Strada facendo

di civetta_rossa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Andare sempre avanti ***
Capitolo 2: *** La battaglia ***
Capitolo 3: *** Il legno ***
Capitolo 4: *** La città ***



Capitolo 1
*** Andare sempre avanti ***


Africa – Parte I
Mi chiamo Francesco e oggi, 12 gennaio 2009, una mia amica, con la quale sto andando in Italia in cerca di una vita migliore, mi ha regalato questo quaderno dove voglio scrivere la mia storia.
Per la lettura: il diario originariamente era scritto in inglese, ma Francesco ha scritto in arabo i dialoghi che lui ricorda di aver ascoltato o le parole da lui dette in quella lingua. Per tradurre l’arabo verrà utilizzato il grassetto.
Cap. I
Andare sempre avanti
“Nascesti il 12 marzo del 1996.I tuoi genitori ti chiamarono Francesco in memoria di un turista che tua mamma incontrò poco prima di partorire. La povera donna aveva doglie da molte ore e la levatrice del villaggio disperata disse che non riuscivi a venire fuori. Solo un medico avrebbe potuto salvarti. Tuo padre la fece salire nel vecchio mulo di cui tutti al villaggio si servivano per arare i campi e iniziarono a camminare verso l’ospedale distante circa 20 km. A metà strada tua madre era ad un passo dalla morte ma un turista a bordo di una jeep, di nome Francesco le diede un passaggio e la portò in poco tempo in ospedale. Tuo padre preferì continuare il suo viaggio con il mulo. La donna non riuscì a salvarsi e tu rimanesti lì parecchi giorni. Tuo padre arrivò in ospedale la mattina dopo e il tuo salvatore ti lasciò nelle sue mani. Quando fosti dimesso ritornasti a casa. Così iniziò la tua vita.”
Questo era ciò che mio padre mi raccontava ogni volta che chiedevo un nome diverso. Questo perchè nel mio villaggio solo io avevo quello strano nome e i miei piccoli compagni di giochi a volte mi prendevano in giro per questo. In famiglia rimanemmo in due e la vita per noi non era affatto facile. La mattina andavamo a cacciare, poi lavoravamo il nostro piccolo podere e infine, la sera, cucinavamo tutto ciò che eravamo riusciti a prendere durante la giornata; mio padre riusciva a non mangiare per diversi giorni ma era fondamentale per lui che io riuscissi a mettere sempre qualcosa sotto i denti. Era sempre allegro nonostante le molte difficoltà che dovette affrontare. Piangeva solo la notte, dopo essersi assicurato che io dormissi. Era uno dei pochi adulti che, nel nostro villaggio, aveva avuto la fortuna di andare a scuola e perciò ogni sera, prima che andassi a dormire, condivideva il suo sapere con me che purtroppo, per come andavano le cose, non potevo avere quella fortuna. Mi insegnò a leggere e a scrivere. Amavo imparare e all'età di sei anni ero già diventato più bravo di lui. Nel poco tempo libero che avevo, andavo in giro per il villaggio e ricopiavo per terra con un sassolino tutto ciò che mi capitava di leggere, anche quando non ne conoscevo il significato.
Una notte mi svegliai di soprassalto e ciò che vidi non mi piacque affatto … Non ero più nel mio letto ma disteso sopra una brandina rivestita con la paglia; pensai fosse un sogno ma la mattina dopo fui certo che non lo era. Non indossavo più la mia maglietta bianca e i miei pantaloncini blu ma avevo una divisa verde tutta pulita e ai piedi per la prima volta indossavo delle scarpette. Perché?
Arrivò una donna nella stanzetta in cui mi ero ritrovato. Aveva la pelle molto più chiara della mia e a me non sembrò affatto una delle dolci donne del villaggio. Era molto grossa, brutta e aveva dei baffetti sopra e sotto le labbra; anziana e con indosso un vestito bianco che non nascondeva affatto i vomitevoli rigonfiamenti di ciccia nei fianchi e nella pancia; aveva un enorme doppio mento ma la cosa che a me impressionò di più fu il suo sguardo feroce e affamato. Mi spiegò con voce piatta ciò che io ero diventato e mi intimò di non fare domande perché aveva da poco comprato un frustino che voleva provare al più presto. Mi spiegò che da quel momento ero diventato un soldato “per fortuna” già da bambino al servizio dell’esercito e che pian piano sarei stato sempre più temuto dal popolo; il mio compito all’inizio della mia “splendida” carriera non era imparare a utilizzare le armi ma andare sempre avanti: dovevo precedere l’esercito con altri soldatini per intimorire il nemico. Ero piccolo ma non stupido e sapevo quindi che il mio compito non era intimorire non potendo un bimbo far paura a nessuno. Cercai comunque di credere alle sue parole e di vedere nella mia nuova vita i lati positivi come mi aveva insegnato mio padre.
Dopo una colazione più che degna per me ( pane e acqua), la donna mi fece uscire dalla stanza e mi disse che potevo fare un giro per vedere il magnifico posto in cui mi trovavo ma che al fischio dovevo correre e andare dove c’era il palo sul quale era legata la bandiera. Iniziai a gironzolare senza meta in quel posto che purtroppo io non vedevo così bello come mi era stato descritto: era un campo aperto delimitato da reti e filo spinato nel quale c’erano molte casette ricoperte di stucco bianco. Ogni casetta era perfettamente rettangolare e aveva solo qualche fessura in alto, chiusa con qualche grata arrugginita; non avevano porte ma solo saracinesche chiuse con molti lucchetti sulle quali con una vernice rossa molto tempo prima era stato fatto un segno diverso.
