Holding on and letting go

di ranyare
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lost cause ***
Capitolo 2: *** Kiss the rain ***
Capitolo 3: *** Broken. ***
Capitolo 4: *** Let it go. ***



Capitolo 1
*** Lost cause ***


base capitoli HOLG

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[Ray]

Londra in estate è una delle cose più irritanti di questo mondo.

Non che io non adori questa città in ogni singolo giorno dell'anno, ma... insomma, è proprio necessario che sia tutto sempre così umido!?

D'accordo, va bene, non c'è caldo e questo è un essenziale punto a favore, ma... dannazione, non c'è un giorno in cui non piova o, peggio ancora, in cui non ci sia questa dannata umidità che ti infradicia i vestiti e ti si appiccica alla pelle, rendendo difficoltoso persino il respiro.

Sospiro, riemergendo dalla mia enorme borsa con in pugno – dopo almeno cinque minuti di forsennata ricerca – le chiavi di casa. Lancio un'occhiata al vialetto laterale e vedo l'auto di Ben parcheggiata al solito posto, accanto alla moto che, dato che oggi sembrava essere una bella giornata, avevo deciso di non utilizzare, preferendo andare al corso in metropolitana... e, ovviamente, la bella giornata è diventata una giornata di pioggerelline e continue schiarite, col risultato di rendere ancora più difficoltosa la mia traversata della città e intasata di persone la metro.

Le lezioni che sto seguendo sono interessanti e meritano lo sforzo, è vero, ma le trecento ore di corso che devo seguire su tutto ciò che un bobby – un rinomato membro della Metropolitan Police Service, meglio conosciuta come Scotland Yard – dovrebbe sapere stanno diventando eterne.

Mi infilo in casa con un gemito di sollievo: l'aria condizionata e deumidificata mi accoglie in una bolla dove, finalmente, riesco a riempirmi i polmoni senza l'impressione di star respirando attraverso una spugna bagnata.

-Ben? Sei a casa?- chiamo, abbandonando disordinatamente la borsa, la felpa madida di pioggia e le scarpe nell'ingresso.

-Sì.-

Qualcosa non va.

Vivendo al suo fianco tanto a lungo ho imparato a riconoscere ogni singola sfumatura della voce di Ben, ogni inflessione del suo accento ricercato, ogni traccia di turbamento nelle sue parole... e, in quel “”, c'era una tensione tale da far irrigidire ogni singolo muscolo del mio corpo, improvvisamente pronto a scattare o, per quanto ne so, a ricevere un colpo.

Ben appare sulla soglia del salotto e, nel suo volto, riesco a riconoscere il medesimo nervosismo che ho ravvisato nella sua risposta.

-Abbiamo un ospite.- mi annuncia, rivolgendomi uno strano sguardo dispiaciuto che non riesco proprio a comprendere. Chi mai potrebbe essere venuto a casa nostra per ridurre Ben in questo stato?

-Chi...- comincio, avvicinandomi a lui per sbirciare oltre la sua spalla; ma, per appena un istante, Ben mi trattiene contro di sé, quasi come se volesse impedirmi di capire, di vedere – per proteggermi, realizzo, nello stesso attimo in cui il volto di una persona che non ho mai potuto dimenticare si presenta davanti a me.

Mi sembra che il tempo rallenti e si fermi in questo preciso momento, nel secondo stesso in cui i miei occhi incrociano quelli dell'uomo di mezz'età rigidamente seduto sul divano.

Tutto si blocca come per un qualche sadico gioco di magia, congelandosi in quella faccia, in quella persona, nelle rughe di preoccupazione che gli solcano la fronte e le guance.

-Papà.-

Questa parola sembra così sbagliata, sulle mie labbra... la sento stridere fra i denti, sulla lingua, e ne avverto il saporaccio metallico – lo stesso sapore che ha il sangue.

-Ciao, Ray.- anche il mio nome sembra strano, detto da lui. Non lo sentivo da almeno quattro anni.

Mio padre si alza e, stranamente, mi sembra meno alto e imponente di quanto fossi in grado di ricordare, ma forse sono io ad essere cresciuta. Ho ereditato da lui la mia altezza fuori dalla media femminile, la forma degli occhi, il colore dei capelli... eppure, nonostante le somiglianze fra noi, lui mi sembra talmente alieno – qui, in casa mia, nel mio salotto, sul mio divano – da stridere con tutto ciò che lo circonda – da stridere con me.

-Sei__- comincia, incerto, ma io scosto bruscamente Ben e faccio un passo avanti, senza nemmeno accorgermi delle sue dita che mi sfiorano le braccia e poi scivolano via, rinunciando anche soltanto all'idea di trattenermi.

-Viva.- lo interrompo, avvertendo il familiare brivido freddo che preannuncia un'incazzatura spettacolare scorrermi dal collo alla base della schiena. -E non certo per merito tuo.- aggiungo, cercando di mantenermi calma e controllata nonostante io senta le mani tremare dalla rabbia.

Todd Cooper si passa una mano fra gli ormai radi capelli bianchi, a disagio.

-Ray, sono qui per__-

-Non mi interessa.- sbotto, piantando le unghie nei palmi delle mani per tentare di arginare il gelo che mi sta riempiendo l'anima, annegandomi in un mare di ricordi che speravo di aver represso abbastanza in fondo perché non tornassero più a tormentarmi.

-Lascia che__-

Qualcosa si spezza nello stesso attimo in cui vedo la supplica nei suoi occhi.

-Non voglio ascoltarti.- il tocco di Ben – freddo al confronto con la mia pelle che scotta, ma bollente rispetto al ghiaccio che mi sta divorando dentro – mi fa capire di aver rivolto a mio padre qualcosa che assomiglia più ad un ringhio che ad un tono normale. -Puoi anche andartene, perché non ho nemmeno nulla da dirti.-

Tutto ciò che avrei potuto dirgli è morto, dentro di me, troppi anni fa.

-Ray...- mormora, ma non capisce che continuare a dire il mio nome non fa altro che farmi infuriare sempre di più: quale diritto ha, lui, di parlarmi, di guardarmi, di chiamarmi con quel nome che speravo avesse dimenticato!? -...mi dispiace.-

Ben mi serra la mano sulla spalla nel momento stesso in cui sento gli argini in cui stavo cercando di trattenere la mia rabbia, il mio dolore, spaccarsi.

-Ti dispiace?- sibilo, liberandomi bruscamente dal tocco di Ben e avanzando verso mio padre fino a trovarmi ad un soffio da lui; è ancora più alto di me, di almeno una spanna, ma non mi intimorisce più – ha smesso di intimorirmi da molto, molto tempo. -A te dispiace, papà?-

-Avrei dovuto cercarti molto tempo fa, solo che__-

Non ci vedo più.

-Tu saresti dovuto venire a prendermi quando lei mi ha cacciata via!- mi rendo conto di aver urlato solo quando lo vedo tremare sotto il peso delle mie parole.

Sarebbe dovuto venire a prendermi. Avrebbe dovuto proteggermi.

-Saresti dovuto venire quella sera e invece no, tu sei rimasto là, tu mi hai lasciata sola e ora vieni qui con la faccia tosta di volermi porgere le tue scuse?-

Avrebbe dovuto salvarmi. Avrebbe dovuto.

-Ra__-

-Io ti ho aspettato, quella sera. Ti ho aspettato per tutta la notte, seduta su quella pensilina, mentre sentivo l'umidità arrivarmi fino alle ossa.- per la prima volta nella mia vita desidero ardentemente fare del male a qualcuno – a lui. Gli punto l'indice contro il petto, stringendo le labbra e assottigliando le palpebre. -Io speravo che tu mi proteggessi, papà, che risolvessi le cose. E invece non sei venuto.-

Invece mi ha abbandonata.

-Quando ho visto l'alba, dopo tutte quelle ore, ho capito che non saresti arrivato. E mi sono arrangiata.-

Invece mi ha lasciata sola.

La rabbia scema nello stesso momento in cui la sua espressione sembra spaccarsi a metà, ridursi in briciole: nonostante tutto, nonostante io sappia che lui merita tutto questo, continua a non piacermi fare del male. Non a qualcuno a cui ho voluto bene. -Ora, per favore, vattene.- sospiro, lasciando cadere il braccio lungo il fianco e voltandomi – perché non posso più sopportare di guardarlo, di vedere il mio passato scritto in quello sguardo pieno di senso di colpa.

-Non vuoi nemmeno sapere perché sono venuto qui?- mi chiede, ma quando lo sento fare un passo verso di me mi ritraggo come se avessi ricevuto uno schiaffo.

-A meno che non riguardi mia sorella, no.-

Posso quasi vedere Ben trasalire: lui non sapeva che io avessi una sorella. Anzi, a dir la verità lui non sapeva nemmeno che io avessi ancora un padre... -Shirley sta bene?- chiedo, stancamente, allontanandomi ancora e accostandomi alla finestra: ha ricominciato a piovere.

-Sì.- quella risposta è tutto ciò che mi basta per sentire la morsa rilasciare un poco la sua presa sul mio cuore.

-Bene. Fuori.-

Questa volta, per fortuna, mio padre mi dà retta e se ne va, lasciandomi sola con Ben e con dei demoni che credevo di aver seppellito dentro di me.

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[Ben]

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Il silenzio cala come una cappa di fumo nello stesso momento in cui la porta si richiude dietro la figura piegata dal dolore di Todd Cooper.

Non so come sentirmi nei confronti di quell'uomo: vedere una persona in quel modo non è un bello spettacolo, e scorgere il tormento che lo ha dilaniato ogni volta che ha guardato sua figlia in faccia mi renderebbe molto più partecipe e solidale nei suoi confronti – se solo sua figlia non fosse Ray.

Ray è una delle persone più pazienti che abbia mai conosciuto, nonostante il suo carattere focoso. È raro che alzi la voce, che si arrabbi tanto da tremare, che esploda così come ha fatto pochi istanti fa: è questo, più delle parole piene di sofferenza che ha sputato in faccia a suo padre, a confondermi e a trattenere la compassione che, se non fosse coinvolta lei, proverei di certo per il signor Cooper.

Torno in salotto in tempo per vederla accucciarsi, come un animale braccato, nel suo angolo preferito del divano: stringe le braccia intorno alle ginocchia e fissa il nulla davanti a lei con gli occhi spalancati, vitrei.

-Non ho fatto in tempo ad avvertirti.- mormoro, col cuore pieno d'angoscia nel riconoscere quell'atteggiamento che ho già visto, in lei – che avevo sperato, dopo la lunga convalescenza che ha attraversato dopo l'incidente d'auto, di non rivedere mai più sul volto della donna che amo.

-Non è colpa tua.- mormora, talmente piano che debbo avvicinarmi a lei per sentire le sue flebili parole.

Mi spaventa questa sua voce sottile, vacua. Ray non permetterebbe mai alla creaturina lacerata e traumatizzata che ho davanti agli occhi di prendere il sopravvento sul suo carattere energico, sulla sua intensa voglia di vivere – non vorrebbe che la ragazzina spezzata che è stata riaffiorasse in questo modo, sfuggendo alle maglie del suo autocontrollo.

-Non è stato un bello spettacolo, vero?- mi chiede quando mi siedo accanto a lei senza, però, sfiorarla, rispettando il suo bisogno di spazio.

-Direi che “illuminante” sia il termine adatto.- la correggo, e lei annuisce in risposta, debolmente.

La conosco abbastanza bene da sapere che cos'è che il suo sguardo vuoto mi sta silenziosamente chiedendo: se la lasciassi in pace, se non insistessi per sapere che cosa è successo fra lei, suo padre e probabilmente la sua intera famiglia, Ray si chiuderebbe in se stessa e lascerebbe che il tormento la divorasse da dentro, strappandole ogni oncia di serenità fino a lasciare, di lei, solamente un guscio vuoto.

Vuole parlare, io lo so... ma so anche che ogni fibra del suo autocontrollo sta lottando, adesso, per tornare a schiacciare i ricordi ed il passato sul fondo di quel pozzo infinito che è la sua anima, complessa e splendente in tutti i suoi rattoppi, le sue cuciture, i suoi rammendi.

-Ray, io ti ho raccontato molte cose sul mio passato. Ti ho raccontato di Tamsin, ti ho raccontato della scuola, dei miei genitori, del college.- comincio, con tutta la delicatezza e il savoir faire di cui sono in possesso: so che, se esagerassi appena un poco di più, Ray si rifugerebbe in se stessa, spaventata anche solo dal pensiero di aprirsi. -Tu, invece, sembri essere nata nel momento in cui ti ho incontrata in quel locale.- aggiungo, dolcemente, allungando con cautela una mano per sfiorarle un ricciolo che, dispettoso, è sfuggito alla coda disordinata in cui raccoglie i capelli d'estate.

-Non volevo raccontarti nulla del mio passato.- mugugna, allungandosi un poco per cercare il tocco delle mie dita, socchiudendo gli occhi quando le accarezzo una tempia. -Non fa più parte di me da molto tempo.-

-Permettimi di dissentire.- scuoto la testa, inarcando un sopracciglio in risposta alla sua espressione perplessa. -Vedere tuo padre ti ha ridotta in briciole.-

La bellezza del rapporto che Ray ed io abbiamo costruito, negli anni, permette ad entrambi di essere sinceri e diretti come, credo, non siamo mai stati nei confronti di nessun altro: è una sensazione incredibilmente rassicurante quella che trasmette la consapevolezza che, nella tua vita, esiste una persona davanti a cui non devi fingere mai nulla, con cui puoi essere semplicemente te stesso, con cui non devi soppesare le parole per timore di essere frainteso.

-Già.- sbuffa, roteando gli occhi verso il soffitto prima che, con uno di quei movimenti fluidi ma repentini che ho imparato ad aspettarmi, si sciolga dalla rigida posizione in cui si era raccolta per accostarsi a me, rifugiandosi fra le mie braccia.

Il sollievo che provo nel poterla stringere finalmente a me dev'essere pari solo a quello che, a giudicare dal profondo respiro che la sento prendere, a pieni polmoni, sta probabilmente provando anche la mia Ray, che si rilassa fra le mie braccia mentre King, che era fuggito a nascondersi sotto il letto – non apprezza gli ospiti, proprio come la sua mamma umana –, ci raggiunge e salta sul divano, appoggiando la testolina bionda sulla coscia di Ray fino a che lei non si allunga per grattarlo dietro un orecchio.

-Presumo di doverti una spiegazione.- mugugna lei, dopo un po', sfregando il viso sulla mia maglietta. Scuoto la testa, chinandomi per baciarla sulla fronte.

-Tu non mi devi né mi dovrai mai nulla, Ray.-

___

-Fuori da casa mia!-

La voce di mia madre è piena d’odio, di rabbia, di rancore. Per l’ennesima volta provo a ricordarmi che non è lei che parla, è la sua malattia, è il dolore che la attanaglia, ma… non ci riesco più.

Il veleno nelle sue parole mi penetra le orecchie ed il cervello, trafiggendomi e piantandosi lì, da dove non credo riuscirò più ad estrarlo.

-Non la voglio una puttana in casa mia!-

Non so bene dove la vedi la puttana in me, mamma, ma non fa niente. Ho smesso di cercare una spiegazione ai tuoi insulti senza senso, al tuo odio senza ragione, alla tua rabbia immotivata.

Tu, papà, non dici niente.

Ti limiti a tenerla indietro per evitare che si scagli su di me o, più probabilmente, si faccia del male da sola nel tentativo di picchiare me. Sento mia sorella piangere, al piano di sopra, e mi strazia il cuore il pensiero di doverla lasciare qui…

-Fuori! Prendi le tue stronzate e vattene da qui!-

Mia madre mi tira addosso libri, vestiti, scarpe. Con le lacrime che mi rigano le guance, costringendomi però a rimanere in silenzio, ficco tutto il possibile in uno zaino, ripromettendomi di venire a prendere il resto non appena lei sarà fuori di casa; in un lampo di lucidità, infatti, ho infilato anche le chiavi della porta sul retro sotto tutto il resto, e lei non se n'è accorta.

-Non voglio più vederti!-

per la prima volta da tanto tempo, mamma, sono d’accordo con te.

Eppure vorrei non andarmene, vorrei restare e prenderti a calci perché davvero non se ne può più di te, del tuo odio che riversi sull’unica persona che non è più disposta ad essere il tuo scorticatoio morale e che, per questo, nella tua distorta visione del mondo va allontanata e cancellata al più presto per riportare la tua supremazia al predominio incontrastato.

Vorrei restare, vorrei lottare per la bambina che ho cresciuto come se fosse mia mentre tu facevi carriera e, dopo, mentre ti lasciavi sprofondare nella malattia che covi dentro da chissà quanto tempo, ma ho solamente sedici anni e non posso portarla via con me. Non esiste legge che me lo permetterebbe.

Vorrei almeno riuscire a dirle addio, ad abbracciarla un’ultima volta.

Ma tu non me lo permetti. Mi spingi fuori di casa con veemenza, ignorando le urla di quel padre che solamente ora sta cercando di rimediare ad un danno che non può più essere aggiustato, ed io cado per terra, scorticandomi le ginocchia ed i palmi delle mani.

Vorrei restare, mamma, ma non posso farlo.

Se tu ci fossi ancora, là dentro, da qualche parte in quel cancro di rabbia e di sofferenza che ti è cresciuto nell’anima e ti ha divorata, rimarrei. Lotterei per avere indietro la mia mamma, fino all’ultimo.

Ma tu non ci sei più, mi dico, mentre mi rialzo e mi allontano lungo il vialetto di quella che non è più casa mia.

Non ci sei più.

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-Mia madre era malata.-

Rimango in silenzio, cercando d'impedire che il mio intero corpo s'irrigidisca per la tensione che sento scuotermi dentro mentre Ray continua a raccontare, incapace di fermarsi, incapace di trattenere i ricordi che, come il contenuto del vaso di Pandora, una volta liberi d'imperversare sembrano impossibili da rinchiudere una seconda volta.

-Ha cominciato a soffrire di depressione quando aveva appena otto anni ed aveva appena iniziato un ciclo di chemioterapia...- sospira, e sento la sua voce incrinarsi e riempirsi di malinconia e di una densa, pesante ironia che probabilmente, una volta, è stata rancore. -...certo, questo non significa che avesse il diritto di ridurre anche me e mia sorella in quello stato.-

-Quanti anni ha?- le domando, accarezzando lentamente la pelle morbida del suo braccio. -Shirley.- preciso, in risposta alla sua espressione confusa; lei sorride, mesta, abbassando lo sguardo.

