E se...?

di LaCantastorie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Think of me ***
Capitolo 2: *** "Vivevo solo, prima di conoscerti" ***
Capitolo 3: *** Down and up ***
Capitolo 4: *** Il Fantasma dell'Opera ***
Capitolo 5: *** Masquerade ***
Capitolo 6: *** Aspetterò ***
Capitolo 7: *** Note e... note ^_^ ***



Capitolo 1
*** Think of me ***


Arielle guardò prima a destra, poi subito a sinistra. Non c’era nessuno.
L’auditorium deserto la invitava a cantare, ma un formicolio alla nuca – la sensazione di non essere completamente sola – la tratteneva dall’esibirsi di fronte al pubblico fantasma.
Iniziò a intonare l’aria che aveva scelto quasi sottovoce, ad occhi chiusi, stringendosi le mani al petto: chi mai poteva essere rimasto dietro le quinte, a quell’ora? Qualche vecchio e sordo inserviente delle pulizie, senza dubbio.

<< Ricordami, ricordami quando te ne devi andar
e pensami, pensami o almeno dì, ci proverai?>>

Mordendosi la lingua, la ragazza rimase in ascolto per qualche secondo, convinta di aver udito un rumore. Sentendosi sciocca, finalmente si fece coraggio: i versi iniziarono a fluire con naturalezza, mentre la sua voce s’innalzava sempre più sicura e chiara:

<< O se vuoi, se il cuore tuo vorrà
voltarsi indietro verso me,
se quest’attimo verrà...>>

Arielle spalancò le braccia, abbracciando idealmente l’intera platea:

<<...Penserai a me!>>

Inchinandosi alle poltrone vuote, la giovane, dimentica della timidezza con cui aveva esordito, desiderò con tutta se stessa che qualcuno l’avesse ascoltata, accorgendosi a mala pena della propria incoerenza; quando però il nulla che la circondava produsse un sussurro che pareva essersi levato proprio per accontentarla, Arielle sussultò, sbiancando in viso: l’aveva sentito veramente?

<<Brava, brava, bravissima>>

Voltandosi verso i palchi laterali, riuscì a cogliere lo svolazzo di un mantello nero, ma la figura cui l’indumento apparteneva non si palesò in altro modo.

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Capitolo 2
*** "Vivevo solo, prima di conoscerti" ***


Era soltanto una spettatrice. Non una cantante. Avrebbe dovuto rimanere seduta al proprio posto ad applaudire ed elogiare il talento altrui, badando bene a starsene zitta e muta: chi era lei, per permettersi di invadere lo spazio scenico a quel modo? La padrona del teatro, forse?
La settimana precedente, Arielle si era dimostrata davvero presuntuosa: aveva sul serio pensato che aver studiato canto - e per soli tre anni! - l'avesse resa degna di saltare sul palco e pavoneggiarsi di fronte a ... Se stessa? La ragazza scosse la testa, ricordando i continui ammonimenti del maestro Lefevre: "Signorina, la sua voce è de-bo-le! Un po' di carattere, per Dio! E studi i testi, invece di tradurli, non m'interessa che lei li capisca, se non è in grado di CANTARE! Memoria, ci vuole, non fantasia: daccapo!”
Presto la volontà di migliorare, di lottare per seguire “quella passione inconcludente”, come la chiamava la madre, le era venuta meno: perché sforzarsi di vincere una causa persa in partenza? Non era in grado.
Punto.
E intanto era rimasta ancora una volta sola, sola sotto la volta affrescata, sola sotto la luce mille volte rifratta di quel lampadario che rivaleggiava con il Sole: era rimasta ancora oltre l’orario di chiusura, non notata dal personale, una figuretta vestita di rosso nel rosso mare di poltrone in velluto e oro, una ragazzina viziata e senza qualità che veniva dimenticata pure dai buttafuori.
Si fece pietà e si avviò verso l’uscita, a labbra serrate: non si sarebbe lasciata sfuggire un solo bisbiglio, stavolta.
No, nemmeno se in testa aveva un motivetto che le chiedeva insistentemente di dimenticare l’autocommiserazione e di consolarsi grazie alla musica, che da millenni è compagna di pene e trionfi, sventure e successi, sofferenza e gioia, alla musica che lenisce le prime e rende le seconde più radiose...