Il fischio non tardò ad arrivare e io feci come disse la donna; man mano che mi avvicinavo alla grande bandiera notavo che quasi tutte le saracinesche si stavano aprendo e che da esse uscivano uomini e bambini con la mia stessa divisa. La bandiera si trovava in uno spiazzo dove si disposero in file perfettamente parallele tutti i soldati. I bambini che avevo notato prima erano tutti disposti sull’attenti quasi ad un passo dalla bandiera. Andai vicino ad un bimbo della mia stessa statura e imitai la sua buffa posizione: era ritto in piedi, spalle indietro, braccia lungo il corpo e sguardo in avanti. “Ti piace davvero tanto quel palo?” chiesi ingenuamente pensando che per la bellezza era rimasto con gli occhi spalancati e con quello sguardo vuoto; non rispose e allora pesai fosse stato più saggio rimanere in silenzio.
 Arrivò un ometto con i baffi che indossava una divisa simile alla nostra. Si fermò davanti alla bandiera e iniziò ad impartire ordini alquanto stupidi: diceva attenti e tutti battevano all’unisono i piedi, poi riposo e tutti divaricavano le gambe e mettevano le mani dietro la schiena; dopo un po’ di "attenti" e "riposo" iniziò a parlare: “Fate un passo avanti i nuovi!”- io e molti altri piccoli obbedimmo immediatamente –“ Siete 12 secondo i miei dati e il vostro compito vi è già noto; i vostri nomi da oggi non sono più quelli che avete dalla nascita ma per motivi di comodità verrete chiamati con un numero. I vostri numeri sono dal 245 al 257. Avanzate ad uno ad uno pronunciando il vostro numero!”; compresi la situazione immediatamente e, poiché non avevo ancora una grande dimestichezza con i numeri, decisi di farmi avanti per primo prendendo come nome il 245 che avevo appena sentito; i miei compagni di sventura non si fecero avanti subito perché anche loro avevano cinque anni circa e non sapevano ancora contare; l’ometto dopo aver sbuffato comprendendo la situazione li indicò uno per uno e urlò il nuovo nome. I giorni passati in quel campo, che poi appresi si chiamava base, erano noiosissimi e ripetitivi: la mattina dovevamo assistere all’issa bandiera e poi noi bambini dovevamo pulire la base mentre gli altri si allenavano con le armi; il pomeriggio invece dopo un pezzo di pane e un po’ di acqua facevamo tutti esercitazione di guerra dove noi dopo aver preceduto l’esercito sedevamo per terra e giocavamo con i sassolini.
Ma a metà novembre, dopo tanti giorni di monotonia, all’ issa bandiera il buffo ometto annunciò finalmente che era arrivato il momento di vedere di cosa eravamo capaci perché quel giorno si sarebbe combattuto veramente .

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Capitolo 2
*** La battaglia ***


Dopo l’ora che ci fu concessa per prepararci, venimmo caricati a uno ad uno in dei camion fatiscenti. Io salii con altri 20 bambini nel più piccolo dei mezzi; con noi salii anche un ragazzotto di circa quattordici anni che ci ordinò di seguire i suoi ordini. Il viaggio fu lungo e silenzioso, poi ad un certo punto il ragazzo ci rivolse parole tutt’altro che incoraggianti:“ Come al solito il nostro compito è molto semplice: avanzeremo dove ci viene ordinato precedendo l’esercito; mi raccomando … se non volete morire, andate sempre avanti!”
Arrivammo ai piedi di una collinetta e il comandante schierò l’esercito; lui, che non aveva mai partecipato alle esercitazioni andò in fondo e, invece delle armi pesanti che avevano tutti, prese dalla sua auto una piccola pistola che infilò nei pantaloni. L’esercito iniziò ad avanzare sempre attento ai minimi rumori, nel timore potesse essere sorpreso dai nemici e l’avanzata fu piuttosto lunga; ad un certo punto a noi piccoli il comandante ordinò di correre avanti e di dare l’allarme in caso avessimo visto altri soldati.
Dietro noi “mocciosi” c’erano bambini più grandi di noi che già impugnavano armi. Li sentivo sempre piangere dopo le esercitazioni poiché avevano già ucciso. Oltre che per l’orrore dei crimini commessi piangevano anche perché si era radicata in loro una forte convinzione: pensavano che Dio li avesse ormai abbandonati e che non importava più quante persone o bambini fossero stati uccisi da loro. Non erano come i grandi, convinti che grazie alle armi sarebbero sempre rimasti invincibili e capaci di decidere le sorti di altri, erano semplicemente vittime.
