The DUFF

di lovingbooks
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nuove scoperte, nuove parole e nuove alleanze ***
Capitolo 2: *** Verità svelate, amicizie salvate e nuovi compagni di laboratorio ***
Capitolo 3: *** Vecchie tradizioni, promesse mantenute e strane commesse ***
Capitolo 4: *** Strani regali, scatti di rabbia e punizioni ***
Capitolo 5: *** Ostinate convinzioni, corse riparatrici e grandi lividi ***
Capitolo 6: *** Bugie bianche, cambiamenti interni e nuove idee ***
Capitolo 7: *** Strane richieste, scherzi poco divertenti e pigiama party ***
Capitolo 8: *** Gonne floreali, primo appuntamento e fontane di cioccolato ***
Capitolo 9: *** Luogo di ritrovi, piccole alleanze e imbarazzanti fraintendimenti ***
Capitolo 10: *** Segreti svelati, piccole sorelle e belle principesse ***
Capitolo 12: *** Strana popolarità, secondi appuntamenti e febbre alta ***
Capitolo 13: *** Sorprese piacevoli, forti mal di testa e deliri da febbre alta ***
Capitolo 14: *** Litigi pesanti, ritorni a scuola e prime volte poco carine ***
Capitolo 14: *** Fiducia riposta, consigli da adulti e altri cambiamenti ***
Capitolo 15: *** Decisioni importanti, primi baci e nuove consapevolezze ***
Capitolo 16: *** Confessioni attese, farfalle nello stomaco e reginette del ballo ***
Capitolo 17: *** Scuse importanti, verità conosciute e situazioni imbarazzanti ***
Capitolo 18: *** Importanti chiarimenti, affetto familiare e vecchie abitudini ***
Capitolo 19: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Nuove scoperte, nuove parole e nuove alleanze ***


 
Capitolo 1. Nuove scoperte, nuove parole e nuove alleanze
 
Mi ricordo la prima volta che parlammo.
 
Rapunzel, una ragazza dai lunghi capelli biondi e gli occhi verdi, anche conosciuta come la mia migliore amica, mi stava trascinando ad una festa, assicurandomi che sarebbe stata fantastica.
 
Continuava a dire: “Merida, Merida devi muoverti! Sarà bellissimo, te lo assicuro! Ci saranno anche un sacco di ragazzi!”.
 
Quando entrammo nella casa dove si teneva la festa, tutti ci salutarono. E, dopo lunghe conversazioni su scarpe e trucchi e alcuni balli con dei ragazzi molto ubriachi, decisi che era ora di abbandonare la bionda per il tavolo delle bevande.
Fu la scelta peggiore che potessi fare, o la migliore, dipende dai punti di vista. Mentre mi versavo dell’acqua nel bicchiere sentì qualcuno che sussurrava il mio nome, con aria divertita. Mi girai e lo vidi: era bellissimo e sfrontato. I suoi capelli, bianchi come la neve, gli ricadevano davanti agli occhi, che erano di un azzurro intenso, messi in risalto dalla maglietta blu che portava.
 
“Frost, non pensavo sapessi il mio nome, che grandissimo onore!” gli dissi, con aria di sfida.
 
“Sei la DUFF di Rapunzel, ti conoscono tutti” rise lui.
 
Inizialmente, non capii. Tutt’altro: ero molto confusa e la sua risata non faceva altro che indurmi a rovesciargli la bottiglia d’acqua in testa.
Ma, nonostante ciò, chiesi spiegazioni.
 
“E DUFF sarebbe la tua nuova parola per…?”.
 
Lui mi guardò sorpreso, ma poi disse: “L’amica brutta che rende più bella l’altra amica, tutti ne hanno una. E tu sei quella di Rapunzel”.
 
Chiusi gli occhi e cercai di mantenere la calma, di pensare ai prati in fiore, ai cavalli, al tiro con l’arco.
Pensai ai biscotti, alle passeggiate nei boschi, alla montagna e alla neve.
Ma poi li riaprii e vidi il suo fastidioso sorriso e feci ciò che ogni altra ragazza avrebbe fatto: gli rovesciai la brocca di birra in testa, seguita a ruota dalla ciotola dei pop corn e me ne andai, sorridendo.
Fu una bella vittoria.
Non badai a nessuno, nemmeno alla mia migliore amica, e corsi a casa.
 
Quella notte feci fatica ad addormentarmi, continuavo a pensare a tutte le mie uscite con Rapunzel, al modo in cui la gente la guardava, ignorandomi completamente.
E allora mi chiesi: e se Jack avesse ragione? E se fossi solo una DUFF?
Le mie domande avevano bisogno di risposte che solo una persona poteva darmi.
E, sapendo già cosa avrei fatto l’indomani mattina, chiusi i miei occhi per le poche ore di sonno che mi rimanevano.
La mattina corsi a scuola e quando entrai, mio malgrado, mi diressi verso la palestra.
E lì lo trovai: Jack si allenava ogni mattina prima dell’inizio delle lezioni e quel giorno, fortunatamente, era solo.
Presi una palla da basket e, mettendomi esattamente al centro del campo, senza attirare la sua attenzione, la tirai, facendo canestro: il tiro con l’arco, perlomeno, ti serviva per migliorare la mira.
Jack si girò, sopracciglia aggrottate ed espressione stupita: non se lo aspettava.
 
“Mi piace stupirti, Frost” gli dissi con tono beffardo.

Lui scosse la testa, come per riprendersi dallo stupore, e sorrise.
 
“Merida, che piacere! Sei qui per tirarmi in testa i pesi da cento chili?” mi chiese, senza nascondere la sua ironia, con un pizzico di risentimento nella voce.
 
Purtroppo, aveva ragione. E se volevo avere delle risposte, avrei dovuto fare la cosa peggiore di tutte: scusarmi con lui.
Ci misi un po’ a formulare una frase di senso compiuto, ma lui non disse niente, mi aspettò e la cosa mi rese solo più nervosa. Prima di parlare ad alta voce, presi un lungo respiro e abbassai la testa, facendo ricadere i miei lunghi capelli rossi davanti al viso.
 
“Senti, Frost, volevo chiederti scusa. Ieri sera ti ho umiliato, e mi dispiace, ma tu mi hai fatto andare fuori di testa e, precisiamo, non nel senso buono” per tutto il tempo tenni lo sguardo sul pavimento, poi delle scarpe comparirono nel mio campo visivo: si era avvicinato.
 
Alzai lo sguardo, titubante, e mi ritrovai faccia a faccia con lui e con la sua espressione da vincente. Avevo la tentazione di tirargli uno schiaffo in pieno viso, ma dovetti calmare la mia rabbia, perché, odiavo ammetterlo, avevo bisogno di lui.
 
“Sei perdonata, rossa” disse, con un sorriso in volto.

E rimanemmo a fissarci negli occhi a lungo, mentre l’aria si caricava di tensione.
Infine, decisi di fare quello per cui mi ero scusata: fare delle domande, per avere delle risposte.
 
“Frost, sono davvero la DUFF di Rapunzel?”
 
“Tutti dicono così, rossa. Ma, alla fine, a chi importa?” rispose lui, aggrottando le sopracciglia, con aria confusa.
 
“A me importa!” gli urlai contro, cercando di trattenere la rabbia che continuava a crescere dentro di me.
 
“Be’, non dovrebbe, fidati di me” disse, e poi si girò. Se ne sarebbe andato, se non lo avessi fermato, circondandogli il polso con la mia mano.
 
“Devi aiutarmi” dissi.
 
Subito capii di aver commesso un grave errore, volevo ritirare le mie parole, sprofondare nella vergogna. Mi ero appena mostrata debole davanti alla persona che odiavo più di tutte.
Lui si girò, non sorrideva, come mi aspettavo, ma aggrottava le sopracciglia e mi era sembrato di vedere, nei suoi occhi, la voglia di aiutarmi. Era stato, però, solo un attimo, perché poi si mise a ridere, a lungo. Non riuscii a non sentirmi in imbarazzo, ero andata dalla persona sbagliata. Stavo quasi per lasciargli il braccio, tirargli un pallone da basket o due in testa ed andarmene, quando lui mi guardò: aveva smesso di ridere e sorrideva in modo beffardo.
 
“E come dovrei aiutarti?” chiese, con un tono che fingeva una sincera onestà.
 
“Voglio smettere di essere DUFF, o come vuoi chiamarmi, voglio dimostrare a tutti che non sono quella che descrivono” dissi, con fermezza.
 
Un lampo nei suoi occhi mi fece capire due cose: uno, avrebbe accettato e due, sarebbe stata una cosa dannatamente difficile.
 
“Va bene, rossa, ma a una condizione”.
 
“Quale?” chiesi io, un po’ titubante.
 
“Mi devi dare il tuo numero” disse lui, senza alcuna inclinazione nel tono di voce.
 
Rimasi impietrita per qualche secondo, ma poi acconsentii con un’alzata di spalle. Che male c’è a dargli il mio numero?, pensai. In ogni caso, le regole le faceva lui e io, per via della mia sfortuna, non potevo fare altro che accettarlo.
 

NOTA AUTRICE:

Buongiorno genteee. Allora... questa cosa mi è uscita fuori perché una mia amica aveva una bisogno di una Jarida e perché il trailer del film "the DUFF" mi aveva preso davvero troppo. Quindi mi sono chiesta: perché non fare una ff Jarida ispirata al film e rendere le cose piuttosto drammatiche e complicate?
E, dopo aver già rovinato questo fandom con una mia oneshot, eccomi qui con una ff a più capitoli. Spero davvero che vi piaccia!

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Capitolo 2
*** Verità svelate, amicizie salvate e nuovi compagni di laboratorio ***


CAPITOLO 2. VERITÀ SVELATE, AMICIZIE SALVATE E NUOVI COMPAGNI DI LABORATORIO
 
Dopo tre lunghe ore di lezione, era finalmente arrivata la pausa pranzo e, nonostante definissi il cibo il mio unico amore e il mio stomaco reclamava la sua dose quotidiana di pane e caffeina, non ero pronta per andare in mensa. Avevo cercato di evitare Rapunzel per tutto il giorno, perché non ero ancora pronta per vederla, ma il momento stava per arrivare e non potevo nascondermi in aula, spegnere il cellulare ed evitare qualsiasi ragazza con una lunga chioma bionda per sempre. Avevo, però, preso una decisione ed ero intenzionata a risolvere la questione. Varcai la soglia della mensa e vidi tutti i gruppi di studenti che erano seduti ai loro tavoli, perché c’era una gerarchia non scritta che tutti conoscevano. Sorpassai i tavoli delle persone meno considerate, che nessuno conosceva, che sedevano vicino al bar della scuola. Andai sempre dritto, superando anche quelli di coloro che facevano parte dei gruppi del pomeriggio, che partecipavano a qualche festa, situati nel mezzo della mensa. Infine raggiunsi la mia meta: il tavolo dei più popolari era situato in un angolo a destra, dove il pavimento era rialzato su un gradino. Vidi Rapunzel seduta al posto che preferivo, il tavolo vicino alla finestra: amavo la vista, che dava sul giardino della scuola. Certo, non era nulla di speciale, ma il nostro giardino era ricco di vegetazione, ovviamente controllata dal giardiniere, e si trovava vicino a un piccolo boschetto, dove scappavo nelle giornate più tristi, quando nemmeno Punzie riusciva a rassicurarmi. Una voce mi fece tornare alla realtà e spostai lo sguardo verso la ragazza bionda: stava parlando, ma non sentii nulla.
 
“Cosa?” le chiesi, con un’espressione interrogativa sul volto, sedendomi sulla sedia di fronte alla sua e poggiando i libri davanti a me.
 
“Ho detto: non puoi cercare di evitarmi così, pensando che non me ne accorga! Si può sapere che cosa ti sta succedendo?” disse lei, mentre io tiravo fuori dalla borsa un panino e il mio amato termos, contenente la dose di caffeina di cui avevo bisogno per sopravvivere durante la giornata.
 
Alzai lo sguardo su di lei: i suoi grandi occhi verdi mi fissavano, cercando di capire che cosa mi stesse succedendo. Era incredibilmente onesta e io mi sentivo terribilmente in colpa.
Le parole fluirono fuori dalla mia bocca, senza che io cercassi di bloccarle e in men che non si dica le avevo già detto tutto quello che avevo scoperto alla festa, tutto quello che avevo intenzione di fare, omettendo il mio accordo con Jack.
Purtroppo, lei aveva letto nei miei occhi una tacita domanda: “lo sapevi o no?”.
 
Rapunzel si passò le mani sul viso, ma non sembrava colpevole, poi prese un lungo respiro e disse: “Sì, lo sapevo. Non volevo dirtelo, insomma non è una cosa carina da dire. Ho cercato di zittire le voci, ho litigato con qualcuno, perché tutti insistevano con questa storia. ‘L’hai cercata tu’, dicevano. Ma no, Merida. Non ti sono amica perché così mi rendi più bella. Ti sono amica perché vedi la bellezza che c’è in me, quella interiore: chiariamoci. Ti sono amica perché ci sei sempre, perché sei la prima persona da cui vado se ho un problema. Merida, siamo amiche perché ci vogliamo bene! Non perché desidero la popolarità”.
 
La guardai ed era così onesta che io mi maledissi mentalmente, anche solo per aver pensato che lei potesse tradirmi.
Le sorrisi, uno dei sorrisi più sinceri che potessi fare e le chiesi scusa per aver dubitato di lei.
Allora iniziammo a mangiare, parlando del più e del meno, fino a quando, in un momento di piacevole silenzio durante la nostra conversazione, mi guardai intorno: vidi Frost, che era seduto un tavolo più avanti e ci stava fissando. Colto in flagrante, alzò il mento in segno di saluto e sorrise, forse per la prima volta nella sua vita, con aria imbarazzata nella mia direzione.
Punzie non si fece sfuggire quel piccolo dettaglio e partì con una sfilza di domande riguardo a Frost e facendo anche commenti del tipo: “Merida, ma è bellissimo!” “Gli sbaverei dietro anche io!”.
Grazie ad un’entità mistica, la campanella dell’inizio delle lezioni pomeridiane mi salvò dal rispondere alle domande della bionda, che però se ne andò con un “Ne parliamo dopo”.
Alzando gli occhi al cielo, mi diressi nell’aula di chimica: un piccolo spazio fornito di provette e sostanze altamente pericolose che potrebbero renderti verde per una buona metà della tua vita.
Il mio professore era una persona particolare, molto gentile e fissato con i lavori di coppia. Dall’inizio dell’anno non era ancora riuscito a formare coppie fisse, avevo cambiato, in circa un mese e mezzo di scuola, sei compagni di laboratorio.
Oggi, però, sarebbe stato il fatidico giorno in cui il signor Murphy avrebbe formato coppie durature di studenti, cercando così di incitare le persone ai rapporti sociali. Il problema era che non potevi cambiare la coppia per nulla al mondo.
Nemmeno se il tuo compagno aveva avuto un piccolo incidente con una miscela chimica, che gli aveva bruciato tutti i peli sulla faccia, sopracciglia comprese.
Nemmeno se avresti voluto ucciderlo, il tuo compagno di laboratorio.
 
“Dunbroch con Haddock” disse, facendomi alzare lo sguardo.
 
Mi girai e sorrisi al moro, che era seduto in fondo alla classe, per salutarlo. Lui ricambiò subito e si alzò in fretta, mettendosi a sedere accanto a me. Prima che riuscisse a farlo, però, una voce familiare e fastidiosa rimbombò dal fondo della classe.


“Professore, potrei stare io con Merida?” chiese.
 
“Non credo proprio, Frost. Starai con la signorina Arendelle. E ora, tutti al lavoro!” disse Murphy, provocando così una silenziosa protesta da parte del ragazzo.
 
Non ero nemmeno a conoscenza del fatto che fossimo nella stessa classe di chimica ed ora lui pretende di diventare il mio compagno di laboratorio? Non ha un minimo senso, pensai.
Ero confusa dal comportamento di Jack, ma cercai di mettere questi pensieri in secondo piano, principalmente per il bellissimo ragazzo che mi stava di fronte: aveva un sorriso dolce, una spruzzata di lentiggini sulle guance e sul naso, mentre i suoi occhi erano verde chiaro e mi ci persi subito.
 
“Quindi sei la famosa Merida, eh?” chiese lui, riportandomi alla realtà.
 
Annuii, mio malgrado.
 
“Anche tu mi conosci per la storia di Punzie?” chiesi, con un po’ di risentimento nella voce.
 
Volevo dimenticarmi di tutta questa storia della DUFF.
 
“La storia della DUFF?” chiese e, quando io annuii nuovamente, riprese a parlare, prendendo una provetta e riempiendola con un liquido verdognolo.
 
“Non è che me ne importi più di tanto, alludevo al fatto che sei la più brava della scuola a tirare con l’arco e che sei l’unica, nel giro di qualche migliaio di chilometri, con una chioma rossa e così…scomposta” si girò verso di me, che stavo mettendo gli occhiali da laboratorio e scoppiò in una breve risata, attento a non rovesciare il liquido.
 
Io gli sorrisi, e mentre versavo del cloruro di sodio in un’altra provetta, gli dissi: “Io non mentirò dicendo che non so proprio chi tu sia e credo sia la prima volta, in circa quattro anni che mi trovo in questa scuola, che ti vedo”.
 
Lui fece un ghigno divertito, e poi rispose: “Sono solo un ragazzo che fa equitazione ed odia le feste, non esattamente il tipo di persona che i più popolari conoscono”.
 
Popolare. Mi aveva definito popolare.
 
“Io sarei popolare?”
 
“Direi di sì. Fidati di me, in giro si parla di te” disse, facendo spuntare un piccolo sorriso sul suo viso.
 
Probabilmente parlano di me perché sono l’amica brutta della candidata a reginetta del ballo, pensai, ma tenni i miei pensieri per me.
E passammo il resto dell’ora a lavorare, in un gradevole silenzio: entrambi consapevoli di aver trovato un nuovo amico.
Alla fine dell’ora ci salutammo, con la promessa di rivederci alla prossima lezione.
 
Il resto della giornata fu molto più tranquillo: finii la scuola, tornai a casa, mi allenai con il mio arco.
Solo dopo l’ora di cena le cose diventarono strane.
Il display del mio cellulare s’illuminò, avvisandomi che qualcuno mi aveva mandato un messaggio. Presi subito il mio telefonino e lo lessi.
 
Buonasera, ribelle.
 
Guardai il messaggio con aria confusa –molto confusa-. Non sapevo chi era il mittente, ma potevo immaginarlo.
 
Ribelle? E da dove l’hai tirata fuori questa?
 
Una risposta non tardò ad arrivare.
Pensavo che dovessimo darci dei nomi in codice, sai. Cose che usiamo solo noi. Per il nostro patto, ovviamente.
 
Aggrottai le sopracciglia, mentre leggevo. Quel ragazzo mi confondeva.
 
E il mio sarebbe “ribelle” perché…?
 
Chiesi, mentre sentii il campanello di casa suonare.
 
Per la tua chioma e per il tuo carattere, sai. E tu che nome in codice mi daresti?
 
Mia madre andrò ad aprire, mentre io digitavo velocemente una risposta.
 
Snow ti piace? Sai, per i tuoi capelli bianchi come la neve. Altrimenti potrebbe essere pupazzo di neve con un ego esageratamente largo.
 
Non potevo credere che ci stessi davvero provando. Sentii dei passi salire su per le scale, mentre il mio telefono s’illuminò di nuovo.
 
Ah ah ah. Odio Snow. Facciamo così: chiamami Jack e basta. Ora vado, buonanotte, ribelle.
 
Sentii anche qualcuno che bussava e, mentre digitavo un’ultima risposta, urlai che la porta era aperta.
 
Facciamo Frost. ‘notte.
 
Salvai il contatto con il nome “Snow”, nonostante le sue proteste, e poggiai il telefono sul comodino, cercando di capire il suo strano comportamento.


 

ANGOLO AUTRICE
E quindi eccoci al secondo capitolo! La nostra Rapunzel è davvero una buona amica, non credete?
Merida ora ha un compagno di laboratorio che già la conosce e chissà...Hiccup è Hiccup.
In più Jack è in coppia con la ghiacciata Elsa.
E lui voleva stare con Merida... Eh Jack, sarà per la prossima volta.
Il soprannome di Jack fa schifo, lo so.
Potevo trovare una cosa migliore, lo so.
Solo che la mia fantasia era occupata da altre cose -davvero tante- ed è uscito questo. Non odiatemi.
Spero che vi sia piacuta. So che i capitoli sono un po' corti, ma non vi preoccupate. Ad un certo punto saranno più lunghi.
Volevo ringraziare le tre persone che l'hanno messa nelle seguite, tanti cuori a voi e chi ha recensito. 
E ora basta che ho parlato troppo.
Adieu, lovingbooks.

 

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Capitolo 3
*** Vecchie tradizioni, promesse mantenute e strane commesse ***


Capitolo 3. Vecchie tradizioni, promesse mantenute e strane commesse
 
“Pronta per un mega pigiama party?” trillò la voce di Rapunzel, facendomi sobbalzare e tornare alla realtà.
 
Mi misi teatralmente una mano sul cuore e dissi, con aria melodrammatica: “Oh io sono pronta per quello, ma non per un infarto!”, causando così la sua risata.
 
Sin da quando eravamo bambine, una si presentava a casa dell’altra senza una vera e propria ragione, con la scusa del “pigiama party” per tre diversi motivi. Il primo era l’asilo politico, ovvero una non riusciva più a sopportare il clima famigliare intorno a lei -era successo solo due volte, quando i genitori di una Rapunzel tredicenne avevano alzato troppo la voce e lei si era spaventata ed era corsa dalla sua migliore amica e quando una me quindicenne non sopportava più che i suoi genitori non tenessero conto anche delle sue esigenze e aveva voluto ribellarsi, scappando così dall’unica persona che poteva capirla: Punzie. Il secondo era dovuto all’uscita di un nuovo film, o di una puntata di una serie televisiva che entrambe vedevano e che non potevano perdersi. Infine il terzo, probabilmente il motivo per cui la bionda era lì quella sera, erano i problemi con i ragazzi, o con le amiche: dipendeva dalle situazioni. In questo caso, il problema era che la ragazza dagli occhi verdi pensava che io avessi una cotta per il famoso Jack Frost e che lei potesse aiutarmi.
Dopo aver sistemato il sacco a pelo ed esserci messe in pigiama, Rapunzel tirò fuori l’argomento.
 
“Ho sentito che Jack voleva stare in coppia con te, a chimica”.
 
La guardai, alzando un sopracciglio con aria interrogativa “E quindi?”.
 
“E quindi... forse gli interessi?” sussurrò lei, con aria divertita.
 
“Senti Punzie, io ti voglio bene, davvero, però sappiamo entrambe che sei qui per parlarmi di Jack e il punto è: a me lui non interessa!”.
 
Lei sorrise, dandomi una pacca sulla spalla “La verità è che sappiamo entrambe che tu non lo ammetteresti mai” disse, con tono divertito, cercando di imitare la mia voce.
 
Sbuffai, ma decisi di fare la cosa che mi sembrava più giusta: le dissi, finalmente, del patto con Jack, senza tralasciare i minimi dettagli e facendole vedere i messaggi che ci eravamo mandati. Arrivammo entrambe a due conclusioni: primo, Jack Frost era un ragazzo con un carattere davvero complicato e avremmo tentato di capirlo quando saremmo state più lucide. Secondo, era meglio darci la buonanotte e dormire un po’, perché l’indomani saremmo dovute andare a scuola.
 
Entrammo nell’edificio con un toast e marmellata in mano, la faccia rossa e gli occhi stanchi. Morale della favola: la sveglia non era suonata, ci eravamo vestite in fretta e furia, con le prime cose che ci capitarono sotto mano, prendemmo la colazione che i miei genitori avevano preparato prima di uscire e corremmo per circa quattro isolati, senza aver bevuto nemmeno una goccia di caffè e il mio corpo ne necessitava al più presto.
La cosa più brutta della giornata era che Rapunzel si era vestita in modo decente, con dei jeans stretti sulle gambe ed una maglietta verde a maniche corte, che risaltava i suoi occhi, ed era bellissima. Io, invece avevo preso i pantaloni della tuta di mio padre, di qualche taglia più grandi, senza accorgermene, fino a quando, durante la corsa, non avevano minacciato di cadere e farmi correre in mutande fino a scuola. Indossavo anche una felpa rossa, che usavo per andare a correre, e che, per questo, puzzava di sudore. Infine, come ciliegina sulla torta, avevo una maglietta rosa a maniche corte, che mi arrivava sopra l’ombelico e con l’immagine stampata di un unicorno sul davanti. Inutile dire che due pensieri mi tormentarono per tutto il resto della giornata: primo, perché diavolo ho questa roba nell’armadio? E secondo, dovrei pulire quel dannatissimo armadio.  
Fino a quando un certo ragazzo dai capelli bianchi, durante la pausa pranzo -dopo tre stressanti ore a stare seduta e a sentire qualcuno blaterare su qualcos’altro- decise di sedersi al tavolo con me e con Punzie.
O meglio, non si era effettivamente seduto, si era fermato a parlare con noi.
E nemmeno questo era del tutto vero, perché si era fermato a parlare con me.
 
“Rossa, oggi usciamo. Ti aspetto davanti a scuola, mi raccomando” aveva detto, sorridendo nella mia direzione.
 
E così si formò il mio terzo pensiero –o problema, dipende dai punti di vista- della giornata: questa cosa inizia a diventare complicata.
Quello che ancora non sapevo era che le cose si sarebbero complicate ancora di più.
La bionda mi riportò alla realtà, facendo discorsi su di me e su di Jack, che non sentii del tutto, perché, talvolta, mi perdevo a cercare una chioma bianca tra i tavoli, pensando che fosse perché mi stava complicando tutto: la giornata, i discorsi con la mia migliore amica e, forse, anche la vita.
 
Alla quinta ora, dopo la pausa pranzo, mi ricordai di avere nell’armadietto dei jeans stretti e una felpa, per ogni evenienza. E, ovviamente, quella situazione era assolutamente ogni evenienza. Mi cambiai in bagno, e saltai tutta l’ora di storia. Ma non importava a nessuno.
 
Suonò – finalmente – la campanella dell’ultima ora, con la professoressa Smith, che insegnava francese. Era nota soprattutto perché era mezza cieca e perché, ogni volta che parlava, sputacchiava, bagnando così di saliva tutta la prima fila. Al primo anno, feci l’errore di sedermi lì, convinta di poter sentire meglio: dovetti correre in bagno per lavarmi la faccia e sentii che la mia giornata era stata rovinata.
Misi i libri nella borsa e corsi fuori dalla porta, dirigendomi verso casa. Stavo per svoltare l’angolo, quando una voce mi fermò.
 
“E così pensi di poter scappare?”.
 
Imprecai mentalmente, perché mi ero dimenticata dell’appuntamento con Jack, ma feci finta di nulla e tornai indietro, camminando nella sua direzione e curvando le labbra in un sorriso.
 
“Veramente, vorrei scappare, ma non posso. E mi dispiace, ma mi ero completamente dimenticata dell’appuntamento, la prossima volta me lo scrivo sulla mano” dissi, alzando le spalle con aria noncurante e provocando una sua risata.
 