<< I heard there was a secret chord
that David played and it pleased the Lord,
but you don’t really care for music, do you? >>

 Mentre l’Alleluia di Leonard Cohen echeggiava nel salone, i pensieri della giovane andavano di nuovo al suo ex precettore, al maestro Lefevre: “Cosa vuoi cantare? Robaccia straniera? Non abbiamo una tradizione musicale abbastanza affermata da rivaleggiare con quella di qualsiasi altro paese, signorina!? Non osare mai più chiedere niente di simile! Decido io gli esercizi adatti alle tue corde vocali, e per ora sappi che Frère Jacques è anche troppo!”
La mano sulla maniglia antipanico, la fronte poggiata sull’uscita: Arielle si disse che, non appena avesse udito la presenza di qualcuno all’interno dell’auditorium, si sarebbe precipitata all’esterno, così non ne avrebbe sentito le battute di scherno. Che cos’altro poteva celare, quell’elogio immeritato di qualche giorno prima, se non una beffarda ironia?
Non era affatto brava.

<< …I’ve been here before,
I  know this room, I’ve walked this floor…>>
 
<<… I used to live alone before I knew you >>
 
Arielle raggelò: era la stessa voce che l’aveva spaventata la volta precedente, ed era così vicina!
Voltandosi di scatto, si trovò ad un passo di distanza da lui, l’uomo d’ombra che l’aveva spiata da uno dei palchi laterali quando aveva intonato “Think of me”: era molto più alto di lei, aveva le spalle larghe, una presenza fisica imponente. Non si intuiva nient’altro del suo aspetto: era completamente avvolto da un pastrano nero, un mantello con tanto di cappuccio a mo’ di “la morte sta arrivando”: se voleva apparire rassicurante, non ci stava riuscendo granché.
Spingendo la schiena contro l’uscita di emergenza, Arielle tentò di aprirla, senza per altro riuscire a smuoverla di un centimetro. Era bloccata.
L’uomo incappucciato alzò le mani guantate, come a volersi dimostrare innocuo, ma non accennò a lasciarle libero il passaggio: cosa doveva fare, in una situazione così paradossale?
 
<< I’ve seen your flag on the marble arch
but love is not a victory march,
It’s a cold and it’s a broken
Hallelujah! >>
 
Continuare a cantare, come se nulla fosse.

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Capitolo 3
*** Down and up ***


Arielle si stropicciò gli occhi, domandandosi come mai il suo soffice lettino si fosse trasformato in una specie di branda da carcerato. “Triclinio”, pensò. La parola giusta era “triclinio”, ma i romani non ci dormivano, ci si distendevano per mangiare.
Solo quando si alzò in piedi e si guardò intorno ricordò gli eventi della sera precedente: aveva continuato a cantare per la figura incappucciata, che ad un certo punto si era accucciata a gambe incrociate di fronte a lei, per starla a sentire più comodamente. Aveva dato fondo a tutto il proprio repertorio: da “A te” a “Hey there Delilah”, da “A wish for something more” a “Wonderful life”, da “All of me” a “Ti troverò”, si era sforzata di ricordare i testi e gli accordi con precisione, fino a che non aveva iniziato a farle male la gola e la stanchezza non aveva preso il sopravvento; non si era soffermata a pensare al motivo che la spingeva a non preoccuparsi, a rimanere tranquilla davanti a quell’unico, paziente spettatore dall’identità misteriosa, a cadere addormentata tra le sue braccia, ma ora era tutto diverso.
Poteva darsi che lo sconosciuto fosse un eccentrico critico musicale, qualcuno che l’aveva scambiata per una corista, magari, e l’aveva voluta incoraggiare a ricoprire ruoli più importanti, a venire allo scoperto...
“Da quando sono diventata una persona così boriosa?”, si domandò, stupendosi delle vette che toccavano le sue aspirazioni. Liquidando le manie di grandezza, Arielle si stiracchiò, scoprendo di essere ancora infilata nell’abito di gala rosso fiamma: il suo strano ammiratore non aveva nemmeno provato ad abbassare la lampo, l’aveva soltanto messa a letto coprendola con il suo mantello, per poi scomparire.
Dandosi della stupida, la ragazza si buttò a capofitto nella ricerca della propria borsetta: lo sconosciuto non l’aveva spogliata del vestito elegante, ma avrebbe potuto benissimo derubarla!
Tirando un sospiro di sollievo, la trovò appoggiata su uno scrittoio, accanto ad una boccetta d’inchiostro in cui era intinta una piuma di corvo; all’interno, i biglietti per assistere a “Sogno di una notte di mezza estate”, il portafoglio, il cellulare...
<< Otto chiamate perse, tre messaggi vocali, un SMS: perfetto, direi >>, sospirò Arielle, spedendo due righe a Megan perché si tranquillizzasse. Meno male che la sera precedente avrebbe dovuto dormire dall’amica e non a casa: in caso contrario, a quell’ora la madre avrebbe smobilitato i servizi segreti per sapere dove si fosse cacciata “quella svampita di mia figlia!”
Per la seconda volta, Arielle sospirò, allontanando da sé lo smartphone ed esaminando la sua camera da letto di fortuna: il soffitto era un insieme di assi di legno, cavi e corde penzolanti, piccoli fori in cui s’infilavano delle manichette collegate a macchinari accatastati qua e là senza un ordine apparente, botole e pertugi più o meno grandi, chiusi o aperti, provvisti o meno di lucchetto; le “pareti” di quella stanza-non stanza erano costituite da fondali scenografici che ritraevano i cancelli dell’Inferno e le porte del Paradiso, l’atrio di un palazzo signorile e l’interno di un’abitazione spartana, in un gioco di opposti che la fece sorridere. Sembrava uno spazio messo assieme in quattro e quattr’otto, un rettangolo rubato al sottopalco: Arielle aveva ormai compreso che si trovava ancora all’Opera, da qualche parte al di sotto dell’auditorium.
Per quel che riguardava l’arredo di quel nido, beh... Oltre al triclinio e alla scrivania, l’ambiente era gremito di soprammobili dall’aria buffa o esotica, in un caso persino minacciosa: una maschera da teschio, infatti, era ironicamente sepolta sotto ad un mucchio di manifesti gualciti e poster semiarrotolati, il primo dei quali riportava la figura di una certa Christina Nilsson, 1843-1921: una cantante svedese, secondo il trafiletto biografico allegato all’immagine del 1873. Molto bella. Arielle notò che aveva gli occhi chiari, cerulei come i suoi, i capelli di un castano tendente al fulvo, una sfumatura non molto lontana dalla sua, la pelle pallida, le dita sottili...
Accanto al cumulo di locandine era sparsa altra carta, piccoli biglietti dall’apparenza più recente: Arielle ne raccolse uno, incuriosita: erano versi.

