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di Fireslot
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Si destò di soprassalto, unto di sudore. Il suo tanfo era insopportabile, lui stesso emise un grugnito di disgusto. Un incubo, di nuovo, sempre lo stesso, ogni maledetta volta che si assopiva. Brontolò un mugugno e si trascinò fiaccamente verso il tavolo, tastandone la superficie tentoni. Niente non c’era nulla là sopra. La testa martellava come se una batteria di mitragliatori stessero sparando contemporaneamente nelle sue tempie.
Si passò la sola mano callosa che avesse, screpolata e con le unghie completamente intrise di sporco, tra i lunghi e irsuti capelli color pece, massaggiandosi le vene rigonfie. Rimase intrappolata tra i nodi spessi, quindi la estrasse con uno strattone e si chinò sulle ginocchia. Gattonò sui tre arti, setacciando il pavimento tarlato alla luce sommessa proveniente dai fori delle pareti. Sentì un tintinnio di vetro che rotolava e allungò il braccio per afferrare la bottiglia. Cadde rovinosamente tra la polvere ma almeno l’aveva afferrata. Allungandola sulle labbra, percepì solo l’umidità della sua stessa saliva schiumosa. La scaraventò via e decise di barcollare verso la porta.
Quando la spalancò con il peso della sua spalla monca, la luce intensa gli investì gli occhi come una fiammata, confondendogli la vista per un istante. Attorno a lui, sempre lo stesso paesaggio: arido deserto roccioso e irregolare ospitava un centro cittadino a poche miglia dalla sua catapecchia. Lì avrebbe trovato altro alcol. Chiese al suo mal di testa se ne valesse la pena e lui gli rispose “prenditi una sedia e muori là sopra.” Eseguì il comando dell’emicrania e si accasciò sulla soglia a guardare il cielo, mai stato così azzurro.
Quando il sangue gli concesse un attimo di coscienza, cominciò a porsi vari problemi: quanto tempo era passato dall’ultimo momento di lucidità? Da quanti giorni aveva addosso quegli stracci maleodoranti? A quando risaliva la sua ultima doccia? Aveva abbastanza soldi per comprare altro veleno? Rispose solo all’ultima domanda scrutando nel buio della sua abitazione, stracolma di bottiglie rovesciate o in frantumi, tutte vuote. A occhio e croce, stimò di essersi ubriacato ininterrottamente per una settimana. Un uomo normale sarebbe morto con tutto quell’alcol in corpo, lui se l’era cavata con un infernale mal di testa, anche se il dolore gli fece pensare che morto sarebbe stato meglio. D’altronde, quelle casse di liquore dentro casa gli fecero ricordare quanto inutilmente stesse trascinando lo scorrere della sua vita, arresosi ormai alla crudeltà della natura umana. Aveva speso tutte le sue forze per mantenere una promessa fatta anni prima, senza concludere niente. Ogni giorno trascorso in compagnia degli umani lo aveva spinto sempre più a ricredersi sui suoi principi etici, sulla promessa fatta a lei, su quanto suo fratello avesse avuto ragione a chiamarli bestie. Anni e anni di cicatrici e sofferenze per non concludere niente, se non ad alimentare un mondo pieno di bestie corrotte e inutili, che ripetevano gli stessi errori ogni volta, senza imparare niente dal passato. La sua epiglottide gli solleticò l’esofago, chiedendo al suo padrone di riempire lo stomaco con qualcosa.
Era pronto ad alzarsi e barcollare verso la città ma, quando voltò il capo in quella direzione, vide una sagoma avvicinarsi tra i miraggi del calore. Ringraziò il cielo che qualcuno passasse in quella direzione. La figura si fece sempre più vicina, mostrando i lineamenti e la statura di un ragazzo molto giovane, forse quindicenne.
«Ehi, giovanotto! Potresti farmi una commissione?» biascicò con il palato appiccicaticcio si saliva, «Sono disposto a darti trenta doppidollari, se andassi in città e mi portassi una bella cassa di alcolici.»
Udì uno sbuffo e un brontolio: «Taci, vecchio puzzolente.»
«Suvvia, non essere scortese. Non sono affatto vecchio, solo un po’ peloso. Se poi mi portassi del buon rum, mi farei un bel bagno aromatico.»
Il ragazzo sbruffone non disse niente, si avvicinò sempre più alla casa e si inoltrò oltre la soglia.
«Ehi, che stai facendo? Fuori da casa mia! Mi hai sentito? Ehi!» l’ubriacone si alzò di scatto dalla sedia.
«Bleah! Questo posto puzza più di una latrina pubblica. Dio mio, da quanti secoli non passi uno straccio. Questo odore… quante volte avrai vomitato?»
«Non sono affari che ti riguardano, fila via!»
«Cristo, un vero porcile. Se penso a quanta polvere ho mangiato per asfissiarmi con questo odoraccio! Non hai nemmeno le finestre in questo buco?» borbottò lo sbruffone, dando un calcio ad una scatola di bottiglie vuote, che si rovesciarono per terra andando in frantumi.
«Ho detto fuori da casa mia!» urlò rauco l’ubriacone, sollevando dal tavolo una grossa pistola argentata e direzionandola verso il giovane. La canna tremava, come se lo sforzo di reggerla fosse troppo per i suoi bicipiti.
Il ragazzo lo degnò di uno sguardo: i capelli neri sistemati a caschetto lasciavano trapassare tra i ciuffi disordinati due ampie iridi castane, spalancate in un’espressione di sdegno.
«Falla finita, vecchio! Non hai mai ucciso nessuno, perché dovresti farlo adesso? Con quella mano tremante, poi.»
Dalla foresta lercia, due bilie di limpido verde si fecero strada nella penombra per osservare quel marmocchio sbruffone. La barba ispida gli chiese: «Come sai che non ho mai ucciso nessuno?»
«Conosci Lillian Bernardelli?»
Abbassò la pistola e restò imbambolato. La compagnia Bernardelli, quella dove anni prima lavorava Meryl Stryfe. Non udiva quel nome da parecchi anni. Dopo Meryl, niente e nessuno gli aveva scaldato il cuore come lei, l’unica donna che avesse amato davvero nella sua età adulta. Nel petto esplose una fitta di dolore, la consapevolezza della sua assenza doveva essere obnubilata dall’alcol ma le bottiglie erano vuote.
«Beh, io la conosco e mi ha raccontato la storia di sua nonna.» continuò il ragazzo.
«Meryl si era sposata?»
«Tu che faresti se la tua donna ti abbandonasse per decenni? La attenderesti con le mani in mano? Nossignore, si è sposata con il suo capo e ha messo su una bella impresa di famiglia.»
Ancora una volta, il suo petto crollò nel rammarico. Un altro stramaledetto errore, innamorarsi.
