibasse di lui, gli aveva promesso la sua anima quando sarebbe morto, e questo solo per una vista che non aveva mai desiderato avere.
Sentì le gambe cederle e si ritrovò a scivolare fino a ritrovarsi in ginocchio sull’asfalto, le mani che erano andate a coprire istintivamente le labbra e nascondere la prima, vera espressione che – Haruki lo pensò notandola per puro caso – si addiceva a tutto quello che loro tre potevano vedere: terrore.
«Finalmente.» mormorò, guardandola lì a terra, a niente più di una manciata di passi da lei. Quando Chiaki ne vide il sorriso rassegnato e lo sguardo vuoto, non seppe dire se fosse per quello che leggeva sul suo volto o per la consapevolezza che alle proprie spalle Shiki si cibava di uno spirito con una brutalità difficile da immaginare senza averla mai vissuta davvero.
Seppe solo che un conato la costrinse a voltarsi da un lato, riempiendole la bocca di un sapore orribile.
«Finalmente hai paura.»

 

 

 

 

Le mie indegne tempistiche non sono più un mistero per nessuno, ahimé.
Purtroppo rimarranno tali – troppo lavoro e una laurea che si avvicina, ma confidate che questa storia vedrà la parola fine.

La citazione in apertura è della canzone “The Everlasting Guilty Crown” degli Egoist (seconda opening dell’anime Guilty Crown).
Ci tengo a dire che Haruki è davvero una persona orribile. *ride*

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Capitolo 6
*** Nekomata ***


V
Nekomata

Painting a Tomorrow different from the past,
painting hope for just the two of us,
that’s the start line.
I never say goodbye… that’s how it always is.

 