<< Things base and vile, folding no quantity,
Love can transpose to form and dignity:
Love looks not with the eyes, but with the mind;
And therefore is winged Cupid painted blind:
Nor hath Love's mind of any judgment taste;
Wings and no eyes figure unheedy haste:
And therefore is Love said to be a child,
Because in choice he is so oft beguiled
.
- A Midsummer Night’s Dream >>

Arielle controllò la dicitura in calce ad ogni biglietto: tutte le citazioni erano shakespeariane, e tutte provenivano dalla commedia cui avrebbe assistito di lì a pochi giorni. L’uomo incappucciato aveva curiosato tra le sue cose, dunque.
Accartocciando le parole di Elena sull’amore, la ragazza si sentì tradita: quell’individuo l’aveva spiata, l’aveva rapita, l’aveva lasciata sola senza una spiegazione, aveva aperto la sua borsa, forse anche il portafoglio! Controllò il contenuto: carta d’identità, bancomat, contanti e spiccioli, codice fiscale, patente, fototessere,... Curioso.
Era convinta di averne scattate quattro, non tre.
Alzò le spalle: se lui aveva deciso di poterle portar via qualcosa, anche lei avrebbe preso con sé un souvenir: Arielle sollevò il mantello nero che le aveva fatto da coperta e se lo drappeggiò su un avambraccio, poi scostò il tendaggio dipinto che raffigurava le porte dei Cieli, scavalcò altro ciarpame, trovò una scaletta di legno che portava ad una botola aperta da cui proveniva un tenue fascio di luce e se ne andò alla chetichella dal teatro, sentendosi soltanto un pochino in colpa per il fagotto di stoffa che le frusciava contro un fianco.

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Capitolo 4
*** Il Fantasma dell'Opera ***