Dovetti ammetterlo a me stessa: aveva una risata bellissima e molto più vera di altre che avevo sentito. Scacciai quel pensiero dalla testa, come se fosse una piccola nuvola in una giornata di sole e lo seguii, salendo così sulla sua macchina, un grande SUV nero. Gli chiesi quale fosse la nostra destinazione, ma lui insisteva con il dire che era una “sorpresa”.
Il viaggio fu silenzioso: lui guardava dritto avanti a sé, in direzione della strada, mentre io scrutavo il paesaggio fuori dal finestrino. A un certo punto, accese la radio e partii basket case, dei Green Day, una delle mie canzoni preferite. Mi lasciai trasportare dal ritmo della musica e iniziai a cantare le parole, dimenticandomi della persona che mi stava affianco, iniziando a muovere la testa e facendo oscillare i miei lunghi capelli. Solo dopo circa tre minuti da canta tu in macchina, mi resi conto di cosa era appena successo. Mi ero messa in ridicolo davanti a Jack, la persona che odiavo. Avevo ballato e cantato una canzone in macchina, cosa che facevo solo con mia madre e Rapunzel. Colpa della canzone, mi dissi.
 
“Direi che è un sì” disse, annuendo convinto per le proprie parole.
 
Mi girai verso di lui, aggrottando le sopracciglia, confusa dalla sua affermazione. E, dato che eravamo fermi ad un semaforo, si girò anche lui verso di me.
 
“Intendevo dire che potresti fare la cantante, rossa! Dovremmo assolutamente scappare a New York, esibirci nei bar, tu come cantante io come autore delle tue canzoni e aspettare che un produttore famoso ci scopra. Che ne dici?” disse lui.
 
Inizialmente, cercai di trattenermi. Sfortunatamente, non ci riuscii per più di un secondo: scoppiai in una risata, molto lontana dall’essere pacata e femminile. Mi misi una mano davanti alla bocca, cercando di coprire il suono che proveniva da lì, ma non ci riuscii. E non mi importò. Risi, fino a quando non mi arrivarono le lacrime agli occhi. Non per un motivo specifico. Semplicemente, mi faceva ridere la sua affermazione e il tono serio in cui l’aveva detto. Poi una macchina suonò il clacson e fui riportata alla realtà: gridai a Jack che era verde e riuscii, finalmente, a placare la mia risata. Lui sorrideva, non sapevo bene il motivo.
Il silenzio tornò a regnare in macchina, ma era un silenzio diverso, molto più tranquillo e piacevole. E, per un momento, mi concessi di pensare che forse non lo odiavo così tanto.
 
Jack fermò la macchina di colpo, arrivando così alla nostra meta: il centro commerciale. Quando aveva detto che si trattava di una sorpresa, avevo pensato che fosse qualcosa di più speciale. Così, decisi di appuntarmi mentalmente: quando un ragazzo ti dice che è una sorpresa, non ti illudere.
 
“Perché siamo venuti al centro commerciale?”.


“Rossa, quanto sei curiosa, una cosa per volta”.
 
Sbuffai il più forte possibile, in modo da farmi sentire da lui, ma scesi dalla macchina e lo seguii verso l’entrata dell’edificio. Il centro commerciale più grande del paese in cui vivevamo: aveva circa una settantina di negozi, occupava un’area abbastanza grande per farci entrare un campo da calcio, uno da pallavolo e anche uno da basket. In più, per costruire il suo parcheggio avevano abbattuto gran parte degli alberi che erano presenti nella zona. Nonostante le numerose proteste degli abitanti, tra cui la sottoscritta, il sindaco aveva comunque fatto portare a termine i lavori, considerando il luogo un buon investimento per incrementare il turismo e il commercio. Alla fine, tutti si erano abituati e nessuno ci poteva fare più niente, ma vederlo o entrarci mi causava un impeto di rabbia talmente forte che, di solito, prendevo a pugni la mia borsa. E fu esattamente ciò che feci, senza farlo notare a Jack, che mi camminava davanti. Decisi quindi di aumentare il passo e raggiungerlo.
Mi condusse in un negozio che, con il solo nome, riuscì a mettermi in imbarazzo.
Quando entrammo, fu solo più difficile non diventare rossa come i miei capelli e non cercare di commettere un omicidio: intorno a me era pieno di intimo, di tutti i colori e di tutte le taglie.
Fulminai Jack con lo sguardo, ma la mia espressione doveva risultare molto divertente, perché lui stava trattenendo una risata. Presi un lungo respiro e aprii la bocca per parlare, ma fui interrotta dalla voce di quella che doveva essere la commessa del negozio.
 
“Posso aiutarvi?” chiese, gentilmente.
 
Mi girai e la vidi: una signora sui quarant’anni, probabilmente, i cui capelli erano raccolti in una coda morbida e il cui volto era nascosto dagli occhiali, era inoltre poco più bassa di me. Stava sorridendo nella mia direzione e aprii nuovamente la bocca per parlare, ma nessuna parola uscii da essa, perché fui interrotta, di nuovo.
Stava diventando un’abitudine.
Questa volta, però, fu Jack a parlare.
 
“No, non si preoccupi, Jenna” disse, probabilmente leggendo il nome della commessa sulla targhetta che portava sulla maglia.
 
Lei ci guardò e annuii, ma, prima di andare via, aggiunse: “Immagino che ogni donna voglia far felice il proprio ragazzo”.
 
Stavo per ribattere, ma lei era già scomparsa tra gli scaffali –non pensavo che ci potesse essere così tanta roba in un negozio di intimo.
Mi girai verso Jack e lo guardai alzando le sopracciglia, con aria interrogativa. Lui alzò le mani, in segno di difesa.
 
“Sei stata tu a chiedere il mio aiuto e quindi, si fa a modo mio”.
 
“E quindi iniziamo da qualcosa che nessuno vedrà?” chiesi, marcando con la voce la parola nessuno.
 
Lui sorrise e scosse la testa.
 
“Non sono una ragazza, ma quello che c’è sotto è più importante di quello che c’è sopra. Quindi, ora ti provi tutti questi bellissimi modelli e io ti dirò qual è il migliore”.
 
Lo fulminai con lo sguardo, ma acconsentii: nonostante tutto, era lui l’esperto.
 
“Va bene, ma non mi vedrai con indosso questi completini” gli dissi, entrando nel camerino, mentre lui sorrideva, divertito, mormorando qualcosa sottovoce.
Mi spogliai e provai tutti i completi che mi passava, ma non mi piaceva nulla: o erano fatti da così poca stoffa che non riuscivo nemmeno a vederli, o erano di colori troppo sgargianti, o erano troppo grandi per il mio seno.
 
“Frost, ma mi stai dando completi che non mi vanno bene di proposito?” gli dissi, dopo una mezz’ora passata dentro quel camerino a provare metà della merce presente nel negozio.
 
“Non è colpa mia se hai gusti particolari, rossa, io avrei scelto il completo nero” disse, prendendo il reggiseno azzurro che gli stavo passando.
 
“Non lo avrei messo per nulla al mondo, sembrava fatto per un topo” dissi, sbuffando rumorosamente al pensiero di quel completo nero che, una volta tolti i vestiti, lasciava davvero poco all’immaginazione.
 
Provai l’ultimo completo che Jack mi aveva passato: un reggiseno grigio e delle mutande del medesimo colore, mi coprivano abbastanza per essere considerate intimo, ma risaltavano anche le mie curve, riuscivo a muovermi perfettamente e il completo era semplice, nel mio stile.
Questa volta, aveva fatto la scelta giusta.
Uscii dal camerino, felice di lasciare quel negozio e comprai due completi identici, uno grigio e uno nero.
Salutai la commessa e me ne andai dal negozio, per evitare altre conversazioni imbarazzanti, ma dovetti aspettare Jack, che uscii dopo cinque minuti con un pacco in mano.


 
NOTA AUTRICE
Ehilà gente.
Sono ancora qui a rompere le scatole, che palle, vero? 
Qui abbiamo un pigiama party con i fiocchi, che è la tradizione delle nostre due bff forevah. Poi c'è Jack che è il massimo e che la invita ad uscire senza alcun preavviso. E che uscita c'è da dire: comprare intimo, chi non lo vorrebbe? Chissà cos'è quel pacco. Eh, caro vecchio Frost.
Bene, volevo ringraziare Ailary e Fantasy_Book, che recensice praticamente ogni capitolo!
Grazie anche a chi ha messo la storia nelle seguite!
Spero che questa cosa vi piaccia ancora e ora mi dileguo.
Baci baciosi,
lovingbooks

 

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Capitolo 4
*** Strani regali, scatti di rabbia e punizioni ***


Capitolo 4. Strani regali, scatti di rabbia e punizioni
 
“Che fai Frost, acquisti per la tua ragazza?” gli chiesi, mentre ci avviavamo verso un fastfood lì vicino.
 
“Non proprio, sai, le ragazze fanno regali a me, non il contrario” disse, ridendo appena.
 
“Uh, che permaloso. E allora è per tua madre? Tua sorella?” gli domandai, prendendolo in giro.
 
Mi rispose solo quando ci sedemmo ad un tavolo, io con un hamburger, delle patatine fritte e una bibita grande; lui con un milkshake.
 
“In realtà, è per te” disse, mentre io cercavo di non sputare la bibita che avevo appena bevuto.
 
Cercai di riprendere fiato e lo guardai con aria interrogativa, e quindi mi passò il pacco.
 
“Spero per te che non sia quel completo nero” dissi, aprendolo.
 
Per fortuna, dentro, c’era un completo rosso, uguale a quelli che avevo comprato prima.
 
“Perché me lo hai preso?” gli chiesi, alzando la testa verso di lui, che mi stava guardando.
 
“Mi piace il colore dei tuoi capelli” rispose, alzando le spalle con aria noncurante.
 
“E che c’entra?”.
 
“Non lo so, rossa. Volevo semplicemente comprartelo, ma, se vuoi, lo porto indietro” disse lui, cambiando tono di voce.
 
“No, non farlo, mi piace” gli dissi, e sorrisi. E lui sorrise a sua volta.
 
Finimmo la nostra merenda in gradevole silenzio. Ed era strano, perché, quando stavamo in silenzio, sentivo che eravamo più vicini di quanto non sembrasse.
 
Una volta usciti, ci dirigemmo verso la macchina, ma un manifesto appeso alla parete del centro commerciale attirò la mia attenzione: era raffigurato, con il volto sorridente, il sindaco Evans, ovvero la persona che aveva fatto erigere l’edificio, distruggendo la casa di migliaia di animali. Un nuovo impeto di rabbia mi travolse, questa volta con più violenza, e non fui in grado di trattenermi. Sbuffai molto rumorosamente e andai verso il manifesto, iniziando a strapparlo dall’alto. Probabilmente, feci troppo rumore, perché Jack si accorse che non ero più dietro di lui e venne da me, cercando di fermarmi.
 
“Merida, calmati. Merida, guardami” gridò, prendendomi i polsi, per evitare che io rovinassi maggiormente il manifesto.
 
Lo guardai negli occhi e vidi in quelli un lampo di preoccupazione, che però sparì subito. Improvvisamente, mi resi conto di ciò che avevo fatto: avevo perso la calma -nonostante tutti gli esercizi per gestire la mia rabbia- e avevo rovinato un manifesto, non che valesse tanto.
Presi un lungo respiro e chiusi gli occhi, cercando di riprendermi.
 
“Scusami, non volevo” mormorai, imbarazzata.
 
“Non devi scusarti, Merida. Ma che ti è preso, si può sapere?” disse, senza spostare lo sguardo dal mio viso e senza togliere le mani dai miei polsi.
 
Se fosse stata una situazione diversa, non gli avrei detto nulla.
Se fosse stata una situazione diversa, gli avrei urlato di farsi gli affari suoi e sarei salita in macchina.
Se fosse stata una situazione diversa, forse, le cose sarebbero andate diversamente.
Ma non era una situazione diversa.
Mi diressi verso la macchina, trascinandolo con me e, con lo sguardo, gli feci capire che doveva aprirla.
Una volta saliti, ci girammo entrambi, per poterci guardare.
 
“Sapevi che qui c’era una foresta, una volta?” gli chiesi, con un tono afflitto. E, dopo che ebbe annuito, ripresi: “Ecco, mio nonno era solito portarmici, per osservare gli animali, per stare a contatto con la natura. Diceva che era il suo posto preferito, questo. Diceva che qui la natura aveva fatto un buon lavoro. Volevo un bene dell’anima, a mio nonno. È sempre stato, nella mia famiglia, un punto di riferimento” presi un lungo respiro, ma lui non parlò. Aspettò che io fossi pronta e gliene fui immensamente grata. “Quando morì, sentii un vuoto dentro di me e solo questo posto riusciva a riempirlo. Era come se lui fosse ancora accanto a me, come se vivesse negli alberi, nelle foglie, nell’erba che vedevo. Poi, un giorno, il sindaco, decise di buttare giù tutti gli alberi della foresta, per costruire uno stupido centro commerciale. Io ho provato con tutta me stessa a lottare per questo posto, ma era una lotta persa. Così, il sindaco ha costruito il suo centro commerciale ed io ho perso l’unica cosa che mi legava a mio nonno. Da quando esiste questo edificio, non riesco nemmeno a pensare al sindaco, perché la rabbia mi travolge”.
 
Avevo detto tutto molto velocemente, ma quando guardai Jack vidi che aveva capito.
 
“Mi dispiace” sussurrò, “anche io ho protestato contro la sua costruzione, perché, per quanto ti possa sembrare strano, ho sempre amato arrampicarmi sugli alberi di questa foresta e, in parte, posso capire cosa hai perso. Non del tutto, però. Ma sai cosa penso? Tuo nonno sarà comunque con te, magari lo sentirai più vicino in una foresta che in un fastfood, ma lui non ti ha ancora abbandonato. Quindi, non legare l’idea di lui da vivo a un posto che, purtroppo, non c’è più. Non farti prendere dalla rabbia, conta fino a dieci e pensa a qualcosa che ti piace. Vedrai che l’ira se ne andrà” disse, curvando le labbra in un sorriso.
 
Poi mise in moto la macchina e durante l’ennesimo momento di silenzio mi resi conto di due cose: uno, avevo appena detto a Jack una cosa che sapeva solo la mia migliore amica e sentivo che lui avrebbe mantenuto il segreto. E due, per la prima volta, da quando ci eravamo conosciuti, decisi che, nonostante avessimo opinioni divergenti su molte cose, lui era mio amico, uno di quelli che, tutto sommato, volevo tenermi stretti.
 
Quando accostò sul vialetto di casa mia, ci fu un momento di imbarazzo, che però sparì subito. Ci salutammo, dicendoci la buonanotte, e lui aspettò che fossi entrata in casa, prima di partire. Il grande problema di quella serata fu la consapevolezza, una volta entrata in casa, che avrei ricevuto una lunga predica, perché mi ero dimenticata di avvisare. Misi piede nell’abitazione e fu come sentire la calma prima della tempesta e cercai di essere il più silenziosa possibile. Ovviamente, non funzionò.
 
“Che piacere averti qui, Merida!” disse la voce famigliare di mia madre.
 
Mi maledissi mentalmente e mi girai verso di lei: aveva le braccia incrociate sullo stomaco e mi guardava con un’espressione di calma dipinta in volto, tradita solo dallo sguardo arrabbiato. Di fianco a lei, c’era mio padre, una grande figura che, se non fosse stato per il viso di mia madre, mi avrebbe fatto molta paura: era più alto di me e molto più grosso, la sua mano era grande quanto il mio avambraccio. Fortunatamente per me, mio padre non era una persona che si arrabbiava spesso, principalmente supportava mia madre, che, al contrario, era una donna isterica e con scatti di rabbia improvvisa.
 
“Scusate, mi sono dimenticata di avvisare” mi scusai io, dopo aver preso un lungo respiro.
 
“Ce ne siamo accorti, sai? Con chi pensi di vivere, con dei tuoi coetanei sotto uno stesso tetto? Mi dispiace, figlia mia, ma sono molto più grande di te e ti ho partorito. Voglio sapere quando torni a casa! Non mi interessa cosa fai o con chi stai, ma non posso passare la mia giornata a preoccuparmi anche per te” disse, facendo uscire tutta la rabbia che aveva in corpo.
 
Io non dissi nulla, perché sapevo come dovevano andare le litigate in famiglia. Mentre mio padre annuiva, puntando, però, il viso nella mia direzione e facendomi uno sguardo complice, senza farlo notare a mia madre. Cercai di trattenere un sorriso: almeno, in quella casa, c’era qualcuno che mi supportava.
 
“Sei in punizione, niente più cellulare fino a settimana prossima” esordì dopo un lungo discorso, allungando il braccio verso di me, aspettando che io le dessi il cellulare.
 
Ovviamente, non lo usavo tanto e non mi importò per nulla lasciarlo in custodia a mia madre per una lunga settimana. Finalmente, dopo altri cinque minuti ad urlarmi contro, riprendendo fatti accaduti all’asilo, mi mandò in camera mia senza cena, ma, per mia fortuna, ero già piena grazie alla merenda fatta al fastfood. Mi misi in pigiama e mi buttai nel letto, cercando di prendere sonno.
Sfortunatamente, alcuni pensieri minacciavano di lasciarmi sveglia per un po’.
Forse ho sbagliato ha raccontare quelle cose a Jack, dovevo starmene zitta e fare finta di nulla. Un senso di imbarazzo mi colse di sorpresa e decisi che, l’indomani, per la sicurezza di tutti –soprattutto mia- lo avrei evitato. Ovviamente, non potevo fare più di tanto: a pranzo dovevo comunque andare in mensa e, grazie alla mia grande fortuna, avremmo avuto di nuovo chimica, nella stessa classe.
Pensai, però, che forse non dovevo evitarlo. Una parte di me mi gridava che dovevo fingere che fosse tutto normale, mentre l’altra che Jack era un ragazzo privo di cervello e che non avrebbe comunque capito.
Alla fine, mi addormentai, prendendo una decisione: per quanto mi fosse possibile, avrei evitato in tutti i modi Jack Frost, a scuola.

 

ANGOLO AUTRICE
Scusate il ritardo, ma ieri non avevo internet e mi sono dovuta arrangiare per pubblicare.
Niente da dire, spero vi piaccia questo capitolo e che non mi tiriate pomodori, sedie o quant'altro.
Grazie per seguire la storia e per le recensioni, che sono sempre ben accette!



 

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Capitolo 5
*** Ostinate convinzioni, corse riparatrici e grandi lividi ***


Capitolo 5. Ostinate convinzioni, corse riparatrici e grandi lividi
 
Le prime ore erano volate e la pausa pranzo era arrivata così in fretta che non me ne ero nemmeno accorta. Al suono della campanella, presi la mia borsa e corsi verso la mensa, perché il mio stomaco reclamava cibo e il fatto che la sera prima avevo saltato la cena e la mattina la colazione, non aiutava per nulla.
Vidi Rapunzel da lontano e le feci un cenno con la testa, aumentando quindi il passo per arrivare al nostro tavolo.
Mi sedetti e tirai fuori, in fretta e furia, il mio pranzo: due grossi panini e un’insalata.
La bionda mi guardò con aria interrogativa, ma si lasciò sfuggire una piccola risata.
 
“Vuoi mangiare anche per una te di un mondo parallelo?” chiese, mentre ero intenta a mangiare il primo panino.
 
Cercai di trattenere una risata, cosa che mi riuscì piuttosto bene, dato che la mia bocca era decisamente troppo occupata per ridere.
 
“In realtà ho saltato la cena, ieri sera, per una punizione stupida che mia madre si è inventata, mentre stamattina non mi ha preparato la colazione e non ho avuto tempo per prendere nulla da mangiare, così…” dissi, dopo aver ingoiato il boccone che avevo in bocca e dopo aver bevuto un po’ di acqua.
 
“Perché saresti in punizione?” chiese lei, aggrottando le sopracciglia, mentre iniziava a mangiare la sua pasta fredda.
 
Prima di rispondere, finii il mio primo panino. Quando partii in un racconto della serata precedente, Punzie mi ascoltò con molta attenzione. E, una volta che ebbi detto tutto –esclusi i miei pensieri su Jack e sulla nostra possibile amicizia– mi sorrise.
 
“Sapevo che c’era qualcosa tra di voi. Anche se dovrei ritenermi offesa. Pensavo fosse un segreto tra di noi, quello!” disse, con un tono di ironia sulla seconda parte.
 
Io, che nel frattempo avevo preso a mangiare anche il secondo panino, quasi mi strozzai per il suo “sapevo che c’era qualcosa tra di voi”. Quindi scossi la testa con molta convinzione.
 
“Non c’è assolutamente niente tra di noi. Semplicemente ero presa dalla rabbia e avevo un bisogno disperato di dirlo a qualcuno!” esclamai io.
 
Lei annuii, con un sorriso stampato sul volto, che mi fece intendere solo una cosa: non credeva alle mie parole. Prima o poi, però, avrebbe capito che non ci sarebbe mai stato nulla tra me e lui.
Quando toccò a lei parlare della sua serata con Flinn, il capitano della squadra di football, concessi al mio sguardo di vagare per la sala. Vidi Jack senza neanche volerlo –o almeno, così pensavo. Lui mi guardò a sua volta, ma non fece nessun cenno per salutarmi, tutt’altro: spostò lo sguardo altrove. La cosa mi confuse, ma decisi di non darci molto peso, d’altronde anch’io volevo evitarlo.
 
“..E quindi mi ha baciata!” trillò alla fine del suo discorso Rapunzel.
 
“Ma Punzie, è un emerito coglione, potresti avere di meglio!”.
 
Lei scosse vigorosamente la testa, finendo finalmente il suo pranzo.
 
“Merida, lo pensano tutti, ma credo che sia meraviglioso. Cioè, muscoli a parte” disse lei.
Finii a mia volta l’insalata e alzai le spalle, mormorandole un “Basta che non ti faccia soffrire”, prima che suonasse la campanella.
 
Dopo esserci salutate, ci dirigemmo entrambe verso le nostre classi: lei ginnastica, io chimica.
 
Hiccup era già seduto al tavolo e, quando arrivai, mi sorrise. Gli sorrisi a mia volta e mi sedetti accanto a lui, aspettando il professore.
 
Durante la lezione eseguimmo diversi esperimenti, senza parlare come l’ultima volta. E, per mia fortuna non vidi Jack per il resto della giornata.
 
Io e Frost non parlammo nemmeno il giorno dopo, o il giorno dopo ancora. Insomma, non parlammo per una lunga settimana, in cui non successe nulla di davvero esaltante, se non che Rapunzel si era ufficialmente fidanzata con Flinn e aveva tentato di presentarmelo, ma era stata solo una cosa imbarazzante e, alla fine, me ne ero andata con un “Se le fai male, te la vedi con me” molto minaccioso diretto a Rider.
Il giorno in cui mia madre mi restituì il cellulare, decisi che era venuto il momento di parlare di nuovo con Jack, perché avevamo comunque un patto e non potevo cercare qualcun altro. Così, gli scrissi un messaggio.
 
Ehi Snow, come va? Non parliamo da un po’.
 
Dato che era un pomeriggio vuoto e che la risposta al mio messaggio non arrivò, uscii a correre, per scaricare la tensione. Presi la mia tuta dall’armadio e mi cambiai in fretta e furia e, salutando mia madre, uscii di casa. Misi immediatamente le cuffiette e lasciai partire la playlist casuale del mio MP3.
Correvo senza una meta e mille pensieri assalirono la mia mente, così feci una scaletta mentale dei miei problemi.
Jack non mi parlava. Aumentai la velocità della mia corsa. Mia madre era strana dal giorno della sfuriata, probabilmente stanca del mio comportamento da ribelle. Aumentai di nuovo l’andatura. Mio padre aveva deciso che, se non avessi preso voti alti in tutte le materie, non sarei andata con loro in vacanza, quest’estate. Corsi più velocemente. Infine, questa storia della DUFF mi tormentava: ero davvero solo quello? Mi sentivo sminuita e nessuno poteva cambiare i miei sentimenti. Corsi ancora più velocemente, come se stessi scappando da tutti quei pensieri, da quei problemi che non mi davano pace. Scappai, non sentii più niente, nemmeno la musica. Corsi e basta, la mia velocità rispondeva alla mia rabbia. Le foglie di fine autunno venivano calpestate dai miei piedi senza pietà. E la mia rabbia si affievoliva.
Decisi di correre fino alla foresta, perché, ormai, mancava davvero poco. Così svoltai l’angolo, ma andai a sbattere contro qualcosa, o meglio, qualcuno. A causa della mia velocità, l’impatto fu così forte che, quasi, caddi all’indietro. Quasi perché delle mani mi afferrarono per la vita e mi salvarono dalla caduta.
 
“Dovresti stare più attenta, rossa” disse una voce famigliare, sovrastando la musica nelle mie orecchie.
 
Alzai lo sguardo solo per incontrare quello gelido di un Jack Frost sorridente. Subito mi allontanai dalla sua presa e tolsi gli auricolari. Gli lanciai un’occhiataccia, che lui sembrò non notare.
 
“Allora, come ti vanno le cose?” chiese, abbassandosi il cappuccio della felpa.
 
Come ti vanno le cose?” dissi io, ripetendo le sue parole con un tono davvero molto arrabbiato.
 
Questa volta, Jack notò il mio sguardo e non fu in grado di sostenerlo: abbassò il suo, puntandolo sulle sue scarpe da ginnastica, come se fossero la cosa più interessante del mondo. Io, d’altro canto, non avevo alcuna intenzione di demordere e così continuai il mio discorso.
 
“Mi eviti da una settimana, Frost. Una settimana, che è un tempo molto lungo, se non si ha nulla da fare. Con quale coraggio mi chiedi come mi vanno le cose? Dio, ti tirerei un pugno in faccia” gli dissi io, alzando il volume della voce.
 
Allora lui, finalmente, alzò lo sguardo e i nostri occhi si incontrarono, ci fu solo la rabbia che provavo in quel momento, che nemmeno la corsa era riuscita ad affievolire.
 
“E allora tirami un pugno” disse infine.
 
Rimasi sconvolta dalla sua offerta, ma non lo diedi a vedere. Feci un passo verso di lui.
 
“Mi stai sfidando?”.
 
“No, ti sto dicendo di fare ciò che vuoi” disse lui, alzando le spalle.
 
Stavo per ribattere, quando capii che era tutto inutile, mi avvicinai di nuovo a lui e strinsi la mano, alzando il braccio. Il pugno fu così veloce che nemmeno mi resi conto di averlo fatto davvero. Fino a quando non si scontrò con il suo viso. Fu talmente forte che Jack fu costretto a voltare il volto. La mia rabbia scomparii e al suo posto fui presa dalla preoccupazione. Gli avevo appena tirato un pugno e lui non l’aveva bloccato.
 
“Pensavo ti saresti difeso, idiota!” gridai io, mentre lui tornava a voltarsi verso di me, con un segno violaceo attorno all’occhio.
 
Lui rise appena, ma, dal modo in cui teneva una mano intorno alla zona che avevo colpito, capii che gli avevo fatto davvero molto male.
 
“Ma hai ragione, rossa. Parliamo un po’, ti va?” mi chiese, spostando finalmente la mano dal viso.
 
Io annuii, incapace di fare altro.
 
“Io stavo correndo verso la foresta, va bene se parliamo lì?” mi chiese infine.
 
Cercai di reprimere la sorpresa causata dalla sua affermazione –stava davvero andando alla foresta?– e acconsentì con un cenno del capo. Non camminammo, semplicemente riprendemmo a correre entrambi.
 
Arrivammo dopo poco, considerata la nostra andatura veloce, e lui mi portò in un piccolo spazio, era un posto bellissimo. Gli alberi erano abbastanza distanti da lasciare uno spazio circolare, dove il terreno era ricoperto da foglie rosse, arancioni, gialle e marroni. Al centro di quello vi era il tronco di un albero caduto, mentre, intorno a noi c’erano alberi alti, i cui rami sembravano toccare il cielo. Un’espressione di sorpresa mi si dipinse sul volto, mentre iniziai a girare su me stessa, ammirando gli alti rami degli alberi e alzando un braccio, come per tentare di toccarli. Ogni volta che entravo nella foresta mi sentivo felice, ma in quel posto, per la prima volta da tanto tempo, mi sentii ancora una bambina, libera di fare ciò che volevo.
 
