Nontiscordardimé

di y3llowsoul
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inizio della fine ***
Capitolo 2: *** Servizio al telefono ***
Capitolo 3: *** La speranza dei disperati ***
Capitolo 4: *** Il panico dei disperati ***
Capitolo 5: *** No. ***
Capitolo 6: *** Time to Say Goodbye ***
Capitolo 7: *** Polvere ***
Capitolo 8: *** La vita continua ***
Capitolo 9: *** Rinascita ***
Capitolo 10: *** Al bivio ***
Capitolo 11: *** C'era una volta... ***
Capitolo 12: *** Magic of Home ***
Capitolo 13: *** Amici estranei ***
Capitolo 14: *** Merce fragile ***
Capitolo 15: *** Cogito, ergo sum - ma che cosa? ***
Capitolo 16: *** Pronto soccorso ***
Capitolo 17: *** A casa da soli ***
Capitolo 18: *** Il silenzio è d'argento ***
Capitolo 19: *** Ambivalenza ***
Capitolo 20: *** A casa insieme ***
Capitolo 21: *** Solo cammini separati riuniscono ***
Capitolo 22: *** Osservazioni ***
Capitolo 23: *** Bentornato ***
Capitolo 24: *** Déjà vu ***
Capitolo 25: *** Déjà vu ***
Capitolo 26: *** Prime conoscenze ***
Capitolo 27: *** Giochi mentali ***
Capitolo 28: *** Speranza ***
Capitolo 29: *** Risultati ***
Capitolo 30: *** Dubbi e certezze ***
Capitolo 31: *** Senza speranza ***
Capitolo 32: *** Senza scelta ***
Capitolo 33: *** Punti deboli ***
Capitolo 34: *** Uomini e macchine ***
Capitolo 35: *** Battaglie della vita ***
Capitolo 36: *** Errare humanum est ***
Capitolo 37: *** La volontà per sperare ***
Capitolo 38: *** Costrizione e libertà ***
Capitolo 39: *** Battaglie esistenziali ***



Capitolo 1
*** L'inizio della fine ***


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Disclaimer: Numb3rs e i suoi personaggi non appartengono a me. Purtroppo. E neanche i pezzi di canzoni che introducono ciascun capitolo.
Timeline: circa fra la seconda e la terza stagione [se vi interessa: la storia comincia il 4 ottobre 2006]
Grazie a Alchimista! Perché senza di te non sarei riuscita a scrivere una storia che un italiano normale potrebbe capire :)


Nontiscordardimé


1. L’inizio della fine

Wherever you go, whatever you do,
I will be right here waiting for you.
Whatever it takes or how my heart breaks,
I will be right here waiting for you.
(Richard Marx, Right Here Waiting)


Lo sguardo di Don cercò l’orologio appeso al muro – e non era la prima volta quella sera – prima di voltarsi quasi automaticamente verso il cellulare sul tavolino del soggiorno, posto accanto al telefono di casa. Erano le nove di sera – no, le nove e quattro – e per la prima volta dopo tanto tempo aveva finito di lavorare presto. Tuttavia, non aveva avuto voglia di andare in un bar con i colleghi. Era stanco ed esausto; quella settimana l’ufficio aveva chiesto pesantemente il suo contributo e i suoi pensieri tesi non lo avevano per niente aiutato.
Aveva guardato prima una partita in tv e poi un vecchio film. Ma non era stato attento: del film non aveva ascoltato una battuta, della partita non sapeva nemmeno il risultato.
Di nuovo il suo sguardo scivolò sull’orologio. La lancetta dei secondi aveva compiuto un po’ più di mezzo giro da quando aveva guardato l’ultima volta, ma il telefono era rimasto in silenzio. Don pensò di riaccendere la tv per riempire l’attesa, ma non sarebbe potuto passare più di qualche secondo che il telefono avrebbe nuovamente squillato.

Sarebbe potuto andare da Charlie, ma comunque suo padre non era a casa. Dove era andato poi? A giocare a golf? No, era già tardi in fin dei conti… Al suo incontro settimanale con i senza tetto? No, quello lo faceva giovedì, oggi era mercoledì… che… Esatto, ecco che stava facendo! Era uscito con Millie!
Un altro sguardo verso l’orologio. Le nove, sette minuti e tre secondi.
Avrebbe potuto passare una bella serata con Robin, rifletté. Ma no, lei aveva una conferenza stasera, di nuovo. Era una vera maniaca del lavoro. Non c’era da sorprendersi che lei e Don stessero tanto bene insieme. Sì, era davvero una donna bravissima. E sembrava che stesse funzionando tra di loro, anche per più di qualche mese. Sì, Don poteva essere davvero felice di averla...
Le nove, undici minuti e quarantuno secondi.
«Sei in ritardo, Chucky» mormorò.
Il suo sguardo fissò i due apparecchi telefonici a lungo. Forse avrebbe fatto meglio a chiamarlo e chiedergli cosa diavolo stesse…?
«Non renderti ridicolo» si rimproverò. E smettila di parlare con te stesso, aggiunse nella sua testa. Aveva cose migliori da fare che complessarsi creando una personalità multipla. O almeno avrebbe avuto cose migliori da fare se Charlie si fosse finalmente degnato di chiamare. In ogni caso lui non avrebbe interpretato il ruolo del fratello paranoico del tipo “visto-che-papà-non-si-preoccupa-lo-faccio-io”, soprattutto perché… Accidenti, lo aveva dimenticato: soprattutto perché non aveva un numero con il quale contattare Charlie.
Don levò un altro sguardo all’orologio (le nove, quattordici minuti e tredici secondi), poi allungò la mano verso il telefono, incerto se chiamare o meno, ma si arrestò repentinamente. La chiamata di Charlie era in ritardo di quattordici minuti – ma cos’erano quattordici minuti? Conosceva suo fratello; se Charlie era immerso in un problema matematico era possibile un ritardo di mezz’ora o più. No, non c’era motivo di preoccuparsi.
Eppure, nelle scorse settimane, Charlie avesse chiamato sempre a quell’ora… E inoltre Don non aveva idea di dove si trovasse...
No. Non c’era nessun motivo per preoccuparsi. Era tutto in ordine.

Don gemette. Ma chi voleva prendere in giro?
Sapeva che Charlie si occupava solo di numeri. Sapeva che suo fratello non aveva incarichi al di fuori del suo ufficio. Sapeva che si faceva di tutto per proteggere i civili, soprattutto in caso di una missione segreta. Eppure si preoccupava.
Probabilmente non ce n’era alcun motivo, era inutilmente, esagerato. Però sapeva che non sarebbe stato in grado di dormire in pace finché non avesse saputo che suo fratello si trovava al sicuro, a casa sua. E alla fine una notte calma gli avrebbe anche fatto piacere.
Intanto, suo fratello lavorava da ventotto giorni per un qualche gruppo investigativo come consulente matematico ad un progetto che doveva durare circa un mese. Ecco tutto quello che Don sapeva: non aveva idea di ciò che esattamente suo fratello dovesse fare o di che cosa trattasse il progetto, non aveva idea di dove si trovasse e sì, non sapeva nemmeno per chi lavorasse. Non sapeva niente e probabilmente non avrebbe mai saputo nulla di più preciso.

Non che non c’avesse provato. All’inizio di quell’incarico era stato una tortura non sapere nulla. Di solito conosceva almeno il luogo o l’agenzia per cui Charlie lavorava, oppure non ne sapeva niente perché suo fratello poteva fare tutti i calcoli a casa sua. Questa volta, invece, era scomparso per un mese e Don non aveva idea quanto pericolosa fosse questa missione.
Almeno Charlie gli assicurava ogni volta che stava benissimo, che Don non doveva preoccuparsi. Telefonavano spesso, anche se le conversazioni di solito erano molto brevi. Chiamava più o meno verso sera, ma in generale sapeva sempre quando avrebbe chiamato la volta successiva e manteneva sempre la parola. Era vero che non poteva raccontare a Don della sua missione, ma sapeva che quell’impotenza e il fatto di non poter saper niente non erano facili da sopportare per il suo fratello maggiore e cercava di facilitare la situazione con chiamate regolari.
Don sorrise al pensiero di qualche frammento delle telefonate di suo fratello. “Sì, posso immaginare che tu sia snervato, ma sai perfettamente che non posso dirti niente, Don… No, Don, davvero non posso, e adesso smettila di chiedermi queste cose… Non preoccupatevi. Sto bene qui, davvero… Oggi ho fatto degli ottimi progressi e piano piano mi sto abituando a tutte le cose che ci sono qui… Dovrei tornare per il fine settimana. Ho già detto a papà di comprare le bistecche di filetto: non hai idea di quanto mi manchino stando qui. Sto seriamente pensando di far vedere loro un’equazione che mostra come l’efficienza di tutti i collaboratori aumenta proporzionalmente al il numero di bistecche mangiate…”
Dell’equazione delle bistecche gli aveva parlato l’altro ieri, nella loro ultima conversazione. Charlie era di buon umore; la missione stava per finire e tutto sembrava andare liscio.
Forse sta già tornando a casa? venne in mente a Don improvvisamente. Forse è per questo che non chiama?
Però sapeva che non aveva alcun senso. Charlie gliel’avrebbe detto. E se suo fratello era convinto che avrebbe finito il suo lavoro per il fine settimana, allora l’avrebbe finito per il fine settimana, non prima, almeno non così tanto.
E quindi qual era la ragione per cui Charlie era in ritardo?
Rilassati, tentò di dirsi Don. Te lo dirà fra poco.
Forse avevano fatto un progresso inaspettato e per questo Charlie non poteva o non voleva andarsene. Oppure era stato disturbato da qualcuno che voleva parlargli. Oppure stava telefonando ad Amita o ad Alan o a Larry e non voleva terminare la chiamata bruscamente. C’era sicuramente una spiegazione del tutto ragionevole. Charlie avrebbe chiamato prima o poi. Gli avrebbe dato tempo fino alle dieci. Non sapeva che cosa avrebbe fatto poi, ma aveva bisogno di quella scadenza. In fondo, Charlie avrebbe chiamato entro quell’ora sicuramente. Un’ora di ritardo era il massimo.
Del fatto che si sbagliasse di molto in quella valutazione, che l’attesa per sapere qualcosa di nuovo su suo fratello sarebbe durata molto più a lungo e che fino a quel momento sarebbe stato come attraversare l’Inferno – no, di queste cose Don, in quel momento, non aveva ancora alcun’idea.



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Capitolo 2
*** Servizio al telefono ***


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Mille, mille grazie per le vostre recensioni! Spero che continuerete a leggere la storia anche se devo avvertirvi. Perché:

Attenzione!
Scusate, ma l'ultima volta mi sono dimenticata di avvertirvi che POTREBBE essere che un personaggio morirà. Questo sarà una storia molto lunga. Non si sa mai che cosa potrebbe succedere...

Tuttavia, buon divertimento ;)



2. Servizio al telefono

Your faith was strong,
But you needed proof.
(Leonard Cohen, Hallelujah)

Furioso, Don sbatté la cornetta sulla basa proprio mentre Megan entrava in ufficio e si levava il cappotto.
«Buongiorno! Di cattivo umore?» lo salutò e si poteva sentire che lei, invece, era di ottimo umore.
«Dai, lasciami in pace» brontolò Don e voltandosi di nuovo verso lo schermo del suo computer per trovare altri numeri di telefono non vide il suo volto, su cui aleggiava un misto di offesa, presentimento e preoccupazione.
«Che c’è?» chiese la donna con un tutt’altro timbro.
Don poteva quasi sentire dalla sua voce che aveva aggrottato la fronte.
«Niente» rispose il più calmo possibile. Eppure la sua voce suonava sempre inconfondibilmente amara. Megan gemette. «Oh, avanti: lo sai che posso aiutarti solo se so di cosa si tratta».
«Ho chiesto per caso il tuo aiuto?»
Megan tacque e Don si accorse che non poteva continuare così. Nascose il viso tra le mani: il fatto che fosse tanto esausto già di mattina fece scivolare ancora più giù il suo umore.
Si strofinò gli occhi e si voltò verso di lei prima di scusarsi: «Mi dispiace, Megan. E’ solo…»
Tacque e provò a concludere la frase con un gesto agitato della mano, ma Megan lo incalzò caricando lo sguardo di molte aspettative.
«Sì…?»
Don gemette gravemente e si passò di nuovo le mani sopra la faccia stanca.
«Si tratta di Charlie» confessò finalmente, senza sapere se stesse facendo la cosa giusta.
“Ah sì” volle rispondere Megan, ma si trattenne dal farlo: nonostante fosse sorpresa dalla franchezza di Don, voleva ascoltare la storia fino alla fine e non era raccomandabile interromperlo con una qualsiasi ipotesi su argomenti famigliari.
«Avrebbe dovuto chiamare ieri, ma non l’ha fatto».
L’attenzione di Megan si acuì: per un attimo aveva dimenticato che Charlie in questo momento era coinvolto in una missione segreta. A questo punto la possibilità che i due avessero in qualche modo discusso si riduceva di molto – e in ogni caso le ultime parole di Don non facevano pensare a nulla del genere. Sembrava trattarsi di altro. Megan era timorosa per quello che avrebbe sentito, ma il suo boss pareva essersi ammutolito.
«E allora?» chiese.
«Niente “allora“!» insorse Don. «Non ha chiamato da ieri e nessuno vuole darmi informazioni! Nessuno pare saper nulla e se sanno qualcosa, mi dicono subito che lo mio status di sicurezza non è sufficiente!»
Megan sorrise, comprendendo a pieno il suo boss. Sapeva troppo bene quanto fossero importanti i fratelli l’uno per l’altro e poteva immaginare quanto dovesse essere frustrante per Don non saper dove fosse Charlie. Però la sua ragione gli impedì di imitare Don in quello scoppio di panico: sapeva come funzionavano i cervelli dei matematici – insomma, era fidanzata con uno di loro. Sapeva esattamente quanto confusi e smemorati potessero essere quei geni.
«Don, il fatto che Charlie non abbia chiamato non vuole dire niente. Sai com’è quando è circondato dai suoi numeri. Probabilmente si è semplicemente dimenticato di chiamarti».
Don inspirò rumorosamente. Non voleva di nuovo perdere le staffe, ma i suoi nervi erano così tesi da potersi strappare e il livello di emozioni che riusciva a mostrare si era abbassato considerevolmente per questo. E se Megan adesso non avesse distolto quello sguardo stupido che aveva quando lui si comportava in modo esagerato e irrazionale, allora non avrebbe più potuto garantire niente.
«Non. Lo. Sopporto. Più! Lo capisci?» disse con irritazione, già sapendo che si sarebbe pentito della sua franchezza più tardi.
«Cosa non sopporti più?» chiese Megan.
«Tutto». Don aveva sempre più difficoltà a respirare normalmente. «Non voglio più restare seduto qui, all’oscuro di tutto. Voglio sapere che sta facendo Charlie. E voglio che torni.»
Megan rifletté. «Hai già chiesto informazioni ad altre squadre dell’FBI? O dalla NSA? Charlie qualche volta lavora anche per loro, no?»
La respirazione di Don accelerò e non fu più sicuro di essere in grado di mantenere la sua calma. «Certo che ho chiesto informazioni, ma credi sul serio che qualcuno di loro sia disposto a dirmi qualcosa? Non una parola, neanche una minima parola! Non mi dicono nemmeno se Charlie sta lavorando per loro o meno!»
«Nessuno ti deve un vecchio favore?»
«C’ho già provato» brontolò Don. «È stata la prima cosa che ho fatto».
Malgrado la sua furia per un attimo si sentì un po’ risoluto: sapeva che gli altri qualche volta lo consideravano un mostro nel mantenere il controllo. Megan forse condivideva quest’opinione - Don non ne era sicuro; in ogni caso ce la fece a mantenere la sua voce libera di biasimi.
«Vabbeh… allora devi semplicemente aspettare finché Charlie non ti chiamerà. Forse stasera».
Don la fissò. Megan l’aveva detto sul serio? Gli consigliava di rimanere seduto per il resto della giornata e fare il suo lavoro come se niente fosse successo?
Ma poi era successo qualcosa?
Don scosse la testa. Tutto questo lo rendeva pazzo. Avrebbe perso il senno, lo sapeva. Le sue preoccupazioni erano esagerate? Charlie non l’aveva chiamato ieri sera… e allora? Normalmente non telefonavano ogni giorno. Ma normalmente Don aveva almeno una vaga idea di dove suo fratello si trovasse.
C’era stato un tempo in cui non avevano mai saputo niente l’uno dell’altro. Di solito venivano a sapere per coincidenza dove si trovasse l’altro fratello e per sommi capi, anche cosa stesse facendo, ma all’epoca un vero interesse era raro, semplicemente perché avevano creduto di non poter superare le differenze dei mondi in cui vivevano.
Don quasi rise pensando alla differenza di preoccupazione per suo fratello che c’era fra prima e adesso. Si trattenne: in quel momento, si rese conto, aveva tanta più voglia di piangere.
«Hai già provato a chiamarlo sul suo cellulare?»
Don le scoccò uno sguardo irritato.
«Non l’ha portato con sé» rispose fra denti.
«Oh… mi dispiace, l’avevo dimenticato».
Che fortuna. Don invece non l’aveva dimenticato, almeno non per molto tempo, almeno non più da quando gli era venuto in mente, tre settimane fa, di provar a localizzare dove fosse tramite il segnale GPS del suo cellulare. Poi, però, si era ricordato che qualcuno – e chissà chi era questo “qualcuno” – aveva proibito a Charlie (Charlie, in realtà aveva usato il termine “sconsigliato”) di portare il suo cellulare in missione, per evitare tentativi di localizzazione. E il numero da dove Charlie telefonava ogni tanto era sempre protetto.
«E che ne dice tuo padre? O Larry e Amita?»
Don guardò Megan negli occhi, scuotendo la testa.
«Niente. Non lo sanno ancora. Non voglio che si preoccupino».
Megan aveva di nuovo quello sguardo di incredula indignazione. «Ma hai già informato l’intero apparato amministrativo della polizia americana?!».
«Voglio semplicemente sapere dove si trova Charlie, va bene? Non farebbe male a nessuno se si decidessero a dirmelo, finalmente».
«Non prendertela con me, Don» cominciò Megan e il timbro della sua voce fece sospettare Don che lei stesse per dire qualcosa per cui se la sarebbe presa sicuramente, «ma non pensi che questa… necessità di controllo sia un po’ esagerata? Su, chiama prima Larry, Amita e tuo padre, forse sanno qualcosa».
Don le lanciò uno sguardo pieno di dubbio, ma lei rispose con un sorriso incoraggiante. Va bene, perché no. Poteva solo far scoppiare il panico generale; tranne questo non c’era un problema.

«Eppes».
«Ciao, papà».
«Donnie! Come stai?»
Il timbro della voce di Alan ebbe bisogno di solo mezzo secondo per diventare preoccupato. «Perché chiami? E’ successo qualcosa?»
«No, papà, va tutto bene. Mi chiedevo semplicemente se Charlie avesse telefonato».
«Charlie? No, non dall’altro ieri, no. Perché me lo chiedi?»
«Così. Non ne ero sicuro: credevo che mi avrebbe chiamato ieri, ma forse ho capito male». Don sperava che suo padre avesse creduto a quella storia. Anche se la sua voce non era disinvolta come avrebbe voluto.
«Sei sicuro?»
Ma dai, un po’ di fiducia in tuo figlio! «Certo, papà. Va tutto bene. Ci vediamo. Ciao!»
«Sì, ciao, Donnie…»
Ma Don aveva già riattaccato.
Le due telefonate successive non furono di maggiore aiuto e Don ricadde nel profondo del suo malumore. Ma perché nessuno voleva aiutarlo? Perché diavolo quel progetto era tanto segreto? E perché nemmeno Charlie gli aveva detto niente? Certo, Don conosceva le prescrizioni di sicurezza e sapeva che non esistevano inutilmente e che c’erano cose che dovevano esser mantenute segrete per tutelare la sicurezza nazionale, eppure… Perché nessuno voleva dirgli che stava succedendo?

Verso la sera, Don tornò nel suo appartamento. Mentre guidava il SUV badava meticolosamente che il suo cellulare stesse acceso e a portata di mano. Era un miracolo se, con le occhiate di lato che lanciava sul suo cellulare ogni sette secondi, non aveva ancora avuto un incidente.
Arrivato nel suo appartamento, Don ricordò in un modo sgradevole la serata precedente mentre si sedeva sul divano, una birra in mano, il cellulare sul tavolo. Il cordless era posizionato sulla base, sul cassettone nel corridoio, perché fosse sempre carico. La porta che dava sul corridoio però era aperta.
Alle nove meno dieci controllò freneticamente se il suo telefonino avesse davvero campo e se il telefono fosse posizionato correttamente. Tutto era a posto, sì – eppure Charlie non aveva ancora chiamato.
Quella sera Don non distolse il suo sguardo dall'orologio mentre la grande lancetta dei secondi girava in tondo, la lancetta dei minuti la seguiva lentamente e anche la lancetta delle ore avanzava sul suo cammino circolare, una gara scorretta la cui fine era immediatamente chiara per chiunque la osservasse. Le ore passarono e la scorta di birra di Don volgeva alla fine.
Charlie non chiamò.



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Capitolo 3
*** La speranza dei disperati ***


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Mille, mille grazie per il vostro interesse e i vostri recensioni! Sono sconvolta di gioia!


3. La speranza dei disperati

Heaven can wait, we’re only watching the skies,
hoping for the best, but expecting the worst.
(Alphaville, Forever Young)

Ad un certo punto Don doveva essersi addormentato, perché quando si svegliò la mattina dopo si trovava in una posizione tra il seduto e lo sdraiato sul suo divano. In una posizione che, dopo alcune ore, era diventata molto scomoda, come dovette constatare.
Deglutì duramente quando si rese conto della situazione. Charlie non aveva telefonato. Non si era confuso circa il giorno: Charlie avrebbe dovuto chiamarlo mercoledì; ora era venerdì. Non sentiva Charlie da quattro giorni – va bene, da tre e mezzo. Da quando suo fratello era impegnato con quell'incarico, nessun attesa era durata tanto quanto questa, almeno non senza avviso. Charlie aveva parlato con almeno uno di loro, anche se solo per qualche minuto al giorno. E siccome anche suo padre, Amita e Larry non lo avevano sentito...
Don non poté fare a meno di rabbrividire. Ma che diavolo stava succedendo? Che c'era? Perché Charlie non chiamava?
Sapeva che doveva esserci una spiegazione razionale. La questione riguardava solo quanto questa spiegazione gli sarebbe piaciuta.
Dai, non perdere di nuovo i nervi, si ammonì seriamente. Doveva affrontare quella faccenda nel modo più logico e scoprire dove si trovasse Charlie e perché non aveva ancora chiamato.
Il problema era che c'aveva già provato. E senza alcun risultato. Nessuno poteva aiutarlo. Nessuno gli diceva niente. Nessuno sembrava saper qualcosa del suo fratellino. Charlie era sparito. Da qualche parte. E non chiamava.
Era disperso.
Un altro brivido assalì Don quando capì che cosa stavano provando a dirgli i suoi pensieri. Charlie era disperso. Introvabile. Come se fosse stato vittima di un crimine.
Il cuore di Don per poco non si arrestò. Forse era stato vittima di un crimine? Forse era questa la causa, forse l'aveva rapito, forse anche... qualcosa di più brutto.
No, si ripeté in mente Don, no, certamente no. Ottusamente sentiva il tremolio del suo corpo. No. No, non Charlie. C'è una spiegazione logica per tutto.
Spaventato, Don si guardò attorno, ma naturalmente non c'era nessuno. “C'è una spiegazione logica per tutto” – quella frase era talmente da Charlie che Don era stato quasi sicuro che suo fratello l’avesse bisbigliata nel suo orecchio.
Però c'era solo il vuoto attorno a lui.

Anche nel corso della giornata Charlie non chiamò e il panico prese possesso di Don. Non poteva continuare a far finta di nulla; lo sapeva: più era tempo che Charlie rimaneva disperso, maggiore era la possibilità che tutto fosse più pericoloso di quello che Don provava a credere.
Era perennemente teso e chiunque tentasse di avere una conversazione ragionevole con lui, in breve capiva quanto fosse disperato il proprio tentativo. Perché non importava dove si trovasse o cosa stesse facendo – nella testa di Don c'era sempre la stessa domanda, quella che non gli avrebbe dato tregua finché non avesse avuto una risposta: cosa era successo a Charlie?
Tuttavia, col passare del tempo, Don cominciò a dubitare che ci sarebbe mai stata una risposta. Il panico dentro di lui aumentò. Charlie era semplicemente scomparso e non vedeva nessuna possibilità di ritrovarlo.
Almeno non da solo. In fin dei conti aveva migliori possibilità, se avesse fatto diventare il caso di Charlie ufficiale. E voleva farlo. Più o meno. Perché nonostante volesse sapere dove si trovava suo fratello, aveva un brutto presentimento riguardo all’intervento dell'FBI. Facendo così, infatti, non avrebbe solo dato alla faccenda il termine famigliare e verbalizzato talmente tante volte senza rifletterci di “caso”, ma avrebbe anche definitivamente fatto di Charlie una persona dispersa.
Eppure, pensandoci ragionevolmente, non c'era alcuna ragione per esitare.

Don fu felice che l'A.D. avesse trovato tempo per lui tanto velocemente. Si sentiva un po' spostato; di solito andava lì perché chiamato, non volontariamente. Forse per questo era un po' di più nervoso del solito. O forse il nervosismo derivava dalla paura che Jonathan D. Stevens, il vice-direttore, avrebbe potuto rifiutare la sua richiesta.
Don provò a capire dal viso del suo superiore quanto la persona che gli era di fronte sapesse già, ma la faccia di Stevens era di pietra e senza espressione.
«Non so se lo sa…» cominciò, allora, dopo il saluto e si odiò per la sua insicurezza. A quello avrebbe dovuto rimediare. «Comunque mio –» Don si fermò e si costrinse finalmente a comportarsi in un modo più professionale. «Comunque un consulente dell'FBI risulta disperso».
Don non era sicuro, ma per un attimo credette di vedere gli angoli della bocca di Stevens tremare. «Mi risulta» rispose e sembrò un po' più umano del solito quando aggiunse: «E lei può smettere di girarci intorno, Eppes. So che lei non si interessa per il nostro consulente, ma per suo fratello».
Don temette che lo avrebbe messo di fronte a motivi personali, ma era preparato a quell’evenienza. «Signore, in ogni caso –»
Stevens lo interruppe. «In ogni caso è uno dei nostri consulenti e probabilmente si trova attualmente fuori dello stato della California, forse addirittura fuori dagli Stati Uniti. Siccome so anche che era stato chiamato da un'altra agenzia, non sono a conoscenza del modo in cui questa si sta occupando della faccenda, ma generalmente il caso è di nostra competenza. Sbaglio, forse, a credere che lei sia venuto qui per chiedermi di sostituirci all'LAPD e investigare sul caso?»
Don non poté far a meno di essere grato per la comprensione del suo superiore. Quando poche ore prima, dopo un discorso di poche parole con suo padre, Amita e Larry, aveva dichiarato Charlie disperso, naturalmente era già intenzionato a conquistare il caso. Tuttavia non aveva voluto sprecare tempo o correre il rischio che la sua richiesta di prendere il caso fosse rifiutata da Stevens. Comunque era felice che il vicedirettore gli avesse fatto intendere che si sarebbero occupati immediatamente del caso, nonostante il periodo critico di 48 ore non sarebbe terminato prima di quella sera, due giorni dopo la chiamata non fatta.
Adesso Don taceva, guardando il suo superiore, e osava sperare. Stevens si accorse di quello sguardo e non ebbe problemi a interpretarlo.
«Vedrò che cosa posso fare. Fino a nuovo ordine lei e il suo team potete investigare il caso». Sorrise leggermente. «Deve comunque ritrovare il nostro consulente».
Don si alzò quasi di scatto; si sentiva come se le sue spalle fosse state alleggerite di un enorme peso. Finalmente poteva fare qualcosa!
Si congedò dal vice-direttore e uscì dall'ufficio con uno strano misto di sentimenti. Si era alleggerito di un peso, ma un altro si era aggiunto. Adesso avrebbe informato il suo team e avrebbero lavorato ufficialmente al caso della scomparsa di Charlie.
Stevens lo seguì con lo sguardo. Gemette bassamente. Non aveva voluto ammetterlo di fronte al suo agente di solito abbastanza forte, ma non aveva alcun buon presentimento su questa faccenda. Un consulente di numerose e in parte segrete istituzioni, improvvisamente scomparso nel nulla? Non doveva essere nulla di buono.

- - -

Amita rabbrividì dal freddo. Si era accorta di soffrire il freddo già da qualche giorno come se il suo subconscio avesse voluto dirle qualcosa. E non aveva difficoltà a indovinare cosa. Le chiamate giornaliere di Charlie si erano interrotte una settimana fa e d’allora nessuno aveva saputo più nulla. Nel frattempo era dato per disperso e le ricerche continuavano; ma il polso di Amita da allora era permanentemente sui 180.
Non le sfuggiva neanche che Larry accanto a lei era nervoso allo stesso modo. Nessuno dei due sapeva perché il direttore della CalSci aveva ordinato loro di andare nel suo ufficio, ma non avevano un buon presentimento.
«Grazie per esser venuti qua» li salutò il Dott. Marsh; i due rinunciarono a dirgli che non avevano avuto scelta «Da quel che so, siete voi quelli più vicini a Charles, non è vero?»
I due annuirono.
Il direttore continuò. «Allora forse potrete aiutarmi. Sapevamo che Charles avrebbe ripreso l’insegnamento da lunedì, cioè da ieri; tuttavia non si è fatto vedere, né ci ha avvisato. Potreste spiegarmelo?»
Invece di rispondere Amita pose una nuova domanda. «Allora lei non sa niente? Nessuno gliel'ha spiegato?»
Aveva tanto sperato che l’importante dipartimento per cui Charlie stava lavorando avesse chiarito la faccenda in segreto e che almeno la direzione della CalSci sapesse qualcosa, pur mantenendo il riserbo con gli altri; aveva sperato che i contatti tra Charlie e l’università non si fosse ancora completamente interrotti...
«No, a noi non risulta niente: ecco perché lo chiedo a voi».
Amita dovette respirare profondamente per ritrovare la calma e così fu Larry a rispondere. «Purtroppo nemmeno noi sappiamo nulla. Charles è scomparso. Nessuno sa dove sta in questo momento».