Gliel’avrebbe restituito.
Il mantello nero, a quanto pareva, era stato cucito unendo insieme lembi di seta e raso, mentre le bardature più scure sull’orlo e sulle maniche erano di bisso: sua madre aveva strabuzzato gli occhi, quando l’aveva trovato infilato tra una tuta sportiva e una camicia da uomo, nel suo guardaroba. L’aveva trascinata in camera nonostante fosse appena uscita dalla doccia, le aveva fatto fare le scale tutta gocciolante e le aveva indicato l’indumento, scrollandola per le spalle:
<< Da dove salta fuori questo?>>, le aveva urlato contro in falsetto.
<< Se è un regalo, rispediscilo immediatamente al mittente! Costerà un occhio della testa soltanto il cappuccio! Vuoi forse farti ricattare?>>
Da brava stilista, la signora Lott aveva spiegato a “quella sconsiderata di sua figlia” come era stato realizzato il capo d’abbigliamento, gli aveva scattato qualche foto ricordo e con una lacrimuccia l’aveva piazzato tra le mani di Arielle, che era appena riuscita a balbettare di averlo trovato all’Opera House e di averlo portato a casa per errore, credendo fosse il suo soprabito.
<< Allora domani lo riconsegnerai ai guardarobieri, siamo intesi? E chiederai scusa>>.
Giocherellando con l’estremità del mantello in cui si era provvisoriamente avvolta, Arielle si sporse dal palco numero cinque ed esaminò il formicolio di spettatori ai suoi piedi, stupita di quanto fosse facile rubare un attimo di intimità a chi veniva inquadrato dalle lenti del suo binocolo: accanto all’ingresso, per esempio, un anziano signore dal viso rubizzo stava indicando al suo interlocutore l’affollato salone, esibendo un ampio sorriso, mentre il destinatario di quei cenni entusiasti rivolti alla platea annuiva raggiante, estasiato dal tutto esaurito.
<< Quelli sono i due direttori dell’Opera, vero, papà?>>
<< Eh? Ah, sì! Ormai da molti anni, in effetti. Ma dovresti puntare quell’affare dall’altro lato, credo...>>
Entrambi risero di cuore, e Arielle smise di tartassare l’orlo del mantello: pochi minuti ancora e sarebbe iniziato lo spettacolo, in sala sarebbe calato il silenzio e nessuno avrebbe potuto interromperlo prima dell’intervallo. Ancora non s’era vista traccia del misterioso proprietario del mantello: se lo sconosciuto non si fosse presentato personalmente a chiederlo indietro, ad Arielle non sarebbe rimasto altro da fare che lasciarlo appeso in anticamera, andarsene e non pensarci più, scuse o non scuse.
<< Buonasera>>, sussurrò con gentilezza, proprio in quel momento, una voce che Arielle riconobbe immediatamente.
<< Vi prego di perdonarmi per l’intrusione nel vostro palco, ma mi è stato detto di passare a ritirare un oggetto di mia proprietà...>>
Padre e figlia si voltarono all’unisono, ma qualsiasi cosa avessero in mente di replicare gli sfuggì di mente: si trovarono infatti di fronte ad un uomo mascherato, del cui viso si potevano a stento distinguere gli occhi e il labbro inferiore.
Chinandosi lievemente in avanti, l’ospite del palco cinque indicò con un gesto discreto il mantello che Arielle si stava stringendo addosso, sorridendole piano.
<< Vi sta a pennello, mademoiselle, quasi mi spiace che me lo dobbiate rendere. Oh, aspettate: se sarete così gentile da farmi rimanere ad assistere alla rappresentazione, non sarà necessario privarvene subito! Che ne dite?>>
Senza aspettare risposta, l’uomo di cui neppure sapevano il nome si sedette accanto ad Arielle, su una poltroncina che, la ragazza ne era sicura, fino a qualche secondo prima non si trovava lì.
Ancora perplesso, il signor Ries annuì con fare accondiscendente, pensando che dopotutto quell’ospitalità poteva essere un ottimo modo per chiudere l’incidente del mantello. Diede una scrollata di spalle, sorrise allo sconosciuto, si sedette a sua volta e non si pose troppe domande: se si fosse sentito in dovere di aggiungere qualcosa, lo straniero l’avrebbe fatto, e fu quel che accadde.
<< In caso ve lo stiate chiedendo, mi chiamo Etienne Sivori, per servirvi>>, aggiunse infatti l’uomo mascherato, come se fosse un’informazione secondaria e di nessuna importanza. Massì, che cos’è infatti un nome? Un mucchio di lettere, un suono: se la rosa non si chiamasse rosa, avrebbe lo stesso identico profumo. Tanto per rimanere in tema shakespeariano, insomma.
<< E...>>, continuò con lo stesso tono noncurante, << ...Sempre nel caso in cui ve lo stiate domandando, più tardi parteciperò ad un ballo in maschera. Senza dubbio avrete sentito parlare della Masquerade dei fondatori...>>
Il sipario si stava alzando: Arielle, che fino a poco prima aveva desiderato l’abbassarsi delle luci e l’inizio della commedia, ora avrebbe voluto ritardare il momento del silenzio, perché voleva sentire di più, voleva che quella voce ora familiare proseguisse a parlare di sé, ma non fu accontentata.
La musica di Britten iniziò a saturare il teatro e il coro di fate e folletti occupò la scena, rendendo impossibile porre nuove domande.
Aveva senso: per andare ad un ballo in maschera, ci vuole una maschera; evidentemente, il mantello nero faceva parte del costume, del travestimento da...
E qui Arielle smetteva di seguire i propri pensieri, rifiutandosi categoricamente di associare all’uomo del mistero, alla voce d’ombra di Etienne Sivori – si ripeté il nome ignoto per stamparselo bene in testa – l’identità che apparteneva a quella creatura letteraria che era il fantasma dell’Opera.
Scosse il capo, guardando con la coda dell’occhio la maschera bianca, il profilo netto di quel viso celato, la viva attenzione con cui seguiva l’andirivieni di Puck sul palco.
Era inutile che tentasse di non pensarci, di non legare Erik ed Etienne, l’Angelo della musica e l’uomo che le sedeva accanto: in fondo in fondo, l’aveva già fatto.
“Brava, brava, bravissima”, canticchiò ironicamente tra sé e sé.