Hide si accigliò a quelle parole da parte di Haruki, ma non disse nulla. Si preoccupò piuttosto di avvicinarsi a Chiaki e chinarsi su di lei, passandole una mano sulla schiena lentamente: «Chiaki» mormorò «ce la fai ad alzarti?» la incalzò, non reputando saggio rimanere lì in quel momento. Non aveva la minima idea di come combattesse Shiki quando si cibava di Haruki, e non aveva intenzione di scoprirlo finendo accidentalmente nel mezzo del combattimento – aveva però l’assoluta certezza che se lui o Chiaki si fossero trovati tra Shiki e lo youkai, il demone non si sarebbe fatto il minimo scrupolo ad attaccare ugualmente. D’altra parte era la sua stessa natura a renderglielo possibile, facile e non aveva con loro alcun contratto, il che significava avere ai suoi occhi la stessa importanza di un granello di polvere.
Sentì Chiaki tremare leggermente sotto la sua mano, mentre tossiva un paio di volte, l’odore acre e nauseante di ciò che aveva rimesso che gli fece storcere istintivamente il naso; la vide comunque annuire piano un paio di volte e strinse la presa su di lei per aiutarla a tirarsi su.
Aveva dato in parte le spalle tanto al demone quanto all’altro ragazzo, perciò non aveva idea di cosa stessero facendo. Quando si voltò insieme a Chiaki, tuttavia, ebbe modo di vederlo: Haruki aveva tra le mani una lama che ricordava più una sciabola che non una tradizionale katana, dalla lama rossa e l’elsa nera. Shiki sembrava sparito, ma la sensazione che aveva Hide era di una presenza concentrata e non era difficile ricondurla all’arma che Haruki stava brandendo in quel momento mentre si scagliava contro lo youkai. Hide lo osservò slanciarsi in avanti verso lo spirito e si preoccupò a stare pronto a tirare verso di sé Chiaki se ce ne fosse stato bisogno; la occhieggiò, quando Haruki colpì lo bersaglio scagliandolo qualche metro più in là e allontanandosi da loro. La ragazza aveva ancora il viso pallido, anche se il tremore leggero che Hide aveva avvertito poco prima sembrava scomparso.
«Chiaki» la richiamò con delicatezza «dobbiamo spostarci da qui.»
La vide sbattere un paio di volte le palpebre e poi scuotere leggermente la testa: «Haruki non…» iniziò, deglutendo e seguendo con lo sguardo il ragazzo più giovane. Non sembrava cavarsela male, ma lei aveva addosso una brutta sensazione che non riusciva a ignorare – non capiva però se fosse per lo youkai che Haruki stava affrontando o se fosse per Shiki e l’immagine di lui che si cibava del ragazzo.
Hide la osservò, incurvando le labbra in un sorriso lieve: «Rimango io con Haruki.» assicurò «Ma dovresti allontanarti, per—»
«Hideyuki-san!» esclamò Chiaki tirandogli una manica e indicando poco più in là: non solo Haruki stava impiegando più tempo del previsto a vedersela con quello spirito – per quanto gli sembrasse in vantaggio e con la situazione sotto controllo –, ma la zona si stava riempiendo di spiriti. E se anche a occhio Chiaki ne riconosceva diversi minori e innocui, non era certa che lo fossero tutti o che lo sarebbero rimasti una volta nella sfera d’influenza di uno così incattivito come quello con cui se la stava vedendo l’altro ragazzo.
«Questo è un problema.» mormorò Hide, accigliandosi e cercando di analizzare la situazione: quante possibilità c’erano che nessuno di quegli youkai si rivoltasse contro di loro? E se fosse successo, quanto sarebbero stati in grado di resistere? Non aveva idea di come funzionasse il contratto di Haruki e Shiki o quanto potesse durare senza effetti collaterali; Chiaki era scossa ed era poco probabile che avesse con sé l’occorrente per una varietà di spiriti come quella che si stava avvicinando. Quanto a lui non era sicuro che, se fossero aumentati o se avessero perso il controllo, sarebbe stato in grado di tenerli a bada.
«Chiaki, quanti ne riconosci?» domandò, senza distogliere lo sguardo dal punto in cui se ne stavano ammassando di più. La ragazza inspirò, soffermandosi di volta in volta sugli spiriti che vedeva: «Tutti.» decretò infine e Hide non poté non guardarla almeno per un attimo e lasciarsi sfuggire un sospiro tra le labbra. Si chiese fin dove arrivasse la conoscenza di Chiaki, fino a che punto avesse memorizzato gli appunti di suo padre.
«Ce ne sono di livello alto?»
«Nessuno superiore a Shiki-san.» confermò lei «Anche se ho una brutta sensazione da prima. Non so a causa di chi o cosa, però.» ammise, stringendosi appena nelle spalle. Hide annuì, cercando con lo sguardo Haruki proprio quando l’altro cozzava contro il muro che delimitava la strada sul lato sinistro. Lo sentì tossire e poi imprecare a mezza bocca; si assicurò di avere la presa salda sul polso di Chiaki e la tirò con sé verso Haruki che si stava rialzando.
«Non mi serve il tuo aiuto.» gli ringhiò contro, il marchio sul braccio che teneva la sciabola fattosi brillante in maniera inquietante. A una seconda occhiata più attenta, Hide notò che il punto dove era stato morso stava iniziando a sanguinare in maniera preoccupante.
«Sei ferito.» ribatté come per farglielo notare, sottintendendo che l’aiuto gli serviva ancora: «Non serve essere testardi—»
«Sono sempre ferito!» sbottò Haruki, in ginocchio, il respiro affannato: «Combatto sempre da solo, e sanguino ogni volta perché è così che funziona, il sangue in cambio del potere di liberarmi di questo schifo! Quindi risparmiami la buona azione quotidiana, va bene?»
Hide lo guardò, e Chiaki fu sorpresa dall’occhiata gelida che gli lanciò; lui non replicò tuttavia, rivolgendosi a lei: «Hai con te qualcosa per rallentarli?»
«Sì, ho dei talismani generici.» pronunciò pronta «Ma se dovessero aumentare potrebbero non fermarli tutti e non a lungo. Non ci possono proteggere completamente, quindi se dovessero attaccare dall’alto non potrei fermarli.» spiegò con parole più semplici possibile.