“Vedo che ti piace” disse Jack, riportandomi alla realtà, mentre si sedeva sul tronco.
 
Scossi la testa, per riprendermi dai miei pensieri, senza però nascondere il grande sorriso che mi si era formato in volto, così annuii e mi sedetti accanto a lui.
 
“Quindi…di che dovevamo parlare?” chiesi io, dopo un lungo tempo di silenzio, quando il sorriso aveva lasciato il mio viso.
 
Prese un lungo respiro, probabilmente cercando di raccogliere le idee, “So di averti evitata. Insomma, sono stato un vero stronzo e mi dispiace, non ho nessuna scusante” disse alla fine.
 
“Frost, sei perdonato, non ti preoccupare. Il pugno che ti ho tirato e che spero abbia rovinato il tuo splendido viso ha cancellato tutta la mia rabbia. Anche se gradirei sapere il perché” gli risposi io, voltando il volto nella sua direzione.
 
Lui sospirò, per poi girarsi verso di me, vidi qualcosa, nei suoi occhi, che mi fece capire che, semplicemente, nemmeno lui sapeva il perché.
Così alzai le spalle e feci finta di nulla.
Passammo ancora un po’ di tempo nella foresta, in un silenzio piacevole, che sapeva di pace.

“Facciamo che domani usciamo ancora insieme. Abbiamo un altro paio di cose da sistemare” disse lui, mentre uscivamo dalla foresta e riprendevamo a correre. Il tono con cui l’aveva detto –come se fosse una cosa già fissata– non mi permise di obiettare. Così annuii e basta.
 
Ci salutammo nel posto esatto in cui ci eravamo scontrati e corsi verso casa mia, questa volta, però, più lentamente, con un peso in meno sulle spalle.
 
Una volta arrivata a casa, mi feci una doccia veloce e scesi in cucina per la cena.
Quando vi entrai, i miei tre fratellini erano già seduti a tavola e si stavano tirando quelli che sembravano biscotti, mentre mio padre rideva di gusto e mia madre urlava di smettere. Un sorriso mi spuntò sul volto, perché tutto sembrava normale e famigliare. Mi sedetti al mio posto, evitando un biscotto volante, e mia madre mise in tavola le sue famose lasagne. Mi guardò, servendomi la mia porzione, ma non sorrise. Cercai di non rimanerci troppo male ed iniziai a mangiare, mentre tutti parlavamo delle nostre giornate –io non raccontai di Jack, perché mi sembrava eccessivo, e poi sarebbe stato tutto troppo lungo da spiegare. Quando tutti finimmo di mangiare, mio padre si alzò da tavola ed andò nel suo studio, mentre i miei fratellini andarono in salone a guardare la TV. Io rimasi in cucina con mia madre, che mi stava dando le spalle, intenta a lavare i piatti.
Quel giorno avevo già risolto il problema Jack, quindi potevo tentare di risolvere anche il problema “madre che mi odia” ed avere un peso in meno sulle spalle.
Ce la puoi fare, continuavo a ripetermi come un mantra e così presi un lungo respiro e affiancai mia madre, iniziando a lavare i piatti insieme: lei lavava, io asciugavo e mettevo a posto. Non lo facevo da molto tempo e lei, inizialmente, ne fu un po’ sorpresa. Pensai di aver iniziato con la mossa giusta, per una volta. Dopo poco tempo, riuscì a radunare un po’ di coraggio e presi a parlare.
 
“Mamma, ma va tutto bene?” le chiesi, tentando di simulare un discorso nella mia mente.
 
“Sì, Merida, perché me lo chiedi?” rispose lei, con un tono impassibile.
 
“Perché sembri strana in questi giorni, soprattutto con me” confessai.
 
“Oh, capisco. Quindi adesso ti importa di me?” con quella frase, mi fece capire dov’era il problema.
 
“Mamma, ma cosa stai dicendo? Mi è sempre importato di te” dissi, cercando di difendermi.
 
“Ah, scusami, non me ne ero accorta. Probabilmente ti preoccupavi per me tra le uscite con le tue amiche e le tue serate in camera da sola, mentre mi stavi lontana, perdonami se non l’ho notato. La prossima volta starò più attenta”.
 
“Mamma…” dissi io, cercando in tutti i modi di trattenere le lacrime che minacciavano di uscirmi dagli occhi. “Ti voglio bene, lo sai. Non litighiamo, per favore. Mi dispiace tanto se in questi giorni ti ho trascurata, non l’ho fatto di proposito. Ti prometto che ogni sera, da oggi in poi, sarò qui a lavare i piatti con te e a parlare di quello che vuoi. Solo, non avercela con me, ti prego” dissi, con voce tremante: era pur sempre mia madre.
 
Nel frattempo, lei aveva finito di lavare i piatti. Si girò verso di me e notai, nei suoi occhi un luccichio, come una lacrima che minacciava di scendere e che lei tratteneva.
Feci un passo verso di lei e la abbracciai, stringendola forte a me e nascondendo il viso nell’incavo del suo collo, com’ero solita fare da bambina. Inizialmente, lei fu sorpresa da quel gesto spontaneo, ma non rifiutò l’abbraccio, anzi, mi strinse a sua volta e rimanemmo così per dei lunghi minuti, fino a quando lei non sussurrò un “Non potrei mai avercela con te, Merida, sei mia figlia, nonostante tutto”.
Passammo il resto della serata a parlare del più e del meno, mangiando i biscotti che non erano stati lanciati dai miei fratellini.
Alla fine, prima di andarmene a dormire, la avvisai che l’indomani sarei stata via, di pomeriggio. Lei mi sorrise e annuii.
Quella sera, non feci molta fatica ad addormentarmi.

 

ANGOLO AUTRICE.
Ed eccomi qui con un altro capitolo.
In primis, grazie a tutti quelli che sono arrivati a leggere fino a qui.
Poi spero che vi piaccia questo capitolo (come lo spero per tutti gli altri). È un po' sdolcinato, lo so, ma avevo bisogno dell'ultima scena.
E niente da dire, se non l'ennesimo grazie (sul serio, lo dico un sacco di volte) a tutti quelli che seguono la mia storia e che la recensicono!


 

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Capitolo 6
*** Bugie bianche, cambiamenti interni e nuove idee ***


Capitolo 6. Bugie bianche, cambiamenti interni e nuove idee
 
La mattina, a scuola, fu un lungo strazio che sembrò non avere fine. Nell’ora di francese, continuavo a guardare le lancette dell’orologio, sperando che scorressero più velocemente. Ovviamente, non successe e così decisi di prendere appunti, giusto per far passare il tempo.
Finalmente, dopo una lunga giornata, suonò la campanella dell’ultima ora e uscii velocemente dall’edificio.
A differenza dell’ultima volta, mi guardai intorno, alla ricerca di un certo ragazzo dai capelli bianchi: lo vidi vicino alla sua macchina, intento a cercare qualcuno tra la folla di studenti. Quando mi vide, mi fece un cenno con la mano, che io ricambiai, avviandomi poi a passo svelto nella sua direzione.
Stavo per salutarlo, quando un ragazzo mi interruppe. Era molto alto e aveva delle braccia davvero molto muscolose. Diede una pacca sulle spalle a Jack e non mi calcolò minimamente.
 
“Amico, non ti preoccupare per quel segno viola” disse, indicando il suo occhio.
 
Improvvisamente mi sentii in imbarazzo e i sensi di colpa si accanirono su di me.
 
“Faremo il culo a quello stupido che ti ha preso a pugni. Si pentirà di essersi messo contro Jack Frost” aggiunge, dando un’altra pacca sulle spalle al ragazzo, per poi salutarlo ed andarsene.
 
Guardai Jack, alzando appena le sopracciglia, con aria interrogativa. Lui alzò le spalle in sua difesa e mi aprì lo sportello della macchina, facendomi salire. I sensi di colpa e l’imbarazzo, così come erano venuti, se ne andarono.
Quando lui salì in macchina, mi voltai nella sua direzione, con uno sguardo interrogativo. Frost cercò di assumere un’aria innocente.
 
“Così quel brutto ceffo che ti ha preso a pugni com’è? Deve essere davvero un omaccione, per poter pensare di prendersela con te” gli dissi, cercando invano di trattenere una risata.
 
 Scosse la testa e si mise a ridere anche lui.
 
“Credo che fosse davvero molto grosso. E i suoi occhi, dio facevano paura” disse, dopo aver ripreso fiato, e mettendo in moto.
 
Cercai di sembrare offesa, ma non mi riuscì molto bene, poiché un sorriso divertito non lasciava il mio volto.
 
“Uh, tranquillo che gliela faremo pagare! Nessuno si mette contro Jack Frost senza pagarne le conseguenze, argh!” dissi, cercando di imitare la voce di un ragazzo e scoppiando nuovamente a ridere.
 
Per il resto del viaggio continuammo a fare battute sull’accaduto ed ero felice che Jack non se la fosse presa per il pugno che gli avevo tirato.
Questa volta, non andammo al centro commerciale e gliene fui davvero grata.
Aveva parcheggiato la macchina in una via del centro e aspettò che scendessi, prima di incamminarsi.
Era un freddo pomeriggio di fine autunno, che ricordava a tutti che l’inverno era alle porte. Faceva piuttosto freddo, così misi le mani nelle tasche della mia giacca, per riscaldarle.
Parlammo degli orribili vestiti che portavano i manichini in vetrina e prendevamo in giro il pessimo gusto degli stilisti.
 
“Ma cosa stiamo cercando, esattamente?” gli chiesi, ad un certo punto, tra una risata e l’altra.
 
“In realtà non lo so proprio. Vedi cosa ti piace e io ti dico se va bene o se è meglio bruciarlo” disse alla fine.
 
Io annuii e iniziai a guardarmi in giro, cercando qualcosa che attirasse la mia attenzione. Non ero un’esperta in quel campo, i vestiti li compravo sempre casualmente, entrando nel primo negozio che mi capitava di fronte. Questa volta, però, dovevo impegnarmi.
 
Dopo aver camminato per un altro po’, il mio sguardo cadde su una vetrina e decisi di trascinare Jack con me dentro quel negozio. Gli feci vedere dei jeans, qualche maglietta e anche una felpa, che lui approvò. Uscii da lì trascinandomi dietro una grande borsa.
 
“Ora, ti prego, dimmi che possiamo fermarci e bere una cioccolata calda, perché le mie dita si stanno lentamente congelando” dissi io, dopo qualche minuto.
 
“Va bene, rossa, so già dove andare” disse lui, con un sorriso in volto.
 
Annuii, ma prima che potessi fare un altro passo, mi prese la borsa dalle mani.
 
“Frost, guarda che so portare una borsa” gli dissi, alzando le sopracciglia.
 
Liquidò la mia affermazione con un gesto della mano e decisi che era meglio non obbiettare, così, semplicemente, lo seguii.
 
Entrammo in un piccolo bar più avanti. C’erano pochi tavoli in legno e la maggior parte dello spazio era occupata dal bancone, anch’esso in legno. L’atmosfera era semplicemente meravigliosa, quasi famigliare. Un barista ci salutò, e Jack andò a parlare con lui, mentre io mi guardavo intorno: il bar era praticamente vuoto e avvistai un tavolo all’angolo, l’unico lontano dalle finestre che davano sulla strada. Andammo a sederci lì.
 
“Bel posto, devo ammetterlo” gli dissi, sorridendo appena. Lui annuì e si girò in direzione del barista, e, chiamandolo per nome, gli chiese di farci due cioccolate calde. L’uomo annuì e allora Jack spostò lo sguardo verso il basso.
 
“Sai, vengo in questo bar da quando sono nato, praticamente. Il proprietario, John, che ci sta facendo le cioccolate, è un amico di famiglia” disse e, sorridendo amaramente, riprese a parlare: “Ho sempre amato questo posto, ma ultimamente gli affari non stanno andando molto bene e, se le cose non cambiano, John sarà costretto a chiudere. Lui non avrà un lavoro ed io perderò per sempre non solo questo posto, ma anche i ricordi che rappresenta”.
 
Si era appena aperto con me e mi sorprese. Decisi, però, che non era il momento giusto per pensarci.
 
“No! Non possiamo lasciare che chiuda. Ci sarà un modo per rimanere aperti, no?” dissi.
 
Le mie parole lo lasciarono sorpreso, ma ero piuttosto convinta di ciò che dicevo.
 
“Servirebbe più clientela…” disse, con un tono lievemente afflitto.
 
“E allora attiriamo più clientela!” aggiunsi io, alimentando la convinzione nelle mie parole.
 
“Come?” chiese lui, alzando finalmente il volto.
 
“Potremmo fare dei volantini, spargere la voce, ripulire un po’ questo posto. La gente verrà, ne sono certa” dissi io, facendomi spuntare un sorriso incoraggiante sul viso.
 
Lui sorrise, guardandomi negli occhi, e subito annuii, poco prima che arrivassero le cioccolate. John le appoggiò sul tavolo e fissò me e Jack, con un’espressione sorridente. Inizialmente, non capii. Poi una piccola paura si insinuò nella mia mente e così le mie guance diventarono rosse.
 
“Guarda che non stiamo insieme!” mi affrettai a dire, rivolta al barista, che non si era ancora tolto il sorriso dal volto.
 
Jack finalmente si accorse della situazione imbarazzante e decise di corrermi in aiuto.
 
“È vero John, non stiamo insieme” disse, annuendo in direzione del barista.
 
“Va bene, ragazzi, va bene” disse lui, alzando le mani e ridendo appena.
 
“Comunque, Jack, vorresti spiegarmi perché hai quell’occhio nero?” gli chiese poi.
 
Improvvisamente lui spalancò gli occhi e per poco non si strozzò con la cioccolata che stava bevendo, mentre io trattenni una risata.
Il ragazzo iniziò a balbettare e cercò di trovare una scusa, ma era impacciato e molto divertente.
Decisi di corrergli in aiuto, era pur sempre colpa mia, se aveva quell’occhio nero. Poi, lui voleva mantenere la sua reputazione da duro.
 
“Un ragazzo si è arrabbiato con Jack e gli ha tirato un pugno. Considerando che il tizio in questione era piuttosto muscoloso, non è riuscito a pararlo e così ora ha un occhio nero” dissi io, cercando di sembrare il più onesta possibile.
 
John annuii e disse a Jack che quel brutto ceffo se la sarebbe vista brutta, la prossima volta, e poi se ne tornò dietro al bancone.
Io ripresi a sorseggiare la mia cioccolata calda, che piano piano si stava raffreddando.
 
“Quindi mi copri, rossa?” disse lui.
 
Mi maledissi mentalmente per la mia infinita gentilezza.
 
“No, Frost. Semplicemente non volevo che sembrassi un pappamolle di fronte ad un tuo amico” gli risposi, alzando le spalle.
 
Capii subito dopo di aver sbagliato completamente le parole, perché Jack sorrise.
 
“Non in quel senso! Se avessi detto in giro che sei stato battuto da una ragazza, poi mi avrebbero tutti preso di mira perché avevo rovinato il tuo bel faccino” dissi, sottolineando con ironia la parola bel.
 
“Okay, okay” disse lui, alzando le braccia e trattenendo una risata.
 
Sbuffai rumorosamente e finii la mia cioccolata, che, alla fine, Jack mi aveva pagato.
 
Tornammo fuori e lui teneva ancora la mia borsa. Camminammo l’uno affianco all’altra in silenzio e poi, casualmente, mentre tornavamo verso la sua macchina, vidi un vestito in una vetrina. Rimasi sbalordita: era bellissimo. Arrivava fino alle ginocchia, era azzurro, esattamente come i miei occhi, ed infine non aveva le spalline. Era sobrio, in tinta unita e senza nessun particolare che lo caratterizzasse. Era esattamente nel mio stile, ma, a giudicare dal prezzo sul cartellino, non nel mio portafogli. Diedi un’ultima occhiata alla vetrina, quando mi girai per riprendere a camminare. Casualmente, pestai la testa contro la spalla di Jack, che mi stava dietro e mi scusai a bassa voce, lui alzò le spalle e riprendemmo a camminare.
 
“Ti piaceva davvero tanto, uh?” domandò ad un certo punto lui.
 
Ci misi un attimo per capire di cosa stesse parlando, ma poi annuii.
 
“Solo che non me lo sarei potuta mai permettere” aggiunsi poi, a bassa voce.
 
“Capisco” disse semplicemente lui.
 
Arrivammo in fretta alla macchina e Jack mise la borsa sui sedili posteriori, mentre io salivo. Dopo essersi seduto sul sedile del guidatore, mise in moto.
 
Per tutto il viaggio cercammo un modo per promuovere il bar e ci accordammo per incontrarci domenica pomeriggio per trovare idee utili.
 
“Ci vediamo domani, Jack” dissi, quando il ragazzo aveva accostato di fronte a casa mia.
 
Stavo per aprire la portiera e scendere, quando lui mi chiamò.
Mi voltai nella sua direzione, con un’espressione interrogativa.
 
“Volevo dirti un’ultima cosa sul fatto della DUFF” disse lui, dopo aver preso un lungo respiro. Il mio sguardo lo incitò a continuare: “Devi credere in te stessa, credere di essere bella. Così apparirai sicura, farai colpo. La bellezza non sta solo nel viso, ma anche nel carattere. Pensaci su” finì lui, curvando le labbra in un sorriso sincero.
 
Non riuscii a trattenermi dal sorridere a mia volta.
 
“Grazie, Jack. Sono stata bene oggi, a domani” gli dissi, prima di prendere la borsa e scendere dall’auto.
 
Entrai in casa sospirando, senza una ragione precisa. Corsi su per le scale, diretta in camera mia, dove sistemai i miei nuovi vestiti, alcuni dei quali avrei indossato l’indomani. Quella sera, cenai in fretta e furia e, dopo aver aiutato mia madre a lavare i piatti, tornai di sopra, solo per buttarmi nel letto e cercare di prendere sonno.
 
 

NOTA AUTRICE
Ho aggiornato per il semplice motivo che mi andava di farlo. In più. Questa ff ha tipo 19 capitoli e se aggiorno solo una volta a settimana non finisco più…quindi niente, ecco un altro capitolo e altre scene Jarida. Ovviamente questi due sono delle teste calde e non ci capiscono ancora nulla, ma penso che tutti abbiamo le idee chiare.
Mi riservo un angolino per ringraziare tutte le persone che hanno messo la storia tra le preferite, seguite e ricordate! E ringrazio di cuore anche tutti quelle che mi lasciano una recensione: non posso davvero desiderare di meglio!
Detto questo, ci vediamo domenica con un altro capitolo!
Tanti abbracci,
lovingbooks.

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Capitolo 7
*** Strane richieste, scherzi poco divertenti e pigiama party ***


 
Capitolo 7. Strane richieste, scherzi poco divertenti e pigiama party
 
Sbuffai mentre entravo in mensa con Rapunzel, dopo un’ora di ginnastica passata a correre, saltando gli ostacoli e giocando a basket –cosa che mi riuscii piuttosto bene– avevo solo bisogno di mangiare e tanto. Mi sedetti al tavolo con Punzie e subito Flinn si unì a noi. Dovrei davvero trovarmi un ragazzo, pensai divertita. In effetti, da quando stavano insieme, la bionda mi aveva messo da parte, ma avrei fatto di tutto, purché lei fosse felice. Iniziarono a baciarsi, mentre io prendevo in mano il mio libro di francese e studiavo, dato che l’ora dopo avrei dovuto sostenere un compito. Non andavo molto bene in francese e in più c’era la promessa fatta a mio padre che mi metteva pressione, ma pensarci non serviva a nulla in quel momento. Stavo sgranocchiando una mela e cercando di ricordarmi tutti i tempi che avevamo studiato, quando sentii qualcuno sedersi accanto a me. Alzai lo sguardo solo per ritrovarmi faccia a faccia con un ragazzo che non avevo mai visto, aggrottai le sopracciglia, mentre una muta domanda si dipingeva sul mio viso: cosa ci fai qui? Il ragazzo in questione sorrise, ma io ero impegnata a guardare i suoi occhi scuri, quasi neri, e non lo notai.
 
“Sei Merida, giusto?” disse, con un timbro vocale basso.
 
Io annuii, ancora incapace di parlare a causa della mela che stavo mangiando.
 
“Sono Jason” disse, porgendomi una mano, senza mai togliersi il sorriso dalla bocca.
 
“Merida, anche se già mi conoscevi” dissi, stringendogli forte la mano
 
“Sei carina, oggi” disse, con un tono veramente poco ironico e con molta sicurezza nella voce.
 
Cercai di reprimere il rossore sulle mie guance e presi un piccolo respiro, senza darlo a vedere.
 
“Grazie” risposi, tentando di fare un sorriso sincero, cosa che non mi riuscii per nulla.
 
Lo guardai meglio: aveva i capelli biondo cenere, tutti spettinati. Quando sorrideva, compariva una fossetta sulla guancia. Il suo naso andava verso l’alto ed infine il suo fisico muscoloso lasciava intendere che era il capitano di qualche squadra scolastica. Probabilmente, quel ragazzo avrebbe fatto urlare un sacco di ragazze della scuola, anche se a me non stupiva più di tanto. L’unica cosa che mi piaceva del suo aspetto e che non ostentava la sicurezza di essere bello era la sua fossetta, innocente.
 
“Ti andrebbe di uscire con me, sabato sera?” disse, diretto, risvegliandomi dai miei pensieri.
 
Almeno, non faceva giri di parole. Rapunzel era troppo impegnata per potermi aiutare, vagai con lo sguardo per la sala mensa alla ricerca di qualcuno che lo potesse fare. Subito pensai a Jack, ma lo vidi mentre rideva e scherzava insieme ad una ragazza bionda, che aveva raccolto i capelli in una treccia, aveva un viso famigliare e pensai che dovette essere Elsa, la sua compagna di laboratorio. Rimasi un po’ delusa, perché speravo che potesse correre in mio soccorso. Sembrava che nessuno di mia conoscenza potesse fare qualcosa, quando vidi, in un tavolo nascosto in un angolo Hiccup, che stava guardando nella mia direzione. Gli feci un cenno di saluto, che ricambiò con un sorriso e cercai di chiedergli aiuto, con un’espressione del viso. Sperai dentro di me che avesse capito, mentre mi giravo di nuovo verso Jason, che sembrava convinto di avere un sì come risposta. Aprii la bocca per dirgli che non sarei uscita con lui, quando una mano gli toccò la spalla. Alzai lo sguardo verso il mio salvatore, sorpresa nel riconoscere il volto del mio compagno di laboratorio.
 
“Merida, come stai?” chiese, sorridendomi amichevolmente.
 
“Hiccup! Tutto bene, grazie. Jason mi stava giusto chiedendo un appuntamento per sabato sera..” gli dissi, ma, prima che potessi finire la frase, lui mi interruppe: “Oh, Jason! Mi dispiace, ma Merida deve già uscire con me sabato, quindi credo che sia un no. La prossima volta sarai più fortunato”.
 
Sospirai di sollievo quando Jason –finalmente– se ne era andato. Nel frattempo, Hiccup si sedette accanto a me e io gli rivolsi un’espressione di gratitudine.
 
“Grazie mille, mi hai salvato!” esclamai.
 
Lui alzò le spalle, con aria innocente, curvando, però, le labbra in un sorriso.
 
“Allora, cosa mi racconta la mia compagna di laboratorio preferita?” mi chiese.
 
“Be’, in realtà non ha molte novità. Solo una verifica di francese tra circa dieci minuti, e invece il mio moro preferito?” dissi io, mentre portavo una mano tra i suoi capelli, scompigliandoglieli.
 
“Niente di che, sabato ha questo appuntamento con questa bella ragazza…” disse lui, alzando le spalle.
 
“Uh e chi è?” gli domandai, presa dalla curiosità, mentre con un dito gli punzecchiavo una spalla.
 
“Be’ diciamo che è una rossa dal carattere particolare” rispose, lasciandomi letteralmente spaesata.
 
Non avevo capito che lui facesse sul serio, quando aveva detto a Jason che saremmo usciti. All’idea di un appuntamento con il biondo, però, mi ero sentita in modo diverso, un po’ più a disagio. Ora, invece, era una cosa completamente diversa: sarei uscita con Hiccup, che conoscevo già e avrei fatto di tutto per lasciarmi andare.
 
“Oh be’... dev’essere davvero fortunata” dissi, facendogli l’occhiolino.
 
Entrambi scoppiammo a ridere ed iniziammo a parlare d’altro. E, poco prima che la campanella suonasse, ci scambiammo i numeri di telefono, con la promessa di scriverci la sera.
 
La verifica di francese non fu per niente una passeggiata. E quando la campanella dell’ultima ora suonò, dopo due lunghe ore di test, mi sentii finalmente più tranquilla.
Uscii di fretta da scuola, ma appena girai l’angolo sentii una mano stringermi il polso. Mi girai, cercando di non insultare il malcapitato che aveva sbagliato momento, ma, con mia grande sorpresa, mi trovai di fronte Hiccup. Ovviamente, non mi sembrava il caso di picchiarlo ancora prima di esserci uscita, così gli sorrisi, semplicemente.
 
“Ehi Hiccup” gli dissi, la sua mano ancora intorno al mio polso.
 
“Merida, volevo solo dirti che ti passo a prendere alle sei, domani sera” disse e suonava come un’affermazione a cui non potevo obbiettare, quindi annuii.
 
Lui, dopo avermi lasciato un bacio veloce sulla guancia, se ne andò, quasi correndo. D’altro canto, io ero piuttosto sorpresa. La mia espressione facciale doveva essere piuttosto chiara, perché quando Rapunzel mi vide, mi venne velocemente incontro, tempestandomi di domande, senza nemmeno lasciarmi il tempo di rispondere. Cercai di riprendermi, scuotendo la testa e le misi le mani sulle spalle.
 
“Punzie, calmati! Non devi andare in escandescenza. Due parole: pigiama party” le dissi, prima di voltarmi e andarmene.
 
Arrivai a casa talmente in fretta che nemmeno me ne accorsi. La sera giunse velocemente, tra i compiti e lo studio. Dicono che la sera porti consiglio, ma a me portava solo una bionda piuttosto bassa con dei grandi occhi verdi.
Quando entrò nella mia stanza, corsi a chiudere la porta e mi lanciai immediatamente in un dettagliato discorso riguardante i fatti salienti della giornata. Iniziai con Jason, il ragazzo che aveva provato a portarmi fuori sabato, poi passai a Hiccup e all’appuntamento che avevo guadagnato. Così le spiegai perché, fuori dalla scuola, avevo una faccia davvero molto sorpresa.
 
“Wow! Ammetto che sono un po’ gelosa per Jason, perché è meraviglioso” disse, ma si affrettò ad aggiungere: “Ovviamente, non è il tuo tipo”.
 
“E Hiccup… Non me l’aspettavo! Sono felice che tu abbia un appuntamento e, devo dirtelo, sembra davvero molto carino” continuò lei, curvando le labbra in un sorriso di incoraggiamento.
 
Io sospirai, incapace di focalizzare i pensieri su una sola cosa. Cercai anche di valutare la possibilità di dire alla bionda di Jack. Insomma, dopo tutto ciò che era successo il giorno prima, non mi aveva nemmeno salutato, impegnato com’era a scherzare con Elsa. Credevo che fossimo amici, ma, ovviamente, mi sbagliavo. Alla fine, decisi di raccontare a Punzie anche questo fatto, senza entrare nei particolari, perché avevo bisogno di un’opinione esterna. Quel ragazzo era davvero troppo complicato. E poi dicono delle donne, pensai.
 