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Capitolo 5
*** Masquerade ***


Gli applausi scrosciarono, e vi furono due chiamate alla ribalta per gli attori del piccolo, ilare dramma messo in scena nel corso del terzo atto; nel teatro regnava il buonumore, tant’è che, dovunque guardasse con il suo binocolo, Arielle scopriva soltanto larghi sorrisi. Un unico paio di labbra sembrava non essere stato contagiato da quell’atmosfera gaia: un unico cipiglio pensoso non partecipava alle risate che continuavano a farsi sentire anche ora che l’auditorium si andava svuotando pian piano.
<< Cosa può la magia di quel fiore...>>, sospirò infine Etienne Sivori, alzandosi lentamente per sporgersi ancora una volta dalla balaustra.
<< Intende dire il magico filtro di Oberon? Certamente sarebbe meraviglioso poterne avere qualche goccia, per farsi amare da chi ci rifiuta>>, rise il signor Ries.
Senza rispondere, Etienne si risedette, quasi crollando sulla poltrona d’oro e velluto: ad Arielle sembrò in certo qual modo malato, o per lo meno stanco, ma di che cosa? Certo non dell’opera, prima assoluta alla Garnier.
<< Qualcosa non va?>>, chiese, avvicinandosi di nuovo. Il padre la stava già accompagnando all’esterno, ma si fermò per aspettarla.
Lo sguardo che le rivolse Etienne la ferì: le due perle nere che erano le sue iridi luccicarono nella penombra, rivolgendosi a lei in una muta supplica che non le era dato comprendere.
Cosa poteva, cosa doveva fare per cancellare quel mare di dolore da quegli occhi scuri?
Arielle si accorse di aver sollevato una mano a mezz’aria e la riabbassò, stringendosela al petto: in quel momento, Etienne batté le palpebre, volgendosi verso il padre di lei.
<< Vi sembrerà molto scortese da parte mia non invitarvi entrambi al ballo dei fondatori, ma mi è consentito soltanto farmi accompagnare da una dama...>>
S’interruppe, prendendo la mano ad Arielle e guardandola: << Mi permettereste di essere il vostro cavaliere, per stanotte?>>, concluse a bassa voce, mantenendo l’attenzione sulle sue dita.
La ragazza si chiese che incantesimo fosse rimasto nell’aria dopo la rappresentazione; si sentiva espropriata della sua stessa volontà, che già assentiva ciecamente, già voleva volteggiare nel salone da ballo con lui.
Scosse la testa, sentendo il desiderio di stringersela tra le mani: non lo conosceva nemmeno! Era un fantasma apparso dal nulla, uno sconosciuto senza età, indirizzo o altre coordinate concrete, era una maschera bianca che la guardava con un’espressività impossibile e la torturava, con quelle lacrime celate, con quella voce calda, gentile, e soprattutto familiare. Le sembrava che un'altra se stessa l'avesse udita moltissimo tempo prima e se ne fosse innamorata tanto da poterla ricordare anche dopo la morte...
<< Non essere sciocca, Arielle, resta, sono appena le dieci! Megan ci ha raccontato che quando sei stata da lei non hai chiuso occhio fino alle quattro del mattino... Vorrà dire che dormirai domani, nessuno ti sveglierà. Oh, mamma sarà alle prese con i costumi per Notre Dame de Paris, non si decide a comperare un normalissimo abito da prete per Frollo. Vuole che sia affascinante, anche se malvagio: Quasimodo invece ha già i suoi stracci belli che confezionati... Orribile, ma bellissimo d’animo, questa è la logica, no?>>
Il signor Ries sorrise e le fece l’occhiolino, salutandola senza aggiungere altro.
Erano soli.
Etienne si districò per primo da quell’imbarazzante immobilismo, scortandola verso l’alto: le spiegò che il ballo si teneva tra sesto e settimo piano, dove normalmente si esercitavano i membri del corpse de ballet; avrebbero trovato un rinfresco, si sarebbero senz'altro divertiti...
<< No>>.
Arielle svincolò la propria mano dalla sua, fermandosi sull’ultimo gradino della scala che stavano salendo fianco a fianco.
Si tolse il mantello che ancora non le aveva chiesto indietro, glielo porse; se ne sarebbe andata. Non avrebbe più rimesso piede in quel teatro, non avrebbe più cantato, non... sapeva che cosa le stesse succedendo.
<< Sono qui>>, le sussurrò Etienne, avvicinandosi con cautela. Arielle stava piangendo, perché le gambe non volevano obbedirle e ridiscendere quella dannatissima scalinata: volevano avanzare, invece, oh, se lo volevano!
Lui prese la cappa nera, la indossò, completando così la mascherata.
Le sorrise.
<< Sono qui...>>, ripeté, ancora più piano.
<< Balla con me. >>