«Basterà.» decretò Hide «Hai il tempo dei talismani di Chiaki per abbattere quello youkai.» comunicò all’altro mentre la protezione della ragazza fermava gli spiriti che stavano avanzando verso di loro. Vide alcune delle creature confuse, e diede le spalle a Chiaki: «Se vedi la barriera cedere, avvisami.» disse, Haruki che ringhiando si scagliava in avanti contro lo youkai, la sciabola che andò a conficcarsi nel corpo informe di fronte a lui. Un rantolo inumano lasciò quella che doveva essere la bocca della creatura, la voce di Shiki che riecheggiò dalla spada: non stare troppo a contatto con lui!
Haruki arretrò di scatto, tirando via la lama, e l’essere prese ad agitarsi ancora di più, i lamenti capaci di far gelare il sangue a riempire l’aria; a Hide sembrava quasi di veder deambulare un ubriaco, non fosse stato per la forma tutt’altro che umana. Un brusio agitato gli arrivò alle orecchie – voltandosi per un attimo in direzione degli altri un brusio agitato gli arrivò alle orecchie e vide gli altri youkai lasciati oltre la barriera di Chiaki diminuire, alcuni forse troppo deboli persino per vedere oltre il muro invisibile creato dai talismani e altri magari intimiditi da quel suono sgradevole.
«Hideyuki-san.» chiamò la ragazza e Hide annuì, muovendosi per porsi tra lei e i pochi spiriti rimasti. I talismani persero di efficacia, scivolando a terra fluttuando piano; dopo un primo momento di sorpresa, le creature presero ad avanzare e Hideyuki sospirò piano, ritrovando la calma completa che lo aveva sempre caratterizzato anche camminando tra quelle figure che non avrebbe dovuto essere in grado di vedere. Gli occhi fermi su di loro, pronunciò poche parole con tono pacato, quasi sommesso.
Chiaki si sorprese nel vederli eseguire, come guardie di fronte al proprio sovrano e sebbene non fosse la prima volta che lo vedeva utilizzare il kotodama e sapesse perfettamente di cosa si trattasse, non riuscì a rimanere impassibile. Era un potere incredibile che, per quanto studiasse, non riusciva a comprendere fino in fondo come funzionasse o come potesse esistere qualcosa di così sovrannaturale tra le mani di una creatura semplice, effimera e debole come un essere umano.
Un rantolio alle sue spalle la fece voltare, inquadrando Haruki con un ginocchio a terra e la sua schiena alzarsi e abbassarsi anche troppo velocemente: «Al diavolo, ma quando muore?!» lo sentì dire, la mano che teneva la sciabola che tremava visibilmente. Fu del tutto istintivo per lei muoversi e mettersi tra lui e quello youkai, un fuda di fronte a sé che aderì al corpo dello spirito: un ululato fu l’ultimo suono emesso dalla creatura, prima di un tonfo a terra e un corpo esanime che andò scomparendo lentamente fino a lasciare solo il fuda a terra, annerito come se fosse stato bruciato.
«Hideyuki-san!» esclamò voltandosi e vedendo l’altro rimanere immobile per qualche attimo a guardare di fronte a sé – nessuno spirito era rimasto e Chiaki tirò un sospiro di sollievo; il ragazzo si voltò in loro direzione in tempo per notare Haruki che faceva lo stesso e li guardava come se lo avessero appena minacciato: «Non c’era bisogno che vi metteste in mezzo.» sibilò, la spada che si stava ritirando, passandogli su per il braccio. Era un processo singolare da osservare, come se la lama si fosse sciolta e risalisse strisciando lungo la pelle fino alla ferita lasciata dai denti di Shiki. Il demone riapparve alle spalle di Haruki – se avesse mutato forma divenendo la spada stessa o se fosse stato solo il suo potere a stare nell’arma questo Hide non avrebbe saputo dirlo – e occhieggiò il segno dei denti visibile sul collo del giovane; sorrise, e si chinò in avanti passando la lingua sulla pelle offesa.
Haruki si ritrasse immediatamente: «Lasciami perdere!» lo sentì sbottare «Perché in questo gruppo nessuno sa farsi i fatti propri.» aggiunse in un borbottio seccato. Chiaki non si sarebbe mai aspettata di vedere Hideyuki marciare verso Haruki e dargli un pugno senza alcun preavviso. Era chiaro che nemmeno il più giovane se l’era aspettato, visto che finì a terra dopo aver perso il precario equilibrio che aveva mantenuto nel ritrarsi di scatto da Shiki; Chiaki lo vide sgranare gli occhi sorpreso per poi assumere un’espressione arrabbiata: «Che cavolo ti salta in mente?!» esplose, una mano portata alla guancia colpita.
Hideyuki si avvicinò ancora, coprendo i pochi passi di distanza che c’erano fra loro, e lo guardò dall’alto senza porsi come suo pari; nei giorni dal loro primo incontro, con l’altro non si era mai comportato come se fosse superiore a uno dei due, e forse anche quello confuse Haruki: «Non conosco le tue ragioni.» pronunciò Hide guardandolo, gli occhi pieni di una serietà distante, fredda «E non ti chiederò di spiegarmele. Non mi interessano, e non mi interessa neanche sapere perché non ti piacciamo o perché vuoi combattere da solo. Forse sei solo orgoglioso» proseguì «ma da quando vedo, non ho mai avuto problemi con gli spiriti. Non sono mai stato nemmeno ferito. Non ho intenzione di farmi uccidere o perseguitare solo perché tu sei ossessionato all’idea di combattere da solo o di non volere l’aiuto degli altri.» lo sgridò, severo.
«Non so se a ucciderti sarà il tuo contratto con un demone o uno youkai, ma ti proibisco di mettermi in mezzo. La prossima volta se non vuoi aiuto fai da esca, attira gli spiriti da un’altra parte e combatti le tue battaglie come preferisci.» aggiunse, voltandosi con tutta l’intenzione di andare via, soffermandosi solo quando fu accanto a Chiaki e guardandola per qualche momento, in una tacita domanda. Lei annuì incerta, ma Hide si voltò comunque verso Haruki: «Impara a ringraziare, anche quando l’aiuto che ti viene dato non era richiesto.» disse, muovendosi nella direzione opposta a quella in cui si trovava il più giovane.
Con un ultimo sguardo incerto verso Haruki, ancora a terra, Chiaki fece lo stesso.