Ci guardammo negli occhi e iniziammo a correre. Il ragazzo, che aveva compreso le nostre intenzioni, fu d’accordo con noi e urlò: “Dividetevi! Non andate tutti nella stessa direzione perché sarete più facili da prendere!”. Obbedimmo. Il campo purtroppo era privo di nascondigli e alberi e scappare non era un’impresa da poco. Io andai a sinistra e con me venne un altro bambino. Prima di seguirmi però mi chiese piagnucolando se poteva; “Nessun problema! Vieni pure!” ma dopo aver pronunciato queste parole pensai che se lui voleva venire con me forse io avrei dovuto sapere dove andare …
Non lo avevo mai notato prima. Aveva un colorito molto più chiaro del mio ed era un po’ diverso da tutti noi. Pensai fosse meglio non chiedergli niente anche perché in quel momento dovevo preoccuparmi di una sola cosa: correre. L’esercito, si accorse del nostro piano di salvezza quando noi eravamo ancora facilmente raggiungibili e dopo aver sentito molte bestemmie contro un Dio che forse era stato troppo buono con loro, iniziarono ad avanzare velocemente. Il comandante ordinò di proseguire avanti e di non badare a noi perché non ne valeva la pena; poi però dopo qualche secondo ordinò ai soldati più piccoli di acciuffarci e costringerci ad obbedire anche con le armi; si contraddisse di nuovo dopo pochi secondi e modificò i suoi ordini:” Alcuni di voi andranno a prendere quei piccoli inutili vigliacchi ma non dovete andare tutti perché altrimenti la prima linea rimane vuota e il nostro esercito sarà più vulnerabile! Non possiamo permetterci di perdere soldati adulti!”. Dopo un po’ di confusione per la divisione dei ruoli da parte del comandante, i piccoli si scagliarono contro noi piccolissimi che ormai eravamo molto lontani da loro.
A pochi metri da me si apriva una foresta che sarebbe stata la salvezza mia e del mio compagno di viaggio. Avendo capito che eravamo ormai troppo difficili da raggiungere iniziarono a sparare. Io e Johnny, così mi supplicò di scrivere sulla sua lapide qualora lo avessero preso, salimmo sopra un albero e ci salvammo. “Preso!” urlavano e poi ridevano. Che atrocità! Ridevano perché erano riusciti a decidere il giorno, l’ora, il minuto e il secondo in cui rispedire in cielo un bambino che era riuscito a compiere cinque anni dove averne compiuto uno è già un’impresa. Io non potevo finire così! La mia vita secondo me aveva assunto un significato perché ne era costata un’altra; dovevo riuscire a vivere due vite.
Arrivò un bambino di quelli che dovevano acciuffarci e iniziò ad urlare all’impazzata contro di noi iniziando a sparare colpi in aria. Eravamo terrorizzati ma entrambi capimmo era molto più saggio restare in silenzio. Un serpente si dirigeva verso di noi … Non voleva noi; osservava attentamente un appetitoso nido di uccello pieno di uova. Il mio compagno lo capì prima di me e mi guardò terrorizzato. Cosa fare? Per fortuna il nostro piccolo inseguitore terminò le pallottole e senza tante parole feci l’azione più infame di tutta la mia vita. Senza esitazione presi il nido e centrai in testa il nostro “cacciatore” mentre il mio compagno mi guardava con ammirazione. Il serpente seguì attentamente le mie mosse mentre il nostro ex-giustiziere accortosi del pericolo imminente si riparò la testa con le braccia. La padrona del nido, appena tornata dalla caccia scese in picchiata verso di lui. Decisi di chiudere gli occhi e misi la mano anche in quelli di Johnny che scoprii si stava divertendo tantissimo. Il bambino, quando ricominciammo a guardare, urlava ma per fortuna né il serpente né il volatile gli avevano fatto del male; le uova però non erano più intatte e il liquido viscoso fuoriuscito da esse si era impiastricciato fra i suoi capelli. Egli sapeva che se fosse tornato a mani vuote, disobbedendo al comandante, la punizione sarebbe stata dura e quindi iniziò a scappare.
La vera e propria battaglia non fu nell’esercito ma nei giorni successivi contro un nemico molto più potente di qualunque altro: la natura. Le foreste in Africa non sono il miglior posto per vivere perché i rischi sono innumerevoli. Sopravvivemmo solo grazie alla nostra mente che non si affliggeva e andava sempre avanti non pensando mai al passato. Molti bambini non si pongono questi problemi, non vogliono sopravvivere, non vengono costretti a fare ciò che non vogliono fare ma io e Johnny si. Proprio queste circostanze ci fecero diventare amici e giorno per giorno la nostra amicizia andò rafforzandosi.
Poche ore dopo la fuga ci rendemmo finalmente conto della guerra che stavamo per affrontare ma Johnny, diversamente da me, era armato. La sua arma era molto più potente di una pistola, di un fucile o di un cannone: aveva con se un pacco di fiammiferi che trovò alla base pochi giorni prima. Erano cento fiammiferi e la cosa era molto entusiasmante all’ inizio. Mi entusiasmò di meno sapere che aveva buttato la scatola e li aveva nascosti nei calzettoni ma mi rassicurò il fatto che avrebbe provveduto lui all’estrazione ogni volta fosse stato necessario. La foresta era molto fitta e doveva essere mezzogiorno quando iniziammo a camminare senza meta addentrandoci sempre più. Il nostro pranzo che facemmo durante il cammino fu a base di frutta che trovammo su diversi alberi. Ad un certo punto i rami diventarono così fitti da impedirci di vedere la luce del sole, quindi rallentammo la nostra andatura.