«Comunque,» “Che marmocchio fastidioso!” pensò l’ubriacone, standolo a sentire, «Lillian è la nipote della tua amica. Le ha raccontato di come si fosse innamorata follemente del Tifone Umanoide, prima che andasse a soffiare i suoi venti di distruzione dal lato opposto del globo. Insomma io mi sono fatto dire dove ti trovassi. Sono anni che ti cerco, Vash the Stampede!»
«Se è per la taglia, sbrigati a impacchettarmi e portami in prigione. Almeno il pasto è gratis.»
«Non dire stronzate, amico! La tua taglia è stata revocata più di un secolo fa!»
Con un cenno della testa, Vash lasciò trasparire come la cosa gli fosse sfuggita di mente, ricordando gli anni passati a scappare ininterrottamente ai cacciatori.
«Allora levati dai piedi, teppista. Non voglio umani nella mia proprietà.»
«Ma quale proprietà, ‘sto posto cade a pezzi! Non me ne frega niente né di te, né del tuo dolore e meno che mai dei tuoi giorni passati in coma etilico. Voglio che mi addestri.»
Calò il silenzio tra i due individui, una pausa nel loro burbero dialogo di cui approfittarono i suoni del deserto per farsi sentire.
Poi una fragorosa risata di Vash.
«Di tutte le idiozie che abbia mai sentito in vita mia, questa è la più grossa! E ho 253 anni!»
«Non me ne frega niente, addestrami!»
«Addestrarti a cosa? Sparisci, stupido, ho spedito all’ospedale più persone io che ogni disastro naturale questo pianeta sperduto abbia mai visto.»
«Per questo voglio addestrarmi con te! Voglio diventare un pistolero abile, il migliore che ci sia!»
«Scordatelo! Fuori di qui.»
«Sono disposto a pagarti. Con talmente tanti soldi che potrai acquistare tutti i saloon della città.»
Un’altra pausa necessaria a Vash per valutare l’offerta.
«E potrai comprarti valanghe di ciambelle.» lo stuzzicò il marmocchio, «Inoltre conosco una ragazza, Tina. Lei sa far girare la testa perfino ai Plant, se ben pagata.»
Quell’irritante ragazzaccio sapeva il fatto suo. Vash mugugnò una risata.
«Perché vorresti diventare tanto bravo?»
«Perché tu non fai più il tuo lavoro.» rimbeccò il giovane con asprezza.
«Che intendi?»
«Da quando sei sparito, i criminali e i despota spadroneggiano senza restrizioni per tutto il pianeta. Donne e bambini soccombono inermi ai loro piedi mentre vengono violentati e chiunque provi a ribellarsi fa la fine di un colabrodo, talmente pieno di buchi che nemmeno i genitori riescono a riconoscerli.»
«Non mi stupisco, è per questo che ho chiuso i battenti. Se davvero è così dura là fuori, come mai tu vuoi opporti?»
«Perché ho più cervello di tutti quei cretini là fuori! Perché ho due dita di pelo nello stomaco, necessarie per fare il lavoro sporco e assassinare queste mele marce. E soprattutto perché con un’arma in mano non mi ferma nessuno.»
Un ghigno compiaciuto: «Avrei detto perché sei arrogante come pochi.»
«Vedila come vuoi ma alla gente serve un eroe ora più che mai. Tu ci hai provato e hai fallito ma so che eri il migliore con quel cannone che stringi tra le dita. Insegnami a sparare come si deve e al resto penso io.»
«Non puoi reggere il confronto con me, marmocchio. Io sono un Plant, razza superiore. Tu sei solo un ometto.»
«Sarà, però io sono un ometto lucido e tu un vecchio ubriacone senza carica.»
Vash lo squadrò: «Come sai che sto esaurendo le forze?»
«Il tuo pelo.» controbatté il moccioso, indicandogli la chioma ispida, «Quando un Plant sta per esaurirsi, la sua peluria cambia colore. Più il nero avanza, più vicino è alla sua fine. In quella foresta che ti ritrovi in faccia c’è solo una ciocca bionda.»
Il Tifone si complimentò: «Hai una buona vista, falchetto dei miei stivali.» Con le dita sollevò una fascia di capelli dorati, solitari nel resto della sua chioma.
«Dovresti vedere come sparo bene! Posso centrare una pulce a cinquanta chilometri. Ti farebbe comodo, con quei pidocchi che ti ritrovi in testa.»
La pazienza di Vash si esaurì: «Molto bene, usciamo e vediamo che sai fare.»
Ad ampi passi accompagnò il piccolo avversario nella landa desolata, stringendo la pistola tra le dita. Notò che anche lui aveva un’automatica in pugno, una di quelle con quindici bossoli nel caricatore. Si voltò e gli disse: «Schiena contro schiena, venti passi. Ti giri e spari. Prova ad uccidermi, se ci riesci.»
«Mi servi vivo.»
«Ficcati in quella zucca vuota che non ti addestrerò! Questo è un duello mortale. Se vinci tu, sarai l’uomo che ha ucciso Vash the Stampede, un’impresa che nemmeno i dodici Gung-Ho Guns sono riusciti a compiere. Sarai temuto dal mondo intero, nessuno oserà toccarti con un dito. Venti passi.»
Il ragazzo ghignò, colmo di fiducia in sé stesso e nelle pessime condizioni del leggendario Tifone Umanoide. Si girò di spalle e sfiorò la schiena appiccicosa dell’ubriacone.
Uno… due… tre… quattro…
Lo avrebbe ridotto a brandelli, avrebbe potuto salvare l’umanità e sfidare tutti a testa alta.
Cinque… sei… sette… otto…
Sarebbe diventato l’uomo più temibile del pianeta, avrebbe portato la serenità tanto agognata.
Nove… dieci… undici… dodici…
Tutti i peccati del mondo sarebbero stati puniti.
Tredici…quattordici…quindici…sedici…
Altri quattro passi e avrebbe cambiato la sua vita per sempre. Si concentrò, stringendo la presa sul manico.
Diciassette…
“Ci siamo” pensò.
Diciotto…
“Tieniti pronto, Vash.”
Diciannove…
“La vittoria è mia!”
Venti.
Si girò di scatto con la pistola alta, strinse appena il grilletto, pronto a far fuoco… ma percepì una ciocca dei suoi capelli separarsi dal cuoio all’apice della testa e due pallottole radergli le basette, a un soffio dai lobi delle orecchie. Con gli occhi sgranati dal terrore, come un uomo che guarda la morte in faccia, osservò inerme lo spettacolo del Tifone Umanoide, appena di profilo, che reggeva la pistola di traverso, osservarlo con la coda del suo occhio da demone. Uno spettacolo raccapricciante.
Cadde in ginocchio assieme alla sua pistola, che rimbalzò sul suolo con un tonfo. I punti lacrimali si gonfiarono di acqua salata pronta a sgorgare. Vash si stagliò davanti a lui.