-Ne farà quindici il mese prossimo.-

La tenerezza che vedo lampeggiare nello sguardo di Ray mi stringe il cuore: non mi ha mai parlato di sua sorella, non mi ha mai nemmeno detto di avere una sorella, ma la dolcezza e l'affetto che traspare dalle sue parole e dai suoi gesti quando si riferisce a lei sono quasi palpabili.

Chissà quanto le manca.

Sono molto affezionato a mio fratello Jack: siamo cresciuti insieme e non saprei immaginare la mia vita senza di lui... non voglio nemmeno provare ad immaginare la sofferenza che Ray ha provato, e probabilmente prova tuttora, nell'essere tanto lontana dalla sua sorellina.

-Le scrivo tutte le settimane e lei mi risponde dopo appena un'ora al massimo, mi scrive delle mail lunghissime per raccontarmi tutto quello che le succede e tutti i pensieri che le girano in testa...- sorride lievemente e tira su col naso, stringendosi ancor di più a me. -Aveva undici anni quando mia madre mi ha cacciata.- aggiunge, cupa, abbassando lo sguardo.

Istintivamente la stringo ancora più forte, perché i pezzi in cui si sta riducendo nel parlare di tutto questo hanno bisogno di essere tenuti insieme – e lo sa anche lei, perché si arrotola contro il mio petto e appoggia la fronte nell'incavo della mia spalla, respirando diverse volte per recuperare l'autocontrollo.

-Perché lo ha fatto?- le chiedo, infine, quando sento il suo corpo rilassarsi un poco.

-Ufficialmente, perché volevo uscire con un ragazzo.- risponde, con uno sbuffo che vorrebbe essere divertito ma che, ai miei occhi, appare soltanto infinitamente triste. -Avevo sedici anni e un ragazzo mi aveva invitata ad uscire con lui, era un ragazzo gentile e molto timido, voleva solo offrirmi un cinema e una pizza...- si rannicchia un po' di più, nascondendo il viso fra le ginocchia e lasciando che solo la sua arruffata massa di riccioli biondi e i suoi occhi blu spuntino da sopra le sue braccia incrociate. -Non riesco nemmeno più ad odiarla, ora. Se ripenso a come si era ridotta provo solo una gran pena...-

Annuisco, capendo il significato delle sue parole: i miei genitori mi hanno insegnato a non odiare nessuno, per quanto male gli altri possano fare, perché nove volte su dieci il dolore che infliggono non è che una minima parte di ciò che hanno subito loro... tuttavia, nonostante questa mia convinzione, so che per Ray dev'essere stato difficile lasciar andare il livore che ha sicuramente provato nei confronti di sua madre.

-Invece sei ancora arrabbiata con tuo padre.-

-Oh, sì.- annuisce, e la rabbia lampeggia nuovamente fra le sue parole e nei suoi occhi. -Lui è un vigliacco.-

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-Papà?-

La mia voce trema mentre serro le dita sulla cornetta del telefono pubblico – incredibile eppure vero, esistono ancora i telefoni pubblici –, spaventata all'idea che non sia mio padre ad aver risposto al telefono o, ancora peggio, che sia lui ma che non abbia intenzione di parlare con me.

-Ray!- il sollievo che mi riempie quando sento l'esclamazione rasserenata di mio padre è enorme. -Stai bene? Dove sei?-

-Sono... alla fermata degli autobus. Papà...-

Non devo piangere, non devo piangere, non devo piangere. No, no, no, respira, prendi fiato, calmati e stai tranquilla: andrà tutto bene. Papà sistemerà le cose, ha sempre sistemato le cose, vedrai che andrà tutto bene... non piangere, Ray.

-...papà, vieni a prendermi.-

-Arrivo appena posso.-

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-E non è mai arrivato?- le chiedo, ma conosco già la risposta.

-Mai.-

Come può, un padre, fare una cosa del genere ad una figlia?

Non sono un illuso, so che sono fin troppe le cronache di padri violenti che abusano delle figlie, di genitori senza un briciolo di moralità che le sfruttano, le maltrattano e, purtroppo, le uccidono... ma ciò che mi sta raccontando Ray è comunque inconcepibile, perché sono cresciuto in una famiglia in cui tutti mi hanno sempre amato e incoraggiato a diventare la persona migliore che io potessi essere: per me è difficile, se non quasi impossibile, pensare a come dev'essere stato essere seduti là, alla fermata di un autobus, aspettando un padre che non era mai arrivato.

-Passai la notte all'addiaccio. Era primavera, ma di notte faceva ancora molto freddo... a volte mi sento ancora quel gelo dentro.- continua, e rabbrividisce nonostante l'afa estiva che permea l'aria – ecco perché odia così tanto sentirsi l'umidità addosso, realizzo.

-Al mattino, quando riuscii a smettere di piangere, presi il primo autobus e andai da mia nonna. Le spiegai che cosa era successo e lei mi disse che dovevo andare via, che dovevo scappare ora che ne avevo la possibilità. Io però non volevo lasciare Shirley in balia di mia madre...- la voce di Ray scema e muore nello stesso momento in cui i suoi pugni si serrano.

-Così chiamai i servizi sociali.-

Il tono incolore con cui pronuncia queste poche parole mi fa accapponare la pelle.

Dev'essere stato orrendo, per Ray, affrontare la consapevolezza di aver strappato sua sorella ai genitori, di aver sicuramente ferito quel padre e quella madre che, in fondo, aveva amato, di aver probabilmente traumatizzato quella bambina che stava solo cercando di proteggere...

-Portarono via mia sorella due giorni dopo che io avevo lasciato quella casa.- prosegue, animata da un'urgenza febbrile che posso spiegarmi solo con un bruciante desiderio di buttare fuori tutto, di liberarsi di quel fardello che ha portato nascosto dentro di sé per tanti anni – sa che nulla di ciò che mi sta dicendo mi farà mai cambiare opinione su di lei, ma sbaglia: la stima che provo nei suoi confronti è appena aumentata considerevolmente.

A sedici anni Ray ha compiuto una scelta difficile e drammatica, che la maggior parte degli adulti prega, in segreto, di non dover mai affrontare... ed è stata l'unica scelta possibile per assicurare a sua sorella Shirley un futuro sereno.

-La affidarono alla nonna, diffidando mia madre dall'avvicinarsi... io però non potevo restare lì.- ammette, ed un sorriso triste le si disegna in volto. -Io non ero sotto la tutela di nessuno, non__-

-Perché?- la interrompo, perplesso, ma qualcosa mi dice che potrei già conoscere anche questa risposta. -Perché non hai chiesto il loro aiuto?-

Ray mi rivolge quella che vorrebbe essere una smorfia divertita ma che, purtroppo, assomiglia molto di più all'espressione perennemente contratta ed angosciata di un veterano di guerra... ed un veterano lei lo è davvero, realizzo, perché la battaglia che ha combattuto – contro sua madre, contro se stessa – le ha lasciato dentro molte più cicatrici di quante se ne possano contare.

-Volevo andare via.- afferma, semplicemente, e c'è talmente tanta tristezza in quelle sillabe che anche King, che è rimasto silenzioso e fermo fino ad ora, si rianima per avvicinarsi a noi, sfregando la testa contro il fianco di Ray per confortarla, per trasmetterle tutto l'amore che prova nei suoi confronti.

-Amavo mia madre, nonostante tutto. Sapevo che non sarei stata in grado di stare lontana da lei se fossi rimasta in città, sapevo che sarebbe tornato tutto come prima... ma avevo fatto un passo troppo grande nel toglierle mia sorella e sapevo che mi avrebbe solamente odiata e, probabilmente, fatto anche del male.-

La calma con cui Ray pronuncia queste frasi è agghiacciante.

Mi accorgo di averla quasi soffocata nella mia stretta quando lei, comprensiva, mi accarezza il dorso di una mano e intreccia le dita alle mie, che si sono serrate sulla sua spalla con tanta forza da far sbiancare le nocche.

Non riesco ad affrontare l'idea che qualcuno – sua madre! possa aver desiderato di farle del male. Non posso, è più forte di me: soltanto il pensiero mi manda il sangue agli occhi, mi offusca la vista, e la rabbia mi allaga i pensieri annebbiando il mio giudizio.

Ray, che di sicuro ha capito cosa mi stia passando per la testa, scuote i riccioli e si sporge per lasciarmi un soffice bacio sul mento irruvidito dalla barba.

-Mia nonna, quando avevo dieci anni, mi regalò un corso di scherma per principianti... io ne feci una passione e, più tardi, un vero e proprio talento.- continua, sapendo che solo la sua voce ed il suo racconto potranno distogliermi dall'orrida consapevolezza che la sua stessa madre, la donna che avrebbe dovuto amarla e proteggerla da ogni bruttura, abbia desiderato di ferirla e di vendicarsi per un affronto che, in realtà, non è mai esistito. -Il mio insegnante era un amico di nonna e lei mi riferì che di lì a qualche mese ci sarebbe stato un concorso per un posto di apprendista a New York in una palestra in cui insegnano tuttora la scherma e le arti marziali agli attori famosi.-

Ray riesce nel suo intento di distrarmi, me ne accorgo nello stesso momento in cui ricollego i fatti di cui mi sta parlando e quelli di cui, invece, ero già a conoscenza: Ray ha conosciuto Will proprio durante l'allenamento del suddetto biondo a New York, nella pausa fra i due film di Narnia...

-Era l'unica possibilità che avevo.- ammette, ed una luce conosciuta rianima quegli occhi blu che tanto adoro.

-Mia nonna mi diede tutto quello che aveva e mi raccomandò di stare attenta. Abbracciai mia sorella e presi il primo autobus per New York.-

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My space

Salve a tutti!

L'avevo detto o no che sarei tornata su questa coppia e su questa storia? Ed eccomi qui, con una mini-long che durerà 4 capitoli contati (che sono già scritti, quindi non temete, gli aggiornamenti saranno regolari e sicuri!) e che, finalmente, mostrerà ai lettori e al povero Ben quello che Ray ha attraversato prima, in America, quando ha conosciuto William.

In questo primo capitolo possiamo vedere una sedicenne Ray molto diversa da quella che abbiamo conosciuto nelle precedenti storie che ho scritto su di lei: a sedici anni si è turbolenti, inquieti e si ha la testa calda, ed è così che lei si comporta: scappa da una situazione familiare molto difficile e si butta in un'avventura assurda e senza garanzie di successo, fuggendo da una vita che non le appartiene per poter cercare un posto dove imparare ad essere libera. Chi non l'ha desiderato, a sedici anni, di fuggire? Vi confesso che io ci penso anche adesso, a volte.

Spero che questo progetto vi entusiasmi come ha entusiasmato, emozionato e fatto soffrire anche me. Devo dire che tengo molto a questi quattro capitoli, e il finale sarà una gradita sorpresa un po' per tutti, spero :)

Questa storia è ambientata nel 2010, mentre Ben stava per cominciare a lavorare per Killing Bono. Ho fatto una faticaccia immane per far quadrare i conti temporali, sappiatelo. Ed è tutta colpa di Ben che non sta mai buono.

Mi sono presa una piccola licenza poetica: William Moseley non ha seguito i corsi di scherma (e di recitazione) a New York ma a Los Angeles, dove attualmente risiede. I bobby sono i poliziotti inglesi e le informazioni che ho citato nel capitolo, relative alle modalità di entrata in questo corpo di polizia, sono state prese da Google. Il titolo e la citazione presente nell'introduzione della storia vengono dalla canzone Holding on and letting go di Ross Copperman., mentre il titolo del capitolo è quello dell'omonima canzone degli Imagine Dragons, Lost cause.

Questa è la tabella degli aggiornamenti: sarò puntualissima, promesso.

NB: per chi segue "Leggi per me", ho avuto qualche problema con il capitolo VI ma, promesso, arriverà in tempi brevi anche quello!

CAPITOLO DATA
I. Lost Cause 01/04/2015
II. Kiss the rain 11/04/2015
III. Broken 23/04/2015
IV. Let it go 05/05/2015

E niente, ho finito di sproloquiare! Spero vogliate farmi sapere che cosa ne pensate :)

Un grandissimo saluto,

B

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Capitolo 2
*** Kiss the rain ***


base capitoli HOLG

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[Ben]

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Dopo due coppette di gelato alla nocciola, che ho provvidenzialmente recuperato dal freezer nel momento stesso in cui ho sentito la sua voce tremare, Ray mi sembra abbastanza tranquilla da continuare il suo racconto.

-Passai un mese in periferia, facendo da babysitter per qualche famiglia benestante o la lavapiatti a chiamata.- mi spiega, dopo avermi descritto per filo e per segno l'aspetto trasandato, eppure affascinante, dei sobborghi di New York in cui ha vissuto da ragazzina. -Stavo in una stanzetta che mi aveva affittato una vecchia arpia ricca sfondata che possedeva tipo mezzo isolato... era una vera catapecchia, non c'era il riscaldamento e nemmeno l'acqua calda, però costava poco e io ero arrivata lì con soli cinquecento dollari in tasca.-

Scuoto la testa, incredulo. Per me, che non ho mai patito né il caldo né il freddo e che sono cresciuto in un ambiente tutto sommato benestante, quel che mi sta raccontando è quasi alieno. -Dev'essere stata dura.- commento, mentre gli occhi imploranti di King hanno la meglio sul mio buonsenso e mi spingono a concedergli la tazzina di plastica, ancora sporca di gelato, da ripulire; quello, tutto felice, la afferra fra i denti e corre via, con la coda bionda che sventola come una bandiera.

-Non quanto può sembrare.- mi contraddice Ray, posando vaschetta e cucchiaio sul tavolino di fronte a noi e stirando le lunghe gambe sul divano, prima di lasciarsi sprofondare fra i cuscini e appoggiare la testa sulle mie gambe. -La cosa peggiore era essere sempre da sola.- ammette, guardandomi da sotto in su prima di distogliere lo sguardo, pensierosa. -Avevo così tanta rabbia dentro... ero arrabbiata con mio padre, con mia madre, con il mondo intero. Ero sempre stata una brava bambina, una brava ragazza, non mi ero mai ubriacata né ero mai andata a letto con nessuno, non uscivo nemmeno alla sera e non andavo quasi mai in discoteca... avevo persino dei buoni voti a scuola.-

Le accarezzo una spalla, intrecciando le dita dell'altra mano ad una ciocca dei suoi capelli sempre disordinati. C'è così tanta frustrazione, nelle sue parole, che quasi posso sfiorarla, avvertire quel magone di rabbia e di rancore annodarsi appena sotto il velo della pelle di Ray: queste sono ferite che bruciano ancora, che non si sono mai davvero rimarginate...

-Mi faceva così arrabbiare quella situazione... e stavo male, e mi sentivo sola, e tutto questo si accumulava sempre di più.- sospira, voltandosi su un fianco ed abbracciandomi in vita, stringendomi con una forza che deve assomigliare molto a quella con cui, tanti anni fa, stringeva il suo cuscino, là, nella sua stanzetta in periferia. -Quando vinsi la selezione per diventare l'apprendista di Jetta Flores quasi spaccai un braccio al mio avversario, in finale.- ammette, e dall'alto scorgo i suoi zigomi imporporarsi per l'imbarazzo.

-Fu allora che conoscesti Will?- le chiedo, mio malgrado estremamente curioso di sapere, finalmente, come si sono conosciuti i due biondi della mia vita.

-Esatto.-

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-Un ragazzino, Jetta!?- sbotto, incredula, quando la mia datrice di lavoro mi spiega quale sarà il primo povero squinternato che avrà la sfortuna di allenarsi con me.

-Non è un ragazzino, ha diversi anni in più di te.- mi corregge Jetta, divertita, mostrandomi le foto del ragazzo che, dopo un istante, riconosco come il protagonista di uno dei miei film preferiti, “Le Cronache di Narnia”.

ma stiamo scherzando!?

-Ma sembra un ragazzino! Sembra un bambolotto, o il fidanzato di Barbie!- protesto, inseguendo Jetta quando lei, sorda alla mia isteria, si avvia lungo il corridoio che porta alla palestra dove ci alleniamo tutti i giorni. -Cosa dovrebbe imparare, il balletto?- domando, sarcastica, ricordando la faccia innocente e un po' stolida di Peter Pevensie – ma ha davvero più anni di me? Sembra un bambino!

-No. Vuole perfezionare la scherma per un film in cui dovrà recitare.-

Jetta è una santa: ancora non ha capito che, in questi casi, rispondermi equivale a darmi il tacito consenso per continuare a blaterare.

-Quindi lo avremo fra i piedi per chissà quanto tempo. Fantastico.- mugugno, afferrando la spada che uso sempre dalla rastrelliera e provando due affondi senza impegno, per riscaldarmi i muscoli. Quasi subito, però, sono costretta a balzare indietro, schivando per un pelo il fendente rapido e preciso di Jetta.

-Abbassa la cresta, signorinella.- mi avverte, e non posso far altro che ammirare la postura perfetta, tesa ed elegante del suo corpo slanciato, che sembra prolungarsi naturalmente lungo il profilo della spada che stringe in pugno. -Secondo me ti piacerà.- aggiunge, ma io scuoto la testa e mi metto in posizione, sperando di arrivare, un giorno, a possedere almeno una briciola della grazia letale che Jetta emana quando combatte.

-Secondo me, invece, sarà guerra!-

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-E fu guerra?- le chiedo e lei, col viso illuminato dal primo, vero sorriso che scorgo da quando è tornata a casa, annuisce.

-Oh, sì.-
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-Più in alto! William, punta verso le gambe e non tenere le ginocchia rigide!-

Gli ordini secchi di Jetta, per me, appartengono alla bizzarra routine a cui mi sono ormai abituata da quando, tre settimane fa, ho cominciato a lavorare con questa brusca ma geniale spadaccina; ma per William Moseley, il bambolotto semovente che mi sta davanti e che stringe i denti per non darmi la soddisfazione di sentirlo imprecare, i latrati aggressivi di Jetta sono una novità a cui non è di certo facile prendere le misure.