Iniziò a fare freddo. Dopo molto tempo riuscimmo finalmente a vedere il cielo, che ormai si era completamente oscurato, ma entrambi concordavamo sul fatto che se ci fossimo addormentati in quella foresta così piena di pericoli sarebbe stato molto difficile risvegliarsi. Poco dopo avvistammo una strada asfaltata, in pessime condizioni ma dove la vegetazione e gli animali non erano riusciti a mettere piede. Niente ragni, niente serpenti e niente insetti! Era la nostra salvezza! Sfiniti, spezzammo alcuni rametti pieni di foglie che scuotevamo facendo cadere tutti gi abitanti e ci coricammo a lato dell’asfalto adagiandoli sopra di noi per cercare di sentire meno freddo.
I primi raggi del sole ci svegliarono e senza colazione camminammo vicino alla strada con la convinzione che da qualche parte doveva pur portare. Quando il sole fu molto alto nel cielo la nostra fame divenne insopportabile ed entrammo nuovamente nella foresta; dopo pochi minuti ci ritrovammo nel cuore di essa. Con stupore incontrammo degli uomini che purtroppo non avevano affatto buone intenzioni. Capii subito chi erano: dei bracconieri. Mio padre li detestava. Ci avvicinammo in punta di piedi verso il loro camion e entrammo da un’enorme portiera nel posto di guida. Loro non potevano né sentirci né vederci perché in quel momento erano alle prese con una scimmia. Non sapevamo perché eravamo entrati lì ma il motivo ci fu subito chiaro: c’era uno zaino pieno di cibo: barrette di cioccolato, frutta , verdura e tonno in scatola e per finire anche un coltellino. Era evidente che i due bracconieri avevano da fare un viaggio piuttosto lungo. Misi lo zaino, che era piuttosto pesante, in spalla e dissi a Johnny di prendere i rivestimenti dei sedili che pensai potessero essere molto utili per dormire.
Chiudemmo la portiera e ci allontanammo ma per nostra sfortuna i due si accorsero di noi. Iniziarono a spararci contro ma riuscimmo a scappare; nascondemmo il nostro bottino in una piccola grotta e senza esitazione ci fingemmo morti: sentivamo spesso i soldati parlare di questa tattica infallibile.
I due bracconieri nonostante pensarono fossimo morti ci presero a pugni e a calci urlandoci contro miliardi di maledizioni, cercando di sfogare la loro ira contro due cadaveri. Sembra assurdo ma l’uomo può arrivare anche a questo quando ormai la coscienza, i sentimenti e la ragione sono stati calpestati per bene dalla violenza e dalla convinzione che il fine giustifica i mezzi. Sapevamo che dovevamo subire in silenzio perché la minima emissione di voce o il più piccolo movimento ci sarebbero costati la vita. Finirono dopo un paio di minuti che a me parvero interminabili e ci iniziammo ad alzare solo quando non sentimmo più i loro passi che si allontanavano. Perché eravamo saliti nel camion? Abbiamo agito d’istinto? Perché ci hanno fatto del male? Abbiamo sbagliato. Ma era il caso di essere così violenti? I nostri genitori ci avrebbero trattati così?
Quando ci alzammo i nostri piccoli volti erano colmi di lacrime che ognuno aveva versato in silenzio. Avevamo ferite ovunque e senza parlare piangemmo per un po’. I bambini piangono come molti grandi; a volte si piange senza motivo ma noi oltre che per il dolore piangevamo per quel gesto orribile contro noi che avevamo rubato del cibo e qualche rivestimento di sedile. E’ lecito rubare a chi ruba? Loro rubavano alla natura e noi a loro. Ovviamente capimmo di aver sbagliato e dopo l’ira contro i due concludemmo che era stata un’ottima punizione. Coraggiosi come due bambini che si trovano catapultati improvvisamente in un mondo a cui non devono appartenere ,dopo esserci sfogati, una volta asciugate le lacrime, andammo verso la grotta. Con nostro orrore notammo che era piena di insetti ma Johnny uscì dai calzoni un fiammifero. “Gli animali hanno paura del fuoco. Vai a prendere un ramo di foglie secche! Veloce!”; non mi offesi affatto per il suo tono, uscii e feci come aveva detto (a novembre era facile trovarli). Entrai e lui sfregò un fiammifero contro una pietra ruvida ma non si accese. Ne sprecammo molti ma alla fine, dopo un po’ di tentativi, accendemmo il ramo e scacciammo molti insetti che ci impedivano di arrivare al nostro bottino. Prendemmo tutto ma pensammo fosse meglio dormire altrove. In pochi minuti ritrovammo la strada. Arrivati sull’asfalto mettemmo i rivestimenti per auto dentro lo zaino che decidemmo di portare sulle  spalle un giorno ciascuno.

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Capitolo 3
*** Il legno ***


Ogni giorno camminavamo lungo quella strada seguendo lo stesso verso sapendo, come ho già scritto, che saremmo arrivati da qualche parte ed entravamo nella foresta solo per saziarci.
Poiché per fortuna entrambi conoscevamo la povertà e il valore del cibo, con quelle provviste siamo riusciti a vivere molti giorni. Dopo alcune discussioni decidemmo di aprire una scatoletta di tonno, una barretta di cioccolato o uno di qualsiasi altro tipo di cibo confezionato ogni giorno. Eravamo magri ma non troppo, perché presto imparammo a catturare sempre più  animali ( in due era più facile), a pulirli con il nostro coltellino e a cuocerli nell’asfalto con un po’ di erba secca e un fiammifero. Avevamo imparato anche come utilizzare il fuoco e che riscaldando un fiammifero al sole avevamo molte più possibilità di accenderlo. Il cibo non riuscivamo mai a cuocerlo completamente ma per noi era ugualmente squisito. Uccidevamo uccelli, cavallette, lombrichi e molto altro.