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Capitolo 6
*** Aspetterò ***


Era già accaduto.
Che una mano le sfiorasse la schiena con quella dolcezza, che lei si affidasse ciecamente a quel contatto: lo ricordava come ci si può ricordare il primo vagito che si è emesso da neonati, che è nostro e non lo è, perché la memoria non ci permette di rintracciare un passato di cui abbiamo perso consapevolezza.
Etienne la cullava al ritmo della lenta musica che proveniva dall’uscio socchiuso del salone da ballo, il mento poggiato sui suoi capelli, di cui respirava il profumo; Arielle, persa in quell’abbraccio, tentava di ricordare per quale motivo dovesse scappare, correre via, andarsene subito, immediatamente, prima che fosse troppo tardi...
Il fatto è che oramai era tardi: si sciolse dalla stretta gentile del suo cavaliere, sorridendogli tra le lacrime che s’andavano asciugando sulle sue guancie; allungò poi una mano per aprire la porta che li separava dalla Masquerade ed unirsi agli altri. Non riuscì nemmeno a sfiorarne la maniglia, che Etienne la prese in braccio e la allontanò da quel sottile raggio di luce, dirigendosi invece verso la gradinata che portava in alto, all’ultimo piano. Arielle lo lasciò fare.
<< Sei mai stata sui tetti di Parigi?>>, le chiese, rivolgendosi a lei come ad una vecchia amica, abbandonando quel formalissimo “voi” con cui l’aveva pregata di accompagnarlo fin lì.
<< No... E sono sicura che nessuno, oltre a te, me li potrebbe far visitare>>, rispose lei, ricambiando il tono confidenziale.
Avevano oltrepassato il settimo piano: erano all’aperto, sotto la volta stellata, osservati da una falce di luna calante che sembrava sorridere alla coppia, benevola.
<< Guarda: la Francia è ai nostri piedi, stanotte>>, le disse Etienne, deponendola di fronte ad una statua che reggeva una lira dorata.
Dei ripidi scalini digradavano sulla sinistra verso un Pegaso tenuto per le briglie, un cavallo alato rivolto alla città sottostante: Arielle poteva, con un minimo sforzo d’immaginazione, collocare Etienne in groppa a quel destriero di marmo e fargli gridare alla notte la maledizione del Fantasma a Raoul e Christine; era facile vedere e sentire quel “Ho fatto tuo il mio canto, tuo è anche il cuore mio... Ma il tuo, a chi l’hai donato? E chi hai ripudiato?”
Una lieve brezza le soffiava tra le scapole, spingendola a discendere il camminamento che portava al luogo del tradimento: stando al musical, Raoul e Christine si erano scambiati voti d’amore proprio dove stava posando i piedi, attenta a non sbilanciarsi troppo né da un lato né dall’altro. Era pur sempre a... Quanti metri da terra? Arielle si negò il lusso di pensarci. Era stata fin troppo codarda in vita sua: non aveva mai osato, eppure in quel momento si trovava con un perfetto sconosciuto sul tetto dell’Opera House, non troppo distante dalla mezzanotte, agghindata in modo inadatto al venticello fresco che le faceva venire la pelle d’oca. Desiderando chiedere rifugio nel mantello che già le era stato prestato, Arielle si voltò verso Etienne, ma non lo trovò dove l’aveva lasciato: l’uomo si era inerpicato sulle spalle della scultura che sollevava la lira e la guardava dall’alto, senza l’ombra di una preoccupazione per la pericolosità di quella posizione.
<< Sai, sono venuto qui soltanto altre due volte in passato, anche se non sono sicuro che sia corretto esprimersi a questo modo...>>, le gridò, indicando vagamente il tetto.
<< Non sono mai stato felice, in questo luogo. Mi ha sempre portato a patti con l’abisso che separa i miei desideri dalla mia concreta esistenza, mettendomi a confronto con la realtà in maniera crudele. Per lo meno, non sono riuscito a sopportare il corso degli eventi né nell’uno, né nell’altro caso...>>, continuò a spiegare Etienne.