Di persona sembra ancora più giovane di quanto non appaia sugli schermi: ha le guance piene, un taglio di capelli a scodella davvero osceno e le labbra a forma di cuore, proprio come i bambolotti con cui giocavamo sempre io e Sh__

-Ma dove hai imparato a tirare di spada, Ken? Seguendo un corso su Youtube?- sbotto, flettendo le ginocchia e balzando in avanti per prenderlo di sorpresa con un attacco frontale che non si aspettava: il pensiero di mia sorella svanisce nel momento stesso in cui il bacio del metallo stride acuto nelle mie orecchie, assordando il mio udito e i miei ricordi.

Moseley, furente, balza indietro e si rimette in posizione.

-E tu dove hai imparato le buone maniere, in una caverna del Paleolitico?-

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-Avrei dato un polmone per assistere a quegli allenamenti.- ammetto, senza riuscire a trattenere le risate: dev'essere stato uno spettacolo memorabile vedere Will e Ray accapigliarsi come due bambini permalosi – due bambini permalosi e armati, soprattutto.

-Jetta si divertiva quanto te.- ridacchia, Ray, ma negli occhi ha una dolcezza che non scorgo più da molto tempo: quello sguardo colmo d'affetto e di complicità appartiene a William... ma già da diversi mesi lui e Ray, malgrado il rapporto che li unisce, sono stati costretti ad allontanarsi.

So che le manca, so che l'assenza di Will nella sua vita è qualcosa che nessuno può e potrà colmare: si sentono, ogni tanto, ma da quando lei ed Angel hanno interrotto ogni rapporto tutti e due cercano di proteggersi a vicenda, nascondendosi la malinconia che provano nel vivere separati.

-Jetta aveva capito che io e Will eravamo due bombe ad orologeria... e trovarsi davanti una come me fu la cosa migliore che potesse capitargli: ci detestavamo, ma quell'astio lo spinse a migliorare molto in fretta.- mi spiega, ed io annuisco: fin da quando conosco lei e William ho capito che il loro rapporto si basa proprio su quella rivalità antica, che sprona entrambi a dare il meglio di sé pur di poter guardare l'altro dall'alto in basso.

Hanno uno strano modo di volersi bene.

Un brivido attraversa improvvisamente Ray, che serra le dita sul mio fianco e chiude gli occhi, mordendosi nervosamente le labbra mentre le sue guance, già pallide, si fanno ancora più bianche.

-Ehi.- mormoro, sfiorandole uno zigomo con la punta dell'indice.

-Non è niente.- mi rassicura, aprendo faticosamente gli occhi – lucidi – per rivolgermi uno sguardo di scuse. -Solo... è difficile parlarne dopo tanto tempo.- aggiunge, e capisco subito quanto ciò che dev'essere appena riaffiorato fra i suoi ricordi le faccia male.

Mi curvo su di lei per baciarla a fior di labbra, dedicandole il sorriso più caldo e rassicurante che sono in grado di produrre.

-Sono qui.-
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-Occhio, ragazzina!-

La voce aspra del soggetto contro cui sono appena andata a sbattere mi irrita all'istante, ma so di aver torto e quindi ingoio la rispostaccia caustica che mi è istantaneamente salita in punta di lingua – dopotutto, gli sono andata addosso io.

-Scusa! Non volevo, io__- comincio, accorgendomi che lo sconosciuto che ho appena travolto, uscendo di corsa dallo spogliatoio, sta trattenendo il mio braccio contro il suo petto.

Non sono una persona che ama il contatto fisico, a meno che non sia parte di una zuffa. Alzo lo sguardo, pronta a mandare a quel paese questo tizio che non ha nemmeno la buona creanza di accettare le mie scuse e di lasciarmi andare, ma le parole mi muoiono sulle labbra quando mi trovo davanti un giovane uomo che sembra uscito direttamente dall'immaginario collettivo delle adolescenti arrapate di tutto il mondo.

Ha i capelli dello stesso nero intenso e lucido che ho visto solamente nella chioma di Jetta: sono lunghi, sembrano fatti di seta, e sono tenuti insieme da un elastico annodato sulla nuca. Ha dei lineamenti affilati e tanto belli da sembrare finti, la barba di un giorno e due occhi azzurri che potrebbero benissimo essere catalogati come arma di distruzione di massa.

È più alto di me di almeno una spanna, ha le spalle abbastanza larghe ma in generale il suo fisico è asciutto, più slanciato di quello ancora in crescita di Moseley – no, questo è un uomo fatto e finito che sembra essere uscito direttamente da una pubblicità di intimo maschile.

-E tu da quale film sei spuntato!?- esalo, esterrefatta: dev'essere di sicuro un divo del cinema, non può esistere un comune mortale così innaturalmente bello.

Sexyman mi rivolge un'occhiata confusa.

-Scusa?-

-Dai, io ti ho già visto, sembri quasi...- distolgo lo sguardo da questo soggetto altamente disturbante, aggrottando le sopracciglia mentre cerco di ricordare. -Assomigli un sacco ad un personaggio di un libro! Sei affascinante ugua__- mi mordo la lingua, sentendo le guance andare a fuoco quando mi rendo conto dell'epica figura di merda che ho appena fatto.

Il divo di Hollywood inarca un sopracciglio e mi soppesa, divertito, arricciando le labbra in un sorrisetto sardonico.

-Beh, ragazzina, grazie per il complimento, ma mi spiace deluderti. Io sono fatto di carne ed ossa.- mi canzona, stringendo volontariamente il mio braccio contro il suo petto: sotto le dita sento delinearsi le forme di muscoli affusolati, ben proporzionati, e devo fare violenza su me stessa per sottrarre bruscamente la mia mano dalla sua presa ferrea.

-Ah.-

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-Si chiamava Anthony.- mi spiega e, nei suoi lineamenti, affiora una tenerezza del tutto nuova, che curva le sue labbra in un piccolo sorriso malinconico e le riempie gli occhi di dolcezza.

Non mi ha mai parlato di lui, e comprendo quanto sia prezioso questo momento, questa sua decisione di condividere con me un pezzo della sua vita che, per qualche motivo, ha tenuto serbato dentro di sé tanto a lungo.

-Era il nipote di Jetta ed era venuto a trovare la zia durante le vacanze estive.-

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Gli occhi fissi degli spettatori non mi hanno mai dato fastidio, e ho smesso di preoccupami di chi mi guarda mentre faccio qualcosa in cui so di essere brava.

Distendo il braccio sinistro e volteggio su me stessa con una grazia che solitamente non possiedo, parando l'affondo laterale che Jetta sta spiegando a William. Solo quando ha finito di parlare con lui mi azzardo a contrattaccare, lievemente, ed il sorrisetto divertito della mia insegnante è l'assenso che stavo aspettando.

Mi slancio contro William senza preavviso, con tutta la forza che ho – ho imparato a convogliare in questa lama e nelle mie braccia tutta la rabbia che provo, tutta la frustrazione, tutto il dolore: tutto sembra placarsi, in questi momenti, quando il clangore e la furia mi riempiono e mi svuotano allo stesso tempo, donandomi qualche ora di pace dal martirio interiore a cui mi sento sottoposta.

Affondare, parare, scartare e attaccare di nuovo: la scherma medievale non è una danza, come il fioretto, ma un vero e proprio massacro a cui sono sempre felice di sottopormi: non mi spaventano i lividi orrendi che scovo sul mio corpo al mattino, non mi preoccupa lo scontro fisico né il dolore – è tutto così leggero, effimero, in confronto alla dolcezza del bacio dell'adrenalina.

Alla fine dell'allenamento è William, furibondo e stremato, ad abbandonare la palestra per primo. Non m'importa un accidente del suo amor proprio ferito: è qui per imparare, e di certo non si impara niente con le maniere buone. Io lo so bene.

-Ragazzina, da dove la tiri fuori quella furia?-

Faccio un salto incredibile quando la voce di Anthony risuona proprio alle mie spalle e, se avessi ancora in mano la spada, probabilmente il mio primo istinto sarebbe quello di voltarmi e menare un fendente, rovinando per sempre quel bel faccino da divo rompiballe che si ritrova.

-Mi stavi spiando?- sbotto, voltandomi e lanciandogli un'occhiataccia di fuoco che non lo scuote neanche un po'.

-Non avevo niente di meglio da fare.- fa spallucce e io devo fare leva sull'antipatia che mi causa per non ricordarmi di notare quanto sia bello. -Allora? Da quale oscuro baratro dietro quel bel faccino viene tutta quella rabbia?-

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-Anthony era una persona incredibile. Sembrava sapere sempre quale fosse la cosa giusta da dire, da fare...-

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-Ti va una birra, William?-

Mi sta perseguitando, non c'è altra spiegazione. Anche se ha appena rivolto la parola a William, uscito dallo spogliatoio maschile nello stesso momento in cui io abbandonavo quello femminile, io so che è qui per continuare a rompere le scatole a me.

Sarò paranoica, ma so riconoscere un testardo quando lo vedo.

-Con piacere, sono esausto.- risponde William/Ken, sorridendo a Anthony con tutta quell'aria amichevole che, con me, non ha mai modo di dimostrare.

Si accorge di me soltanto quando Anthony, come volevasi dimostrare, sposta il suo sguardo oltre la spalla del biondastro per guardare me.

-Oh. Ray.- mi saluta William, aspramente, senza nemmeno degnarmi di uno sguardo.

-Ken.- replico, ignorando il suo nervosismo: ha tutte le ragioni per detestarmi. D'altronde, dopotutto, io preferisco così: non ho né tempo né voglia di farmi degli amici, e di sicuro non fra gli attorucoli di serie B con troppa boria e sicumera da vendere.

-Ken?- chiede Anthony, confuso, ma William scuote la testa.

-Non chiedere, per favore.- mugugna, e io non posso che ridacchiare quando lo sento tanto contrariato. Di solito sono una persona che non ama i battibecchi, ma devo dire che azzuffarmi quotidianamente con questo ragazzone mi sta dando delle soddisfazioni. -Andiamo?- domanda poi, rivolgendosi ad Anthony. Quest'ultimo, però, torna a guardarmi.

-Tu vieni, ragazzina?- mi domanda, ed io non riesco proprio ad evitare che lo sbigottimento mi si disegni in faccia.

Sta davvero chiedendomi di andare con loro? Ma siamo impazziti?

-O sei troppo giovane per bere con i ragazzi più grandi?- aggiunge, assottigliando le palpebre e facendomi un occhiolino. La voglia che ho di prenderlo a schiaffi è incredibile.

-Ha sedici anni, lasciala perdere!- interviene William, irritato, ma io afferro la mia borsa e mi avvicino a passo marziale a questi due coglioni, sentendo la mia eredità genetica di ubriacona texana ruggire d'indignazione dentro di me.

-Ma chi vi credete di essere tutti e due!?-

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-Quella sera presi la prima sbronza della mia vita.- Ray scoppia a ridere, divertita, mentre io non riesco a far altro che domandarmi come William riesca a fare danni in qualunque posto e in qualunque situazione si trovi.

-A causa di William.- mormoro, scuotendo la testa. -Non poteva essere altrimenti.-

-Fu divertente. Andammo in un bar karaoke e finimmo a cantare le canzoni dei cartoni animati, stonando tutto lo stonabile.- continua a ridacchiare Ray, e non riesco a non unirmi a lei quando immagino lei e quell'altro imbranato abbracciati ad un microfono a cantare a squarciagola vecchie sigle televisive.

Darei anche un rene per poter vedere quella scena con i miei occhi.

-Anthony non bevve nulla. Riportò a casa William e poi mi domandò dove abitassi io, ma mi vergognavo – stavo ancora in periferia, e...- prosegue, arruffandosi i capelli con fare imbarazzato. -Insomma, alla fine mi portò da Jetta, e lei mi ospitò quella sera e per molte altre, in seguito.-
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Morire dev'essere infinitamente meno doloroso dell'hangover.

Alzo debolmente le mani per premerle sulle tempie, tentando di tenere insieme i pezzi della mia testa prima che si spacchi a metà. Il suono di qualcuno che si avvicina allo sconosciuto giaciglio su cui sono sicuramente collassata è tanto sconvolgente da strapparmi un mugolio di protesta.

-Chiunque tu sia, vattene.- mugugno, afferrando un cuscino stranamente morbido e premendomelo sulla faccia; la persona che mi si è accostata, però, me lo toglie di mano, lottando per qualche istante per riuscire a sottrarmelo.

-Tieni, ragazzina.-

Riconosco questa voce all'istante e, sempre all'istante, mi maledico.

L'odore conosciuto del caffè e l'improvvisa consapevolezza di essere in uno stato pietoso davanti all'uomo più bello del creato mi spingono a schiudere cautamente le palpebre, bestemmiando mentalmente contro chiunque abbia deciso di rendere la luce solare tanto tagliente.

-Il caffè è la cura per ogni male. Specialmente per la sbornia.- decreta Anthony, porgendomi un bicchiere di Starbucks che io accetto con circospezione, lottando contro lo stomaco in subbuglio che vorrebbe rinunciare a qualunque contatto con cibo e bevande per un tempo indefinito.

-Abbassa la voce.- ringhio, costringendomi a bere un sorso e tirandomi pesantemente a sedere, guardandomi intorno senza, però, muovere la testa – mi cadrebbe a pezzi se solo provassi a girarmi. -Dove sono?- chiedo, senza riconoscere il bel divano su cui ho dormito e l'appartamento ampio e luminoso – troppo – in cui mi trovo.

-A casa di mia zia.- mi risponde Anthony, sedendosi accanto a me e dedicandomi uno sguardo divertito. -Eri conciata proprio male, eh?- mi canzona ma, lungimirante, io non me la prendo: devo prima scoprire se ho fatto qualcosa di immorale, stupido o illegale.

-Non mi ero mai ubriacata, prima.- ammetto, passandomi una mano fra i capelli e sentendoli tutti annodati e spettinati. Favoloso, chissà che aspetto di merda che devo avere.

-C'è una prima volta per tutto.- sentenzia, ilare, questo bellimbusto, prima di allungare una mano per scostarmi la frangia dalla fronte appiccicaticcia. -Come ti senti?- mi chiede, gentilmente, ma io non riesco a fare a meno di allontanarmi dal suo tocco, sprofondando di nuovo nel divano.

Odio essere toccata.

-Se mi fosse passato sopra un camion starei meglio, credo.- mormoro, e mi godo qualche minuto di silenzio ristoratore mentre il caffè entra in circolo e restituisce un po' di chiarezza al mondo.

-Devo farti i miei complimenti, però.- esordisce, ad un certo punto, Anthony. Lo fisso, senza muovermi da dove mi trovo, e probabilmente riesce a leggermi in faccia tutta la perplessità che sto provando. -Di solito, quando una persona beve troppo, si lascia sfuggire i propri segreti... tu, invece, sei stata zitta come un pesce.-

Non è ancora stato distillato un liquore in grado di scavarmi dentro abbastanza a fondo da strapparmi una confessione.

Non capisco perché Anthony si stia impegnando così tanto per scoprire chi sono e da dove vengo e, sinceramente, mi dà fastidio: non voglio parlare dei miei genitori, non voglio essere guardata con pietà e compassione, non voglio essere affidata a nessun servizio sociale o, peggio ancora, essere riportata indietro.

Jetta è l'unica persona che sa che cosa mi è successo e, in virtù dell'amicizia con il mio vecchio insegnante di scherma, mi ha assicurato che non ne parlerà con nessuno a meno che non sia io a decidere diversamente – sento un fiotto di gratitudine soppiantare, per qualche attimo, la nausea, quando mi rendo conto che Jetta non ha detto niente nemmeno a suo nipote.

-Sono brava a controllarmi.- mormoro, prima di mandare giù quel che rimane del caffè tutto d'un fiato, cercando di ignorare quello che, un attimo più tardi, mi risponde.

-Ma io sono più bravo ad aspettare.-

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-Ti sarebbe piaciuto, sai? Credo che sareste andati d'accordo.-

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La pazienza non è mai stata il mio forte, devo ammetterlo.

È proprio per questo che, quando esco dallo spogliatoio e trovo Anthony di nuovo qui ad aspettarmi, sento l'irritazione raggiungere il punto di non ritorno.

-Oh, insomma, si può sapere che cosa vuoi da me? Perché continui a seguirmi ovunque, non hai qualcosa di meglio da fare!?- sbotto, fronteggiandolo apertamente, ma quello non si smuove nemmeno di un millimetro. Che odio.

-Sei interessante.- replica, e il desiderio di prenderlo a pugni si ripresenta, all'istante, più forte che mai.

-Ma vaffanculo!- sibilo, trattenendomi per puro miracolo dallo strillare. Poi sospiro, dicendomi che non posso esagerare e che, in fondo, lui con me è sempre stato gentile. Stressante, magari, ma gentile. -Senti, davvero, non voglio avere problemi con Jetta o con te, voglio solo fare il mio lavoro ed essere lasciata in pace.- gli spiego, guardando da un'altra parte mentre parlo per non permettergli di capire quanto questa situazione ferisca anche me: vorrei davvero essere una ragazza normale e poterlo conoscere più a fondo, vorrei essere in grado di intessere un rapporto di amicizia con lui come con chiunque altro, vorrei avere la capacità di fingere che gli sguardi penetranti che mi rivolge siano dettati da una bruciante attrazione amorosa.

Ma io non sono una ragazza normale. Io sono una ragazza spezzata che non vuole più affezionarsi a nessuno, che non vuole più sognare, che non vuole più essere né una ragazza né una donna.

-Come preferisci.- mi rassicura, annuendo con un cenno elegante – lui è sempre elegante, in tutto ciò che fa – della testa. -Comunque volevo chiederti solamente una cosa.-

-Cosa?- chiedo, stancamente, dicendomi che, se lo ascolto ora, poi magari mi lascerà in pace.

-Usciresti con me?-

La morsa che mi stritola è talmente repentina da non darmi nemmeno il tempo di prendere fiato per urlare.

Posso avvertire il già poco colore della mia faccia scivolarmi via lungo il collo quando, dai recessi in cui li avevo relegati, i ricordi ed il dolore allungano una zampata che mi squarcia il petto da parte a parte.

Vuoi uscire con un ragazzo? E magari farti anche scopare per bene!

La voce di mia madre mi riempie la testa e spezza, per l'ennesima volta, quel poco che rimane del mio cuore.