Sia io che Johnny eravamo cresciuti in Africa centrale e avevamo cacciato molte volte, quindi per noi non era difficile capire cosa mangiare e cosa no, cosa poteva far bene al nostro stomaco e cosa invece era velenoso. Le trappole, che tante volte avevamo fatto con i nostri genitori, riuscivano alla perfezione! Il nostro vero problema era l’igiene. Tagliavamo i capelli, che crescevano a vista d’occhio, con il coltello ma non vedevamo acqua limpida da molto tempo. Bevevamo nelle pozzanghere che trovavamo qua e là nella foresta ma mai trovammo tanta acqua per lavarci.
L’occasione arrivò quando finalmente un giorno, dopo tanto tempo che non succedeva, piovve. Iniziammo quindi a spogliarci e a conservare i nostri scarponi, i nostri calzoni e un po’ di rametti secchi in una grotta che controllammo essere disabitata; i vestiti invece li appendemmo ai rami di un albero per far si che la pioggia li pulisse un po’ Poiché ci vergognavamo uno dell’altro, nonostante ormai eravamo molto amici, rimanemmo d’accordo che lui si sarebbe fatto il bagno dieci passi a destra della grotta e io dieci a sinistra. La doccia fu gelata ma sia io che lui alla fine ci sentivamo davvero puliti e notammo con piacere che anche i nostri vestiti erano ritornati ai colori originari. Dopo prendemmo i vestiti, indossammo i piccoli boxer donati dall’esercito e rientrammo nella grotta. Stendemmo i vestiti per terra, lontani dal centro della grotta, accendemmo il fuoco circondandolo con delle pietre come facevamo con i nostri genitori e rimanemmo ad aspettare che asciugassimo completamente. Poi strofinammo il nostro corpo con delle foglie umide molto profumate che tolsero la sporcizia più resistente dalla nostra pelle. Si era fatta sera ma nessuno di noi aveva sonno. A pranzo avevamo mangiato vermi cotti, una scatoletta di carne delle nostre provviste, un po’ di frutta e due uccelli di cui non conoscevamo il nome.
 Da quando eravamo fuggiti non avevamo mai parlato di noi e quella ci parve un ottima occasione. Iniziai io con la mia storia e il mio compagno non mi interruppe mai facendomi alcuna domanda. Quando terminai lo guardai e con un cenno gli chiesi di iniziare a parlare. “Beh … la mia storia non è interessante come la tua ma se proprio ci tieni a sentirla te la racconto. Io sono l’ultimo di una famiglia molto numerosa. Da sempre i miei mi hanno fatto capire che non sono mai stato molto desiderato. Mio padre è, penso sia ancora vivo, un ricco. Un uomo che, mio fratello disse, non era degno di essere definito tale. Ti avverto, non so cosa significa ma si dice che lui ha fatto violenza a mia madre. Sono molto taciturno … -ma quale taciturno! Parlava in continuazione e a volte diventava insopportabile!- … beh forse prima ero taciturno” si corresse. “Con te mi trovo bene e parlo un po’. Non penso che mi hai mai visto alla base. Stavo solo a disegnare con i sassi e non parlavo se non era necessario. Ho deciso di seguirti perché non parlavo con qualcuno da anni e restare solo mi avrebbe fatto diventare pazzo! Ritornando alla mia storia, un giorno uno dei miei fratelli mi consegnò al comandante dicendo che non potevo essere mantenuto e quindi doveva scaricarmi da qualche parte. Lo fece all’insaputa di mia madre che era l’unica che in quella famiglia mi voleva. Questo è tutto”. Non ebbi il coraggio di dire niente. Il fuoco stava perdendo pian piano il suo vigore iniziale e pensammo entrambi fosse meglio rimanere a dormire nella grotta.
Il giorno dopo, non facendo alcun accenno alla sera precedente; prendemmo tutte le nostre cose e ci avviammo verso la strada che ormai sembrava essere infinita. Sentimmo un rumore insolito appena arrivati vicino all’asfalto: sembrava un rumore causato da un veicolo. Strano. Non passava mai nessuno di lì. Ormai da settimane ne eseguivamo il corso ed era sempre stata desolata, priva di qualsiasi visitatore. Ci nascondemmo dietro un masso e osservammo da dietro cercando di capire cosa stesse succedendo. Un camion si era fermato sul centro della strada; trasportava diversi tronchi e rametti secchi fissati per mezzo di un telone. Terminato il rombo dei motori, ci accorgemmo che non c’era nessuno all’interno o fuori a sorvegliarlo. Non pensammo ci serviva il legno ma avevamo bisogno di un passaggio! Salimmo nel camion, questa volta da dietro, passando dalle fessure che c’erano ovunque nel telone. Volevamo approfittare del mezzo per arrivare in fondo alla strada e aspettammo il ritorno del o dei proprietari. Li vedemmo arrivare dalla fessura dalla quale eravamo entrati. Erano due uomini grassi, dal colore della pelle molto più chiaro di Johnny e portavano altra legna da mettere nel camion. Noi, avendo capito il pericolo imminente, avanzammo difficilmente fra i rami verso la parte più vicina al posto di guida separato dal carico tramite una lamina di ferro.