“Avevo sentito delle voci di corridoio, secondo cui Jack sta con Elsa, ma non ci credevo più di tanto. Credevo ti piacesse!” confessò, dopo che ebbi finito il mio discorso.
 
Rimasi a bocca aperta: aveva una ragazza e nemmeno mi aveva avvisato!
E perché avrebbe dovuto farlo, poi?, sussurrò una  vocina da qualche parte remota della mia testa. In effetti, non eravamo proprio amici. Conoscenti, al massimo.
Liquidai il discorso con un’alzata di spalle, mettendolo da parte per domenica, quando lo avrei visto.
 
Passammo il resto della serata a mangiare una pizza d’asporto –che si era raffreddata durante la consegna– ad ascoltare della musica, a ridere per video su internet e a recuperare tutto il tempo che avevamo perso. Alla fine, la convinsi a rimanere fino all’indomani pomeriggio, per aiutarmi a scegliere i vestiti da mettere. E, dopo l’ennesima frase priva di senso della serata, entrambe ci addormentammo.

 
NOTA AUTRICE
Scusatemi, scusatemi e scusatemi. Ho già detto scusatemi?
Sono una persona orribile ad aggiornare così tardi e potete tirarmi quanti pomodori volete.
In più il capitolo è corto, quindi penso aggiornerò velocemente. Molto velocemente.
Detto questo, vorrei ringraziare chi mi lascia delle recensioni e anche tutti quelli che seguono la mia storia!
Mi scuso ancora e mi dileguo, prima che mi tiriate anche le sedie.
Baci, lovingbooks.

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Capitolo 8
*** Gonne floreali, primo appuntamento e fontane di cioccolato ***


Capitolo 8. Gonne floreali, primo appuntamento e fontane di cioccolato
 
“Avanti, non metterò mai quel vestito!” urlai, quando Rapunzel mi fece vedere l’abito che avrei dovuto indossare durante l’appuntamento.
 
Non mi sentivo affatto a mio agio con nessun vestito: ero nervosa e ogni cosa che mettevo mi sembrava sbagliata. E Punzie non aiutava per nulla, perché rideva ogni volta che provavo ad indossare qualcosa.
 
“Sai quali sono i miei gusti, scegli qualcosa che possa piacergli!” esclamai, con un tono pieno di frustrazione, mentre lei scuoteva la testa e andava verso l’armadio.
 
“E va bene, ma questi sono gli ultimi vestiti che puoi mettere, altrimenti ci vai nuda” disse lei.
 
La cosa mi stupì non poco, ma poi mi guardai intorno: la mia camera era un completo disastro, c’erano magliette e felpe sparse per il pavimento, jeans messi sulla scrivania, gonne e vestiti –che non sapevo nemmeno di possedere- si erano impossessati del letto. Non avevo mai provato così tanti vestiti in tutta la mia vita. Questo appuntamento mi stava davvero mettendo ansia. Tutti i primi appuntamenti di una ragazza sono così?, pensai.
 
“Tieni” disse la bionda, risvegliandomi dai miei pensieri.
 
Subito presi i vestiti che mi stava porgendo e corsi a cambiarmi per l’ultima volta.
 
Mi guardai allo specchio e mi stupii: indossavo, per quella che mi sembrava essere la prima volta nella vita, una gonna a motivo floreale, che mi arrivava alle ginocchia. Sopra avevo una maglietta verde, a maniche corte, che risaltava i miei occhi. Poiché non faceva così caldo, misi anche un golf bianco, che mi teneva al caldo ed infine indossai una giacca che mi prestò mia madre. Non sembravo io. Quella riflessa era davvero molto lontano dall’essere me. Soprattutto dopo qualche piccolo ritocco che Rapunzel mi aveva fatto, raccogliendomi i capelli in una coda e lasciando che solo un ciuffo mi incorniciasse il volto, mettendomi la giusta dose di trucco, così che sembrassi naturale. Mi sentivo, dopo molto tempo, bellissima. E nessuno poteva togliermelo.
 
“Grazie, Punzie. Grazie” le dissi, girandomi verso di lei e stringendola in un abbraccio.
 
La sentii sorridere e, prima che potessi dire altro, suonò il campanello: erano già arrivate le sei.
Mi girai preoccupata verso la mia migliore amica, lei, però, non poté fare altro che darmi un sorriso d’incoraggiamento. E, mentre sentivo Hiccup che entrava in casa e parlava con mia madre e i miei fratelli, presi un respiro profondo e mi diressi, con molta lentezza, verso il soggiorno.
 
Non appena misi piede nella stanza, vidi Hiccup che era intento a spettinare i capelli dei miei fratelli, definendoli “campioni”. I miei fratelli non sono mai stati bambini calmi. Sono sempre stati molto estroversi e vivaci, nessuno riusciva a diventare davvero loro amico o a diventare loro simpatico, eccetto la mia famiglia. Temevo che, da un momento all’altro, gli avrebbero tirato la giacca o gli si sarebbero aggrappati ai piedi. Ovviamente tutte le mie paure furono confermate quando uno di loro tirò un calcio nello stinco al moro, che fece un espressione di dolore e si allontanò subito da loro, trattenendo qualche insulto.
Decisi che era il momento di andare fuori da quella casa, così feci un colpo di tosse, attirando l’attenzione di Hiccup su di me. Subito gli sorrisi e lui mi salutò, venendomi in contro e porgendomi una mano. Io la accettai e, dopo aver salutato mia madre e i miei fratelli, uscimmo di casa, salendo sulla sua auto.
Prima di partire, si voltò verso di me con un ampio sorriso.

“Sei bellissima, Merida” sussurrò, guardandomi negli occhi.
 
Sentì le mie guance diventare rosse e cercai di mandare via l’imbarazzo, scuotendo la testa.
 
“Grazie, anche tu sei bellissimo” gli risposi.
 
Ed era vero: era vestito con dei pantaloni color cachi, una camicia bianca ed una giacca nera. Il suo sorriso era splendido, i suoi occhi avevano uno strano luccichio, che però risaltava il suo viso. Scossi la testa, perché sentivo ancora le mie guance molto calde e lui mise in moto e partimmo. Nel viaggio in macchina parlammo tanto, di cose poco importanti, raccontammo barzellette. Era come se il silenzio, tra di noi, non esistesse. Con questo pensiero, una sensazione di felicità mi colpì allo stomaco e, prima che potessi scuotere la testa, l’auto si fermò: eravamo arrivati a destinazione.
 
Il ristorante in cui mi aveva portato era piuttosto carino: aveva dei grandi e raffinati lampadari, appesi al soffitto, su ogni tavolo –e c’erano tanti tavoli– vi era una candela, le tovaglie erano tutte bianche e toccavano il pavimento, mentre le posate erano d’argento, i piatti veramente molto costosi e i bicchieri di cristallo. Insomma, era un posto troppo grande e troppo lussuoso per una persona come me, che preferirebbe mille volte un hamburger davanti alla TV. Hiccup, al contrario, si trovava a suo agio lì dentro. Si muoveva come se conoscesse il posto. E, quando un cameriere ci fece strada verso il nostro tavolo, salutava ogni persona seduta, mentre io sorridevo timidamente.
 
“Quindi conosci tutti, uh?” gli domandai, una volta che mi ero seduta sulla sedia.
 
“Più o meno” rispose lui, soffocando a malapena una risata.
 
Gli sorrisi e cercai con tutta me stessa di sentirmi a mio agio, cosa che mi riuscì bene solo grazie a lui.
 
“Due piatti dello chef” disse al cameriere, ordinando anche per me.
 
Non mi ero nemmeno accorta che fosse arrivato, perché ero intenta a cercare di tradurre i nomi complicati dei tanti piatti sul menu. Il fatto che Hiccup aveva preso le ordinazioni anche per me mi infastidiva un po’, perché non ero più una bambina e non conosceva nemmeno i miei gusti. Cercai, però, di apprezzarlo, di vederlo come un gesto di gentilezza nei miei confronti. Quello che non mi andò giù, fu il tono con cui tutti trattavano i camerieri, come se fossero spazzatura, senza la minima gentilezza. Non riuscivo proprio a farmelo andare bene.
 
“Dovresti essere più gentile con il cameriere, sai” gli dissi, facendo finta di nulla, appena ci fu un momento di silenzio.
 
Lui mi guardò con uno sguardo sorpreso, come se avessi turbato la sua tranquillità. Ovviamente, non avevo usato un tono troppo cattivo o accusatorio, mi piaceva Hiccup e non volevo rovinare la nostra uscita.
 
“Che intendi dire?” chiese lui, aggrottando le sopracciglia con quella che sembrava fosse un’aria interrogativa.
 
“Che la gentilezza è gratuita, e so che sei gentile, lo capisco dal modo in cui ti comporti con me, quindi, semplicemente, fallo anche con i camerieri” gli risposi, sorridendo, come per alleggerire la tensione che stavo iniziando a percepire intorno a me.
 
Lui sorrise per il complimento e liquidò il discorso con la promessa di essere più gentile, la prossima volta. Era bello quando non dovevo litigare con qualcuno per farmi sentire. Mi sentivo bene e il mio umore non faceva altro che migliorare, grazie ad Hiccup e alle sue piccole preoccupazioni nei miei confronti. Iniziammo a parlare delle cose divertenti che ci erano accadute da bambini e ridemmo per tutta la sera.
Arrivammo a casa un paio d’ore dopo. Durante il viaggio in macchina, non avevamo parlato molto, poiché io mi sentivo davvero troppo stanca per farlo, così aveva acceso la radio. Quando fermò l’auto sul vialetto di casa mia, si girò verso di me e mi rivolse un sorriso imbarazzato. L’imbarazzo palpabile nell’aria.
 
“Allora…” esordimmo all’unisono.
 
Scoppiammo entrambi a ridere, la sua risata era carina. Una volta finito di ridere, mi guardò e si avvicinò.
 
“È stata una bella serata, Merida. Mi sono divertito e spero di uscire di nuovo” disse, pericolosamente vicino al mio viso.
 
Io gli sorrisi timidamente. Sapevo cosa stava cercando di fare: voleva baciarmi. Ma ero pronta? Per niente. Si stava avvicinando sempre di più alle mie labbra, così decisi di prendere in mano la situazione e voltai il viso, baciandogli la guancia. Poi sussurrai una buonanotte imbarazzata e corsi in casa, lasciandolo solo in auto, mentre si passava una mano sul collo. Se veramente voleva darmi un bacio, doveva aspettare che io fossi pronta. Un bacio, per me, era una cosa importante, un modo per trasmettere i propri sentimenti per una persona, senza l’uso delle parole. Non potevamo baciarci la sera stessa del nostro primo appuntamento. Nella mia mente, era illogico.
Quando entrai in casa, non c’era nessuno sveglio, così corsi di sopra e mi misi, in fretta e furia, il mio pigiama, buttandomi nel letto a riflettere sulla giornata appena passata e su quella che doveva venire. Perché, come se non bastasse, il giorno dopo avrei dovuto affrontare Jack e il suo ghigno. Avevo bisogno di spiegazioni. Non che m’importasse, tutt’altro. Solo che, se eravamo davvero amici, allora avrebbe dovuto dirmi tutto. La cosa più bella era, però, che avremmo aiutato John e avrei fatto di tutto purché lui riuscisse a tenere aperto quel bar.
Stavo per chiudere gli occhi quando, improvvisamente, mi ricordai che l’indomani, a casa mia, ci sarebbe stato un affollamento di gente: amici dei miei genitori, parenti e vicini. Non perché ci fosse una ricorrenza particolare, semplicemente era solito che tutti ci incontrassimo a casa di qualcuno, di domenica. Sperai solamente che Jack arrivasse dopo la fine di tutto, perché non doveva partecipare a quella che era una cosa di famiglia. Non ci conoscevamo ancora abbastanza bene per quello. Finora, solo Punzie ne aveva preso parte e non volevo che Jack ed io diventassimo così intimi.
Cercai di addormentarmi, mettendo da parte le preoccupazioni per l’indomani.

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Capitolo 9
*** Luogo di ritrovi, piccole alleanze e imbarazzanti fraintendimenti ***


Capitolo 9. Luogo di ritrovi, piccole alleanze e imbarazzanti fraintendimenti
 
Mi svegliai a mezzogiorno, circa, a causa delle urla che provenivano dal primo piano. Volevo tornare a dormire, perché dovevo recuperare ancora alcune ore preziose di sonno, purtroppo, però, gli amici-vicini-parenti erano arrivati ed io dovevo almeno farmi vedere. Mi alzai, di malavoglia, dal letto, vestendomi con dei jeans e una maglietta attillata e scesi. Il rumore si faceva sempre più forte, man mano che mi avvicinavo verso il giardino. Casa mia sembrava essere diventata il luogo della festa più attesa dell’anno. Conoscevo tutti e li salutavo gentilmente, evitando che mi fermassero per parlare della scuola, del ragazzo o di altro. Sapevo dove avrei trovato i miei genitori: mia madre seduta su una sedia al tavolino, mio padre al barbecue e i miei fratelli dispersi per la casa.
Purtroppo, non andò così: il barbecue era spento, mia madre era in piedi e rideva, insieme a delle sue amiche, mentre mio padre urlava qualcosa ai miei fratelli, che stavano giocando a pallone…con Jack.
Mi immobilizzai e pensai che sarei potuta tornare indietro, che ero ancora in tempo per riaddormentarmi. Ma poi, qualcuno mi chiamò: Jane, un’amica di mia madre. Così fui costretta ad andare da loro, che continuavano a ridere e a lanciare occhiate a quella “partita” improvvisata che Jack e i miei fratelli stavano giocando.
 
“Merida, cara, non pensavo che il tuo ragazzo fosse così gentile!” commentò, una volta che le fui vicino.
 
Trattenni a stento una risata, perché io e Jack non potevamo essere definiti amici, figuriamoci fidanzati.
 
“Merida, figlia mia, io credevo che il tuo ragazzo fosse il ragazzo che ieri ti era venuto a prendere!” commentò poi mia madre, lasciando le altre stupite.
 
“Fai il doppio gioco?” domandò una.
 
“Lo hai mollato ed è in cerca di perdono?” chiese l’altra.
 
Io non potei far altro che scoppiare a ridere di gusto. Quando ebbi smesso, mi ritrovai di fronte le facce confuse di mia madre e delle sue amiche. Allora, per pietà, decisi di dare loro una spiegazione.
 
“In realtà il ragazzo che è venuto ieri non è proprio il mio ragazzo. Mentre Jack è una specie di amico” dissi, aggiungendo mentalmente: e non so per quale assurda ragione sia venuto così presto.
 
Finalmente, mi lasciarono andare, iniziando a parlare d’altro. Erano quel tipo di madre ultratrentenni che spettegolava di tutto e di tutti. Non volevo diventare come loro, mai.
Mi allontanai e rimasi in piedi intenta a fissare i miei fratellini. Loro non avevano mai giocato con qualcuno al di fuori della famiglia, erano sempre stati solo loro tre. Certe volte, nemmeno io ero ammessa ai loro giochi. E, invece, arriva Jack, un perfetto estraneo, e loro prendono una palla, se la passano e diventano amici, divertendosi, anche!
Ammetto che una fitta di gelosia mi aveva stretto lo stomaco, insomma, lo avevano fatto diventare loro amico come se niente fosse. Una parte di me, però, si sentiva felice: iniziavano ad avere nuovi amici.
Mi buttai, senza nemmeno sapere come, nel loro gioco, e iniziai a calciare la palla verso la porta improvvisata. Eravamo diventati quattro contro una e andava bene così. Iniziai a correre per fare goal, ma Jack mi aveva rubato la palla e l’aveva passata ad Harris e così dovetti tornare indietro e cercare di riprenderla.
La partita si concluse dopo due goal da parte loro, tre da parte mia, grazie all’aggiunta di alcuni amici di mio padre che si erano schierati dalla mia parte per pietà. Ero senza fiato, così mi sedetti sul prato e iniziai a prendere dei lunghi respiri. Subito sentì qualcuno accanto a me e, non appena mi girai, mi trovai di fronte il sorriso amichevole di Jack. Ovviamente, nonostante la partita, ero ancora arrabbiata con lui per non avermi detto di Elsa, ma decisi che era un argomento da toccare dopo. Così, ricambiai il sorriso, con un’alzata di spalle.
 
“Esattamente, Frost, perché sei venuto così presto?” gli chiesi, una volta che ebbi ripreso fiato.
 
“Pensavo che di pomeriggio fosse troppo tardi. E poi sono arrivato a mezzogiorno, chi si aspettava che tu dormissi ancora!” rise lui.
 
“Hai ragione, colpa mia” mi arresi io, alzando le mani al cielo e lasciandomi sfuggire una risata.
 
“Allora, cosa mi racconti, Rossa? Non ci sentiamo da un po’” chiese lui.
 
Non ci sentiamo da un po’ per colpa tua, pensai.
 
“Niente di che. Ieri ho avuto un appuntamento” risposi alla fine, iniziando a giocare con i fili d’erba.
 
“Uh, e con chi?” disse, voltandosi nella mia direzione.
 
Inizialmente, non volli rispondere: non ne trovavo il motivo. Insomma, lui non mi aveva detto che si era fidanzato, perché io dovevo raccontargli nei particolari la mia vita amorosa? Ma poi una parte di me, che probabilmente credeva ancora in una possibile amicizia tra di noi, mi spinse a dirglielo.
 
“Hiccup” mi voltai nella sua direzione.
 
La sua mascella si contrasse appena in un segno di rabbia, che però svanì subito. Jack rimase in silenzio e allora decisi che era il mio turno di fare domande.
Non feci in tempo a dire nulla, però, perché arrivarono i miei fratelli ad annunciare che il pranzo era pronto.
Mangiammo tutti in piedi, nei piatti di plastica. Io presi tante patatine fritte e due fette di carne. Mangiai mentre venivo trascinata tra gli amici dei miei genitori, che mi riempivano di domande inutili, a cui avevo giù risposto l’ultima volta che ci eravamo visti.
Alla fine, riuscii ad arrivare a mio padre, che stava parlando amichevolmente con Jack.
Quando arrivai, mio padre mi mise una mano sulla spalla, ridendo, probabilmente, per una battuta.
 
“Merida, il tuo nuovo ragazzo mi piace tantissimo!” mi disse lui, tra le risate.
 
Questa volta, diventai rossa, sotto lo sguardo imbarazzato di Jack, che si mise le mani in tasca.
Io non dissi nulla, troppo impegnata a guardare per terra, cercando di nascondere il mio viso dietro i miei lunghi capelli. Nemmeno Jack aprì bocca, forse troppo imbarazzato o forse troppo impegnato a fissare verso terra.
Mio padre dovette capire tutto dallo strano silenzio che era calato nella nostra conversazione.
 
“Non siete fidanzati, vero?” chiese, intuendo già la risposta.
 
“No, papà” gli risposi io, mentre Jack annuiva per confermare le mie parole.
 
“Siamo solo amici, Fergus” disse Jack.
 
Esattamente, da quando aveva iniziato a chiamare mio padre Fergus?
 
“Oh…pensavo che steste insieme. Insomma, l’hai invitato qui. Non inviti mai nessuno qui, a parte Punzie” si scusò mio padre, ormai in imbarazzo.
 
Sapevo che sarebbe finita così. E lo capii quando vidi lo sguardo superiore di Jack fissarmi o quando sentii le mie guance arrossire. Allora decisi che era il caso di prendere in mano la situazione.
 
“Gli ho chiesto di venire qui perché dovevo aiutarlo con delle cose. Mi ero completamente dimenticata che ci sarebbe stata questa cosa! E poi speravo arrivasse più tardi” dissi io, cercando di motivare la presenza di Jack.
 
Non credo che fui molto convincente. Alla fine, prima che mio padre potesse dire altro, trascinai Jack in camera via, sotto gli occhi di tutti. A quante domande dovrò rispondere, pensai.
Nel momento in cui chiusi la porta dietro le mie spalle, però, non ero io quella a dover dare delle risposte.
Jack aveva il suo solito ghigno stampato in volto e la cosa mi fece arrabbiare.
 
“Rossa, se volevi stare sola con me, bastava dirlo” disse, mentre si sedeva sul mio letto, mettendosi comodo.
 
Io, d’altro canto, rimasi in piedi. Assomigliavo ad un detective che interrogava il suo sospettato. Ero tentata di prendere la luce della lampada e puntargliela in faccia. Più per il fastidio che gli avrebbe provocato, che per altro. Liquidai l’idea scuotendo la testa, quindi decisi che era arrivato il momento giusto per chiarire le cose.
 
“Frost” iniziai, di certo non con un tono amichevole.
 
Lui mi guardò con un’espressione interrogativa, che poi sparì subito. Rimase, però, in silenzio, aspettando che continuassi il mio discorso.
 
“Perché non mi hai detto che stai con Elsa? Insomma, credevo fossimo amici! Gli amici si dicono certe cose” sbottai, tutto d’un fiato.
 
Dapprima, nel suo volto si mescolarono una serie di emozioni indecifrabili. Poi vi vidi la rabbia, che fu presto sostituita da una risata genuina. La sua risata era così bella e sincera che fui tentata di unirmi a lui. Solo che dovevo rimanere immobile, per fargli capire che era una discussione seria. Dopo poco, si accorse che io non stavo ridendo e così si ricompose.
 
“Scusami” disse.
 
E, quando si rese conto che non avevo intenzione di rispondere, aggiunse: “Sì, stiamo insieme. E non te l’ho detto perché non pensavo ti importasse”.
 
Sentì un’aria fredda intorno a me, che mi colpì. Il mio corpo fu trapassato da un brivido. Diedi la colpa agli spifferi che provenivano dalla finestra e mi concentrai sulle parole di Jack. Dopotutto, aveva ragione. Eravamo davvero così amici? No. E allora perché mi ero arrabbiata così tanto? Non aveva alcun senso. Sbuffai e gli mormorai delle scuse, dandogli ragione.
 
“Comunque, sei venuto qui per un motivo, giusto?” dissi, mettendomi a sedere sul pavimento, di fronte a lui.
 
“Direi di sì, rossa” rispose, con un sorriso.
 
“Bene, hai già qualche idea?” gli domandai.
 
“Diciamo che pensavo a dei volantini. Potremmo restaurare il bar –non troppo, perché lo amo così com’è– in modo tale che sia un luogo più adatto ai giovani. Attirerebbe più clientela” rispose.
 
Io annuii, pensando che fosse un’idea geniale e, considerando il fatto che era sua, rimasi anche un po’ stupita.
 
“Io potrei occuparmi dei volantini. Ho dei programmi fantastici, sul computer” lui annuì alla mia affermazione e iniziammo a metterci all’opera.
 
Così mi sedetti sulla mia sedia, di fronte al computer, mentre Jack occupò quella di fianco alla mia. Iniziai a disegnare sul foglio del programma, mentre lui mi suggeriva la posizione di una scritta o lo slogan migliore o l’immagine più bella. Rimanemmo in quel modo per quelle che sembrarono ore. Non fu spiacevole, anzi: avere Jack di fianco mi faceva sentire a mio agio, eccetto per le volte in cui la sua spalla sfiorava la mia o quando la sua mano, per sbaglio, toccava la mia. Alle quattro del pomeriggio, avevamo preparato tre diversi tipi di volantini e decidemmo che era ora di fare merenda. Al piano di sotto tutto era tornato tranquillo: la festa, se si può chiamare così, era finita. Trovai un bigliettino, sul frigorifero, da parte dei miei genitori. Diceva:
“Io e tuo padre siamo usciti per cena, non volevamo disturbarvi.
I tuoi fratelli sono dalla zia. Torneremo tardi, non aspettarci alzata.
Ti voglio bene –Mamma.”
 
Fantastico, pensai. Avrei passato la cena da sola, non c’era cosa che desideravo di più. Lasciai perdere, buttando il bigliettino sul tavolo, e andai verso la credenza.
 
“Jack, tu cosa vuoi?” gli chiesi, mentre mi alzavo sulle punte, cercando di raggiungere il pacchetto di biscotti.
 
Perché diavolo lo mettono sempre così in alto?, pensai. Lui non rispose e fui tentata di girarmi, ma sentii un corpo dietro di me e una mano che sfiorava la mia, prendendomi i biscotti. Un rossore si fece strada verso le mie guance. Decisi di non girarmi e di non domandarmi perché fossi arrossita.
 
“Mangerò i biscotti con te” rispose lui, che nel frattempo si era allontanato.
 
Dopo aver preso un lungo respiro, quando fui certa che il rossore fosse scomparso, mi girai e andai a sedermi accanto a lui.
 
“La prossima volta, Rossa, prendi uno sgabello” rise, mettendosi in bocca un biscotto.
 
Gli tirai una leggera gomitata sul braccio, lasciandomi però sfuggire una leggera risata. Presi a mia volta un biscotto ed iniziammo a mangiare in un silenzio gradevole.
 
“Così cenerai da sola, stasera?” mi chiese lui, mentre metteva via la nostra merenda.
 
Io feci un verso d’assenso, senza essere infastidita dal fatto che avesse letto il bigliettino. In quel momento, si girò con un’espressione indecifrabile in volto.
“Vuoi venire a cena da me?” chiese, mentre si portava una mano sul collo, strofinandoselo.
 
La mia espressione doveva essere davvero molto interrogativa, perché lui si lasciò sfuggire un piccolo sorriso, per poi arrossire appena e aggiungere, in tutta fretta: “Non in quel senso! Voglio dire, ci sarà anche la mia sorellina. È per non farti cenare da sola”.
 
Curvai involontariamente le labbra all’insù, in un sorriso sincero.
 
“Va bene, ma non mi cambierò, sono troppo stanca” dissi io con tono ironico.

 
NOTA AUTRICE
Ed eccomi tornata con un altro capitolo!
L'altra volta non ho nemmeno avuto tempo per scrivere una piccola nota e ora mi concentro per farlo.
In realtà non ho proprio nulla da dire, tranne delle cose piuttosto ovvie: è iniziata l'estate, io ho già caldo e IL CALDO MI SPOSSA.
Inoltre, sperando che la mia vita sociale si risvegli un po', starò poco sul computer. O, comunque, quando ci starò sarà per serie tv, anime e film. Ovviamente continuerò a pubblicare, ci mancherebbe altro.
Perché dico questo? Non ha un senso, secondo voi? Solo io la leggo con un tono da pubblicità? Okay, torniamo seri: l'ho detto perché volevo scusarmi, se rispondo in ritardo alle recensioni. Magari non è niente, ma mi dispiace davvero un sacco: voi siete così gentili da lasciare un commento ed io non vi rispondo per mesi! Quindi scusatemi.
Detto questo, ringrazio tutti quelli che seguono la mia storia e quelli che commentano!
E poi mi dileguo che sto parlando troppo.

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Capitolo 10
*** Segreti svelati, piccole sorelle e belle principesse ***


Capitolo 10. Segreti svelati, piccole sorelle e belle principesse
 
Decisi di telefonare a mia madre, prima di lasciare casa, informandola che sarei andata da Jack. Il tono con cui mi rispose era piuttosto divertito e iniziai a pensare che per lei la mia vita amorosa fosse una specie di telenovela. Non che avessi una qualsiasi relazione con Jack, ma ormai ne era fermamente convinta. Mi ripresi dai miei pensieri quando sentì la voce di Frost.
 
“Su, Rossa, muoviti!”.
 
Una volta che mi fui assicurata di aver spento tutte le luci, evitando così eventuali ramanzine, presi la giacca, mi infilai il cellulare in tasca e uscii di casa, chiudendo la porta a chiave. Salii velocemente sul SUV nero che era parcheggiato nel vialetto e ci avviammo verso la casa di Jack.
 
“Hai detto che c’è a casa tua sorella… ma tua madre?” dissi, dopo poco, rompendo il pacifico silenzio che c’era tra di noi, presa dalla curiosità.  
 