Ma sì, vai pure! Tanto sei solo una puttanella che non aspettava altro!

Non è vero, mamma. Non è vero. Non ho mai fatto niente di male, mamma, perché mi fai questo? Perché mi tratti così? Io ti voglio bene...

Non osare rispondermi in questo modo, piccola troia!

-Ray?- è la prima volta che sento Anthony pronunciare il mio nome, ma sono troppo sconvolta per riuscire a registrare la cosa: per me, in questo momento, ci sono soltanto le urla di mia madre, il dolore lacerante che ho provato nel cercare di difendere me stessa e la mia innocenza, lo schiocco degli schiaffi.

Fuori da casa mia!

Chissà poi se sei riuscita a tenerla insieme, quella tua fottuta casa, senza la tua schiava personale a pararti il culo e a farti da sguattera...

-Che cosa sta__- registro le parole di William solo quando pronuncia il mio nome, sbalordito ed allarmato come non l'ho mai sentito: -Ray!-

Si precipita accanto a me, afferrandomi e trascinandomi per terra prima che sia io stessa a crollare: la sua faccia di stupido bambolotto riempie la mia visuale, e tutti i miei sensi impazziti si concentrano istintivamente su di lui.

Ha un'espressione risoluta e tranquillizzante, in volto, che non gli avevo mai visto prima: mi aggrappo alla fermezza in quegli occhi celesti per non affondare, per strapparmi dagli artigli che, dai miei ricordi ancora troppo freschi, sono emersi e stanno cercando di ghermirmi e tirarmi di nuovo giù.

Soltanto nel momento in cui le sue mani si stringono sulle mie spalle riesco finalmente a tirare fiato, recuperando quel minimo di autocontrollo che mi serve per non scoppiare in un pianto isterico davanti a tutti.

Mi tengo stretta ai polsi del biondo con tutta la forza che ho, sbattendo freneticamente le palpebre per ricacciare indietro l'angoscia che mi ha assalita; William non si lamenta, non dice niente... si limita a tenere gli occhi piantati nei miei – e in quell'azzurro scorgo una consapevolezza che mi spaventa più di tutto il resto.

Lui ha capito tutto.

Il mio primo istinto è quello di fare ciò che so fare meglio: scappare.

-Sto bene... sto bene. Davvero. È stato solo un... un calo di zuccheri.- mormoro, cercando di liberarmi dalla stretta d'acciaio di Moseley. Ha visto troppo, ha capito troppo e non posso restare qui, devo allontanarmi da questi occhi che mi hanno scrutata dentro e che hanno visto la ragazzetta patetica che sto cercando di soffocare da troppi, troppi mesi.

-Cosa è successo?-

Jetta. La mia speranza.

-Jetta, non è nulla, non__- comincio, cercando di alzarmi.

-Sembrava un attacco di panico.- risponde istantaneamente William, senza dare il minimo segno di volermi lasciare andare.

-Zitto tu!- sbotto, cercando di spingerlo via, ma lui mi blocca con una facilità impressionante e, per la prima volta – complice il mio cervello che, per riprendersi, cerca qualunque cosa su cui ragionare per non sprofondare di nuovo nella disperazione –, capisco quanta forza abbia nelle mani e nelle braccia e quanto debba essersi trattenuto durante gli allenamenti. Ma perché? Perché combatte contro di me? Perché sono una ragazza? È davvero così stupido?

Jetta osserva la situazione per un istante, spostando il suo sguardo da me a William e poi su Anthony, che si è fatto da parte e che sta attento a non guardarmi nemmeno per sbaglio – sento qualcosa stridere, dentro di me, quando capisco che avei davvero voluto dirgli di.

-Anthony, andiamo a casa.- ordina, infine, con quel tono brusco a cui mi sono tanto affezionata. -Will, rimani con lei e poi portala da me.-

.

Ray si raggomitola e si stringe a me, piantandomi le unghie nella schiena, senza più parlare per un bel po'.

Mi sento malissimo, e vorrei poter fare di più che stringerla a me e accarezzarle i capelli.

Non riesco a concepire l'orrore di sentirsi rifiutati dalla propria madre. È qualcosa che non dovrebbe nemmeno esistere.

-Will mi portò in un caffè, pagò il doppio una cioccolata calda perché non era stagione e mi costrinse a raccontargli tutto.- sospira, infine, con il volto nascosto nella mia pancia.

-Tipico di William.- è tutto ciò che riesco a dire, con la voce rauca di chi si ritrova la gola riarsa da qualcosa che non è pietà e non è nemmeno dispiacere ma, piuttosto, un dolore vero e proprio: mi sento uno schifo al pensiero di ciò che ha passato Ray, mi sento impotente perché non posso fare nulla per toglierle dalle spalle questo dolore e, soprattutto, perché darei tutto ciò che possiedo pur di tornare indietro per poter essere lì, con lei.

-Funzionò, però.- ammette Ray, sempre senza muoversi nemmeno di un millimetro, rimanendo stranamente ferma sotto le mie carezze. -Gli raccontai tutto quanto. Lo avevo trattato talmente male, glielo dovevo...- sussurra, ma so anche io che questa non è tutta la verità: Ray, in quel momento, aveva avuto bisogno di contare su una persona – e Will era statoper lei.

Finalmente riesco a capire tante cose che, fino a questo momento, mi sono perennemente apparse poco chiare: Will è sempre stato protettivo nei confronti di Ray – persino troppo, certe volte – ed ha sempre cercato di proteggerla anche quando lei se la sarebbe potuta cavare benissimo da sola...

Will ha visto Ray nel momento peggiore della sua vita e, come la persona splendida che è, ha fatto ciò che gli diceva il cuore: l'ha amata. Non come uomo, non in senso romantico, niente del genere: Will ha amato Ray come si ama una sorella e io so che è una cosa che tuttora non potrà cambiare, mai, nemmeno dovessero passare cent'anni separati l'uno dall'altra.

Non posso che sentirmi sollevato, adesso: Will era con lei e, per Ray, è e sarà sempre uno dei posti più sicuri al mondo.

Ray tira su col naso ed un sorriso incerto le si schiude sulle labbra.

-Diventammo amici. Lui fu il primo vero amico della mia vita.-

.

-Anthony è un bravo ragazzo.- mi fa Will, seduto all'altro capo del tavolo del pub in cui abbiamo preso l'abitudine di fermarci a bere qualcosa dopo gli allenamenti quotidiani.

Scuoto la testa, facendo ondeggiare gli orecchini pesanti, rotondi e di metallo, che indosso. Will mi prende in giro a profusione per questo mio modo di vestire “da rocker anni Ottanta”, come dice lui, ma a me piace. Stupido Ken senza senso estetico.

-Non posso uscire con lui, come devo dirtelo!?- gli afferro una mano e la premo sulla mia gola, dove io stessa posso avvertire il martellare furibondo del mio cuore. -Senti? Mi salgono i battiti al sol pensiero!- sbraito, accorgendomi soltanto quando Will scoppia a ridere e mi arruffa i capelli che non mi dà fastidio essere toccata da lui – ed è la prima volta che il disagio non si fa vivo da quando me ne sono andata di casa.

-Questo, raggio di Sole, non è panico. Si chiama libido.-

.
.

.

[Ray]

.

Ben scoppia a ridere assieme a me quando gli spiego quanto imbecille e stupido fosse il William che ho conosciuto in quel periodo: era proprio un coglione, devo ammetterlo, ma io a quel coglione volevo bene e mi ci ero affezionata come non avevo più creduto possibile.

-Will non cambierà mai.- commenta Ben, divertito, ed io annuisco vigorosamente.

-Credo anch'io.-

No, Will non cambierà mai davvero: rimarrà sempre quel bambolotto gigante con un cuore da bambino e tanta di quella bontà, dentro, da riempirci il mondo intero.

-Alla fine accettasti quell'invito?- mi domanda Ben quando l'ilarità scema e la sua curiosità torna a farsi viva.

Avrei dovuto parlargli di tutto questo molto, molto tempo fa.

Non so nemmeno io perché non gli ho mai detto nulla di tutto questo: forse avevo paura – non della sua reazione, perché sono sicura dell'amore e della comprensione di Ben come non lo sono mai stata di niente o nessun altro, ma... forse avevo paura di riportare a galla tutto il dolore che ho provato e che mi ha profondamente, indelebilmente cambiata.

-Più o meno.-

.

Io sono una gran vigliacca, Will lo dice sempre.

Io mi arrabbio e protesto ma lui, con quella sua faccia che sarebbe da prendere a pugni dal mattino alla sera atteggiata in un sorrisetto irritante, decreta saggiamente che, se fossi davvero coraggiosa, sarei già andata da Anthony a scusarmi per non avergli più parlato per dieci giorni dopo quello stupido, stupido pomeriggio.

Forse è proprio perché voglio dimostrare a me stessa di non essere una codarda che, adesso, sto correndo a perdifiato giù per le scale della palestra e poi giù in strada, sperando di non aver perso Anthony nella folla che sembra essere onnipresente in questo quartiere di New York.

-Anthony!- chiamo, sollevata, quando lo vedo fermo sul marciapiede, probabilmente in attesa di un taxi e, nel momento in cui si volta e mi sorride, il mio cuore sussulta e il mio stomaco fa una capriola: è sempre più bello, accidenti a lui.

-Stai meglio, ragazzina?- mi chiede, osservandomi con un misto di curiosità ed ilarità mentre io incespico e spintono poco carinamente le persone per raggiungerlo.

-Sì, io...- esito. Come glielo spiego? Accidenti a Will!

Mi mordo l'interno della guancia, sapendo – e maledicendomi per questo – di essere arrossita.

-Volevo scusarmi per la reazione dell'altro giorno, io...- balbetto, ma non mi sento ancora pronta a fidarmi completamente di una seconda persona, non in così poco tempo: voglio dargli il beneficio del dubbio, però, e voglio concedere a me stessa la possibilità di rischiare di essere di nuovo felice.

Quindi opto per dirgli una parte della verità, quella meno compromettente, quella che mi permette di aprirmi un pochino senza, però, sentirmi denudata completamente di tutte le mie difese.

-La verità è che non sono mai uscita con un ragazzo, ecco. Ho qualche problema con tutta quella roba di come vestirsi, di dove andare, dell'imbarazzo e__-

Anthony alza una mano, ridacchiando, mettendo la parola fine al mio sproloquio.

-Facciamo così: se ti offrissi un caffè fra, vediamo, venti minuti, al bar della palestra?-

Una luce nel buio.

-Direi che si possa fare.- sorrido, entusiasta, voltandomi di scatto per lanciare un'occhiata alla palestra, enorme e bellissima, alle mie spalle. -Faccio una doccia e arrivo, puoi aspettarmi lì...?- gli chiedo, incerta, tornando a voltarmi verso di lui. Non mi sono nemmeno lavata dopo l'allenamento, sono subito corsa fuori, sperando di vederlo.

Anthony scuote la testa, sempre con quel bel sorriso un po' canzonatorio sulle labbra.

-Assolutamente no. E se poi tu mi scappassi di nuovo?-

.

-Era determinato, il ragazzo.- osserva Ben, inarcando le sopracciglia – come se lui non lo fosse, no? – e guardandomi con quegli occhi scuri e caldi in cui so sempre di poter trovare la mia metà migliore.

-Oh, sì. Era un vero testardo.- annuisco, con più serenità di quanta me ne sarei aspettata: per anni ho provato un vero e proprio terrore al pensiero di parlare di Anthony, di soffrire di nuovo per la sua perdita, di sentire ancora la sua mancanza... invece è così semplice, ora, raccontare a Ben la mia storia, la storia di Anthony. Non so se sia perché è passato abbastanza tempo o perché, molto più probabilmente, parlare con lui è sempre stato facile e meraviglioso come prendere un profondo respiro in alta montagna.

-Anthony fu il mio primo ragazzo, la mia prima volta e il mio primo amore.-

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My space

Ciaone a tutti, so' Paola Marella!

Ignoratemi. Vi prego. Ho il ciclo da nove giorni, non ci sto più con la testa.

Buongiorno a tutti voi! Puntuale come un orologio, incredibilmente, eccomi qua ad aggiornare!

Innanzitutto vorrei ringraziarvi per l'entusiasmo: mi ha fatto davvero un piacere immenso vedere che non vi siete dimenticate di Ben e Ray e che vi ha entusiasmato questo mio nuovo progetto!

Poi, qualche considerazione: Anthony, il primo amore di Ray, era oggettivamente un ragazzo bellissimo. Può capitare, nella vita, di incontrarne di così, no? Okay, Ray ha tutte le fortune di questo mondo, prima quello e poi Ben. Che invidia. Però ci tengo a sottolineare che non è la sua bellezza ad aver colpito lei, ad averla conquistata, ma l'atteggiamento che ha sempre tenuto nei suoi confronti: Anthony è stato una spalla per sostenersi, un punto di partenza, una speranza, per Ray. Questo, più della bellezza di Anthony (che a Ray non importa proprio un accidente), è ciò che l'ha conquistata.

La canzone del titolo di questo capitolo è Kiss the Rain di Billy Myers.

E niente, direi che questo capitolo si spiega da solo! Per qualsiasi cosa (complimenti, insulti, pomodori, critiche costruttive, erroracci che mi saranno di sicuro sfuggiti nonostante le mille riletture) vi invito a lasciarmi un commentino!

Alla settimana prossima!

B.

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Capitolo 3
*** Broken. ***


base capitoli HOLG
Holding on and letting go

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[Ben]

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-Non mi hai mai parlato di lui.-

-E mi sto chiedendo anch'io il perché.- sospira, alzandosi in piedi per sgranchirsi le giunture ed avvicinandosi alla finestra che dà sulla strada, scostando delicatamente le tende.

-Anthony non c'è più, Ben.- mormora, piano. Nella sua voce riesco ad avvertire una tristezza profonda, radicata, eppure quieta e remissiva allo stesso tempo: è la voce di chi ha accettato un lutto, di chi è sceso a patti con la perdita, di chi ha imparato a guardare al di là della sofferenza.

Tuttavia io non sono in grado di guardarla e di sentirla così standomene fermo dove sono. Mi alzo e la raggiungo, abbracciandola e appoggiando il mento sulla sua spalla, intrecciando le mani sul suo ventre; lei sorride, chiudendo gli occhi, e il suo corpo si rilassa contro il mio.

-Fu un'estate spettacolare, quella. Anthony era meraviglioso e io mi sentivo amata, mi sentivo bene, per la prima volta nella mia vita potevo scoprire me stessa e raggiungere i miei traguardi. Non avevo mai potuto farlo, prima...- mi racconta, piano, come se i ricordi di quell'estate ormai sfumata siano qualcosa di cui parlare sottovoce con la paura che possano scivolare via fra le dita, come acqua.

-Mi convinse a dare gli esami per finire il liceo, mi aiutò a trasferirmi in una stanza in affitto molto più carina... Era un bravo ragazzo e ci volevamo bene, davvero.-

Non fatico a crederle nemmeno per un secondo: il modo in cui parla di lui è troppo denso di tenerezza e di amore per farmi dubitare del sentimento che ha provato nei confronti di quel ragazzo.

-Era più grande di me e anche di Will, e decise di prendersi un anno sabbatico dal college per rimanere a New York a lavorare... per rimanere con me.- aggiunge e, sulle sue labbra, si disegna un sorriso sincero ma imbarazzato.

Lui la amava.

Di questo non posso che essere certo: il modo in cui Ray mi parla di lui, di ciò che l'ha aiutata a realizzare per se stessa, di come le donasse serenità e sicurezza in se stessa, tutto questo mi urla a gran voce il sentimento che Anthony provava per lei.

Sarebbe sciocco essere gelosi, adesso, per di più di una persona che non c'è più. No, io non sono geloso, perché – anche se non l'ho mai incontrato e non potrò mai farlo – ammiro e rispetto quel ragazzo per un semplice motivo: ha amato, protetto e rispettato Ray come lei meritava e meriterà sempre.

-Eri felice.- constato, abbassando la testa per appoggiare la fronte alla sua spalla. Ray annuisce.

-Con lui e con Will mi sentivo finalmente... a casa.-

A casa.

Quanto devono aver significato William ed Anthony per quella Ray più giovane, più fragile, più sola, per farle ammettere una cosa del genere?

Ray dice sempre che “casa è dove ti senti amato e al sicuro” ed io ho imparato a capire il significato di questa frase solamente quando ho rischiato di perderla, durante il coma, trascorrendo ogni giorno accanto a quel letto a pregare perché si svegliasse e tornasse da me. In quel periodo orribile ho compreso quanto la casa non sia un luogo fisico, un edificio o parte di esso, ma le persone da cui sai di poter tornare...

La stringo più forte, sentendo il cuore martellarmi il petto quando i pensieri tornano a quei mesi maledetti e la paura, l'angoscia e l'impotenza si riaffacciano per un istante sulla soglia della mia anima.

Io ho rischiato di perderla e, lo so, sarei sicuramente impazzito se fosse successo. Mi chiedo come abbia fatto a sopravvivere al dolore di aver perso Anthony...

Solo dopo quella che mi sembra un'eternità Ray parla di nuovo, con un tono pacato e tranquillo che riesce a scacciare la mia inquietudine.

-Poi Will terminò il suo corso e dovette partire per la Nuova Zelanda.-
_

Stringo convulsamente a me questo stupido bambolotto biondo, afferrandolo poi per le spalle per tirarmelo su di dosso e guardarlo in faccia, ansiosa.

-Stai attento, c'è freddo in Nuova Zelanda in questo periodo, e se poi il tuo co-protagonista è più bravo di te? Non fargli male, nessuno può essere più bravo di te, ti ho addestrato io!- blatero. Lo so che sto blaterando, ne sono conscia!

Will mi prende le mani, spazientito, stringendosele sul petto.

-Ray, puoi farmi il piacere di prendere fiato?- mi chiede, esasperato, ma io scuoto la testa e mi butto di nuovo contro il suo petto, stringendolo fra le braccia come se, così facendo, potessi davvero impedirgli di salire su quel maledetto aereo.