Per nostra fortuna tolsero solo parte del telone e questo ci consentì di rimanere nascosti. Dopo aver fissato i rami al camion ritornarono al posto di guida e partimmo. Il viaggio durò diverse ore in cui, senza pensarci troppo, mangiammo tutte le scorte che ci rimanevano. Dopo un tratto di strada molto lungo ci avvicinammo alla fessura dalla quale eravamo entrati e per un po’ guardammo fuori cercando qualche terreno o parte di asfalto che avrebbe attutito la nostra caduta.  Non so se qualcuno in cielo ci proteggeva o se era solo fortuna ma la strada terminò e sotto il camion vedemmo un bel po’ di fango, dove decidemmo di scendere. Era vero che il terreno attutì la caduta ma comunque non fu molto piacevole, dopo la “doccia” del giorno prima, scendere da un camion in movimento. Il fango ci avvolse quasi completamente ma alla fine pensammo che fu meglio lì piuttosto che l’asfalto.
Ci guardammo intorno. La strada era terminata in un grande campo che era ben curato e delimitato da una staccionata in legno. Il camion si era fermato poco più avanti di noi vicino a una stalla. Vedemmo una stradina formata da ciottoli che iniziava a pochi passi. Non avevamo scelta … ci incamminammo, questa volta non più allegri come i giorni precedenti. Non eravamo più convinti di arrivare alla fine di una strada ma eravamo all’inizio di una nuova.
 “ E’ colpa tua!” disse Johnny;
“Ma che dici! Non fare lo stupido! Per cosa avrei colpa di preciso?!”
“ Per essere voluto scendere nel fango! Non solo siamo tutti sporchi ma abbiamo anche chissà quanta strada da fare! Bravo, bravo non ho parole”
“Vuoi venire con me?! Se vuoi andare da qualche altra parte sei libero di farlo!”
“Ormai dove devo andare?! Sei uno stupido!”
“Si e tu sei un cretino. Basta stai zitto! Camminiamo che è meglio!”
Non rispose ma era evidente che se avessimo scambiato qualche altra battuta sarebbe finita male. Comunque camminammo per un bel po’ e nessuno di noi aveva la voglia di fermarsi. Camminando infatti potevi anche stare zitto ma fermandoti dovevi parlare e nessuno dei due ne aveva voglia. Al tramonto le gambe non mi reggevano più e penso fosse lo stesso per lui. Avevo fame e lui anche perché si guardava continuamente intorno alla ricerca di cibo e quando pensava di aver trovato qualcosa correva per vedere cosa fosse e poco dopo tornava a testa bassa non volendo darmi la soddisfazione di mostrarsi deluso. Era ormai notte fonda quando, mio malgrado, fui costretto a cedere ma feci finta di pensare a voce alta e non a lui. Forse ero meno orgoglioso di lui (e ciò mi dava molto fastidio) ma non potevo dargliela vinta :” Basta io esco i rivestimenti dei sedili e mi corico a tre passi dalla stradella. Lascio lo zaino vicino a me”. Dopo essermi coricato vidi anche lui venire verso di me che fece lo stesso non degnandomi neanche di uno sguardo.

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Capitolo 4
*** La città ***


La mattina seguente mi alzai prima io, riposi il rivestimento nello zaino, presi una pietra da terra e la lanciai su un cartello per svegliarlo. Si rizzò in piedi immediatamente, con gli occhi sgranati per lo spavento, e mi gettò un’occhiata carica di rabbia che ovviamente ricambiai. Poi mi accorsi del cartello sul quale avevo gettato la pietra: era un’ indicazione per un posto chiamato Port Gentil.
Finalmente saremmo arrivati da qualche parte! Iniziai a camminare e non mi voltai indietro perché sapevo mi stesse seguendo. Lo sentii brontolare dietro di me ma non me ne importava un granché. Dopo qualche minuto ritrovammo la strada asfaltata e andammo nella direzione indicata da un cartello simile al precedente. Avevamo camminato per un oretta circa quando iniziammo a notare che il paesaggio cambiava a vista d’occhio: sempre meno verde, sempre meno buche nella strada e dopo un po’ notammo anche che la strada, prima deserta, diventava via via più trafficata.
Quando il sole era ormai alto nel cielo e il nostro stomaco ormai vuoto, giungemmo finalmente in un centro abitato. Non era però uno di quei villaggi che noi eravamo abituati a vedere. Le capanne erano di cemento, alcune addirittura colorate e c’erano molte automobili. La gente però era molto simile a quella del mio villaggio e aveva lo sguardo pieno di umanità. Mi fermai davanti a una bellissima chiesa e bussai con forza. Mi venne ad aprire un uomo calvo e piuttosto anziano; non c’era bisogno di parlare. Uscì dalla chiesa, chiuse a chiave il portone e ci condusse in una piccola casetta vicino. Ci fece entrare; aprì la porta di una stanzetta e con rapidi gesti ci fece vedere che lì potevamo lavarci per bene.