«Non provare a piangere, teppista!» sbraitò l’ubriacone, «Se non hai la forza di ammettere la sconfitta, sparisci dalla mia vista.»
«Come…come…» balbettò, «come hai fatto? Io sono stato veloce…»
«Veloce? Tu quella la chiami velocità? Dio santo, lento come una lumaca, questo sei stato! Ho visto pistoleri sollevare armi gigantesche ed estrarle con una rapidità tale che ti avrebbe lasciato secco prima ancora che tu potessi estrarre il tuo giocattolo! Non avresti avuto il tempo di renderti conto di essere stato colpito! Sei un fallimento, sparisci prima che decida di farti fuori sul serio.»
Vash fece qualche passo in direzione della sua catapecchia.
«Farmi fuori sul serio?» strillò con amara rabbia il ragazzo alle sue spalle, «Che dovresti fare sul serio? Sei solo un ubriacone buono a nulla, non sei in grado nemmeno di uccidermi! Dici che sono lento? Beh, tu sei il più stupido della razza superiore! Il mondo là fuori sta subendo la più grossa crisi mai affrontata dal tuo scontro con Knives e tu resti qui a cazzeggiare! Ritorna da noi e combatti!»
«Non ne vale la pena.» rispose piatto Stampede, senza fermarsi.
«E allora addestra me e rendimi il più forte! Sarò io a salvare il mondo.»
Vash si bloccò. Non poté fare a meno di essere incuriosito dalla cocciutaggine determinata di quel ragazzo, sapendo però che la determinazione non sarebbe bastata. Si diede il tempo per riflettere. Cosa ci avrebbe guadagnato accollandosi quel moccioso? Solo seccature… d’altro canto il marmocchio avrebbe potuto rendersi utile.
Sospirò sperando che fosse una buona idea.
«Come ti chiami, marmocchio?»
«Nicholas Denis. Gli amici mi chiamano Wolf.»
Vash si voltò, con un’aria divertita disegnata in volto. Lo guardò per la prima volta come si deve e non poté fare a meno di riportare alla mente il volto del suo defunto migliore amico.
«Sì, credo proprio che ne varrà la pena, Wolf.»

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
 
«Forza, in piedi, perdigiorno!»
Con un calcio ben assestato, Vash spinse Wolf giù dal bivacco che l’apprendista aveva trascinato con un fagotto a tracolla durante i suoi viaggi.
«Ma che diavolo! Puoi svegliarmi meglio, la prossima volta?»
«No! Quando viaggi nel deserto da solo, a volte non puoi nemmeno dormire. Ringrazia che non ti abbia sparato. Ora raccogli tutte le bottiglie che trovi e sistemale nelle casse.»
Lo trascinò fuori dalla catapecchia, costringendolo a portare sulla schiena la torre di Babele di fiasche.
«Non penserai che sia diventato il tuo schiavo! Perché non ti porti da solo la spazzatura?»
«Primo, perché ho un braccio solo. Secondo, perché questo è un allenamento: tieni quelle casse in equilibrio sulla schiena e non far cadere nemmeno una bottiglia.»
«Se no che fai, sentiamo?» rimbeccò sprezzante Wolf, che ricevette uno sbuffo secco dal suo maestro come risposta.
La città distava venti chilometri dalla catapecchia, a passo spedito mezz’ora era più che sufficiente. Con cinque casse sulla groppa, il ragazzo ci impiegò un’ora buona, esitando a ogni passo per il precario equilibrio delle bottiglie. Nella strada desertica che li divideva dal covo, cinque punti del sentiero erano macchiati di cocci.
«Ora hai un debito con me di due doppidollari.» sentenziò Vash.
«Cosa? E perché?»
«Perché due bottiglie restituite integre all’emporio valgono un doppiodollaro e tu ne hai rotte quattro.»
«Veramente ne vedo cinque.»
«Bene, due doppidollari e cinquanta. Muoviti, l’emporio è dall’altro lato della città e siamo ancora all’ingresso. Di questo passo arriveremo a mezzogiorno.»
Il ragazzo s’infuriò e iniziò a correre ignorando il tintinnio del vetro sulle sue spalle, percorrendo tutta la città in meno di venti minuti. Quando arrivò davanti all’emporio, posò le casse con un’espressione soddisfatta. Qualche minuto dopo, Vash lo raggiunse comodamente accompagnato da un motociclista su un chopper.
«Grazie del passaggio, Small, ci vediamo!» salutò Stampede lanciando un cenno con la mano al centauro, che rispose rombando i motori.
Wolf lo guardò con vanità: «Allora, chi è arrivato per primo?»
«Quanto hai in tasca?»
«Dodici doppidollari.»
«Bene, te ne mancano trenta. Guarda un po’ qua dietro.»
Per tutta la lunghezza della strada maestra, i cocci di bottiglia variopinti costellavano la polvere. Nicholas distorse le sopracciglia, infastidito dall’errore rinfacciatogli.
«Buttarti a capofitto contro le difficoltà ti condurrà solo a sbagliare qualcosa,» lo richiamò Vash, «che nel caso di una sparatoria significa andare incontro a morte certa.»
«Questa non è una sparatoria. Non ci sono state conseguenze tragiche.»
«E’ qui che ti sbagli. Entra con me nel negozio.»
Con la spalla al di sopra del moncherino, Vash scostò le ante dell’emporio e salutò il proprietario.
«Buongiorno a voi, signor Blueberry.»
«Vash! Non ricordo l’ultima volta che sei entrato lucido qua dentro.»
«Nemmeno io ma non infierite. Il ragazzo qui presente si chiama Nicholas, ha con sé le casse delle bottiglie che ho scolato. Quanto mi dareste in cambio?»
Il negoziante uscì dal bancone e contò le bottiglie. Quando finì di contare, si mostrò esterrefatto: «Accidenti! Qui ci sono centotrenta bottiglie! Come hai fatto a berne così tante?»
«In realtà le tenevo da parte da parecchi mesi. Sa, contavo di farmi un gruzzoletto.»
«Ma questo è troppo! Il totale ammonta a 1500 doppidollari.»
Wolf si voltò sbigottito verso il sorridente Plant, al punto che si pentì di aver perso quarantadue verdoni facili per la sua spacconata.
«Bene, mister Blueberry.» commentò con un largo sorriso Stampede, «Quel denaro non me lo date in contanti ma fatemi acquistare dal suo negozio vari articoli.»
«Ho capito, è come se un mio cliente mi facesse credito.»
«Esatto, solo che in questo caso lei mi deve dei soldi.»
«Ci sto Vash. Ma non provare a fregarmi, intesi?»