Le sue mani strinsero il volante con forza e le sue nocche diventarono bianche. Rimase zitto, continuando a guardare dritto di fronte a sé. Stavo per scusarmi, perché avevo decisamente fatto la domanda sbagliata, ma lui mi precedette ed iniziò a parlare, non che ci fosse molto da dire, comunque.
 
“È morta un po’ di anni fa”.
 
Mi sentii tremendamente in colpa, non avrei dovuto fare nessuna domanda e stare zitta. Maledissi mentalmente la mia curiosità.
 
“Scusa se ho chiesto” dissi, con un tono che esprimeva tutta la mia sincerità.
 
Quello era ovviamente un tasto delicato e non volevo fargli rivivere brutti ricordi. Quando accostò sul ciglio della strada, temetti che mi urlasse contro. Lui, però, non si arrabbiò con me. Al contrario, decise di raccontarmi la sua storia, come avevo fatto io poco prima, al centro commerciale.
 
“Tranquilla. È morta per un tumore al cervello. Non l’aveva detto a me o a mia sorella. Solo mio padre lo sapeva, non ce ne siamo nemmeno accorti. Fino a quando, un giorno, non riuscì più a muoversi e fu costretta a letto. La mia sorellina non aveva capito, come poteva? Io, invece, avevo intuito qualcosa. Iniziai a portarle la colazione a letto, a leggerle dei libri. Avevo deciso che dovevo essere un figlio modello, che dovevo renderla fiera di me. Forse, nel profondo, avevo intuito che se ne sarebbe andata per sempre. Peggiorava di giorno in giorno, sai? Mi sentivo impotente e inutile. Cosa potevo fare io, per lei? Nulla. Ormai anche mia sorella si accorse che non stava bene. Io cercai di consolare anche lei. Quando, finalmente, la sua sofferenza ebbe fine, tutto peggiorò. Mia sorella mi chiedeva in continuazione dove fosse o che cosa stesse facendo, ma non potevo spiegarle tutto. A poco a poco, anche lei capì. I primi giorni, però, furono i più duri. Mio padre si chiuse in sé stesso, non parlava più. Io cercai, a modo mio, di tenere unita la famiglia. Ora è tutto più facile, anche se si sente ancora la sua mancanza e mia sorella non è più la stessa, fatica a fare nuove amicizie. Anche mio padre è cambiato, ha un nuovo lavoro. È via la maggior parte del tempo, così io mi prendo cura della piccola di casa e ho un lavoro, per stare alla pari con tutte le bollette. Che altro posso fare?” disse alla fine.
 
Non stava piangendo, ma era in una posizione che sembrava molto più dolorosa del pianto. Aveva le spalle incurvate e la testa rivolta verso il basso, coperta dai capelli e dalle sue mani. Feci la cosa più naturale che potessi fare: lo abbracciai. Mi sporsi verso di lui e circondai le sue spalle con le mie braccia, cercando di dargli conforto. Non ero spinta dalla pena, e questo lui lo sapeva. Posò la testa sulla mia spalla e io passai una mano tra i suoi bianchi capelli. I nostri gesti, in quel momento, valevano più di mille parole. Quando passò la sua mano sulla mia schiena, sentii una strana sensazione che si propagava dalla zona che aveva toccato: una sensazione di caldo, di tranquillità. Una sensazione che s’impadronì del mio stomaco, che ora era in subbuglio. Tuttavia, non mi mossi. Restai in quella posizione, stringendo Jack tra le mie braccia, mentre lui mi stringeva tra le sue. Se un giorno fa qualcuno mi avesse detto che io e lui ci saremmo abbracciati, gli avrei riso in faccia. In quel momento, invece, non riuscivo ad immaginare un altro posto in cui potevo stare. Era bello. Tutte le cose belle, però, finiscono. Lui si staccò poco dopo, perché il suo cellulare aveva preso a suonare, lessi sul display, per curiosità, chi lo stava chiamando: Elsa. Stranamente, la sensazione di calore che aveva attraversato tutto il mio corpo poco prima, svanì, rimpiazzata da una di freddo. Sapevo che stavano insieme, lui me lo aveva detto, non c’era più motivo di essere arrabbiata. Insomma, eravamo amici, giusto? Eppure uno strano sentimento, che ancora non avevo identificato, aveva preso il sopravvento. Eravamo in un momento di confessioni, un momento in cui Jack si era finalmente aperto con me e lei doveva chiamare? La cosa che mi infastidiva di più, però, era che lui le aveva anche risposto. Maledissi entrambi mentalmente e decisi che avrei evitato Elsa per il resto della mia vita. Nel frattempo, la voce di Jack mi risvegliò dai miei pensieri.
 
“Va bene, piccola. A domani” disse, attaccando il telefono.
 
Quando vidi che non aveva sorriso e che, tutt’altro, aveva un’espressione quasi apatica, mi sentì in qualche modo trionfante. Non seppi spiegare questa sensazione. Invece, nel momento in qui lui riportò la sua attenzione su di me, curvò le labbra in un sorriso amichevole. Sentì quel sentimento di vittoria che cresceva all’interno del mio corpo.
 
“Grazie per prima” disse e io ricambiai il suo sorriso, poi mise in moto.
 
Quando arrivammo, mi trovai davanti ad una casa piccolina: aveva un giardino, davanti, che era minuscolo, dove, però, erano piantati svariati tipi di fiori, che lo rendevano felice e colorato. C’era una luce accesa, all’interno, in quella che identificai come la cucina. Sopra la porta d’entrata, mentre Jack infilava le chiavi nella serratura, notai dei fiori gialli, bianchi e viola. Rendevano l’entrata vivace.
 
“Non te la prendere troppo, se ti dice che non le sei simpatica. Te l’ho detto, è fatta così” disse Jack, facendomi riportare lo sguardo su di lui.
 
Io annuii e lo spinsi con lo sguardo ad aprire. Una volta entrati, un profumo di lavanda si insinuò tra le mie narici, riempiendole. Arricciai il naso e chiusi gli occhi.
 
“Che buon profumo” sussurrai.
 
Jack curvò le labbra in un sorriso dolce, annuendo alla mia affermazione. Mentre mi toglievo la giacca, sentii dei passi dietro di me. Non appena mi girai, mi trovai di fronte una bambina, un po’ più bassa di me, con dei lunghi capelli marroni legati in due codini. Lei mi stava sorridendo amichevolmente e io ricambiai il suo sorriso, abbassandomi alla sua altezza.
 
“Ciao piccola, io sono Merida” le dissi, porgendole la mano.
 
Dapprima, lei sembrò riluttante all’idea di prenderla e stringerla, ma poi lo fece e la agitò con forza. Io mi lasciai sfuggire una risata.
 
“Sono Emma” rispose, mentre si riprendeva la mano e si attorcigliava i capelli.
 
“Piacere, Emma” dissi, mentre continuavo a guardarla con un sorriso.
 
La risata rumorosa di Jack mi riportò alla realtà, così mi rialzai e lo guardai. Mi lasciai sfuggire una piccola risata, perché la sua era troppo contagiosa per resistergli. Persino la sua sorellina si mise a ridere.
 
“D’accordo ragazze, cosa volete per cena?” chiese Jack, quando ebbe finito di ridere.
 
Io ed Emma ci scambiammo uno sguardo complice e, con un sorriso stampato in volto, esordimmo all’unisono: “La scelta all’uomo di casa”.
 
Lui ci guardò con un’espressione interrogativa, per poi accettare la nostra sfida. Lui stava per dire altro, quando Sophie mi prese la mano e mi trascinò via urlando qualcosa tipo: “Dobbiamo fare cose da donne!”. Sentii lo sguardo di Jack sulla mia schiena, fino a quando non entrai nella cameretta della sua sorellina. Era piccola e molto accogliente: i muri erano rosa, ma quasi non si vedevano, perché coperti di numerosi disegni. C’era un lungo letto posto al centro della stanza, proprio sotto la finestra. Aveva le coperte rosa e su di esso erano posati diversi peluche, di colore viola. Mentre Emma sparì dentro il suo armadio, ovviamente di colore lilla, mi soffermai su un disegno in particolare, appeso proprio accanto al suo letto: ritraeva una bambina stilizzata, che era seduta su quello che sembrava essere un unicorno e, al suo fianco, un ragazzo, che aveva in testa una corona e le porgeva la mano. Sorrisi tra me e me, pensando che forse Emma voleva fare la principessa, da grande, e sposare un principe. Purtroppo per lei, però, non avrebbe mai trovato l’unicorno che tanto desiderava. La mia attenzione fu catturata da una foto incorniciata, posata sul comodino. Presi in mano la cornice e il mio sorriso diventò triste: erano stati fotografati due bambini, uno con una chioma bianca l’altra con una mora, mentre giocavano con una palla. Subito dietro di loro c’erano i genitori: una bellissima donna, con gli occhi azzurri e i capelli biondo chiaro, un sorriso che sprizzava felicità da tutti i pori, e un uomo, con un sorriso dolce, che fissava la sua famiglia con uno sguardo pieno d’amore, gli occhi marroni e i capelli del medesimo colore.
 
“È stata scattata prima che si ammalasse” disse una voce alle mie spalle, facendomi sobbalzare.
 
Mi voltai verso Emma, dopo aver riposto la foto sul comodino, con un’espressione dispiaciuta. La bambina, però, aveva un volto tranquillo, forse perché il ricordo di quel giorno non era così spiacevole. Mentre mi avvicinai, tirò fuori un foglio e dei pennarelli, sdraiandosi sul tappeto. Mi misi accanto a lei.
 
“Che cosa vuoi fare?” le chiesi, incuriosita.
 
“Disegniamo!” esclamò lei, con un sorriso dipinto sul viso.
 
Non me lo feci ripetere due volte e, mentre Jack preparava la nostra cena, noi rimanemmo nella stanza della sua sorellina a disegnare e a parlare, stringendo una specie di amicizia.
 
Dopo poco, il cuoco ci chiamò e io presi Emma per mano e mi feci condurre nella cucina. Quando arrivammo, era tutto già pronto, la tavola e la cena. Jack aveva fatto la pasta rossa e gli occhi della sua sorellina si illuminarono alla vista del piatto pieno di spaghetti, mentre il mio stomaco brontolò rumorosamente. Così, decidemmo di iniziare a mangiare il prima possibile. Jack si sedette tra me e Emma, che mangiavamo l’una di fronte all’altra. Dovetti ammettere ad alta voce che la pasta era buonissima e che era tutto merito del cuoco di casa, causando, ovviamente, la risata dei due fratelli. La piccola bambina iniziò a raccontarmi delle cose su Jack, un costume rotto e un secchiello, che lo misero in imbarazzo. Non avevo mai riso così tanto in vita mia. Ad un certo punto, non ricordo come, Emma alzò la testa e fissò me e Jack, con aria interrogativa.
 
“Ma tu sei la sua principessa?” chiese, con l’ingenuità che può avere solo una bambina.
 
Mi irrigidii e non riuscii a mettere in bocca gli spaghetti. Dal canto suo, Jack divenne rosso come un peperone. Ovviamente, per principessa intendeva fidanzata. Cosa che io non ero.  Perché a me non piaceva Jack. E in più, eravamo entrambi impegnati. O meglio, lui era impegnato. Io ancora non ero sicura. Comunque, la scena mi ricordò il commento delle amiche di mia madre e di mio padre, quella stessa mattina. Io e Jack sembravamo così tanto una coppia? Non avevo una risposta.
 
“No, piccola. Jack ha un’altra principessa e io una specie di cavaliere” le dissi, facendole l’occhiolino.
 
Emma, però, non sorrise. Anzi, credo che ci rimase piuttosto male. Finimmo la cena in un silenzio pesante, carico di imbarazzo. Dopo che io e Jack lavammo i piatti, mentre la bambina era tornata in camera sua, tutto prese una piega migliore: ci sedemmo sul grande divano rosso della sala, davanti a una TV altrettanto grande, a guardare “La bella e la Bestia”, uno dei miei cartoni animati preferiti. Jack era da un lato del divano, Emma accanto a lui e io in quello opposto. Tra la scena in cui Belle è intenzionata a far di tutto per liberare il padre e quella in cui inizia a vivere al castello, Emma si era addormentata sulla mia spalla. Aveva un viso angelico e non volevo svegliarla e disturbare la sua quiete. Jack era preso dal cartone, e decisamente non mi aspettavo questa reazione. Non riusciva a staccare gli occhi dallo schermo e così mi concessi un minuto per fissarlo: i suoi capelli bianchi gli ricadevano in viso, il suo profilo era perfetto e la sua pelle sembrava morbida e vellutata. La voglia di alzarmi e poggiare la testa sulla sua spalla prese quasi il sopravvento. Cercai di tenerla a bada guardando nuovamente la TV, ma un rossore si propagò per il mio viso, nonostante nessuno potesse vedermi. Quando fui abbastanza certa che fosse passato, riportai lo sguardo su di lui. Questa volta, non mi soffermai sul suo aspetto. 
 
“Jack, tua sorella si è addormentata” gli sussurrai, per non farla svegliare.
 
Lui bloccò il film e si voltò verso di me.
 
“La porto a letto” disse, sussurrando, con un piccolo sorriso in viso.
 
“Ti seguo”.
 
Una volta arrivati nella camera della bambina, Jack mi fece segno di alzare le coperte. Così, mise Emma sotto di esse e le baciò la fronte. Quella scena mi provocò una strana sensazione, non fastidiosa, bensì piacevole, una sensazione di felicità. Quando mi accorsi che Jack mi stava aspettando per chiudere la porta, mi voltai verso la bambina e le lasciai a mia volta un bacio sulla guancia, per poi uscire senza fare alcun rumore. Dopo che lui chiuse la porta, ci avviammo in sala e ci sedemmo ai lati opposti del divano. Jack prese il telecomando, ma, prima di far partire il film, si voltò verso di me, con un’espressione quasi indecifrabile in volto.
 
“Rossa, guarda che puoi starmi vicino, non ho mica la peste!” esclamò a bassa voce, con un tono alquanto divertito.
 
Io mantenni la calma e mi sforzai di non arrossire. Non di nuovo, pensavo. Alla fine sbuffai e mi misi accanto a lui, senza toccarlo.
 
“Ora va meglio?” gli chiesi, con un’aria di sfida, girandomi verso di lui.
 
Jack sorrise e annuì.
 
“Ovviamente” sussurrò.
 
Poi fece ripartire il film. Dal modo in cui lo guardava, capii due cose: primo, non l’aveva mai visto. Secondo, gli piaceva. Sorrisi tra me e me, constatando che, dopotutto, avevamo gli stessi gusti. Il film procedette tranquillamente e, quando stavano per uccidere la Bestia, Jack fu colpito da un qualche attacco di sonno, perché sbadigliò e mise un braccio intorno alle mie spalle. Poco dopo, mise anche la testa sulla mia spalla. Sembrava un bambino che abbracciava la propria madre e, difficile a dirsi, ero piuttosto intenerita. In più, quella sensazione di felicità che avevo provato in camera di Emma, continuava a tormentare il mio corpo. Non che la cosa mi dispiacesse. Alla fine, quando tutti ebbero il loro lieto fine, decisi di scuotere Jack, principalmente perché erano le nove e mezza ed ero ancora a casa sua. In più, se lui si fosse addormentato, non sarei mai riuscita a tornare alla mia, di casa. Lui alzò lo sguardo sul mio viso e i suoi occhi sembravano più grandi e molto più stanchi. Aveva un’espressione quasi confusa, forse dovuta al sonno che stava provando. Così, lo presi un po’ in giro, cercando di svegliarlo.
 
“Ti devo anche mettere a letto?” gli dissi, sorridendo.
 
Lui rispose di no con un cenno della testa e poi si colpì con le mani in viso, cercando di svegliarsi. Il tutto mi fece ridere di gusto. Lui fece finta di non sentirmi –anche se vidi che aveva alzato gli occhi al cielo– ed andò in bagno, così mandai un messaggio ai miei.
 
Potreste venire a prendermi a casa di Jack?
 
Chiesi, inserendo poi l’indirizzo. Quando Jack tornò, io mi ero appena sdraiata sul divano e avevo chiuso gli occhi per la stanchezza.
 
“Rossa, vuoi fregarmi il posto?” disse lui e, anche se non potevo vederlo, sapevo che stava sorridendo.
 
Io scossi la testa e gli feci spazio, così si sdraiò accanto a me. La cosa mi sembrava piuttosto normale, finché avevo gli occhi chiusi. Quando li aprì, mi ritrovai faccia a faccia con lui e lo stesso tipo di desiderio di prima mi travolse, questa volta in modo molto più forte. Feci un lungo respiro, senza farglielo notare, per cercare di riprendermi. Dal canto suo, lui non smetteva di fissarmi: era alquanto imbarazzante.
 
“Sul serio, Frost, chi non ha mai visto la Bella e la Bestia?” gli chiesi io, rompendo il silenzio che c’era tra di noi, tentando di alleggerire l’atmosfera.
 
Lui si mise a ridere, a bassa voce, mentre io sorrisi e gli diedi un pizzicotto sulla spalla.
 
“Beccato. Io non l’avevo mai visto” ammise lui, con un’espressione colpevole in volto.
 
Io scossi la testa e poi un altro tipo di silenzio, più gradevole e leggero, si posò su di noi. Decisi di non guardare Jack, perché altrimenti strani pensieri avrebbero preso di nuovo il sopravvento su di me. Così fissai il soffitto, allontanandomi momentaneamente dalla realtà. Quando poi la sua voce mi riportò nel mondo reale, sobbalzai, ma lui sembrò non accorgersene.
 
“Così ti piace Hiccup, uh?” mi chiese lui, come se niente fosse.
 
Quella domanda, a dire il vero, mi sorprese. Pensavo fossi stata chiara, quando avevo parlato con lui quel pomeriggio. Ma poi mi accorsi che nemmeno io avevo una vera e propria risposta.
 
“In che senso?” gli chiesi, senza voltarmi verso di lui.
 
“Secondo te, Merida?” domandò, con fare ironico.
 
Stetti in silenzio per un attimo, intenta a pensare ad una vera risposta. Certo, Hiccup era mio amico e passare il tempo con lui era piacevole. Ma mi piaceva in quel senso? Non lo potevo ancora sapere. Così come non potevo ancora sapere se gli piacevo io, in quel senso.
 
“Non lo so” ammisi, senza cercare una bugia e optando per la pura e semplice verità.
 
Lui annuii e, nel momento esatto in cui stava per aggiungere qualcosa, la suoneria del mio telefono lo interruppe. Lo tirai fuori dalla tasca, pensando al tempismo perfetto che avevano i miei genitori. Jack, mentre rispondevo, si alzò dal divano ed io lo seguii a ruota, per poi attaccare al telefono.
 
“Le sei simpatica” disse, una volta arrivati all’entrata, riferendosi ad Emma.
 
Io risposi con un piccolo sorriso sincero, mentre prendevo la giacca che mi stava passando e la indossavo. Stavo per uscire, quando lui mi bloccò per il polso e mi fece girare, stringendomi in un abbraccio inaspettato e bello allo stesso tempo. Purtroppo, non avevo tempo per godermelo, perché altrimenti i miei avrebbero iniziato a suonare il clacson e sarebbe diventata una cosa piuttosto imbarazzante.
 
“Ciao Jack” lo salutai alla fine, guardandolo negli occhi.
 
Fu in quel momento che fece un’altra cosa inaspettata: mi baciò la guancia. Sentivo una sensazione nuova, diversa, che si propagava nel mio corpo, partendo dallo stomaco.
 
“Ciao, Rossa” rispose lui, aprendomi la porta.
 
Per tutto il viaggio verso casa mia madre e mio padre continuarono a scherzare sul fatto che, nonostante lo negassimo entrambi, Jack e io ci eravamo comportati per tutta la giornata come una vera e propria coppia. Ovviamente, io negai, dicendo che a malapena ci sopportavamo. Io stessa, però, trovavo difficile credere alle mie parole. Alla fine tirai fuori la carta Hiccup, sperando che, perlomeno, credessero che fosse il mio ragazzo –anche se io stessa non lo sapevo. Una volta arrivata a casa, corsi in camera mia. Presi il mio pigiama –una felpa di mio padre e dei pantaloni della tuta- e andai in bagno a lavarmi i denti, il tutto il più velocemente possibile, perché stavo letteralmente morendo di sonno.
Tuttavia, una volta raggiunto il letto, il sonno sparì, rimpiazzato da una serie di pensieri. Continuavo a chiedermi perché oggi avevo provato queste cose, mente con Hiccup non era successo nulla. In più, io odiavo Jack e tutto questo non aveva un minimo senso. Forse avrei dovuto parlare con Hiccup, domani. Mi avrebbe sicuramente dato delle risposte. Parlare con lui era la cosa giusta da fare, mi convinsi. E così, mi addormentai, cadendo in un sonno privo di sogni.

 
NOTA AUTRICE
Scusate l'immenso ritardo, ma mi sono leggermente persa. Leggermente, non troppo.
E chiedo anche scusa per le storie drammatiche (mi sa che ho la fissa) del passato dei personaggi. Non importa, tutto passa.
Detto questo, io mi dileguo, perché è tardi e ho sonno.
Buonanotte (o buongiorno, insomma, ci siamo capiti)!
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Capitolo 12
*** Strana popolarità, secondi appuntamenti e febbre alta ***


Capitolo 11. Strana popolarità, secondi appuntamenti e febbre alta
 
La mattina dopo, arrivai a scuola giusto in tempo per la prima ora: fisica con il professor Collins. Il professore era bravo e quasi piacevole alla vista: era biondo con gli occhi azzurri, il sogno di ogni alunna. Non il mio, comunque. Mi sedetti all’unico banco libero, proprio accanto a Punzie, che, per tutta l’ora mi mandava bigliettini su quanto fossi favolosa nel mio nuovo look, su quanto attirassi l’attenzione dei ragazzi nella nostra classe e sul modo in cui ogni ragazzo all’interno dell’aula, professore compreso, mi guardasse le gambe. La cosa che mi infastidiva era che mi ero dovuta truccare e mettere cose che prima odiavo per farmi notare. Tuttavia non mi dispiaceva, anzi, ero molto felice che qualcuno si fosse finalmente accorto di me. Decisi che, prima o poi, avrei usato la cosa a mio vantaggio, cercando di fare la camminata giusta, di muovere i capelli correttamente e di sbattere bene le ciglia. In ogni caso, fino all’ora di pranzo fu tutto una tortura: l’insegnante di inglese decise di fare una verifica a sorpresa, mentre il professore di storia mi aveva interrogato. Per inglese non ero minimamente pronta e probabilmente sarebbe andata male, mentre l’interrogazione fu un successo. Il professore era troppo impegnato ad ammirare il mio aspetto, invece che ascoltare quello che dicevo veramente. Se fosse accaduto prima, mi sarei offesa. Ora, invece, andava bene così. Stavo per entrare in mensa, quando qualcuno mi chiamò. Mi voltai solo per ritrovare il viso sorridente di Hiccup, che nel frattempo mi veniva incontro. Gli sorrisi a mia volta e lo raggiunsi, fermandoci quindi accanto ad alcuni armadietti.
 
“Ehi Hiccup” dissi, decidendo che rimandare il discorso “fidanzati” a dopo fosse la cosa migliore.
 
“Ti siedi con me a pranzo?” chiese, appoggiando il braccio sull’armadietto proprio accanto al mio viso.
 
“Perché non mangi tu con me e Rapunzel?” gli chiesi, sorridendo.
 
Lui annuì e si abbassò verso di me, ma, prima che potesse fare altro, fu interrotto da una voce familiare.
 
“Merida!” disse e, quando si accorse della presenza di Hiccup, aggiunse: “Scusatemi, non volevo” con un tono molto imbarazzato, ma veramente poco sincero.
 
Mi girai verso di lui, ringraziandolo mentalmente –forse per la prima volta nella mia vita– perché se non fosse arrivato, Hiccup mi avrebbe baciata sicuramente e non ero ancora pronta per questo.
 
“No tranquillo, stavamo solo per andare in mensa” risposi io, alzando le spalle, come per rassicurarlo.
 
Dato che il moro non rispondeva, voltai il viso nella sua direzione, solo per vedere che aveva gli occhi colmi di rabbia. Gli tirai una leggera gomitata e ci avviammo insieme verso Jack.
 
“Emma ha detto di dartelo, perché te lo sei dimenticata” disse lui, porgendomi un foglio.
 
Lo aprii senza farlo vedere ad Hiccup ed un piccolo sorriso mi comparve in volto: era uno dei disegni che avevo fatto la sera prima con la sorella di Jack. C’era un altro foglio, all’interno, con scritto il mio nome in una calligrafia decisamente femminile e infantile. Me lo misi in borsa, decidendo che lo avrei letto quando sarei stata sola.
 
“Grazie” dissi poi a Jack.
 
“Figurati” rispose, guardandomi negli occhi.
 
Gli sorrisi, prima che Hiccup mi spingesse via, facendomi entrare in mensa. Non capivo perché lo avesse fatto e gli avrei urlato in faccia, se la sala pranzo non fosse stata piena e se non avessimo attirato l’attenzione. Il moro, poi, mi prese la mano con delicatezza, come per scusarsi e mi trascinò tra il labirinto di tavoli, fino a raggiungere il nostro. Gli occhi di tutti erano impiantati su di noi e la cosa era alquanto imbarazzante, come feci notare a Punzie, una volta seduta. Causai la sua risata e quella di Flinn, mentre Hiccup alzò le spalle con noncuranza. Passammo il resto del pranzo a parlare e, a quanto sembrava, il moro aveva fatto colpo sia sulla mia migliore amica che sul suo ragazzo. Alla fine, prima di rientrare in classe, Hiccup mi aveva chiesto un altro appuntamento. Sabato sera saremmo usciti di nuovo.
 
Il resto della giornata passò molto velocemente, anche se con qualche stranezza. Infatti, molte persone –che ovviamente non conoscevo– avevano iniziato a salutarmi per i corridoi. Era strano essere diventata popolare, ma era anche bello. La sera, invece, fu lenta e piuttosto normale. Non dissi a mio padre della verifica d’inglese, perché mi ricordavo della nostra promessa e perché non ero pronta ad una sfuriata. Poi aiutai mia madre a lavare i piatti e andai di sopra. Quella sera mi addormentai, con una sensazione di felicità che scoppiava nel mio petto. Forse, Hiccup era la persona giusta, così come era giusta la mia popolarità e la mia amicizia con Jack. Quella notte, sognai la foresta e, in particolare, il luogo in cui mi portava mio nonno, prima che ci costruissero il centro commerciale. Ero lì, con lui. Solo che non ero una bambina, bensì un adolescente, proprio come ora. Lui mi sorrideva, come era solito fare, e poi mi posò una mano sulla spalla. Si avvicinò al mio orecchio e mi sussurrò di stare tranquilla, che le cose sarebbero andate bene, poi tutto divenne buio e non sentii il resto delle sue parole. La mattina mi svegliai piuttosto sconvolta, ma presi quel sogno come un segno che sarebbe andato bene e che la mia vita stava procedendo nel verso giusto, che stavo facendo tutto correttamente. Quella mattina, mi misi un vestito a fiori ed uscii in fretta e furia da casa, senza fare colazione. Quando raggiunsi il mio armadietto, trovai un volantino che annunciava il ballo d’inverno, che sarebbe stato tra esattamente un mese. Sorrisi tra me, pensando che, per la prima volta, avevo qualcuno da portarci–Hiccup. Le giornate passarono velocemente, tra scherzi e risate e, ormai, io e il moro eravamo diventati ufficialmente una coppia e lo sapeva tutta la scuola. Sabato arrivò di colpo e io vagavo per la mia stanza con un asciugamano sui miei capelli, cercando di scegliere i vestiti adatti alla serata. Non fu per niente facile, ma alla fine optai per un vestito verde, che avevo comprato poco prima. In più, in quel periodo, mi ero stufata della mia chioma, così avevo deciso, per l’occasione, di piastrarmi i capelli. Quando finii –dopo ore e una quasi scottatura all’orecchio– avevo i capelli lisci, che sembravano quasi più lunghi di prima, e me li sistemai in una treccia complicata a lato. Inoltre, mi truccai. Non troppo, solo un qualcosina sugli occhi e un po’ di fondotinta qua e là. Quando, finalmente, Hiccup arrivò scesi velocemente le scale, per quanto potessi andare veloce con i tacchi a spillo, e uscii di casa. Dopo la prima volta, lui aveva deciso di non entrare più, definendo i miei fratellini una “minaccia a piede libero”.
 