Disse una sola parola: “Prego” . Entrambi ci spogliammo, entrammo nella vasca e con l’aiuto di una spugna e una saponetta ci lavammo per bene. Il pudore restava ma, poiché nessuno voleva lavarsi per secondo, in quel momento non era molto importante. L’acqua era gelida. Nonostante ciò fu ugualmente fantastico. Eravamo davvero sporchi e dopo quella doccia ci sembrò di aver cambiato pelle, come i serpenti.
Appena chiudemmo il rubinetto della vasca, egli rientrò immediatamente. Prese i nostri abiti e i nostri calzoni e li portò via. Per la prima volta, dopo il nostro litigio, io e il mio compagno ci guardammo negli occhi. E Adesso? Dovevamo continuare il nostro viaggio senza vestiti? Ritornò portando dei panni nuovi e con uno sguardo divertito disse: “Non vi lascio andare nudi tranquilli. Mettete questi. Sono puliti e soprattutto non sono dell’esercito. Se vi trovava qualche soldato, vestiti in quel modo, vi riportava a combattere. Mettete le mutande e vi porto da mangiare. Poi vi vestite dopo. Non è il caso che sporchiate anche questi puliti”. Lo guardammo con occhi pieni di gratitudine. Era vero che esistevano persone buone! Era vero che Dio esisteva! Era vero che non bisognava fare di tutta l’erba un fascio! Mangiammo, anzi ci strafogammo. Minestra, pane, due costolette di maiale e per finire un po’ di frutta. L’anziano aveva detto che pranzava in una camera a parte. Eravamo molto curiosi: sbirciammo all’interno della stanza ma con nostro grande stupore lo vedemmo inginocchiato e rivolto ad un piccolo crocifisso: pregava. Non aveva toccato cibo e ci aveva donato tutto quel che aveva. Ci sentimmo molto tristi ma allo stesso tempo importanti: mai nessuno, da quando avevamo lasciato la nostra famiglia, aveva fatto tanto per noi.
Andammo in bagno, ci vestimmo e decidemmo di interrompere la sua preghiera; entrammo e lo abbracciammo. Lui verso alcune lacrime ma poi disse: ”Andate e, quando pensate di essere soli, pregate. Ci sarà sempre qualcuno che vi aiuterà”.
Per la prima volta da molto tempo ringraziammo qualcuno. Il nostro grazie era puro, sincero, un grazie di due bambini in cerca di vita che pian piano si addentravano in un modo orribile, in un atomo opaco del male, dove tuttavia esistevano minuscole particelle che da sole illuminavano molto di più di quanto chiunque riuscisse ad immaginare.
Uscimmo da quella casetta e ci accorgemmo che, per la prima volta non avevamo una meta. Prima di allora avevamo seguito il corso di quella lunghissima strada asfaltata. Eravamo arrivati alla fine, eravamo in una città.
Fu l’istinto a guidarci: scorgemmo il mare in lontananza. Il mare … ero nato e cresciuto nell’ Africa centrale, in un villaggio circondato dalla foresta; sembra assurdo ma io non avevo mai visto il mare. Mio padre me ne aveva parlato e quando vidi quella distesa azzurra capii subito cos’era; lo dissi ad alta voce per farlo sentire al mio compagno che non mostrò un minimo d’interesse. Lo conosceva, sapevo nascondeva qualcosa. Mi fermai di colpo e iniziai a guardarlo: si era fermato a fissare il mare ma i suoi occhi non sembravano felici. Era terrorizzato. Capii che non mi aveva raccontato tutto; c’era qualcosa che lo tormentava, qualcosa di misterioso da scoprire. Ricominciai a camminare. Andai avanti fino alla spiaggia e lui, dopo pochi passi, si fermò nuovamente. Gli occhi gli diventarono lucidi.
“Ti senti male?”
“Se così fosse non ti interessa” rispose
“Smettila. Dimmi cos’hai!”
“ Mi fa schifo il mare! Contento adesso?!”
“ No! Dimmi perché!”
Reagì molto male; non me l’aspettavo. Mi afferrò per i fianchi e mi diede un calcio fortissimo nelle parti basse. Troppo forte. Svenni. Fu terribile. Aveva vinto lui e non avevo neanche la forza di alzarmi. Ma come era possibile? Io ero più grande e nonostante tutto lui con una mossa sola mi aveva messo fuori uso. Pensai che se fossi sopravvissuto non sarebbe stato il caso di rifare la domanda.
Quando mi risvegliai non ero più in spiaggia. Mi ritrovavo all’interno di una enorme cassa piena di tonno in scatola: un container. Era molto buio lì dentro ma riuscii comunque a vederlo: era vicino a me, in ginocchio. “Scusa ma te la sei cercata” disse; io gli rivolsi uno sguardo carico d’odio e mi misi seduto.
Mi spiegò che mi aveva trascinato in quel container, che aveva trovato socchiuso, per non dare nell’occhio. Sapeva che ero svenuto per il dolore ma era sicuro fossi ancora vivo perché aveva controllato che il mio polso pulsava ancora. Come sapeva che quella mossa mi avrebbe fatto tanto male? Dove l’aveva imparata? Cosa nascondeva? Perché sapeva come controllare che una persona fosse in vita o meno? Chi era veramente? Le mie domande furono interrotte bruscamente da un cigolio seguito da un rumore sordo. Si fece buio pesto. Il container era stato chiuso. E adesso? Che fine avremmo fatto? Perché non avevano controllato che lì dentro ci fossero soltanto scatolette di tonno?