- - -

Al primo sguardo, potrebbe essere scambiata per una stoffa nera con alcuni punti chiari. Eppure, era più di quello, tanto più complesso. Era tutto e niente. Il cielo notturno era la porta tra questo mondo e gli altri, il luogo di tutte le risposte e tutte le domande.
Tuttavia, Larry poteva guardare il cielo quanto voleva, senza trovare la risposta. Sapeva che Charlie in quel momento doveva trovarsi sotto il suo stesso cielo…
Larry interruppe il suo flusso di pensieri. Pensandoci non era certo neanche di quello. Charlie poteva benissimo aver realizzato il suo desiderio ed esser volato nello spazio.
In un attimo smentì quell’assurda ipotesi: era impossibile. Eppure non riusciva a non pensare che la sua tesi dello spazio avrebbe per lo meno spiegato perché Charlie sembrava svanito nel nulla.
Larry confidava ancora in una spiegazione razionale per tutta quella storia, ma gradualmente le spiegazioni che avrebbe voluto sentire si stavano esaurendo. Quello che era certo era che Charlie fosse introvabile. E quand'anche, per esempio, fosse stato portato in una casa sicura per proteggerlo, chi di dovere avrebbe informato almeno la sua famiglia, se non del posto, almeno del perché. Ma questo non era successo.
E se pure avessero dovuto fingere la morte di Charlie – Larry rabbrividì al pensiero – se ne avrebbe data la notizia, non il semplice silenzio.
No, più tempo passava, tanto più in Larry maturava il sospetto che la scomparsa di Charlie potesse essere definitiva.


- - -

E sempre non sappiamo niente su Charlie, ma ho una strana sensazione che questo potrebbe cambiare nel corso del prossimo capitolo. Se dovreste preoccuparvi per lui? Non lo so. Vedremo. Ma vi prego, abbiate pazienza. E' una storia veramente lunga.


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Capitolo 4
*** Il panico dei disperati ***


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E di nuovo grazie per il vostro interesse per la storia! Spero che continuerate a leggerla!
PS: Sono felice che anzi le parole delle canzoni vi piacciano :)


4. Il panico dei disperati

Follow your dreams, but always remember me.
I am your brother, your brother under the sun.
(Brian Adams, Brothers under the Sun)

Il cellulare di Don squillò.
Accettò la chiamata giusto per informarsi del luogo del reato, poi salì nel suo SUV e giudò fin lì nel buio. In poco arrivò all'autosilo e vide David voltarsi verso di lui accanto ad un membro del RIS.
«Un morto, maschio, bianco, circa trent'anni, identità non ancora accertata. Foro di proiettile nel basso ventre; la causa della morte è probabilmente il dissanguamento».
Don annuì.

«E' lui?» si informò, indicando con un breve movimento della testa alla figura indistinta sul terreno davanti a un'utilitaria blu.
«Esatto. Noi qui abbiamo finito, potete fare le vostre indagini».
Don non se lo fece ripetere due volte. Si avvicinò al cadavere. Il suo sguardo era fisso per terra dove tracce di sangue sporcavano il pavimento che lo guidarono al morto, steso sul ventre davanti a lui. Don si inginocchiò e voltò il corpo.
Avendo seguito le tracce di sangue, i suoi occhi videro prima la ferita d'arma da fuoco e le grande macchie rosse sul T-shirt della vittima. Solo un istante dopo il suo sguardo cadde sul viso del morto.
Non furono solo i riccioli scuri che gli fecero riconoscere in quel volto una persona familiare, ma lo aiutarono anche le fattezze, un po' storte dalla pena e dalla perdita di sangue, ma chiaramente riconoscibili, e gli occhi che lo fissavano in modo inanimato e di accusa.
No, non c'era dubbio: quel morto era suo fratello Charlie.
«No» bisbigliò Don appena ebbe realizzato che cosa stesse succedendo. «No» disse a voce più alta ed ogni volta che la ripeteva la sua voce diventava più alta, ma non più forte.
«No... No! NO! NOOOO!!!»

«Donnie».
Una mano l'aveva preso per il polso. Don voleva difendersi, non voleva essere toccato in quel momento, voleva liberarsi dal suo dolore, sbarazzarsene, urlarlo via.
«Donnie, calmati».
Gli occhi di Don si aprirono e lo sguardo volò per tutta la stanza finché non incrociò suo padre.
«Papà, Charlie...»
«Sshh» tentò di calmarlo Alan, come se Don fosse un bambino. «Calmo. Non dire niente adesso. Hai solo fatto un incubo».
Don – troppo confuso per distinguere realtà da sogno – guardò verso suo padre, supplicandolo. Doveva saperlo, doveva sapere se –
«Cos’è successo a Charlie? Dov'è? » Alan distolse lo sguardo, puntandolo sulla coperta e per Don fu sufficiente. Il respiro era ancora frenetico. Non aveva immaginato tutto del suo incubo. La cosa più importante, quella che per Don era la più dolorosa ed orribile non l'aveva creata il suo subconscio, ma la fantasia brutale e crudele della vita. Avrebbe dovuto essergli chiaro, fin dall'inizio. Il suo subconscio non sarebbe mai stato capace di creare da solo un tale scenario d'orrore. Aveva potuto attingere tutto quello solo da dove già esisteva.
«Oddio...» Don premette le palme delle sue mani sugli occhi, ma nemmeno così poteva nascondere a suo padre le lacrime. Che cazzo significava tutto quello? Perché la sua mente lo prendeva in giro in un modo così crudele? Charlie non era morto, non era morto!
Intanto, erano passate più di quattro settimane dall'ultima chiamata di Charlie e non avevano fatto il più minimo progresso nel caso. Potevano solo continuare fare congetture su quelli per cui Charlie lavorasse o avesse lavorato. Nessuna agenzia pareva sapere alcunché. Avevano già seguito tutte le tracce, anche le più piccole sospettando di criminali che si erano fatti passare per investigatori federali per fare chissà cosa grazie all’aiuto di Charlie. Però anche queste ultime ricerche non avevano avuto il minimo successo.
Eppure, non doveva arrendersi, doveva continuare, sempre di più, e non doveva in nessun caso consentirsi quelle pessimistiche e dannate preoccupazioni!
Don si sentiva come un traditore. Nei suoi pensieri aveva appena ucciso Charlie, aveva ammazzato suo fratello. Perché? Non c'era una ragione! Charlie era vivo e tutti i pensieri che non concordavano con quello erano una bugia! Sarebbe tornato da loro. Per tutto questo c'era certamente una spiegazione del tutto razionale – una che non suscitava incubi. Certamente.
O almeno lo sperava.

La mattina seguente l'orrore della notte passata non era ancora sparito dagli occhi di Don. E il suo cattivo umore divenne più forte quando fu interrogato dal suo superiore.
Jonathan D. Stevens, il vice-direttore, spostò il suo sguardo dai documenti quando Don a passo lento entrò nell'ufficio.
«Si sieda» lo salutò e Don, senza parole, ubbidì all'invito. «Lei immagina perché è qui…?»
Lentamente, Don scosse il capo. «No, signore».
Stevens gemette. «Agente Eppes, lei e il suo team state lavorando da quattro settimane a un caso di rapimento senza alcun risultato. So che lei è coinvolto personalmente; però la sua competenza è richiesta anche in altri casi. Mi dispiace davvero tanto di dover dirglielo, ma il caso di suo fratello non avrà più la priorità finché non ci siano nuovi risultati».
«Ma signor direttore…»
«Non si discute, Eppes. La decisione è presa. La smetta di inseguire fantasmi».
«Signore, non posso…»
«Ma dovrà. Anch'io non posso più aiutarla; la decisione viene dall'alto. L'accetti, Eppes. Non può fare altrimenti. E si goda il suo fine settimana libero».

Si goda il suo fine settimana libero. Stevens aveva voluto schernirlo con questo? Comunque quando congedò il suo team, venerdì sera non poteva immaginare nemmeno con tutta la buona volontà quanto quel fine settimana sarebbe stato sopportabile, altro che godimento.
Siccome Robin era ancora ad una conferenza a Memphis, avrebbe potuto probabilmente passato il fine settimana con Charlie. Forse avrebbero fatto un giro in un parco... o avrebbero di nuovo giocato a baseball... o avrebbero semplicemente passato una bella serata con il padre...
Avevano avuto troppo pochi momenti così. Ogni volta il lavoro li aveva interrotti come se fosse più importante di tutto il resto. Ciò che valeva davvero erano le persone importanti, no?

Don fece una smorfia vagamente somigliante ad un sorriso. Le persone importanti... Con questo il suo impiego del tempo libero sembrava chiaro. Se non poteva passare il suo tempo con Charlie e nemmeno con Robin, allora almeno sarebbe stato con suo padre. E non appena Charlie sarebbe tornato da loro, avrebbero recuperato tutto il tempo che avevano perso fino ad ora.
Don provava a non far attenzione ai segnali di panico che erano apparsi al ricordo del suo incubo: la frequenza aumentata della sua respirazione, quello strano dolore al petto, le lacrime che premevano dal fondo contro i suoi occhi...
Non era ancora troppo tardi. Avrebbero ancora potuto sistemare tutto. Dio, Charlie doveva pur essere in un qualsiasi posto su questo mondo! Era solo una questione di tempo prima di trovarlo! E poi sarebbero stati di nuovo tutti insieme. Tutto sarebbe andato bene. E non c'era nessun dubbio che Charlie stesse bene e che sarebbe ritornato da loro in breve.
No. Nessun dubbio... nessun dubbio... al cento percento...
E se non fosse stato così?
Con una determinazione rara in quei giorni, Don respinse quella vocina. Sapeva che Charlie era ancora vivo. Lo sapeva con certezza. Nessuno sarebbe stato in grado di fargli credere il contrario. E dovunque si trovasse, Don l'avrebbe trovato. Non importava che cosa dicessero Stevens e gli altri.

Non era una serata allegra quella che Don stava passando con suo padre, ma per i due era più facile stare insieme che ognuno a casa propria. Così almeno non si sentivano completamente disorientati. Però Don si sarebbe sentito meglio se quella novità schiacciante non lo stesse opprimendo.
Fin'ora, non aveva parlato con suo padre della conversazione del giorno prima con il suo superiore. Semplicemente non ce l'aveva fatta a spiegargli che l'FBI abbandonava la ricerca di suo figlio. E che differenza avrebbe fatto? Per Don era chiaro che avrebbe continuato a cercare suo fratello finché non l'avesse trovato. Con o senza il loro aiuto.
Per molto tempo stettero semplicemente seduti nel soggiorno, in silenzio. La televisione era accesa senza esser notata. Nessuno dei due riusciva a pensare a qualcosa di tanto importante da essere argomento di conversazione.
E in fine Don sentì quanto la stanchezza mentale delle tre settimane passate lo indebolisse dentro. Si chiese stupidamente se dovesse per forza alzarsi la mattina dopo. Non doveva andare a lavoro, allora che ragione poteva esserci per alzarsi? In effetti, vista così, sarebbe potuto perfettamente rimanere lì, su quella poltrona comoda, lasciandosi trascinare, abbandonandosi alla speranza che tutto sarebbe tornato a posto, sognando Charlie, nel suo garage, che faceva giochi di destrezza matematici davanti alle sue lavagne...
«Buona notte».
La voce di Alan lo fece svegliare dal suo torpore. Si sedette e vide suo padre alzarsi pesantemente dalla seconda poltrona e trascinarsi verso le scale.
«Buona notte, Papà» rispose a mezza voce.
Non poteva fare a meno di ammirare suo padre: dimostrava quasi normalità nonostante si accorgesse, proprio come Don, di quello che stava succedendo, che stavano per perdere Charlie.
Don deglutì. L'aveva appeno davvero pensato? Aveva – No. No, non doveva pensare quelle cose. Gli sarebbe parso un tradimento infame. No, se suo padre riusciva a mantenere la speranza, allora lui non si sarebbe lasciato abbattere.
Con uno sforzo non insignificante, anche lui si alzò dalla poltrona, seguendo suo padre su per le scale per passare la notte nella sua vecchia stanza. Non c'era ragione per perdere il controllo. Doveva almeno salvare le apparenze. Se facevano finta che tutto fosse in ordine, allora anche la realtà avrebbe creduto loro prima o poi e avrebbe riportato loro Charlie.
Dovevano semplicemente sperare.

Il sabato mattina svegliò Don con il suo sole californiano. Aprì gli occhi e attraverso la finestra vide il cielo azzurro senza nuvole. Don era certo che fuori facesse già caldo e che sarebbe aumentato durante la giornata. Un giorno perfetto per andare in spiaggia o semplicemente per rilassarsi. Un fine settimana libero perfetto.
Purtroppo, però, non sarebbe mai potuto diventare perfetto senza Charlie.
Don gemette e chiuse gli occhi ancora una volta prima di alzarsi senza esitare dal suo letto. Era il suo giorno libero, bene. Significava che c'era tempo per occuparsi di suo fratello. Doveva pur essere da qualche parte.
Alan era già in cucina che preparava il caffè.
«Buongiorno, Papà».
«Buongiorno Donnie».
Di solito suo padre era sempre di buon umore la mattina, anzi subito dopo essersi alzato. Però Don non aveva nessuna difficoltà a capire perché il saluto mattutino di suo padre era tanto malinconico da quattro settimane. L'entusiasmo era scomparso e aveva fatto posto a una serietà quasi impossibile da sopportare. E poi quegli occhi... Ogni volta che Alan lo guardava Don poteva leggere nelle pupille spalancate, con paura, la domanda che non gli dava più pace: “Sai dove sia?”
Era impossibile avere una conversazione che non fosse forzata e Don uscì in fretta fuori. Suo padre non aveva ancora portato la posta in casa e quello era un ottimo pretesto.
Pochi istanti più tardi, Don si maledisse silenziosamente. Sfogliando la posta, sentì suo cuore stringersi dolorosamente ogni volta che leggeva il nome di suo fratello.
Devo trovarlo, devo semplicemente...
Don si fermò. Una delle lettere era indirizzata a suo padre. Per alcuni magnifici istanti Don fu sollevato nel non dover leggere ancora il nome di suo fratello, finché non si accorse dell'aspetto singolare della busta. Era una lettera amministrativa, senza dubbio, ma non una fattura. Il timbro sulla busta non lasciava nessun dubbio che la lettera veniva proprio dal governo.
Di botto, fu come se Don si fosse elettrizzato. Non poteva pensare che a una sola ragione per cui il governo avesse scritto a suo padre e aveva il chiaro sospetto che la lettera non avrebbe solamente spiegare l'assenza di Charlie, ma anzi avrebbe dato loro una ragione che avrebbero preferito non sentire. Però si proibì di riflettere su cosa avrebbe potuto significare la lettera.
Sentiva il suo corpo intorpidito e camminò come un sonnambulo fino a suo padre al tavolo nella sala di pranzo, già mezzo apparecchiato. Quando Alan lo guardò, Don pensò di poter vedere la propria paura nei suoi occhi, però per saperne di più avevano solo una possibilità.
Una fragilità improvvisa prese possesso di Alan e dovette lasciarsi cadere su una delle sedie del tavolo. Le sue mani tremolavano mentre apriva la lettera e dava un rapido sguardo alle righe. Don credette che avrebbe vomitato quando vide gli occhi di suo padre spalancarsi e le mani trattenere la lettera come in preda ad un dolore profondo. Infine, gli occhi spalancati fissarono il vuoto e Don tirò il documento dalle dita di suo padre.
Don fissò il foglio, fissò le lettere nere e il bianco dolorosamente abbagliante fra loro. Non si mosse. Non era più capace di fare nulla. Il tremore delle sue mani era l'unico movimento.
Sentiva caldo e freddo allo stesso tempo. Anche se la mente, in preda all’ansia, sembrava aver attutito qualsiasi percezione del suo corpo che ora gli pareva lontano.
Credette di sentir salire in gola un nodo, mentre un’incredibile sensazione di vuoto si diffondeva lentamente e inarrestabilmente nel suo stomaco. Il cuore gli batteva forte nel petto.
Il calore gli salì nella testa. Il suo sguardo volò sopra le righe.
No, ti prego, no, no, ti prego...
Le parole sembravano non volersi far capire. Non comprendeva che cosa voleva dire la lettera. Non voleva comprenderlo.
Un'unica frase attirò la sua attenzione. Un'unica frase distrusse la sua vita.
Per questo ci dispiace doverla informare che suo figlio, il Professor Charles Edward Eppes, lavorando per la sua nazione, è morto in seguito alle ferite riportate”.



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Capitolo 5
*** No. ***


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Uffa... sono molto sollevata che sembrereste disposti a continuare a leggere (e recensire :D) benché io abbia fatto morire Charlie (due volte in un capitolo, ve ne siete accorti, sì?^^)



5. No.

There’s a grief that can’t be spoken.
There’s a pain, goes on and on.
(Les Misérables, Empty Chairs at Empty Tables)

No.
No.
No.

No. Non poteva essere vero. Doveva aver capito male. Charlie non poteva essere morto. Charlie doveva essere vivo. Doveva esserci ancora. Era uno sbaglio.
Realizzava appena che stava scuotendo il capo. Non riusciva a crederci. Non poteva essere vero. Non doveva essere vero. Charlie doveva essere vivo. Non poteva semplicemente…
Ma era scritto lì! Nero su bianco! ...
ci dispiace doverla informare che... Charles Edward Eppes... è morto in seguito alle ferite riportate...
È morto in seguito alle ferite riportate.
Non c'era spazio per altre interpretazioni.
Il tremolio delle mani di Don si trasmise al corpo intero. Un brivido gli corse giù per la schiena. Non era possibile...
La disperazione affiorò dentro di lui: aumentando, gonfiandosi, lo assaliva. Voleva andare via, da Charlie, voleva che tutto ciò fosse solo un brutto sogno, voleva svegliarsi, voleva urlare, voleva strapparsi l'anima dal corpo, voleva darne una parte a Charlie...
Non poteva. Charlie era morto.
Morto.
Charlie.
Morto.
Suo fratello.
Morto.
Non più vivo.
Suo fratello.
Morto.
Charlie.
Don non lo comprendeva. Non capiva che cosa volesse dire.
Charlie è morto. Che significavano quelle parole? Don doveva sapere cosa significassero, ma non riusciva a rifletterci: si sarebbe spezzato se le avesse comprese davvero. Eppure tanto poco poteva sopportare di rimanere ancora in quello stato di stallo; stallo che lo aveva tenuto con sé già da tanto, da quando suo fratello era scomparso, stallo che era durato anche troppo, fino ad ora, fino a quando aveva ricevuto quel messaggio che aveva smosso tutto e lo aveva riportato a terra.
Un atterraggio fallito. E se mai avrebbe potuto riprendere a volare, questo non lo sapeva.
Atterraggio... Adesso conosceva la risposta, la risposta che aveva atteso per tutte quelle settimane, atteso con tremore. Charlie era morto.
«Oh Dio».
Le parole non erano riuscite a lasciare la bocca di Don per pena; solo pochi molecole d'aria erano riuscita ad aprirsi un varco dalla sue labbra verso l’esterno. E benché Don non avesse alcuna concezione della propria mano tremolante, sembrava poter percepire altro, perché ad un tratto si sentì molto male.
Le sue ginocchia cedettero sotto il suo peso e in qualche modo il suo subconscio ce la fece a far cadere il corpo su una sedia.
Lo scuotere del capo divenne più veemente. Non poteva essere. No, quello non stava accadendo davvero. Era semplicemente impossibile che Charlie fosse morto. Doveva esserci una spiegazione semplice per tutto ciò. E per il fatto che Charlie non si era fatto vivo per un mese.
Don si sentiva mancare la terra sotto i piedi. Stava capendo. Lentamente. La sua anima stava ancora resistendo. Il suo spirito però aveva capito. Quella era la spiegazione. La spiegazione per tutto ciò che era accaduto finora. La spiegazione che rendeva tutte le cose logiche.
Logiche, sì. Ma non comprensibili.
Disperato e angosciato, Don cercò lo sguardo di suo padre. Non poteva essere vero, doveva aver capito male qualcosa e finora suo padre era sempre stato lì a spiegargli il mondo intero. Almeno ogni volta che Charlie per caso non c'era stato.
Ma adesso... Sembrava era come se Don fosse abbandonato a se stesso, senza alcun sostegno. Suo padre non sembrava essere in grado di comprendere le cose successe, né di poter spiegare a Don che cosa c'era da fare adesso. E Charlie...
Dio, Charlie...
Le lacrime scesero. Don non tentò neanche di fermarle. Charlie... Era vero. Suo fratello non c'era più. E non sarebbe più tornato. Non sarebbe mai più entrato dalla porta parlando di qualche equazione matematica. Non avrebbe mai più fissato il laghetto dei Koi con quello sguardo di concentrazione. Non avrebbe mai più calcolato davanti alle sue lavagne. Non avrebbe più fatto niente. Era morto. Morto e basta. Semplicemente non era più lì.
No... no, ti prego, no...
Non poteva ancora crederci. Eppure era vero. Charlie era morto. E lui non avrebbe potuto cambiare nulla.


- - -


Alan sentiva caldo. E freddo. Tremava e gli pareva di avere la febbre. Respirava velocemente, ma l'ossigeno non voleva entrare nei suoi polmoni. Proprio come nei polmoni di Charlie che adesso erano da qualche parte in un corpo morto, solo, abbandonato...
Due liquidi provavano allo stesso tempo a lasciare il suo corpo. Le lacrime furono più veloci; l'altro liquido, invece, gli diede tempo per barcollare fino in cucina e piegarsi sul lavandino.
Il sapore schifoso nella sua bocca gli fece tornare in mente ancora di più l'immagine della morte e dei cadaveri e rimase piegato sul lavandino. Non aveva la forza di sollevarsi e delle lacrime scorrevano sul suo viso. Non poteva essere, non poteva essere la realtà, non poteva...
Alan tentava di capire cosa fosse successo e allo stesso tempo di ignorare la verità. Voleva sapere perché,
doveva sapere, ma sapeva anche non l'avrebbe potuto sopportare.
Non può essere...
Charlie era morto. Il più piccolo dei suoi figli era morto. Non era più vivo e non sarebbe più tornato da lui. Non l'avrebbe mai più visto e non gli avrebbe più parlato. Charlie era morto.
Alan singhiozzava così forte che poteva appena respirare; ma non gli importava. Sarebbe soffocato, e allora? La sua vita non aveva più senso né valore. Suo figlio era morto e lui era ancora vivo – questo era troppo crudele per continuare ad esistere.
Aveva fallito, come padre. Non era stato in grado di proteggere suo figlio, suo e di Margaret. Dopo la sua morte la responsabilità si era trasferita completamente su di lui e lui aveva fallito. Per la seconda volta.
Non aveva protetto sua moglie. Non aveva potuto proteggere neanche lei dalla morte. Tuttavia non era la stessa cosa. Era stato diverso con Margaret: avevano potuto congedarsi da lei. Sapevano che non sarebbe tornata. Era diverso con Charlie.
Alan si sentiva male. Miserabile. Non voleva più vivere. Le lacrime continuavano a scivolare giù sulle sue guance, ma lui non le voleva più. Voleva che si fermassero, che il dolore si fermasse, che tutto si fermasse. Voleva essere di nuovo con Charlie...
Delle mani si posero sulla parte superiore delle sue braccia, facendolo delicatamente voltare. Un attimo dopo i due Eppes rimasti si abbracciavano. Avevano bisogno di quel sostegno, soprattutto perché, in quel momento, era l'unico.
Ora non solo sul volto di Alan, ma anche su quello di Don le lacrime scivolavano senza ritegno. Ed Alan in quel momento realizzò che non poteva darsi per vinto. Non era da solo. C'era ancora Donnie. E non poteva piantarlo in asso. Doveva lottare. Doveva superare il dolore. Ce l'avrebbero certamente fatta.
In un modo o un altro.
O forse no.
Il dolore non era sopportabile ed Alan non sapeva per quanto ancora avrebbe tenuto duro. Era semplicemente così ingiusto... Charlie non sarebbe dovuto morire, non così presto, non ora che tutto stava andando tanto bene per lui. Sembrava aver superato la morte di Margaret, si era riavvicinato molto a Don, aveva un lavoro redditizio e anche divertente ed una relazione seria con una donna meravigliosa.
«Amita deve saperlo».
Don fissò suo padre. La voce rauca, tremolante, era insopportabile. Poi le parole entravano pian piano nel suo cervello e qualche istante più tardi seppe che suo padre aveva ragione. Amita doveva sapere che il suo ragazzo non sarebbe più tornato da lei e non dovevano essere terzi a dirglielo.
Tremante, Don inspirò. «Va bene. Andrò da lei».
Alan lo guardò con un'espressione che lo fece rabbrividire. Suo padre sembrava talmente privo d'aiuto, talmente privo di speranza, talmente privo di vita. Tanto inadeguatamente grato del fatto che Don si fosse offerto di farlo. Non ce la faceva nemmeno a chiedergli se fosse veramente sicuro di volerlo fare, per paura che suo figlio avesse potuto cambiare idea.


- - -

Poche ore dopo, Don si trovava davanti alla porta dell'appartamento di Amita. Non appena aveva pensato di aver accumulato abbastanza forza, aveva letto ancora una volta la lettera – e poi di nuovo e di nuovo ancora – e malgrado fosse più difficile del solito capire, ora la conosceva a memoria. Non poteva esserci dubbio, Charlie era morto, l'avrebbero riportato nei prossimi giorni. L'avrebbero portato a casa.
Non gli avevano detto la data esatta della sua morte, probabilmente perché nessuno potesse svolgere un'inchiesta che mettesse in pericolo la sicurezza nazionale. In ogni caso, per Don, la data era secondaria; Charlie era morto, tutto il resto non importava. Eppure non gli sfuggiva la crudele ironia di quella situazione: gli ultimi numeri della sua vita, la sua data di morte, erano stati negati a un uomo che aveva trascorso tutta la sua vita con numeri.
Non avrebbero mai saputo la data esatta in cui una luce nel mondo si era spenta. Però, con “inizio d’ottobre” lo spazio di tempo era abbastanza chiaro da far capire loro che Charlie probabilmente era già morto quando l’avevano dichiarato disperso. Don aveva tentato per settimane di portarlo indietro, senza sapere, in realtà, che Charlie non sarebbe mai ritornato nel mondo dei vivi.
La rabbia voleva esplodere dentro di lui. La rabbia verso quell’agenzia, la rabbia per non aver detto loro niente, la rabbia perché non si sapeva nulla neanche adesso. Cos'era successo? Come era stato possibile che le cose fossero arrivate fino a quel punto?
Tuttavia la rabbia non esplose. Rimase a crogiolarsi lì, in fondo all’anima, un motore che lo manteneva vivo, ma non riusciva a penetrare fino in superficie. Veniva soffocato dal lutto.
Non avrebbe lasciato andare suo fratello al primo posto. E nemmeno l'aveva voluto. Quando Charlie li aveva messi di fronte alla sua decisione, due mesi fa – due mesi, gli sembravano due anni – Don aveva già avuto un cattivo presentimento. Tutto era successo così in fretta. E tutto in un modo talmente oscuro... Aveva tentato di dissuaderlo. Aveva addirittura creduto di vedere indecisione in Charlie; lui stesso doveva aver avuto scrupoli. Apparentemente però li aveva superati.
Già tre giorni dopo Charlie era partito, la mattina presto, senza che Don fosse riuscito a vedere nemmeno un rappresentante di quell’ominoso ufficio e senza che fosse riuscito a impedirlo. Charlie era andato con loro. E non era più tornato.
Per qualche secondo Don semplicemente restò immobile davanti alla porta di Amita, tentando di respirare profondamente e di concentrarsi. Quando si accorse che non sarebbe cambiato nulla, suonò il campanello. Mentre aspettava gli venne in mente quante volte Charlie era già stato lì, aspettando, esattamente come lui. E che non l'avrebbe fatto mai più.
La porta si aprì e Don tentò di tornare alla realtà. Non riuscì a proferire parola e anche Amita non disse niente. Lo guardò solo negli occhi ombreggiati – erano arrossati? La luce del tramonto nel corridoio non le permetteva di giudicarli – mentre i suoi stessi occhi si spalancavano. Don rimase muto. Lei barcollò qualche passo indietro. Scosse il capo leggermente.
«Che... che è successo?»
«Amita...» Don si avvicinò lentamente, ma la giovane donna retrocedeva sempre più. Come se fosse spaventata da lui. Oppure dalla verità che portava.
«Mi dispiace».
Amita scuoteva ancora leggermente, ma persistentemente il capo, anche se non poteva più retrocedere. Il cassettone nel corridoio le era d'impiccio.
«Amita... è morto».
Ancora lo scuotere del capo.
«No» bisbigliò poi a voce bassa. «No».
I suoi occhi si riempirono di lacrime e quando Don la prese in braccio lei crollò. Singhiozzava senza ritegno. Si reggeva appena in piedi. Don, sentendo che anche a lui stava per mancare la terra sotto i piedi, la guidò sul divano nel soggiorno.
Amita non era l'unica a piangere.





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Capitolo 6
*** Time to Say Goodbye ***


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Non posso esprimere quanto felice mi rendete con le vostre recensioni...
Ecco un altro capitolo abbastanza triste, ma la storia non continuerà in tale modo... solo per un altro po' :)





6. Time to Say Goodbye

The skies begin to clear and I’m at rest,
A breath away from where you are.
I’ve come home from so far.
(Les Misérables, The Rain)

Don non poteva credere che lo stesse facendo davvero.
Era davanti al grande specchio accanto alla porta del Craftsman. Guardò verso lo sconosciuto dalla faccia pallida, con gli occhiali da sole, uno sconosciuto che sembrava aver dieci anni più di lui. Lo osservava, la linea amareggiata delle sue labbra, l’abito nero, il portamento rigido. Lo sforzo per conservare la padronanza di sé. Si accorse che il busto dello sconosciuto fremette leggermente quando respirò profondamente, lasciando che l'aria riempisse i suoi polmoni. Un'azione a cui suo fratello aveva rinunciato per sempre.
Dietro gli occhiali da sole, Don fermò gli occhi e si scostò dallo specchio.
Vagabondò per il soggiorno senza meta. Era tutto tanto strano... raramente aveva dovuto aspettare in quella casa, almeno non durante gli ultimi anni. E se anche aveva dovuto aspettare, c'era sempre stato qualcosa da fare nel frattempo.
Ma non ora.
Ora non c'era niente da fare. Non c'era una distrazione. Niente al mondo avrebbe potuto distogliere l'attenzione dai suoi pensieri neri. Niente.
Gli ultimi due giorni erano passati in un clima di completo lutto. Il dipartimento coinvolto non si era ancoro fatto vivo e probabilmente non l'avrebbe mai fatto, ma almeno aveva organizzato il funerale e lo aveva finanziato. Come se questo avesse potuto riparare qualsiasi cosa. Alan e Don avrebbero probabilmente potuto andare contro le loro disposizioni, ma non c'avevano nemmeno provato: erano ancora così depressi per quell’orribile verità e, poi, non potevano immaginare che Charlie avesse potuto volere il suo funerale in un modo diverso da come l'aveva organizzato il dipartimento.
No, non in un modo diverso. Solo più tardi.
Don guardò il vecchio tavolo di legno, illuminato della luce del pomeriggio di tardo autunno. Ricordi della sua infanzia lo sommersero. Ricordi di tanti, tanti anni prima, quando lui e Chiarlie avevano giocato a rincorrersi attorno a quel tavolo. Quando lui aveva fatto lì i suoi compiti mentre Charlie dipingeva. Quando lui aveva fatto i suoi compiti mentre Charlie faceva i suoi calcoli. Quando lo aveva sbirciato, geloso, mentre suo fratello era immerso nei suoi numeri. Come, più tardi, erano stati seduti insieme a quel tavolo, mangiando, parlando, con Margaret, senza Margaret. Anche ora poteva vedere Charlie seduto lì, che conversava animatamente, e rimanere al tavolo diventò quasi insopportabile per Don. Poteva sentire la presenza di Charlie, e questo lo fece sentire indicibilmente solo. Poteva sentire la sua risata e questo lo fece piangere.
«Sei pronto?»
Don sobbalzò. Si voltò a sinistra, dove c'era una mano grave sulla sua spalla. Guardò lungo il braccio in alto e malgrado gli occhiali da sole riuscì ad accorgersi degli occhi arrossiti ma asciutti di suo padre.
Annuì in risposta. Non credeva di esser in grado di parlare adesso. Pesantemente si alzò dal tavolo e lasciò la casa dietro ad Alan. Mentre camminavano verso macchina, Don guardò indietro verso il Craftsman, un'ultima volta. Gli pareva come se avesse dimenticato qualcosa, come se in quel momento di addio stessero dando questa cosa per sempre al passato.