Nell’aprire la porta dell’appartamento due giorni dopo, Hide non si sorprese troppo di ritrovarsi davanti Chiaki; l’unica differenza rispetto alle visite da quando avevano visto l’ultima volta Haruki era l’abbigliamento della ragazza. Era andata a trovarlo sempre dopo l’orario scolastico, per cui l’aveva sempre vista in divisa scolastica; aveva creduto che di sabato non sarebbe passata, e invece eccola lì in borghese con una borsa abbastanza capiente che – provò a indovinare – doveva contenere dei documenti o un libro che di sicuro Hide avrebbe faticato a comprendere e che di certo per lei doveva essere stato una lettura quasi “leggera”. Incurvò le labbra in un sorriso, facendo spazio per lasciarla entrare. Era diventato un fare curiosamente abituale, a modo suo; di sicuro continuando così Chiaki sarebbe entrata nel suo appartamento più di qualsiasi altra ragazza – non che Hide ne frequentasse molte, men che meno in quel senso – e dei membri della sua band.
«Ti ho già detto che non sei tenuta a passare tutti i giorni, vero?» chiese, una sfumatura divertita nel tono di voce, vedendola rimanere in attesa all’ingresso. Nonostante le avesse detto spesso che poteva accomodarsi una volta entrata, Chiaki non lo faceva mai se non era preceduta da lui verso una qualsiasi area del piccolo appartamento. Lei lo guardò, senza un’espressione particolare in viso, per poi pronunciare un: «Ti ho disturbato?»
Hide sospirò, scuotendo la testa e spostandosi per primo verso la stanza più grande dove l’aveva accolta anche la prima volta: «Non è affatto un disturbo, figurati. Anche se non vorrei che ti creasse problemi venire qui di continuo.» ammise, facendole cenno di accomodarsi. La osservò sedersi, recuperando un secondo cuscinetto per poi sistemarsi dal lato del tavolinetto basso alla sinistra della ragazza.
«Come va il marchio, Hideyuki-san?» chiese lei senza girarci intorno. Erano due giorni che Chiaki andava lì per controllare il marchio apparso dopo quella specie di scontro avuto con gli youkai, rifiutandosi categoricamente di sottovalutare la cosa. Sebbene Hide le avesse assicurato di non essere particolarmente preoccupato dalla cosa, lei aveva insistito. La osservò mentre estraeva dalla borsa un piccolo plico di fogli, dai quali notò delle linguette colorate che uscivano fuori in un paio di punti; doveva aver cercato informazioni e appuntato le pagine.
«Come ieri. Non ci sono stati cambiamenti, non è successo niente e nessuno spirito mi ha fatto visita nel cuore della notte.» la rassicurò, occhieggiando i fogli poggiati ora sul tavolino e ritrovandosi poi con gli occhi di Chiaki puntati addosso. Sospirò lentamente, portando una mano al bordo della propria maglia e tirandolo su da un lato, estraendo il braccio dalla manica perché lei potesse osservare la spalla – e il marchio apparso di recente. Chiaki si mosse per sistemarsi più vicina e sfogliò poi il plico in corrispondenza della linguetta azzurra; alternò lo sguardo dalla spalla alla figura stampata su carta un paio di volte e poi riprese a girare le pagine per aprire il punto contrassegnato dal segno verde.
«Sei strana, Chiaki.» pronunciò Hide a un certo punto, senza cambiare posizione. Lei non portò lo sguardo su di lui, ma diede voce a un piccolo «Mh?» per dar segno di stare ascoltando: «Vieni qui da me da sola, a parte la volta in cui sei passata con Haruki, e negli ultimi giorni sei sempre qui e sembra che non ti importi troppo di stare entrando nell’appartamento di un ragazzo o delle cose che potrebbero dire se ti vedesse qualcuno che ti conosce. Credo di aver capito che non ti interessa troppo» ammise «perché altrimenti non mi avresti chiesto di togliere la maglia come se niente fosse, l’altro giorno. Anche se è per il marchio, ovviamente.» concluse senza malizia, anche se già il discorso in sé probabilmente ne aveva fin troppa.
«Mi sento un po’ a disagio.» la sentì ammettere, e non se l’era aspettato «Ma non perché sei… in ogni caso non ti ho chiesto di spogliarti. Solo di scoprire il marchio.» borbottò piano nel primo, vero accenno di imbarazzo che Hideyuki le avesse mai scorto in viso. Ridacchiò, senza neanche provare a nasconderlo: «Scusa, Chiaki, non volevo metterti in imbarazzo.» la prese bonariamente in giro, allungando una mano per sfiorarle il capo gentilmente. La sentì irrigidirsi, inizialmente, ma rilassarsi piano con un sospiro che lei doveva essere certa di stare nascondendo al meglio.
«Eccolo.» la sentì dire «Non ne ero sicura a casa, ma ora che ho davanti entrambi i marchi sono identici.» pronunciò e Hide suppose di poter infilare di nuovo la manica della maglietta; si accostò un poco per poter guardare anche lui gli appunti della ragazza: «Buone notizie?» la incalzò, ritrovandosi in risposta un annuire leggero ma deciso.
«Si tratta di un marchio di “tracciamento”. Non è proprio come quelli di localizzazione, quelli che alcuni youkai utilizzano per segnare le proprie vittime e essere sempre in grado di ritrovarle. È qualcosa a metà tra una localizzazione e un marchio di protezione. Da quanto leggo non ha grossi effetti se non segnalare agli altri spiriti che sei… sotto l’occhio di qualcuno. Una specie di atto di proprietà, forse.» concluse, spostando lo sguardo dalle pagine a lui «Scusami se non posso essere più precisa. Sono vecchi appunti e sono incompleti, quindi non posso sbilanciarmi più di così.»
«Non preoccuparti, hai già fatto più di quanto avrei potuto fare da solo. Sei davvero una specie di enciclopedia vivente, eh?» disse, alzandosi per dirigersi in cucina senza dire altro e riapparendo poco dopo con due lattine che andò a posare sul tavolino. Una delle due era tè verde, l’altra latte alla fragola: «Preferenze?» la interrogò, vedendola optare per la prima. Ridacchiò nuovamente, aprendo la restante.