-Non voglio che tu vada via. Sul serio.- brontolo, e lo sento ridere sommessamente mentre mi accarezza i capelli. -Mi mancherai troppo, non è giusto. Voglio venire con te.-

-Ray.- sospira, prendendomi il viso fra le mani e costringendomi a guardarlo negli occhi. Il modo in cui Will dice il mio nome ha sempre un effetto calmante, su di me. Dovrei provare a brevettarlo.

-Ho comprato un telefono satellitare apposta.- mi ricorda, inarcando un sopracciglio ed accennando un sorriso. -Sarà come se fossi sempre qui con te, d'accordo?- mi rassicura, alzando poi la testa per baciarmi sulla fronte. Io tremo e sento gli occhi pizzicare tanto violentemente da costringermi ad abbracciarlo di nuovo per nascondere le lacrime.

Non so se posso farcela a stare senza di lui.

-E poi tu devi tenermi aggiornato su tutto. Da quando hai una vita sessuale attiva e soddisfacente sei molto più simpat__ahi!-

In fondo, credo che starò benissimo senza di lui.

-Stupido Ken.-

_

-Ecco a chi telefonava sempre.- realizzo, spostando lo sguardo da lei alle strade umide ed afose di Londra, smarrito nei ricordi.

Rammento che Will passava anche tre quarti d'ora alla volta attaccato quel maledetto telefono satellitare, durante le riprese di Prince Caspian, e rammento anche che, allora, avevo creduto che avesse una compagna oltreoceano o una mamma particolarmente apprensiva... ma, di certo, non avrei mai potuto immaginare quanto le mie supposizioni potessero avvicinarsi alla realtà.

-Eri tu... sei sempre stata tu.- soffio, scuotendo piano la testa. Il ricordo di tutte le volte in cui Will mi passava accanto, parlottando fitto in quel cellulare, mi attraversa la mente: è strano pensare a quanta poca distanza Ray fosse da me in quei momenti...

-Già.- annuisce di nuovo, accennando un sorriso e voltandosi per lasciare un rapido bacio sulle mie labbra, socchiudendo poi gli occhi e, dopo un istante, serrando la mascella. -Will mancò solo una telefonata. La più importante di tutte.-
_

-Dannazione, Will.- sbotto, pigiando con furia i tasti del cellulare e ficcandomelo in tasca, esasperata.

-Signorina?- mi sento chiamare e, di scatto, balzo in piedi quando l'infermiera che si è rivolta a me apre la porta della stanza d'ospedale davanti a cui sto marcendo nel terrore da almeno due ore. -Ora può entrare.- mi invita ed io, sfregandomi velocemente una manica sulle guance per cancellare le lacrime, mi fiondo letteralmente dentro.

-Anthony!-

La voce mi esce più strozzata e stridula di quanto, in realtà, vorrei che suonasse: vorrei sembrare salda sui miei piedi, sicura di me, ottimista, ma vedere Anthony sdraiato su questo letto, pallido come un cencio e pieno di lividi, tagli e con un braccio ingessato...

Crollo come una cogliona sulla sedia accanto al suo letto, con gli occhi pieni di lacrime e, probabilmente, un'espressione terrorizzata e sconvolta dipinta in faccia.

Lui però sorride, perché è più forte di me, e allunga una mano per prendere la mia: è l'unica cosa concreta, la sua stretta, l'unica certezza che ho – quella e i suoi bellissimi occhi azzurri, stanchi e cerchiati dalle occhiaie, che mi raggiungono e mi restituiscono il respiro che solo ora mi rendo conto di aver trattenuto da quando mi ha chiamato Jetta, disperata, per dirmi cos'era successo.

-Ehi, ragazzina.- mi saluta, ed io sbuffo un qualcosa che, in un altro momento, potrebbe essere l'inizio di una risata. -Tranquilla. Sto bene.- mi rassicura, e forse è proprio la sua pacatezza e la sicurezza che emana – come sempre – a farmi andare completamente fuori di testa.

-Stupido, stupido, stupido!- sibilo, e capisco di aver perso la mia battaglia contro il pianto quando sento le lacrime rotolarmi lungo gli zigomi. Stringo forte la sua mano e lui ricambia la stretta, mentre io serro gli occhi e, sconfitta, mi lascio prendere dall'isterismo.

-Non osare mai più farmi uno scherzo del genere, dannato imbecille!-

_

-Che incidente stupido...- mormora Ray, socchiudendo le palpebre e scuotendo la testa: ha le labbra piegate in una smorfia terribile, forzata, come se la sua bocca contratta fosse l'unico fermo per non lasciar cadere a pezzi tutto ciò che ha fatto per superare quel momento.

Vorrei fermarla, vorrei dirle che non è necessario rivivere tutto, vorrei proteggerla dal ricordo di quel dolore che si sta affacciando dentro di lei dopo tanti anni di silenzio... eppure taccio, perché so che è la cosa giusta da fare per lei.

-Un tizio non gli aveva dato la precedenza e lo aveva investito. Anthony aveva appena preso quella moto...- pigola, piano, e improvvisamente si volta e affonda il viso sul mio torace, stringendo fra i pugni la stoffa della mia maglietta.

La racchiudo nel mio abbraccio e la tengo qui, stretta, premendo una guancia contro i suoi capelli e sentendomi lacerare da ogni lacrima che avverto bagnarmi il petto, pregando di riuscire ad essere abbastanza forte per darle la possibilità di lasciar andare tutto il dolore che ha serbato nel cuore fino ad ora.
_

-Ray...-

Mi sveglio bruscamente e di botto quando la voce sofferente di Anthony mi trapassa le orecchie e l'anima, strappandomi al sonno.

-Ehi...- comincio, alzando gli occhi e accendendo la plafoniera sopra il letto, sfregandomi gli occhi cisposi e stanchi. Ho dormito per... quanto? Jetta è andata via dopo cena, io però sono rimasta, e... e quello che vedo mi fa sgranare gli occhi e mi riempie di terrore.

È più pallido di prima. Ha gli occhi sbarrati e le labbra esangui, mentre un rivolo scarlatto gli scende lungo la mascella.

No.

Scatto come una molla verso la porta, tirando un pugno all'interruttore per le emergenze.

-Sta male! Venite subito!- ruggisco alle prime due infermiere che vedo, tornando poi di corsa accanto ad Anthony. Rantola, non riesce a respirare, e mi afferra le mani che tendo istintivamente verso di lui, stringendole spasmodicamente al petto.

-No, no... va tutto bene, andrà tutto bene...- balbetto, cercando di rassicurarlo, cercando di sorridergli e vorrei poter fare qualcosa, vorrei non vedere quegli occhi affogare nella sofferenza e nel terrore.

-Ray...- mi chiama, ed io libero a fatica una mano dalla sua stretta per accarezzargli la fronte, scostando i suoi splendidi capelli neri perché voglio ricordare il suo bellissimo volto, i suoi lineamenti, la consistenza della sua pelle, perché lo so cosa sta per succedere e voglio solo che lui veda che non ho paura, che non soffra anche per me, che io sono qui e che non è da solo, che non deve affrontarlo da solo.

Gli sorrido di nuovo e lui capisce tutto, lo so che anche lui ha capito, e mi tira vicino a sé per sussurrare una parola al mio orecchio.

-Sopravvivi.-

Vorrei dirgli quanto lo amo, vorrei dirgli di non andare via, di resistere, ma non ci riesco.

Voglio solo che non abbia paura. Voglio solo essere io, per quest'unica volta, ad essere forte per lui, a sostenerlo, a scacciare tutto il dolore che riesco a vedere aggrumato sul fondo del suo sguardo spiritato.

Annuisco, gli accarezzo una guancia, gli rivolgo un sorriso che spero sia pieno d'amore, e poi qualcuno mi strattona e mi strappa da lui.

-Signorina, vada fuori!- mi ordinano, ma non li sento. Rimango lì dove sono andata a finire, ai piedi del letto, sentendomi lacerare dai suoi occhi che hanno seguito i miei e che io non lascerò andare per niente al mondo, fino alla fine.

-Ha i polmoni pieni di sangue.-

-Non riesco a intubare, ha le vie respiratorie completamente ostruite.-

-Dobbiamo farlo respirare!-

-Il cuore si sta fermando!-

_
-Il medico dichiarò il decesso alle 6 e 42 del mattino del quattro marzo.-
_

Al decimo squillo a vuoto del sesto tentativo fallito spengo tutto e abbandono il telefono satellitare sulla sedia di fianco alla mia, ricacciando indietro le lacrime in quel vuoto orrendo che mi si è spalancato dentro.

Will non mi ha risposto.

Anthony non c'è più.

-Ray!-

La voce spaventata di Jetta, che ho chiamato nel momento in cui un velo bianco ha nascosto il volto di Anthony e un'infermiera robusta mi ha trascinata fuori da quella stanza, risuona nel corridoio buio e vuoto dell'ospedale.

Anthony non c'è più.

Alzo lo sguardo, vedendola correre verso di me, e vorrei non avere le mani macchiate dal sangue del nipote che ha appena perduto quando mi crolla fra le braccia, scoppiando in un pianto disperato.

_

-Una deformazione della costola rotta ha perforato un polmone.- spiega la voce dispiaciuta di un medico, più tardi.

Come ci sono arrivata qui? Non mi ricordo di essermi spostata da quel corridoio.

-Dalle lastre e dalla TAC questa deformazione non__-

-Siete degli incompetenti!- esplode Jetta, balzando in piedi, ma io resto dove sono. A cosa serve arrabbiarsi? Anthony non c'è più.

-Mio nipote è morto per colpa vostra!-

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-Ray...-

Vorrei dirle che mi dispiace di essermi incrinato una costola, vorrei dirle che non mi perdonerò mai di averle fatto provare per colpa mia una parte di quella sofferenza, vorrei dirle mille cose ma non riesco a fare altro che stringerla più forte quando lei si abbandona contro di me, come una marionetta a cui abbiano tagliato i fili.

-Va tutto bene.- mi rassicura ma io so che non è vero, la conosco troppo bene, non può andare tutto bene e l'espressione straziata del suo viso non ne è che la conferma. -È passato tanto tempo...- aggiunge, ma il tempo non è stato abbastanza e credo che non lo sarà mai: una parte di lei soffrirà sempre questo lutto e non c'è nulla che io possa fare se non essere qui, in questo momento, offrendole le mie spalle per portare, assieme a lei, questo peso terribile.

La cullo fra le mie braccia a lungo, in silenzio, finché Ray non si rianima un poco e alza le mani per aggrapparsi alle mie spalle, sforzandosi di alzare la testa per appoggiarsi alla mia clavicola.

-Lui mi aveva chiesto di sopravvivere, e io cercai di farlo.-
_

-Signorina?-

Balzo indietro quando un'infermiera che forse ho già visto mi si avvicina, provando a sorridermi.

-Non mi tocchi.- riesco a dire, abbassando lo sguardo e stringendomi le braccia sulle spalle, sperando che il gelo che sale da quella voragine che mi ha squarciata da parte a parte mi avvolga e mi porti via.

L'infermiera si ritrae, comprensiva, ma non riesco ad essergliene grata.

-Posso chiamarle qualcuno?- mi domanda, quindi.

Può?

-No.-

Dal fondo del corridoio vedo arrivare Jetta, esausta e con gli occhi gonfi.

-Ray...- mi chiama, ma non prova a toccarmi anche lei e ne sono sollevata. Forse dovrei abbracciarla, forse dovrei essere più forte, ma non ce la faccio. Non posso tollerare di sentire il calore di un qualsiasi corpo umano quando quello di Anthony è diventato freddo, immobile, spento.

-Io... puoi darmi le chiavi della palestra?- le domando, quindi, e Jetta comprende e s'infila una mano in tasca per recuperarle, lasciandole poi cadere sul mio palmo aperto.

La ringrazio e me ne vado, camminando spedita lungo le strade sempre caotiche di New York, senza accorgermi del Sole che sta lentamente facendo capolino per annunciare un nuovo giorno di cui, a me, non importa proprio un accidente.

Passo tutto il giorno in palestra, allenando gli allievi di Jetta con una freddezza che li sorprende ma che, intimoriti dalla pesantezza dei colpi che sferro, li scoraggia a farmi domande.

Non penso a niente se non alla meccanica della scherma, agli schiocchi dell'acciaio che coprono i suoni della notte che è appena passata, ed è solo quando arriva sera e tutti se ne vanno che, dopo essermi lavata via di dosso il sudore e la stanchezza, mi ritiro nell'ufficio di Jetta, dove riaccendo finalmente il telefono. Il primo messaggio che ascolto è quello che mi ha lasciato Jetta.

-“Ray, sono Jetta... prenditi tutto il tempo che vuoi, io non... non verrò a lavorare per un po'.”-

Annuisco, come se lei fosse qui, e lo cancello, passando al successivo.

-“Ray, sono Will. Avevo lasciato il cellulare in roulotte, ero fuori con Angel! Dovresti proprio conoscerla, sono sicuro che ti piacerebbe. Chiamami quando vuoi!”-

L'odio che mi travolge è più di quanto io ne abbia mai provato in tutta la mia vita.

È più forte di quello che ho provato nei confronti dei miei genitori, è più forte della solitudine che mi ha divorata, è più forte di me: per un istante provo la magnifica illusione che abbia riempito il baratro che sento spalancato nel petto... ma, dopo qualche secondo, anche quello viene risucchiato nel nulla, nel buio – nel niente, lasciandomi soltanto ancora più esausta, ancora più vuota.

Spengo il telefono e lo butto sul tavolino di vetro, sdraiandomi sul divano con gli occhi spalancati che fissano il soffitto.

_

-Quei giorni furono molto confusi, per me.-

_

Sono passati diversi giorni, ma non saprei dire quanti. Ho semplicemente lasciato che tutto continuasse così com'è: al mattino esco, vengo qui in palestra, e alla sera torno a casa a dormire, troppo stanca anche soltanto per pensare.

-Ray?-

La voce che mi chiama non mi distrae dal duello che sto sostenendo. Lancio solo un'occhiata alla porta, riconoscendo Jetta sulla soglia.

-Jetta. Solo un attimo...- le chiedo, lanciandomi poi con violenza contro il mio avversario e allievo, spaccando a metà la sua difesa e colpendolo allo stomaco con il pomolo della mia spada, facendogli perdere la presa sulla sua.

-Ehi!- esala, senza fiato, mentre l'arma cade a terra.

-Tu non hai bisogno di lezioni, hai bisogno di un miracolo.- commento, inespressiva, abbassando la mia lama e dirigendomi verso Jetta. Questo però è un coglione egocentrico e continua a sbraitare, ignaro di quanto le sue parole non mi sfiorino nemmeno.

-Ciao, Jetta. Come stai?- saluto, raggiungendo la mia insegnante. Lei mi sorride, debolmente, lanciando uno sguardo che abbraccia l'intera palestra, piena di studenti.

-Non era necessario che tu continuassi a lavorare in questi giorni...- mi dice, ma io scuoto la testa.

-Quel poveraccio, là, ha bisogno di lezioni supplementari.- commento, accennando con la testa al povero demente che sta ancora blaterando improperi nei miei confronti. -Avevi bisogno di me?- le domando, poi.

-Ci sono delle persone che vogliono vederti.-

-Chi?-

-I genitori di Anthony.-

Impallidisco di botto e, per la prima volta, qualcosa di diverso dall'inerzia si smuove dentro di me; scuoto immediatamente la testa, cercando di scacciare quella sensazione che non voglio, allontanandomi di un passo da Jetta.

-No, io... davvero, non è il caso...- mormoro, debolmente, ma quando mi volto vedo due persone a pochi metri da me e riconosco all'istante, negli occhi azzurri dell'uomo e nella bellezza incredibile della donna al suo fianco, ciò che speravo di poter evitare.

No. Non vi voglio vedere. Andate via.

-Salve...- sussurro, con gli occhi sgranati, quando loro mi si avvicinano. Non ce la faccio a guardarli in faccia per più di due secondi: abbasso lo sguardo sul pavimento, stringendo con più forza l'elsa della spada.

-Tu sei Ray?- mi chiede la voce dolce della donna ed io annuisco bruscamente, incassando involontariamente la testa nelle spalle. -Mio figlio mi aveva parlato tanto di te...- aggiunge, ma io non posso affrontare il suo lutto e nemmeno il mio, non posso lasciare che la tenerezza e la compassione, che sento nelle sue parole, mi tocchino.

-Signora, io... non so dirle quanto mi dispiace, non...- balbetto, sentendomi una stupida: che cosa si può dire a due genitori che hanno perduto il loro unico figlio?

Forse è questo pensiero che mi spinge a sforzarmi, ad alzare lo sguardo per rivolgere ai signori Flores la prima ed unica espressione sofferente che mi permetto di lasciar andare da quando è successo.

-Vi porgo le mie condoglianze...- mi sento patetica e forse lo sono, ma la bella signora mi sorride con un amore incredibile – troppo, probabilmente, perché io possa accettarlo.

-Gli volevi bene anche tu, piccola.-

No. Non chiamatemi così. Andatevene. Lasciatemi sola.

Sento che potrei spezzarmi a metà, adesso, davanti a due persone che hanno tanto amato Anthony, e vorrei dire loro quanto meraviglioso fosse l'uomo che avevano cresciuto, quanto anche io lo amassi dal profondo del cuore, quanto la consapevolezza che lui non ci sia più mi abbia completamente annientata.

-Non è... non c'è paragone, io... l-lui parlava tanto di voi, voleva...-

Ma non posso. Non posso permettermi questo. Non posso spezzarmi, Anthony mi ha chiesto di sopravvivere.

Scuoto violentemente la testa, lanciando un'occhiata fredda all'interno della palestra.

-Mi spiace ma devo tornare al lavoro, hanno bisogno di me.- mi scuso, trincerandomi dietro una freddezza che, per fortuna, non sembra ferire o stupire nessuno dei tre adulti che ho intorno.

-Solo un istante, Ray.- mi implora questa donna di cui non so nemmeno il nome, e io sento i piedi inchiodarsi qui dove sono: non riesco a muovermi, a fuggire, quando lei mi porge un piccolo cartoncino bianco con una mano curata e tremante. -Se tu avessi bisogno, per qualunque cosa... questo è il mio numero.-

Afferro il biglietto e me lo stringo al petto, senza riuscire a guardarlo.