“Ehi” gli dissi, salutandolo con un sorriso, non appena entrai nell’auto.
 
“Uh, sì, ciao” disse lui, senza nemmeno guardarmi.
 
Alzai gli occhi al cielo senza farmi notare, mentre lui metteva via il suo cellulare e faceva partire l’auto. Era perennemente al telefono, quel ragazzo. Certe volte non mi degnava nemmeno di uno sguardo. A me, però, non importava tanto. In fondo, gli piacevo. Era questo che contava, giusto?
 
Questa volta, andammo al cinema e fu piuttosto esasperante. Avevamo i posti infondo e lui aveva acceso il cellulare e stava mandando messaggi a qualcuno –sul serio, non finiva mai la batteria? Io cercai di seguire la trama del film, ma ad un certo punto lui mi mise un braccio intorno alle spalle, ed io fui costretta ad abbassarmi, per farlo stare un po’ più comodo, così non riuscivo più a vedere nulla, sullo schermo. In più, durante la pausa, mi mandò a prendere dei popcorn e dovetti pagare io. Ma non erano i ragazzi quelli che si alzavano e offrivano tutto?, pensai, mentre facevo la fila. Arrivai dieci minuti dopo, quando il film era già ricominciato, ma Hiccup era nella stessa posizione di prima. Il secondo tempo fu decisamente la parte peggiore della serata: lui masticava con la bocca aperta –senza cellulare alla mano, per fortuna– mentre io avevo rinunciato alla speranza di capire qualcosa del film. Quando lui finì i popcorn, rimise il braccio intorno alle mie spalle e, questa volta, mi fece appoggiare la testa alla sua spalla. Era una posizione piuttosto scomoda e innaturale, lui aveva persino in bocca i miei capelli, mentre a me stava venendo mal di schiena. Poi, tentò di baciarmi. Io andai in panico e voltai il viso, facendo finta di nulla e lui mi baciò la guancia. Il film finì subito dopo e le luci si riaccesero, così lo trascinai fuori e mi feci riaccompagnare a casa il più in fretta possibile. Il viaggio in macchina fu una tortura: io ero imbarazzata al massimo, mentre lui cercava di intrattenere una conversazione –cosa inutile, anche perché alla fine fu una specie di monologo. Arrivata finalmente sul vialetto di fronte a casa mia, uscii dalla macchina sussurrando una buonanotte ed entrai in fretta e furia, senza salutare nessuno, dirigendomi in camera mia. Mi buttai sul letto e lanciai un urlo soffocato contro il cuscino. Decisi di alzarmi subito dopo, con poca voglia, per andare a mettermi il pigiama e struccarmi. Quando mi ritrovai davanti allo specchio a togliermi il trucco, pensai che non dovevo essere arrabbiata con Hiccup, dopotutto era il mio ragazzo, e ha cercato di fare cose che una coppia doveva fare, tutto qui. Mi misi a letto dopo poco, rifiutandomi di pensare, poiché preferivo dormire.
 
A partire dal giorno seguente, la settimana fu la cosa più brutta che mi potesse capitare: mi era venuta la febbre alta e mi sentivo uno zombie. Dato che mia madre mi aveva ordinato di rimanere nel letto fino a quando la febbre non fosse andata via, passai la mattina di lunedì a guardare film al computer e a mandare messaggi a Punzie, che mi rispondeva persino mentre era in classe. Il pomeriggio, invece, fu piuttosto strano: mi arrivarono tre messaggi.
Il primo era di Hiccup.
 
Ehi, piccola, Punzie mi ha detto che sei malata, ti verrei a trovare, ma rischierei di ammalarmi anche io e non posso permettermelo. Ci vediamo presto.
 
Un altro era di Rapunzel.
 
Spero che tu ti senta meglio molto presto! Domani vengo a trovarti, oggi proprio non ci riesco, scusami. Bacioni.
 
L’ultimo, il più inaspettato di tutti, era da parte di Snow, ovvero Jack.
 
Ehi, rossa, hai preso la febbre? Oggi pomeriggio vengo da te, così prendo i volantini e vado a stamparli. Porterò una sorpresa, sperando che non ti dispiaccia.
 
Sorrisi, leggendo l’ultimo messaggio. Cercai di reprimere quel sorriso spontaneo o di dargli almeno una spiegazione. Il mal di testa che mi opprimeva, però, mi consigliò di lasciar perdere, e così feci, spegnendo il cellulare e tornando a dormire.

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Capitolo 13
*** Sorprese piacevoli, forti mal di testa e deliri da febbre alta ***


 
Capitolo 12. Soprese piacevoli, forti mal di testa e deliri da febbre alta
 
Fui svegliata, non si sa quanto tempo dopo, dalla voce di una bambina, che mi passava una mano sulla guancia e urlava qualcosa tipo: “È caldissima!”.
 
Mi lasciai sfuggire un lamento e qualche mormorio su qualcosa di molto illogico, per poi aggiungere un: “Vi prego, dei del cielo e della terra, alieni, terra, alberi, acqua, fuoco, mele e topi, lasciatemi dormire”.
 
Sentì una risata soffocata da parte a me e spalancai gli occhi, cercando di essere il più lucida possibile. Davanti a me c’era Jack, con un sorriso intenerito in volto, che mi stava fissando. Io ricambiai il sorriso, credo però che uscì una strana smorfia.
 
“Buongiorno, Rossa” disse.
 
Io annuii e ricambiai il buongiorno, poi mi girai verso la voce femminile di prima e mi ritrovai, con mia grande sorpresa, un visetto familiare di fronte: c’era Emma che mi sorrideva.
 
“La mia bambina preferita è qui!” dissi, con la voce impastata dal sonno e molto più bassa del normale.
 
Lei sorrise, facendo finta di nulla e sussurrò: “Mi sei mancata, Merida!”.
 
Io la abbracciai forte e le scompigliai un po’ i capelli e, dopo esserci dette l’essenziale –con Jack che ci osservava, seduto su una sedia, con un’espressione strana in viso–, la mandai via, perché non volevo che si ammalasse a causa mia. Così lei andò a giocare con i miei fratelli, che, mi riferì Jack, l’avevano ben accolta. Sorrisi tra me, pensando che era la prima volta che parlavano con una ragazza. Quando la bambina era uscita dalla stanza, mi aspettai che Jack la seguisse e andasse a giocare con tutti i piccolini, ma non si mosse dalla sua postazione. Così, lo osservai apertamente, con un’aria interrogativa in volto.
 
“Sai, Rossa, ogni volta che vengo qui tu stai dormendo. Non che mi dispiaccia, perché hai una famiglia fantastica, ma sto iniziando a pensare che tu lo faccia apposta” disse, con un sorriso.
 
Io scossi la testa, divertita, ma subito mi pentii di averlo fatto, perché il mal di testa non era ancora andato via. Dovetti fare un’espressione di dolore, perché Jack si alzò e mi venne in contro.
 
“Ehi, tranquilla. Facciamo così, alza la schiena. Ecco, brava. Ora metto qui questo cuscino così magari sei più comoda. Vado a chiedere un antidolorifico a tua madre, torno subito” disse, dopo aver sistemato il cuscino dietro la mia schiena.
 
Io aspettai e, quando Jack rientrò con in mano un bicchiere d’acqua e una pastiglia, feci una smorfia, ma mi sentì sempre peggio, così presi quell’antidolorifico. Aspettammo che facesse effetto per circa dieci minuti, entrambi in silenzio. Quando finalmente mi sentii un po’ meglio –non del tutto, avevo ancora la febbre–, mi girai verso di lui. Dato che nessuno dei due parlava, dissi: “Allora..” nell’esatto momento in cui lo fece anche Jack, così scoppiammo a ridere, io mi fermai subito, sentendo ancora un leggero dolore alle tempie.
 
“Grazie” gli dissi, quando il silenzio tornò tra di noi, sorridendogli.
 
“Per cosa?” mi chiese, aggrottando le sopracciglia in un’espressione interrogativa.
 
“Per aver portato Emma. Mi mancava” dissi semplicemente io.
 
“Le mancavi anche tu. Sai, le ho presentato Elsa, ma non sono andate proprio d’accordo…” disse.
 
“Nemmeno i miei fratellini sono andati d’accordo con Hiccup. Insomma, non vanno d’accordo con nessuno in generale. Con te, però, è stato diverso” ammisi io, forse in preda ai deliri della febbre alta.
 
Lui sorrise, evidentemente imbarazzato, ma io non riuscivo a stare zitta e, ripensando a quella giornata, sono io quella che non può fare a meno di sentirsi in un grande imbarazzo.
 
“Sei bello quando sorridi” gli dissi, con la voce di una che enuncia una regola matematica, come se fosse la cosa più normale del mondo, senza nemmeno arrossire.
 
Lui, tutt’altro, diventò rosso come un peperone, ma questo non riuscì a fermarmi.

“Hai anche una bella risata, sì. E poi mi diverto con te…però…”
 
“Però?” m’incalzò lui, nonostante fosse in un notevole imbarazzo, forse preso dalla curiosità.
 
“Però ti odio. Davvero, mi sto convincendo di odiarti. Non dovresti proprio parlarmi, so che ti infastidisco, si capisce” dissi, senza mettere freno ai miei pensieri.
 
Lui ci rimase male, ma cercò di non farmelo notare e prese parola.
 
“Non mi infastidisci. Ti ho aiutata, sei mia amica. L’unica cosa che odio di te sono i capelli lisci che ti sei fatta” fece una specie di espressione disgustata e poi riprese “Perché mi odi?”.
 
Io stavo per rispondere, ma, grazie ad una forza mistica, mia madre entrò in camera, con un piatto in mano, annunciandomi che avrei dovuto mangiare tutta la minestra che aveva preparato, per sentirmi meglio.
 
“Ma mamma, non riesco a mangiare da sola!” mi lamentai io, sbuffando ad alta voce.
 
Lei alzò gli occhi al cielo e disse: “Allora ti do io da mangiare”. Ma, prima che potesse fare altro, Jack si offrì al posto suo e prese la minestra, sedendosi sul mio letto. Così, mia madre lasciò la stanza, con un sorriso stampato in volto.
 
Jack mi fissava con i suoi occhi azzurro ghiaccio ed io, per la prima volta, non mi sentivo a disagio per il suo sguardo. Mi imboccava come se fossi una bambina, ma pensai che, dopotutto, era piacevole averlo così vicino a me. Questa volta, non diedi voce ai miei pensieri. Mentre mangiava, rimanemmo entrambi in silenzio. Non era un silenzio carico di imbarazzo e parole non dette, nonostante Jack sembrasse tormentato dalla domanda che aveva fatto in precedenza, ancora priva di risposta. Era un silenzio piacevole, familiare. Purtroppo, lui lo spezzò. E forse, se non lo avesse fatto, le cose sarebbero andate diversamente. Se quel silenzio fosse rimasto, forse non avremmo litigato.
 
“Con Hiccup come vanno le cose?” mi chiese.
 
“Bene, è un ragazzo gentile e ci piacciamo, perché?” chiesi, aggrottando le sopracciglia, ben consapevole della mia menzogna.
 
Lui si irrigidii e poggiò il cucchiaio, con cui poco prima mi stava imboccando, nel piatto ormai vuoto, che era sul mio comodino.
 
“È uno stupido, Merida. Non è per niente adatto a te” disse con fermezza, guardandomi dritto negli occhi.
 
Sentì il mio stomaco contorcersi, preso da uno strano sentimento. Mi sentii ancora più calda, ma non per la febbre.
 
“Ma come ti permetti?” gli chiesi, sostenendo il suo sguardo.
 
“Merida, non lo capisci? Ti sta solo usando!” urlò lui, alzandosi dal letto.
 
“Non osare. Non lo conosci, non sai cosa fa o non fa per me e come si comporta con me!” gli urlai di rimando, non badando al dolore fisico che sentivo, probabilmente causato dalla febbre.
 
“Lo vedo ad ogni pausa pranzo! Non ti guarda, non ti parla! Non meriti quel tipo di ragazzo, Merida” rispose lui, con un tono più calmo verso la fine.
 
Io, d’altro canto, non mi ero ancora calmata, ero furiosa.
 
“Ma chi sei tu per dirmelo? Che tipo di ragazzo mi merito? Forse tu saresti più adatto?” sputai fuori le parole con acidità e vidi qualcosa che si spezzava nel suo sguardo.
 
Mi sentii tremendamente male, ma non mi rimangiai le mie parole. Lui non disse nulla ed uscì dalla stanza, senza degnarmi di un ultimo sguardo. Così mi rintanai sotto le coperte. Sentii delle lacrime uscirmi dagli occhi e improvvisamente iniziai a piangere. Non piangevo spesso, non era nel mio carattere, ma sentivo un dolore quasi fisico che mi trapassava, e non ero più così sicura che fosse a causa della febbre. Era come se il mio stomaco si contorcesse, sentivo delle fitte lancinanti al petto, per non parlare dei mille pensieri che mi tormentavano e della testa che stava per scoppiarmi. Avevo così tante domande e così tante cose da dire. Volevo alzarmi dal letto e correre a rifugiarmi tra le braccia di Jack, era un desiderio talmente forte che mi spaventava, perciò cercai di reprimerlo e di addormentarmi. Non potevo pensare a lui  E così feci nuovamente, sotto le coperte, tra le mie stesse lacrime. Nel sonno sentii dei passi, seguiti da delle voci e da due baci –uno sulla fronte e uno sulla guancia. Non ebbi la forza per svegliarmi e controllare chi fosse, così dormii e mi risvegliai solo la notte, correndo in bagno per vomitare.
 

NOTA AUTRICE
Ed eccoci con l'ennesimo capitolo di questa fanfiction!
Devo dirvi che ho finalmente visto il film (che esce anche in Italia e WOW) e devo dire che ho ritrovato parecchie somiglianze con la mia storia. AHAHAHHA
Vi giuro che sono involontarie! In realtà sono una veggente e succede tutto per questi miei poteri di predire il futuro. O forse sono solo brava a capire le commedie americane. In ogni caso, non importa.
Mi dispiace di non aver aggiornato prima! Un po' mi ero dimenticata, devo ammetterlo....Perdono.
Spero che questo capitolo vi piaccia.
Finisco con il ringraziare tutte le persone che seguono la mia storia (ehi, siete fantastiche) e quelle che la recensiscono (ciao, vi amo, ciao).
Tanti abbracci e alla prossima!

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Capitolo 14
*** Litigi pesanti, ritorni a scuola e prime volte poco carine ***


Capitolo 13. Litigi pesanti, ritorni a scuola e prime volte poco carine
 
La mattina seguente fu una copia di quella prima, solo che stavo anche peggio e non riuscivo a concentrarmi sulla trama dei film. Continuavo a mandare messaggi a Punzie, che però non mi rispondeva. In più, quando mi ero alzata dal letto per prendere il computer, avevo trovato un post it sulla scrivania, da parte di Jack. Mi illusi, vedendo la firma, che fossero delle scuse, ma, purtroppo, diceva solamente che aveva preso i volantini e che non ero più costretta ad aiutarlo. Feci una smorfia e buttai il foglietto nel cestino, ritornando nel mio letto. Ormai mi ero arresa al fatto che Rapunzel non mi avrebbe risposto, ma tanto ci saremmo viste quello stesso pomeriggio. La bionda si fece viva subito dopo pranzo, con un’espressione strana in volto.
 
“Punzie! Che succede?” le dissi io.
 
“Nulla, nulla” rispose lei.
 
Io non mi fidai, ma lasciai perdere, pensando che, quando avrebbe voluto dirmelo, lo avrebbe fatto. Passammo il resto del pomeriggio a parlare di cose futili e iniziavo quasi ad arrabbiarmi. Non aveva ancora tirato fuori l’argomento Flinn e la cosa mi preoccupava, perché lei, da quando ci stava insieme, parlava sempre di lui. Così, semplicemente, cercai di fare un’allusione per iniziare il discorso, ma non andò come avevo sperato.
 
“Uff, Merida, so che sei preoccupata per Flinn, ma va tutto bene con lui. Non voglio tirare fuori l’argomento ragazzi, tutto qui” mi rispose, con aria innocente, mentre io ero ancora distesa sul letto, con lei affianco.
 
“E perché non vorresti tirare fuori l’argomento ragazzi?” chiesi io, piuttosto confusa.
 
“Niente… È quasi ora di cena” cercò di sviare lei, alzandosi dal letto.
 
Io le bloccai il braccio.
 
“Cosa vorresti dire? Vuoi parlarmi anche tu di Hiccup?” domandai con un tono esasperato, ricordandomi della litigata con Jack.
 
“Anche io? Cosa vorresti dire? Jack te l’ha detto?” stavo iniziando ad arrabbiarmi sul serio, così sbuffai, cercando di mantenere la calma.
 
“Cosa avrebbe dovuto dirmi? Che non è adatto a me?” chiesi nuovamente io, imitando il tono che aveva usato il ragazzo il giorno prima.
 
“Ha ragione, Merida. Non è adatto a te, non ti merita” rispose.
 
In quel momento, esplosi, proprio come l’altra sera. Solo che questa volta avrei perso qualcosa di più importante.
 
“Lo sapevi? E non l’hai difeso? Insomma, che ti prende!” sputai fuori io, in modo piuttosto acido.
 
Quando lei annuì e abbassò lo sguardo, con aria colpevole, non riuscii più a trattenermi.
 
“Dovresti essere la mia migliore amica! Dovresti difendermi!” le urlai contro.
 
“Non stava offendendo te!” disse, cercando di difendersi, ma io non volevo sentire scuse.
 
“Invece . Si tratta del mio ragazzo e delle scelte che faccio! Dovevi dirgli che è un bravo ragazzo, difenderlo! E poi, come ti permetti di giudicarmi?” le dissi io.
 
“Come, scusa?” rispose, cambiando improvvisamente espressione.
 
“Passi giorni interi con il tuo ragazzo, dimenticandoti persino di me! E, durante il tempo che condividete, non parlate nemmeno. State lì a baciarvi tutto il tempo! Almeno io e Hiccup parliamo” urali io, con il viso che mi stava diventando rosso per la rabbia.
 
“Tu e lui, parlare?” disse, con un tono ironico, scoppiando poi in una risata amara. “Non sapete nulla l’uno dell’altra e non permetterti di parlare di me e Flinn in quel modo, se sei gelosa”.
 
“Non ti permettere. Non osare giudicarmi. Ora, sei pregata di uscire dalla mia camera e di tornartene a casa tua!” le gridai.
 
“Bene!” urlò lei di rimando, uscendo dalla mia stanza, sbattendo la porta.
 
“Benissimo!” urlai io, anche se nessuno poteva sentirmi.
 
Improvvisamente, mi sentii peggio della sera prima. Le lacrime presero subito a rigarmi il volto e mi alzai dal letto, cercando Punzie per tutta la casa, ma ormai era andata via. Tornai nella mia stanza e mi rintanai nuovamente sotto le coperte, arrabbiandomi con me stessa per tutte le cose che avevo detto e arrabbiandomi anche con lei, per tutte le cose che aveva detto. Non stavo bene. Avevo perso, in due giorni, due persone. Non che credessi in una possibile amicizia con Jack, ma, nel profondo, ci speravo. Perdere Rapunzel, la mia migliore amica, quella che consideravo una sorella, era un colpo al cuore. Mi sentivo come se qualcuno mi avesse pugnalato più volte e continuasse, allargando tutte le ferite, ad una ad una. Non era affatto una bella sensazione. In più, avevo la febbre alta e iniziavo a sentirmi davvero male. Vomitai per tutta la notte, seduta sul pavimento del bagno, con i capelli –ancora piastrati–sporchi di vomito e le lacrime agli occhi. Fu tra le peggiori serate della mia vita e iniziavo a credere che la febbre mi stesse rovinando la vita. Quando tornai a letto, dopo aver preso un antibiotico ed essermi rifiutata categoricamente di ingerire qualsiasi sostanza, desiderai non dover più andare a scuola, rimanere sotto le mie coperte per tutto il resto della mia vita. Purtroppo, non si poteva fare. E la febbre passò prima del previsto –si fa per dire, perché mi durò una settimana esatta.
 
Così, il lunedì mi ritrovai a scuola, con delle ballerine ai piedi, un vestito verde indosso, i capelli piastrati e un trucco pesante, che copriva tutte le mie occhiaie. Cameron, un ragazzo che aveva quasi tutte le classi con me, aveva provveduto a passarmi i compiti, che alla fine avevo copiato da internet, e tutti gli appunti, che non avevo ancora letto. La cosa positiva, se si può chiamare così, era che dovunque, per la scuola, c’erano manifesti del ballo, che facevano un conto alla rovescia, annunciando che mancavano meno di due settimane. Fu l’unica nota non negativa della giornata, perché nell’ora di fisica Punzie non mi aveva degnato nemmeno di uno sguardo. Non avevo fatto molto per attirare la sua attenzione, comunque. E non sembrava affatto triste, almeno non quanto lo ero io. Non riuscii a seguire la lezione e il professore se ne accorse, avendo chiamato più volte il mio nome, così mi sbatté fuori dall’aula. Andai nello sgabuzzino del bidello, che era l’unico posto dove sarei potuta stare da sola. Mi chiusi dentro e mi appoggiai al muro, per poi lasciarmi cadere a terra. Decisi di non piangere, perché l’avrebbero notato tutti e il mio trucco sarebbe sbavato. Tuttavia, tutto quel tempo da sola, ebbi occasione per pensare. E, quando suonò la campanella della seconda ora, ero piuttosto sicura di essere arrivata a due semplici conclusioni: primo, Rapunzel non soffriva per la mia mancanza e non si era nemmeno scusata con me, perciò, in realtà, non teneva alla nostra amicizia. Secondo, Jack aveva detto quelle cose senza un motivo, e io meritavo delle scuse, perché lui poteva decidere con chi stare, mentre io no. Uscì dallo sgabuzzino con le spalle alte e un sorriso piuttosto falso stampato in volto. Le seguenti ore furono una tortura per me ed ebbi altre notizie negative: la mia media era stata rovinata, perché, parola dei professori, stavo studiando troppo poco e tutti si aspettavano di più da me. Decisi che era meglio non farlo sapere a mio padre, perché ci andava in ballo la nostra vacanza. L’ora di pranzo, però, fu la vera prova della giornata. Aspettai Hiccup al suo armadietto, dove ci eravamo dati appuntamento per messaggio. Arrivò in ritardo, molto in ritardo. E, inoltre, mi diede buca con un bacio sulla guancia e un semplice: “Scusa piccola, ma devo andare dai miei amici, me lo ero dimenticato”. Io non gli dissi niente e annuii, facendogli un piccolo sorriso. Aggiunsi un punto alla lista delle cose negative. Quando entrai in mensa per comprare una bottiglia d’acqua, la lista si era decisamente prolungata. Non appena misi piede nella sala, calò un silenzio tra gli studenti e mi sentii tremendamente in imbarazzo, ma feci finta di nulla. Purtroppo, il mio sguardo cadde, come d’abitudine, al mio tavolo, con Punzie. Ciò che vidi mi bastò per tornare indietro, causando una serie di mormorii tra i ragazzi. Elsa si era seduta al mio posto, con Jack di fianco e si era avvinghiata a lui come un orso sul miele. Di fronte a loro c’erano la mia vecchia migliore amica e il suo ragazzo, che si stavano baciando felicemente. Mi diressi in giardino, rifugiandomi tra gli alberi della foresta accanto alla scuola. Tirai fuori il mio pranzo ed iniziai a mangiarlo in silenzio, pensando che quella non era affatto la mia giornata. Le ultime ore furono anche peggio. C’era chimica ed Hiccup non si era presentato, così fui costretta a coprirlo e a fare il nostro progetto da sola, con le risate dei due fidanzatini innamorati alle spalle che mi infastidivano. Ad un certo punto, mi innervosii a sentirli e versai una sostanza in quantità maggiore del dovuto. Il liquido nella beuta diventò di un colore tra il blu e il verde ed iniziò a bollire. Il professore, allarmato, urlò a tutti di andare sotto il banco e seguimmo i suoi ordini senza esitare. Fortunatamente, il composto non esplose e smise di bollire, ma Murphy non sembrava felice.
 
“Dunbroch, non me l’aspettavo da te, che sei la migliore alunna qui dentro!” esclamò, mentre gli alunni erano tutti in completo silenzio e ci fissavano.
 
“Non è colpa mia! Lo dica a quella oca, che ride per ogni cosa che il suo ragazzo le sussurra!” urlai, furiosa, indicando con un dito Elsa.
 
“Che ho fatto, scusa?” chiese, alzando le sopracciglia, con aria superiore.
 
Non avevo mai parlato con Elsa e non avevo mai sentito la sua voce: era fastidiosa per le mie orecchie, soprattutto in quel momento. Feci per parlare nuovamente, ma il professore mi mise una mano sulla spalla e mi bloccò.
 
“Merida” disse, con un tono quasi preoccupato “sono costretto a mandarti nell’ufficio del preside. Non pensare che mi piaccia, ma non posso fare altro. Ora, vai”.
 
Sbuffai e presi le mie cose, uscendo dalla classe per andare in presidenza. Ero estremamente arrabbiata, così, per non rischiare di urlare contro il preside e prendere un’espulsione, mi rintanai in bagno e urlai contro la mia borsa. Mi guardai allo specchio e raccattai tutto il coraggio che mi era rimasto, facendo un lungo respiro e sistemandomi i capelli. Mi diressi in presidenza e bussai alla porta.

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Capitolo 14
*** Fiducia riposta, consigli da adulti e altri cambiamenti ***


Capitolo 14. Fiducia riposta, consigli da adulti e altri cambiamenti
 
“È aperto!” esclamò la voce del preside.
 
Chiusi gli occhi e presi un altro respiro, per poi entrare e passargli il fogliettino che mi aveva dato il professor Murphy. Il preside era un uomo basso e tozzo, aveva perso i capelli da ormai tanti anni e la sua barba era di colore grigio. Portava degli occhiali quasi più grossi del suo viso e i suoi occhi erano piccoli e marroni. Non era una persona cattiva, tutt’altro. Non aveva mai espulso nessuno e cercava sempre di dare una mano agli studenti, si interessava a noi. Quando mi vide, fece una faccia perplessa.
 
“Sei una nuova alunna?” mi chiese.
 
Quando scossi la testa, mi domandò il mio nome, per andare a cercarlo nei fascicoli.
 
“Merida Dunbroch” risposi.
 
Allora lui alzò gli occhi dai fogli che stava compilando e mi squadrò da capo a piedi, soffermandosi su ogni piccolo particolare.
 
“Vedo che sei cambiata esteriormente. E, a quanto ne so, sei una delle allieve migliori di questa scuola” mi disse.
 