Tacquero entrambi, bevendo in silenzio per diversi minuti. A Hide non pesava granché, abituato ad adattarsi al modo di fare altrui non perché timoroso di risultare sgradito ma perché – così dicevano le persone che lo conoscevano, almeno – portato per natura a mettere gli altri a proprio agio.
«A essere sincero» riprese guardando la lattina poggiata sulla superficie in legno «all’inizio mi ha stupito che tu sia rimasta in compagnia mia e di Haruki. Specie quando ho capito che sei a disagio con le persone.» disse, forse suonando indelicato, ma preferendo essere diretto. Chiaki non sembrava stupita di essere stata smascherata, né colpita dalle parole di Hideyuki.
«Posso chiederti come mai?» aggiunse, e per qualche strano motivo vide la ragazza posare gli occhi su di lui, un velo di sorpresa nel suo sguardo. Sembrava intenta a studiarlo, a carpire un significato più profondo di quello semplice e immediato che le parole di Hide implicavano; probabilmente non riuscì a trovarlo da sola, perché aggrottò appena le sopracciglia dando voce a un dubbioso: «Perché vuoi saperlo?»
Non è che Hideyuki non capisse il motivo di quella sorta di ritrosia: avevano saputo troppo gli uni degli altri in troppo poco tempo e quasi sempre senza avere il reale intento di rivelarsi, di mostrare segreti che in nessun’altra occasione avrebbero mai rivelato. Eppure in nessuna occasione qualcuno di loro aveva fatto domande agli altri, dando la possibilità di tenere qualcosa per sé; forse era quello a scombussolare Chiaki, a far sembrare così strano il suo interessamento: non la metteva alle strette ma le lasciava decidere se confidare qualcosa e quando fermarsi.
«Io e Haruki abbiamo visto qualcosa di te che non volevi mostrarci. Ti ho già detto che non posso fare nulla per farmi perdonare per quello, non importa quanto io pensi che non ci fosse scelta o tu sia convinta che avresti preferito altre alternative a quello che è successo.» iniziò quello che aveva l’aria di essere un discorso lungo, voltandosi con tutto il corpo verso di lei e non solo con la testa per guardarla: «Però ormai è accaduto, e conosco qualcosa di te. E ammetto che una domanda mi ronza in testa da quando ho visto la tua coscienza.» aggiunse, concedendosi qualche istante per studiare la sua espressione, per cogliere eventuali segni da parte di lei di non volere che continuasse. Non ve ne furono: «Tu non odi le persone.» pronunciò, e non era una domanda «Sei arrivata persino a importi un marchio che ti permettesse di vedere e non c’è niente di divertente in questo. Lo hai fatto per dimostrare che tuo padre non mentiva, che c’era davvero qualcosa anche se lui non riusciva a vederla concretamente e gli altri ne dubitavano. Certo, non mi permetto di mettere chiunque sullo stesso piano di tuo padre» chiarì prima di essere frainteso: «Ma fai attenzione a non causare problemi alla zia che ti ha presa con te. Ti sei presa cura di me aiutandomi con lo spirito che era qui in casa, e ora con il marchio. Non hai esitato a spalleggiare Haruki, anche se lui non ha capito che era ciò che stavamo facendo.» si corresse con un mezzo sorriso che Chiaki non riuscì a decifrare. Hideyuki prese un sorso della sua bevanda, forse per dare l’idea di non stare accusando nessuno o di non voler chiedere qualcosa a bruciapelo; non fu comunque in grado di trovare un modo pacato di esporre la sua domanda.
«Una persona che odia gli altri non penserebbe nemmeno, di aiutarli. Quindi mi chiedo, c’è un motivo per cui cerchi di stare lontana dagli esseri umani?» concluse, osservandola. Chiaki non sembrava stupita dalla domanda di per sé, ma confusa sì: per lei sembrava essere più difficile capire perché Hide si interessasse tanto a una questione che a conti fatti non lo riguardava, piuttosto che comprendere la domanda o cosa avesse scatenato in lui pensieri tali da fargli avanzare ipotesi tanto precise. Per questo impiegò diverso tempo a rispondere, al punto che Hideyuki pensò di aver fatto una domanda così indiscreta da non meritare nessun tipo di replica, fosse stata anche solo dirgli che non erano affari suoi.
Stava per alzarsi con la scusa di buttare la propria lattina ormai vuota, quando la voce di Chiaki lo fermò lì dov’era, in procinto di mettersi in piedi: «Io non odio le persone.» fu la prima cosa che disse, confermando ciò che lo stesso Hideyuki aveva detto in effetti. Lui tornò seduto, la lattina abbandonata sul tavolo e il busto di nuovo completamente girato verso di lei, addosso la sensazione di stare ascoltando qualcosa di importante che forse poche altre persone avevano avuto modo di udire.
«Non hai torto quando dici che mi sento a disagio con loro, ma… anche io sono un essere umano.» replicò, alzando finalmente lo sguardo su di lui e puntandolo in quello altrui. Non era la prima volta che notava quanto particolari fossero gli occhi di Hideyuki, almeno per essere un giapponese: erano chiari, di un grigio che non somigliava né al cielo carico di pioggia, né a quello quasi sporco che preannunciava la neve in inverno. Dal momento che non sapeva niente di lui, aveva solo potuto supporre che quel colore potesse essere dovuto a qualche parentela occidentale nella famiglia del più grande; neanche a dirlo, non aveva fatto domande.
«Gli youkai» riprese poi, stupendo sia Hide che se stessa «sono spiriti, per la maggior parte. Alcuni dicono si tratti di mostri, altri di demoni… anche se la definizione precisa esiste, al di là delle credenze popolari, io non ho mai fatto troppa attenzione a come gli altri li chiamassero. Perché l’unico tratto che mi interessava davvero di loro, non cambiava a seconda che fossero l’una o l’altra cosa.» ammise, abbassando gli occhi sulla lattina mezza piena, ancora tra le sue mani. Hideyuki avrebbe voluto chiederle di essere più chiara, ma non lo fece, abbastanza sicuro che la spiegazione sarebbe arrivata.