-Io... grazie.- biascico, e finalmente il mio corpo risponde alle mie suppliche e si muove, ritraendosi da queste persone di cui non riesco a tollerare la presenza. -Devo andare.- ripeto, e finalmente posso dare loro le spalle e allontanarmi da qui.

Faccio però in tempo a sentire la voce dell'uomo, che parla per la prima volta e che mi pugnala proprio lì, alle spalle, in mezzo alle scapole, perché ha la stessa identica cadenza di quella di suo figlio.

-Jetta... quella ragazza ha qualcuno da cui andare?-

-Purtroppo no.-

_

-Non la chiamai.- non mi sorprende, a dire il vero: Ray è schiva, ritrosa e ombrosa come il più puro dei cavalli arabi.

-Non chiamai nessuno, a dire il vero... quando Jetta tornò a lavorare, dopo il funerale, ricominciai tutto come se non fosse successo niente. Diedi gli ultimi esami e presi il diploma a pieni voti, continuai a lavorare per pagarmi dove vivere... la mia vita si era ridotta a quella routine che mi teneva la testa impegnata.-

Ray continua a parlare ed io riesco quasi a vederla, in questo momento, quella ragazza smagrita e pallida con gli occhi spenti che cammina lungo le strade di New York.

-Will tentò di chiamarmi tante volte, ma io buttai via il telefono. Ero arrabbiata con lui e con il mondo intero, mi sentivo sola e...- la sua voce muore in un borbottio confuso, imbarazzato.

Mi ricordo quel periodo, mi ricordo la frustrazione di Will: e rammento di essere andato a recuperarlo assieme ad Angel, una sera, perché per sfogare la rabbia e la preoccupazione aveva esagerato con i superalcolici e si era buttato in una zuffa, guadagnandosi un occhio nero che aveva fatto quasi saltare le coronarie allo staff dei truccatori.

È proprio perché ho visto William macerarsi nell'angoscia che non mi sorprende troppo quello che Ray, passandosi una mano fra i riccioli, mi dice un istante più tardi: dopotutto, questi due si sono sempre assomigliati anche nel modo di affrontare le preoccupazioni.

-Quando non riuscivo a ignorare tutto uscivo e bevevo. Non troppo, non ho mai esagerato, ma... era più facile non pensare.-

-William era disperato.- mormoro, continuando inconsciamente ad accarezzarle i capelli. -Ha gettato il telefono nel fiume, ad un certo punto.- aggiungo, e lei mi risponde con uno sbuffo che è a metà fra il divertito e l'esasperato.

-Si è meritato quel cazzotto. Quei telefoni costano un occhio della testa.- brontola, ed io inarco un sopracciglio.

-Hai preso a pugni William?- le domando, giusto per vedere se ho ben capito quel che ha detto e, finalmente, Ray alza gli occhi e mi sorride, nonostante la profonda stanchezza che scorgo nei suoi tratti.

-Non sembri sorpreso!-

__

-Ray!-

Nel momento stesso in cui sento quella voce risuonare nel corridoio della palestra, a pochi metri da me, un gelo che non ha nulla a che fare con le temperature rigide ed umide dell'inverno di New York mi riempie le braccia di pelle d'oca e la carne di una familiare sensazione di repulsione.

Vorrei scappare via, fuggire da questa situazione che sta per precipitare, ma sarebbe impossibile: l'uscita è proprio dietro di me, da dov'è venuta quella voce... per questo, stancamente, mi volto, ignorando la morsa che mi serra il petto quando, nella vivida luce delle lampade al neon, riconosco il profilo di Will.

Non sembra più Ken” è il primo, stupido pensiero che mi attraversa il cervello. Ha sempre i tratti fini, per niente scolpiti, ma le guance sono più scavate e la barba di un giorno gli disegna un paio di primavere in più su quella faccia che sembra sempre troppo giovane per l'età che ha.

Al suo fianco, e la riconosco anche senza averla mai vista prima d'ora, c'è Angel: è piccolissima – ma io, oggettivamente, trovo la maggior parte delle persone basse –, ha i capelli e gli occhi marroni e un sorriso imbarazzato e gentile sulle labbra.

Mi stanno guardando, tutti e due, ed il disagio che provo aumenta ad una velocità incredibile. Sapevo che questo momento sarebbe arrivato, sapevo che Will non sarebbe stato tanto intelligente da lasciarmi in pace, ma vorrei comunque avere una via di fuga per evitare quel che sta per succedere.

-Sei tornato.- è l'unico commento che riesco a fare, ma il significato che c'è dietro le mie parole amare è molto chiaro.

Vattene via.

Will incassa le spalle quasi inconsciamente, come faceva sempre per difendersi da un assalto particolarmente feroce della mia spada. -Che gelo.- commenta, aspro, fissandomi con qualcosa negli occhi di molto simile al tormento che potrei ritrovare in me stessa, se non mi sentissi sempre così stanca.

Lo ignoro, spostando la mia attenzione sulla ragazza. È sicuramente più grande di me o, almeno, lo spero, perché non penso sarebbe una buona idea che un attore famoso frequentasse una minorenne – però, forse, guardandola meglio, non deve avere poi così tanti anni in più di me. Forse è sulla ventina, o giù di lì.

-Tu devi essere Angel.- constato, con un tono incolore che ben s'addice a come mi sento io ormai da mesi – chissà se Will lo sa che è anche colpa sua... e chissà se un giorno me ne importerà qualcosa.

-Sì, ehm... piacere?- tenta, e vorrei davvero essere una persona diversa: non credo si meriti la risposta secca e tagliente che mi sale in bocca e mi sfugge prima che possa trattenerla.

-Tutto tuo.-

La vedo, li vedo avvicinarsi, vedo Will stringere la mano in cui tiene quella di lei. Mi dispiacerebbe fare del male alla tua ragazza, Will, se ancora riuscissi a provare qualcosa che non sia la spossatezza abissale in cui vegeto ormai da mesi e che, giorno dopo giorno, mi ha tolto ogni cosa.

-Se non avete qualcosa da fare, qui, vi chiedo di andarvene. Sto lavorando.-

__

-Jetta aveva chiamato Will per spiegargli cosa era successo, ma questo non sembrava averlo convinto a starmi fuori dai piedi.- borbotta, Ray, alquanto contrariata – e, ci scommetto, tuttora offesa – dal ricordo di William, ritornato negli USA soltanto per lei: è sempre stata decisamente poco incline ad accettare l'aiuto e la compassione altrui, persino da me.

-Ero felice di vederlo, ma avevo passato così tanto tempo a chiudermi in me stessa da ritrovarmi incapace di fare altro che allontanarlo...- aggiunge, distogliendo lo sguardo, ma io so bene che questa è soltanto una mezza verità: Ray era arrabbiata, con Will, ed io lo so perché ricordo benissimo la reazione indignata di Angel, che mi aveva chiamato per sfogarsi dopo quel primo incontro a dir poco disastroso, e quella silenziosa di Will, che non aveva detto nulla perché pensava di meritarselo.

-Però Will non ha desistito.- osservo, e lei scuote la testa, accennando un sorriso un po' sarcastico.

-E quando mai?-

__

Sono passati quattro giorni e io credo che la mia pazienza sia arrivata al limite.

Will sembra essersi stabilito in palestra: mi segue, cerca di parlarmi, ha persino sostato davanti allo spogliatoio per impedirmi di darmela a gambe ed evitare le sue domande e la sua stessa presenza – peccato (per lui) che arrampicarsi dalla finestra del camerino a quella del corridoio sia anche troppo facile... insomma, è uno strazio.

Avevo sperato che qui, in un baretto abbastanza lontano sia da dove vivo io sia dalla palestra, non potesse trovarmi: e invece eccolo qua, grande e grosso e stupido, che mi s'avvicina con un cipiglio severo che mi farebbe anche ridere se non fossi così stufa di lui e della sua testardaggine.

-Jetta mi ha detto che ti avrei trovato qui.- esordisce.

Promemoria per me: non dire più a Jetta dove trovarmi nel caso avesse bisogno di me.

-Non era un segreto.- commento, atona, fissando con anche troppo interesse il liquore trasparente che rotea voluttuosamente nel bicchiere che tengo in mano.

Non sono ubriaca, ho bevuto soltanto un paio di shot, ma già avverto il mio campo visivo farsi sempre più ridotto. -Non provare nemmeno a farmi la predica. Sei stato tu ad insegnarmi a bere, Moseley.- lo avverto, prima di mandare giù in un sorso quel che rimane del terzo drink, assaporando il bruciore che mi scende in gola e che, per qualche istante, riscalda questo corpo morto che ancora si ostina a respirare.

Oh, che sollievo. Will sembra persino più tollerabile, ora.

-Non mi hai mai chiamato per cognome.-

Quasi.

-C'è una prima volta per tutto.- ribatto, rovesciando gli occhi al cielo.

-Ray, senti__-

No. Ray non sente.

Afferro la mia borsa ed alzo un braccio, richiamando l'attenzione del barista.

-Il conto, per favore! Paga questo qui!- gli faccio cenno e lui, che ormai mi conosce, annuisce; mi defilo in fretta, prima che Will possa fermarmi, e l'aria fredda di gennaio mi accoglie in un abbraccio umido e pesante che mi trasmette un sollievo effimero eppure incredibile.

Mi avvio verso casa mia, ascoltando il suono delle mie scarpe da ginnastica che picchiettano sull'asfalto bagnato del marciapiede, godendomi questa quiete momentanea nel caos ovattato di New York e il vago senso di sbandamento concessomi dall'alcool – ma, come avevo previsto, il mio momento di pace dura poco.

-Ray!- mi chiama, Will, ed io sospiro. Spero solo di riuscire a liberarmene in fretta. -Ti pare il modo?- aggiunge, indignato, piazzandosi davanti a me per cercare di fermarmi.

-Devo ripetermi?- gli domando, esausta, ma la sua espressione perplessa è una risposta sufficiente. -Puoi andartene, Moseley. Sto tornando a casa.- affermo, tentandolo di superarlo; lui però mi afferra un braccio, guardandomi con quegli enormi occhi azzurri che, in un'altra vita, mi riempirebbero di senso di colpa.

Solo che quella vita non c'è più. Quella Ray non c'è più.

-Ubriaca!?- esclama, incredulo, ma io do uno strattone, cercando di liberarmi dalla sua presa.

-Sono lucida quanto basta per liberarmi di te.- forse, se lo minaccio, se ne andrà. Dopotutto sa che potrei davvero fargli del male, non... lui non...

Oh, ma chi voglio prendere in giro? Will è più grosso di me e ha imparato – e proprio da me, maledizione – ad essere svelto e attento come una volpe.

-Ray, non puoi continuare a vivere così.- ed ecco arrivare, prevedibile come la pioggia a settembre, la predica che sto cercando di evitare da quattro giorni. Favoloso.

-Anthony non lo avrebbe voluto, lo sai...-

Quest'ultima frase è l'unica che riesco a recepire davvero.

L'ira che mi ha sommersa quella notte, mentre ascoltavo il suono ripetuto degli squilli del telefono e mi rendevo lentamente conto che non mi avrebbe risposto, fa capolino dalla voragine, premendo agli angoli dei miei occhi e offuscando momentaneamente l'autocontrollo che, fino ad ora, mi ha tenuta insieme.

Rispondi, Will... ti prego...

Con uno strappo più forte riesco a sottrarmi alla sua stretta, facendo due passi indietro e distogliendo lo sguardo per non dargli la soddisfazione di vedere che è riuscito a scuotere qualcosa.

Will... ho bisogno di te...

-An__lui mi ha chiesto di sopravvivere, ed è quello che sto facendo.- il ringhio soffocato che mi sale direttamente dalla gola non lo fa arretrare, ma scorgo nei suoi occhi un lampo d'allarme e di preoccupazione; io, però, mi sento soltanto ancora più esausta.

Torno a voltarmi, stringendo le dita sulla cinghia della borsa e ignorando il desiderio di lanciargliela in faccia. -Perciò sono a posto così, grazie per l'interessamento e arrivederci.- sbotto, ricominciando a camminare e facendo del mio meglio per ignorare lui e la voce, la mia voce, che mi echeggiano nella testa con una prepotenza straziante.

-Non puoi chiudermi fuori in questo modo!-

Ossia come hai fatto tu?

-Voglio solo aiutarti! Noi siamo amici, ricordi?-

No, non ricordo. Ricordo solo che tu non c'eri quando avevo bisogno di te.

-Questa non sei tu!-

Infatti. La Ray che conoscevi tu è morta mesi fa.

Mi sembra che la mia testa stia per spaccarsi in due.

-Vattene, Moseley.- la mia voce assomiglia disgustosamente ad un'implorazione, ma non ce la faccio più: voglio solo che lui e la mia mente tacciano e mi lascino in pace...

-Non fino a che non riavrò indietro la mia amica!-

Troppo tardi capisco di aver raggiunto il punto di non ritorno.

Mi volto di scatto e in due falcate sono proprio davanti a lui e non so come succede ma tutto l'odio che ho provato nei suoi confronti esplode, mi travolge e prima che io possa capire cos'è successo vedo la mia stessa mano chiudersi a pugno e stamparsi sulla faccia di Will con tanta forza da spaccargli un labbro.

Vai via.

Will barcolla, stupito, ma è soltanto quando vedo il sangue che comprendo quel che è appena successo.

Vai via.

Balzo indietro e qualcosa dentro di me si frantuma quando Will mi guarda, incredulo, ed io capisco di avergli fatto del male.

Mi volto e scappo via, verso casa, stringendomi al petto la borsa e perdendo dietro di me i pezzi di qualcosa che è irrimediabilmente andato in frantumi nello stesso momento in cui ho scorto il dolore, il mio dolore, riflesso negli occhi azzurri di Will.

Nel mio baratro vuoto qualcosa sta ribollendo, protestando, scalciando, ci sono artigli spessi e taglienti che mi si piantano dentro per risalire in superficie, avviluppandosi alla mia gola e soffocandomi.

Crollo in ginocchio davanti alla porta di casa mia, fissando il vuoto senza vederlo perché il vuoto è dentro di me, enorme, gigantesco, ma ci sono anche gli occhi sofferenti di Will e sono due cose che non possono convivere, in cui io non posso convivere, che sembrano sul punto di incenerirmi in uno scoppio che potrebbe definitivamente squarciarmi da parte a parte.

È proprio qui che Will mi trova, qualche minuto più tardi. Buttata per terra come l'immondizia e gli scarti che restano di me.

-Ray...- mormora il mio nome ma io non sento lui: io sento Anthony e la sua voce rantolante, morente, soffocata.

Sopravvivi.

Ma come faccio a sopravvivere senza di te?

-Non volevo... non dovevo, io...- balbetto, alzando gli occhi su Will e vedendolo impallidire quando mi guarda – che aspetto ho? Che cosa è rimasto di me?

Anthony...

Will s'inginocchia accanto a me e sono troppo stanca per cacciarlo via, non voglio cacciarlo via, lui è caldo e vivo e se mi sta vicino mi sembra di essere ancora viva anche io.

Sopravvivi.”

Ho sbagliato tutto, Anthony...

Will mi tocca una spalla ed è forse la prima volta che qualcuno lo fa da quando__ ancora una volta non mi dà fastidio, è Will, è il mio amico e__

-Lui non c'è più...-

Ma io sono ancora qui.

È nell'impeto dell'orrenda consapevolezza di essere ancora viva, di sentire di nuovo le mie carni stremate lanciarmi grida d'aiuto mentre la mia mente collassa su se stessa, che mi accartoccio contro il petto di Will e qualcosa mi percuote il petto, con violenza, nel momento in cui la mia faccia si bagna di lacrime.

-Va tutto bene.-

Mi aggrappo al battito del cuore di Will e mi sembra di non aver mai sentito nulla del genere – perché il suo è così sereno, così forte, mentre il mio agonizza ad ogni palpito?

-Sono qui io, adesso.-

Perché non ci sei stato, finora? Avevo così tanto bisogno di te...

-Andrà tutto bene.-

__

Mi sveglia la luce del Sole che filtra fra le persiane e la voce bassa di Will che riverbera nel suo petto, sotto la mia guancia.

Ho gli occhi gonfi e, quando li apro, ci metto un po' a capire dove sono, perché la testa mi pulsa e non mi ricordo molto di quel che è successo ieri sera. Pian piano riconosco il luogo e capisco di tovarmi nel mio monolocale, nel mio letto – e credo di aver dormito stringendo Will come se fosse un peluche.

-Sì, sono rimasto con Ray.- mormora Will, nel telefono, con la voce più bassa possibile. Ha un braccio stretto intorno alle mie spalle e continua a stringermi, come ha fatto durante tutta la notte, mentre io piangevo tutte le lacrime che ho accumulato durante gli ultimi mesi e che, credo, abbiano riempito almeno un po' quel buco nero che mi porto dentro da quando Anthony se n'è andato.

-Oh, sta piangendo. Ha pianto tutta la notte.- aggiunge, Will, abbassando gli occhi e arricciando le labbra in un mezzo sorriso quando vede che sono sveglia. -Ti va una pasta?- mi chiede, e soltanto ora mi rendo conto di avere una fame incredibile.

-Io... sì.- biascico, rotolando giù dal letto per trascinarmi in bagno. Evito di guardarmi allo specchio, mentre mi lavo i denti e mi spazzolo i capelli tutti aggrovigliati: non sono ancora pronta a rivedermi dopo tutto questo tempo.

Venti minuti più tardi suona il campanello e sono io, mentre Will è in bagno, ad andare ad aprire. È il sorriso accecante di Angel, più dell'enorme pacco di pasticcini che regge in mano assieme ad uno zaino che credo essere per Will, a farmi trasalire: come si fa ad essere così pieni di vita, di luce, di serenità? È inconcepibile!

-Prego...- mormoro, abbassando lo sguardo e facendomi da parte per farla entrare. È inconcepibile anche il modo in cui si sta comportando con me perché, e sono sicura che non se lo sia dimenticato neppure lei, io l'ho trattata malissimo.

-Non sapendo che cosa ti piacesse ho preso un po' di tutto!- trilla, allegra, e la coda alta in cui ha raccolto i capelli le dondola allegramente sulle spalle. -Posso?- mi fa, accennando al tavolo, ma scarica tutto prim'ancora che io possa risponderle.