Io sorrisi, in imbarazzo, precisando che, in realtà, ero una delle allieve migliori della scuola, perché i miei voti si stavano abbassando. Lui annuì, con un’aria quasi dispiaciuta, ma non fece nessuna domanda. Alla fine, me la cavai con un richiamo verbale, poiché era la prima volta in vita mia che finivo nell’ufficio del preside. L’uomo mi garantì che non sarebbe finito sul mio fascicolo, ancora pulito, e di non combinare altri guai, perché poi non avrebbe più potuto chiudere un occhio. Lo ringraziai per la sua premura e, dato che era suonata, tornai a casa. Non andò per niente meglio. La scuola aveva chiamato per avvisare del mio scarso rendimento, senza tralasciare l’episodio di oggi e sottolineando la preoccupazione dei miei professori in generale. Mia madre era arrabbiata. Mi aveva urlato contro l’intero pomeriggio, dicendo che lo studio era importante e che non andava bene così. Non fu per niente paragonabile a quando lo disse a mio padre, quella sera. Lui mi guardò, senza urlare, senza perdere la calma, ma con uno sguardo pieno di delusione. Mi sentii male e pensai che sarebbe stato meglio se avesse urlato. Si erano entrambi seduti sul divano –anche se mia madre in realtà continuava a camminare avanti e indietro per la stanza– e mi avevano fatto prendere posto sulla poltrona davanti a loro. Mi fecero un discorso sulla scuola, sull’adolescenza e sul cambiamento. E, quando stavano per parlare delle api e del miele, li fermai, perché preferivo decisamente la sfuriata. Alla fine, andai a letto senza cenare, quella sera. C’era un’aria di tempesta sia in casa mia che a scuola ed iniziavo a pensare che probabilmente ero io a trascinarmela dietro.
 
Le giornate passarono velocemente, io ormai pranzavo sempre da sola nella foresta, non avevo più nessun amico, nonostante molta gente volesse starmi accanto. Io e Rapunzel non parlavamo ancora, così come io e Jack. Sembrava, però, che i due avessero fatto una coalizione contro di me, con i loro partner come membri. Hiccup ed io eravamo ancora fidanzati, ma ci vedevamo di rado e parlavamo poco, però mi aveva invitata al ballo. A scuola non era cambiato nulla, prendevo ancora brutti voti, solo che questo i miei non lo sapevano. Avevo aumentato, inoltre, la quantità di trucco sul mio viso, perché ormai non dormivo più la notte, perché avevo la mente occupata da mille pensieri e non potevo parlarne con nessuno.
 
Il ballo era di sabato. E sabato era arrivato e, con lui, mille problemi. Era iniziato tutto di mattina, quando avevo dato di matto perché i miei fratelli avevano lasciato le tazze sporche sul lavandino. Stavo avendo un esaurimento nervoso e non avevo le forze per sopportare un crollo: ero sotto stress e non dormivo bene da settimane. Comunque, stavo urlando contro i miei fratelli, quando mi bloccai, nel bel mezzo della frase e mi sedetti a terra, passando una mano sul mio viso. I tre gemelli mi fissavano con un’espressione tra lo sconvolto e il preoccupato, ma prima che potessero dire qualcosa, era arrivata mia madre, che mi aveva aiutato ad andare in stanza e mi aveva fatto sedere sul letto.
 
“Merida, dobbiamo parlare di una cosa” disse.
 
“Ti prego, non farmi ancora discorsi sull’adolescenza” dissi a mia volta, in un sussurro, poggiando la testa sul mio cuscino.
 
“No, non questa volta” disse lei, sedendosi sul letto accanto a me.
 
“Sai, quando eri piccola, eri sempre così piena di vitalità e di forza. Eri felice. Facevi amicizia con tutti, senza nemmeno fare apposta. Eri loro amica perché li aiutavi, perché eri lì per loro. Anche se non te ne sei mai accorta, ti volevano tutti bene. So che hai litigato con Jack” a questo punto cercai di aprire la bocca, ma lei continuò “Così come so che hai litigato con Rapunzel. Sentivo le urla. So anche che sei cambiata e non mi sono lamentata con te, perché credevo che tu volessi questo, che stessi bene. Solo che non ne sono più molto sicura, non sei più te stessa. Sei sempre stata piena di energia e forza da donare agli altri, hai sempre dormito fino a mezzogiorno, amavi la tranquillità del tiro con l’arco, amavi studiare e non vedevi l’ora di imparare cose nuove. Ora invece guardati. Non ti reggi più in piedi, non vai più a correre, non riesci più a dormire, non credere che non me ne accorga. Non ti vedo prendere in mano l’arco da una vita, non studi più e prendi brutti voti. È questo quello che vuoi essere, figlia mia? È questo ciò che vuoi?”.
 
Ammetto che mi misi a piangere, senza nemmeno accorgermene. Mi lasciai andare e buttai fuori tutta la rabbia repressa, tutta la sofferenza che mi tenevo dentro. Era vero, ero cambiata. E non in meglio. Avevo avuto una sete di popolarità che nessuno dovrebbe possedere, avevo rinunciato alla mia migliore amica per un ragazzo e avevo perso Jack –che non sapevo ancora come definire– per uno stupido consiglio. Scossi la testa con forza e così mia madre riprese a parlare.
 
“Allora decidi chi vuoi essere e prendi in mano la tua vita” disse, stringendomi in un abbraccio.
 
E rimanemmo così per un po’, io scossa dai singhiozzi e in preda alle lacrime, lei che mi stringeva.
 
“Cosa farai, stasera?” mi chiese, quando finalmente mi fui calmata.
 
“Andrò al ballo. Solo che non ho un vestito” dissi, spostando lo sguardo sul suo viso, notando che stava sorridendo.
 
“A questo ci penso io” rispose lei, alzandosi dal mio letto per uscire dalla stanza.
 
Feci una faccia piuttosto confusa, ma non potei trattenermi dal sorridere involontariamente. Mia madre rientrò poco dopo con un pacco in mano.
 
“Ecco, tieni” disse, porgendomelo.
 
Io mi sedetti sul letto e lo aprii, trovandovi un bellissimo vestito azzurro, che si abbinava ai miei occhi.
 
“Mamma, è bellissimo. Non dovevi” le dissi, sorridendole.
 
“Oh, tesoro mio, ma non te l’ho comprato io. C’è un biglietto, lì dentro. Ora lavati e vestiti, che tra poco dovrai andare!” disse, uscendo nuovamente dalla stanza.
 
Aggrottai le sopracciglia, con aria confusa, e tirai fuori il vestito. Vidi subito il biglietto, sul fondo del pacco. Era chiuso in una bustina azzurra e decisi che lo avrei visto dopo aver fatto la doccia, così misi il vestito sul letto, con sopra la bustina e andai a lavarmi.
 
Rimasi sotto il getto dell’acqua calda per quelle che sembrarono ore, perché la mia mente si ripuliva e riuscivo a pensare. Quando uscii, mi asciugai e andai in stanza per vestirmi. Una volta indossato l’intimo, decisi di aprire il biglietto sul vestito. Diceva:
 
So che non ti serve più il mio aiuto, ma ho deciso di dartelo ancora un’ultima volta. E poi, questo vestito ti starebbe davvero bene.
 
Non era firmato, ma capii subito a chi apparteneva e il mio stomaco fece una capriola, solo che non ci badai molto. Sorrisi, ripensando a Jack e a quando avevamo visto questo vestito: gli dissi che era troppo caro e che non me lo sarei mai potuta permettere. Poi pensai a quanto gli fosse costato. Perché lo aveva fatto? Non trovavo una risposta a questa domanda, dopotutto, era arrabbiato con me, giusto? O lo pensavo solo io? Decisi che ringraziarlo era la cosa giusta da fare, magari sarei potuta andare da lui al ballo. Sempre che Elsa non gli rimanesse attaccata tutto il tempo.
 
Mi misi il vestito e andai a sedermi sulla sedia di fronte alla mia scrivania, che ormai era piena di trucchi di ogni tipo e aveva anche uno specchio. Notai subito che mancava il lucidalabbra che mi aveva regalato Punzie tanto tempo fa. Non l’avevo mai messo prima, ma, da quando avevamo litigato, me lo portavo sempre dietro. Era come se lei fosse con me e, nonostante fossi consapevole di quanto fosse stupida la cosa, misi all’aria la scrivania per cercarlo. Solo che non c’era. Entrai in panico: non poteva essere scomparso, non potevo averlo perso. Poi vidi la mia borsa accanto alla porta e mi alzai velocemente, pensando che probabilmente l’avevo lasciato lì dentro. In un primo momento, non lo trovai. In seguito, capovolsi la borsa e feci cadere tutto il suo contenuto e il lucidalabbra comparve magicamente. E non fu l’unica cosa che notai.
 
Sul pavimento c’era il bigliettino di Emma, che Jack mi aveva dato prima che si scatenasse il putiferio. Sorrisi, pensando a quello che mi aveva detto: a Emma non piaceva Elsa. Lo aprii, e vidi un sacco di rosa.
 
Merida, mi manchi. Siamo diventate amiche e io voglio che tu sia felice con mio fratello! Lui parla tanto di te e ho visto come lo guardi. Siete principe e principessa. Voglio essere come te, da grande. Sei bellissima e simpaticissima e fortissima. Ciao, Merida! Ci vediamo presto.

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Capitolo 15
*** Decisioni importanti, primi baci e nuove consapevolezze ***


Capitolo 15. Decisioni importanti, primi baci e nuove consapevolezze
 
Quando lo lessi, mi mancò il fiato. Era una bambina così bella e speciale, e aveva detto che ero bellissima. La verità mi colpì dritta in faccia: Emma desiderava essere come me, che ero cambiata solo per piacere agli altri, che non riuscivo a capire cosa volevo, che non ero più la stessa. Emma desiderava essere come me, che ero un esempio sbagliato, che l’avrebbe trascinata in un mondo di copie. E fu così che, guardandomi allo specchio, decisi che avrei cambiato le cose, che sarei tornata ad essere me stessa, per darle un buon esempio. Mi guardai e, per la prima volta, pensai che andavo bene così.
Sorrisi, vedendo i miei capelli rossi, più ricci del solito.
Sorrisi, vedendo il mio vestito semplice.
Sorrisi, vedendo il mio viso privo di trucco, naturale.
Sorrisi, perché questa era la vera me –o quasi, perché Merida si era stancata dei vestiti.
 
Hiccup arrivò circa mezz’ora dopo, mentre stavo finendo di mettere via tutti i miei trucchi –escluso il lucidalabbra di Rapunzel, che buttai nella mia borsa. Scesi le scale e salutai mia madre, che mi fece l’occhiolino e mi sussurrò un “buona fortuna” all’orecchio, e mio padre, che mi donò un dolce sorriso. Salutai anche i miei fratellini, che mi dissero che stavo benissimo. E così, uscii di casa cinque minuti dopo, con un sorriso in volto, che, finalmente, era vero. Il mio buon umore, però, svanì quasi subito, quando notai che Hiccup stava giocando con il cellulare. Quando salii nella sua macchina, lui non mi aveva ancora notata, quindi gli presi il cellulare dalla mano e lui mi guardò. Fece un’espressione che passò da sorpresa, notando che non ero truccata e che avevo i capelli ricci, a quasi arrabbiata, riprendendosi il suo telefono.
 
“Ciao, piccola” disse, mettendo in moto.
 
“Ciao, Hiccup” gli risposi.
 
Il viaggio fino a scuola fu piuttosto corto, perché io abitavo vicino, ma anche estenuante, perché Hiccup continuava a parlare di quanto sarebbero stati gelosi i ragazzi presenti, notando che stava con me. Io non dissi niente.
 
Quando entrammo il ballo era già iniziato da un po’ ed erano presenti praticamente tutti. La palestra era stata decorata perfettamente: c’erano dei finti fiocchi di neve appesi dovunque, della neve finta era poggiata intorno ai tavoli, alla pista da ballo e sul palco improvvisato. Le luci rendevano l’atmosfera magica e, guardando il soffitto decorato con un finto cielo stellato, si poteva davvero credere di essere all’aperto, o quasi. L’unica pecca è che erano tutti vestiti di bianco, nero o blu scuro, come se fosse scritto sull’invito. Io, d’altro canto, mi ero vestita di azzurro. E sembravo l’unica. Non che mi importasse più di tanto, solo che mi guardavano tutti, come se fossi la novità della serata. Ed ero piuttosto stanca di essere sotto i riflettori, così presi Hiccup per mano e mi buttai nella pista da ballo, smettendo di preoccuparmi della gente intorno a me. C’era una musica lenta, adatta ai balli di coppia. Hiccup posò una mano sulla mia schiena e l’altra teneva stretta la mia. Io misi una mano sulla sua spalla e danzammo. Solo che non fu esattamente come nei film: lui era un bravo ballerino, ma io no. In più, continuavo a pestargli i piedi. Ci fu un momento, però, in cui ci guardammo negli occhi, intensamente. Capii che mi avrebbe baciato, ma non feci nulla per impedirglielo. Anzi, mi avvicinai a lui, come per incitarlo. Quando le sue labbra toccarono le mie ed iniziarono a muoversi su di esse, mi sentii piuttosto delusa. Era il mio primo bacio e mi aspettavo il battito accelerato, le farfalle nello stomaco, o qualcosa. Ma non successe proprio nulla. Tutt’altro: quel bacio sembrava falso, sbagliato. Mentre le labbra di Hiccup si muovevano sulle mie, io pensai a come sarei potuta scappare. Non era di certo quello che le ragazze vogliono sentire durante il loro primo bacio. La sua mano premeva sulla mia schiena, avvicinando il mio corpo al suo, ma, invece che sentirmi meglio, mi sentii peggio. Era come baciare uno sconosciuto e dovevo andarmene. Mi staccai, con la scusa di riprendere fiato, e ci guardammo negli occhi, di nuovo. Lui mi sorrise e aprì la bocca per parlare, ma lo fermai subito, allontanandomi e correndo verso la porta, proprio mentre iniziava una nuova canzone, con un ritmo diverso, più veloce.
 
Quando mi ritrovai di fuori presi un lungo respiro e sentii l’aria fredda sulle mie spalle, ma non me ne preoccupai. Anzi, mi appoggiai al muro con la schiena e chiusi gli occhi, alzando la testa al cielo. Fu in quel momento che sentii una voce familiare.

 
NOTA AUTRICE
Buongiorno, gente!
Non scrivo una nota autrice da molto tempo, considerato il fatto che non ho mai niente da dire.
Innanzitutto mi scuso con chiunque legga questa ff o recensisca, perché sono sempre in ritardo con tutto e non rispono e/o posto mai in tempo. Mi dispiace davvero un sacco.
In ogni caso, dato che il capitolo è di una lunghezza indecente, per non dire vergognosa, domani ne posterò un altro.
Solo che non ci vedremo per un po', penso. Quindi se scompaio del tutto è perché sono partita, in caso contrario vi farò avere qualche mia notizia, promesso!
Poi un grazie abnorme per tutti quelli che recensiscono e seguono questa storia, nonostante l'autrice sia una svampita con la testa per aria.
Detto tutto questo ambaradam, vi saluto con tanti abbracci lunari e l'augurio che tutti voi possiate mangiare una pesca (le pesche sono buonissime),
lovingbooks.

PS: continuo a chiedermi perché scrivo abbracci + aggettivo strano, non fate domande, sono strana.  

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Capitolo 16
*** Confessioni attese, farfalle nello stomaco e reginette del ballo ***


Capitolo 16.Confessioni attese, farfalle nello stomaco e reginette del ballo
 
“Vedo che hai messo il vestito che ti ho regalato” disse, appoggiando la schiena accanto a me.
 
“Direi di sì” dissi, sorridendo.
 
Le nostre spalle si toccavano, e sentii un formicolio sulle braccia, ma non aprii gli occhi.
Alla fine, presi un lungo respiro e mi feci coraggio.
 
“Grazie Jack, per il vestito” gli dissi, aprendo finalmente gli occhi e girandomi verso di lui.
 
Lui mi sorrise. Non era un ghigno, non era un sorriso divertito, o arrabbiato. Era un sorriso sincero e sentii una strana sensazione, di caldo, nel mio stomaco. Quando si tolse la giacca, lo guardai con un’espressione confusa, che poi si trasformò in una di ringraziamento, nel momento in cui la mise sulle mie spalle. Non dissi nulla, semplicemente rimasi davanti a lui a sorridergli come una stupida. Solo che, appena incontrai il suo sguardo, mi sentii male. Aveva uno sguardo tremendamente triste e la voglia di stringerlo in un abbraccio mi travolse. E, questa volta, non la fermai. Mi avvicinai a lui, alzandomi sulle punte, gli misi le braccia intorno al collo, affondando il viso nella sua spalla. Lui, dopo un primo momento di sorpresa mi circondò la vita con le sue braccia, e posò il suo volto tra i miei capelli. Sentii le mie guance diventare sempre più calde, ma nessuno poteva vedere il loro rossore, lì fuori. Nessuno all’infuori di Jack, che si staccò poco dopo dall’abbraccio, lievemente in imbarazzo.
 
“Merida, non posso farlo” disse, mettendosi una mano dietro il collo.
 
Il mio cuore accelerò ed io mi sentii mancare la terra sotto i piedi: che cosa mi era venuto in mente? Tecnicamente, non avevamo ancora fatto pace.
 
“Uh, sì, hai ragione…ehm…sì, ecco, forse è meglio se vado…” dissi con gli occhi lucidi e feci per togliermi la giacca e fare dietrofront, quando lui continuò.
 
“No! Cioè, non intendevo quello. C’è una cosa che devi sapere, prima” mi disse, quando incontrai il suo sguardo.
 
“Dimmi” dissi, cercando, nel frattempo, di calmarmi.
 
“Io…uh, ecco…” iniziò, evidentemente in imbarazzo e, quando lo incalzai con lo sguardo, continuò “Io ti amo. Voglio dire, non so cosa sia l’amore e se esista veramente. So solo che ogni volta che ti sto accanto sento questa sensazione, dentro di me, che parte dal mio stomaco e si propaga per tutto il mio corpo. Mi sento bene quando sei nelle vicinanze, felice. È come se portassi via i miei problemi. E, quando ti vedo sorridere, il mio cuore perde un battito. Ogni volta che siamo vicini, provo il desiderio di abbracciarti e di baciarti. Quando, invece, non mi sei accanto, sono preoccupato. Io voglio proteggerti, voglio stringerti tra le mie braccia e portarti lontano dalle cattiverie della gente. Voglio ascoltarti, voglio vederti essere te stessa. Io non ti conoscevo, prima. Sentivo delle voci su di te e, quando sei arrivata da me e mi hai chiesto di aiutarti a cambiare te stessa, non ho esitato a dire di sì. Pensavo che fosse quello che volevi tu, pensavo che alla fine ci avremmo guadagnato entrambi. Con il tempo, però, ho capito che tu eri perfetta così come sei, che eri diversa e che dovevi rimanere così. Nessuno dovrebbe cambiarti ed io l’ho capito solo dopo. E forse è una pazzia, forse è troppo presto, ma io ti amo. E se l’amore non è il desiderio di proteggere l’altro, di essergli accanto nei momenti belli e in quelli brutti, di ridere, di piangere, allora cos’è? Se l’amore non è questo, allora non credo che lo proverò mai. Ma, Merida, io ti amo. E, dopotutto, credo di averlo sempre fatto”.
 
Sentii le mie guance bagnate, ma era troppo tardi per fermare le lacrime. Tutte le mie sicurezze erano crollate con il discorso di Jack. Finalmente avevo dato un senso a tutto. La sensazione che sentivo nello stomaco quando passavo il tempo con lui, il formicolio della mia pelle quando ci toccavamo, i desideri che mi travolgevano. Capii perché il bacio con Hiccup era sbagliato: lui non era Jack, lui non era la persona che aveva preso il mio cuore. E così, feci la cosa più irrazionale che potessi fare, mi avvicinai a lui, che aveva un’espressione tra il preoccupato e il triste, e lo baciai. Poggiai le labbra sulle sue e sentii una scintilla che si propagava da quel tocco. Il mio stomaco fece le capriole e il mio cuore accelerò, battendo all’impazzata. Passai una mano tra i suoi capelli, arricciandoli tra le mie dita, come fece lui poco dopo. Sorridevo sulle sue labbra, mentre venivo colpita da un calore inaspettato. Probabilmente ero rossa come un peperone, ma non m’importava molto. Era questo ciò che una ragazza deve sentire durante il suo primo bacio, erano queste le sensazioni giuste, quelle di una ragazza innamorata. E fu in quel momento che, per la prima volta, usai quella parola per definirmi: ero innamorata di Jack, così come lui lo era di me. E fu per questo che quando lui si staccò per prendere aria, gli sorrisi. Mi sentivo felice, pensavo che il mio cure potesse esplodere. Poi, però, arrivò la consapevolezza dei miei sentimenti e di ciò che avevamo fatto: eravamo entrambi fidanzati e io non dovevo sentirmi così felice, stando con un altro. E il mio sorriso, piano piano, si affievolì.
 
“Che succede, rossa?” chiese, con uno sguardo preoccupato, senza però allontanarsi da me.
 
“Non dovremmo farlo, non dovrei sentirmi così…”.
 
“Così come?” chiese, con un tono quasi speranzoso.
 
“Felice. Forse è strano, forse è da pazzi, come dici tu, ma credo di amarti” gli dissi, guardandolo negli occhi, con tutta la sincerità di cui disponevo.
 
“E perché non dovresti sentirti così?”.
 
“Perché siamo entrambi occupati”.
 
Un silenzio calò tra di noi, pieno di parole non dette, fino a quando Jack non parlò.
 
“A dire il vero ho lasciato Elsa non appena ho capito tutto.  Non ero innamorato di lei. In fondo, credo di averlo sempre saputo. E forse speravo che tu t’ingelosissi, almeno un po’” mi disse, con uno sguardo colpevole.
 
Non potei fare a meno di sorridere.

“Ora entriamo, rossa. Hai una migliore amica con cui risolvere e un fidanzato con cui rompere” mi disse, posando delicatamente le labbra sulla mia fronte, poco prima che io annuissi.
 
Quando entrammo in palestra, mano nella mano, c’era silenzio e nessuno ci aveva notato, essendo tutti occupati a guardare qualcuno che parlava sul palco. Probabilmente stavano per annunciare re e reginetta, ma non avevo tempo per queste cose. O, perlomeno, così credevo.
 
Chiamarono il mio nome. Il mio nome. Io, Merida Dunbroch, ero la reginetta del ballo.
 
Cercai di scappare dai riflettori, lasciando la mano di Jack, per non salire sul palco, ma qualcuno mi spinse. Lo maledissi mentalmente più volte.
 
Non appena raggiunta la mia postazione, potevo vedere tutta la palestra. Non era così alto: era comunque un palco improvvisato. Tuttavia, riuscivo a intravedere Rapunzel, che era appoggiata al muro, bellissima nel suo vestito viola, pieno di fiori, con una lunga treccia che le ricadeva sulla spalla sinistra. Non potei fare a meno di notare il piccolo sorriso triste che aveva in volto, mentre guardava nella mia direzione. Vedevo anche Hiccup, che rideva con una ragazza mora. Non si era nemmeno accorto che ero entrata. E iniziai a domandarmi se si era mai degnato della mia presenza o se si era mai interessato a me. Forse solo all’inizio. O forse proprio mai.
 
Nel momento in cui annunciarono il re del ballo volevo scappare e nascondermi in un angolo, rinunciando alla mia corona. Poi, però, vidi il viso di Jack, che aveva i muscoli contratti in un’espressione quasi gelosa. Una volta posata la piccola tiara sulla mia testa, che mi faceva assomigliare più a una principessa che a una regina, capii che cosa dovevo fare.
 
Non potevo ballare con Hiccup, il re del ballo, o anche solo guardarlo, senza pensare al bacio che ci eravamo scambiati, a come mi abbia fatta sentire, a quanto fosse sbagliata la nostra relazione e a come fossimo distanti e diversi, pur essendo fidanzati. Così presi in mano la situazione.
 
“Fermi tutti!” esclamai, prima che il DJ si mettesse a suonare il lento, che in teoria dovevano ballare il re e la regina.
 
Tutti gli studenti, alla mia affermazione, avevano un’espressione piuttosto sbigottita, mentre Hiccup stava alzando le sopracciglia e mi stava facendo una domanda muta che assomigliava a: “Che cosa vuoi fare?”.
 
Mi avvicinai velocemente al microfono con le mani sudate e il passo tremolante, mentre tutti avevano gli occhi puntati su di me. Tutto ciò mi fece solo capire a quanto fossi inadatta ad essere popolare e a come volessi che tutti guardassero altrove. Tuttavia, mi bastò incrociare degli occhi azzurro ghiaccio per calmarmi. Presi un profondo respiro e iniziai a parlare.
 
“Non preoccupatevi, presto potrete ballare tutti quanti. Solo che volevo dire due parole, se me lo lasciate fare” un mormorio di dissenso di propagò per la palestra. Per fortuna, Jack li zittì tutti. Lo ringraziai con lo sguardo e ripresi a parlare.
 
“Sapete, è davvero ironico che stasera io sia su questo palco. Lo desideravo tanto, prima. Desideravo la popolarità, desideravo essere vista. In fondo, è quasi divertente. Ho desiderato questa cosa talmente tanto che, alla fine, non aveva più alcun significato. Essere popolari non ha alcun significato. Davvero: guardatevi intorno. Pensate che valere qualcosa al liceo vi aiuterà nella vita? Io non penso. State cambiando ciò che siete e ciò che volete fare per essere popolari, per piacere agli altri. Insomma, basta guardare me: non ho mai amato gonne e vestiti, i miei capelli li ho sempre preferiti ricci e sono stata sempre…ribelle” Mi fermai un attimo, ripensando a quando Jack mi aveva definito in quel modo. In quel momento non lo trovavo sensato, ora, invece, gli stavo proprio dando ragione. Sorrisi involontariamente, prima di riprendere un’altra volta.
 
“Eppure, non appena si è presentata l’occasione, ho iniziato ad indossare vestiti che prima disprezzavo, ho iniziato a piastrarmi i capelli e a truccarmi, ho mitigato il mio carattere. E ora ho capito che non è ciò che voglio. Non lo è mai stato. Ho perso la mia migliore amica solo per essere amata da tutti. Quindi voglio chiederle scusa: Punzie, mi dispiace tantissimo. È tutta colpa mia, lo so e avevi ragione. Sono stata una stupida, ma per favore perdonami” guardai in direzione della mia bionda preferita, che mi stava fissando con gli occhi spalancati e le labbra curvate in un sorriso.
 
Forse, mi avrebbe perdonato. Ma dopo il mio discorso, dato che ero bloccata sul palco. Ripresi a parlare per l’ultima volta, finendo il mio discorso.
 
“Quindi, per tutti questi motivi, rinuncio alla corona finta che ho in testa e può prenderla chiunque desideri” quando finii di parlare, ci fu uno strano silenzio, seguito dalle grida di diverse ragazze che volevano la corona, che lanciai in mezzo alla pista da ballo –il campo da basket.