Il monco iniziò ad ammonticchiare oggetti di ogni sorta, da beni di prima necessità a roba di cui Wolf si chiedeva l’utilità, come indumenti non della sua taglia, placche di metallo, invisibili fili di nylon e addirittura un casco da minatore. La prima giornata di acquisti sottrasse trecento doppidollari dal loro credito con l’emporio, tutta roba che, per la seconda volta, Wolf fu costretto a trascinare sulla groppa.
«Allora, che dicevi sulle conseguenze della tua corsa?» chiese Vash, lasciato il negozio.
«Che se fossi stato attento avremmo avuto più soldi a disposizione.» rispose Nicholas con sufficienza.
«Lieto di sentirtelo dire. Ora andiamo al “Chinger Motel”, oggi dormiamo in città.»
«E perché?»
«Smettila di chiedermi le cose prima, saprai a tempo debito.»
Raggiunsero il posto per passare la notte, dove la signora Chinger, amica di vecchia data del Tifone Umanoide, chiuse un occhio sul prezzo della camera e accettò i pochi dollari sottratti a Wolf come caparra. Dopo undici piani a piedi con i bagagli, Wolf era pronto per gettarsi sul letto ma la mano di Vash lo bloccò dalla spalla.
«Che c’è? Altro lavoro?»
«No, conseguenze delle tue azioni. Prendi la scopa, la paletta e una busta. Anzi, meglio due.»
L’apprendista estrasse gli utensili e seguì il maestro in strada.
«Togli tutti i pezzi di vetro che trovi, non deve rimanere un coccio.» ordinò Vash, «Se anche un solo pezzo di vetro resta a terra, questa sera dovrai eseguire tante flessioni quanti doppidollari mi hai fatto perdere.»
«Solo quarantadue? Non mi sembra troppo difficile.»
«No, la somma la calcoleremo in base al numero di cocci che riporterai qui stanotte. Ogni pezzo di vetro, mezzo doppio dollaro. Buon lavoro.»
«Questo non è un addestramento, è nettezza urbana!»
«Devi imparare un mestiere per guadagnare soldi in caso di emergenza. Quindi ti sto insegnando qualcosa. Forza, mettiti all’opera e poche storie.»
Wolf lanciò un grido di collera spazientita che si udì in tutta la città, si legò le buste si plastica al cinturone e iniziò la raccolta dei rifiuti partendo dalla sua destra. “Stavolta non mi fregherai, Stampede!” pensò costringendosi ad essere meticoloso nella sua ricerca dei pezzi di vetro. Il suo lavoro forzato lo costrinse a setacciare gli angoli della città fino a notte inoltrata, lasciandosi offrire dal suo mentore il casco da minatore per continuare le ricerche anche al buio. Si ritirò nel motel quando le lune erano esattamente sopra la sua testa, trascinando due pesanti fagotti di plastica pieni di cocci.
«Ho finito!» esclamò trionfante, spalancando la porta «Avanti, prova a guardare per strada! Nemmeno una scheggia.»
«Inizia a contare i cocci.»
«Cosa? E perché? Non ci sono pezzi di vetro.»
«Ne sei proprio sicuro? Guarda in direzione del covo.»
Nicholas sporse la testa fuori dalla finestra e, scintillanti come stelle, vide i cocci delle prime cinque bottiglie lasciate in mezzo al sentiero desertico.
«Ah no! Quei pezzi di vetro non sono in città, non valgono!»
«Ecco, sei privo di attenzione e superficiale. Io non ho detto “togli i pezzi di vetro che vedi in città”. Ho detto “togli tutti i pezzi di vetro che trovi”. Se sei andato al limitare della strada maestra, gli avrai visti per forza ma la tua zucca irrimediabilmente vuota ha ben pensato che non li avrei notati e ti ha convinto a risparmiarti la fatica. Presupporre che il tuo avversario sia inferiore a te o difetti in qualcosa è un buon metodo per farti ammazzare, come hai sperimentato ieri dopo il nostro duello. Mi hai sottovalutato perché ero pervaso dai postumi della sbornia, eppure hai perso. Io non uccido ma non tutti sono Vash the Stampede. Ora conta i cocci e non sbagliare a contare.»
Wolf digrignò i denti con rabbia e aprì le buste di plastica, iniziando una conta disperata del suo bottino. Nel frattempo notò che Vash si era dedicato a cucire qualcosa in un gilet acquistato all’emporio, imbottendolo parecchio. Forse aveva intenzione di dargli una sorta di armatura, per questo aveva acquistato un capo d’abbigliamento così largo. Quando terminò la conta, quasi gli venne da piangere quando disse la cifra esorbitante di 352 pezzi di vetro.
«Bene, sono 8800 doppidollari.»
«Non riuscirò mai a fare tutte quelle flessioni!»
«Hai ragione, per un uomo come te sarebbe troppo. Allora le distribuiremo in archi di tempo.»
«Vale a dire?»
Vash esibì un ironico sorriso: «Ogni settimana dovrai compiere in totale 8800 flessioni.»
«Cosa? Sei matto, sono quasi 1300 flessioni al giorno!»
«Appunto, hai sette ore prima dell’alba. Cominciamo.»
Posato sui palmi delle mani, Vash numerò pazientemente i piegamenti del ragazzo, tenendolo costantemente d’occhio senza mollarlo un istante. Lo costringeva a un intervallo di due minuti ogni venti flessioni, così da dare ai suoi muscoli un ritmo scandito. Ogni volta che Nicholas provava a ingannarlo saltando un numero della conta, lui posava i talloni sulla schiena dolorante per i carichi trasportati tutto il giorno, convincendolo a riprendere la cadenza stabilita. Dopo la quinta serie di flessioni, le braccia del giovane iniziarono a pulsare dalle fitte. Dopo la decima, erano completamente indolenzite. Alla dodicesima, i polsi s’intorpidirono, perciò Vash gl’impose di continuare poggiandosi sulla mano chiusa a pugno. La difficoltà aumentò sensibilmente, al punto che Nicholas percepì dolore anche in fondo alle ossa dopo la quindicesima serie.
«Vash, non ce la faccio più.» piagnucolò, ricevendo come incoraggiamento solo i talloni sulle spalle.
«Quando sei piombato in casa mia hai detto che saresti stato il migliore dei pistoleri. Ficcati in quella zucca vuota che per diventarlo devi avere un fisico che superi oltremodo i normali esseri umani. Se hai limiti da umano, non posso addestrarti, perché i miei limiti sono da Plant. Ma se vuoi gettare la spugna, peggio per te.»
«Vedi di farti fottere, Vash! Ho solo sedici anni, non posso allenarmi come un militare già dal primo giorno! Devo riconoscere i miei limiti, altrimenti romperò ogni bottiglia che trasporterò nei prossimi giorni, da qui fino all’eternità.»