<< Questa volta, voglio che sia diverso. Voglio che le mie aspettative non vadano in frantumi, voglio che per questa volta soltanto, per quest’unico giro di ruota, il futuro che sceglierei per me e il destino che l’universo vuole sia mio... Siano una cosa sola>>.
Arielle si era avvicinata ai piedi della statua: capiva soltanto in parte quello che Etienne le stava confessando, ma sentiva di ricoprire un ruolo importante, anche se taciuto, in quel discorso.
<< Per favore, scendi di lì... Parleremmo con più agio se fossimo faccia a faccia>>, disse, stupendosi dell’espressione che aveva scelto. No, vicino ad Etienne si sentiva definitivamente diversa dall’Arielle Ries di tutti i giorni; perché? Perché, era l’unico tassello che non riusciva a collocare.
<< Io non ce l’ho, una faccia, Arielle. E Béatrice. E Christina. Né Erik, né Edmond, né tantomeno Etienne l’hanno mai avuta... Lo sapresti, se solo ricordassi chi sei stata>>.
L’uomo si sporse in avanti, dall’alto, fino ad arrivare a tiro di un bisbiglio dalla ragazza: nel buio, Arielle distingueva la sclera luminosa di quegli occhi ancora una volta lucidi, ancora una volta ricolmi di una tristezza che sembrava essersi accumulata nei secoli, e desiderò di nuovo accarezzare quel volto sofferente, asciugare le lacrime che, lo sapeva, stavano rigando le guancie coperte dalla maschera.
Con la punta delle dita, seguì il margine della ceramica bianca, sentendo il bisogno di strappar via quel materiale insensibile e freddo dalla pelle calda e sensibile di Etienne: voleva che lui la sentisse, così lo abbracciò, costringendolo a scendere dal piedistallo di marmo.
Nascondendo il viso contro il suo petto, tentò di dare un senso al tumulto che si agitava dentro di lei: Béatrice, aveva sempre desiderato chiamarsi così! E Christina... Christina Nilsson, la soprano che aveva i suoi stessi occhi, quasi i suoi stessi tratti somatici, la figura che reggeva lo scrigno di Zeus nel dipinto-manifesto trovato sotto il palco della Garnier. Edmond: oh, si era innamorata di quel nome ancora prima di amare il Conte di Montecristo! Ed Erik... Il Fantasma dell’Opera. Arielle aveva letto il romanzo di Leroux: aveva riso quando le era stato detto che persino sul letto di morte l’autore aveva proclamato, esalando l’ultimo respiro, che non una parola di ciò che aveva scritto corrispondeva al falso.
« Le fantôme de l’Opéra a existé », aveva detto.
La ragazza lasciò correre la fantasia, immaginandosi nei panni di Christine Daaè.
Voglio che questa volta sia diverso
Sollevò il viso verso Etienne, vedendovi Erik.
Voglio che il futuro che sceglierei...
Osservò al di là della maschera, al di là degli occhi neri che la speranza e il dubbio facevano brillare nella notte, e vide l’uomo che l’aveva elogiata, sorpresa, portata via dalla banalità del quotidiano con la sua aura di fascino e mistero; vide una persona cui potersi affidare, voce e anima, mente e cuore.
... e il destino che l’universo vuole sia mio...
Sì, decise. Poteva dare fiducia a chi le stava davanti.
... siano una cosa sola”.
Si sollevò sulle punte e depose un bacio sulla maiolica della maschera: se il mito di Pandora insegna qualcosa e non serve soltanto ad alimentare le chiacchiere misogine sulla proverbiale curiosità delle donne, è questo: se non occorre realmente sapere, non bisogna domandare.
Ciò che ci viene celato, sarà svelato al momento giusto, quando saremo pronti per affrontarne la vista, comprenderla e accettarla: se saremo impazienti e frettolosi, come la donna della fiaba, sbirceremo prima del tempo e, in luogo delle pietre preziose, troveremo ad attenderci un mucchio di carbone.