Non proferirono parola finché non furono arrivati alla sinagoga. Non erano i primi; la stanza era già abbastanza piena. Ma naturalmente i loro posti erano liberi.
Sguardi di compassione si soffermarono su di loro, inosservati, mentre andavano avanti in direzione dell’Aron-Ha-Kodesh. Anche Amita e Larry erano già lì. I quattro si abbracciarono fortemente.
Don guardò il viso di Amita. Sapeva che tratteneva a stento le lacrime. Anche Larry sembrava pallido, malaticcio. Sembrava che stesse per vomitare. Don sapeva perfettamente come si sentiva.
Si sedettero e aspettarono l'inizio della funzione. Non sentivano niente di ciò che accadeva loro intorno; i loro pensieri erano vuoti; i loro cuori erano neri e pesanti per il lutto. Non sentivano niente di ciò che accadeva loro intorno, solo il dolore che andava oltre ciò che potevano sopportare.
Il rabbino entrò nella stanza e la fine cominciò. Dapprima dissero una breve preghiera, poi ci furono i necrologi degli amici e dei colleghi. Dissero che uomo impressionante era stato... che cosa aveva compiuto... quale perdita fosse la sua morta per la CalSci, per la sua famiglia, i suoi amici e il mondo intero...
Le lacrime colarono giù dalle guance di Don. Perché nessuno faceva qualcosa? Non poteva essere che Charlie fosse davvero morto, che non sarebbe mai ritornato, doveva... in qualche modo...
Don singhiozzò quasi impercettibilmente, l'unico segno era il sobbalzo delle sue spalle. Voleva essere con Charlie. Non doveva essere via, Don voleva di nuovo vederlo, sentirlo ridere, voleva abbracciarlo.
Il suo sguardo scivolò verso l'urna. Lì dentro c'era suo fratello. Ceneri. Tutto che era rimasto da lui. Polvere.
Don singhiozzò di nuovo. Stava male.

Infine la cerimonia era terminata e figure scure si alzarono in modo grave dalle loro sedie. Don rimise gli occhiali da sole a proteggere gli occhi che continuavano a lasciar andare lacrime.
Si misero in cammino verso la tomba, con una piccola distanza dall'uomo che portava l'urna. Eppure potevano sentire le parole della Chewra Kadischa fin troppo bene: «...Tu sei il mio rifugio e la mia fortezza, il mio Dio, in cui confido. Certo Egli ti libererà dal laccio dell'uccellatore e dalla peste mortifera. Egli ti coprirà con le Sue penne e sotto le Sue ali troverai rifugio; la Sua fedeltà ti sarà scudo e corazza. Tu non temerai lo spavento notturno, né la freccia che vola di giorno, né la peste che vaga nelle tenebre, né lo sterminio che imperversa a mezzodì...»
Le parole giungevano come scherno alle orecchie di Don. Ti coprirà con le Sue penne... E allora perché Charlie era morto? Perché suo fratello aveva dovuto morire? Dov'era stato questo Dio, se davvero esisteva; perché non l'aveva protetto? Perché questa giovane vita si era dovuta spegnere, in piena fioritura, senza aver mai conosciuto il leggero alito di vento della tarda estate, il silenzio dell'inverno? Perché Charlie era stato strappato dalla vita con violenza senza che fosse giunto il suo tempo?
Non era giusto, semplicemente non doveva essere così, era tutto così falso...
Per l'ennesima volta Don desiderò di poter cambiare qualcosa così fortemente che il desidero lo strappò quasi interamente. Non voleva che accadesse, doveva esserci uno sbaglio da qualche parte...
Charlie avrebbe sicuramente scoperto lo sbaglio. Si intendeva di logica. Lui avrebbe riconosciuto l’errore, la cosa che non poteva essere esatta, lui forse avrebbe potuto impedire che quel giorno per Don il mondo crollasse...
Ma Charlie non c'era. Ed era proprio quello lo sbaglio.

La processione era arrivata alla piccola tomba e in modo solenne lasciarono calare l'urna. Non solo a causa del singhiozzo di Amita accanto a lui, Don sentiva le parole del rabbino in modo indistinto mentre quello terminava la cerimonia: «... Che Dio misericordioso copra la sua anima per sempre con le Sue penne e la leghi alla vita eterna e che Charles riposi in pace. Amen».
«Amen» le due sillabe vennero dalla gola gonfia di Don suonando quasi come una. Coprire con le Sue penne... E perché adesso dovresti farlo, se non l'hai ritenuto necessario fin’ora?
Sempre sconvolto dall'ira, Don afferrò la pala e lanciò terra sull'urna. Ecco, hai quello che vuoi. Polvere a polvere. Sei contento adesso?
Non appena la terra colpì l'urna Don sentì una fitta al cuore. Sentì che non era un dio a soffrire per la sua ira, ma Charlie, il suo fratellino morto, e – non ultimo – lui stesso. La mano attorno alla pala si irrigidì.
Voglio essere con te, Charlie...
Don deglutì e prese un'altra pala di terra. Questa volta però lasciò cadere la polvere con calma, giù su suo fratello, dolcemente, come per accarezzarlo...
«Stammi bene, Charlie» bisbigliò, le sue parole soffocate dalle lacrime e impercettibili, prima di voltarsi altrove.

Megan, David e Colby erano venuti. Don sapeva che erano lì, l'aveva saputo da quando Colby aveva detto il necrologio. Senza parole espressero le loro condoglianze. Capivano che in quel momento non c'erano parole che avessero potuto offrire conforto. Lo capivano, perché anche loro sentivano la perdita. Megan piangeva. Anche David e Colby erano più solenni di come Don li aveva mai visti.
Dopo che tutta la processione in lutto aveva preso congedo e aveva espresso loro le condoglianze, Don sentì che anche per loro era arrivato il tempo di dire addio. Solo suo padre, Amita e lui stesso erano rimasti. Sentiva Amita singhiozzare, vedeva il viso pieno di lacrime di suo padre e finalmente sentì che anche lui piangeva in modo sfrenato.
Non sapeva cosa fare adesso. Sapeva che doveva congedarsi, ma non sapeva come. Da qualche parte nel fondo della sua anima aveva continuato a sperare di poter ancora evitare tutto finché non era arrivato al momento di dire addio al suo fratellino.
I suoi pensieri vaghi diventarono un po' più chiari quando realizzò un movimento accanto a sé. Un attimo dopo vide suo padre in ginocchio. Alan stava in ginocchia sull'orlo della tomba del suo figlio minore.
La cosa successiva che Don ricordava era la sua mano sulla spalla di suo padre. La strinse, forte. Non sapeva per quanto tempo rimasero così. Il tempo non importava. Questo era l'ultimo momento con Charlie, e malgrado il dolore appena sopportabile avrebbe desiderato che quest'ultimo momento non passasse mai.





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Capitolo 7
*** Polvere ***


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Di nuovo mille grazie per il vostro interesse e le vostre parole gentili! Però devo dirvi che ci sarà ancora un po' di tristezza - solo un po'! - prima che la storia continuerà in un modo un po' più allegra. Allora vi prego, tenete duro...



7. Polvere


Nothing lasts forever but the earth and sky.
It slips away.
And all your money won’t another minute buy.
Dust in the wind.
All we are is dust in the wind.
Dust in the wind.
Everything is dust in the wind.

(Kansas, Dust in the Wind)

Durante i giorni seguenti Don lavorò come una macchina. Parlava raramente e poco e solo quando era strettamente necessario. Faceva tutto quello che bisognava fare eppure era sempre freddo e indifferente. Quando un giorno l'amministrazione della CalSci chiamò per comunicare alla famiglia che bisognava svuotare l'ufficio di Charlie, Alan non dovette pregarlo a lungo. Per essere più precisi non dovette nemmeno chiederglielo, perché Don sapeva che non l'avrebbe fatto suo padre. Era chiaro che non ci volesse molto perchè si spezzasse definitivamente.
Quando Don arrivò all'entrata principale dell'università, Amita e Larry lo aspettavano già. Erano rigidi e senza movimento, come due figure di pietra, quasi facessero parte della facciata. Il saluto fu senza tante parole, ma affettuoso. Comunque dovevano prendere ogni conforto che potevano ricevere.
Don tirò fuori la chiave dell'ufficio di Charlie. Non avevano dovuto cercarla a lungo; Charlie l'aveva appesa sul pannello portachiavi, prima della sua partenza. Don aprì la porta e per un attimo furono come pietrificati davanti all'ufficio, paralizzati dalla vista che si presentava loro.
Era un caos totale. La scrivania era piena di documenti in un disordine incredibile, sugli scaffali pile libri, altri documenti e oggetti di ogni sorta.
La stanza aveva l'aspetto di sempre.
Se tutto non fosse stato coperto da uno strato sottile di polvere, avrebbero potuto benissimo pensare che Charlie fosse appena uscito dal suo ufficio, forse per prendere un caffè o andare a una lezione o per portare qualche risultato all'FBI.
Sì... se non ci fosse stato quello strato di polvere... la polvere e l'urna al cimitero.

Con uno sforzo immenso Don entrò nell'ufficio per primo, seguito immediatamente da un Larry esitante, e da un'Amita non meno intimidita. Per qualche secondo restarono semplicemente al centro della stanza senza sapere cosa fare. Era talmente difficile... Tutto lì dentro faceva pensare a Charlie. Come se non stesse già abbastanza nei loro pensieri, ma questa volta... Charlie era così vicino a loro in quell'ufficio – in ogni foglio di carta, in ogni tratto di gesso sulla lavagna – che potevano quasi percepire il suo spirito. E allo stesso tempo erano coscienti che Charlie non sarebbe mai più tornato.
I tre respirarono gravemente e vennero attirati verso tre diverse reliquie di Charlie.
Lo sguardo di Don cadde immed
iatamente su un documento sulla scrivania, perché era uno dei pochi oggetti nella stanza di cui si intendeva. Era la copia di un documento inerente ad un caso a cui Don aveva lavorato poco prima della partenza di Charlie. Spesso gli era parso come se i suoi casi fossero l'unica legame con suo fratello e l'unica ragione per stare con lui. Per un periodo troppo lungo non si era accorto che erano fratelli e che non avevano bisogno di pretesti per stare insieme, e quando era successo era stato troppo tardi.
La parte di Don che pensava in modo razionale, quella che gli aveva sempre permesso di capire le spiegazioni di Charlie sui loro casi, sapeva che suo fratello, con le sue capacità, avrebbe lavorato a progetti segreti per agenzie investigative e altri uffici anche senza di lui. Un'altra parte però era presa dalla paura che la decisione di fare di Charlie un consulente dell'FBI avesse, in modo indiretto, provocato la morte di suo fratello. E probabilmente prevalse quella parte quando Don alla vista di quel documento riuscì a malapena a respirare e un nodo grande come un pugno si formò all’altezza della gola e nello stomaco.

Larry si voltò verso il tesseract, il modello semplificato di un cubo a quattro dimensioni. Conosceva quel modello di Charlie già da tempo, all’incirca da quando aveva conosciuto lo stesso Charlie. Per Larry era sempre stato un simbolo dell'idea che c'erano ancora così tante cose sul mondo che non potevano essere spiegate e nemmeno immaginate. Anche Charlie, il suo protetto di un tempo, era stato uno di quei miracoli del mondo. E adesso il mondo aveva perso quel miracolo.
Era il tempo. Per varie connessioni era considerato la quarta dimensione, la dimensione che quel modello del cubo non riusciva a mostrare. Era il tempo che non capiva. Perché Charlie con la sua mente tanto geniale aveva avuto così poco tempo a disposizione? E come avrebbe fatto il mondo senza di lui? E in che modo il tempo poteva guarire le ferite che ora quasi impedivano a Larry di respirare?
Amita si era avvicinata alla lavagna. Il suo sguardo era troppo sfumato perché distinguesse cosa c'era scritto, ma in un modo quasi magico alcuni di quei segni si fecero strada nella sua mente. Era stato Charlie a scriverli. Riconosceva la sua scrittura, la linea, e lo poteva dolorosamente immaginare davanti alla lavagna, che si voltava di tanto in tanto versi i documenti o il laptop sulla scrivania, lanciando poi uno sguardo alla porta quando lei o qualcun altro erano entrati... Le sembrava come se tutto fosse di nuovo come prima, lei seduta nel suo ufficio e lui che scriveva pensieri rivoluzionari su una semplice lavagna. Eppure non ci sarebbe stato più nessun pensiero e nessuna lettera, nessun segno di Charlie.

Le sue dita scivolarono dolcemente sopra il verde della lavagna. Anche sui punti dove Charlie non aveva scritto erano rimasti segni del gesso, pensieri precedenti. Era cauta, non voleva sfumare i segni di Charlie; voleva lasciar tutto come se Charlie fosse appena uscito dall'ufficio. Non voleva cancellare nessun ricordo. In quel momento le sembrava come se quello fosse tutto ciò che rimaneva di lui – polvere.
E i ricordi dolorosi.


- - -


Don tentava di assimilare tutto a modo suo. Si rigettò nella vita e fece finta di voler tornare alla normalità. Aveva assunto incarichi come quello di svuotare l'ufficio di Charlie per aver qualcosa da fare, sempre confortato dalla vaga speranza che qualcosa avrebbe potuto distrarlo dalla morte di suo fratello. Però aveva dovuto constatare con fitte dolorose che l'ufficio di Charlie traboccava di ricordi che non potevano assolutamente distrarlo.
Anche il suo lavoro non era il massimo per il suo intento. Già il giorno dopo il funerale era tornato al lavoro, e lo stesso giorno era inciampato su un caso in cui avrebbe avuto bisogno dell'aiuto di Charlie. Don aveva deglutito e spinto i documenti con mani tremolanti lontano, sulla sua scrivania. Ma Charlie era rimasto onnipresente nei suoi pensieri.
Il quarto giorno infine, un venerdì pomeriggio, era crollato. Per fortuna non era successo durante un'operazione, ma durante una riunione alla centrale dell'FBI.

In ospedale gli avevano detto che era stata colpa del modo in cui si era trattato negli ultimi giorni: il poco sonno e la poca nutrizione richiedevano una condotta di vita più moderata. Nessuno di loro aveva dato la diagnosi di un cuore spezzato e un'anima fracassata.
Non aveva avuto né la voglia né la forza per le discussioni e così aveva seguito le prescrizioni dei dottori. Aveva preso qualche giorno di ferie – e non c'era nessuno in ufficio che non l'avesse capito – ed era rimasto con suo padre nel Craftsman. A casa di Charlie.
All'inizio avrebbe voluto correre fuori urlando. Ogni cosa gli ricordava il suo fratellino morto. Ma mentre il tempo passava si accorgeva che i suoi sensi diventavano più fiochi. Diventava sempre più intorpidito per quelle sensazioni, anche se sapeva che il dolore era come prima prevalente.
Naturalmente aveva anche pensato a mettere semplicemente fine a tutto, rapidamente e quasi senza dolore. Il tormento sarebbe sparito e lui sarebbe stato di nuovo con Charlie. C'erano momenti in cui credeva di non vedere altra via d’uscita, in cui il dolore diventava semplicemente insopportabile. Ciò che lo manteneva in vita in quei momenti era suo padre o Robin… lo stesso Charlie.
Lo ricordava in ogni dettaglio. Quando la sua ex-collega Nikki Davis si era, almeno apparentemente, suicidata, Charlie aveva fatto un’analisi di suicidio anche per lui; suo padre gliel'aveva detto. E Charlie aveva scoperto che il rischio di Don di suicidarsi era basso perché aveva una famiglia, perché suo padre e Charlie sarebbero sempre stati lì se avesse avuto bisogno di loro.
Ma Charlie non era più lì.
Non come persona. Il suo spirito tuttavia continuava a vegliare su di lui. Un sorriso caldo e incredibilmente fioco era apparso sulle sue labbra al pensiero di come l'analisi di Charlie gli impedisse anche dopo la sua morte di suicidarsi. Certo, non era più lì per tirarlo su dal mare di disperazione, con l'aiuto di Alan e Robin, questo era vero, ma aveva dato a Don la prova che non poteva affondare. Era ancora il suo salvagente.
E comunque Don non aveva riflettuto sul suicidio in modo dettagliato. Dopo la morte di Charlie aveva piuttosto temuto e sentito di essere arrivato al punto da poter fare una cosa del genere. Anche prima della morte di Charlie, di tanto in tanto aveva temuto che il suo lavoro e le immagini scabrose che portava con sé avrebbero potuto spingerlo al di là del baratro, in una depressione tanto profonda da portarlo al suicidio. Soprattutto grazie a quell’analisi, però, si era calmato un po'. Ma quando Charlie, una delle ragione per le quali valeva vivere, se n'era andato, aveva inizialmente creduto che tutto sarebbe finito.
E tuttavia aveva superato quella fase. Avrebbe lottato. Non avrebbe piantato in asso tutti quelli che avevano amato Charlie, così da farli soffrire ancora di più. Conosceva quella sofferenza e non l’avrebbe alimentata.
E inoltre avrebbe lottato per Charlie.
Per Charlie.
Don non poteva spiegare questo pensiero, ma trovava importante continuare a vivere per non deludere suo fratello. Sì, credeva che Charlie non avrebbe voluto vederlo tanto giù. In fondo era strano. Per tanti anni non erano riusciti a capirsi… ed ora che non potevano nemmeno parlarsi, sembrava ci fosse un accordo così forte tra di loro che Don veramente credeva di poterlo sentire nell'aria accanto a lui, che Charlie, per qualche straordinaria ragione, fosse ancora tra loro.

Naturalmente non dimenticava che in realtà era morto. Perché anche se qualche volta pensava di poter sentire la sua presenza, Charlie era sempre talmente lontano che la sua mancanza minacciava di rodere Don dall'interno. In quei momenti provava a essere il più vicino possibile a suo fratello. Andava al laghetto dei Koi oppure camminava a sua casa o andava nel garage e inspirava la polvere del gesso...
Oppure andava al cimitero.

Amita ed Alan avevano deciso di andare al cimitero insieme. Don non ebbe problemi a capire da dove venissero quei fiori freschi sulla tomba, striati di blu, soprattutto considerando che Charlie aveva regalato quella pianta anche a lei. Amita non avrebbe potuto scegliere fiore migliore del nontiscordardimé, benché l'appello non fosse necessario. Nessuno di loro avrebbe mai potuto dimenticare Charlie.
Don si era anche accorto che ogni giorno c'era una rosa fresca sulla terra scura. Charlie non era mai stato un grande amante dei fiori, però quella cura gli sarebbe sicuramente piaciuta. E probabilmente le rose avevano anche qualcosa a che fare con la matematica, proprio come altri fuori. Don ricordava ancora abbastanza bene di quando Charlie aveva spiegato a Terry e David della sezione aurea e di dove poteva esser trovata in natura. La matematica era anche nelle margherite, aveva detto, e l'aveva mostrato con uno dei fiori che, soprattutto dopo la morte di Margaret, riempivano casa.

C'era un pezzo di matematica anche nelle rose? Don non gli aveva mai chiesto.
Con un movimento stanco della mano mise i suoi occhiali da sole nel taschino sul petto della sua giacca. Incominciava a diventare buio e il cimitero non sarebbe stato aperto ancora a lungo. Come se importasse a Don.
I primi giorni era andato lì sempre la mattina, prima del lavoro. Però si era accorto presto che dopo non riusciva a concentrarsi su altra cosa che Charlie. All'inizio non era stata una sorpresa per lui. Solo quando, per il crollo, aveva dovuto spostare la sua visita alla sera, aveva realizzato che era un po' più facile così. Se aveva il proposito di andare al cimitero la sera, aveva almeno una ragione per sopportare tutta la giornata. Ed era più facile parlare con suo fratello quando aveva qualcosa da raccontare del giorno. Don aveva il sospetto cocente che dalla morte di Charlie parlasse più spesso e più lungo con lui che prima. Come se volesse recuperare tutto il tempo perso benché sapesse che non era possibile.
No, si doveva rassegnare. Tutto ciò che rimaneva di Charlie erano i ricordi vividi e la polvere aridamente morta.



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Capitolo 8
*** La vita continua ***


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Grazie per le recensioni e grazie per continuare a leggere!





8. La vita continua


Another hero, another mindless crime
Behind the curtain in the pantomime.
Hold the line. Does anybody want to take it anymore?
The show must go on.

(Queen, The Show Must Go on)

Circa un mese dopo la sepoltura di Charlie, tutti sembravano essere riusciti a tornare a qualcosa di simile alla quotidianità, almeno dall’esterno. Forse era stato servito erigere la pietra tombale per rendersi davvero conto della morte di Charlie, benché avessero ancora difficoltà a accettare la verità. E naturalmente la vita quotidiana era diversa. La mattina, Alan non faceva più colazione con Charlie, ma con Don. Don aveva abbandonato il suo appartamento definitivamente ed ora passava giorno e notte o nella casa che una volta era stata di Charlie o da Robin senza sapere a quale delle due realtà appartenesse. Amita si faceva vedere da loro più raramente e passava le sere e le notti da sola, nel suo appartamento. Larry non sapeva più con chi parlare, né quando aveva bisogno aiuto né per offrire il proprio. La squadra perdeva puntualmente il filo dei pensieri di qualsiasi caso seguisse ogni volta che passava in una delle sale di conferenza in cui Charlie era stato così tante volte.
Nello stesso tempo arrivarono anche gli effetti personali di Charlie che l'agenzia – ancora anonima – aveva finalmente mandato loro. Per due giorni il pacco era rimasto accanto all’ingresso, come dimenticato, ma naturalmente nessuno se n'era dimenticato; come avrebbero potuto? Pendeva su di loro come una spada di Damocle, pieno di pensieri e vividi ricordi di Charlie.
Avevano chiesto a Larry ed Amita di venire per dare una un’occhiata insieme. I due certamente sarebbero stati d’aiuto, non solo per decidere cosa appartenesse al CalSci o a uno di loro, ma anche per un sostegno emotivo.
Aprirono la scatola di cartone e furono immediatamente di fronte ad oggetti pieni di ricordi. Per qualche istante non si mossero, prima di spostare tutti gli oggetti sul tavolo per avere una migliore visione d'insieme.

Nessuno osava prendere l’iniziativa. Finalmente Don si riscosse e aprì il portafoglio di Charlie, sperando che avessero lasciato la sua carta d'identità con la foto. C’era.
Anche gli altri cominciarono a prendere oggetti diversi, con sentimenti misti. Cercando di distrarsi con qualcosa, Larry cautamente prese uno dei libri e lo sfogliò finché uno stelo dal fiore blu non ne cadde fuori. Mentre scivolava a terra e il suo volo era osservato dai presenti come in trance, Amita ricordò come fosse finito in quel libro. Rivide come fosse stato solo il giorno prima Charlie che le dava la piccola piantina prima di partire. All'inizio non ne era stata certa, l’aveva solo sfiorata quel pensiero che lui aveva quasi subito confermato. «E' un nontiscordardimé.»
Era arrossito un po', quel rossore giovanile e affascinante che amava talmente tanto. «Prendilo alla lettera».
Poteva quasi sentirne ancora il profumo e i petali morbidi come velluto sotto le dita quando aveva cautamente spezzato un ramo della piantina e lo aveva messo con cura nel taschino della giacca di Charlie.
«Altrettanto» aveva bisbigliato e il sorriso che si allargò sulle sue labbra ora era solo un po' più triste di quello con cui l'aveva congedato. Per sempre.
Finalmente lo sguardo di Amita raggiunse una collana. Era un semplice filo di cuoio con un piccolo ciondolo cilindrico che terminava a punta.
Amita allungò una mano tremolante che, non appena le dita toccarono il filo, si strinse salda attorno al ciondolo. Sfregava il pendente mentre ripensava al giorno in cui lo aveva regolato a Charlie, due giorni prima della partenza, l’ultima volta in cui aveva parlato con lui.
«Tanti auguri, Charlie!»
Charlie, davanti alla lavagna nel suo ufficio, si voltò con un grande sorriso e l'abbracciò. Quando si separarono, Amita fece comparire una piccola scatolina, come per magia.
«Cos'è?» chiese lui, con quel sorriso onnipresente.
«Aprilo» rispose con viso raggiante e Charlie seguì il suo consiglio con curiosità. Armeggiò con il nastro del regalo finché finalmente non riuscì a aprire il coperchio dalla scatola e suo sguardo rimase fisso sull'obelisco in miniatura intorno al filo di cuoio.
«E' molto bello» disse, sempre di ottimo umore, ma un po' confuso, e la guardò negli occhi, in attesa. «Che cos'è?»
«E' un talismano, viene dell'India».
Con un sorriso Amita allungò la mano verso la scatolina armeggiando con il pendente finché le sue abili dita non ne svitarono un'estremità ed tirarono fuori un piccolissimo foglio, circa tre centimetri per tre. Lo spiegò e lo diede a Charlie.
Gli occhi del matematico si allargarono quasi quando realizzò cosa avesse tra le mani. «E'...» Verificò la sua teoria ancora una volta. Amita ne era certa dai movimenti dei suoi occhi. Lungo le colonne... le righe... le diagonali... e le diagonali rotte: facevano tutte la stessa somma. «E' un quadrato panmagico!»
Il viso di Amita era raggiante. Era stata certa che Charlie l'avrebbe riconosciuto così velocemente.
«Esatto. I quadrati magici vengono dall'India e secondo quel che si dice portano fortuna». Esitò per un istante. «Ti proteggerà quando comincerai la missione segreta».
Quando aveva detto quell'ultima frase, il suo sorriso sembrò per la prima volta un po' forzato, ma Charlie la calmò subito.
«Sono sicuro che lo farà».
Sapevano tutti e due di non credere nella forza protettiva di qualche numero scritto su un foglio in un ciondolo attaccato a un filo di cuoio; erano sciocchezze. Però questo non rese il regalo meno prezioso. E poi sarebbe stato in grado di dare la forza a Charlie, malgrado tutto, semplicemente perché sapeva che a casa c'era qualcuno che pensava a lui.
Con un bacio tenero e un abbraccio forte che avrebbero dovuto esprimere tutte le cose non dette – e lo fecero – Charlie la ringraziò.
Si strinse contro lui, forte. Non avrebbe mai dimenticato quei contatti, avrebbe sentito in eterno la sensazione delle sue labbra sulle proprie, le sue mani che accarezzavano la sua schiena...
Amita singhiozzò. Era talmente ingiusto, talmente irreale. Perché il talismano non aveva potuto proteggere Charlie?
I suoi singhiozzi divennero più forti senza avere più quella mano calda sulla schiena a consolarla. Certa che nessun talismano al mondo l'avrebbe potuto proteggere. Erano tutte sciocchezze. Avrebbe dovuto dargli qualcosa di veramente utile, forse in quel caso avrebbe funzionato, forse Charlie sarebbe sopravvissuto se non gli avesse dato quella stupida cosa. Forse in quel caso adesso sarebbe ancora con lei.
Con dita tremolanti riuscì in qualche modo ad aprire il pendente: voleva tirare fuori il pezzo di carta. Ma non poté: non c'era più.
Amita aggrottò la fronte mentre le lacrime continuavano a scorrerle sul il viso. Perché il foglietto non era più lì? Charlie l'aveva perso? E perché l'aveva tirato fuori? O forse l'avevano tirato fuori dopo? E se era così, chi l'aveva fatto? E perché?
C'erano talmente tante domande... talmente tante domande e non avrebbe mai saputo le risposte.

- - -

Qualche risposta, almeno, era nella lettera che avevano mandato assieme agli effetti personali. Come la prima, era indirizzata ad Alan e proveniva direttamente dal governo. Questo perciò non specificava ancora l’agenzia che l’aveva inviata.
Non avevano detto loro molto, ma era stato abbastanza da calmare il desiderio di giustizia di Don. "Loro" – chiunque fossero – erano molto dispiaciuti per l'incidente e il lutto provocato ai parenti. Perciò erano anche delusi di non poter dire di più alla famiglia circa ciò che era realmente accaduto, ma la sicurezza nazionale chiedeva estrema discrezione e loro chiedevano la comprensione dei congiunti. Potevano solo informarli che Charlie era stato dislocato in un focolaio di crisi, ben protetto e tutto sommato senza rischio. Però il giorno in questione, un gruppo di radicali aveva commesso un attentato proprio nell’alloggio che ritenevano sicuro. Charlie era morto carbonizzato dal fuoco dell'esplosione, il suo corpo però era stato trovato e identificato senza dubbi, date le circostanze si erano presi la libertà di cremarlo. I terroristi che avevano commesso l'attentato erano già stati trovati e consegnati alla giurisdizione del posto; tuttavia non potevano comunicare i loro nomi. Alan e Don però potevano star certi che la morte del loro figlio e fratello era stata punita dalla giustizia.
Don aveva sperato di sentirsi meglio appena saputo che i responsabili erano stati puniti, ma dentro di sé non avvertì né trionfo né soddisfazione. Forse perché non aveva ancora informazioni dettagliate sulla morte di Charlie. O forse perché le spiegazioni della lettera non cambiavano il fatto che Charlie fosse morto.