Il Tifone Umanoide allargò nella barba un ampio e giallognolo sorriso: «Bravo, hai capito la lezione di oggi: consapevolezza. Era ora che accendessi il cervello. Domani ripeterai questo esercizio prima di pranzo e prima di cena. Non avrai scuse, dovrai fare tutte e sessantacinque serie di flessioni. E niente dilazioni.»
Nicholas, unto di sudore, si tuffò nel letto, piombando tra le braccia di Orfeo in uno schiocco di dita. L’indomani si destò stropicciandosi gli occhi, trovando il letto di Vash vuoto. Si sporse dalla finestra domandando ai suoi occhi assonnati se lo vedessero da qualche parte. Non scovando la sua sagoma da nessuna parte, si mise al lavoro, poggiandosi sui palmi delle mani. Sorprendentemente, non percepì nessun dolore prima di iniziare, sebbene lo sforzo fisico del giorno prima lo avrebbe dovuto rendere paralizzato per via dell’acido lattico.
«Buongiorno, perdigiorno.» esclamò Stampede, spalancando la porta e reggendo una busta di carta nel braccio sano.
«Vash, hai per caso fatto qualcosa alle mie braccia stanotte? Non sento alcun dolore.»
«Ci sono innumerevoli rimedi per degradare l’acido lattico. Il migliore, oltre ad essere il più sicuro per il tuo corpo, è consumare un’alta dose di magnesio, che io ti ho somministrato per endovena durante il sonno. Sai cosa sono gli acidi e le basi?»
Nicholas scosse la testa.
«Detto in parole povere, sono sostanze che si bilanciano a vicenda se inserite in uno stesso ambiente. Come dice il nome, l’acido lattico è una sostanza acida. Inserendo magnesio nella stessa soluzione si ottiene un annullamento dei suoi effetti infiammatori, perché il magnesio è basico.»
«Forte! Quindi posso uccidermi di allenamento e tu puoi rimettermi in sesto ogni volta.»
«Non è così semplice, nel tuo caso. La maniera migliore di introdurre magnesio nel tuo corpo è tramite l’alimentazione, farlo per endovena significa compromettere l’equilibrio di molte funzioni cellulari. Posso farlo solo per questa prima settimana, ma poi dovrai fare una dieta molto bilanciata.»
«Non sarà facile, senza il cibo adatto.»
«Questo non è un problema, nell’emporio ho trovato una quantità industriale di integratori!» ribatté Stampede, svelando il contenuto della sua busta: moltissimi pacchetti di carta con su scritto “Idrato di Magnesio – per tutti gli sportivi”.
«Dovrai bere tre bustine ad ogni pasto! Sarai una macchina da guerra inarrestabile per gli esercizi!»
«Fantastico! Voglio provarne subito una!»
Riempiendo un bicchiere di acqua, rovesciò il contenuto di un pacchetto nel liquido, che si colorò di un bianco opaco. Bevve tutto in un sorso e sputò tutto in faccia al suo maestro, con un’espressione disgustata.
«Bleah! Fa schifo! Che saporaccio!»
«Dai, non può essere tanto male, fammi provare.» buttò giù un bicchiere anche Vash, sputandolo sul volto dell’allievo con la medesima faccia contorta, «Aaaah! Hai ragione! Fa schifo da morire!»

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
 
I giorni passarono rapidamente, tra sessantacinque serie di flessioni ogni dì e altrettante la sera. Nelle prime due settimane, alternando ai pasti tutti i disgustosi integratori di magnesio pescati dall’emporio, i muscoli di Wolf erano stati araldi dell’agonia, tanto tesi che anche sollevare una matita gli causava tremori fino alle spalle. Dopo il primo mese, quando i bicipiti furono in grado di sopportare quella tortura, Vash lo costrinse allo stesso calvario di addominali, 8800 da consumare in una settimana. Altre due settimane furono un concerto di urla e numerazione ritmica, con calcagni appoggiati sul corpo in allenamento come unico incoraggiamento. Più Nicholas tentava di non cedere alla fatica, più il suo fisico chiedeva pietà: sebbene la sua determinazione fosse forte, i suoi muscoli non lo erano altrettanto. Almeno non ancora.
Passarono due mesi, in cui l’allievo del Tifone Umanoide non aveva toccato nemmeno una volta la pistola: i palmi delle sue mani passavano dal suolo polveroso alla nuca intrisa di sudore. Più si lasciava alle spalle mesi di esercizi sfiancanti, più si rendeva conto di come il suo corpo stesse crescendo: il volume delle sue spalle si stava allargando, il ragazzino macilento che si era presentato al cospetto di Vash the Stampede era un ricordo passato. Ora gli indumenti con cui era arrivato non gli andavano più larghi, pian piano i muscoli riempivano lo spazio vuoto. Agli occhi di un bicentenario Plant monco e peloso, un teppista di strada stava diventando un uomo.
«Guarda un po’ che bicipiti, Vash!» si pavoneggiò al bancone del saloon. «Potrei sollevare quelle stupide casse di bottiglia con un braccio solo.»
«A proposito di sollevare, dovremmo pensare a trovarti un lavoro. I soldi scarseggiano e tu non hai ancora saldato il tuo debito.»
Wolf sbuffò esageratamente per marcare il suo fastidio: «Tu stai approfittando delle mie braccia con la scusa del moncherino.»
«Al contrario, ti insegno cosa significa duro lavoro e sacrificio per perseguire i propri obbiettivi. Sai quant’è stata dura dover lottare attraversando raffiche di mitragliatrici non potendo uccidere il mio avversario? Eppure sono conosciuto come il Tifone Umanoide, il cui nome genera un fuggi-fuggi generale e che demoralizza anche il più temibile degli avversari. E sai come ho fatto? Duro lavoro e sacrificio.»
«Mi sorprende che la gente non ti conosca bene quanto me, altrimenti si farebbe un mucchio di risate nel vedere l’Ubriaco Umanoide… o preferisci la Giungla Umanoide?»
«Allora ingoiati le tue risate o te le spingo giù per l’esofago con le mie… la mia mano. Scherzi a parte, andiamo a risolvere questa questione.»
«Quale? Il pelo?»
«Sì. Guardati allo specchio, non sono il solo ad aver bisogno di una ripulita.»
Voltandosi verso la larga superficie riflettente, Wolf dovette ammettere che a stento si riconosceva lui stesso: i peli della pubertà spuntavano intermittenti e la chioma lunga, cascante oltre le sopracciglia, era caotica e indomabile come il piumaggio di un toma. (N.d.A. Il toma è una bestia da trasporto che nell’universo di Trigun sostituisce le cavalcature, è un grigio bipede gallinaceo, come i Chocobo di FinalFantasy)
Wolf seguì a grandi passi il suo maestro diretto al Chinger Motel, chiedendosi come mai non si fosse rivolto ad una sala da barba. Senza esprimere questo suo dubbio ad alta voce, accompagnò la porta con una mano e uno scampanellio avvisò la locandiera del loro ingresso.