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Capitolo 7
*** Note e... note ^_^ ***


Buongiorno a tutti!
Innanzitutto, vorrei ringraziare chi ha pazientemente affrontato la lettura di questi capitoli, forse un po' troppo slow-moving: spero non siano stati del tutto deludenti, ad ogni modo attendo consigli su come migliorare lo stile ^^
Venendo alla storia: mi sono accorta che alcuni riferimenti disseminati qui e là potrebbero sollevare qualche perplessità, per cui ho deciso di aggiungere questa postilla... Chiamatemi Prolissa, se volete: ma ecco qua di che si tratta...
- Il poster di Christina Nilsson: come potete leggere qui 
http://it.wikipedia.org/wiki/Christina_Nilsson, la soprano raffigurata in questa locandina che Arièlle trova tra le scartoffie abbandonate nel sottopalco è realmente esistita. Ora, chi vi fa venire in mente una giovane svedese di famiglia non benestante, presa sotto l'ala di un nobile protettore? Mumble, mumble... ;) La descrizione del suo aspetto fisico fa riferimento al quadro di Alexandre Cabanel, che la ritrae nei panni di Pandora. 
Sogno di una notte di mezza estate: lascio il link alla trama dell'opera teatrale di Shakespeare, che è stata musicata da Benjamin Britten negli anni '60: http://it.wikipedia.org/wiki/Sogno_di_una_notte_di_mezza_estate (Ps) (L'altro accenno al gande drammaturgo di Stratford viene da Romeo e Giulietta)
Cognomi: detesto usare Cognomix o altri sitarelli del genere per trovare un cognome adatto ad un personaggio; così, Lott, Ries e Sivori li ho mutuati da Felicity Lott, una soprano inglese, Franz Ries e Camillo Sivori, due violinisti. (Ps) (La pronuncia francesizzata a "Sivorì" si adatta bene alle esigenze, a parer mio)
- Abbigliamento: Etienne indossa inizialmente il mantello con cui Erik compare nel musical all'altezza de "The point of no return"; in seguito, quando lo incontriamo senza cappuccio, porta una maschera integrale (non quella che si vede nel film del 2004, dunque): quella che immaginavo era simile alla versione della serie televisiva degli anni '90, "Phantom", starring Charles Dance. Personalmente, apprezzo questo adattamento più di ogni altro *-*
Palais Garnier: non ci sono mai stata, ma Google Street View pone rimedio ad ogni lacuna geografica; è persino possibile fare un giro sul tetto dell'Opera House, nonchè al suo interno. Ne vale davvero la pena.
Lyrics: ho tentato di tradurre qualche piccolo stralcio delle canzoni originali in modo che il senso di base rimanesse e fosse possibile canticchiare le parole in italiano, mantenendo inalterata la musica insomma... Non so se ci sono riuscita: a voi fare le prove! *sorride*
Altro: nella "morale" conclusiva, cito una storiella che ricordo di aver sentito raccontare: non so chi ne sia l'autore... Più o meno, il contenuto era questo:
Una povera paesana viveva sola in una piccola casupola, lamentando la fame; un giorno, rincasando dopo essere andata nel bosco a raccogliere bacche, la donna incontrò una vecchina che le chiese un po' di cibo. A malincuore, la accontentò, spartendo con lei il risultato della raccolta. L'anziana mendicante, allora, le consegnò un fagotto, esortandola ad accettarlo come ricompensa, ma la avvertì di non aprirlo se non dopo aver oltrepassato la porta di casa. La donna prese con sè il dono inaspettato, riprendendo il cammino; dopo qualche tempo, però, spinta dalla curiosità, la paesana decise di aprire l'involto e scoprire cosa contenesse di tanto misterioso. Quando la luce del sole le mostrò la natura del regalo, la donna trattenne a stento un gesto di rabbia: gettò in terra con stizza gli inutili pezzi di carbone che le aveva lasciato la vecchia e s'infilò in tasca lo straccio che li aveva avvolti, proseguendo poi la marcia.
Una volta giunta a casa, la paesana ripose la cesta con le bacche e preparò una bacinella d'acqua per lavare sia i frutti di bosco che lo straccio guadagnato quel giorno: nel trarselo di tasca, la donna sentì cadere qualcosa sul pavimento... Chinandosi a raccogliere quello che s'immaginava fosse un pezzo di carbone, trovò invece un minuscolo smeraldo, una gemma perfetta che brillava anche nella penombra.

In conclusione, la donna torna nel bosco per cercare la vecchina e il carbone gettato via con disprezzo, ma non trova nè l'una, nè l'altro: non ha voluto dare ascolto all'avvertimento della benefattrice, perciò ne ha pagato le conseguenze, perdendo la fortuna che avrebbe potuto essere sua.

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