- - -

Don si aspettava che avrebbe sofferto di meno. Ma non accadde. Sapeva che il dolore non l’avrebbe mai completamente abbandonato, ma si diceva che si sarebbe attutito col tempo, no? Era stato così con Margaret, quando le settimane e i mesi erano passati.
Ma non stavolta.
Quando Don pensava a Charlie – cioè quasi sempre – riusciva appena respirare. Sul suo petto e sulla sua gola gravava una pressione che semplicemente non voleva andarsene.
Erano passati giorni e settimane e mesi. Sei mesi dalla catastrofe. E ancora Don non riusciva a venire a capo della situazione. Non era l'unico che faceva fatica. Suo padre, Amita e Larry sembravano colpiti altrettanto duramente per tornare alla loro vita normale.
Solo la squadra sembrava di essersi ripresa. E non solo questo. Si aspettavano anche da Don che incassasse la morte di suo fratello così facilmente, che dimenticasse Charlie e continuasse a vivere la sua vita come se niente fosse successo. Non lo dicevano, ma Don sentiva i loro sguardi come se gridavano “Dai, Don” oppure “Non essere troppo triste” e ancora “Torna alla vita”. Ma non poteva. La morte di suo fratello glielo rendeva impossibile perché senza di lui quella vita non esisteva più.
«Don? Siamo riusciti a trovare la sorella».
Don levò lo sguardo e si destò lentamente dai suoi pensieri. Era in ufficio e aveva appena tentato di concentrarsi sul loro caso. Un omicidio in una banda di spacciatori di alto rango. Un tipo che aveva ucciso suo fratello. Don non riusciva a comprendere quell'uomo.
«Sì...» La sua voce era quasi inesistente e dovette schiarirsi la gola. «Vabbè Colby. Tu e David, voi... potete andare da lei».
Colby guardò il suo capo con compassione. Don era cambiato in quei sei mesi. Era diventato più silenzioso, quasi depresso. Si lasciava distrarre più facilmente, non era più così determinato e i suoi ordini erano senza convinzione e sicurezza. Naturalmente Colby, David e Megan non si erano mai aspettati che Don incassasse la morte di Charlie come se niente fosse successo. Ma… poco a poco...
Colby si fece animo. Prima o poi avrebbe dovuto smetterla di stare così.
«Don... noi tutti sentiamo la mancanza di Charlie. Ma il modo in cui tu... Avanti, non è normale, davvero. È terribile, lo so, ma la vita continua».
Don lo trapassò con uno sguardo che Colby non poté descrivere, ma che gli faceva rizzare i capelli. Le prime parole furono fredde e controllate, ma si persero in una gola gonfiata e un timbro soffocato.
«No, non continua. Almeno non per Charlie».
Don fu sollevato quando Colby, il viso rosso, si allontanò verso la sua prossima testimone. In quel modo almeno nessuno avrebbe potuto vedere l'umidità nei suoi occhi.
Affondò di nuovo nelle tortuosità dei suoi pensieri e non riemerse finché il suo cellulare non squillò. Lentamente, con movimenti stanchi, lo tirò fuori. Numero sconosciuto. Don sospirò, malinconico, e rispose alla chiamata.
«Eppes».
«Buongiorno, signore. Questo è la Clinica Alessio-di-Roma. Avremmo qualche domanda per lei».
Don aggrottò la fronte. Non aveva mai sentito nulla circa una clinica con quel nome. Era solo uno stupido scherzo telefonico? O una chiamata di pubblicità? In ogni caso avrebbe certamente aumentato il suo malumore.
«Non conosco questa clinica» rispose perciò abbastanza bruscamente. «Che vuole?»
L'infermiera o quello che era non si fece scoraggiare. «Lei conosce un uomo bianco, circa trent’anni, capelli scuri e ricci, occhi scuri?»
Per un attimo Don fu tentato di rispondere "No, ma lo conoscevo", però non ne ebbe il cuore.
Disse semplicemente: «Sì. Perché?»
«Chi è?»
La rabbia montò in Don. Che cosa voleva quella donna? Perché gli chiedeva quelle cose?
«Charlie Eppes. Era mio fratello». La risposta suonò sgarbata: la rabia era una protezione efficace per soffocare il dolore. Almeno faceva effetto di solito.
Quando Don sentì le parole che venivano dalla sua bocca, fermò gli occhi per un istante, sentendo con riluttanza una lacrima sulla coda dell'occhio. Deglutì velocemente e poi continuò con malagrazia: «Perché vuole saperlo?»
«Era suo fratello?» chiese la donna.
O quella tizia era sorda o voleva solo farlo imbestialire. E se era questo che voleva, ci stava riuscendo.
Don respirò profondamente. Per un attimo si chiese perché non aveva attaccato. Ma quella donna gli stava parlando di Charlie... Faceva male, certo. Ma Don non voleva smettere.
Con una voce più calma continuò. «Era un matematico e ha lavorato per un'unità speciale ad un progetto segreto. Durante questo è stato ferito gravemente ed è morto».
All'altra estremità ci fu silenzio per qualche secondo e Don ebbe tempo per socchiudere gli occhi. Purtroppo non aiutò. Con impazienza si tolse le lacrime dal viso.
«Quando è successo l'incidente?»
«Sei mesi fa. Perché mi fa queste domande?»
Se la donna non l’avesse snervato tanto, forse le avrebbe potuto dare anche informazioni più esatte. Il giorno preciso della morte di Charlie: cinque mesi e cinque giorni fa. La scomparsa di Charlie: sei mesi e cinque giorni fa. L'ultima chiamata di Charlie: sei mesi, cinque giorni e sedici ore fa. Le sue ultime parole: "A presto".
La gola di Don si strinse ancora più forte prima e si morse su un labbro. Tuttavia, il singhiozzo sfuggì dalla bocca.
«Perché vuole sapere tutto questo?» ripeté, più forte e adirato di prima. Non potevano semplicemente lasciarlo in pace, non potevano semplicemente smettere di chiedergli della morte di Charlie, non potevano semplicemente smettere di fargli ricordare continuamente quei momenti orribili...?
«L'intera faccenda è un po'... strana» finalmente la donna cominciò a sputar fuori «Abbiamo qui nella nostra clinica un paziente che ha perso la memoria e che concorda con la descrizione di suo fratello. La notte scorsa ha sognato di una serie di numeri che è risultata essere questo numero di telefono. Devo ammetterlo, il fatto che si ricordi i numeri che si sogna… non ho mai sentito una cosa del genere! In ogni caso crediamo che si tratti di suo fratello, signor… – qual è il suo nome?»

Don non aveva ascoltato attentamente la voce; insensibile, incredulo, come in sovraccarico. Che – che cos'aveva detto? Aveva parlato di Charlie... cosa aveva detto? Avevano un paziente in quella clinica che somigliava a Charlie, che sognava numeri, che...
«Ehi? Signore?»
«Non è possibile».
Don rabbrividì quando il suo cervello realizzò la freddezza e la lontananza delle sue parole. Ma non era possibile, Charlie era morto, era morto, morto...
«Posso faxarle la fotografia della sua cartella clinica. Ha un fax? Qual è il numero?»
Automaticamente, lo sguardo di Don si trascinò sui numeri sull'apparecchio. Numeri. Senza veramente sapere che cosa stesse facendo, li dettò. La sua voce era rauca, la sua bocca e la gola ad un tratto secche come la polvere.
«Va bene. Dunque, le mando adesso il fax. Per favore ci chiami appena è sicuro se conosce l'uomo o meno. Riceverà il nostro numero sul fax. A risentirci!»
Don fissò il ricevitore. Aveva ancora difficoltà a capire che cosa aveva appena detto quella donna. O meglio, a comprendere dove fosse l'errore. Perché era ovvio, non poteva essere, Charlie era morto, era morto, morto...
Uno strepito elettronico lo strappò dal suo stato di choc e lentamente levò gli occhi sull'apparecchio per i fax. Il foglio si arrotolò e cadde a terra. Con mani tremolanti Don lo raccolse e lo svolse.

Occhi grandi e pieni di espressione lo guardavano dalla foto e immediatamente lo attirarono a sé. Nonostante la copia fosse in bianco e nero, sembravano aver mantenuto il loro timbro di un marrone caldo. Don conosceva quegli occhi. Avevano una familiarità dolorosa con gli occhi che si erano fermati troppo presto.
Mentre Don fissava gli occhi, si mossero. Tremarono. Tutta la faccia fece movimenti tremanti e inquieti, proprio come la mano che teneva il foglio, proprio come l'intero corpo di Don il cui diaframma si contrasse dolorosamente.
«Che cos'è?»
La testa di Don si girò di scatto quando la proprietaria della voce gli mise una mano sulla spalla.
«Oh» disse Megan quando riconobbe che cosa stava fissando Don e trasalì, spostandosi un po' indietro. Esitò.
«Dove hai preso questa foto?»
Don fissò con occhi spalancati – e arrossati, come constatò Megan – prima la sua collega a lungo e poi di nuovo il foglio di fronte a lui. Senza levarle lo sguardo dal viso le chiese: «Chi è?»
Megan era confusa, anzi di più, era inquieta. Don non stava affatto bene in quel periodo, e sul serio: chi lo avrebbe biasimato?
«E' Charlie, chi altro?»
Vide come Don deglutì prima che la sua voce stridula suonasse di nuovo.
«Davvero?»
«Certo. Che hai, Don? Cos'è –»
Però non finì la sua domanda. Era troppo occupata a seguire i movimenti delle mani di Don che tremolarono inquietamente verso il telefono. Una mano prese il ricevitore, lo strinse forte, mentre l'altra tentò di digitare i numeri del fax. Non ci riuscì; era troppo inquieta, troppo tremante.
La mano venne spinta da parte da un'altra più piccola che sembrava sia aver realizzato che cosa volesse fare la prima, sia aveva la forza e la calma per farlo.
«Qual è il numero? Chi vuoi chiamare?» volle sapere Megan, ma Don non la sentì.
La sua concentrazione era diretta sul segnale di libero che venne poco dopo sostituito da una voce femminile.
«Clinica Alessio-di-Roma, cosa posso fare per lei?»
«Eppes... Mi ha appena chiamato. Si trattava di Charlie, mi ha mandato la sua foto».
«Ha riconosciuto la persona?»
«Sì». La voce di Don non tremava meno delle sue mani o il suo corpo.
«Sì... è... E' mio fratello».



- - -
Beh', non avete veramente creduto che potessi uccidere Charlie all'inizio di una storia così lunga, vero?^^








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Capitolo 9
*** Rinascita ***


nonti09

Grazie per le ricensioni!
Spero che continuiate a leggere e che la storia non diventerà troppo noiosa per voi...




9. Rinascita


It takes a thought to make a word,
And it takes some words to make an action.
And it takes some work to make it work,
It takes some good to make it hurt,
It takes some bad for satisfaction.
Life is wonderful.
Life goes full circles.

(Jason Mraz, Life Is Wonderful)

Don aprì la porta della Craftsman. Lentamente entrò in casa, levandosi con una calma sforzata la giacca.
«Don?»
Suo padre uscì dalla cucina. Sembrava un po' sorpreso, ma Don non ne era sicuro. Dalla scomparsa di Charlie, le emozioni di Alan erano sempre più difficili da interpretare. Ogni sentimento era offuscato da una nuvola scura che non si decideva a sparire. Forse Don aveva solo immaginato la sorpresa perché doveva semplicemente esser lì, perché era logica, perché in realtà Don non avrebbe dovuto essere a casa. Il lutto, però, non l’aveva immaginato.
Come avrebbe reagito Alan?
«Ciao, Papà».
«Che è successo?»
Don avrebbe dovuto sapere che non poteva ingannare Alan. Il suo orario di lavoro non era mai stato regolare, ma generalmente tornava più tardi e non prima. Tranne, naturalmente, se era successo qualcosa.
«Dobbiamo parlare».
Don notò che suo padre divenne un po' più pallido e quasi si pentì delle sue parole. Non avrebbe voluto spaventarlo. Non voleva farlo stare sulle spine. Era solo che non sapeva come dare le notizie.
Eppure questa era una buona notizia! E anche se Don era più esperto nel portare notizie di morte che quelle contrarie, era tuttavia sorpreso dalla tanta difficoltà che provava in quel momento.
Forse perché non era qualcuno del tutto sconosciuto, ma suo padre.
Forse perché per sei mesi aveva creduto che Charlie fosse morto.


Alan e il suo figlio maggiore si sedettero al tavolo da pranzo.
«Ho ricevuto una chiamata oggi» cominciò Don.
Non sapeva come continuare e le parole vennero dalla sua bocca semplicemente così, senza un piano. Forse, in ogni caso, avrebbe dovuto riflettere su come dirglielo. Ma questo avrebbe richiesto pensieri quanto meno sensati.
Suo padre lo guardò in modo – sì, in che modo? Interessato, interrogativo, curioso? No. No, una chiamata all'ufficio di Don non aveva la priorità per Alan. Vuoto. Vuoto era l'espressione giusta. Giusta e talmente falsa.
Don continuò, sempre senza sapere come dare la notizia.
«Era una clinica da qualche parte in Nebraska. Una clinica psichiatrica privata per persone con disturbi di memoria o altro, fondato da un imprenditore cattolico... ma non importa».
Don si era informato; non aveva voluto informare suo padre senza avere indizi. Però tutto ciò che aveva trovato sembrava così incredibilmente inappropriato in confronto a quello che avrebbe voluto dire per primo. Deglutì. «In ogni caso… mi hanno mandato una foto. Di Charlie».
Don armeggiò con la copia piegata con precisione, tirandola dal taschino interno della sua giacca e la mostrò a suo padre. Siccome conosceva già ogni dettaglio della foto, la sua attenzione fu diretta all’uomo, così che non poterono sfuggirgli le lacrime fresche che scivolarono lungo le sue guance. Notò che gli angoli della bocca di suo padre trasalirono brevemente come se avessero avuto quasi intenzione di sorridere, e Don suppose che in quel momento Alan avesse guardato la bocca di Charlie, quella bocca che aveva una certa somiglianza con quel gesto: un angolo quasi impercettibilmente tirato su, come se non fosse sicuro se dovesse o volesse o potesse sorridere. Però era talmente impercettibile il gesto sulla foto, che tanto rapidamente era scomparso anche dal viso di Alan. Nessun sorriso più, non l'ombra più vaga di allegrezza, e Don sapeva che gli occhi di Alan adesso fissavano quelli del suo figlio minore. E gli occhi di Charlie in quella foto non erano fatti per provocare un sorriso. Avevano perso troppo della loro intensità: lo sguardo era quasi apatico. Però più di tutt'altro c'era una tristezza infinitamente profonda.
«Da dove viene questa foto?» chiese Alan e la sua voce era instabile.
«La clinica dice che è la foto di una cartella medica di uno dei loro pazienti».
Alan levò lo sguardo brevemente con una domanda silenziosa scritta sul suo viso pieno di speranza.
«Vuol dire…» continuò Don, e anche la sua voce era soffocata, mentre tentava di scegliere le sue parole deliberatamente, «che hanno un paziente che ha l'aspetto di Charlie».
Alan levò la testa. Don vide le lacrime scintillare nei suoi occhi e non seppe come comportarsi finché non si accorse che anche nei propri c'erano lacrime. Solo allora, dopo averle dette a suo padre, cominciò non solo a capire quelle parole, ma anche a sentirle: Charlie –... C'era la possibilità che Charlie fosse ancora vivo!
Ma come? Avevano ricevuto la notizia della sua morte, l'avevano seppellito, avevano vissuto sei mesi credendo che Charlie fosse morto... E finora non era tornato, era rimasto morto...
No, no, no, tutto quello era troppo. Non poteva essere, eppure sembrava così. La loro speranza era rinata. Eppure non potevano lasciarlo accadere. Perché se la speranza si fosse spezzata, c'era un grande pericolo che anche loro si sarebbero spezzati.


- - -


Don si sentiva come un prigioniero. I suoi pensieri continuavano circolare attorno a Charlie, sempre con la stessa domanda “Può essere?” e non lo lasciavano andare. Tentava di sfuggire, di calmarsi, ma era nervoso e quasi non riusciva a sopportare il tempo d'attesa.
L'aeroplano aumentava questo sentimento di prigionia e Don desiderava ardentemente che andasse più veloce, portandolo alla risposta, ma la sua volontà naturalmente non poteva influenzare le leggi della meccanica. L'aereo andava veloce – ma non avrebbe mai potuto essere più veloce solo per volontà di Don e di suo padre.
Comunque erano stati fortunati. Due passeggeri avevano rinunciato al volo e due posti si erano liberati all'ultimo momento, così che erano potuti andare in Nebraska il giorno dopo la chiamata della clinica. Si erano dovuti presentare all'aeroporto praticamente di notte e questo aveva dato loro un pretesto per non provare nemmeno ad addormentarsi. Erano talmente tesi che non riuscivano nemmeno a stare sdraiati senza muoversi nervosamente.
La clinica aveva proposto loro di andare lì, se potevano, per accertarsi di persona se il paziente fosse davvero il membro della loro famiglia. Don avrebbe preferito parlare prima con Charlie – o chiunque fosse – ma l'infermiera non aveva dato il suo consenso. Il loro paziente non doveva, inaspettatamente, sentire una voce distorta dal telefono, senza poter collegare mentalmente ad essa un volto – era un paziente che soffriva di amnesia: aveva dovuto sopportare molta confusione nelle settimane e nei mesi passati. Don aveva dovuto deglutire; avrebbe dovuto ancora aspettare prima di averne la certezza.
Ma è certo, disse una vocina disperata nella testa di Don. Charlie è morto, l'abbiamo sepolto, abbiamo ricevuto la lettera. E' morto! Ma allora chi era l'uomo che assomigliava tanto dolorosamente a Charlie? Forse era proprio lui, nonostante tutto? E c'era stata confusione quando li avevano informato della morte? E l'amnesia era talmente ben adatta a questa teoria... Per favore, ti prego, fa che sia Charlie, per favore, ti prego...


L'aereo atterrò dolcemente e solo mezz'ora più tardi Alan e Don fermarono un taxi davanti all'aeroporto. L'autista li guardò con sopracciglia inarcate quando gli diedero l'indirizzo: la clinica era fuori città e occorrevano due ore di macchina. Tuttavia non si fecero mettere in imbarazzo, e quando gli assicurarono che avevano abbastanza soldi per la corsa, l'autista del taxi alzò le spalle e mise in moto.
La corsa non sembrava avere fine. Non c'era tanto da vedere in strada, ma comunque niente li avrebbe potuto distrarre da Charlie. Forse, forse l'avrebbero di nuovo visto fra poco...
La clinica si trovava a quattro o cinque miglia da una cittadina, nel verde, oppure, come sembrava a Don, nel nulla. Forse il posto lì era abbastanza bello, però la clinica era immensamente isolata dal resto del mondo.
Pagarono l'autista, anche per il ritorno. Si sentirono come traditori quando gli chiesero di aspettare un'ora e di non tornare in città fino ad allora. Ma se lo sconosciuto di quella clinica non fosse stato Charlie, non volevano rimanere lì più del necessario.

- - -


Andarono alla reception nella piccola sala principale della clinica e si presentarono. Avevano un po' di difficoltà a spiegare la faccenda. Siamo venuti a prendere Charlie? E cosa sarebbe successo se l'infermiera avesse detto che non c'era, che quest'uomo le era sconosciuto, che era tutto solo un malinteso...?
«Ci è stato detto di un paziente nella vostra clinica che… che potremmo conoscere. A quanto sembra ha perso la memoria e non si sa chi sia» tentò di spiegare Alan nervosamente.
«Di chi si tratta?» chiese l'infermiera in modo risoluto, ma non scortese.
«Charlie» intervenne Don, prima di rendersi conto che all'infermiera probabilmente il nome non sarebbe stato di aiuto «31 anni, i capelli neri e ricci, circa un metro settantacinque...»
«Ah sì, certo» lo interruppe l'infermiera.
Avevano nell'interna clinica solo quattro pazienti la cui identità non era chiara, tre di loro erano maschi e la descrizione era adatta solo ad uno. Fece qualcosa al suo computer e finalmente girò lo schermo in modo che Alan e Don potessero vederlo. Era la stessa foto di Charlie che avevano mandato il giorno prima. Il giorno prima... sembrava esser passata una vita intera.
La foto stringeva sempre loro la gola e potettero solo annuire. Fu comunque sufficiente all'infermiera: chiamò una dottoressa che, solo un minuto più tardi, prese in consegna i due uomini che aspettavano impazientemente.
«Sono la Dottoressa Andrews. Seguitemi. Vi porterò da lui».
La semplicità delle sue parole per poco non li sconcertò.
«Siamo contenti che abbiate avuto tempo per venire così presto» cominciò mentre guidava i due uomini silenziosi attraverso corridoi che non sembravano avere fine. «Per un periodo abbastanza lungo non sapevamo cosa fare con Michael. Era depresso e non ricordava –»
Benché Don avesse creduto di essere troppo teso per una conversazione, non fu in grado di trattenere la sua domanda. «Michael?» Il panico cominciò a salire. Forse non era...?
«Sì, siccome non ricordava il suo nome, abbiamo dovuto dargliene un altro – non solo per ragioni amministrative. Sapete, il nome aiuta a sentirsi un essere umano. E il giorno in cui il vostro figlio e fratello fu portato da noi era l'onomastico di St. Michael, o per meglio dire Miguel».
«E non si ricorda niente?» chiese Alan.
«Ma sì, certo» lo contraddisse la dottoressa. «Michael soffre di un'amnesia retrograda. In un certo modo la sua malattia è un caso particolare perché si ripercuote sia in modo globale sia in modo locale; ciononostante, per quanto ne sappiamo attualmente dell'amnesia, non è veramente possibile creare un quadro clinico ordinario. In ogni caso Michael non ricorda né le circostanze che hanno provocato la perdita della memoria, né informazioni o contatti personali. Le sue cognizioni generali, tuttavia, non sembrano esser disturbate. È riuscito a nominarci i nomi dei mesi, dei presidenti degli Stati Uniti... ricorda tutte le cose che non hanno a che fare con la sua vita personale. Inoltre, però, è anche in grado di descriverci immagini che devono avere a che fare con la sua vita perché noi non siamo ancora stati in grado di riconoscerle. Se si ricorderà di voi, sono fiduciosa che recupererà man mano la memoria. Per quanto riguarda le altre attività del cervello – beh, parlando di quelle, vi prego di non dimenticare che l'amnesia nuoce solo la capacità memoria. Naturalmente, causa anche confusione, e nel caso di Michael ha anche causato depressione, però non sono sintomi primari della malattia. Dunque, ciò che vorrei dirvi è questo: le capacità cognitivi di Michael sono completamente illese, da quello che abbiamo potuto vedere».
Alan era un po' confuso. Non era sicuro di aver capito tutto, né se tutte quelle informazioni gli interessassero. Perché non gli sarebbero interessate se quel Michael non fosse stato Charlie. Era semplicemente così incredibile che Charlie potesse davvero essere vivo che, per la propria protezione, tentava ancora di rimanere un po' scettico. Eppure non ci riusciva quanto avrebbe voluto. La sua speranza era rinata e adesso stava aspettando con una tensione quasi insopportabile se la stessa cosa sarebbe successa anche con suo figlio.
«Siamo arrivati» li informò la Dott. Andrews ed aprì la porta di una sala di ricreazione dove c'erano varie persone che parlavano, leggevano libri o riviste, giocavano a scacchi o a carte. Tutti e tre lasciarono scivolare i loro sguardi nella stanza inondata dal sole. Non trovarono la loro meta. Il batto del cuore di Don smise per un secondo. Non era lì, Charlie non era lì, si erano sbagliati...
Con passi risoluti la dottoressa andò verso la porta che dava sulla terrazza. Alan e Don si costrinsero a seguirla. Uscirono fuori al sole e dovettero socchiudere gli occhi per un attimo prima di poter percepire ciò che avevano davanti.
Solo una mezza dozzina di pazienti erano seduti lì fuori, attorno ai piccoli tavoli sulla terrazza per godere del sole. Nel parco attorno a loro Don poteva vedere altre persone che andavano a passeggiare, lungo un piccolo laghetto, attraverso aiuole piene di fiori, godendosi il bel tempo.
Però la sua attenzione venne diretta subito ad una testa scura: il proprietario era appoggiato su una sedia di plastica e stava leggendo un libro. Voltava loro le spalle; eppure a Don e Alan non sfuggì la somiglianza: i capelli, l'altezza, il portamento...
La Dott. Andrews gli mise una mano sulla spalla e lui levò gli occhi dal libro; tuttavia, Don e Alan non riuscivano ancora a vedergli il viso. Non osarono muoversi. Sembravano pietrificati.
«Michael» disse la Dott. Andrews gentilmente e con un sorriso sulle labbra, «qui c'è qualcuno per te».
Con una lentezza immensa, l'uomo si voltò verso di loro finché non mostrò finalmente il viso e si alzò. Le sue fattezze mostrarono sorpresa e una curiosità repressa.
«Ciao» disse infine.
Due secondi passarono senza che successe nulla.
«Charlie!» chiamò poi Don con una voce soffocata, e non riuscì a trattenere il singhiozzo nella sua voce. Un istante dopo aveva già attraversato i due metri che li separavano e aveva preso suo fratello tra le braccia. Lo strinse forte a sé, sentendo le lacrime scivolare sulle sue guance e nei capelli di Charlie.
Era incredibile! Quell'uomo era Charlie, era Charlie, era reale; ed era vivo!
Alan non si era mosso di un centimetro. Solo le calde lacrime che sentì sulle sue guance lo sciolsero dalla sua rigidità. E lentamente, come se stesse sognando, si avvicinò ai due. E pochi istanti dopo fece qualcosa che non avrebbe più considerato possibile: abbracciò tutti e due i suoi figli.

- - -


Don aveva chiuso gli occhi. Godeva della sensazione di sentire suo fratello accanto di sé, di sapere che il suo corpo caldo e vivo era tra le sue braccia. Sentiva il sole primaverile sulla sua faccia, e il caldo sembrava penetrare fin dentro il suo corpo. Però allo stesso tempo sentiva la brama di spalancare i suoi occhi e bearsi della vista di Charlie, la sua faccia, la sua figura, i suoi occhi vivi e non quelli inanimati che lo guardavano puntualmente nei suoi incubi con sguardi pieni di rimprovero.
Sentì come Alan trasalì. Suo padre singhiozzò. Anche Don poteva sentire le lacrime di gioia scivolare sulle sue guance.
Finalmente i due lasciarono andare Charlie che – come constatarono solo allora – aveva un aspetto abbastanza confuso.
«Charlie, stai bene?» chiese Don con preoccupazione. Aveva tolto le lacrime dalla sua faccia, ma la sua voce suonava sempre soffocata. E anche il suo cervello non era in forma smagliante. Stai bene – Don aveva appena pronunciato la domanda che avrebbe già voluto prendersi a schiaffi. Era ovvio che non stava affatto bene.
Ma era solo Charlie che non stava bene. Perché per Don quello era il miglior momento della sua vita.
«Io –» La voce di Charlie era gracchiante e dovette schiarirsi la gola. «Come... chi siete?»


Istintivamente, Alan e Don retrocessero di un mezzo passo. Il miglior momento divenne polvere. Eppure avrebbero dovuto immaginarlo. Comunque, sentire Charlie parlare come se fossero estranei fu un colpo all'anima.
«Charlie...» La voce di Alan suonava rauca. «Siamo... siamo la tua famiglia».
Charlie non rispose. Solo fissò i due, li squadrò come se cercasse qualcosa che lo aiutasse a riconoscerli. Don quasi non lo sopportò. Quel silenzio... aveva creato una tensione che minacciava di strapparlo dall'interno. Voleva urlare, lanciarsi contro suo fratello, stringerlo nelle sue braccia, ridere con lui, piangere con lui...
Ma Charlie non lo riconosceva. Non li riconosceva. Erano estranei per lui.
Don scosse leggermente il capo. La sua respirazione divenne più forzata. Faceva fatica a comprenderlo. Avevano trovato Charlie. Charlie c'era di nuovo. Però... qualcosa mancava, qualcosa non era giusta nel quadro.
«Io... io sono A-Alan» sentì dire da suo padre, e non gli sfuggì che la sua voce tremolava. «Sono tuo padre».
Don tentava ancora di venire a capo di questa situazione assurda quando si accorse che due paia di occhi si erano voltati verso di lui lentamente, in attesa.
«Io –» La sua voce era scomparsa. Dovette schiarirsi la gola, e anche allora suonava ancora talmente rauca che non l'avrebbe riconosciuta neanche lui stesso. Charlie, ancora di meno. «Sono Don. Tuo fratello».
Erano solo quattro parole, ma avevano chiesto a Don uno sforzo enorme. Non poteva credere che tutto ciò stesse accadendo davvero. Gli sembrava totalmente irreale, come sei mesi prima, a casa di Charlie, il giorno del suo funerale. Però questo non era il funerale di Charlie. Era la sua rinascita.
Lentamente, Charlie girò la testa verso la dottoressa la cui presenza Don finora aveva tentato d'ignorare con tutte le sue forze, proprio come la presenza degli altri pazienti e visitatori.
«Io – non li riconosco».
Don vide che suo padre impallidì. Strinse la sua mano attorno all'avambraccio di suo padre, ma non era sicuro di chi sostenesse chi. Perché era certo che le sue ginocchia non lo avrebbero mantenuto ancora per molto.
La dottoressa non gli offrì più di un'occhiata di lato compassionevole prima di dedicarsi al suo paziente.
«Se vuoi, puoi naturalmente rimanere qui, Michael. Nessuno potrà costringerti ad andare con quei due. E' una decisione tua».





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Capitolo 10
*** Al bivio ***


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Grazie per leggere e recensire :)
Spero che il seguito vi piaccia...



10. Al bivio

 

Follow your heart, little child of the west wind.
Follow the voice that’s calling you home.

(Brian Adams, Brothers under the Sun)


Vedeva la figura in modo indistinto. Era sdraiata a terra e non si muoveva. La vedeva in modo sfumato e l’istante successivo era già sparita; la sua immagine si era sciolta in uno scenario nuovo: una piccola stanza, non dissimile da un cella, immersa in una luce fredda.
L'immagine della figura immobile tornò ogni tanto, e benché ci riuscisse ogni volta a spingerla via dai suoi pensieri, era sempre lì, da qualche parte nel profondo della sua anima. E finché sarebbe stata lì, non avrebbe trovato la serenità interna di cui aveva bisogno per diventare di nuovo quello che era stato una volta. Poteva sentirlo distintamente; quell'immagine l'aveva cambiato...