«Buongiorno, Vash! E’ bello vedere che hai deciso di fare qualcosa, alla fine. Ciao, Wolf.»
Il ragazzo accennò un saluto con il capo, mentre la benevola voce del maestro riempì l’atrio: «Buongiorno a te, Rose! Devo ammettere che ricordarsi quello che avviene la notte prima è una bella sensazione.»
Risate.
«Senti, mia cara, dovrei chiederti un favore. Maneggi ancora le forbici con quella grazia tanto nota a Inapril City?»
«Ah, non provocarmi, mascalzone!» s’indispettì la corpulenta locandiera, ammonendo lo svergognato monco con un dito oscillante, «Non taglio barba e capelli da una vita ma puoi star certo che dovrai pagarmi molto bene!»
«Suvvia, Rose, non potresti chiudere un occhio per stavolta? O devo proprio dimenticarmi le buone maniere e rinfacciarti il favore che ti feci qualche mesetto fa?»
«Brutto serpente approfittatore dalla lingua lunga! Non sei affatto un paladino del popolo, sei un gran bell’imbroglione!»
«Va bene, mi arrendo.» asserì il barbuto, lasciando trapelare un “Canaglia!” tra i denti in modo che tutti i presenti sentissero.
«Tu mi paghi venti doppidollari. Nicholas, per te lo faccio gratis, sei un così caro ragazzo. Aspettatemi qui, vado a prendere il necessario.»
La corpulenta rosa svanì tra le tende del retrobottega e, una volta fuori pericolo, Vash squadrò il suo succube apprendista. Rispondendo accigliato alla silenziosa imposizione, Wolf porse all’unica mano callosa due biglietti verdi, trasformando il volto burbero del maestro in un sorriso beota, perfettamente in tempo con lo scostamento della quinta e l’entrata in scena di Rose nel ruolo di acconciatrice.
Lasciando accomodare gli ospiti e avvolgendo il voluminoso giovane petto di Nicholas in un lungo panno, la locandiera distese sul volto del ragazzo della vellutata schiuma bianca per la rasatura. Vash le sussurrò all’orecchio il da farsi e, nell’arco di mezz’ora di guizzanti sforbiciate e ruvide sferzate di rasoio, Nicholas Denis divenne un vero damerino: un fluente casco di pece delineava l’ordinata crescita curvilinea dei capelli e due stupende e rettangolari basette incorniciavano il volto fino all’angolo della mascella. Wolf aveva ripreso le fattezze di un ragazzo; lui stesso lo ammise e ne rimase stupito, osservando l’immagine che Rose gli offriva reggendo uno specchio.
«Caspita.» balbettò, «Sono davvero irriconoscibile.»
«Quasi non sembri più un teppista.» lo canzonò Vash, «Ora va’ per strada e conquistale tutte.»
Tra le risate squillanti di Rose, il giovanotto inarcò le sopracciglia perplesso.
«Dovremo lavorare sulla tua vista periferica, Nicholas. Perché solo un fesso come te non si è accorto di tutte le fantastiche fanciulle che ti guardavano allibite e pervase d’amore al bancone del saloon.»
Con questa nota ironica, Stampede riuscì a strappare il primo sorriso spontaneo sul volto dell’apprendista, che senza farselo ripetere due volte si precipitò fuori dal motel per dedicarsi alla caccia.
«Cos’è quel sorriso piacevole che hai stampato in volto?» lo punzecchiò Rose quando Wolf fu lontano.
Ma lui non rispose, la sua mente era immersa nei ricordi di molti anni fa: nel deserto, un uomo, la sua croce e la sua posa teatrale lo avevano atteso come se il loro incontro fosse stato scolpito sulla roccia irremovibile del destino. Era stato un prete, una guida, un compagno, a tratti bizzarro ma sicuramente il miglior amico che un Plant potesse desiderare in duecento anni e mezzo. Nella sua memoria, le prime parole che si scambiarono erano rimaste intagliate come un messaggio di amore sulla corteccia di un albero: “Era ora! Finalmente ti vedo sorridere anche con il cuore.” All’orecchio di Rose aveva chiesto di modellare la chioma del ragazzo a immagine e somiglianza del più altruista prete mercenario che quel pianeta desertico e inospitale avesse mai visto. D’altronde anche la somiglianza del nome lo aveva convinto a tenere Nicholas con lui. Wolf non era ancora pronto al fardello che avrebbe dovuto portare, a cosa davvero il Tifone Umanoide stesse preparando per lui. Aveva ragione, l’apprendista, nell’affermare che avrebbe ricevuto un’eredità cospicua: però non quella di un pericoloso individuo temuto da tutti ma quella di un uomo che aveva diretto ogni sua azione verso il bene del prossimo.
Mentre senza rendersene conto una calda lacrima si perdeva nei peli ispidi della barba, sentì la mano grassoccia di Rose afferrarlo dal suo disperso ricordo e riportarlo alla realtà. Annuì alla donna e si preparò a rivedere il suo viso smarrito.
***
 
Passò quasi un’ora, Wolf si era appollaiato nel saloon solitario con un boccale di birra, in barba al barista che continuava a diffidare (giustamente) della sua maggiore età. Era perso nell’autocommiserazione, perché non trovava il coraggio di spingersi qualche metro più in là verso il tavolo con le più belle fanciulle della città. Si sentì ridicolo, proprio lui che aveva sfidato con sfrontatezza il Tifone Umanoide, rischiando di ritornare a casa bucherellato. Quando avvertì l’alcol infondergli calore e coraggio, prese un bel respiro e si alzò in piedi deciso a fare la sua mossa. Però la coda dell’occhio cadde accidentalmente sulla porta del Chinger Motel: stagliato sull’atrio, l’alto maestro sfoggiava una scura capigliatura nera dritta verso il cielo, come dure setole di una spazzola. Pochi ciuffi cadenti ricadevano sul suo viso, così gioviale e privo di segni di vecchiaia che non dimostravano nemmeno uno dei suoi 253 anni. Gli occhi smeraldo raggiunsero l’allievo oltre la finestra del saloon e convinsero gli stivali a raggiungerlo.
Faccia a faccia, Vash ebbe una sensazione di dejà vu, guardando le iridi castane del ragazzo.
«Caspita.» esclamò sorpreso Wolf, «La gente potrebbe pensare che sono io quello più vecchio.»
«Nossignore, tu hai proprio lo sguardo di un teppista. Vedo che la missione non si è conclusa con successo.» rimbeccò Vash, indicando con il pollice il tavolo ormai vuoto alle sue spalle.
«Non sono affari tuoi, vecchio.»
«Invece sì, zucca vuota. Ti faccio una semplice domanda: se fossi andato a presentarti, dove sarebbero le ragazze?»