«Sono comunque immortali. O almeno, hanno una vita così lunga che a noi non basterebbero generazioni per vederli scomparire.» sembrò concludere così, come se tutto il resto fosse ovvio, scontato al punto da non aver bisogno di aggiunte di alcun tipo. Hide sbatté per un paio di volte le palpebre, e per assurdo sentì di capire – se non avesse visto la coscienza di Chiaki probabilmente non avrebbe mai compreso, ma era quello il punto: l’aveva vista. Aveva visto una bambina prendere atto del fatto che suo padre non sarebbe più tornato, che per sua madre lei non era una ragione sufficiente per non lasciarsi sconfiggere dal dolore. L’aveva vista venire accudita da una zia che per quanto amorevole non avrebbe mai potuto sostituire dei genitori. Aveva visto un’adolescente poco più piccola di lui entrare in un mondo da cui tutti quelli che c’erano dentro volevano scappare, farlo nonostante le creature spaventose che a volte lo abitavano; imporsi un marchio che le avrebbe impedito di fuggire anche se lo avesse voluto, e nonostante tutto rimanere. Dimostrare. Ed era rimasta sola, circondata da creature troppo diverse da lei per poter sostituire una famiglia perduta e al tempo stesso unica testimonianza che quella famiglia c’era stata davvero, che era crollata su se stessa, ma non per delle fantasie.
«Gli esseri umani sono fragili.» la sentì mormorare «Non riesco a… stargli vicino come prima. Ho paura che scompaiano tutti prima di me.»
Hideyuki avrebbe voluto dirle che non era così, che le persone prima o poi se ne andavano ed era vero, ma non lo facevano con la frequenza che sembrava spaventarla tanto da indurla a mantenere un distacco – involontario, iniziava a sospettarlo – come quello di Chiaki. Avrebbe voluto rassicurarla, perché nel tempo aveva potuto vantare la capacità di inquadrare gli altri facilmente, e qualcosa gli diceva che senza quella paura Chiaki sarebbe stata il tipo di ragazza capace di piacere a tutti o di prendersi cura del prossimo senza difficoltà. La vedeva fragile, più che mai in quel momento, e sentiva quasi il bisogno di fare qualcosa perché lei capisse di non aver alcun bisogno di chiudersi fuori dalla sfera dei rapporti umani.
Eppure, cosa mai avrebbe potuto dirle? Il suo passato non era di certo una smentita, anzi; poteva condividerlo, sì, ma con il rischio di ottenere l’effetto contrario.
«C’è una parte del mio passato, i primi… dodici anni della mia vita, che non ricordo per nulla.» esordì così, un mezzo sorriso sulle labbra e gli occhi chiari su Chiaki. Se l’era aspettato, di vederla ricambiare lo sguardo, ma per qualche momento tacque lo stesso. Non si trattava di essere presi alla sprovvista, quanto dello stupirsi di come una persona che tanto faticava a instaurare rapporti con gli altri riuscisse poi ad affrontare una confessione intima con una tale sincerità; chiunque altro si sarebbe sentito a disagio al suo posto – lo stesso Hideyuki, se lei avesse raccontato il suo passato anziché ritrovarsi costretta a condividerlo nel modo peggiore, non avrebbe saputo di preciso come comportarsi – e invece lei lo guardava, quasi a suggerirgli di avere la sua completa attenzione.
Hide sospirò impercettibilmente: «Il primo ricordo che ho è in ospedale, seduto in un letto e con il medico che mi faceva delle domande. Non avevo idea di dove mi trovassi, né di chi fossi. Ero illeso, ma mi avevano trovato privo di conoscenza.» iniziò a spiegare, il tono di chi conosce già il finale della storia e non riesce ad appassionarsi al racconto «Anche se dagli accertamenti uscì fuori che non avevo subito danni di alcun tipo al cervello, l’amnesia non è mai passata e io non ho mai ricordato cosa ci fosse prima dell’ospedale. Ho passato un periodo senza famiglia, perché nessuno è mai venuto a prendermi né all’ospedale, né dopo. Era come se non esistesse nessuno per me: genitori, fratelli, lontani parenti. Niente. Il nulla completo e creature sovrannaturali che vedevo soltanto io.» ammise, con un mezzo sorriso, più amaro che non divertito. Chiaki non diceva nulla, né dava cenno di pensare qualcosa di preciso: lo guardava e basta, senza interromperlo.
«Il nome “Hideyuki” mi è stato dato dall’infermiera che si è presa cura di me fino a quando non sono stato dimesso. Non mi importava troppo del modo in cui venivo chiamato… alla fine suonava tutto estraneo, quindi uno valeva l’altro. Il cognome l’ho preso ovviamente dalla famiglia adottiva.» chiarì, benché fosse sicuro che non servisse davvero «Ho capito presto che quello che vedevo non era niente di normale, né qualcosa che chiunque era in grado di notare. Anzi. All’inizio ero convinto che fosse non proprio all’ordine del giorno, ma abbastanza frequente. Poi andando a scuola ho capito che non era affatto così. In quel momento ho pensato per la prima volta di essere davvero solo: io e gli esseri con cui non dovevo parlare per non sembrare pazzo.» confidò, senza mutare espressione. Osservandolo, Chiaki non credeva che la cosa fosse dovuta a un disinteresse nei confronti delle proprie vicissitudini, ma all’aver preso coscienza di qualcosa e averlo fatto troppo presto. Hideyuki aveva dodici anni quando capì di essere diverso, la stessa età in cui lei si avvicinava alle ricerche di suo padre, ancora perfettamente parte di ciò che l’altro faceva rientrare nella parola “normalità” e ne era uscita forzatamente. Si chiese se anche Hideyuki, come Haruki, la biasimasse per aver gettato al vento una fortuna che a loro non era mai appartenuta.