 
NOTA AUTRICE
Buongiorno, gente!
Ecco, come promesso, il capitolo seguente. Sperando che un po' di cose si siano risolte, ai vostri occhi. Nel prossimo si capirà tutto molto meglio, purtroppo non so quando potrò postarlo.
Scomparirò, certo, ma tornerò! Altrimenti vi lascio con un po' di domande e non è carino da parte mia, insomma.
In più volevo dire: HO TROVATO UN SACCO DI PERSONE CHE AMANO LE PESCHE. SAPPIATE CHE VI AMO ANCHE IO.
Forse è esagerato, ma sul serio, ho una dipendenza ormai. Non ci posso più fare niente.
Detto questo, grazie mille a chiunque abbia letto o recensito la storia. Tra parentesi, sono arrivata a 30 recensioni e quasi non ci credevo! Sul serio, per me è tantissimo. Un grosso e grande abbraccio a chiunque abbia recensito, perché mi si riempie il cuore, quasi. Troppo sdolcinato? Never mind.
Ora me ne vado perché ho scritto un po' troppo e magari non ve ne frega nulla...tanto amore.
Abbracci solari (da Stella di Solaria),
lovingbooks

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Capitolo 17
*** Scuse importanti, verità conosciute e situazioni imbarazzanti ***


Capitolo 17. Scuse importanti, verità conosciute e situazioni imbarazzanti
 
Mi precipitai da Rapunzel, schivando tutta la gente che si era ammassata sotto il palco, senza badare troppo a Hiccup. Anche lei mi stava venendo incontro e, non appena fummo abbastanza vicine, ci abbracciammo. Le circondai le spalle con le braccia e misi la testa nell’incavo del suo collo, dalla parte opposta rispetto a quella in cui si trovava la treccia. Lei, dal canto suo, mi mise le braccia intorno alla vita e sprofondò il viso nei miei capelli. Era un abbraccio che urlava tutte le cose non dette e che sapeva di scuse. Era un abbraccio così forte e vero, così da me e Rapunzel. Solo in quel momento mi resi finalmente conto di quanto mi fosse mancata. Ci separammo solo dopo buoni minuti e iniziammo a parlare contemporaneamente, così mi obbligò a parlare per prima.
 
“Mi dispiace tantissimo: avevi ragione. Oggi Hiccup mi ha baciata e non mi sono sentita bene, anzi. È stato tutto piuttosto strano. E poi anche Jack mi ha baciata e mi ha detto che mi ama ed è stato bellissimo e anche questo era piuttosto strano…voglio dire: io e Jack, chi poteva crederci?” in questo momento fece una strana espressione, facendo intendere che lei lo sapeva.
 
“E comunque, non volevo urlarti contro. Diciamo che ero piuttosto accecata e persa nel mio mondo, per capire quello che mi stavi dicendo. Scusami” le dissi, tutto molto velocemente, lasciando perdere i particolari poco interessanti (che comunque lei mi avrebbe chiesto dopo).
 
“Io sapevo che gli piacevi. E sapevo che ti piaceva. Però non è per questo che ti ho detto che Hiccup era la persona sbagliata” mi disse e, poiché stavo aggrottando le sopracciglia in un’espressione confusa, continuò: “Hiccup ti tradisce. Voglio dire, ti tradiva. L’ho visto entrare nello sgabuzzino circa una paio di volte, con ragazze diverse. Non so cosa facesse lì dentro! Così, quando l’ho visto una terza volta, l’ho aspettato fuori da scuola. Volevo chiedergli che cosa stesse facendo. Ha risposto in modo evasivo e poi ha iniziato ad avvicinarsi a me. Mi ha detto che ero solo gelosa e che anch’io volevo essere una delle ragazze. Allora gli ho risposto che lo facevo per te, che non desideravo affatto stare con lui. E poi mi ha baciata. Voglio dire, ero nel bel mezzo di un discorso e lui mi bacia! Non sapevo cosa fare, ero con le spalle al muro, letteralmente, e non riuscivo a spingerlo via. Poi è arrivato Jack, che lo ha preso per la maglia, allontanandolo da me, e gli ha chiesto cosa stesse facendo. Hiccup ha detto che si stava divertendo e che si stava godendo la vita. Allora Jack lo ha minacciato, gli ha detto di starti lontano. Alla fine, gli ho raccontato tutto. E, a quanto pare, abbiamo avuto entrambi la stessa idea: non dirti la verità e cercare di farti capire che non stavate bene insieme. Ovviamente, non ha funzionato. E tutto è andato sempre peggio, Jack mi ha raccontato dei sentimenti che provava per te e, a pranzo, è stato sempre più imbarazzante: dovevamo sempre fingere di ridere a tutto quello che diceva Elsa. Poi, lui l’ha finalmente lasciata e l’aria è diventata più leggera. Non molto, si sentiva comunque la tua mancanza. Ed è per questo che non devi chiedere scusa. Dovevamo dirti la verità sin da subito, ti avrebbe risparmiato un sacco di torture. E poi, mi mancavi” disse tutto d’un fiato, senza perdere una parola, mentre io perdevo la calma.
 
Io avevo difeso Hiccup, avevo dato tutto per lui. D’accordo, potevo anche non essermi perdutamente innamorata, ma questo non significava nulla in questo momento. Non lo avevo mai tradito e avevo sempre cercato di avere una relazione normale. Lui, d’altro canto, mi aveva tradito più e più volte, con ragazze sempre differenti. Come ha potuto farlo? Io, con tutto ciò che avevo fatto, forse un po’ me lo meritavo. Ciò non significa che a me andasse bene. Ed è per questo che, una volta finito il racconto di Punzie, quando lui si mise dietro di me, lamentandosi della mia stupidità e di quanto sarebbe potuto essere bello fare insieme re e reginetta, che gli tirai un pugno. Lo colpì in faccia e lo zittii, così come si zittii tutto il resto della scuola. Eravamo ancora una volta al centro dell’attenzione. Non ci badai più di tanto, dato che Hiccup aveva una faccia sconvolta e mi chiedeva perché lo avessi fatto. Diventai rossa per la rabbia e gli feci una sfuriata.
 
“Perché l’ho fatto, dici? Perché tu hai osato tradire me? Come hai potuto farmi una cosa del genere? Io ho cercato di starti vicino, di essere una ragazza normale! Mentre tu pensavi solo a te e alla tua popolarità, non è così? Tu pensavi alla tua popolarità mentre mandavi messaggi ai tuoi amici, nel bel mezzo dei nostri appuntamenti. Pensavi solo a te quando hai insultato la mia famiglia. Pensavi solo alla popolarità mentre mi prendevi la mano in pubblico. Pensavi solo a te quando entravi nello sgabuzzino con ragazze diverse. E, anche stasera, pensavi alla tua popolarità mentre venivamo qui, immaginando il momento perfetto in cui ti avrebbero incoronato re del ballo e reso il ragazzo perfetto! Pensavi a te anche mentre mi hai baciato! Come diavolo ho fatto a non capirlo subito? Perché lo stai facendo proprio a me?” stavo urlando e muovendo le braccia in aria.
 
Ero davvero arrabbiata. Non lo ero mai stata così tanto in vita mia. Poi lui rise. Si stava ancora tenendo una mano nel punto in cui io l’avevo colpito, avevo svelato il suo vero carattere davanti a tutta la scuola –per un impeto di rabbia– e lui rideva. Ero così sbigottita che sentii il rossore caldo delle mie guance scomparire piano piano. Poi, non appena aprì la bocca, sbiancai del tutto e mi sentii ridicola.
 
“Sì, forse l’ho fatto per la mia popolarità. Ma sai che c’è? Sono felice che la stiamo finendo qui. Già dall’inizio non riuscivo a guardarti in faccia, con tutti quei capelli rossi che andavano da tutte le parti, quel sorriso strano e quella risata davvero troppo rumorosa. E sai cosa ti dico? Sono stato io a mettere in giro tutta la storia della DUFF. Sono stato io a prenderti in giro alle spalle, quando ancora non ti conoscevo, a spargere voci false su di te. Sono stato io quello che ti ha tradito senza che tu te ne sia nemmeno accorta. Sono sempre stato io!”.
 
La terra mi mancava da sotto i piedi e lui stava per ricominciare a ridere, peccato che Jack gli avesse tirato un pugno nello stomaco. Hiccup aveva risposto e avevano iniziato a rotolarsi per terra, mentre si tiravano pugni, calci e manate. Fu quando vidi l’espressione di Jack che mi risvegliai. Lui era arrabbiato, come se lo avessero offeso, e capii quanto davvero mi amasse. In fondo, Hiccup mi aveva portato a quella che ero: la storia della DUFF mi aveva fatto conoscere Jack, mi aveva cambiata e dato più forza. Non mi importava di quello che aveva fatto alle mie spalle, perché avevo una vita davanti, fuori dal liceo. Così, non appena si rimisero in piedi, mi misi tra di loro, prendendo il pugno di Hiccup in faccia e quello di Jack sulla schiena. Stavano per riprendere, quando urlai loro di smetterla e si accorsero di avermi colpita e si scusarono entrambi.
 
“A me non importa niente di tutto quello che hai fatto prima. Ora ho ancora la mia migliore amica e una persona che mi ama accanto e tutto grazie a te. Quindi, non solo ti perdono, ma ti ringrazio anche” dato che aveva una faccia piuttosto sconvolta, aggiunsi: “Non ti preoccupare, non ti parlerò più, se non per chimica, e se vedrò la tua faccia fuori da quel laboratorio non esiterò a tirarti un pugno”.
 
Dopo di che mi girai verso Jack e gli gettai le braccia al collo, avvicinandomi al suo orecchio per sussurrargli un “grazie”.
 
Tutti ricominciarono a ballare, anche se ormai era abbastanza chiaro che il ballo non aveva un re e una reginetta. Dopo quella piccola rissa abbiamo anche avuto dei problemi con i professori che ci guardavano, ma ce la siamo cavata tutti con la punizione pomeridiana, in cui avremmo dovuto aiutare a pulire la scuola.
 
Io e Jack stavamo ballando un lento, corpo contro corpo, guardandoci negli occhi e sorridendo in modo quasi esagerato.
 
“Quindi, rossa, se io volessi usare il linguaggio di Sophie, potrei dire che sei la mia principessa?” mi domandò, ad un certo punto, e posso giurare che sembrava quasi timido in quel momento.
 
Io, d’altro canto, sentii le mie guance andare a fuoco, ma trovai comunque la forza per tirare fuori le parole dalla bocca.
 
“Direi di sì…E quindi tu sei il mio principe?” gli domandai a mia volta, sentendomi sempre più rossa in volto.
 
Lui mi rispose con un bacio, che trasmetteva tutte le cose che non era in grado di dirmi. E passammo la serata così: ballando lenti l’uno attaccato all’altra e non badando a quelli che ci stavano intorno, fino a quando non arrivò l’ora del mio coprifuoco e lui mi riaccompagnò a casa. Una volta che ebbe accostato nel vialetto, lo salutai con un veloce bacio sulla guancia ed entrai dritta dentro casa mia, chiudendomi silenziosamente la porta alle spalle e sospirando con un’aria felice. Mi sentivo ancora rossa e la situazione non andò meglio quando sentii i miei genitori parlare in salotto.
 
“Sarà già entrata?” domandò mio padre.
 
“No, però secondo me l’ha baciata” gli rispose mia madre.
 
“Ma era Jack o Hiccup?” domandò di nuovo.
 
“Per me Jack” fu la risposta di mia madre.
 
Decisi di interrompere la loro conversazione e fare finta di nulla, così sbattei la porta, facendo abbastanza rumore per farli smettere di parlare e li salutai. Loro corsero all’entrata, con un sorriso stampato in volto e mi salutarono. Io ero sempre più imbarazzata. Era una serata piuttosto strana.
 
“Ciao Merida!” disse mio padre con davvero troppo entusiasmo.
 
“Com’è andato il ballo?” chiese mia madre.
 
“Bene” dissi, semplicemente.
 
“Solo bene?” chiese nuovamente.
 
Alzai le sopracciglia come risposta ed entrambi sbuffarono e incrociarono le braccia –erano proprio fatti l’uno per l’altra.
 
“Abbiamo visto una macchina, bambina. E siamo piuttosto curiosi di sapere come è andata al ballo con il tuo ragazzo” disse mio padre, cercando di assumere un tono dolce. Non ci riuscì.
 
“Io e Hiccup abbiamo rotto” annunciai con un tono di voce quasi neutro, mentre mia madre cercava di nascondere un sorriso e mio padre si trattenne dall’esultare entusiasta.
 
“Uff, avanti, potete pure mettervi a saltare. Solo non fate troppo rumore!”.
 
E così mia madre e mio padre si batterono un cinque davanti ai miei occhi. Per fortuna non ero triste per la mia rottura, altrimenti tutto ciò sarebbe stato piuttosto offensivo.
 
“Quindi chi ti ha accompagnato a casa?” mi domandò mia madre, senza togliersi il sorriso dal volto.
 
“Non lo saprete mai” risposi, spostandomi dalla porta e dirigendomi verso le scale.
 
Peccato però che mio padre si mise in mezzo e non riuscì a passare. Stavo per protestare, ma lui fece la faccia da genitore più serio e cattivo dell’anno –anche se prima aveva esultato come un bambino la mattina di Natale.
 
“Siamo i tuoi genitori e dobbiamo sapere con chi vai in giro. Quindi, Merida, chi ti ha accompagnata a casa?” mi chiese, con un tono che doveva sembrare severo.
 
Mi trattenni dal ridere e sbuffai rumorosamente, per far sapere loro che la stavano prolungando davvero troppo.
 
“Jack. Sono successe delle cose, però. Ne possiamo parlare domani?” domandai, cercando di spostare mio padre dalla mia strada.
 
Si trattennero, questa volta. Credo che non si siano messi a saltare per la casa solo perché avevo usato un tono piuttosto serio. Così mi augurarono la buonanotte e mi lasciarono andare in camera. Quando stavo per addormentarmi, una volta finito di svestirmi ed essermi lavata i denti, li sentii parlare di nuovo: stavano facendo commenti davvero troppo positivi su Jack. Mi addormentai solo quando, finalmente, cambiarono discorso. 

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Capitolo 18
*** Importanti chiarimenti, affetto familiare e vecchie abitudini ***


Capitolo 18. Importanti chiarimenti, affetto familiare e vecchie abitudini
 
L’indomani mi svegliai nel bel mezzo del pomeriggio, ancora troppo stanca per alzarmi dal letto. Purtroppo, la mia mente assonnata riuscì a ricordarmi che dovevo parlare con i miei della punizione e dare a questa una motivazione. Mi alzai di malavoglia dal letto, buttando le coperte per terra e andando in bagno solo per lavarmi i denti. Corsi subito di sotto, solo per trovare mia madre e mio padre a parlottare in salotto sul prossimo ritrovo di amici, che si sarebbe tenuto a casa di Sue, la migliore amica di mia madre. Entrai in cucina con i capelli davanti al viso e davvero poca voglia di vivere.
 
“Buongiorno, bella addormentata!” esordì mia madre, mentre soffiava sulla sua tazzina, riscaldando probabilmente il caffè.
 
Risposi con un mugugno e buttai la testa sul tavolo. Li sentii ridere entrambi alle mie spalle, ma alzai il viso solo quando mia madre mi porse la mia tazza di caffè. E iniziai a parlare solo quando ebbi abbastanza caffeina in circolo.
 
“Bene, dobbiamo parlare” iniziai, facendo sedere mia madre su una delle sedie vuote. Quando fui sicura di aver catturato la loro attenzione, iniziai a spiegare quello che era successo ieri sera –tralasciando il tradimento di Hiccup, la storia della DUFF, il mio primo bacio e il mio vero primo bacio. Una volta concluso il racconto, mio padre si passò una mano sul volto, evidentemente stressato, mormorando qualcosa con un tono di voce talmente basso che non riuscì a sentire. Mia madre, d’altro canto, stava per scoppiare da quanto era rossa.
 
“Non posso credere che ti abbia trattata così! Quel ragazzo non mi è mai piaciuto” urlò, per poi aggiungere, vedendo l’espressione di mio padre: “Questo non giustifica il tuo comportamento, signorina!”, solo che non convinse nessuno dei due.
 
Poi se ne andò dalla cucina continuando a parlare da sola e a muovere le braccia in modo isterico. Rimanemmo soli io e mio padre, in un silenzio davvero tanto pesante.
 
“Perlomeno gli hai fatto male?” mi chiese lui.
 
Io sorrisi, stupita, per poi annuire.
 
“Bene” mi disse, sorridendo a sua volta.
 
“Non sei arrabbiato?” gli domandai, giocando con il cucchiaino della mia tazza.
 
Lui scosse la testa e mi guardò.
 
“Ti ho cresciuta forte e so che te la sai cavare da sola. Se pensi di aver fatto la cosa giusta, allora mi fido di te. Solo, per favore, fa che non influenzi negativamente i tuoi voti” mi disse, per poi alzarsi e andare fuori di casa.
 
Io rimasi sbigottita a fissare un punto impreciso del tavolo. Dopo tutto quello che era successo, mi ero dimenticata della promessa fatta a mio padre di prendere bei voti. Lui voleva il meglio per me, lo ha sempre voluto. Fu per quello che, dieci minuti dopo, mi ritrovai nella mia stanza, di fronte alla scrivania, a recuperare tutto il lavoro che avevo perso –ed era davvero tanto. Così, passai il resto della giornata a studiare. Mi fermai solo quando fui abbastanza sicura di ciò che avevo ripassato. Mi addormentai così velocemente che quasi non me ne accorsi.
 
Il giorno dopo continuai a studiare, fino a cena, quando arrivò un ospite inaspettato.
 
Ero tranquilla nella mia stanza a ripassare matematica quando qualcuno bussò alla mia porta. Urlai un “avanti” e vidi spuntare una lunga chioma bionda dalla porta. Sorrisi involontariamente.
 
“Ciao anche a te, Punzie!” le dissi.
 
“Buonasera!” trillò lei, tirando fuori la borsa che nascondeva dietro le sue spalle solo per aggiungere: “Pigiama party!”.
 
Scossi la testa e misi via i libri, grata di aver di nuovo Rapunzel e i nostri pigiama party. La bionda si buttò sul letto mentre finivo di sistemare la mia scrivania piena di appunti e iniziò a raccontarmi tutto quello che mi ero persa su tutta la scuola e sulla sua vita. Ed erano tante cose. Mentre parlava, però, potevo sentire che stava evitando un certo argomento e, solo quando ebbe finito il suo racconto, mi accorsi che non aveva nominato nemmeno una volta il nome di Flinn. Così decisi di tirare fuori l’argomento nel modo più delicato possibile.
 
“È successo qualcosa con Flinn?” le chiesi.
 
Lei prima fissò il soffitto e sbuffò, poi portò lo sguardo su di me, con un’aria falsamente irritata, per poi finire a fissare fuori dalla finestra.
 
“Ci siamo lasciati…” mi rispose, iniziando ad attorcigliarsi delle ciocche di capelli intorno alle dita.
 
Aggrottai le sopracciglia e aspettai un altro momento prima di parlare, cercando di alleggerire la tensione.
 
“E perché?” domandai dopo, sdraiandomi accanto a lei e fissando il soffitto.
 
“Avevi ragione tu, non parlavamo. Così, quando mi sono resa conto di quanto poco sapessi di lui, ho cercato di instaurare una conversazione più volte... solo che non ha funzionato, Flinn si è stancato e mi ha lasciata…” disse, mentre io appoggiavo la testa sulla sua spalla e mi mettevo su un fianco, cercando di abbracciarla.
 
Era una posizione piuttosto scomoda, ma non ci badai più di tanto.
 
“Non volevo dirtelo ieri sera, dato che eri così felice…” continuò, così alzai la testa per guardarla dritta negli occhi, assumendo l’aria più seria che possedevo.
 
“Potevi dirmelo comunque, stupida! Ora facciamo la nostra serata anti-ragazzi e guardiamo commedie su Brad Pitt tutta la notte. Domani è pur sempre festa, no?” dissi io, cercando di farle un sorriso.
 
Lei annuì e io mi alzai per andare a prendere il mio computer, del gelato e delle coperte. La serata anti-ragazzi era nata alle elementari, quando il primo ragazzo di Rapunzel l’ha mollata per Lisa Evans, una bambina davvero troppo viziata per la sua età. La sera della rottura, io e Rapunzel ci eravamo incontrate a casa sua per un pigiama party e lei mi aveva raccontato tutto, così, per tirarle su il morale, decisi di prendere quello che c’era in casa e fare qualcosa. Così la sera finimmo per mangiare il gelato sedute sul suo divano, con le coperte sulle gambe e un film con Brad Pitt, il suo attore preferito, alla tv. Avevamo ripetuto questa serata sin da quel giorno ogni volta che Punzie lasciava un ragazzo o viceversa, e succedeva molto spesso, data la bellezza della bionda. E anche quella sera andò così: gelato, coperta e Brad Pitt. Solo che, per la prima volta, per me non era una serata anti-ragazzi, anzi. Mandai spesso messaggi a Jack, ma poi decisi di spegnere il cellulare e prendermi cura della mia migliore amica. Alla fine, ci addormentammo mentre Angelina Jolie cercava di sparare a suo marito.

 
NOTA AUTRICE
Quinidi...eccomi qui dopo due mesi (così tanti? wow) di assenza.
Ora vi spiego il perché; giusto per rompervi le palle: ad agosto non sono quasi stata a casa. Bugia. Sono stata a casa, ma davvero poco. Poi è arrivato settembre e io vi giuro che volevo postare, ma avevo da finire alcuni compiti delle vacanze (che, indovina indovina, NON HANNO CORRETTO) e poi è iniziata la scuola (il giorno del mio complenno, voglio dire) e CI HANNO RIEMPITI. OTTOBRE È PIENO ED È GIÀ TANTO SE HO IL TEMPO PER ANDARE IN BAGNO. E lo dico sul serio. Grazie al cielo posso respirare facendo altre cose, se non avessi questa capacità straordinaria sarei già venti metri sotto terra.
Non ho proprio nulla da dire, perché ora devo scappare e finire di schematizzare filosofia, ma spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Cioè in realtà vi dico questo: c'è ancora l'epilogo e poi vi abbandono. Forse. Non lo so, deciderò. Insomma, ve lo dico nel prossimo capitolo, che posterò il più presto possibile.
Ah e volevo informare le fans delle pesche che ho una nuova passione: le mele rosse. In realtà, è tutta colpa di una mia amica e dei suoi stupidi audio (Se stai leggendo, ti amo).
Detto questo, scappo in Siberia e tanti bei sogni.

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Capitolo 19
*** Epilogo ***


EPILOGO
 
La mattina dopo mi svegliai con un torcicollo assurdo. La giornata fu un disastro: Rapunzel se ne andò dopo aver fatto colazione e io passai l’intera mattinata a studiare, l’unica pausa? Il pranzo. Qualcuno dia un premio al pranzo. Nonostante fosse un solo panino con dell’arrosto e del formaggio, era la cosa più buona che mangiassi da giorni. Il pomeriggio stava per scoppiarmi la testa a causa delle parole complicate dei poeti inglesi, così decisi di fare una pausa e andare a correre, dato che ero un po’ fuori allenamento. Era inutile stressarsi su qualcosa per tanto tempo, giusto? Misi la mia solita divisa ed uscii di casa, salutando tutti. Stavo correndo da circa venti minuti, quando girai l’angolo e andai a sbattere contro qualcuno. Ebbi un deja-vu non appena alzai lo sguardo verso Jack, che aveva messo le mani sui miei fianchi per non farmi cadere. Metteva le mani sui fianchi di ogni persona contro cui andava addosso? Mi annotai mentalmente di dirgli di stare più attento a dove andasse, più avanti, nel caso, non saprei, inciampasse su qualche ragazza, per esempio. Non si è mai troppo sicuri.
 
“Come ai vecchi tempi, giusto rossa?” domandò lui con un ghigno.
 
Gli sorrisi beffarda e annuii.
 
“Ora mi tirerai un pugno?” mi chiese, con un evidente tono ironico.
 
Feci finta di pensarci su e poi mi avvicinai a lui, mettendomi sulle punte e lasciandogli un piccolo bacio sulla guancia. Lui sorrise, arrossendo appena, e decidemmo di andare a correre insieme.
 
I giorni passarono velocemente e tutto si sistemò presto. Grazie al mio studio intenso, avevo recuperato quasi tutti i miei brutti voti, anche se avevo una media appena sufficiente, che non bastava a farmi andare in vacanza con i miei. Non vidi più Hiccup –se non a chimica e mentre scontavo la mia punizione– e non fui più costretta a parlarci, dato che il professor Murphy aveva permesso a me e Jack di essere compagni di laboratorio. Il bar aveva riacquisito clienti, dopo la campagna pubblicitaria (così Jack insiste per chiamarla) che abbiamo fatto: non è mai stato pieno come lo era in quei giorni. Con le innovazioni venute dalla testa di un certo ragazzo dai capelli bianchi, il barista non aveva nemmeno più lo spazio dove mettere tutte quelle persone. Io e Rapunzel eravamo più unite che mai e tutta la scuola aveva smesso di parlare di me, che ormai ero storia vecchia. E, onestamente, preferivo di gran lunga che nessuno parlasse di me. Ero tornata la Merida di una volta: capelli rosso fuoco e più ricci che mai, solo pantaloni e niente gonne e un carattere veramente ribelle. Io e Jack stavamo insieme in ogni momento possibile, senza mai sfociare nelle sdolcinatezze delle coppie liceali. Ci baciavamo, ma non spesso e quasi mai di fronte a tutti. Era un po’ come se i nostri baci fossero un nostro segreto, come lo erano i nostri sentimenti. Non siamo mai stati distanti più di due giorni, tranne l’estate di quell’anno: mio padre, infatti, nonostante i miei voti piuttosto scarsi, aveva deciso comunque di portarmi in vacanza con la famiglia. Io e Jack, in quel periodo, ci sentimmo solo grazie alle videochiamate. Sono stati mesi difficili e abbiamo avuto qualche litigata, ma niente che non si fosse risolto con dei videomessaggi e selfie bizzarri. Avevo iniziato anche ad instaurare un’amicizia con Sophie, che ormai si considerava una mia sorella-non-di-sangue. Ero più felice che mai, sempre più innamorata di Jack e sempre più legata alla sua sorellina, alla mia migliore amica e alla mia famiglia. In fondo, chi ha bisogno della popolarità quando ha tutto questo? Di certo non io.
 
Purtroppo, la mia storia non è ancora finita e si sta ancora scrivendo: la mia vita non è una fiaba e non posso assicurarvi il “e vissero felici e contenti”, però, se avrete pazienza, potrete scoprirne la fine con me.
 
NOTA DI UN'AUTRICE CHE CHIEDE PERDONO IN GINOCCHIO
Allora gente, potete tirarmi tutto quello che volete. Per diversi motivi di cui posso fare un elenco.
Avete aspettato così tanto tempo (qualcosa tipo 3 mesi, forse?) per un epilogo così corto e con una fine così criptica. 
E ora vi spiego perché: diciamo che sto scrivendo un sequel e che sono quasi alla fine.
E ora vi spiego perché ci ho messo così tanto ad aggiornare: la mia vita fa schifo, l'epilogo di prima non mi soddisfava, mi sono dimenticata, la scuola, ho dovuto abbandonare la scrittura per un po' a causa della scuola e dei libri e degli anime e dei manga e delle serie tv e dei film, la scuola, il cibo, e stavo cercando di avere una vita sociale. News flash: non ho una vita sociale.
Scherzi a parte, mi dispiace davvero che ci abbia messo una vita. E spero tanto che vi piaccia.
Ora vado con i ringraziamenti. Pronti? Bene.
Ringrazio le meravigliose 14 persone che hanno messo la storia tra le seguite, le 2 splendide persone che l'hanno messa nelle ricordate, e le fantastigliose 10 che l'hanno messa tra le preferite.
Non so come ringraziare le persone che mi hanno mostrato il loro supporto, nonostante i ritardi, e che hanno recensito ogni capitolo. Ringrazio le persone che hanno recensito in generale. 
E niente da dire, adoro tutti voi che avete apprezzato questa storia.
Grazie mille e spero di ritrovarvi nel sequel, quando avrò tempo per finirlo (si spera entro il 2050 (scherzi a parte, dovrei riuscirci entro Febbraio massimo (si spera))).
Con affetto,
lovingbooks.
 

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