L'aveva cambiato, ma il problema era che non sapeva chi era stato prima. L'ultima cosa che poteva ricordare distintamente era la sua rinascita. Almeno così gli sembrava, quando tornava indietro con la mente al giorno in cui si era svegliato in quella camera. Era stato accudito, ricostituito e riportato alla vita. Una vita nuova, forzatamente. Perché non sapeva nulla di sé.
Gli si avevano detto che era stato trovato su una strada principale raramente percorsa, privo di sensi e senza oggetti personali. Era stato raccolto e portato lì. Avevano detto che era molto denutrito e deidrogenato, e che per qualche periodo era stato tra la vita e la morte.
Non poteva ricordare tutte queste cose, e soprattutto quello che aveva preceduto quello stato mortale. E la sua amnesia. Tranne qualche graffio ed ematoma non avevano trovato nessuna ferita sul suo corpo, in ogni caso nessuna ferita alla sua testa, e così rimasero solo ampie speculazioni per comprendere la causa della sua perdita di memoria.
Quella circostanza e la sua condizione l'avevano presto spinto al bordo di ciò che era mentalmente sopportabile, e infine oltre esso, nell'abisso della depressione. Era rimasto a sedere senza muoversi per giorni interi, tentando disperatamente di ricordare la sua vita; aveva fatto esercizi per aumentare la concentrazione, ma non era servito a nulla. La sua memoria era rimasta incompleta: come prima era privo della sua personalità. E senza la sua personalità aveva infine smesso di vedere una ragione per farsi coraggio e vivere. In quel periodo era sempre stato debole e le sue condizioni fisiche erano state quasi rovinate come quelle mentali. Era diventato letargico e aveva trattato il suo corpo in modo sempre più negligente, non aveva più lasciato il suo letto e aveva solo guardato il soffitto. Però il tempo e la gente lì lo avevano aiutato e lo avevano portato ad una nuova vita. Aveva trovato abbastanza forza per farsi coraggio e tentare di cominciare daccapo.
L'inizio era stato difficile. In ogni caso non sapeva com'era stata la sua vita precedente, ma era sicuro che era stata migliore di questa vita qui, una vita nell'incertezza e senza una faccia famigliare. E le tormentose domande non erano sparite: perché non poteva ricordare? Perché nessuno si ricordava di lui? Nessuno lo stava cercando? Non aveva alcun amico, né una famiglia che si preoccupava per lui? Forse la sua vita reale non era stata migliore perché non aveva un'anima al mondo che fosse accanto a lui? Forse era stato talmente disperato per la solitudine che aveva tentato di uccidersi – era per questo che era lì?
Le domande l'avevano reso ancora di più da solo e disperato di quanto non si sentisse già, come se fosse un solitario, un individuo bizzarro che non aveva alcun legame con un qualsiasi altro essere vivente, forse non era nemmeno capace di creare un legame personale. Beh', aveva preso contatto con altri pazienti e anche col personale; in certi casi, anzi, un contatto abbastanza stretto, ma non aveva un vero rapporto stretto con nessuno di loro. Per fare una cosa del genere gli mancava la sua storia.
Aveva continuato a tentare di ricordare e a spezzare quel muro invisibile per penetrare la nebbia. E sì, di qualche cosa poteva ricordarsi; erano talmente chiare e distinte come se le vedesse davanti ai suoi occhi: immagini di una grande casa con un giardino, immagini di lavagne verdi, immagini di un grande edificio in mezzo ad una specie di parco...
Aveva descritto queste immagine al personale della clinica, e finalmente erano giunti alla conclusione che era o almeno era stato uno studente. Però dove, per quanto tempo, in che materia e come era arrivato lì – quelle erano domande a cui ancora non riuscivano a rispondere. Però era abbastanza ovvio che avesse qualcosa a che fare con la matematica, perché dopo che aveva superato la sua depressione, aveva letteralmente divorato i pochi libri matematici nella biblioteca della clinica, e in parte aveva addirittura scomposto le teorie, le aveva provate o continuate.
Aveva anche cercato nel suo cervello immagini di persone. E le aveva trovate. Però le immagini erano state quelle di facce di personalità note, per esempio il presidente o altri uomini e donne politici oppure attori. Naturalmente, c'erano anche altri immagini che finora non avevano potuto riconoscere e che lui tentava disperatamente di inserire in una vita che non era più la sua. C'erano quelle immagini di piazze ed edifici che l'avrebbero sicuramente aiutato a ricordare appena li avesse visti di nuovo.
Però le facce dei due uomini non erano tranne quelle.


Eppure la loro vista gli aveva riportato alla memoria quell'immagine della figura immobile. Quei due estranei davanti a lui avevano toccato la sua memoria così che i suoi pensieri erano arrivati, attraverso sentieri tortuosi, a quell'immagine sempre presente, ma sempre talmente inavvicinabile.
Doveva c’entrare qualcosa con quei due uomini. Ma cosa? Era davvero possibile che il suo subconscio ricordasse qualcosa nonostante la sua coscienza non ci riuscisse? Esaminò le facce e le figure alla ricerca di un qualsiasi segno di familiarità, ma non trovò niente. Anche le loro voci non l'aiutarono. E le loro parole?
Il più vecchio aveva detto che era suo padre. Beh', poteva essere vero. Ma poteva anche essere falso. Charlie non riuscì a pensare a una ragione per cui quell'uomo potesse dire una cosa del genere se non era vero, però, in ogni caso, non capiva quasi niente in quel mondo.
E l'altro aveva detto di essere suo fratello. Suo fratello. Provava intensamente a trovare da qualche parte dentro di sé un'indicazione che gli dicesse che era vero, ma lo sforzo fu di nuovo senza successo. Aveva un fratello? Non lo sapeva. E non avrebbe dovuto ricordarsene, se ne aveva uno?
Temeva già di scivolare di nuovo nella depressione. Aveva aspettato quel momento con una tale ansia, il momento in cui avrebbe di nuovo visto qualcosa di familiare del suo passato; l'aveva sperato talmente tanto che nella sua testa era diventato una certezza irrevocabile: avrebbe di nuovo avuto un passato e con quello un futuro appena il passato l'avesse finalmente raggiunto.
Purtroppo, però, sembrava che si fosse sbagliato. Almeno se presupponeva che questi uomini dicessero la verità.
Semplicemente non sapeva cosa dovesse fare. Quei due uomini erano completi estranei per lui. Eppure loro avevano detto di conoscerlo. E se Charlie aveva capito bene, questi due venivano dalla California. E non aveva dimenticato le sue nozioni di base di geografia: sapeva dove si trovavano la California e il Nebraska e quale distanza c'era tra i due stati. Perciò era abbastanza improbabile che fossero venuti fin lì solo per farlo di nuovo cadere nella sua depressione. E lo voleva, voleva aggrapparsi alla speranza di poter riconquistare la sua vita...
Dall'altra parte, però, non li conosceva. Non sapeva che cosa intendessero fare con lui o che cosa si aspettassero. Avrebbe dovuto lasciarsi alle spalle tutto ciò che conosceva, cioè la clinica che era diventata il suo nuovo benché molto piccolo mondo. Sarebbe stato di nuovo spinto nell'incertezza. E chi poteva sapere se questo non l'avrebbe di nuovo spinto nell'abisso?
Semplicemente non lo sapeva. Non sapeva che cosa fare. Rimanere o andare con loro? Essere pigro o coraggioso? Crearsi una nuova vita o tentare di ricuperare quella che aveva? 
E' una decisione tua, aveva detto la Dott. Andrews.
Le sue parole erano ancora nell'aria. I tre stavano aspettando una risposta di lui. Doveva decidersi. Era al bivio e doveva scegliere la sua vita adesso, e nessuno dei due sentieri riusciva ad attirarlo con qualcosa di familiare.
Vide la tensione negli occhi dei due uomini. E ad un tratto sentì un'onda di compassione. Aveva già pensato a rimanere lì, almeno fino a nuovo ordine. Forse prima o poi sarebbe stato in grado di ricordarsi di loro e di tutto? Forse non c'era bisogno di andare con loro in luoghi che sarebbero dovuti essere familiari per lui, ma che forse non lo erano?
In quel momento, però, realizzò che il seguito della sua vita aveva un'importanza non solo per lui, ma anche per i due uomini davanti a lui. Non solo per lui, ma anche per loro il silenzio sembrava essersi allungato fino all'infinito prima che finalmente cominciò a parlare.
«... Posso... posso pensarci per un po'?»
La coscienza sporca gli diede un colpo quando vide i due uomini deglutire gravemente e i loro occhi spalancarsi un po'. Però le parole della dottoressa gli fecero sentire subito un po' meglio.
«Ma certo» disse dolcemente. «Prendi il tempo di cui hai bisogno. Se hai qualche domanda – siamo nel mio ufficio. Puoi entrare quando vuoi».

- - -

Don aveva problemi considerevoli a concentrarsi. Semplicemente non lo poteva bandire dal suo cervello, e nemmeno lo voleva. Charlie era vivo! Era vivo, era qui, stava bene, l'avevano visto, era sotto il loro stesso tetto!
Don quasi sprizzava felicità da tutti i pori. Eppure tentava di conservare la calma, almeno per i minuti seguenti. Provava ad ascoltare la dottoressa che stava raccontando loro ancora una volta tutto ciò che sapeva di Charlie, e tentava di rispondere alle sue domande in modo soddisfacente. E se Don poteva far affidamento sul suo giudizio riguardo la sua reazione, le loro risposte non erano così insufficienti come aveva creduto.
«Se ho ben capito» cominciò la dott. Andrews appena seduti, e c'era un sorriso leggero sulle sue labbra, «avete riconosciuto Michael come un membro della vostra famiglia – come avete detto che si chiamava? Charlie?»
I due uomini annuirono. La dott. Andrews diede loro uno sguardo pieno di interessamento che, però, non notarono, e decise che probabilmente era meglio se a cominciare fosse lei.
«Soppongo che vi interessi sapere che cosa è successo a Charlie. Purtroppo devo ammettere che non so tanto di più che le cose che vi ho già detto. Mich... Charlie è stato ricoverato qui il novembre scorso. Un camionista l'ha trovato su una strada maestra in una condizione rischiosa. È prima stato portato in un ospedale e poi, quando hanno realizzato che non ricordava chi fosse, è stato portato qui. Innanzitutto questo posto è adatto per soggiorni a lungo termine e poi siamo più accomodanti qui in confronto ad un ospedale normale per quanto riguarda il mantenimento finanziario dei pazienti. E inoltre, naturalmente, siamo specializzati su lesioni e disturbi mentali.
Quando vostro figlio e fratello è arrivato qui, sinceramente non sapevamo se sarebbe sopravvissuto. Era molto malnutrito e sembrava letargico. Comunque avevano già risolto ciò che minacciava la sua vita, cioè la deidrogenazione e la mancanza di nutrizione, però la depressione era rimasta. È una conseguenza logica di una perdita di memoria talmente ampia, eppure c'è la possibilità che sia stata la depressione a precedere la mancanza di nutrizione e liquidi e perfino forse anche la perdita della memoria. Potete dirmi se Charlie soffriva di depressioni già prima della sua scomparsa?»
Alan scosse la testa, un po' sbigottito. «No – voglio dire, naturalmente possiamo dirglielo, ma no, Chalie non è mai stato depresso». Qualche istante dopo gli venne in mente il periodo dopo il funerale di Margaret. Charlie era stato completamente ritirato, non aveva parlato con nessuno – ma depresso? Era veramente incapace di considerarlo così. E in quel momento non poté nemmeno rifletterci.
La dottoressa guardò anche Don in modo inquisitorio e quello ce la fece a scuotere la testa e far uscire un "mai".
La Dott. Andrews scrisse la nuova informazione nell'atto davanti a lei.
«Questo è per principio buono perché supporta l’idea che la depressione sia veramente una conseguenza dell'amnesia. Però potrebbe sempre esserne l'origine anche se non abbiamo indizi per questo.
Un po' più di due settimane fa le sue condizioni cominciarono ad migliorare. La depressione retrocedeva, anche se Charlie rimaneva molto silenzioso e chiuso in sé stesso, ma questo non è raro con questo quadro medico. In contemporanea con questo il nostro personale riusciva sempre di più a prendere contatto con lui e trovare altri pezzi di memoria del suo passato. Purtroppo però non era abbastanza per trovare la sua identità. Una cosa di cui ci siamo accorti ben presto però era il suo interesse per la matematica. Potete confermarlo?»
«Oh sì!» scappò a Don.
La Dott. Andrews inarcò le sopracciglia in un miscuglio di sollazzo e confusione, ed Alan spiegò, con un sorriso sulle labbra: «Charlie ha amato da sempre la matematica. Ed è anche dotato. E' un professore di matematica applicata a Los Angeles e noto ed apprezzato come matematico nel mondo intero».
Alan non era riuscito a nascondere il suo orgoglio di un padre. Lo faceva sentire talmente ben poter dire queste cose su suo figlio vivo invece che morto.
«Un professore? Questo spiega le immagini che ha descritto al nostro personale. Pensavamo che fosse uno studente. Però è un bene che queste immagine sembrino venire veramente dal suo milieu personale. Così c'è la speranza che Charlie ricorderà non appena vedrà persone e cose familiari».
Don non sapeva che cosa gli fece fare la domanda, perché non era affatto sicuro di voler sapere la risposta, ma la fece comunque.
«E allora perché non si ricorda di noi?»
Don si sentiva come un bambino deluso al quale era stato promesso un gelato e che adesso non poteva averne uno. Solo che a lui avevano promesso un fratello e lui aveva ricevuto uno sconosciuto. O per meglio dire lui aveva ricevuto suo fratello per il quale lui stesso era un estraneo, e Don non sapeva quale punto di vista trovasse più orribile.
La Dott. Andrews era abbastanza esperta nel sapere che cosa stava succedendo nella testa di Don. «Lei deve dar tempo a suo fratello, Signor Eppes. Naturalmente devo avvertirla, c'è la possibilità che Charlie non recupererà mai completamente la sua memoria. Comunque non è nemmeno improbabile che si ricorderà di pezzi della sua vita o forse addirittura di tutto. Però per questo ha bisogna di tempo per accomodarsi a tutte le cose che si abbatteranno su di lui. E non dimentichi che Michael – scusi, Charlie – è appena guarito dalla depressione. Si trova ancora in una condizione psichica molto labile. Nel suo interesse, dovrete avere cura di evitare ogni tipo di pressione».
Don annuì, sentendosi abbastanza ammonito benché le parole fossero state verbalizzate in modo cortese. Nuocere a Charlie era l'ultima cosa che voleva, eppure era rassicurante sapere che la sua dottoressa aveva talmente cura di lui.
«Dunque, due notti fa» continuò, «Charlie ha sognato il suo numero di telefono. L'ha detto a uno dei nostri infermieri solo il pomeriggio dopo e noi abbiamo subito provato a seguire la traccia. E direi che ne è valsa la pena».
Ah sì che è valsa la pena, pensò Don.
Con questa telefonata Charlie era rientrato nella loro vita. E il cuore di Don fece un salto indietro quando – come dopo la battuta d'entrata – suo fratello entrò anche il suo campo visivo. Sopra la testa della Dott. Andrews poteva vedere fuori, il parco. Ed era lì che era appena apparso Charlie che, lo sguardo abbassato pensierosamente, era andato lentamente al grande laghetto e si era lasciato cadere nell'erba alla riva.
La Dott. Andrews si accorse dello sguardo di Don e si voltò. Un sorriso apparve sul suo viso. «Charlie sembra amare questo posto» raccontò loro. «Mi sono accorta che si ci siede spesso e guarda l'acqua».
«Guarda i pesci» spiegò Don a voce bassa. Non riuscì a distogliere lo sguardo da Charlie. Era come se il suo fratellino stesse seduto nel giardino di casa loro e guardasse il laghetto dei Koi per decifrare lo schema di movimento dei pesci ornamentali. Era di nuovo come allora. Solo non stava seduto a casa loro davanti al laghetto dei Koi. Don aveva difficoltà a realizzarlo, ma sentiva che oramai quello era il posto dove Charlie si sentiva a casa. Poteva ricordare il suo laghetto dei Koi?
E, ancora più importante: se non si ricordava di suo padre e di lui – allora sarebbe venuto con loro, a casa?
E che cosa sarebbe successo se non fosse andato con loro...?
Ti prego, Charlie, ti prego, prendi la decisione giusta.


La stessa sera si presentarono di nuovo nell'ufficio della Dott. Andrews e quella volta anche Charlie era con loro. Non sfuggì a Don che suo fratello manteneva una certa distanza da loro, una sorta di distanza di sicurezza, e la paura che Charlie potesse decidere contro loro aumentò in lui.
«Allora hai preso la decisione?» chiese la Dott. Andrews. «Lo sai che, se vuoi, puoi prenderti ancora più tempo».
Una parte di Don avrebbe voluto uccidere la dottoressa. Non avrebbe sopportato di aspettare ancora la decisione di Charlie. Un'altra parte avrebbe anche voluto esortarlo assieme a lei. Charlie doveva rifletterci bene, al meglio, magari fino a che si sarebbe di nuovo ricordato di loro, perché Don non sapeva che cos'avrebbe fatto se Charlie avesse deciso di cancellarli dalla sua vita.
«Non ho più bisogno di tempo» disse Charlie. Sembrava un po' insicuro, però tentò di non farlo notare. «Spero che vada bene per voi tutti» cominciò e Don seppe che questo era la fine. «Vorrei... vorrei venire con voi».
Don per poco non saltò al soffitto. Charlie voleva venire con loro? Non voleva rimanere lì, voleva accompagnarli a casa? Don non riusciva a capacitarsi della sua fortuna! Charlie era di nuovo con loro, sarebbe venuto a casa con loro, volontariamente!
Don avrebbe voluto giubilare, però represse l'impulso. Gli unici gesti che espressero la sua gioia erano quel sogghigno abbastanza stupido sulla sua faccia e il salto che lo alzò dalla sua sedia. Però la sua gioia ricevette già un colpo. Quando balzò in piedi per precipitarsi verso suo fratello per abbracciarlo, vide perfettamente che Charlie sobbalzò. Non si fidava ancora. Non si sentiva ancora a proprio agio con lui. Aveva ancora paura.
Don tentò, con successo moderato, di non essere né disperato né deluso o arrabbiato. Tempo. Dovevano semplicemente dare un po' di tempo a Charlie. Se avessero fatto questo tutto si sarebbe sistemato e sarebbe di nuovo diventato normale. Appena Charlie si fosse di nuovo accomodato nella sua vita di prima, tutto sarebbe stato di nuovo com'era stato una volta, prima della morte di Charlie.
Don poteva appena aspettare a tornare a casa.





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Capitolo 11
*** C'era una volta... ***


nonti11



Grazie a BlackCobra per le tue recensioni continue!
Divertitevi :)




11. C'era una volta...

What do I know? I know your name.
You don’t know, you don’t know,
You don’t know anything about me
Anymore.
I gave up dreaming for a while.

(Milow, You Don’t Know)


Alan e Don avevano affittato una camera nella piccola città vicina. Lì, passarono la notte; dopo tutti quegli eventi travolgenti erano addirittura riusciti a dormire un po', nonostante tutto. Il giorno però lo passarono in clinica. Con Charlie.
A Don pareva come se il sole brillasse più chiaro tutto ad un tratto. Ancora una volta ricordò che Charlie era vivo, che era di nuovo con loro! Don avrebbe voluto abbracciare il mondo intero.
Per ora, però, non poteva nemmeno abbracciare Charlie. La Dott. Andrews aveva consigliato loro di passare tanto tempo con lui e prepararlo al suo ritorno a casa. Tuttavia gli aveva anche chiesto di lasciare a Charlie tempo e spazio per sé stesso. Aveva ripetuto loro che per Charlie erano estranei e che doveva prima accomodarsi alla situazione nuova e alle facce nuove.
Don aveva accettato volontariamente ogni punto. Avrebbe acconsentito a tutto adesso che il suo fratellino era di nuovo con lui.

- - -

«Avanti» sentirono la risposta al loro bussare ed entrarono nella camera di Charlie.
Ricordava la loro camera al motel, solo che era un po' più piccola. L'anonimato, però, era lo stesso. Un solo libro sul comodino sotto un blocco per appunti, nessun libro sugli scaffali, nessun quadro alle mura o sul comodino.
Charlie si alzò dal suo letto e mise le mani nelle tasche dei suoi calzoni.
«Ciao» disse con un sorriso, ma non riuscì a nascondere il suo nervosismo.
«Buongiorno Charlie» rispose Alan e si sentì perso. Voleva attraversare la stanza e prendere Charlie nelle sue braccia. La formalità della situazione era insopportabile.
«Come stai?» chiese Don.
Alan sapeva che Don stava solo tentando di cominciare una conversazione, però non gli sfuggì l’approccio furbo di quella semplice domanda.
«Bene... bene... e voi?»
«Adesso stiamo bene» rispose Alan e solo Don poteva comprendere l'intero significato delle sue parole.
«Beh', allora...» Charlie ovviamente stava cercando altre parole. Finalmente il piccolo tavolo al muro entrò nel suo campo visivo. «Accomodatevi».
Per sua la fortuna, ma con dispiacere di Alan e Don, c'erano solo due sedie al tavolo cosicché Charlie potette sedersi sul suo letto. Ad una distanza di sicurezza.
«Okay...» Esitò, ma poi fece la domanda che al momento era la più importante: «Che cosa succederà adesso?»
Don rispose subito. «Abbiamo già prenotato un volo. Dopodomani. Se questo va bene per te».
Era ovvio che non andasse affatto bene per Charlie. Tutto succedeva troppo velocemente. Già dopodomani? Dopodomani avrebbe dovuto lasciare tutto e partire verso qualcosa di straniero che avrebbe dovuto essere familiare?
Deglutì. «Sì, certo. Grande».
«Possiamo anche cambiare il volo se preferisci. Non è un problema» si affrettò Alan a dire.
Charlie, però, sapeva di aver già dato il suo consenso. Aveva già acconsentito ad andare con quegli uomini e non importava quando tempo gli restasse, non sarebbe stato facile per lui. Probabilmente era meglio compiere il primo passo il più veloce possibile.
«No, no, va tutto bene». Esitò di nuovo, sperando che gli altri continuassero la conversazione, ma loro erano perplessi quanto lui. «E beh'... la Dott. Andrews ha detto che voi potreste raccontarmi qualcosa... su di me». La preghiera suonava grottesca e trascinava un senso di perduto.
«Sì... Certo... Che cosa vorresti sapere?»
Se solo l’avesse saputo. «Tutto?» chiese cautamente.
«Ok. Bene».
Quella era con certezza la cosa più assurda che avesse mai fatto, pensò Alan prima di schiarirsi la gola nervosamente e cominciare a raccontare al figlio dato per morto la sua vita.
«Dunque. Ti chiami Charlie Eppes, sei nato il 5 settembre 1975 a Los Angeles e hai passato lì la tua infanzia, insieme a Don, tua madre e me».
«E dov'è sua... nostra madre?»
Charlie veramente non aveva perso la sua inclinazione a fare domande rilevanti.
«E' morta» rispose Don. «E' morta di cancro più di tre anni fa».
Charlie avrebbe voluto sprofondare. «Oh. Mi dispiace».
«Non devi. Non... Beh, non potevi saperlo. E inoltre era anche tua madre».
Sì. Con la differenza che non la posso ricordare. Charlie decise di lasciar questo soggetto il più velocemente possibile e cominciare a ricuperare sfere meno pericolose.
«E poi? Che cosa faccio come lavoro?» E nella vita privata? aveva voluto chiedere, però si trattenne. Certo era anche perché non voleva fare troppe domande in una volta, ma soprattutto non voleva aumentare ancor più l’imbarazzo. Forse sua moglie era morta o l'aveva lasciato e perciò aveva perduto la sua memoria oppure lui aveva lasciato lei e lei si era suicidata.
La voce di Don gli impedì di riflettere su altre teorie raccapriccianti e poco edificanti: «Sei un professore universitario. Per matematica applicata».
Professore per matematica applicata! Era musica per le orecchie di Charlie. Innanzitutto era la cosa più razionale di tutta la sua vita finora e certamente lo era di più delle sue teorie sulla sua vita privata, e poi questo aveva un timbro veramente solido. E aveva qualcosa a che fare con la matematica.
«Anche Amita è una professoressa» Alan aggiunse.
«Amita?» Charlie ripeté senza capire, ed era troppo tardi quando vide la scintilla di speranza nell'occhio di Alan crollare. Alan – suo padre, Charlie tentò di ricordare a se stesso – aveva provato a stimolarlo. Purtroppo però non aveva reagito nel modo giusto. Non ricordava quel nome.
«State insieme» gli spiegò Don. «Da quando lei ha terminato il suo dottorato di ricerca; almeno lo siete ufficialmente da quel momento. Prima era stata la tua studentessa».
Tutto ciò non diceva niente a Charlie. Qual è il suo aspetto? voleva chiedere ma non ne aveva il coraggio. Con una probabilità molto alta nemmeno la descrizione gli avrebbe detto niente, e Charlie non sapeva se avrebbe potuto sopportare una tale delusione in quel momento.
«Perché non è qui?» chiese invece e pensò che la domanda fosse innocua.
Si sbagliò. Nessuna domanda era innocua.
«Non ne sa ancora niente» rispose Don, e per uno strano motivo non poteva più guardarlo negli occhi. «Quando abbiamo ricevuto la chiamata della clinica che forse eri ancora vivo, non l'abbiamo detto a nessuno. Non volevamo svegliare speranze perché avevamo semplicemente... Semplicemente non potevamo credere che... che fosse davvero reale. A parte noi, Megan è l'unica ad aver saputo qualcosa marginalmente, ma anche lei non sa cose più dettagliate».
La voce di Don era diventata più rauca e Charlie era felice che gli fosse venuta in mente una nuova domanda, così che non dovettero ancora una volta sopportare quel silenzio.
«Megan?»
«Lavora con me. Sta insieme a Larry».
Charlie stava per fare la domanda successiva, ma Don aveva già capito che non ricordava. «Anche Larry lavora alla CalSci, all'università dove insegni. È stato il tuo professore a Princeton e più tardi il tuo mentore ed è il tuo miglior amico».
Don sembrava un po' stanco, proprio come appariva Alan e si sentiva Charlie. Il fatto che Charlie non si ricordasse nulla struggeva i nervi di tutti i tre. Per quella ragione il silenzio conseguente non fu così inopportuno come avevano temuto.
Charlie respirò profondamente. Nella sua testa ripeté ancora una volta tutte le cose che aveva saputo. Era Charlie, non Michael, questo era un fatto a cui si doveva ancora abituare. Poi, professore per matematica applicata. Nessun problema con questo. Aveva una ragazza (Amita, ripeté il suo nome nei suoi pensieri), un miglior amico (Larry) che stava insieme ad una collega di Don (Megan). Stava per informarsi del lavoro di suo fratello quando si accorse dello sguardo di quello e desistette dalla sua intenzione, ad un tratto insicuro. Meglio ripetere tutte le informazioni ancora una volta; non voleva dimenticare niente: Megan: la collega, Larry: miglior amico, Amita: ragazza; poi, professore per matematica applicata e non Michael, ma Charlie, Charlie – come? Il nome era strano, qualcosa con una sillaba che cominciava con E... Etz? Elps? No, Eppes! Era Eppes! Charlie Eppes…
«Aspettate!» Il nome gli diceva qualcosa. «Mi chiamo Charlie, dunque Charles, Eppes?»
«Esatto» confermò Alan. Era diventato attento. Charlie lo aveva ricordato?
«Dite sul serio?»
Assieme alla tensione di Alan, anche la sua confusione adesso aumentò.
«Certo, perché lo chiedi?»
«Ho letto qualcosa su di lui. Nella biblioteca c'è un libro sulle nozioni più recenti nei vari campi della matematica. Dentro ci sono anche tre o quattro articoli suoi». Aggrottò la fronte. «Dunque miei».
Alan e Don provarono a sorridere, però si sentirono come se stessero per piangere. Avevano pensato che Charlie avesse ricordato. E poi questo. Tuttavia dovevano tentare di non mostrargli la loro delusione. Charlie aveva bisogno di tempo, questo era tutto.
Charlie sembrava pensare la stessa cosa, ma relativa a quel momento. Si alzò dal letto e cominciò a vagare nervosamente per la stanza. Ogni tanto dava uno sguardo al blocco per appunti accanto al letto.
«Potrei forse – »
Era grato di non aver dovuto pronunciare la domanda, ma che Don l'avesse interrotto. «Certo. Torniamo più tardi».
Si alzarono e uscirono con riluttanza dalla camera. Don aveva capito subito che Charlie avrebbe voluto stare da solo, però gli faceva lo stesso male il fatto che avesse veramente verbalizzato la preghiera.
Gli faceva male come tante altre cose. Il giorno prima, quando Charlie aveva detto che non ricordava nulla di loro, nemmeno se avesse un fratello, Don si era sentito male. Se Charlie nemmeno sapeva che aveva un fratello, allora quanto insignificante aveva dovuto essere il posto che Don aveva occupato nella sua vita?
E il fatto che sembrava essere la stessa cosa con le altre persone nella vita di Charlie... Don non sapeva se essere sollevato oppure ancora di più confuso. Sapeva solo che lo rendeva triste. Charlie sembrava ricordarsi meglio della sua matematica che delle persone che avevano creduto essergli vicino.

- - -

Appena che Don e Alan uscirono dalla sua camera, Charlie prese il blocco per appunti in mano. Vi aveva notato riflessioni, prevalentemente sui trattati matematici che aveva letto. In fin dei conti si era dovuto impegnare con qualcosa, e quando un infermiere gli aveva consigliato la matematica, si era accorto, sorpreso e sollevato, che si sentiva a casa nel mondo dei numeri.
Adesso, però, una nuova componente era stata introdotta. Charles Eppes. Era incespicato in quel nome in vari articoli e ogni volta lo aveva guardato con un certo fascino. Charlie aveva preso appunti su tanti dissertazioni che aveva letto del genere, su cosa lui avrebbe fatto in modo diverso o cosa avrebbe potuto aggiungere alle teorie. Ma mai con le teorie di Charles Eppes. Charlie aveva concordato con i suoi pensieri in un modo quasi inquietante, e aveva sperato che un giorno avrebbe potuto trovare una ragione per scrivere a quel dottore Eppes.
E adesso era proprio lui.
Charlie non sapeva cosa pensare. Naturalmente era felice di conoscere finalmente la sua identità. Ma era anche così... strano. Era una persona che aveva conosciuto, anzi stimato, ma considerato un estraneo. Charlie lo trovava abbastanza sconcertante.
Però gli faceva bene. Era Charles Eppes. Era stato lui a scrivere quegli articoli nel libro, erano i suoi pensieri. Era affascinante. E inoltre era una prova che era veramente esistito prima di andare lì. Aveva un passato, una storia.
Lui aveva scritto quegli articoli. E li aveva compresi subito quando era ancora Michael. Era come se parlasse a sé stesso tramite queste dissertazioni. Questi articoli venivano dalla sua vita precedente, lui li capiva e loro gli rivelavano i suoi pensieri. Niente era falsificato, tutto era chiaro e aperto per lui.
Un po' più calmo, Charlie guardò i calcoli e le annotazioni sul blocco. Sì, la matematica era davvero la sua patria. Era l'ancora di cui aveva bisogno per sopportare tutto quello e ricuperare la sua vita.