«Li ignoravo, nella maggior parte delle occasioni, specialmente quando ero in compagnia di qualcuno. Ma c’erano volte in cui mi sentivo completamente fuori dal gruppo, e non perché in classe mi escludessero o qualcosa del genere. Anche se non so come spiegartelo, immagino che la conosca anche tu, quella sensazione di essere dove non dovresti, vero?» chiese, ma si limitò ad accarezzare la figura di lei con lo sguardo, senza aspettarsi davvero una risposta: «Così in quelle occasioni andavo dove nessuno poteva vedermi – prima non abitavamo qui, non è qui che ho frequentato la scuola. Era più in campagna, non è difficile trovare un posto per stare soli – e qualche volta vedevo gli youkai se mi sembravano abbastanza innocui, parlavo con loro. Le prime volte mi sedevo vicino agli spiriti fingendo che fosse casuale, come se non riuscissi a vederli, perché era quello che facevano le altre persone.» si fermò, in cerca delle parole adatte per proseguire. Non doveva fare grossi sforzi di memoria per organizzare quel che voleva raccontarle e soprattutto dove aveva intenzione di andare a parare, né provava difficoltà nel condividere il suo passato con lei. In un certo senso, però, aveva la sensazione di dover scegliere le parole con cura.
«Sai meglio di me che non ci sono solo youkai benevoli. Non ti saprei dire se mi avessero adocchiato perché fiutavano il potere di cui nemmeno io ero ancora cosciente, o se fossi per loro solo un umano come gli altri. D’altra parte, a differenza tua Chiaki, io non avevo mai studiato niente su di loro né avevo mai pensato di farlo visto che cercavo di tenermene alla larga il più possibile. Così alla fine tentarono di aggredirmi, perché è nella natura di alcuni di loro.» sembrò quasi volerli giustificare, con uno sbuffo divertito «E in quell’occasione ho scoperto che potevo controllarli. Certo, all’inizio non funzionava sempre e non riuscivo ad allontanarli tutti, ma con il tempo ce l’ho fatta e intanto ho continuato a tenermene alla larga se non era strettamente necessario interagire con loro. Questa forse è l’unica cosa che tu non puoi capire.» ammise, guardandola direttamente negli occhi.
«Hideyuki-san, credo che vi siate fatti un’idea sbagliata.» disse, e Hideyuki capì che in quel plurale era incluso anche Haruki: «Non vado alla ricerca di youkai con cui stringere amicizia per sopperire a una mancanza d’affetto o di presenze nella mia via vita. Non mi sono imposta di vedere al solo scopo di farmi degli amici tra le creature sovrannaturali. Li vedo, e se posso dare una mano lo faccio, ma nulla di più. Solo perché sono più incline alla loro compagnia che a quella delle persone non significa che imponga la mia presenza o che la loro sia un bisogno viscerale nella mia vita.» volle chiarire, rimanendo confusa dallo scuotere la testa di Hideyuki.
«Non era questo che intendevo.» riprese lui «Ma al tempo stesso è proprio questo che ti rende diversa da me e Haruki. Tu vuoi aiutarli. Per noi gli spiriti sono sempre stati soltanto il monito di una diversità che crediamo ci abbia rovinati.» spiegò più chiaramente possibile.
«…rovinati?» chiese la ragazza con cautela, un accenno di confusione ancora perfettamente visibile nel suo sguardo.
«Chiaki» pronunciò il suo nome con la stessa pacatezza che le aveva rivolto dal primo saluto, e lei vide che il sorriso era ancora lì, invariato; le parlava con gentilezza, quasi temesse di non poterle dedicare altro che quella «tu hai avuto una famiglia. Tuo padre era solo, a causa delle percezioni che aveva, ed erano molto più vaghe del vedere gli spiriti. Cosa credi farebbero i genitori di un figlio che ripete in continuazione di parlare con creature invisibili, perché è troppo piccolo per sapere di doverlo tenere per sé?» la incalzò: «Haruki ti ha mai parlato della sua famiglia? Ha mai nominato i genitori?»
Chiaki tacque, e non perché non avesse compreso cosa intendesse Hideyuki; al contrario, la consapevolezza che lui voleva farle acquisire serpeggiava nella sua testa come un sussurro tra le mura di una casa dove si vuole mantenere a tutti i costi un segreto che, però, non si è in grado di tacere oltre. Scosse la testa, piano, e Hideyuki seppe che aveva capito.
«Ma non ti sto raccontando questo per rafforzare la tua idea sulle persone che se ne vanno.» riprese: «Al contrario. Perché prima di trasferirmi qui a Tokyo, ho scoperto che a volte le persone rimangono.» assicurò «Certo, con il tempo si può morire. E gli incidenti capitano, e ciò che è accaduto a tuo padre e tua madre è terribile. Il modo in cui siamo rimasti soli è diverso, ma tua zia ti vuole bene. I miei genitori adottivi sono rimasti anche quando li hanno chiamati dalla mia scuola, dicendo che sostenevo di vedere cose che non esistevano: avrebbero potuto allontanarmi anche loro, e lasciarmi solo, ma non lo hanno fatto. E forse c’è qualcuno così anche per Haruki.» concluse, o almeno Chiaki ebbe quell’impressione. Attese, prima di dire qualsiasi cosa: capiva ciò che Hideyuki aveva voluto farle sapere condividendo il suo passato con lei – forse, in un certo qual modo, era anche il suo modo per farsi perdonare di aver ficcanasato in quello della ragazza stessa –, ma non era sicura di poter avere da un momento all’altro la stessa fiducia che sembrava animare Hideyuki.
«Chiaki» la chiamò di nuovo e, alzando gli occhi su di lui, fu sorpresa di sentire una mano sfiorarle la guancia in una carezza incerta ma gentile; il sorriso che Hideyuki le stava rivolgendo la fece sentire più in imbarazzo che a disagio «le persone potrebbero sparire prima di te, io questo non lo posso cambiare e non posso dire che non accadrà mai più, perché non ci credo nemmeno io.» ammise sincero: «Ma a volte rimangono. A volte per le persone scelgono di restare con noi. A questo puoi credere.»