Mi passo una mano fra i capelli, sedendomi perché mi sento ancora più a disagio nell'essere tanto più alta di lei – d'accordo, io sono decisamente alta, ma lei è proprio in versione tascabile e a me non va di torreggiare su nessuno.

-Senti...- comincio, sfregando i piedi sul pavimento e lanciandole un'occhiata pentita. -Mi dispiace per... per come mi sono comportata. Sono stata un mostro.- mugugno ,abbassando lo sguardo.

-Nah, non fa niente. Ricominciamo daccapo.- risponde, però, Angel, tendendomi una mano e rivolgendomi un altro sorriso. -Piacere, io sono Angel.-

-Ray.- sorrido anche io, un po’ a fatica, stringendo quelle dita piccole e paffute nelle mie, lunghe e piene di calli. -Il piacere è tutto mio.- aggiungo, e sono davvero felice di poterla conoscere, finalmente: Will mi ha parlato così tanto di lei, mesi fa.

-Molto meglio.- Angel scioglie la stretta e si avvia verso il tavolo, spalancando poi l’enorme scatola per pescare un cannolo siciliano e addentarlo con gusto. -Will ti ha già spiegato le sue intenzioni?- mi chiede, ed io sgrano gli occhi.

-Le sue intenzioni?- biascico, perplessa. -Will, vuoi sposarti?- urlo, alzando la voce per farmi sentire dal biondastro, non riuscendo a pensare ad altro che a questa bizzarra possibilità. -Sei incinta?- domando ad Angel, ancora più confusa.

-Oh, per l'amor del cielo!- scoppia a ridere, scuotendo la testa, e proprio adesso arriva Will che, perplesso, ci guarda entrambe, una dopo l'altra, cercando di capire che cosa sta succedendo. -Will, non le hai ancora detto nulla?- gli domanda quindi Angel, recuperando un po' di contegno e guardandolo con un cipiglio bonario e divertito che gli fa diventare le orecchie paonazze.

-Ha pianto tutto il tempo!- si difende, gesticolando verso di me.

-Ehi!- protesto, afferrando una scarpa da sotto il tavolo e tirandogliela addosso. -Devo picchiarti di nuovo!?- sbotto poi, ma lui mi sorride con un entusiasmo tale da riempirmi di tenerezza e so per certo che non riuscirei mai a picchiarlo ancora. Per adesso.

-Ora ti riconosco.- commenta solo, felice, prima di avventarsi sui dolci con l'entusiasmo tipico dei bambini.

Io ed Angel ci scambiamo un'occhiata esasperata: ci vuole pazienza, ragazza, ce ne vuole parecchia.

-Allora? Che intenzioni hai?- domando, salvando una brioche alla crema di pistacchio prima che questa cavalletta bionda faccia fuori tutto.

Will alza gli occhi dalla scatola e, con la faccia tutta sporca di zucchero a velo e gli occhi azzurri e limpidi, mi rivolge un altro sorrisone incredibile, di quelli che, se io fossi chiunque altro, mi farebbero sorridere a mia volta – ma ci vorrà un po' perché io torni a sorridere, e lui lo sa.

-Ti porto via da qui. Ti porto a Londra.-

__

-Lo ha deciso lui.-

Devo dire che, nonostante sia un coglione, Will ha almeno fatto una cosa buona nella sua vita.

-Oh, sì. Ha fatto tutto da solo.- sorride, Ray, tornando a sedersi sul divano e abbandonando la testa sullo schienale, esausta. -Ha parlato con Jetta e lei mi ha dato una buona uscita abbastanza cospicua, ha pagato due facchini per impacchettare e spedire la mia roba qui, ha convinto me...- la sua voce sfuma e io accenno un sorriso, sapendo quanto dev'essere stato difficile, per Will, convincere Ray a partire: nonostante tutto ciò che ha passato là, tutto quello che vi ha vissuto, Ray ha sempre amato la sua terra.

-Prima di partire chiamai la mamma di Anthony.- ammette, ed un sorriso debole le appare sulle labbra. -Ci sentiamo a tutti i Natali e a tutti gli anniversari.- aggiunge, prima di rilasciare un profondo respiro e massaggiarsi stancamente le tempie, lanciando un'occhiata dubbiosa al biglietto su cui suo padre ha frettolosamente lasciato scritto un numero di telefono.

-Che cosa vorresti fare?- le domando, prendendo il foglio di carta e osservandolo per qualche secondo prima di tornare a guardare lei; Ray me lo toglie di mano, fissandolo con quella che a me sembra proprio rassegnazione prima d'infilarselo in tasca.

-Lo chiamerò.- decide, prima di rivolgermi uno dei più bei sorrisi che le abbia mai visto in volto – e c'è tutto, in questo sorriso: la Ray che è stata, quella che è diventata e quella che sarà domani e che io non potrò fare a meno di amare ancora di più.

Allunga una mano per prendere la mia e mi avvicina a sé, tirandomi sul divano per abbracciarmi e chiudere gli occhi, stanca ma serena, con la testa appoggiata al mio petto e le mani che cercano le mie.

-Domani.-

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My space

Lo so, avrei dovuto aggiornare ieri ma ero talmente stanca che non ce l'ho proprio fatta ^^' per farmi perdonare, però, ecco il capitolo più lungo dell'intera mini-long!

E sì, non è il capitolo più allegro di questo mondo, ma davvero questa storia meritava di essere scritta. Perdere Anthony, per Ray, è stato un colpo talmente duro che l'ha proprio deformata, che ha adattato la sua anima e il suo modo di vivere a quella sofferenza quieta e silenziosa che si porta dentro da tanto tempo. Non ha mai dovuto parlarne con Will, perché Will sapeva già tutto, ed ha semplicemente evitato di parlarne con chiunque altro: Ray, dopotutto, non è un animale da palcoscenico, ma colei che sta dietro le quinte e controlla che tutto vada bene. Ray è la vera protagonista, ma non si mette mai in luce in prima persona e, proprio per questo, nessuno ha mai saputo del suo passato sino a questo momento.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto: è molto importante, per me, riuscire a trasmettere le emozioni di questi personaggi al meglio delle mie capacità. Credo che lo meritino, come lo meritano tutti i personaggi che creo.

Per chi me l'ha chiesto: no, non parlerò di Simon e delle burrascose vicende londinesi di Ray, non in questa fic. Magari, più avanti, spiegherò il tutto in una one-shot, ma è un progetto ancora molto fumoso. Quel che invece non è fumoso è il "seguito" di questa fanfiction! Ebbene sì, dopo il quarto capitolo (ma non so bene quando) pubblicherò una one-shot che, alla fine del prossimo capitolo, capirete tutti di cosa tratterà. Ma non voglio spoilerare nessun finale!

La canzone che dà il titolo a questo capitolo è Broken, di Amy Lee ft. Seether.

Come sempre, sia che vi sia piaciuto o meno il capitolo, vi invito a lasciarmi un commento. Non lesinate sulle critiche, se ce ne sono da fare, non mi offendo!

Al prossimo capitolo!

Un abbraccio,

B.

EDIT 29/04/2015: mi sono accorta soltanto ora che era rimasto indietro un paragrafo, chiedo perdono! Ho risolto tutto, ora è a posto :)

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Capitolo 4
*** Let it go. ***


base capitoli HOLG

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            [Ray]

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Nonostante tutto, l'aria che si respira in Texas non ha eguali in nessun altro luogo al mondo.

Mi sono disabituata alla dolcezza del sapore di questo vento perenne, che spira dagli altopiani del profondo Ovest e giunge fin qui, sciogliendosi in mille brezze che non smettono mai di accarezzare le immense pianure baciate dal Sole. Mi sono assuefatta al profumo di fuliggine e di pioggia che permea Londra in qualunque stagione dell'anno ma qualcosa, dentro di me, riconosce e gioisce in questa calura che, ad altri, potrebbe sembrare opprimente.

Io sono nata qui.

Io sono cresciuta qui e, nonostante io non abbia avuto un'infanzia e un'adolescenza particolarmente felici o serene, ricorderò sempre con affetto l'odore del manto dei cavalli, che sembra essere onnipresente persino in città, il calore tutt'altro che spiacevole di questi raggi che non mi hanno mai bruciata nonostante io sia pallidissima, il colore che sembra innaturale di questo magnifico cielo azzurro.

Questa non è più casa mia, ma rimarrà sempre la mia terra.

Mi calco inconsciamente il mio vecchio Stetson sui capelli arruffati – ed è un gesto che credevo di aver dimenticato, che credevo non facesse più parte di me – mentre mi volto verso Ben.

Vederlo qui, anche lui con un cappello a tesa larga in testa per proteggersi dalla calura, che cammina tranquillamente accanto a me come se non stesse crepando in queste temperature atroci a cui non è abituato, mi suscita un insieme di emozioni che districo solo dopo un po' d'impegno: come sarebbe stata la mia vita se non me ne fossi andata? Lo avrei conosciuto comunque?

-Sei sicuro di volerlo fare?- gli domando, dando voce ad uno soltanto dei se e dei ma che mi si stanno affollando nella mente, alzando gli occhi verso la villetta a schiera che, uguale a tutte le altre, stiamo lentamente raggiungendo.

Hanno cambiato casa.

Questa non è l'abitazione stretta e buia da cui sono scappata io: è una bella casetta su due piani, modesta ma dall'aspetto confortevole, con tanti fiori esposti nelle fioriere che sporgono dai davanzali e le finestre tutte aperte.

Ben aggrotta le sopracciglia ed è davvero adorabile, quando lo fa – diventa una cosa sola con quel cappello, ti scongiuro –, mentre allunga una mano per intrecciare le dita alle mie.

-Non sarà piacevole.- borbotto, mandandomi mentalmente a quel paese perché, lo so, la mia testa sta cercando tutti gli appigli più strambi per distrarsi da quello che sta per succedere; ma io devo rimanere concentrata, determinata, perché questa non è una cosa da poco e in gioco ci sono il benessere di mia sorella e la mia stessa libertà... la libertà che, dopo tanti anni passati a trascinarmi dietro il peso del passato, credo di essermi ampiamente meritata.

-Sono con te. Ora, domani, fra un anno o per sempre.- afferma, e la determinazione nelle sue parole rimpingua anche la mia, tutt'altro che entusiasta.

È vero.

Lui è accanto a me da molto tempo e lo è stato anche durante queste ultime giornate, passate negli uffici dall'odore pestilenziale degli assistenti sociali, in banca, da mia nonna – che credo abbia una cotta per lui, a giudicare da come l'ha guardato dopo essersi ripresa dalla sorpresa e dalla gioia di avermi trovata sulla sua soglia.

Sorrido, fra me e me, socchiudendo gli occhi e riportando alla mente la sensazione meravigliosa che ho provato fra le braccia di mia nonna, la persona che mi ha dato tutto, che mi ha insegnato tutto, che mi ha concesso la possibilità di diventare la donna che sono.

Ben si avvicina a me e il ricordo di quell'abbraccio si mescola a quello in cui mi stringe lui, adesso, davanti alla casa in cui vivono i miei genitori, sotto il Sole cocente del Texas. Respiro, concentrandomi sull'odore della sua pelle, aggrappandomi alla sua camicia per qualche istante mentre anche il mantra che mi sono ripetuta per sedici anni torna a galla: sono forte, sono invincibile, sono una donna.

Mi sciolgo dalla stretta di Ben, gli sorrido e poi mi volto verso quella porta che mi sembra molto più minacciosa di quanto, solitamente, dovrebbe essere una porta.

Prendo un lungo, lunghissimo respiro, forse per prepararmi all'apnea che potrebbe salvarmi dall'annegamento se l'odio di mia madre si dovesse riversare su di me, prima di fare questi ultimi passi – quanto sembra lungo, questo vialetto –, allungare una mano verso il campanello – da quando ho le mani tanto pesanti? – e premere, finalmente, il fottuto bottone.

Posso ancora darmela a gambe, vero?

Dopo qualche secondo sento un tramestio dall'altra parte della parete e il suono di un catenaccio che viene aperto; poi la maniglia si abbassa, togliendomi ogni possibilità di fuga, inchiodandomi qui dove sono quando gli occhi scuri di una donna di mezz'età si riempiono di sorpresa e sgomento nel riconoscermi.

Sei cambiata anche tu, mamma.

Ora è meno scheletrica di quanto la ricordassi: la depressione le aveva tolto ogni appetito e, me lo ricordo, convincerla a mangiare qualcosa di più di un pacchetto di grissini era davvero un'impresa impossibile... è persino truccata, lei che non si truccava mai, e credo che sia stata dal parrucchiere di recente perché ha un taglio corto dall'aspetto nuovo fiammante, che ben si sposa con i suoi – i miei – tratti affilati.

-Ciao, mamma.- esordisco e, per un istante, mi sento fiera di me: nella mia voce e nella mia faccia non c'è niente – niente che faccia trapelare l'angoscia e la paura che sto provando, niente della tensione che ha tirato ogni singolo muscolo del mio corpo, niente dell'attesa dello schiaffo che posso quasi già sentire sulla pelle.

Forse se ne accorge, lei, perché scorgo un lampo di sofferenza attraversarle il viso e, se fossi ancora la ragazzina che ha cacciato di casa anni fa, potrei anche provare compassione e rimorso nei suoi confronti.

-Ray...-

Sentire il mio nome pronunciato da lei non fa così male come avevo preventivato. È solo un nome, dopotutto, pronunciato da un’estranea che non credo di aver mai conosciuto davvero.

-Possiamo entrare?- domando, sostenendo il suo sguardo incerto e colpevole con una serenità e una pacatezza che non mi appartengono, che devo aver momentaneamente preso in prestito da Ben perché è sempre stato lui quello tranquillo, fra noi due, quello glaciale, quello pragmatico.

-Certo... prego.- entro in casa per prima, seguita da Ben che, senza una parola, supera mia madre e mi si affianca. Nonostante io non sia mai stata in questo posto riconosco i mobili, i colori caldi che mia madre ama vedere sulle pareti e che io invece ho sempre detestato, i quadri, i soprammobili…

Mi accomodo in salotto e l’odore della stoffa un po’ consunta di questo divano, per un istante, mi fa vacillare: mi sono accoccolata proprio lì, in quell’angolo fra il bracciolo e lo schienale, almeno un migliaio di volte… Ben si siede accanto a me e l’ombra di quel ricordo svanisce, evaporando come un miraggio nel deserto.

Maddy Cooper si siede di fronte a me, sulla poltrona, attorcigliandosi le mani piccolissime in grembo e guardandomi dal basso verso l’alto, a disagio.

-Ti trovo bene...- mormora, dopo diversi secondi di spiacevole silenzio.

-Anche tu mi sembri in forma.- replico, sempre in questo tono di voce calmo e serafico che, sulle mie labbra, sembra quasi alieno. -Ascolta, sono qui per Shirley.- esordisco, impedendo che altro silenzio si dilati in questa stanza già pregna di tensione: voglio che tutto questo finisca al più presto. -So che avete riottenuto l'affidamento.- aggiungo, ed una punta di disprezzo colora, per un momento, le mie parole.

È stato per Shirley che mio padre è venuto a cercarmi: dopo anni di cure psichiatriche e dietro ferrei controlli dei servizi sociali, infatti, a lui e a mia madre è stato concesso di riavere indietro mia sorella, ma mio padre – dando prova di un amore paterno che mi ha sorpresa, considerando i precedenti – ha voluto che io lo venissi a sapere prima che gli accordi definitivi venissero firmati, in modo che, se avessi voluto farlo, avrei potuto oppormi.

Mia madre coglie il sarcasmo che ha spezzato la mia calma e sospira, abbassando lo sguardo. Anni fa non lo avrebbe fatto: avrebbe reagito.

-Sono cambiata, Ray. Mi sono curata.- sussurra, fissandosi insistentemente le ginocchia.

-Mi è stato detto.- replico, ma mi costringo a prendere un profondo respiro per non lasciar uscire nemmeno mezza delle miriadi di parole che vorrei urlare in faccia a questa donna. Devo pensare a Shirley. -Sai quante volte ho chiesto il suo affidamento?- le domando, quindi, non più tranquilla ma con un odioso tremolio nelle parole, nelle dita che, istintivamente, cercano quelle di Ben.

-Undici volte.- annuisce lei, tornando a guardarmi: ha gli occhi marroni, mamma, al contrario di me. -Mi dispiace che te lo abbiano sempre negato.- aggiunge e, se non avessi imparato da tantissimo tempo a non prendere per vera nemmeno una sillaba delle sue frasi stucchevoli e piene di sentimento, questa affermazione avrebbe anche potuto sorprendermi.

-La mia unica consolazione era sapere che stava con la nonna.- commento, respirando di nuovo e poi ancora una volta, cercando di riportare la calma nella ragazzina spaventata in fondo al mio cuore che, nonostante tutto, vorrebbe davvero riabbracciare la sua mamma. -Non mi pento di avertela tolta.- mormoro, piano, inclinando la testa di lato per osservarla con più attenzione.

-Hai fatto bene.- ammette, e vorrei davvero poter credere al rimorso e al senso di colpa che sento e vedo in lei. Lo vorrei con tutta me stessa. -Non ero una persona in grado di essere una buona madre.-

La morsa che mi serra il petto è, ormai, qualcosa che conosco molto bene.

-Direi che su questo siamo d'accordo.- sibilo, fra i denti, assottigliando le palpebre e stringendo la mano di Ben nella mia.

Mamma mi guarda, e vedo qualcosa luccicarle fra le ciglia.

-Vorrei che tu potessi perdonarmi.-

-Non posso.- la risposta che mi sale sulle labbra è talmente istantanea che anche io impiego un secondo per registrare di averla pronunciata. -Non lo farò.- aggiungo, drizzando la schiena ed ergendomi in tutta la mia altezza.

Se c’è qualcosa di cui sono assolutamente certa è questa: non riuscirò mai a perdonare a questa donna l’avermi tolto la mia mamma nel momento in cui avevo più bisogno di lei.

-Ma posso sperare che tu sia, per Shirley, una madre migliore di quella che sei stata per me.- aggiungo, e sono queste mie parole ad illuminarle il viso e a strapparle un sorriso sollevato, pieno, che mi fa più male di tutto il resto.

Ho passato gli ultimi tre giorni ad ascoltare gli assistenti sociali che hanno seguito la mia famiglia, a leggere le relazioni stilate durante questi anni dagli psichiatri e dagli specialisti che hanno gestito la riabilitazione dei miei genitori e il sostegno per Shirley.