- - -

Alan e Don avevano deciso di andare nella sala di ricreazione della biblioteca. Mentre spulciava i libri matematici e sorrideva leggermente ogni volta che vedeva il nome di Charlie, Don trovò un libro in cui c'era un calendario con i santi cattolici. Comunque c'erano così tanti libri religiosi lì. Era inconfutabile che il fondatore della clinica privata fosse stato un uomo cattolico, già solo a causa del suo nome. Don era solo felice che anche coloro che non condividevano quelle scelte avessero accesso alla clinica. Dopo tutto ciò che aveva imparato del cattolicesimo, questo rasentava il miracolo.
Don aveva appena trovato ciò che stava cercando: Miguel Pro, un martire spagnolo, giustiziato nel 1927. Doveva essere lui; tranne quello non c'era altro Michael o Miguel da cui avrebbero potuto prendere il nome per Charlie. Don guardò la data e per un attimo la sua respirazione si arrestò: il 23 novembre. Charlie era lì dal 23 novembre. Voleva dire che dalla sua scomparsa e la presunta morte fino alla sua ricomparsa erano passati un mese e mezzo durante cui Charlie era probabilmente stato tenuto da qualche parte contro la sua volontà. E probabilmente qualcosa era successo durante quel periodo, qualcosa che aveva condotto alla sua perdita di memoria.
Che cosa gli avevano fatto? E soprattutto, chi?


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Capitolo 12
*** Magic of Home ***


nonti13 Di nuovo mille grazie per il vostro interesse per la storia! Spero che non lo perderete nel seguito!
Ecco il prossimo capitolo e per BlackCobra di nuovo una bella canzone (almeno lo penso io) con un bellissimo testo :)



12. Magic of Home

It takes a night to make it dawn.
And it takes a day to make you yawn, brother.
And it takes some old to make you young.
It takes some cold to know the sun.
It takes the one to have the other.

(Jason Mraz, Life Is Wonderful)

Charlie si sentiva come un prigioniero. I suoi pensieri continuavano a circolare attorno al suo futuro incerto, sempre con la stessa domanda “Come sarà?”  e non lo lasciavano andare. Tentava di sfuggire, di calmarsi, ma era nervoso e quasi non riusciva a sopportare il tempo d'attesa.
L'aereo aumentava questo sentimento di prigionia e Charlie desiderava ardentemente che andasse più veloce, portandolo alla risposta, ma la sua volontà naturalmente non poteva influenzare le leggi della meccanica. L'aereo era veloce, con o senza la sua volontà – e quanto più vicino lo portava a casa e verso le risposte che lì lo aspettavano, tanto meno sapeva se poi era ciò che davvero voleva.
Tentò di rilassarsi. Gli riuscì difficile, perché anzi quel sentimento di prigionia, fisico o mentale che fosse, scosse qualcosa nella sua memoria e fece crescere il panico dentro di lui. La sensazione di non poter uscire... la sensazione dell'impotenza... la sensazione di dover soffocare...
«Tutto bene, Charlie?»
Charlie trasalì e scoprì, con occhi sbarrati, prima la mano sul suo avambraccio e poi il viso di Don. Due occhi turbati e due preoccupati si scambiarono sguardi angosciosi. Charlie annuì, e pian piano realizzò che si era appena perso in un attacco di panico da cui solo Don l'aveva salvato.
«Certo» disse e sentì da lontano come le parole suonavano affrettate e rauche mentre il battito del suo cuore pian piano diventava di nuovo normale. «Certo, sto bene».
Don respirò profondamente, però non distolse gli occhi dal suo fratellino. Non poteva smettere di guardarlo, anche solo per essere sicuro che fosse sempre lì, accanto a lui. Era incredibile, semplicemente incredibile... Avevano riavuto indietro Charlie. Ora dovevano solo avere cura che tornasse di nuovo quello che  era stato una volta.
«Ehi, Charlie». Era assurdo. La sua voce suonava sempre rauca appena parlava con Charlie. «Ehi, vuoi forse... vuoi forse parlare con qualcuno?»
Charlie scosse il capo. Don tentò di essere comprensivo – tempo, pensò, ha semplicemente bisogno di tempo – e stava già per ritirarsi e per appoggiarsi indietro sulla sua sedia, lasciandolo in pace, quando Charlie rispose: «Non lo so».
Questo era già meglio di un "no". «Sono, ah... Sono sempre a tua disposizione».
Charlie annuì. Tacquero.
Don si schiarì la gola. «Charlie, volevo... volevo dirti che... che sono davvero felice che tu sia di nuovo con noi».
Charlie annuì ancora una volta. «Anch'io sono contento di essere con voi».
Ah certo, pensò Don fra sé, Charlie sembrava proprio pronto per una festa. «Non lo sembri».
Charlie tacque.
«Charlie... vorrei capire che cosa ti sta succedendo. Voglio aiutarti».
Di nuovo Charlie tacque. Don non seppe più che cosa dire, ma finalmente Charlie prese la parola. «Non lo capisco neanch’io che cosa mi sta succedendo».
Per qualche secondo Don tentò di capire almeno le parole di suo fratello anche se non poteva capire lui, però non ci riuscì. «Che vuoi dire?»
«Non so più chi sono, Don. Non so neanche chi sei tu. Non conosco niente e nessuno, nemmeno me stesso».
Don deglutì. «Andrà meglio, Charlie. Appena saremo a casa comincerai a ricordare, ne sono sicuro».
Charlie annuì, però tutti e due sapevano di temere che la loro speranza potesse risultare falsa.


- - -

Quando scesero dall'aereo, l'unica cosa che Charlie voleva era tornare a casa. Poi si accorse che non c'era più un posto che fosse “casa” per lui. Poi realizzò che non gli importava. Era talmente esausto per tutti gli eventi del giorno che non desiderava altro che calma e riposo. La partenza dalla clinica era stata difficile a lui, benché avesse scambiato il suo indirizzo solo con tre altri pazienti. Anche nell'aereo non aveva trovato la calma ed era stato troppo nervoso. Era semplicemente così tanto, così tanto di nuovo, così tante persone, così tanto tempo in compagnia di altri...
Nel taxi, si era quasi addormentato e quando questo si fermò, non poteva immaginare più bella cosa che rimanere seduto lì e andare avanti senza fine per tutta la notte. Con sforzo scese dalla macchina e fu contento che Alan e Don avessero le loro valigie e che lui non dovesse portare bagaglio.
Evitò di guardare la casa e anche, una volta entrati, l'arredamento. Alan lo guidò, come disse, nella sua vecchia stanza. Charlie provava a non vedere niente. In quel momento era troppo esausto per sopportare il rendersi conto di vedere la casa e non ricordare proprio nulla.
Cadde in un letto meravigliosamente morbido. Scivolò in un sonno riposante e per un attimo desiderò non svegliarsi mai.
 


- - -

Quasi senza fare rumore, Don aprì la porta. La luce che veniva dal corridoio disegnò un quadrilatero irregolare sul pavimento. Don lasciò la porta abbastanza aperta per distinguere la sagoma del fratello addormentato. Lentamente si avvicinò di soppiatto per guardare la figura tranquilla.
Sorrise. Era talmente bello vedere di nuovo Charlie, sapere che era vicino, sentirlo respirare. Charlie era di nuovo con loro. Era tornato dal regno dei morti e Don sarebbe stato sempre grato per questo.
Aveva proprio voglia di abbracciare il suo fratellino, però non voleva svegliarlo. Invece gli mise una mano sulla spalla magra e la strinse leggermente. Si sarebbe aspettato che Charlie avesse continuato tranquillamente a dormire, che tutt'al più avesse stretto di più la sua coperta. Non sia aspettava che il suo contatto gli provocasse un simile effetto.
Charlie si svegliò di soprassalto e subito si mise a sedere sul suo letto. La mano di Don era sparita dalla sua spalla, eppure Charlie menò colpi all'impazzata.
«Chi c'è?» ansimò e a Don rivoltò lo stomaco. Charlie aveva messo in quelle due brevi sillabe talmente tanta paura, talmente tanto panico, che quel timbro sgradevole si era rispecchiato negli occhi di Don.
«Charlie, calmati, ti prego...»
Don non avrebbe potuto fare una preghiera tanto più lontano dalla realtà. Charlie non pensava minimamente a mettere fine al suo attacco di panico. Era difficile sapere se in quel momento stesse pensando a qualcosa.
«Per favore, Charlie –»
Don aveva alzato la voce un po' e tentò di rimettere la sua mano sulla spalla di Charlie. La conseguenza fu che Charlie, invece di calmarsi, diventò sempre di più agitato.
Gradualmente Don si impaurì davvero, non solo perché Charlie si comportava da maniaco. Se suo fratello non si fosse calmato, era solo una questione di tempo prima di potersi far male.
«Charlie!»
Il tono di Don era diventato tanto più severo e anche più alto e per aumentare l'effetto osò il rischio: prese Charlie nelle sue braccia. Tenne il busto e le spalle magre del suo fratellino stretti contro il proprio petto. Sentì come Charlie fece resistenza, sentì che voleva fuggire da lui, però non glielo permise. Non avrebbe perso Charlie un'altra volta.
«Lasciami andare!» Charlie non smise di lottare, spingeva tentando di liberare le sue mani per dare colpi a qualsiasi cosa, ma Don lo tenne fermo.
«Tranquillo, Charlie. Stai tranquillo. Sono io, Don».
Con un secondo di ritardo la lotta di Charlie divenne ad un tratto più debole.
«Stai tranquillo» sussurrò Don ancora una volta nell'orecchio di Charlie. «Sono qui».
Adesso, la lotta si era completamente fermata. Charlie era seduto sul suo letto senza movimento. Però questo non voleva dire che Don avrebbe allentato il suo abbraccio.
«Don?»
La voce di Charlie arrivò a lui attraverso l'oscurità, sottovoce, sottile. Dolce, fragile.
«Sì, sono qui, fratellino».
Don sentì che suo fratello si rilassò un po' tra le sue braccia. Le spalle si afflosciarono un po', divennero più rilassate. L'atmosfera ostile si disperse nell'oscurità. Anche Don mollò un po' la sua presa sulle spalle di Charlie, però non lo lasciò andare. Era troppo bello il momento.
La tensione di Charlie lo lasciava sempre di più e una stanchezza di piombo precipitò su di lui. Appoggiò la sua testa contro la spalla di Don e si sentì al sicuro e bene come non si era sentito da tanto tempo. Sentiva il respiro calmo e costante di Don sulla sua nuca e nei suoi ricci e fermò gli occhi.
«Ora è tutto a posto?» mormorò Don nei capelli di Charlie.
Charlie annuì leggermente, sempre tenendo gli occhi chiusi. «Mi hai solo spaventato» farfugliò.
Un'onda di senso di colpa riempì Don. Charlie si sarebbe dovuto riposare, avrebbe continuato a dormire tranquillamente se Don non si fosse lasciato andare ai suoi bisogni egoistici. «Mi dispiace» bisbigliò. «Non lo volevo».
«Fa niente».
Don deglutì, chiuse gli occhi, strinse il dorso di Charlie ancora una volta per sentire come i polmoni lavoravano e il cuore batteva, e poi lo lasciò lentamente andare. Non credeva di farcela a controllare i propri sentimenti rimanendo lì, e allora pensò di andare, mentre, allo stesso tempo, non sapeva se avrebbe potuto sopportare di lasciare Charlie.
«Tu stai bene?» si assicurò e la sua voce soffocata gli disse cosa doveva fare.
Sentì che Charlie annuì, e si alzò su ginocchia insolitamente molle. «Vabbeh', dunque... dormi bene».
Alle sue orecchie, però, le parole suonarono maldestre e ne cercò febbrilmente delle altre, più utili, che trovò con sollievo. «Se hai bisogno di qualsiasi cosa – Papà e io ci siamo».
La sua voce non aveva perso la sua raucedine e dopo un ultimo sguardo a Charlie uscì frettolosamente dalla stanza. Chiuse la porta silenziosamente, vi si appoggiò contro, con occhi chiusi, e respirò profondamente.
«Tutto bene?»
Don sobbalzò. Il suo cuore non tornò a battere normale fino a che non vide suo padre sul pianerottolo.
Annuì. La sua voce era – ancora o di nuovo – un po' tremolante quando rispose: «Si è solo spaventato quando sono entrato. Ma penso che adesso sia tutto okay».
Sapevano tutti e due che "okay" era insufficiente. Charlie era stato morto, era resuscitato e adesso lottava per avere indietro una vita di cui non si ricordava. Niente era "okay".
 


- - -

Almeno sembrava esser "okay" quando la mattina dopo erano finalmente di nuovo tutti e tre seduti al tavolo per la prima colazione. Poco dopo Don, anche Alan era entrato in camera di Charlie. Suo figlio era ancora sveglio, ovviamente troppo agitato per riposarsi durante la notte. Alan gli aveva portato un bicchiere d'acqua e poi l'aveva lasciato con riluttanza. Però aveva dovuto essere forte  e lasciare che Charlie venisse a capo con se stesso. Tutto ciò che poteva fare era procurargli la calma necessaria. Comunque era contento che prima della loro partenza per il Nebraska avesse deciso, malgrado tutto, di preparare il letto di Charlie. Per ogni evenienza…
Don e Alan avevano deciso di lasciar dormire Charlie, cosa che non voleva dire che non avrebbero passato tutto il tempo a convincersi che era davvero lì, che era nel suo letto e respirava in modo regolare. Veramente meraviglioso cosa potessero provocare i sedativi.
Finora non avevano parlato della notte passata, e nemmeno intendevano farlo. Charlie sembrava tentare di reprimere il suo incubo e l'attacco di panico seguente, oppure l'aveva davvero dimenticato. Comunque il suo nervosismo poteva significare entrambe le cose.
In ogni caso ora sembrava come sempre. Era seduto lì al tavolo da pranzo con loro e mangiava la prima colazione come se niente non fosse mai successo.
Ma no. No, non era vero. Non era proprio come sempre. Charlie era cambiato. Don guardò il suo fratellino attentamente. I suoi capelli erano un po' più lunghi di come li ricordava, e il suo colorito sembrava un po' più pallido, ma forse la luce gli giocava un brutto scherzo, perché per il resto, Charlie sembrava in forma. Sveglio. Allarmato. Teso.
Era questo, teso. Lo sguardo di Don scivolò sulle spalle di Charlie. Rigide. Sospirò mentre il suo sguardo tornò agli occhi. Qualcosa non andava. Il colore era una cosa, ma quegli occhi...
«Che c'è?»
Troppo tardi Don realizzò che gli occhi lo stavano guardato.
«S-scusa, Charlie. Non volevo... fissarti ».
Grandioso, non era nemmeno capace di formare una frase completa. Suo fratello l'aveva di nuovo completamente distratto.
Ma diamine, era scomparso! No, non solo scomparso, morto! Charlie era morto!
Chi avrebbe potuto biasimarlo perché continuava a fissare il suo fratellino?
Era semplice... così incredibilmente travolgente. Charlie era lì, Don lo vedeva, era lì con loro, seduto al tavolo come se niente fosse accaduto!
«Che cosa vorresti fare oggi, Charlie?» chiese Alan e in tal modo permise a Don di dedicarsi un altro po' al suo fascino.
Charlie non rispose subito. Non poteva proprio dire "ricordare", vero?
«Non lo so» cominciò cautamente, «credo che vorrei... guardarmi attorno un po'. Se va bene per voi».
Alan volle gridare. Suo figlio si comportava come un estraneo. «Charlie, questa è casa tua. Puoi fare tutto quello che ti piace qui».
«Okay. Ah... grazie».
Si alzarono e Charlie stava per aiutare a riempire la lavapiatti quando Alan provò a dissuaderlo. «Lascia stare, Charlie, lo faccio io».
Ma Charlie gli lanciò solamente uno sguardo, e con una traccia di sollievo Alan notò che quello aveva qualcosa simile alla burla, che penetrava attraverso la tristezza, ricordandogli di prima che crollasse ogni cosa. «Pensavo che questa fosse casa mia, allora non dovrei esser trattato come un ospite, giusto?»
Alan sorrise. «Va bene, te ne ricorderò a tempo opportuno. Ma lo stesso riempirò io la lavapiatti da solo, non ho altra cosa da fare».
Charlie si diede per vinto e cominciò a vagare un po' insicuro per le stanze. Quella casa... Non l'aveva detto durante la colazione, ma era stato sui carboni ardenti. Ovunque guardasse...
Alan mandò un sospiro di sollievo. Era difficile. Poteva a malapena guardare Charlie senza pensare al dolore degli ultimi sei mesi, e allo stesso tempo era quasi impossibile per lui voltare il suo sguardo via da suo figlio. Come sembrava, tutti loro avevano bisogno di un po' di tempo e spazio.
Forse sarebbe stato più facile non appena avessero finalmente informato gli altri. Avevano deciso di non farlo in Nebraska. Ci sarebbero state troppe domande incredule a cui rispondere era sembrato troppo complicato e avrebbe richiesto troppa energia. E inoltre non volevano rinunciare a vedere i loro sguardi increduli ma felici appena sentita la notizia.
«E' qui dove si scende per la cantina?»
Alan si voltò, ma fu Don a rispondere. «Sì. Vuoi scendere?»
«Non adesso, ma...» Charlie esitò, deglutì e poi si voltò verso i due uomini. «Riconosco la casa».
Alan e Don si guardarono negli occhi, capirono e avrebbero voluto fare salti di gioia.
«Sul serio?» chiese Don, e un sogghigno abbastanza stupido apparve sul suo viso.
Charlie annuì mentre il suo sguardo continuava ad assorbire la casa. «È una delle cose che ho visto quando ero nella clinica... Manca un vaso lì?»
Indicò un comò accanto alla porta. Alan tentò di trattenere le lacrime. Charlie ricordava!
«Sì, hai ragione» rispose con voce appena tremolante. «Si è rotto da due o tre mesi».
Charlie annuì di nuovo e sembrava dirigere le sue prossime parole in parte verso loro, in parte verso sé stesso. «E qui non si trova...» Pochi secondi dopo il suo ultimo dubbio se n'era andato. Stette davanti al ritratto di Margaret. «E' mia madre». Era una dichiarazione, non una domanda.
«Te ne ricordi?»
Charlie annuì solo un'altra volta. «Ho visto anche lei. E... sapevo che era mia madre».
«Charlie, sai che cosa significa?» La voce di Alan fremette per la fortuna e altri sentimenti appena repressi. «Cominci a ricordare!»
Charlie non disse niente. Per i due poteva sembrare così. E anche lui, naturalmente, era contento che avesse riconosciuto la casa. Però quella era solo una conferma di ciò che si era già accorto di sapere di sé stesso alla clinica. Non era qualcosa di nuovo. Invece Don e Alan rimanevano estranei per lui.
Ad un tratto aveva il bisogno di fuggire da lì.
«C'è un laghetto di Koi qui, giusto?»
Alan non gli aveva ancora dato la risposta che Charlie stava già camminando fuori. Doveva restare da solo.



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Capitolo 13
*** Amici estranei ***


nonti13

Grazie per le recensioni :)
Spero che vi piaccia! Avendolo letto ripetutamente penso che sia un capitolo abbastanza divertente :)





13. Amici estranei

It takes no time to fall in love.
But it takes you years to know what love is.
And it takes some fears to make you trust,
It takes those tears to make it rust.
It takes the dust to have it polished.

(Jason Mraz, Life Is Wonderful)


Amita respirò profondamente, appoggiandosi contro la sua sedia girevole. Aveva passato l'ultima ora e mezza a correggere i compiti dei suoi studenti del secondo semestre e il suo intero corpo desiderava una pausa. Certo, avrebbe anche potuto portare i compiti a casa con sé, ma c’era solo un appartamento vuoto ad aspettarla. Almeno lì non era del tutto sola anche se di domenica c'erano un po' meno studenti e professori che durante i giorni di lezione.

Si alzò e facendo così, il suo sguardo cadde sul foglietto con il numero di telefono che il Dott. Baumgarten, un visiting professor, le aveva lasciato il giorno precedente. Amita aveva reagito in modo abbastanza freddo al suo flirt, però lui non aveva perso la speranza. E sì, era gentile ed intelligente e nemmeno di brutto aspetto. In fondo era l’uomo dei sogni. Ma in ogni caso l'uomo dei sogni di Amita restava ancora Charlie.

Era vero, non erano stati insieme per tanto tempo; all'inizio il suo dottorato era stato d’impiccio e poi... Poi tutto era finito comunque. E Amita non sapeva nemmeno se fosse stato meglio provare a tornare alla sua vita. Non avrebbe mai smesso di amare Charlie e non si sarebbe mai scordata di lui – ma lui avrebbe voluto che dopo la sua morte anche lei smettesse di vivere?

Amita sorrise. No. No, non l'avrebbe voluto.

E di nuovo lui requisì i suoi pensieri completamente finché lo squillo del suo telefonino la strappò via dai suoi sogni malinconici.

«Sì? Amita Ramanujan?»

«Ciao, Amita. Ascolta, potresti venire da noi per favore? Dovremmo parlarti di una cosa importante».

Era sorpresa, ma sentire la voce di Don e la sua preghiera le diede anche la sensazione di essere a casa.

«Certo. Ho appena finito lavorare comunque».

«Bene. E sai dov'è Larry? Puoi portarlo con te? ».

«Dovrebbe essere da qualche parte qui al campus. In ogni caso l'ho già visto. Cercherò di trovarlo, ma non ci dovrebbero essere problemi. Penso che saremo da voi tra mezz'ora, al più tardi».

Si congedarono e Amita riattaccò. La sua fronte si era corrugata in pieghe sottili. Non aveva idea del perché Don le avesse chiesto di venire. Era facile supporre che avesse qualcosa da fare con l'eredità di Charlie. Perché se lui – cosa che non sarebbe stata meno sorprendente – le avesse chiesto aiuto con un caso, l’avrebbe probabilmente aspettata con Larry alla centrale dell'FBI e non a casa sua.

Correzione: a casa di Charlie.

 
- - -

 

Esattamente ventiquattro minuti più tardi, Amita parcheggiò la sua macchina nel viale degli Eppes e scese con Larry. Alan e Don sembravano averli aspettati; aprirono la porta mentre i due professori stavano ancora camminando.

«Entrate, entrate pure» li pregò Alan.

Ai due non sfuggì che era abbastanza nervoso. Anche Don sembrava esser cambiato da quando l'avevano visto l'ultima volta. Ma il suo cambiamento era difficile da inquadrare. La sua eccitazione sembrava essere piuttosto interna; all'esterno emanava come sempre calma.

«Sedetevi, sedetevi. Volete bere qualcosa?»

«Volentieri» rispose Amita. «Allora di che cosa si tratta?»

Per la prima volta, l'eccitazione di Alan sembrò crollare un po' e senza capirne il motivo, i due notarono lo sguardo insicuro che lanciò verso suo figlio.

Don respirò profondamente e decise di cominciare all'inizio. Comunque sarebbe stato abbastanza difficile. Sembrava essere chiaro anche a suo padre perché a Don non sfuggì che Alan sparì con il pretesto di andare a prendere le bibite.

«Si tratta di Charlie» cominciò Don, sperando di poter raggiungere l'informazione chiave il più veloce possibile. «Non so se l’avete saputo, ma mio padre ed io non siamo stati in città negli ultimi giorni. Siamo stati in Nebraska». Si accorse delle loro sopracciglia inarcate e non seppe come spiegarlo loro. «Siamo stato lì perché... quattro giorni fa ho ricevuto una chiamata da una clinica. Mi hanno mandato una foto di Charlie. E hanno detto che era un loro paziente».

Con questo, la confusione per i due era perfetta.

«Vuoi dire» cominciò Larry con rughe profonde sulla fronte «che Charles è stato loro paziente prima di morire? Ma era coinvolto in quest'operazione segreta… non ha senso».

Don scosse il capo. Vagamente si accorse che Alan ci stava mettendo molto con le bibite. Odiò la fiducia che gli altri avevano in lui.

«No, non è così. Il giorno in cui hanno chiamato, Charlie era ancora loro paziente».

«Ma hai appena detto che la chiamata era stata fatta solo quattro giorni fa!» obiettò Amita. Anche lei non sembrava capire la meravigliosa novità.

«E' vero. Ma Charlie non è morto. E' vivo».

 

Don si sentì riportato al giorno in cui Amita aveva saputo della morte di Charlie. La sua gesticolazione di allora assomigliava in un modo quasi inquietante a quella di adesso: lo sguardo incredulo, lo scuotere del capo...

«Ma non può essere...» Ad un tratto la sua voce suonava rauca e fioca.

«Ma è vero» disse Don, e non poté evitare che, accanto al suo sorriso, le lacrime entrassero nei suoi occhi. «Charlie è vivo. È su, in camera sua».

«Intendi qui, in questa casa?!»

Per un attimo Don aveva creduto che Larry volesse  balzare in piedi, però i suoi piedi non sembravano riuscire a sopportarlo.

Don annuì. Anche lui sentiva di nuovo il nodo alla gola, ma erano segni di felicità e non più di lutto.

«Charlie?» chiamò in alto e la sua voce diede un po' nel falsetto.

Amita e Larry guardarono le scale, incantati. Poi sentirono aprirsi una porta lassù e pochi secondi dopo apparve un Charlie perfettamente vivo che scese le scale con un'ombra della leggera spensieratezza di una volta.

Don diede uno sguardo di sbiego ai due e pensò che Amita stesse per svenire. Don era felice che fossero già seduti, perché così solo un "Dio mio" uscì dalle labbra appena aperte della professoressa. Larry non sembrava meno sconcertato. I due guardarono Charlie come se fosse un fantasma. E forse lo consideravano tale.

«Ciao» disse Charlie, e nella tensione suonò disinvolto in modo quasi pazzo. Eppure Charlie era smodatamente nervoso. Non era stato facile per lui aspettare lassù in camera sua, lasciato con oggetti che in un modo strano gli erano molto famigliari, finché Don e Alan non avessero messo a parte Amita e Larry di quegli eventi folli. Ma naturalmente aveva capito la necessità del processo quando aveva ricordato che tutte quelle persone lo consideravano – o avevano considerato – morto. E sembrava che avessero davvero provato qualcosa per lui, constatò Charlie. Comunque le lacrime nei loro occhi spalancati con incredulità erano indicatori abbastanza chiari di questo. Le lacrime e i loro movimenti. Perché non ce n’erano; e proprio come pochi giorni prima era stato con Alan e Don, Charlie vide le due persone sedute davanti a lui come pietrificate prima che la donna riuscisse a liberarsi dalla sua rigidità per precipitarsi verso lui.

Abbastanza sovraccarico con la situazione, Charlie ricambiò l'abbraccio il meglio possibile, tentando di ignorare il più possibile i singhiozzi della donna. Deglutì. Rilassati, si disse. E la tua ragazza. Dovresti essere gentile con lei.

Con un sentimento sgradevole nello stomaco si accorse che quella don... che Amita probabilmente si aspettasse più di una reazione "gentile" da lui, però per il momento non sembrava aspettarsi proprio niente. Non sembrava essere capace di più che tenersi ferma contro di lui e bisbigliare in singhiozzi senza pausa il suo nome e "Dio mio".

«Com'è possibile?»

Charlie era quasi felice che la sua attenzione fosse distratta, ma non era tanto più facile guardare la faccia incredula dell'uomo che ancora non si era mosso di un centimetro.

«Perché non ci hai detto che...» L'uomo ammutolì e Charlie si chiese se la sua voce suonasse sempre talmente rauca, mentre Don adesso – troppo tardi – si accorse che aveva dimenticato di dire loro qualcosa.

Charlie sapeva che doveva una spiegazione ai due, però non sapeva da dove cominciare. Comunque non sapeva lui stesso che cosa fosse successo.

«Non mi ricordavo di voi» confessò infine.

Con uno scatto, la ragazza nelle sue braccia levò la testa, indietreggiando un mezzo passo da lui. «Che cosa?!»

Charlie non sapeva che cosa dovesse o potesse fare. Si sentiva come se avesse fatto qualcosa di sbagliato e fu felice quando qualcuno gli venne in aiuto.

«Non ricordava nessuno. Ha un'amnesia».

Alan, il salvatore nella sventura, era apparso sulla porta della cucina.

Amita prima guardò brevemente lui, poi Charlie e poi di nuovo Alan. «"Ha"? Aveva un'amnesia, vuoi dire. Adesso ti ricordi chi siamo. Vero, Charlie?»

Charlie si sentì osservato in modo sgradevole ed era ben possibile che questo fosse per i quattro paia di occhi puntati su di lui.

«Io... Ha ragione. Non mi ricordo di voi. Neanche ora».

 
- - -

 

Amita si liberò completamente dalle sue braccia. Semplicemente non poteva crederlo. Che cosa stava succedendo? Charlie non era morto, era vivo, ma li aveva dimenticati tutti?

Ma che diavolo era?

Amita era sicura che sarebbe ammattita da un momento all'altro e subito dopo si chiese se non era già ammattita da tempo, perché quella sembrava essere l'unica spiegazione per ciò che stava accadendo.

«Vuoi dire che non sai chi siamo?» chiese appena ebbe ritrovato la sua voce. Però suonava sempre rauca e adesso anche confusa; era tutto così tanto...

Charlie scosse il capo e lei credette di sentirsi mancare il terreno sotto i piedi. All'indietro, fece un paio di passi verso il divano e si lasciò cadere giù, e pian piano la stanza smise di girare.

«Beh', voglio dire, adesso lo so» disse Charlie in un tentativo insufficiente di minimizzare il fatto. «Don ed Al... mio padre mi hanno raccontato tutto. Cioè le cose più importante».

Amita scosse il capo. Era talmente incomprensibile! Charlie era morto ed era vivo! Lo vedeva lì, davanti a lei, con i propri occhi, in quella stanza, in carne e ossa! Era talmente inconcepibile; semplicemente non sapeva come prendere la situazione. Charlie era di nuovo con loro, ma non sapeva niente di lei, non sapeva niente di tutto; Don ed Alan gli avevano raccontato le cose più importanti, ma non avrebbero mai potuto raccontargli delle cose che erano accadute solo tra loro; quelle erano cose per Charlie completamente sconosciute e che creavano una distanza tra lui e lei insormontabile, una distanza che forse era più grande della morte...

«Io... non riesco ancora a capirlo...» Tutti si voltarono verso il pallido Larry le cui fattezze confermarono perfettamente le sue parole. «Com'è possibile?»

«Crediamo che ci sia stato un errore» Don diede la risposta nel modo più calmo possibile. «Devono aver scambiato un altro cadavere per... per Charlie. Crediamo che sia stato catturato, forse da gruppi radicali. Ad ogni modo, è tornato negli Stati Uniti prima che fosse raccolto dalla strada da un camionista».

Amita e Larry guardarono Charlie a bocca aperta. «Non so se tutto questo sia vero». Si vide costretto a difendersi, e ripeté a voce più basso: «Non lo so».

Il silenzio scandì il tempo in cui Charlie si sentiva – giustamente – osservato, no, fissato. Finalmente fu Alan a sciogliere il silenzio andando alla credenza del soggiorno, tirando fuori due bicchierini e una bottiglia di brandy. Larry ed Amita all'inizio lo guardarono un po' confusi.

«Aiuta» disse Alan poi.