Per un’intera settimana Chiaki aveva mantenuto invariata la sua routine: dopo la scuola andava a casa di Hideyuki per controllare che il marchio non fosse mutato o avesse causato qualche effetto collaterale, dopodiché se ne andava così com’era venuta. Dopo la volta in cui si era fermata a parlare con lui, non si era più trattenuta così a lungo; non c’era un motivo preciso, anzi: semplicemente la rarità era stata quell’occasione specifica e lei era tornata alla propria “normalità” – non che avesse motivo di trattenersi in casa dell’altro, comunque. Voltando l’angolo, l’appartamento di Hideyuki ora nel suo campo visivo, non si era aspettata di ritrovarsi davanti Haruki; il ragazzo stava poggiato contro il muretto e la fissò non appena lei si fermò d’istinto nel vederlo: le mani in tasca e l’aria seccata, lo vide scostarsi dal proprio appoggio e fissarla per qualche attimo, incerto su cosa dire forse.
Fu la voce di Shiki a rompere il silenzio: «Hai intenzione di stare fermo ancora per molto a fare il timido?»
«Non cominciare.» tagliò corto il ragazzo, senza guardarlo e voltandosi verso l’appartamento di Hideyuki, facendole un cenno con la testa «Andiamo, non ho intenzione di tenere questo coso con me ancora per molto.» borbottò e solo in quel momento Chiaki notò che l’altro non si era chinato a prendere una borsa come aveva pensato nel vederlo scostarsi dal muretto, ma un trasportino per animali. Al suo interno riuscì a intravedere un felino, ma ciò che attirò la sua attenzione fu un sigillo applicato su parte della rete.
Aggrottò le sopracciglia, riconoscendolo: «Quello…»
«Dubito che scappi via, ma nel caso non ho voglia di corrergli dietro. Ci ho già messo un sacco a trovarlo.» spiegò alla meno peggio. Chiaki decise di seguirlo, visto che sarebbe stato assurdo non farlo dovendo andare nella stessa direzione; lo aveva visto per pochi attimi, ma suppose di poter limitare la natura dello youkai all’interno del trasportino a due, tre possibilità al massimo. Non chiese di quale si trattasse, tuttavia, preferendo dare priorità ad altro: «Perché lo stai portando con te?»
«Perché sta morendo.» replicò senza troppi giri di parole. Lei non disse nulla, lasciando che il silenzio si formasse di nuovo fra loro – differentemente da quando era con Hideyuki, con Haruki non riusciva mai a scambiare più di qualche frase e le uniche volte in cui era successo si trattava sempre di situazioni che avrebbe voluto evitare se avesse potuto. Quale fosse il nesso per cui Haruki trovava sensato portare con sé uno youkai destinato a sparire di lì a poco, non lo comprendeva. Era certa che se avesse chiesto maggiori spiegazioni, difficilmente le sarebbero state date.
Shiki, al fianco di Haruki, le rivolse un’occhiata sorridendo beffardo, scostandosi dal ragazzo e rallentando il suo levitare – a ben pensarci, non lo aveva mai visto camminare – fino ad affiancarla; Chiaki abbassò lo sguardo.
«Ti ha fatto così tanta paura, vedere la natura del mio contratto con Haruki?» le sussurrò vicino, troppo per non rabbrividire. Le aveva fatto paura? Sì. Perché per la prima volta aveva avuto conferma che Shiki non era la guardia del corpo di Haruki come poteva sembrare a un primo sguardo. Il demone era come un avvoltoio pronto a cibarsi di una carcassa: stava solo aspettando il momento giusto, quello in cui sarebbe stato possibile gustarla indisturbato. E vedere Haruki che, di sicuro cosciente della cosa, si affidava comunque a un potere con prezzo così alto da pagare le aveva fatto paura: come si arrivasse a tanto, cosa spingesse un ragazzo così giovane a offrirsi volontariamente in ogni modo possibile come Haruki faceva con Shiki, era qualcosa che lei non riusciva a comprendere o immaginare. Era per questo che l’altro si era così arrabbiato di fronte alla rinuncia che lei aveva fatto marchiandosi?
«Oppure ti ha—»
«Shiki.» sentì pronunciare al ragazzo, ritrovandolo fermo a pochi passi da lei, lo sguardo eloquente: c’era un tacito ordine nel suo tono di voce, e sebbene Chiaki non avesse mai visto l’altro imporre qualcosa seriamente al demone – né quest’ultimo lasciarglielo fare – lo sentì far schioccare la lingua contro il palato con stizza, prima di tornare al fianco dell’altro senza più degnarla di uno sguardo.
Sospirò, continuando a seguirli, fino a varcare l’ormai famigliare soglia del condominio, salendo le scale e raggiungendo l’appartamento di Hideyuki; fu Haruki a bussare un paio di volte e Chiaki riconobbe sul viso di Hideyuki la stessa sorpresa che aveva provato lei di fronte al ragazzo. Forse anche lui era conscio di quanto inaspettata dovesse essere la sua visita, perché s’imbronciò un poco, borbottando un: «Ti ho portato una cosa, possiamo entrare?»
Hideyuki annuì, scostandosi di lato per fargli spazio; richiuse la porta quando furono tutti e tre nell’ingresso, muovendosi per primo verso la stanza dove li aveva già ospitati altre volte. Si sedette dopo aver disposto dei cuscini anche per loro, e attese. Haruki parve intenzionato a non tirarla troppo per le lunghe: posizionò il trasportino tra sé e l’altro, rimuovendo il sigillo e aprendo in modo che il felino al suo interno potesse uscire. Chiaki lo trovò strano, perché nessuno abituato ad avere a che fare con gli youkai ne avrebbe mai liberato uno dentro casa, nemmeno il più innocuo e soprattutto non Haruki. Ma lui sembrava perfettamente conscio di cosa stesse facendo: lo vide allungare entrambe le mani e tirare fuori lui stesso lo spirito che, docile, quasi non si mosse. Lo pose tra sé e Hideyuki e lo guardò, inizialmente senza parlare.
«Voleva incontrarti.» se ne uscì guadagnandosi un’occhiata stupita dal padrone di casa e una piuttosto confusa da Chiaki. Parve non badarci, o forse finse di non accorgersene: «Ti sei ritrovato un marchio dopo lo scontro dell’altro giorno, no?» domandò con fare retorico e abbastanza frettoloso «Beh, pare che sia opera sua. Ma non riesce più a muoversi bene, quindi l’ho portato io.» dichiarò incrociando le braccia al petto, neanche li stesse sfidando a lamentarsi. A uno sguardo più attento Chiaki notò che le code del felino erano due; non disse nulla però, visto che Hideyuki sembrava più interessato a capire le dinamiche di ciò che stava accadendo che di quale creatura si trattasse, sempre che non l’avesse riconosciuta da solo – le nekomata erano uno degli spiriti più comunemente conosciuti in fondo, non sarebbe stato strano.
Hideyuki aggrottò le sopracciglia, in procinto di dire qualcosa, quasi sicuramente di chiedere a Haruki che intenzioni avesse visto che l’ultima volta in cui c’era stato uno youkai in casa sua non era andata proprio benissimo; tuttavia qualcosa lo fermò, fu chiaro nel modo in cui spalancò leggermente gli occhi quasi avesse finalmente trovato il collegamento che gli serviva per chiarire l’intera faccenda. Toccò a lui allungare una mano verso lo youkai e quello non si mosse, limitandosi ad aprire pigramente un occhio e lasciarsi toccare, somigliando molto più a un gatto che a uno spirito. Un miagolio soddisfatto fu la risposta a quel gesto, e vedendo il sorriso gentile sulle labbra di Hideyuki Chiaki non riuscì a trattenersi dal chiedere se conoscesse o meno quello spirito. La risposta a lei sembrava evidente, ma non poteva esserne certa al cento per cento.
Hideyuki annuì, senza spostare lo sguardo dalla creatura: «Ricordi quando l’altro giorno ti ho detto che chiamarono i miei genitori adottivi a scuola?» la incalzò, senza attendere una risposta né pensare al fatto che per Haruki quel discorso con ogni probabilità non aveva senso «Avevo soccorso un gatto. Avevo abbassato la guardia perché pensavo che un animale non potesse essere uno youkai, così lo avvicinai senza pensarci. Quasi subito però capii di aver sbagliato, perché alcuni compagni continuavano a chiedermi se mi fosse caduto qualcosa per terra. Capii che non lo vedevano, ma sembrava stare così male che continuai a occuparmene lo stesso e alla fine dissi che c’era un gatto. Sapevo che mi avrebbero dato del bugiardo, ma mi sarei sentito peggio facendo finta di non averlo visto e andando via. Non pensavo mi avrebbe mai ritrovato o che lo avrei rivisto.» ammise, guardando con dolcezza lo spirito, quasi rivedesse dopo tanti anni un amico di vecchia data.
La nekomata, presa una seconda carezza, si alzò lentamente per muoversi piano verso Hideyuki, fino a salirgli sulle gambe incrociate. Chiaki la vide picchiettare con il muso contro il braccio marchiato del ragazzo e lui tirò su la manica, notando che gli strani simboli a cui si era ormai abituato stavano svanendo lentamente.
Lo youkai, soddisfatto, si acciambellò lì dov’era.
«Mh?» fece dubbioso Hideyuki, ma fu Haruki a rispondere: «Credo che stia per scomparire.» pronunciò, guardando dritto negli occhi il più grande «Voleva vederti ancora. Forse voleva ringraziarti o solo toglierti quel segno. Non lo so, ma si muoveva già poco quando l’ho trovato, quindi…» lasciò cadere la frase accolto unicamente dal silenzio. Hideyuki spostò lo sguardo sullo spirito, notando che stava effettivamente sparendo proprio come ciò che era stato fino a poco prima sul suo braccio. Chiaki lo vide deglutire a vuoto, senza fare nulla se non posare di nuovo la mano sulla testa della creatura: «Grazie di essere tornato.» mormorò piano.
Il felino miagolò debolmente, ma non sembrava soffrire e nessuno di loro fece o disse altro, limitandosi a guardare una vita che si affievoliva, lenta. Chiaki ne aveva visti altri di youkai vicini alla fine della loro esistenza, ma non per questo trovava la cosa più facile. Tuttavia, guardando quello e Hideyuki, capì che forse era davvero così: qualcuno se ne andava per sempre, qualcuno decideva di rimanere e altri ancora tornavano per poter dire addio alle persone importanti.


 

 

 

 

E così ci siamo tolti anche il secondo passato, che poi era anche il più felice (…).
Unica nota per questo capitolo: la nekomata
è uno youkai, una creatura soprannaturale della mitologia giapponese evolutasi da un gatto e caratterizzata dalla presenza di una coda biforcuta o addirittura di una seconda coda e dalla capacità di camminare sulle zampe posteriori. (wikipedia)
Ci sarebbe molto altro da dire, ma per quel che è funzionale al capitolo, questo è sufficiente.
La citazione in apertura viene da Daisy (Stereo Dive Foundation), la ending di Kyoukai no Kanata.

Un grazie enorme a Stars Trail per il betaggio (L)

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