Ho domandato fino allo sfinimento, ho spremuto da quelle persone e da quei documenti ogni goccia del mio passato e del loro, affogando nel dolore e nel senso di colpa fino a che non ho dovuto, per forza, infrangere il pelo dell’acqua, salata di lacrime, per respirare. Ho letto della malattia di mia madre, ho letto dei suoi rimpianti, ho visto il mio nome tante volte, spesso sbavato dalle lacrime cadute sul foglio su cui lei vergava tutti i suoi rimorsi nel tentativo di impedire che la lacerassero dentro.

Da quei documenti mancava solamente la mia firma: se io avessi voluto impedire che Shirley tornasse in questa casa avrei potuto farlo. Avrei potuto, finalmente, portarla via con me.

Non sono una sciocca né una sprovveduta: i servizi sociali terranno sotto stretto controllo la situazione fino a che Shirley non avrà diciott’anni, mia nonna continuerà ad essere estremamente presente nella vita di questa famiglia e, al minimo sgarro, mia sorella verrà riportata da lei… ma ho deciso che Shirley merita di avere dei genitori. Almeno lei.

-È più di quanto io meriti da te.- esala, mia madre, appoggiandosi una mano sul petto come per aiutarsi a respirare. Ho insistito per essere io a portarle la notizia, per infliggere a me stessa l’ultimo calvario, per spezzare definitivamente ogni legame fra me e lei con questa decisione che, e lei lo sa, ho preso solamente per il bene di Shirley.

-Indubbiamente.- scuoto la testa, chiudendo gli occhi per mezzo secondo, esausta. -Non cercatemi mai più, né tu né tuo marito. Non voglio avere nulla a che fare con nessuno di voi due.-

Le mie parole, fredde come ghiaccio, la colpiscono e vanno a segno con una crudeltà e una precisione incredibili.

Forse sperava che io tornassi da lei, dopotutto. Forse sperava davvero che io la perdonassi, che io desiderassi riallacciare un qualche tipo di rapporto con loro.

Sbagliava.

Annaspa, senza saper cosa dire, per un paio d’attimi; poi, però, si affloscia, abbassando la testa e annuendo, sconfitta. -Lo capisco.- no, non è vero. Ma va bene così. -Shirley è di sopra, se vuoi andare da lei.- aggiunge, ed io sono in piedi prim’ancora che lei abbia finito di parlare. Guardo Ben, rivolgendogli una muta domanda a cui lui risponde con un sorriso.

-Va'.- mi incoraggia e, prima che io stessa possa accorgermene, sono già davanti alla porta della stanza di mia sorella, che riconosco perché, come quando era bambina, è tappezzata di poster e di disegni coloratissimi.

Le domande si affollano, all’improvviso, nella mia testa, facendomi esitare proprio quando la mia mano è, ormai, sul pomello: chissà com’è diventata, la mia Shirley. Chissà se mi assomiglia, se ha ancora qualcosa in comune con me, se mi odia per quello che ho fatto…

Stringo i denti, ricacciando indietro le lacrime e abbassando di scatto la maniglia, socchiudendo la porta.

-Shir?- chiamo, esitante, facendo appena in tempo a scorgere un piccolo, vivace mondo pieno di colori in questa stanza prima che una marea bionda mi travolga, affogandomi in un’onda di capelli sottili e spettinati.

-RAY!- urla una voce nel mio orecchio destro, mentre le mie costole scricchiolano sotto la stretta spasmodica, terrorizzata, di queste braccia che sono più lunghe e più forti di quelle che ricordavo, ma che conservano la morbidezza della bambina che ho lasciato anni fa.

Mi aggrappo a questo corpo acerbo con tutte le forze che ho, chiudendo gli occhi nel lunghi capelli arruffati della mia sorellina – e c’è lo stesso profumo, lo stesso che mi cullava di notte, quando lei si nascondeva nel mio letto per dormire con me.

-Ciao, sis...- mormoro, allargando le dita sulla schiena di mia sorella e stringendola al petto lentamente, assaporando ogni istante di questo abbraccio che mi è mancato più di qualsiasi altra cosa al mondo: più di Anthony, più di Will, più di tutto, è Shirley che avevo bisogno di stringere ancora ed è lo spazio vuoto nel mio petto che nessuno, a parte lei, potrà mai colmare.

Trema, la mia sorellina che oramai è alta quasi quanto me, freme e affonda il viso nel mio petto, come quando era bambina. Lacrime calde mi bagnano le spalle scoperte e le sue unghie mi si piantano nella schiena, ma non protesto. -Non ti vedo da così tanto...- mugola la stessa voce che mi ha quasi assordata, così simile a quella che rammentavo eppure più adulta, diversa, ancora infantile ma con un retrogusto di donna che mi sconvolge più di tutto il resto. -Oh, Ray...-

-Sssh.- sussurro, cercando di inghiottire il grumo di lacrime e di commozione che mi si è annodato in gola e accarezzandole la testa, appoggiando la guancia alla sua tempia. -Va tutto bene. Sono qui con te.-

Rimaniamo strette su questa soglia molto a lungo, riappropriandoci ognuna della propria sorella: gli anni non sono stati capaci di smorzare il legame che ci ha unite da sempre, fin da quell’assolato giorno di agosto in cui ho visto i suoi occhi blu schiudersi per la prima volta e ho promesso a lei e a me stessa che avrei protetto quella creaturina appena nata da ogni bruttura, da ogni sofferenza.

Solo dopo molti minuti Shirley si separa, a malincuore, da me, ed io posso finalmente guardare questo bel visetto che ricordavo più paffuto, più rotondo e più infantile.

-Sei qui per portarmi via?- mi chiede, sfregandosi lo zigomo con il dorso della mano. È diventata stupenda, la mia bambina. -La mamma è cambiata davvero, non credo che ce ne sia ancora bisogno e__-

-No.- la interrompo, sforzandomi di sorridere. Ogni cellula del mio corpo vorrebbe scappare, andare via da qui e portarla con me, ma non voglio strapparle la possibilità di essere amata dai suoi genitori. Non posso. -Voglio sperare che lei sia cambiata davvero, ma non posso esserne certa.- aggiungo, e so che posso essere completamente sincera con questa ragazzina che, nonostante tutto, ho scorto crescere e maturare fra le righe delle sue e-mail, nelle foto che mi mandava, nei suoi sorrisi e nella sua voce attutita attraverso un telefono cellulare.

Le accarezzo i capelli e la seguo, sedendomi con lei sul suo letto. È una camera ampia, accogliente e piena di luce e di colori: al contrario di me, Shirley ha sempre amato la vita, ha sempre cercato di portare la vivacità e l’allegria nella sua esistenza… ed è merito anche mio, realizzo, sentendo il cuore mancare un battito.

È anche grazie a me se Shirley è cresciuta in modo più sereno, protetta dalla malattia di sua madre e dai suoi scatti d’ira, lontana il più possibile da ciò che avrebbe potuto segnarla così com’è successo a me.

Ho mantenuto la mia promessa, ma manca ancora qualcosa.

Shirley mi guarda, curiosa, mentre prendo un lungo respiro e infilo una mano nella borsa, estraendone un plico di fogli ben stretti in una cartellina trasparente. -Sono qui per offrirti la libertà.- affermo, scaricandole tutto in grembo. Lei mi guarda, confusa, strappandomi un altro sorriso.

-Questi sono i dati di un conto corrente a te intestato a cui potrai accedere presentando in banca il tuo diploma, e solo se avrai ottenuto un punteggio encomiabile.- le spiego, e lei si morde un labbro, arrossendo: è brava, a scuola, ma tende a non impegnarsi molto. -Inoltre, potrai usare questi soldi esclusivamente per frequentare un college a tua scelta o, se non vuoi fare il college, un qualsiasi master di specializzazione o di preparazione al lavoro.- continuo, guardandola diventare sempre più incredula mentre, con le dita abili di una pittrice, scorre rapidamente i fogli e sgrana gli occhi, scorgendo la cifra a cui ammonta il suo fondo fiduciario. -Potrai usarli per andare dove più desideri: potrai venire a Londra e, in quel caso, ti aiuterò a trovare una casa e un eventuale lavoro, oppure restare qui, oppure ancora viaggiare e studiare e fare tutte le esperienze che desidererai fare.-

Ho lavorato per cinque anni, accumulando questa piccola fortuna per dare a mia sorella una chance di essere felice. Ho accumulato ogni centesimo, ogni gratifica, ogni straordinario, ho persino rischiato di dovermi prostituire pur di non perdere tutto, ma sono stati sforzi che, e me ne rendo conto quando lacrime commosse cominciano a scendere lungo le guance di mia sorella, rifarei.

-La scelta sarà solo ed esclusivamente tua, ma solo ad una condizione.- la avverto, ma lei ha già capito.

-Nessuno oltre la nonna ne saprà nulla.- mormora, alzando lo sguardo: i suoi occhi blu, innocenti e pieni di voglia di vivere, sono rimasti gli stessi di quella neonata spelacchiata di tanti anni fa. Annuisco.

-Ti servirà comunque la controfirma della nonna per ogni movimento, a proposito. Lei è il tuo garante.- le espongo, indicando la firma della nonna accanto alla mia.

-Come hai fatto a mettere da parte questi soldi? Voglio dire… sono troppi, io non posso__-

-Tu puoi e devi accettarli, perché non ho faticato per anni per lasciare che tu rifiuti tutto questo.- la redarguisco, inarcando un sopracciglio: non le permetterò di rifiutare questo regalo. Ha troppa importanza, sia per lei che per me. -Ti sto dando una possibilità, Shirley. Non perderla.- la avverto, ma subito capisco che mia sorella non rinuncerà a tutto questo, lo leggo sul suo viso entusiasta: ha troppa fame di vita, di felicità, per rifiutare.

-Verrai a trovarmi più spesso, ora?- mi chiede, speranzosa.

Scuoto la testa, lentamente. Non tornerò mai più in questo posto, ne sono perfettamente conscia. -Verrai tu. In quella busta ci sono anche alcuni biglietti prepagati di andata e ritorno per Londra.-

A queste parole Shirley si apre in un sorriso accecante, incredibile, che in un battito di ciglia mi riporta indietro di anni, a quando quel sorriso era l’unico motivo per andare avanti, per continuare a lottare.

-E hai l'obbligo morale di continuare a scrivermi tutte le volte che ne sentirai il bisogno.- aggiungo, strizzandole l’occhio appena prima che, travolgente come sempre, Shirley mi si butti letteralmente addosso per stritolarmi di nuovo, scoppiando in un pianto irrefrenabile contro la mia maglietta.

-Ti voglio bene, big sis.- singhiozza, stringendo nei pugni i lembi dei miei vestiti. Sorrido, stringendo forte questo pezzo di bellezza che renderà un po’ più luminoso il mondo di ogni persona che incontrerà sulla sua strada.

-Ti voglio tanto bene anche io, Shirley.- mormoro, piano, sorridendo. -Te ne vorrò sempre.-

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§

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Lake Cliff Park è sempre stato uno dei posti più belli di questa città. Tante volte, da bambina, mi sono trovata qui assieme ai miei amici, inscenando avventure e battaglie che possono esistere solamente nel mondo pieno di fantasia che è prerogativa dei bambini e degli scrittori.

Chiudo gli occhi, assaporando la brezza calda che mi accarezza le spalle e mi spinge un ricciolo in faccia, facendomi il solletico. Sento senza vederli gli occhi di Ben, in piedi accanto a me, percependo il tocco della sua attenzione sulla pelle, come una carezza.

-Credi che se la caverà?- mi chiede, ed io annuisco, piano, allungando una mano verso di lui ed incontrando le sue dita sulla mia strada.

-È mia sorella. Ce la farà.- non aggiungo quello che, per Ben, dev’essere ormai ovvio: abbiamo una tempra forte, noi Cooper.

Apro gli occhi, sorridendo quando mi specchio negli occhi scuri e caldi di questo meraviglioso uomo che ho imparato ad amare nel corso degli anni, avvicinandomi per lasciare un bacio lieve sulla sua bocca. Lui mi cinge la vita con una mano, allargando piano i polpastrelli sul mio fianco, solleticandomi lievemente e strappandomi un mugolio che vorrebbe davvero essere di protesta.

-Hai fatto una cosa stupenda per lei.- soffia, a bassa voce, sulle mie labbra. -Sono fiero di te.-

Sorrido, socchiudendo gli occhi e abbandonandomi in questo mezzo abbraccio, negli abbacinanti raggi del Sole che gli colorano gli zigomi di un rosa più acceso e che profumano d’estate e di qualcosa che, finalmente, posso chiamare libertà.

Sono libera.

Finalmente, dopo tanti anni trascorsi a fuggire dal mio stesso passato, in questi giorni ho scritto la parola fine di un racconto perduto che non avevo mai avuto il coraggio di scrivere, chiudendo definitivamente un capitolo di una vita che non mi appartiene più.

Qui, con Ben, immersi in un bagno di luce e di quiete, io sono finalmente libera.

-Lo sono anche io.- bisbiglio, abbandonando nel vento questa verità che mi vede finalmente protagonista di una storia tutta nuova, che ho iniziato a narrare nel momento stesso in cui Ben è entrato nella mia vita.

Ben ricambia il mio sorriso e mi accarezza una guancia, indugiando con il pollice sulla fossetta del mento – lo fa sempre quando riflette – e guardandomi per lunghi istanti in cui non riesco a comprendere quali siano i pensieri che si stanno affollando dietro quei due pozzi color cioccolato.

-Devo domandarti una cosa.- esordisce, ad un certo punto, riscuotendosi e scostandosi un poco da me. Inarco un sopracciglio, divertita dal suo repentino cambio d’espressione.

-Cosa?-

-Beh... avrei dovuto chiedertelo tempo fa, ma non ho mai trovato il... momento adatto?- mi osserva, passandosi le lunghe dita fra i capelli prima di prendermi entrambe le mani e stringersele al petto. -Ray, io voglio tutto di te. Il tuo passato, il tuo presente e, soprattutto, il tuo futuro. Ti amo come non amerò mai nessun'altra e adesso dimmi, per favore, che vale lo stesso per te, perché altrimenti non so davvero come potrò continuare questo discorso senza capo né coda.- pronuncia questo ragionamento tutto d’un fiato, continuando a guardarmi con quel misto di esitazione e di determinazione che proprio non riesco a comprendere.

-A volte sei davvero stupido.- sospiro, scuotendo la testa. -Ti amo, Ben. Ti ho amato da subito e ti amerò per ogni giorno della mia vita. Non dovresti nemmeno avere dei dubbi su questo, ormai.-

La semplicità con cui queste parole, che non ho mai detto a nessuno e che credo non ripeterò mai più nella vita a qualcuno che non sia lui, escono dalla mia bocca e dal mio cuore è disarmante tanto per me quanto per lui.

-Era per esserne certo una volta per tutte.- commenta, accennando un mezzo sorriso un po' da psicopatico che mi inquieta più di qualunque altra cosa al mondo.

-Ben, che cosa diav__- comincio, ma gli basta uno sguardo per zittirmi.

Infila una mano in tasca, estraendola chiusa a pugno per non farmi vedere che cosa tiene stretto. Poi s'inginocchia sull’erba tagliata di fresco, alza gli occhi verso di me, mi mostra un anello che varrà tipo mezza Londra e pronuncia le parole più sconvolgenti che una donna potrà mai sentir dire dal proprio compagno:

-Ray, vuoi sposarmi?-

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My space

Ho scritto questo capitolo a tempo di record, oggi pomeriggio, pur di finirlo in orario. Sono ancora capace di scrivere qualcosa di decente spero in tempi brevi, miracolo! Perché vi avevo detto di aver finito anche questo capitolo, ma il salvataggio dev'essere andato storto, ho dovuto riscriverlo -.-

Il parco della scena finale è il Lake Cliff Park di Dallas, che potete vedere in questa bella immagine trovata sul web. Invece la sorella di Ray, Shirley, la potete vedere nell'immagine di copertina: il suo volto è quello di Lily Osment, mentre quello della madre è di Jamie Lee-Curtis e quello del padre è di John Schneider somebody saaaaaave meeeeeeeeeeeeeeeeeee. La frase "sono forte, sono invincibile, sono una donna" ("I'm strong, I'm invincible, I'm woman") viene dalla canzone di Helen Reddy, I am Woman. La canzone del titolo, Let it Go, non è quella di Frozen, ma di Tim McGraw e non c'entra proprio niente con la mia Snow Queen preferita.

E finalmente ce l'ho fatta a finire qualcosa in orario! Per me è una soddisfazione non da poco, devo ammetterlo. Sono assolutamente incapace di portare a termine le cose che comincio nei tempi prestabiliti, ed è stata una bella sfida riuscire a fare tutto in modo decente, una volta tanto. Per chi segue anche Leggi per me, non temete! Sono tornata al lavoro anche su quella ed era ora.

Ed eccoci arrivati alla mia "sorpresa" finale, ossia alla proposta di matrimonio di Ben a Ray! Sapevate già del matrimonio e della pargoletta, Sinéad, ma spero comunque che questo finale zuccheroso vi sia piaciuto. Inoltre ho adorato il discorso di Ben, e sono sempre più convinta che dovrei scrivere una guida per gli uomini su come conquistare le donne. Tizi come il "mio" Ben si stanno estinguendo, temo!

Una scena che mi ha commossa davvero è stata quella fra Ray e Shirley. Il rapporto fra queste due sorelle è stato bellissimo da descrivere, lo ammetto. Inoltre queste due sono agli antipodi: Ray è un personaggio un po' ombroso, un po' malinconico, mentre Shirley è letteralmente un'esplosione di vitalità: è stato bello poter descrivere queste due personalità tanto contrastanti eppure così legate.

Spero che questa mini-long vi sia piaciuta almeno quanto è piaciuto a me scriverla! Vi annuncio che pubblicherò, fra non troppo tempo, una one-shot direttamente successiva a questa storia... ebbene sì: matrimonio is coming.

Ringrazio tutti coloro che hanno recensito, che hanno letto, che hanno Preferito/Seguito/Ricordato o che, in silenzio o meno, hanno dato un'occhiata a questa storia. Vi adoro tutti.

A presto!

B.

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