Ancora una volta, le sopracciglia inarcate squadrarono il Plant perplesse: «E’ una domanda a trabocchetto o mi stai prendendo in giro?»
«Affatto, rispondi. Anche se la risposta ti sembrerà ovvia.»
«Beh, credo sarebbero ancora sedute al tavolo a parlare con me.»
«Bene. Hai inteso cosa sto cercando di dire?»
Una pausa nel dialogo diede il tempo a Wolf di pensare alla risposta, che fu: «Che se avessi agito sarebbero rimaste?»
«Questa è una cosa ovvia. Però tentennare sul successo della tua azione è tempo che sprechi. Il succo della questione è “agisci”. Vuoi salvare delle persone importanti? Vuoi vincere un duello? Vuoi addestrarti per diventare il più forte? Se davvero è così, perdere tempo a pensare non ti servirà a niente, devi agire al momento opportuno. Io ti renderò tanto forte da non doverti preoccupare delle conseguenze delle tue azioni ma se non agirai quando servirà e perderai le tue occasioni, questi due mesi insieme e i prossimi che ti attendono saranno tempo sprecato. Agisci.»
Sulle spalle di Wolf ricadde come un macigno granitico la consapevolezza delle vere abilità del suo maestro: si rese conto che esiliarsi in un luogo per sostenere infinite sessioni di allenamento non avrebbe mai potuto istruirlo su come perseguire il suo obbiettivo. Vash glielo stava facendo capire a chiare lettere: il vero addestramento non è segregazione, è la vita l’unica universale maestra.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

 
Al tatto poteva sentire la ruvida bandana andare da un capo all’altro delle sue tempie. Si assicurò che il nodo fosse stretto come il maestro gli aveva intimato. Attorno a lui calò l’oscurità, la luce filtrava appena attraverso la stoffa bianca e le palpebre.
«Vash?» lo appellò Nicholas, alzandosi incerto dalla sedia, «Anche questo è allenamento?»
«Qual è, tra i cinque sensi, quello cui ti affidi di più?» lo interrogò il maestro
«Facile: la vista.»
«Esatto. Con gli occhi puoi prendere la mira, osservare la situazione, analizzare indizi e oggetti attorno a te. Però la vista non è l’unica via.»
«Taglia corto Vash, che devo fare?»
Vash sbuffò spazientito: «Perché devi sempre rovinare la festa? Comunque, ora svilupperemo la corteccia del tuo cervello adibita alle sensazioni speciali: ripeterai gli stessi allenamenti ma affidandoti a udito, olfatto e tatto.»
«Non posso sentire quello che non tocco, Vash.»
«Cretino, con tatto non parlo solo dei polpastrelli delle tua dita. La tua zucca vuota può fornire indicazioni precise sulle variazioni di temperatura e pressione, addirittura sulla posizione del tuo corpo rispetto allo spazio, tutte sensazioni percepite dai recettori tattili della tua pelle.»
«Ma tu come le sai tutte queste diavolerie scientifiche?» borbottò sprezzante Wolf.
«Prima di atterrare sulla terra, ho vissuto in una nave colonizzatrice per anni. Noi Plant apprendiamo in fretta e l’anatomia umana è elementare. Ora bando alle ciance e torniamo in città.»
Wolf si rese finalmente conto di quanto fosse snervante essere cieco: ogni suo movimento era guidato dall’incertezza e dal timore di incontrare un qualsiasi ostacolo sulla sua via. Infatti udì distintamente un tintinnio, percependo una superficie fredda entrare in contatto con la fronte, il che lo fece sobbalzare per la sorpresa: con questo brusco movimento, attorno a lui iniziò un concerto di scampanellii.
«Che diavolo era? Mi sono spaventato a morte» abbaiò.
«Ogni giorno a partire da oggi ti sottoporrò a questo esercizio: devi uscire dal covo senza urtare questi campanelli a vento che ho appeso sul soffitto. Ce ne sono moltissimi, legati ad altezze diverse e ovunque nella stanza. Io cambierò sempre la loro disposizione, così che tu non possa affidarti alla memoria. Ti toglierai quelle bende dagli occhi solo quando riuscirai a entrare e uscire da qui senza far tintinnare i campanelli.»
«Puoi almeno dirmi quanti sono?»
«Ti piacerebbe. Io ne ho comprati parecchi ma posso tranquillamente non appenderli tutti. Sta a te doverli schivare.»
La stanza si riempì di imprecazioni e intermittenti trilli metallici, poiché Nicholas colpiva con la sua robusta mole ogni singolo pezzo di metallo pendente dal soffitto. Riuscì perfino a percepirli all’altezza delle ginocchia, urtandoli con i piedi. Vash non aveva mentito: erano dappertutto e non riusciva a scollarseli di torno. Impiegò oltre tre quarti d’ora per uscire da quella trappola per topi, rammaricandosi all’idea che non era stato in grado di schivarne nemmeno uno. I problemi, tuttavia, non si fermarono lì: scoprì che la vista aveva un ruolo chiave anche nella correzione dell’andatura, nel momento in cui andò a schiantarsi contro una parete affacciata all’uscita dalla città. Ebbe l’impressione di aver camminato troppo a sinistra rispetto alla strada principale; per fortuna Vash lo accompagnò all’imboccatura del sentiero che, con immensa sorpresa del ragazzo, era dal lato opposto.
«Accidenti, questo è solo il primo giorno senza vedere. Non resisterò a lungo.» borbottò sommessamente Wolf.
«Resisteresti, zucca vuota, se solo mi prestassi ascolto: non puoi muoverti e camminare come se avessi la vista, devi affidarti agli altri sensi» lo rimproverò il maestro, sballottandolo con il suo unico braccio. Sulle prime Nicholas pensò che il mentore si prendesse gioco di lui, ma si accorse di un dettaglio: quando Vash lo tirava verso sé, la sua pelle percepiva un’insolita aria fresca di cui non si era accorto, mentre allontanandosi da lui il freddo svaniva. Tutto gli fu più chiaro: con quello sciocco scherzetto, il Tifone Umanoide lo rese consapevole di come il suo stesso corpo lo avvertiva di essere coperto dalla lieve brezza che scorreva senza ostacoli lungo la strada. Quando la sensazione cessava era perché si trovava coperto dietro una parete.
«Ho capito, smettila di scuotermi!» ringhiò infastidito il lupachiotto, liberandosi dalla presa. Continuò la sua marcia, con le braccia protese in avanti e senza alzare troppo le suole dal terreno: le mani captavano il cambio di temperatura quando alla sua destra o alla sua sinistra appariva un crocicchio, i piedi lo avvertivano di ogni ostacolo, da grossi sassi a piccoli cumuli di polvere. Impiegando quasi due ore, si spinse fino al versante opposto della città, rendendosi conto di aver lasciato le case alle sue spalle quando ogni angolo della sua testa fu pervaso dalla brezza.