Amita si accorse che aveva ragione. Comunque non riusciva ancora a crederci, ma adesso almeno non si sentiva più così confusa e irrazionalmente pensò che tutto gli fosse più chiaro grazie all'alcol.

«E cosa succederà adesso?»

Di nuovo, Don diede la risposta, e pian piano Charlie si sentì un po' messo sotto tutela. «La dottoressa della clinica ha detto che forse ricorderà appena vedrà tutte le cose e i posti famigliari. Noi dovremmo aiutarlo ad accomodarsi di nuovo». Fiero, aggiunse: «Ha già riconosciuto la casa».

Charlie stava per correggerlo, per specificare che non era del tutto corretto, che si ricordava di quella casa già da mesi, ma all'ultimo momento desisté. Di nuovo si accorse parzialmente di quello che stava succedendo, che stava succedendo dentro ognuna di quelle persone. Quei quattro estranei si conoscevano talmente bene e sembravano felicissimi di averlo di nuovo tra di loro. E Charlie semplicemente non sapeva come trattare quella situazione; non sapeva dove fosse il suo posto.

«Lo vuoi anche tu?»

Quattro teste si voltarono verso Larry e si accorsero dei suoi occhi ancora puntati su Charlie. Proprio come lui, avevano fissato il figlio considerato perso, ma diversamente da loro lui non aveva cercato tratti famigliari, ma aveva tentato di decifrare quelli sconosciuti. Il modo in cui Charles li stava trattando era cambiato – e adesso che anche Larry sapeva della sua perdita di memoria, non ne era più sorpreso –, però pensò di aver trovato una traccia di contrarietà nella mimica facciale di Charles quando Don aveva spiegato la situazione senza lasciargli la parola. Non poté fare a meno di chiedersi se fosse stato così anche prima della catastrofe. Però prima che trovasse una risposta, fu colto dalla domanda successiva: Charlie voleva quello che gli altri decidevano senza chiedere nulla? Voleva accomodarsi di nuovo?

Ricevette sguardi privi di comprensione che non svanirono nemmeno quando capirono la sua domanda grazie alla risposta di Charlie: «Io... certo che voglio ricordare».

Larry respirò profondamente. Charles voleva rientrare nella loro vita. Era buono.

Era incredibile.

Larry semplicemente non ci riusciva ancora a togliere i suoi occhi da Charles. Semplicemente non era possibile. Aveva le allucinazioni? Oppure per qualche strano motivo stava guardando il passato? Forse Charles ce l'aveva fatta a realizzare una macchina del tempo?

Non sarebbe stato meno credibile del pensiero che Charlie fosse ancora vivo.

«C'è forse qualcuno che può confermarmi che questo sta veramente succedendo?»

«Sta succedendo, Larry».

Larry guardò in alto e il suo sguardo confuso trovò il sogghigno di Don. E se Don sogghignava, qualcosa doveva veramente essere cambiato alla base...

Era vero. Charlie era tornato. Era vivo.

«Scusatemi un attimo» riuscì a dire Larry e prima che fuggisse nel giardino, tutti videro distintamente lo scintillio che scivolava giù dalle sue guance.



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Capitolo 14
*** Merce fragile ***


nonti14


Ciao ciao, i miei cari lettori :)

Spero che ci siate ancora...


Mille grazie alle recensori! Devo confessare che ero un po' sorpresa che il titolo dell'ultimo capitolo vi fosse piaciuto talmente tanto, perché a me non piaceva veramente... beh, almeno non mi piaceva finché Alchimista non l'aveva cambiato un po' :)




14. Merce fragile

 
Do you ever feel like breakin’ down?
Do you ever feel out of place,
Like somehow you just don’t belong,
And no one understands you?

(Simple Plan, Welcome to My Life)

 

Non era passato molto tempo prima che anche Amita avesse preferito il giardino alla casa soffocante. E lì, fuori, anche le sue vertigini si erano pian piano smorzate.

Erano rimasti fino a sera, ma alla fine, avevano capito di non poterlo più sopportare. La verità non era cambiata: Charlie non poteva ricordarli. E la loro forza bastava appena per seguire il consiglio della ex-dottoressa di Charlie: dargli tempo. Dovevano semplicemente tutti prendersi il tempo di cui avevano bisogno.

I due, con emozioni miste, ma definitivamente confusi, erano appena usciti dalla casa degli Eppes quando dentro il telefono squillò. Per quanto sembrasse, non c'era in effetti mai calma in quella casa.

Don osservò suo padre prendere il ricevitore, e la sua espressione e le sue parole gli fecero capire che la chiamata era per Alan. Stava già per voltarsi altrove, chiedendosi se Charlie forse si fosse ritirato nel suo garage e se avesse potuto tenergli compagnia, quando una parola di suo padre lo fece voltare di scatto: «Morto?»

Don vide la propria confusione rispecchiata negli occhi di suo padre, benché nel più vecchio fosse probabilmente più sorpresa che altro. Tacque per qualche secondo e poi disse, con lo sguardo un po' distratto: «Mi dispiace, Martha, davvero. Questa cosa... è sempre molto difficile». Di nuovo il silenzio. Don osservò ancora suo padre attentamente. «Sì. Sì, certo che posso venire. Naturalmente. – Va bene. E... Martha?» Esitò. «...Rimani forte, ok? E se hai bisogno di parlare con qualcuno, chiamami, in qualsiasi momento».

Riattaccò e fissò il telefono per alcuni attimi prima che Don chiese: «Che è successo?»

«Jerry è morto. Infarto cardiaco» disse Alan. Sembrava ancora un po' assente col pensiero. Don poteva capirlo. Suo zio Jerry, il marito della sorella di suo padre, era – almeno due anni fa, quando l'aveva visto l'ultima volta – abbastanza in forma. Abitava a Chicago, ci lavorava come avvocato e guadagnava abbastanza bene. Non era nemmeno in pensione, aveva poco di più di 60 anni. Di sicuro lui e Martha, sua moglie, stavano già pregustato la sua pensione e il fatto di poter trascorrere più tempo insieme. Probabilmente avevano sempre creduto che ci sarebbe stato un “più tardi” e un futuro insieme per loro. Adesso quel sogno era definitivamente andato a monte.

Don poteva capire come doveva sentirsi adesso Martha.

«Oh» fece, e si accorse perfettamente che era un commento molto inespressivo. «E adesso?»

«Il funerale sarà dopodomani. Ho già promesso di andare. Non posso lasciare Martha da sola». In ogni caso anche lei era stata lì per lui dopo la morte di Margaret. Solo con la differenza che Alan riusciva a mala pena a sopportare l'idea di dover lasciare da soli i suoi figli di lì a poco.

«Ma se voi avete bisogno di me qui...»

Don scosse il capo. «Siamo adulti, Papà».

«Non è questo che intendo– »

«Lo so. Ma Charlie sembra stare piuttosto bene, no? E forse è più facile per lui se non ci siano due, ma un solo matto che lo soffoca di attenzioni».

Le parole furono dette con un sorriso leggero, benché forzato, ma a Don non sfuggì che suo padre avesse difficoltà a lasciar solo il suo figlio minore tanto presto.

«Potreste semplicemente venire con me...»

Perfino Alan sapeva che era un'idea assurda. Al funerale ci sarebbero stati un sacco di parenti di cui la maggior parte considerava Charlie ancora morto. Tanta gente che non conosceva e tanta gente che conosceva e di cui, in tutta probabilità, non si sarebbe ricordato. Dintorni sconosciuti. Stress puro e perciò veleno per i suoi nervi attualmente così sensibili.

Di nuovo Don scosse il capo.

«Non preoccuparti, Papà. E in ogni caso sarai di nuovo con noi fra due, tre giorni». Guardò l'orologio e cambiò argomento: «Charlie è già a letto?»

Alan annuì. «Così sembra. E' stato un giorno lungo per lui. E anche per me, ad essere sincero. Penso che lo imiterò».

«Vabbeh'. Notte, Papà».

Don non andò ancora a letto. Prima osservò il ritratto di sua madre, vagò un po' per la casa senza meta e finalmente si sedette sul divano. La sua testa girava sempre talmente tanto intorno a tutti gli eventi più recenti che anche lui avvertiva chiaramente la stanchezza; però era troppo occupato con i suoi pensieri per poter andare a letto. Rimase seduto sul divano, prendendo ogni tanto un sorso di birra e meditando, con il più leggero di tutti i sorrisi sulle labbra, sulle svolte della vita.

 

- - -

 

La casa era sempre un po' estranea per Charlie, soprattutto la mattina. Durante le prime ore della giornata, tutto era talmente fresco e freddo e ogni giorno di nuovo... nuovo. Naturalmente conosceva le immagini già da prima, ma erano nella sua testa senza la sensazione di essere a casa. Si sentiva come un intruso, come se facesse qualcosa di vietato quando passava furtivamente per le stanze. Era vero che Don e Alan – Charlie riuscì solo tiepidamente a correggersi, sostituendolo con 'Papà' – avevano detto che quella era casa sua, ma poteva veramente essere la propria casa se non poteva nemmeno ricordarlo?

Le scale scricchiolarono benché Charlie camminasse il più vicino possibile al muro. E benché questo rumore lo facesse pensare ai tempi passati, suonò inopportuno. Non voleva svegliare nessuno. Rendeva le cose assai difficile ai due anche senza che li svegliasse presto la mattina.

Sorrise leggermente. I due si s'incomodavano talmente tanto. E adesso anche Amita e Larry. Charlie quasi non riusciva a credere che si adoperassero talmente tanto per lui, perché lui potesse ricordare. Dovevano davvero tenere molto a lui.

Ma purtroppo non è reciproco. Non vi conosco più.

Charlie si arrestò. Non poté andare avanti, non ne aveva più la forza. Perché non poteva ricordare? Perché semplicemente non funzionava? Per lui non c'era nessun dubbio che ogni cosa sarebbe stata migliore se solo avesse potuto finalmente di nuovo ricordare quella vita. Perché non si era smarrita solo la sua memoria, ma anche le sue emozioni. E in quel momento, quella perdita gli appariva ancora più dolorosa.

Poteva... semplicemente non poteva ricordare com’erano le sue relazioni con tutta quella gente. L'aveva amata prima? Oppure i loro rapporti erano stati abbastanza freddi? Avevano abitudini che lo potevano far imbestialire? E se ne c'erano, quale erano? E queste abitudine l'avrebbero snervato ancora oggi?

Charlie sospirò. Per circa la centesima volta si chiese che cosa sarebbe successo se non avesse potuto ricordare, mai più. Avrebbe dovuto crearsi un’intera vita da capo, proprio come stava facendo adesso. E non avrebbe solo dovuto crearsi di nuovo il suo lavoro e la sua memoria, ma anche le sue relazioni. E dopo il lavoro sulle dinamiche delle relazioni che aveva trovato nel garage e aveva apparentemente scritto lui stesso, le sue nuove relazioni sarebbero probabilmente state diverse da quelle vecchie. Almeno da parte sua, perché lui aveva una base diversa, ricordi diversi, più recenti. Gli altri, però, si sarebbero aspettati da lui lo stesso trattamento di prima – pur non sapendo come fosse ogni cosa prima di tutto questo.

Il problema era che non sapeva nemmeno che cosa gli altri si aspettassero da lui. Poteva solo sentire che erano scontenti, non direttamente con lui, ma con la situazione. Alan e Don lo colmavano di attenzioni e... , realizzò Charlie, di amore. E comunque lui non aveva difficoltà a essere gentile con loro; li voleva bene, era già abbastanza affezionato a loro, perfino Amita e Larry benché li conoscesse solo da qualche ora. Amava essere insieme a tutti loro. Però ancora non osava sbilanciarsi. Doveva sempre mantenere il controllo, sempre mantenere un po' le distanze, rimanere cortese e gentile. Non doveva perdere il controllo di se stesso. Chi poteva sapere se Alan e Don l'avrebbero cacciato non appena si fosse comportato in modo sbagliato?

Il più piano possibile passò furtivamente nella cucina, badando a che neanche la porta facesse rumore. Riempì un bicchiere d'acqua dal rubinetto prima di tornare con passo felpato fuori, destinazione soggiorno. Già aveva quasi vuotato il bicchiere quando, con la coda dell’occhio, vide una figura sul divano, e si arrestò.

Lentamente, il suo braccio si abbassò finché non pendette, come senza di vita, accanto al suo fianco, il bicchiere rimasto tra sue dita solo per caso. La figura sul divano era Don, però non era quel Don che Charlie aveva conosciuto durante gli ultimi giorni, non solo quello, era anche un altro Don...

Charlie era troppo occupato con le immagini dalla sua memoria per  accorgersi che il bicchiere scivolò giù dalle sue dita e si infranse sul pavimento.

 

- - -

 

Lui e Charlie erano bambini. Correvano su e giù nel giardino, giocando ad “acchiapparello" e benché Don fosse il più grande dei due, Charlie riusciva ogni tanto a sfuggirgli. Ecco, di nuovo gli sfuggiva, inciampando all’indietro. Ad un tratto qualcosa tintinnò e Don vide che la mano di Charlie batté contro il vaso preferito della loro mamma, che traballò, traballò e infine pendette da un lato, oltre il centro di gravità. Don era rigido.

Il tintinnio si perse benché il vaso stesse ancora traballando. E poi, che faceva quel vaso lì? Erano a giocare fuori! C'era un errore, da qualche parte...

Don aprì gli occhi e realizzò quasi subito che aveva sognato. Sognato di tempi più felici. Sospirò e si sedette; indietreggiò spaventato quando si accorse che non era l'unico nella stanza.

Charlie stava in piedi a fissarlo, gli occhi spalancati e diretti in modo molto strano verso qualcosa di lontano. E attorno ai suoi piedi c'erano pezzi di vetro, a quanto pareva di uno dei bicchieri della credenza. Ecco da dove era venuto il tintinnio.

Gli occhi di Don vagabondarono di nuovo sulla faccia di Charlie, e venne colpito da un sentimento spiacevole. Che cosa stava succedendo? Charlie era sonnambulo? Che cosa significava quello sguardo, quegli occhi rigidi che lo spaventavano in modo irrazionale?

«Ehi, Charlie» disse Don a bassa voce, ma suo fratello non sembrava poterlo sentire. In modo lento e cauto Don si alzò dal divano. Vide che Charlie si irrigidì. «Tutto bene, fratellino» tentò di rassicurarlo, e manteneva i suoi movimenti lenti. Però aveva appena fatto il primo passo verso Charlie quando suo fratello indietreggiò, mettendo i piedi in mezzo ai cocci.

Don trasalì per il dolore al posto di Charlie. Perché suo fratello non sembrava sentir nulla. Manteneva solo quegli occhi fissi ed allarmanti su di Don.

«Charlie, fermati, ti prego» lo ammonì Don. Fece un passo incredibilmente lento verso suo fratello che indietreggiò di nuovo di altri due passi e così camminò ancora tra altri cocci.

«Accidenti, Charlie, fermati!»

Don si pentì subito della sua violenza. Un altro passo, e Charlie si indietreggiò da lui fino a che non fu stretto contro un angolo della stanza e non si mosse più. Solo quegli occhi non sparivano, quegli occhi rigidi, da folle...

Don camminò attorno il tavolo da pranzo affrettatamente finché non fu solo ad un metro da Charlie che lo guardava sempre fisso.

Don non sapeva più che cosa fare. Vide che almeno uno dei piedi di Charlie sanguinava, ma suo fratello ancora non sembrava essersene accorto.

«Ehi, Charlie... stai bene?» La domanda gli apparve talmente stupida che subito dopo ne fece un'altra: «Puoi sentirmi?»

Charlie annuì leggermente, però manteneva quello sguardo.

«Lasciami vedere il tuo piede». Don aveva già allungato le mani, ma Charlie si premette con più forza contro il muro.

Don voleva urlare. Che cosa stava succedendo? Perché Charlie ad un tratto aveva paura di lui? No, era peggio della paura; era panico nudo e crudo.

«Charlie, non ti farò niente, te lo giuro».

Però era inutile. Don si accorse che Charlie stava continuando a respirare a mala pena e a fissarlo come se vedesse un fantasma.

«Non ti farò niente, Charlie. Ricordi? Sono Don, tuo fratello». Ancora nessuna reazione. «Mi riconosci?» Anche la respirazione di Don era diventata più sommessa, talmente temeva la risposta.

Charlie rimase muto. Però annuì.

Don avrebbe quasi riso per il sollievo. «Mi riconosci? Allora sai che non ti farò niente?»

Questa volta, Charlie ci mise più tempo per dare la risposta, ma anche questa volta fu un annuire leggero.

«Vabbeh. Vabbeh, Charlie. Va tutto bene. Allora lasciami vedere il tuo piede».

Il sentimento inquieto rimase quando Charlie continuò a fissarlo con occhi rigidi. Ma almeno non fece resistenza quando Don si avvicinò. Si chinò sui piedi di Charlie e, involontariamente, si vide assalito da uno strano sentimento, estremamente simile alla paura, quando voltò via i suoi occhi dalla faccia di Charlie e gli presentò la sua nuca indifesa. Come se suo fratello potesse da un momento all'altro affondarci i suoi denti.

Scontroso, Don scosse la testa. Charlie non gli avrebbe fatto niente. Nemmeno se si stava comportando da pazzo.

«Sembra esser abbastanza brutto, Chuck» disse Don tentando di mantenere il timbro della sua voce abbastanza leggero. «Qualche coccio è ancora dentro e il tuo piede destro è tagliuzzato in modo abbastanza brutto, per quanto ne capisca. Forse faremmo meglio ad andare all'ospedale per lasciarlo suturare».

Si alzò e fece un passo via da Charlie, però quello ancora non reagì.

«Mi metto solo qualche vestito. Non muoverti, va bene?»

Charlie non si mosse affatto; non fece nient'altro che fissarlo. Don rabbrividì e si affrettò a mettere i vestiti che, fortunatamente, erano a portata di mano sopra la spalliera del divano cosicché poteva continuare a osservare suo fratello.

 

Eccetto i calzini e scarpe, Charlie era vestito; allora Don pensò fosse meglio andare in ospedale subito, soprattutto perché Charlie attualmente non era molto reattivo.

Le cose che lui considerava migliori però non erano necessariamente quelle che avevano l'approvazione di suo fratello. Charlie sembrava sempre anestetizzato, come se qualcuno gli avesse somministrato delle droghe. Don lo dovette letteralmente tirare con le proprie braccia verso il SUV. Fece una smorfia quando vide la traccia di sangue che Charlie perdeva. Gli aveva tolto i cocci grandi, però non aveva considerato raccomandabile fasciare il piede, e sperava che suo fratello avesse fatto attenzione poggiando il piede a terra perché i cocci non penetrassero ancora più profondamente nella carne.

Però immaginava già che la sua speranza fosse inutile. Charlie ancora non sembrava sentire la sua ferita. Ma questo serviva solo a rendere Don ancora di più preoccupato.

Guidando verso l'ospedale si chiese se non fosse stato un errore di non informare suo padre. Naturalmente, gli aveva scarabocchiato tutto in fretta su un pezzetto di carta: Attenzione, cocci. Charlie ci ha camminato sopra. Siamo in ospedale. Spero e penso che saremo a casa in breve. Però sarebbe stato grato se non avesse dovuto essere da solo con quel Charlie improvvisamente tanto strano e se non si fosse dovuto assumere una simile responsabilità senza nemmeno sapere che cosa stesse succedendo. Il giorno prima era stato così normale – almeno considerando che non poteva ricordare la sua vita. Che cosa poteva essergli successo da allora?

 

Don parcheggiò il SUV il più vicino possibile all'entrata dell'ospedale, corse attorno alla macchina e aprì la portiera del passeggero. Charlie non sembrava essersene accorto. Don avrebbe preferito scuoterlo, ma aveva troppa paura. Vide lo sguardo vuoto di Charlie e la sua figura magra, accoccolata nel sedile, e fu come se potesse vedere direttamente nell'anima di suo fratello. Charlie era così incredibilmente fragile, così immensamente vulnerabile che Don aveva timore anche solo a toccarlo.

Però probabilmente non aveva altra scelta.

«Ehi, fratellino…» disse a bassa voce, quasi bisbigliando come se le onde acustiche potessero far crollare la figura instabile di Charlie.

Tutto delicato, gli mise una mano sulla spalla, aspettando angosciosamente la reazione di suo fratello.

Charlie voltò la testa, guardandolo negli occhi scuri dalla fine di qualcosa che sembrava un tunnel lungo decine di chilometri di vuoto. Tacque.

Don deglutì. «Ehi... puoi camminare? Dobbiamo entrare». Cautamente, tirò Charlie con la maglietta e lo trascinò fuori dalla macchina. Charlie lo lasciava fare tutto senza mostrare una qualsiasi reazione.

In seguito, Don non avrebbe saputo dire come ce l'avevano alla fine fatta a raggiungere un dottore che tolse i cocci dal piede Charlie, lo fornì di cerotti e suturò la pianta del piede destro con pochi punti. Inizialmente il dottore avrebbe voluto tenerlo in ospedale perché supponeva che Charlie avesse uno shock, ma infine Charlie era riuscito a rispondere alle domande del dottore con sua soddisfazione e dopo un controllo breve quello, con un po' di riluttanza, aveva mandato i due a casa, però non senza aver ripetuto a Don a cosa avrebbe dovuto fare attenzione se avesse constatato che Charlie aveva realmente uno shock.

Quando furono di nuovo seduti in macchina, Don non era sicuro di dover essere contento che Charlie non fosse rimasto in ospedale o meno. Ma in ogni caso era contento che fra poco avrebbe potuto parlare con Alan.

Don parcheggiò il veicolo davanti casa e quando la sua portiera si chiuse, anche Charlie cominciò a scendere lentamente. Stava già per muoversi quando Don glielo impedì tendendogli le stampelle. Charlie le prese senza commento e si mise in moto, senza dirigersi, però, verso la porta di casa.

«Ehi, Charlie!» Cautamente, Don lo prese per la spalla, tentando di farlo rivolgere verso sé. «Dove vuoi andare?»

Charlie nemmeno si volse verso di lui prima di borbottare un “garage” appena percettibile.

«Ti accompagno?» Don aveva già preso mezzo passo nella direzione di Charlie quando vide che suo fratello scosse la testa. La preoccupazione e l'impotenza crescevano dentro di lui mentre fissava la sua schiena, osservando come suo fratello scompariva nel garage.

 

- - -

 

Charlie era ancora nell'altro mondo, quello sfumato, meno reale. Eppure a lui quel mondo in un modo strano sembrava tanto più verace che i propri tentativi disperati di riavere indietro la sua vita.

L'immagine di quel Don sdraiato lì, privo di vita, era rimasta e non si era sciolta nella nebbia della dimenticanza. Benché Charlie stesse davvero male mentre osservava quell'immagine della sua memoria, era anche incredibilmente felice e sollevato che non scomparisse più, che ci fosse ancora qualcosa dalla sua vita precedente, che ci fosse una prova che prima di tutto questo aveva veramente avuto una vita. Anche prima aveva già visto quell'immagine, però non se l’era mai propriamente ricordata, e mai quell'immagine era stata tanto chiara ed era rimasta nella sua memoria per tanto: ciò che puntualmente restava era solo una sensazione…

Concentrandosi il più profondamente possibile, Charlie finora aveva tentato di classificare l'immagine con quello che sapeva già, di dargli una storia. Che cosa era successo prima? Che cosa dopo? I suoi pensieri erano stati talmente assidui e intensi che si era appena accorto di cosa gli stava succedendo intorno. Qualche volta, la faccia sfocata di Don gli era apparsa davanti, una volta quella di un uomo in camice bianco... Charlie non aveva nemmeno capito se quelle fossero la verità o solo immagini sognate, ma non se n'era importato affatto.

Non era neanche al cento percento sicuro che quell'immagine del Don immobile fosse stata davvero estratta dalla realtà, perché i suoi sforzi per ricordare le circostanze concomitanti erano simili a quelli che si fanno per ricordare un sogno quasi perduto. Però Charlie si aggrappava alla speranza che forse adesso potesse finalmente venire a sapere qualcosa di sé.

Quello era almeno un posto silenzioso e nessuno lo avrebbe disturbato. Da sempre il suo garage era stato il posto dove aveva potuto riflettere al meglio.

Charlie si arrestò. No, era vero. Sapeva che quello era il posto dove aveva sempre preferito riflettere, lo sentiva istintivamente. Questo era un tipo di ricordo: cominciava a ricordare!

Con determinazione rivide l'immagine del Don dormente e nella sua testa mischiò all'immagine del Don immobile e intriso di sangue della sua memoria...

Don aveva la sua giacca dell'FBI. Il suo viso era voltato, ma i capelli scuri erano visibili. La sua arma di servizio era allentata nella sua mano che non avrebbe mai più potuto afferrarla, né l'arma,  né alcun’altra cosa. La prova di questo era il cambiamento scuro di colore sulla giacca, sulla “F” di “FBI” scritto in giallo. Sul giallo era anche visibile che il liquido scuro in realtà era rosso. E questo ed il fatto che Don non si muovesse, né si sarebbe mai più mosso, significavano che la pallottola l'aveva colpito esattamente al cuore.

Charlie rabbrividì istintivamente. Sapeva che era la verità, che aveva davvero visto quella scena. E sentì la voce che era infallibilmente collegata a quell'immagine: «È colpa sua, Dott. Eppes. Lei ha ucciso suo fratello».





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Capitolo 15
*** Cogito, ergo sum - ma che cosa? ***


nonti15
Beh, è passato un po' di tempo dall'ultima volta, ma spero che vogliate ancora sapere come continua la storia. Ricordiamoci: Charlie ha saputo che Don è morto... ma che diavolo?! Allora spero che siate almeno un pochino curiosi :)
@ agrumi: adesso ho trovato il passaggio dove si dice che la casa appartiene a Charlie... scommetto che lo troverai anche tu fra poco :)




15. Cogito, ergo sum – ma che cosa?

I’m all tied up on the inside.
No one knows quite what I’ve got.
And I now that, on the outside,
What I used to be I’m not

Anymore.
(Don McLean, Crossroads)



Repentinamente, Charlie si liberò dai disordini della sua memoria e si alzò. Trasalì subito e fece una smorfia di dolore. Il suo piede. Qualcosa non andava col suo piede. Charlie guardò in basso, vide il bendaggio e si ricordò vagamente dell'uomo col camice bianco. Un po' confusi, i suoi occhi attraversarono il garage cercando altri accenni, finché non trovarono le stampelle. Senza esitare Charlie le afferrò e provò ad andare il più veloce possibile verso casa. Doveva andare da Don, era importante, doveva andare da Don...
Alan e suo figlio erano seduti al tavolo da pranzo. Avevano abbassato leggermente le teste e ovviamente stavano parlando seriamente. Quando Charlie entrò dalla porta, si voltarono verso lui.
«Charlie! Eccoti qui! Come sta il tuo piede?»
Charlie non rispose alla domanda di suo padre. Invece ne fece un'altra, però diritta al terzo uomo nella stanza: «Chi sei?»
A Don mancò la parola. Che cosa era successo a Charlie? Perché il suo stato stava ad un tratto peggiorando?
«Sono Don» rispose, facendo attenzione a parlare con parole lente e chiare, e forse quello sforzo era l'origine del tremore nella sua voce. «Sono tuo fratello. Mi hai –»
Ma Charlie non lo lasciò finire. «Io so chi è Don! Ma voglio sapere chi sei tu!»
Alan e Don si scambiarono sguardi estremamente confusi. «Ma Charlie, che significa? Non stai bene?» Alan squadrò suo figlio con preoccupazione.
«Sì, sto benissimo... Papà. Voglio solo sapere chi è l'uomo che pretende di essere mio fratello!»
«Ma Charlie... Che vuol dire “pretendere”? Lo sono, non puoi –»
«Lo puoi anche provare?» lo interruppe Charlie, e Don lo fissò come se venisse da un altro pianeta.
Per il colmo delle sventure, Don divenne anche impaziente. A poco a poco si sentiva ormai stufo di camminare sulle uova, voleva finalmente sapere che cosa significasse il comportamento strano di Charlie. Voleva che tutto tornasse di nuovo com'era prima. «Come provarlo, cavolo?! Vuoi vedere il mio atto di nascita o cosa?»
Charlie respirò gravemente. Non ci aveva pensato. Non aveva prove. Non sapeva come potesse mai provare a quest'uomo che era impossibile che fosse Don. In una situazione normale avrebbe probabilmente tentato di provare la sua colpevolezza facendogli domande sulla loro vita insieme, alle quali solo loro due sarebbero stati in grado di rispondere. Però il particolare che Charlie non era in grado di controllare la veridicità delle risposte di Don o addirittura trovare domande adeguate, distrusse il suo bel piano.
Il panico rinacque dentro di lui. Aveva fatto un errore? Sì, definitivamente. O quest'uomo, per qualche ragione incomprensibile, era davvero Don, oppure aveva appena mostrato le sue carte. E in ognuno dei due casi Alan e Don adesso erano sicuramente irritati. O perché Charlie aveva attaccato  suo fratello senza motivo oppure perché Charlie aveva realizzato che, per qualche ragione, facevano il doppio gioco con lui. E se davvero gli stavano mentendo... No, no, non funzionava, doveva andare via da lì, doveva sfuggire... Però dove? Era alla mercé di quei due, ma doveva restare da solo, doveva riflettere...
Charlie deglutì e guardò in giro con un po' panico prima di trovare una vita d'uscita nelle scale.
«Sono stanco, vado a dormire» affermò frettolosamente. Era solo il pomeriggio e i due probabilmente non gli avrebbero creduto, ma in quel momento non gliene fregava; doveva andare via da lì. Prese le grucce e camminò zoppicando verso i gradini. Poi, però, si fermò, lasciando scivolare il suo sguardo in alto, poi sulle sue grucce, poi sul suo piede. Come diavolo doveva andare su?
«Hai... hai forse bisogno di aiuto?»
Charlie trasalì violentemente e la sua testa si girò di scatto quando sentì la voce di Alan così vicina al suo orecchio. Stava tentando di regolare la sua respirazione quando, dall'altra parte sentì la voce di Don. Però non era la voce che aveva conosciuto durante gli ultimi giorni. La voce di questo nuovo Don era neutra, fredda e stranamente vuota. Sempre calma, ma non più affezionata.
«Dai» disse la voce che non sembrava tollerare nessuna contraddizione. «Ti aiutiamo».
«No!» Charlie perdette il suo equilibrio quando tentò di schivare Don. Sbatté rumorosamente contro il muro, e fu solo grazie ad Alan che non cadde a terra. Charlie si lasciò abbassare sul penultimo gradino, tentando per prima cosa di rifiatare. «No» ripeté poi. «Ce la faccio da solo. Potete andare di nuovo in soggiorno o in qualsiasi altro posto».
Basta che mi lasciate da solo, aggiunse nei suoi pensieri.
Ma i due erano ancora davanti a lui e non sembravano intenzionati a lasciarlo. Per provare loro che ce l'avrebbe davvero fatta, Charlie, in posizione seduta, si spostò sul gradino più in alto. E poi su un altro. E un altro. I due non provarono a trattenerlo, né a seguirlo, e Charlie ne fu immensamente sollevato. Infine, un po' esausto, arrivò su e ce la fece addirittura a trascinarsi nella sua camera saltellando su una gamba. Sarebbe solo andato in bagno e poi a letto, finché non sarebbe stato sicuro che Alan e Don non erano più due statue silenziose sul pianerottolo.
 