Poco dopo sentii un’ orribile sensazione … era come se i miei piedi si fossero staccati da terra, come se il mio corpo volasse; ma la sensazione terminò dopo un tonfo; notai che anche lui aveva sentito la stessa cosa e inspiegabilmente iniziò a tirare calci contro le pareti del container. Era diventato pazzo? Accortosi che solo io potevo sentire il rumore dei suoi calci, prese lo zaino ( era il suo turno) e iniziò a riempirlo con molte scatolette. Non lo vedevo ma lo sentivo. Si sedette ,si distese e iniziò a dormire.
Mi sentivo stupido, non sapevo cosa stava succedendo mentre lui, a quanto pareva, aveva capito tutto. Conosceva il mare, i container, le navi e le barche: ne ero sicuro. Sentii delle voci provenienti dall’esterno e capii eravamo stati caricati su una nave. La nave stava andando via dal porto verso chissà quale altra città … chissà quanto tempo sarebbe durato il viaggio … Ma i problemi non erano finiti … Dopo poco tempo l’aria si fece pesante. Il container era chiuso ed era privo di fessure. Iniziai a sentire la testa girare e presto non riuscii nemmeno a rimanere seduto; decisi di chiudere gli occhi.
Sentii uno scricchiolio seguito da un lungo e insopportabile cigolio. Mi volevo alzare ma non avevo la forza. Mi sentii sollevare e trascinare via. Richiusi gli occhi.
“ Svegliati! Sei una femmina! Come può essere che svieni sempre?! Che noia che sei. Fai sempre le stesse cose!”; la sua voce era infastidita ma io continuavo a non vedere niente.
Poco dopo riprese a parlare: “Hanno aperto il container diverse ore fa e hanno messo dentro diverse casse. Per fortuna non lo hanno chiuso – forse dovevano prendere qualcos’altro da mettere dentro. Ho approfittato che non fosse sorvegliato e ti ho trascinato fuori. Ti ho portato qui, dentro la dispensa della nave, piena di cibo. Ho riempito lo zaino con un po’ di tutto ciò che ci circonda e molta acqua. Ho anche trovato e riempito quest’altro zainetto così non ci sarà più bisogno di fare i turni perché ne porteremo uno ciascuno” passarono altri minuti ma io non riuscivo ad aprire gli occhi e a sedermi. “Hai i battiti molto irregolari. Stai male. Non so cosa fare … Veramente lo saprei ma preferirei evitare … Se faccio così ti faccio male?”; passò un istante e sentii un tremendo bruciore alla guancia ma non riuscivo a parlare. “ Mi senti?! Ei ! Fràncesco?!” – era evidentemente terrorizzato. “Va bene ! Ma lo faccio solo questa volta … Che schifo!”. Mi sentii aprire la bocca con forza, tappare il naso e poi … Le labbra si inumidirono schifosamente ! Che sensazione assurda. Mi soffiava dentro la bocca. Dapprima non successe niente ma pian piano mi sentii meglio. Lui continuava imperterrito, convinto in quello che stava facendo. Poi iniziai ad aprire gli occhi e lo guardai in faccia. Il suo colorito era rosso fuoco e quando vide che si aprirono i miei occhi si allontanò e iniziò a sputare per terra. “Che schifo” bisbigliava e io quando riuscii a mettermi seduto lo imitai. Mi prese per il braccio e mi portò in una stanza. Era un bagno, sapevo che lì mi potevo dare una rinfrescata e sciacquare la bocca. Dopo aver finito ritornai nella dispensa e lui mi seguii. Mangiammo e bevemmo. Non svuotavamo gli zaini ma prendevamo quello che avevamo intorno. Dietro di noi c’erano diverse bottiglie di acqua.
Dopo esserci saziati nascondemmo le scatolette e le bottiglie vuote sotto le patate. Doveva essere notte perché entrambi ( anche io che ero stato molte ore con gli occhi chiusi) eravamo molto stanchi. “ Dormiamo dentro quello scatolone vuoto” – disse indicando un grosso pacco di cartone – “ lì c’è il nastro adesivo. Prendilo! Io metto dentro sia i due zaini che qualche bottiglia e scatoletta di carne che mangeremo domani a colazione”. Feci quello che mi disse. Entrammo nello scatolone con tutte le nostre cose. Prese lo zaino che aveva dentro il coltello e iniziò a fare diversi buchi sulle pareti dello scatolone. Poi mi tolse quello che aveva chiamato nastro adesivo dalle mani. Chiuse lo scatolo ma grazie ai buchi che aveva fatto non eravamo completamente al buio. Prese il nastro e ci sigillò dentro, poi, dopo avermi fatto un cenno con la mano, si mise a dormire.
Un po’ di ore dopo ci risvegliammo. Senza dire una parola, con il coltellino aprì lo scatolone nel quale avevamo dormito. Guardò fuori e poi, avendo constatato che non c’era nessuno nei paraggi, uscì. Io non mi mossi prima di vederlo uscire. Poi mi alzai e lo seguii. Iniziai a fare colazione con le scorte che avevamo lasciato fuori dagli zaini. Poco dopo ritornò lui che, senza degnarmi di uno sguardo, fece lo stesso. Dopo aver mangiato uscii dalla scatola: avevo bisogno di sgranchirmi le gambe. Mi fermai pochi passi più in là a guardare attraverso una grata arrugginita .

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