«Siamo usciti dalla città, vero?» chiese soddisfatto.
«Veramente te la sei lasciata alle spalle.» lo canzonò Vash, «Di un bel po’, anche.»
Nicholas avvertì l’impulso di strappare la benda dagli occhi per verificare se il maestro non si stesse prendendo gioco di lui, ma la sua determinazione bloccò la mano.
«Vash, quanto ci impiega la corteccia a sviluppare i sensi che hai detto?»
«Chi lo sa, dipende da persona a persona: possono volerci dei mesi, così come degli anni. Per la tua zucca vuota non saprei calcolare con certezza.»
Irritato e frustrato da quell’imbarazzante esperienza, ascoltò controvoglia il programma che il Tifone Umanoide aveva preparato per allenarlo: avrebbe compiuto gli stessi esercizi di ogni giorno e, tra flessioni e addominali, avrebbe lavorato come garzone all’emporio di Blueberry, sollevando quintali di merce, sia per guadagnare soldi sia per non permettere al ragazzo di aiutarsi ancora con le braccia per orientarsi.
Per quanto l’allenamento non fosse più un ostacolo significativo, lavorare dopo intense ore di sforzo fisico si rivelò faticoso e demotivante, specie perché nei primi giorni non ricevette un soldo a causa di tutta la merce che, da cieco qual era, danneggiava. Tuttavia, con il passare del tempo, la situazione cambiò rapidamente: dopo dieci giorni, Wolf riusciva a camminare a passo sostenuto seguendo una traiettoria rettilinea. La settimana successiva il suo senso dell’equilibrio inconscio era migliorato a tal punto da non far cadere più le casse da portare in negozio. Nel giro di un mese era capace di schivare gli ostacoli del sentiero senza sondare il terreno con passi di formica; in quello successivo, riusciva a distinguere chiaramente le dimensioni delle stanze in cui entrava, basandosi sulle percezioni cutanee e sui rumori attorno a sé. L’udito e l’olfatto si rivelarono ottime per scovare gli ostacoli, addirittura riusciva a contare le persone presenti nello stesso posto e quelle alle sue spalle solo dall’odore. Nell’arco di tre mesi la sua pelle, le sue orecchie e il suo naso erano diventati i circuiti di un sofisticato radar.
Nonostante i passi da gigante, ancora non era in grado di uscire dal covo senza far tintinnare quei fastidiosi campanellini. Dopo cento giorni di cecità, l’allievo sbottò: «Vash, mi sono rotto di questa bandana del cazzo! Non riuscirò mai a scoprire dove sono questi campanelli a vento, sono immobili e innumerevoli in una stanzetta minuscola! Non hanno odore, non fanno rumore, i miei peli non li captano senza che li urti: come dovrei fare a mancarli?»
Dopo questo urlo primitivo e collerico, uno sparo conquistò il silenzio: come avvenne durante il loro primo incontro, Nicholas riuscì a sentire la calda pallottola bruciargli appena l’apice dei capelli.
Anche non potendo vedere il Tifone Umanoide in faccia, Wolf sapeva benissimo che aveva assunto lo stesso volto truce del loro primo duello.
«L’hai sentito questo?» ringhiò Vash sommessamente; il ragazzo annuì.
«Ora drizza le orecchie e ascolta con attenzione.»
Nicholas si concentrò sul suo udito e, con immensa sorpresa, udì i piccoli pezzettini di metallo sfiorarsi tra loro, come un flebile canto di usignoli.
«Se non l’hai sentito fin’ora è perché fai lo stesso errore da pivello che hai fatto quando ci siamo incontrati: ti sei lasciato vincere dai sentimenti.» spiegò Stampede atone, «La rabbia, la paura, il timore di fallire sono tutte condizioni che offuscano la tua mente. Concentrati!»
Wolf obbedì al suo maestro e respirò profondamente per rilassarsi. I suoi sensi gli sussurrarono qual’era la strada da percorrere: la sua cute lo avvertì della secchezza del deserto proveniente dalla porta; il soffio del suo fiato sospinse i piccoli ostacoli pendenti e il loro suono divenne una linea rossa disegnata nel buio della sua cecità. Comprese che la strada per il suo obbiettivo non era una freccia diritta, ma una curvilinea sequenza di movimenti da percorrere.
Così iniziò la sua danza: si abbassava, girava su sé stesso, cambiava direzione e ritornava sui suoi passi per avanzare e trovare una nuova strada. Ogni suo movimento cambiava l’aria attorno a sé, permettendo al suo fine orecchio di captare i tintinnii più lievi e schivarli prima che diventassero sonori scampanellii. Dopo questa danza interminabile di soli pochi minuti, finalmente uscì dal covo senza aver scosso uno solo dei suoi avversari metallici. Compì un solo, trionfante passo verso le sabbie del deserto, quando urtò con la fronte un dischetto metallico.
Si sorprese di come non l’avesse percepito, affidandosi ai suoi sensi per scoprire se fosse uscito o meno dalla catapecchia: ogni suono, pelo del corpo e odore confermarono che si trovasse tra le sabbie del deserto e che l’inferno di metalli pendenti fosse alle sue spalle.
Fu in quel momento che Vash rise di gusto: «Sei stato bravo, alla fine. Volevo metterti un po’ in difficoltà.»
Nicholas balbettò dalla gioia: «Ce l’ho fatta? Posso togliermi questa benda?»
«Nossignore, hai colpito un campanello.»
«Ma che cazzo stai dicendo! Ero fuori dal covo, non è valido.»
«Non ci sono regole prestabilite. Non ci saranno mai: se affronterai orde di avversari, loro non ti rispetteranno e tenteranno di colpirti quando meno te lo aspetteresti. Non devi mai abbassare la guardia, anche se hai vinto.»
Con quest’ultima lezione, lo prese per le spalle e lo portò a festeggiare al saloon, voglioso di ubriacarsi senza ritegno.
«Vash…» lo chiamò l’allievo.
«Dimmi, Wolf.»
«Sei uno stronzo!»
 
 
Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace: non potrò mai farmi perdonare lo sgarro di essermi lasciato questa fiction così tanto alle spalle. Ma abbiate pietà: questa storia la scrivo a tempo perso, quel poco che ho XD. Inoltre, avevo parecchio da fare con il mio lavoro più importante, “Bang! L’avventura di Willy the Kid” che mi ha assorbito totalmente (e vi chiederei, appunto di andare a darle un’occhiata, magari vi piacerà???).
Grazie a voi tutti che seguite Vash e l’irritante Wolf, spero che questa storia alla Luke-Yoda vi stia interessando davvero. Un grazie, grazione a kyonnyuchan e  _sMiLeR_ che sicuramente avranno letto questo mio capitolo e a tutti voi, platea di silenziosi fan.
 
Howdy!

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