Charlie aveva sudore freddo sulla fronte, ma la sua respirazione pian piano divenne di nuovo più regolare. Era sdraiato sul suo letto e fissava il soffitto. Tutto girava. Ancora non era sicuro di ciò a cui poteva credere. Quel Don nel soggiorno era suo fratello o no? Ma l'aveva visto, era sicuro, sapeva che non aveva immaginato quello scenario, che era davvero successo.
Le immagini diventarono di nuovo più vive, togliendogli il respiro: il sangue, il corpo immobile di Don sul terreno freddo, le mura vuote attorno a lui che non lo lasciavano libero, e la voce fredda: Lei ha ucciso suo fratello, lei ha ucciso suo fratello, lei ha ucciso suo fratello...
Sconvolto dalla disperazione Charlie scosse il capo, violentemente. No, no, no, questo non era possibile! Questo non doveva essere vero, Don non poteva essere morto, non poteva aver ucciso suo fratello, no...
Ma... Charlie trattenne il fiato, controllando il suo ragionamento. Ma era vero. Aveva un fratello. Aveva avuto, almeno. Allora ricordò, c'era stato un fratello nella sua vita: Don era davvero stato suo fratello – quello era vero, Don non aveva mentito, era stato suo fratello. E Charlie l'aveva ucciso. Ma questo non poteva essere, semplicemente non poteva: non avrebbe potuto sopportarlo, non poteva...
Ma veramente non poteva essere perché Don era lì, era al piano di sotto, era vivo, ma era incredibile, la colpa di Charlie era un fatto, una cosa sicura, l'aveva ucciso...
Tutto questo era talmente sconcertante... Aveva visto Don, aveva saputo che era morto, che era colpa sua, che l'aveva ucciso, e ad un tratto Don era stato di nuovo lì. Questo non era possibile, vero? Stava perdendo la ragione, stava proprio perdendo la ragione... Don era vivo, ma lui l'aveva ucciso...
E se non fosse stato così?
La sua testa restava il posto più insicuro per ricordi. Aveva dimenticato talmente tanto, non riusciva a ricordare talmente tante cose. Allora non poteva essere che ricordasse eventi che non erano successi? Che il suo cervello inventasse da solo queste cose perché gli mancavano altri ricordi, ricordi veri, così che semplicemente avesse comunque una qualsiasi cosa a cui aggrapparsi, che appartenesse a lui?
Non lo sapeva.
Che cosa era vero? Quello che diceva la gente o quello che ricordava lui? Suo fratello era vivo o morto? Quello di sotto era Don o no? Lui era Charlie oppure qualcuno altro?
Non lo sapeva.
Semplicemente non lo sapeva. Poteva essere così o tutto diverso, poteva essere nel modo che gli diceva la gente oppure nel modo come gli diceva il suo cervello, non lo sapeva, non lo poteva determinare. Da dove veniva? Chi era? Che voleva?
E chi avrebbe potuto dargli le risposte?
Non lo sapeva, semplicemente non sapeva di chi poteva fidarsi di più. Un attimo prima credeva che tutto si sarebbe aggiustato finalmente, e un attimo dopo la sua concezione del mondo era di nuovo distrutta.
Don era morto o no? Era colpa sua o no? Erano tutte bugie o no?
Stava diventando pazzo?
Forse lo era già. Forse era uno squilibrato, forse era per questo che il suo cervello gli faceva quegli scherzi. E se era uno squilibrato, allora non sarebbe mai più stato in grado di stare bene, giusto? Forse la sua mente aveva semplicemente perso la capacità di percepire le cose, forse non avrebbe mai saputo, fino alla fine della sua vita, che cosa stava succedendo veramente e che cosa non stava succedendo; forse dipendeva da lui, forse era diventato pazzo...
Ma anche in questo caso non poteva sapere se quello che gli raccontavano gli altri fosse la verità. Oppure sì? Poteva fidarsi di loro ed era solo paranoico? Stava immaginando delle cose che non erano vere? Sospettava di loro benché non ce ne fosse nessuna ragione? Stava davvero perdendo la ragione?
Oppure l'aveva già persa?
 
- - -
 
Alan e Don avevano deciso di lasciare Charlie in pace per il resto del giorno. Sicuramente era semplicemente un po' troppo per lui: i luoghi insoliti (col cavolo insoliti!, pensò Don fra di sé. Abita qui!), tutta questa gente estranea (la sua famiglia e i suoi amici, maledizione!) e una nuova vita quotidiana che Don non sapeva se sarebbe mai diventata di nuovo normale.
Ma doveva. Almeno per lui, perché Don non poteva prendersi qualche giorno libero per l'eternità. Aveva ancora quella settimana – inaspettatamente le sue ferie chieste all'ultimo momento dopo l'arrivo del fax erano state approvate  –, ma con ogni probabilità non avrebbe potuto prorogarle. E inoltre, come avrebbe potuto lasciare la sua squadra da sola per così tanto tempo?
Come se fossero spiriti affini che leggevano l’uno i pensieri dell'altro, Don sentì bussare alla porta e dietro essa trovò i suo colleghi. Sembravano eccitati, avevano gli occhi grandi, che spiavano dietro Don, in casa, come se cercassero qualcosa.
«E' davvero così?» volle sapere David, nemmeno pensando a salutarlo.
Don ci pensò. «Ehi, voi tre» disse, sorridendo a David, Colby e Megan. Poteva immaginare perché fossero lì, e ciò gli diede un sentimento caldo nel petto. «Non volete entrare prima?»
«Ma è vero?» Megan non si lasciò distrarre. Era semplicemente così incredibile, così... «Charlie –?»
«E' vivo» la interruppe Don, e il sentimento caldo si espanse ancora di più.
«Come diavolo...» cominciò Colby sconcertato, però non fu capace di continuare.
«Una lunga storia. Ma come lo sapete?»
«Larry. Me l'ha appena raccontato» spiegò Megan. «Pensava che lo sapessimo già; che tu ce l'avessi raccontato».
La sua voce era diventata un po' accusatoria. Quando Don, dopo il fax, aveva preso qualche giorno libero, lei aveva creduto che – comprensibilmente – avesse bisogno di un time out. Non aveva nemmeno saputo che lui ed Alan erano andati in quella clinica. E non aveva saputo cosa pensare quando Larry gli aveva detto che Charlie meravigliosamente era vivo.
«Abbiamo pensato che Larry fosse pazzo» David verbalizzò ancora sconcertato i pensieri di Megan.
«Cioè, ancora di più del solito» continuò Colby
«Ehi!» Megan ammonì Colby, quasi scherzando.
David ignorò il breve battibecco dei suoi colleghi. «Quando... intendo, come...»
«Dov'è?» lo interruppe il suo collega, adesso un po' più serio. «Possiamo vederlo?»
Il sorriso scomparse dal viso di Don. «Non so, ragazzi... E' abbastanza confuso oggi. E poi si è coricato poco fa». Vide le facce deluse, però non avrebbero potuto fargli cambiare idea. Non avrebbe turbato Charlie ancora di più.
«Ma è qui? E' in casa vostra?» si assicurò David ancora una volta. Sulla loro faccia si poteva leggere come ancora non riuscissero a comprenderlo. Charlie era vivo e sotto quel tetto dopo che era stato morto per sei mesi?
«Sì, è qui. E sta bene fisicamente». 
Solo psicologicamente...
Megan era un’ottima analista psicologica. E qualche volta sembrava che non fosse solo il suo lavoro, ma la sua vocazione. Qualche volta, solo qualche volta, sembrava davvero poter leggere i pensieri di chi gli era di fronte. Quella era una delle volta. Non le sfuggì che Don era raggiante di gioia interna benché rimanesse calmo, e non le sfuggì neanche la preoccupazione.
«Sono sicura che Charlie starà bene anche per quanto riguarda le altre cose. E lo sai che vi aiuterò volentieri se avrete bisogno di me».
Un sorriso scaltro sgattaiolò sul suo viso e un po’ d’umido nei suoi occhi.
«Dio, dopotutto è stato morto e si è ristabilito fisicamente. Dopo questo si può raggiungere anche tutto il resto».
 
- - -
 
La mattina dopo, a letto, Charlie si sentiva ancora male. E ancora tutto girava, ancora non sapeva che cos'era vero, chi era lui.
Allo stesso tempo però, Charlie quella mattina cominciò anche a riflettere veramente sui lati positivi di un'amnesia. Se non avesse potuto ricordare il giorno precedente, non avrebbe avuto problemi a scendere di sotto. Ma siccome ricordava...
Però prima che uno di loro fosse salito per svegliarlo, Charlie infine si alzò a fatica e scese le scale. Lì ebbe di nuovo le sue stampelle, ma non andò lontano con esse. Le aveva appena prese in mano quando indietreggiò spaventato, vedendo le figure sempre pietrificate di Alan e Don sedute al tavolo che prendevano la colazione.
«Buongiorno, Charlie» lo salutò Alan. Aveva un timbro serio. Non poteva significare qualcosa di buono. «Siediti. Dobbiamo parlare».
Repentinamente, Charlie trasalì per la paura. Lo sapeva. Si era comportato in modo sbagliato. Adesso aveva rovinato tutto. Aveva avuto ragione, era stato paranoico. Ed era chiaro che quei due uomini non volevano avere uno squilibrato in casa, l'avrebbero cacciato e lui sarebbe stato perso, non avrebbe avuto più alcuna possibilità di sfuggire alla pazzia, sarebbe stato perso e avrebbe dovuto errare per il mondo, per sempre solo, abbandonato...
«Mi... mi dispiace, non intendevo...» Ma scuse erano insufficienti; lo sapeva. Ma forse, forse avrebbe potuto raggiungere qualcosa supplicando. «Per favore, lasciatemi abitare qui almeno finché non avrò trovato un altro posto, per favore. Non vi dovrete prendere cura di me, solo finché non avrò trovato qualcos'altro. Non –»
«Charlie –» lo interruppe Alan e Charlie limitò le sue pretese ancora un po' di più.
«Solo fino a stasera! Poi me ne sarò andato, promesso, solo –»
«Charlie, smettila, non vogliamo buttarti fuori».
Dopo quelle parole Charlie rimase in silenzio abbastanza perché anche Don trovasse il coraggio di dire qualcosa: «Questa è casa tua, nel caso l’avessi già dimenticato». Don fece una leggera smorfia quando la parola “dimenticato” raggiunse il suo orecchio. «Se vuoi restare da solo, papà ed io possiamo lasciare la casa, ma tu resti qui».
Lo sguardo di Don voleva penetrare Charlie. I suoi occhi erano diretti fissamente su suo fratello e sulla sua faccia non c’era ancora movimento, da giorno prima, da quando suo fratello l'aveva scacciato, ma Don ancora non riusciva a credere che gli altri non potessero sentire a quale velocità il suo cuore stette battendo. Cosa sarebbe successo se Charlie avesse accettato l'offerta? Cosa se veramente non avesse voluto più vivere col loro?
Suo padre sembrava aver le stesse preoccupazioni e quando Charlie non rispose subito, tentò di cacciare via da lui la pressione, provando a ridurre il pericolo che Charlie davvero non volesse lasciarli stare in casa sua. «Non c'è bisogno di deciderlo subito. Comunque volevamo parlare con te di qualcos'altro».
Charlie sembrava ancora sospettoso. «Di cosa?»
Alan sospirò gravemente. Un problema l’avevano rimandato per ora. Forse addirittura fino a che non si sarebbe risolto da solo. Rimaneva l’altro. «Ti ricordi del Dott. Bradford?»
Charlie rovistò per un po' nelle sua memoria nebulosa, poi scosse la testa. «Mi dispiace».
«Fa niente» lo rassicurò subito Alan. «E' lo psicoterapeuta di Don. Domani ha un appuntamento. E noi abbiamo pensato...» Esitò, un po' sperando che Don potesse completare la sua proposta, ma non fu così. «Abbiamo pensato che potreste andare insieme».
Le parole caute di Alan non potevano nascondere il loro significato oppure solo mascherarlo.
«Mi credete pazzo?»
«Tu credi me pazzo?»
La testa di Charlie si girò di scatto verso Don. Aveva parlato in modo basso e calmo e il suo comportamento e la sua voce mostrarono a Charlie che qualcosa non andava con suo fratello. Per un attimo, i paia di occhi scuri si fissarono l'uno l'altro, ambedue stimando, ambedue insicuri malgrado la loro intensità, ambedue con una tristezza inconscia.
Charlie deglutì. «Vabbeh. Vabbeh, possiamo andarci». Solo quando ebbe verbalizzato la sua decisione incominciò a capire a cosa aveva appena dato il suo assenso, ma in quel momento era già troppo tardi. Allora aveva davvero avvicinato l'ora della decisione, quell'ora in cui sarebbe diventato chiaro se sarebbe mai più di nuovo stato quello che era davvero, e che cosa ne sarebbe stato di lui in futuro.




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Capitolo 16
*** Pronto soccorso ***


nonti16 Uffa... ma questo è l'ultimo capitolo per quest'anno, va bene? ;)
Dunque, felice anno nuovo!




16. Pronto soccorso
 
Why am I so nervous?
Please explain to me
why I can't sleep.
I close my eyes to shelter,
in the dark I try to hide.
If you leave me on my own
I'm worried I could lose my way.

(Moody Blues, Nervous)

 
Charlie sapeva che era stato un errore. Però semplicemente non ce l'aveva fatta a respingere la richiesta di Alan e Don. Ora desiderò che l'avesse fatto. Si sentiva completamente fuori luogo. E si sentiva osservato. Sguardi curiosi lo colpivano: la segretaria, una donna che sembrava aspettare chi era a colloquio dal dottore in quel momento e Don. I loro occhi sembravano volerlo penetrare per leggere i suoi pensieri, per sapere chi fosse.
Come lui.
Charlie tentò di scacciare via i pensieri paranoici. Era certo che s'immaginasse solo tante cose e che le esagerasse perché era nervoso per la conversazione con lo psicoterapeuta. Quell'uomo avrebbe, proprio come gli altri, tentato di penetrarlo, e sarebbe stato probabilmente più bravo delle persone fuori dal suo ufficio. Se fosse riuscito a penetrarlo, allora con ogni probabilità avrebbe anche trovato le immagini che Charlie finora aveva tenuto segrete, le immagini che nutrivano i suoi incubi e lo riempivano di una paura e un sentimento stranamente indefinito di minaccia tanto che era impossibile per lui di parlarne.
Un giovane uscì, forse il compagno della donna nella sala d'aspetto. Bisbigliarono brevemente, poi offrirono, sorridendo timidamente, un cenno di capo alla segretaria e i due fratelli, e uscirono dallo studio.
Circa cinque minuti dopo un telefono squillò. La segretaria rispose e poi disse ai due uomini di entrare nell'ufficio.
Charlie deglutì. Quando si alzò, pensò che le sue ginocchia stessero per cedere, erano talmente molli. Non voleva entrare, non voleva di nuovo vedere tutte quelle immagini e soprattutto non voleva parlarne con persone estranee. E attualmente, tutte le persone erano estranee per lui, almeno tutte quelle della California.
«Oh bene, il signor Eppes in duplice copia. Buongiorno, sedetevi e servitevi pure». Indicò il divano e qualche poltrona attorno a un tavolino su cui c'era una caraffa d'acqua e bicchieri.
Don, che di solito si sedeva nella poltrona di fronte a quella di Bradford, questa volta non esitò a preferire il divano; dopotutto non era da solo, Charlie era con lui. Quello però sembrava aver propri progetti, perché invece di sedersi accanto a lui, si accomodò sulla poltrona che altrimenti  avrebbe preso Don.
Don guardò suo fratello. Non era solo sorpreso di questo comportamento, ma anche offeso. Charlie non voleva più avere a che fare con lui? Era per questo che si isolava? Oppure aveva solo bisogno di un po' di distanza per qualche tempo? Oppure si era semplicemente seduto ad un posto qualsiasi e tutto quello non aveva nessun significato? Provò ad avviare un contatto visivo con Charlie, ma quello – Don non riuscì a capire se inavvertitamente o meno – evitò i suoi occhi.
Lo psicoterapeuta si accorse di questo sguardo e si fece già un’idea riguardo la terapia di Don. Adesso, però, si trattava di Charlie.
«E' veramente bello vederla di nuovo, Charlie». Bradford lo disse sul serio e non solo perché i suoi tentativi di aiutare Don a venire a capo della morte di suo fratello non avevano avuto alcun risultato.
Charlie lanciò un'occhiata nervosa prima al dottore, poi a Don, poi di nuovo al dottore. «Mi dispiace, ma non ricordo...»
«Non si ricorda di me, certamente» lo aiutò Bradford. «Ma è anche per questo che è qui. Come state voi due?»
«Bene» risposero ambedue e tuttavia le loro risposte differivano enormemente l'una dall'altra. Don aveva sorriso rispondendo, lanciando una breve occhiata di lato a Charlie, mentre quello sembrava sempre teso come se fosse a disagio con la situazione.
Anche a Bradford non era sfuggito. «Va bene per lei, Charlie, se suo fratello è presente durante la seduta? Oppure preferisce che aspetti fuori?»
Ancora una volta Charlie diede una breve occhiata a Don prima di voltarsi di nuovo verso lo psicoterapeuta. «Io...» Dalla coda dell'occhio potette vedere che Don aggrottò la fronte. Non sapeva che cosa voleva. Attualmente avrebbe preferito andarsene. Ma se non voleva che Don fosse presente, avrebbe potuto semplicemente dirlo? Comunque Don era suo fratello. E dopo tutto ciò che era venuto a sapere finora sembravano intendersi bene e avere un rapporto stretto. E se era così, poteva mandarlo via? Dopotutto era stato Don a portarlo qui... «No... Certo che può restare» rispose finalmente con più convinzione di quella che sentiva.
Bradford gli lanciò uno sguardo acuto e profondo, ma poi annuì. «Va bene. Ma non dimentichi che può cambiare questa decisione in qualsiasi momento. Don lo capisce».
Don non sapeva se aveva sentito bene. Lo psicoterapeuta era stato davvero tanto impertinente? “Don lo capisce” – che cavolo…?! Perché Bradford incoraggiava Charlie a mandarlo fuori? Questo era assolutamente impossibile! Don non avrebbe lasciato suo fratello da solo, questo era certo. Adesso più certo di prima.
«Beh, Charlie – le va bene che la chiamo Charlie?» Un cenno breve col capo e subito Bradford continuò: «Va bene, come si sente? E per favore non dica di nuovo “bene”».
Una domanda così semplice può veramente complicare il mondo, pensò Charlie fra sé. Si sentiva – no, non colto di sorpresa dalla domanda, piuttosto caduto in una trappola. Che doveva dire? Il semplice “bene” di prima non sarebbe stato più sufficiente per il dottore. Era dunque necessario che ci riflettesse davvero per venire a sapere come si sentiva.
Teso. Per questo non dovette pensare a lungo. A disagio. Osservato. Perduto. Imprigionato. Vuoto.
Ma poteva veramente dirlo? Se Don lo avesse sentito –
«Coraggio, Charlie, francamente, può dire tutto ciò che vuole. Suo fratello non è in servizio. Niente di ciò che dirà sarà usato contro di lei in un tribunale».
Bradford sorrideva e Charlie sentì come se nello strato spiacevolmente freddo che l'avvolgeva si formassero sottili crepe: un sorriso apparve sulla sua faccia.
«Mi sento... ancora... un po' estraneo» confessò Charlie finalmente. Credeva che una tale risposta non avrebbe offeso Don.
«Dove e in che modo?»
Charlie lanciò di nuovo un'occhiata di lato verso Don, deglutì e rispose: «Dappertutto. Mi... Mi sento semplicemente... Non so a cosa appartengo. E non so da dove vengo e chi sono e... Dappertutto ci sono talmente tante persone che mi conoscono ma che io non posso ricordare».
La prudenza e la diffidenza di Don si sciolsero ancora di più, facendo posto ad un certo fascino quando ascoltò la voce calma di Bradford e le risposte appena meno calme di Charlie. Lo psicoterapeuta infatti riuscì non solo ad avere una conversazione ragionevole, ma addirittura a fare domande davvero rilevanti e problematiche senza che questo sembrasse essere più spiacevole per Charlie di quanto già non fosse l’intera situazione.
«E come si trovava, invece, in quella clinica dov'è stato?»
«Lì era diverso. Comunque non conoscevo nessuno, ma nessuno conosceva me. Nessuno sapeva niente su di me».
«Ed era meglio?»
Don trattenne il fiato. Charlie se ne accorse, ma anche così non seppe cosa rispondere. Un “naturalmente no” era stato sulla punta della sua lingua, ma improvvisamente le parole erano scomparse. Certo, era felice di aver finalmente saputo chi fosse. Ma di certo non gli era sfuggito che non era stato lui a trovare quell'identità, ma altri, gente estranea per lui. Lo conoscevano ed avevano aspettative di cui lui non sapeva nulla e riguardo le quali ancora meno sapeva se sarebbe riuscito a soddisfarle.
Ma questo naturalmente non poteva dirlo, come gli dimostrò un'altra occhiata di lato verso un Don eccessivamente teso.
«Naturalmente no».
Aveva ritrovato le parolette benché si fossero nascoste per non uscire fuori «Sono contento di sapere finalmente chi sono».
Se già alle sue orecchie quella frase suonava tremendamente falsa, allora era inutile sperare che la loro vera natura potesse sfuggire allo psicoterapeuta.
Bradford sospirò. «Charlie, deve essere onesto con me. Altrimenti la terapia non la aiuterà. Possiamo mandare Don fuori di buongrado se questo la fa sentire meglio. Ma in ogni caso deve confidarmi che cosa sta davvero succedendo dentro di lei».
Charlie non rispose, ma fissò la moquette grigia davanti a lui. Quel dott. Bradford aveva probabilmente ragione; Charlie si sarebbe dovuto confidare cun lui se voleva che qualcuno lo aiutasse. Probabilmente non c'era altra possibilità. La questione era solo se voleva che Don rimanesse con lui o meno. Da una parte era sgradevole per lui; dall'altra parte... dall'altra parte Don, da quando lo conosceva (o per meglio dire: da quando lo conosceva e poteva anche ricordarlo), gli aveva mostrato il suo affetto. L'aveva aiutato, era stato lì per lui ed era stato un intimo confidente. Don non solo meritava di poter rimanere e venire a sapere tutto; inoltre gli trasmetteva anche un sentimento di sicurezza e intimità che non avrebbe trovato da nessun'altra parte. Allora probabilmente sarebbe stato ancora più teso se Don non fosse stato presente durante le sedute. Almeno Charlie riuscì a crederlo.
«Bene. Ma Don rimane qui» disse perciò. Non guardò Don, ma lo sentì mandare un sospiro di sollievo ed ebbe la sensazione liberatoria di aver finalmente fatto la cosa giusta.
«Per me va bene. Avendo messo in chiaro questo, possiamo ritornare alla mia prima domanda per lei, Charlie: Come sta?»
Questa volta Charlie rifletté davvero sulla domanda e non su come gli altri avrebbero reagito alla sua risposta. «Non lo so» rispose infine ed era la verità. Da una parte era felice di avere finalmente un'identità, dall'altra parte desiderava la sua memoria. Tutto lo rendeva molto confuso.
«Dorme molto male» osservò Don come se volesse giustificare la sua presenza.
Charlie gli lanciò il più breve di tutti gli sguardi prima di voltarsi altrove. Era vero, non era molto lieto di esser messo sotto tutela di nuovo, ma dall'altra parte era anche grato che la conversazione si fosse finalmente messa in moto. E Don aveva ragione. Le sue notte erano davvero un incubo o meglio dire una schiera di incubi.
Il Dott. Bradford fece una breve nota e poi guardò il suo paziente. «Fa incubi?»
Charlie arrossì. «Non so. Qualche volta».
«Li aveva già in quella clinica?»
«Sì».
«Cosa riguardano?»
«Niente di specifico. Solo incubi. In fondo non è tanto grave. Dopotutto non succede davvero».
Bradford sospirò, ma in qualche modo ce la fece a mantenere la sua voce libera dall’impazienza. «Charlie, ho pensato che ci fossimo accordati sul fatto che volesse essere sincero. Nei nostri sogni assimiliamo spesso avvenimenti che reprimiamo durante il giorno. E siccome la sua amnesia sembra esser basata su una tale repressione, i suoi sogni potrebbero darci chiarimenti sui vuoti nella sua memoria. E devo contraddirla un'altra volta: gli avvenimenti nei suoi sogni non sono per forza reali, ma gli incubi in sé sì. Allora dovrebbe parlarne con me».
Charlie esitò brevemente, però dovette riconoscere che Bradford aveva ragione. «Sono incubi diversi» cominciò, sempre esitando. «Ce n'è uno che continuo a fare...»
«Quale?»
Charlie esitò a continuare. Non aveva intenzione di menzionare quell'incubo, il più brutto di tutti, la figura sul terreno, il sangue, il sentimento freddo nel suo petto e sempre questa voce: Lei ha ucciso –
«Charlie? Sta bene?» Bradford non aspettò una risposta, ma solo che Charlie lo guardasse. «Quale incubo?»
«Mi dispiace, sono...» mormorò Charlie, tentando febbrilmente di scacciare la voce e le immagini dalla sua testa e di ricordare altri immagini dai suoi incubi. «Sono – beh', nell'incubo – in un... in una specie di grande ruota per criceti. Tutto è grigio e metallico e munito d'inferriate... Ed io corro e corro, ma la ruota gira in tondo e io non posso fare altro che rimanere al mio posto. E non posso uscire».
«Perché no? C'è qualcuno ad impedirglielo?»
«Non – non lo so. No. Semplicemente non posso. Non... non posso nemmeno tentare di farlo: so che non funzionerebbe».
Bradford annuì, appuntò altre note, poi fermò l'atto sulle sue ginocchia, voltandosi al suo paziente. «Questa è un'immagine classica dell'imprigionamento, Charlie. Come appare a me, prima della sua amnesia lei è stato imprigionato contro la sua volontà. Data la prima impressione che ho avuto oggi, direi che si è sentito privo d'aiuto e non aveva nessuna via d'uscita; che era disperato. Naturalmente è possibile che io sbagli e mi accorgo anche che probabilmente lei non considererà queste informazioni molto utili, ma devo dirle, Charlie, che siamo sulla buona strada».
Charlie annuì e i tre uomini si alzarono. Bradford, senza diventare scortese, era riuscito a dire loro in modo chiaro che il tempo per oggi era finito. «Si faccia dare un appuntamento dalla mia segretaria, meglio domani se lei la può sistemare in qualche modo. Spero che ci vedremo presto, signori Eppes».
Gli strinsero la mano, lo ringraziarono e uscirono dalla sala di terapia. Quando la porta si chiuse dietro di loro, Don vide un po' della tensione staccarsi da suo fratello; le spalle si abbassarono un po'.
E se non si fossero già abbassate, l'avrebbero fatto nel momento in cui Don mise il suo braccio su queste spalle. Il gesto fraterno e rilassato gli faceva immensamente bene. Non gli era sfuggito che dal ritorno di Charlie cercava tanto di più un contatto fisico con suo fratello di prima della sua scomparsa come se tentasse di recuperare il tempo in cui lo aveva trascurato nel passato oppure come se volesse finalmente essere sicuro che Charlie non era un fantasma.
«Ehi, sei stato davvero bravo, lì» disse. La sua voce suonava un po' troppo entusiasta. Era ancora preso dalle ultime parole di Bradford. Certo, erano solo state una conferma di quello che Don già sospettava, eppure... Con molta probabilità Charlie era stato imprigionato contro la sua volontà. E tra quello che Don aveva già supposto e quello che aveva appena saputo, gli avvenimenti durante la sua prigionia e successivi ad essa dovevano essere il punto centrale del comportamento attuale del fratello.
Don sperava solo che Bradford riuscisse ad aiutarlo. Charlie doveva tornare di nuovo normale, semplicemente doveva...
Con la coda dell’occhio lo osservò il meglio possibile. Non riuscì a stimare dall'espressione del viso che cosa pensasse lui della seduta, ma almeno suo fratello sembrava un po' più tranquillo di prima dell'appuntamento. Più calmo, più rilassato. Non era tanto, ma almeno fece ricordare a Don il Charlie sprizzante di febbrile energia nella sua memoria, il Charlie che voleva avere indietro. E non quello confuso e squilibrato–
Il ragionamento di Don si arrestò. Deglutì. Ma con questo non poté rimangiarsi o cancellare le parole nella sua testa. Squilibrato. Nei suoi pensieri aveva appena descritto suo fratello come uno “squilibrato”.
Come diavolo aveva potuto?
La cosa più brutta era che, pensandoci obiettivamente, giungeva alla stessa conclusione. Charlie non si comportava in modo normale. Il giorno prima la faccenda col bicchiere. E quello sguardo... E poi quello che aveva detto a Don...
Don strinse le spalle di suo fratello con un po’ più di fermezza. “Voglio solo sapere chi è l'uomo che pretende di essere mio fratello”... Don non aveva potuto credere di aver sentito bene, non aveva voluto crederci. Era stato doloroso, immensamente doloroso, sentire Charlie dire quelle parole come se fosse un estraneo. Ed era allo stesso modo doloroso accorgersi che Charlie sembrava esser sulla buona strada per perdere il senno.
 
- - -
 
Charlie si sentiva strano, ma dopotutto quella non era una nuova esperienza per lui. Stavolta, però, era un altro tipo di strano, qualcosa di meno preoccupante, di meno fastidioso. Contrariamente alle sue supposizioni  e ai timori, si sentiva meglio dopo la conversazione con lo psicoterapeuta e non peggio. E anche parlare dei suoi incubi non era stato tanto brutto quanto lo aveva pensato. No, in fin dei conti era anzi stato davvero liberatorio. Il Dott. Bradford l'aveva ascoltato e aveva parlato con lui, tutto normalmente, e pian piano non era più stato fastidioso che Don fosse presente. Adesso si accorse che si era sentito bene.
E il fatto che lo fece sentirsi particolarmente sollevato fu che Bradford non sembrava considerarlo matto. L'aveva trattato in modo completamente normale e poi anche i sintomi di Charlie sembravano essere perfettamente soliti. In ogni caso non sembravano aver sorpreso lo psicoterapeuta per niente. E Bradford anzi gli aveva fatto sperare che tutto sarebbe di nuovo diventato normale, come fossero sulla buona strada...
Alla sua prossima seduta, Charlie sarebbe stato ancora un po' più onesto.  Non avrebbe più fatto mistero di niente... o almeno della maggior parte delle cose. Sì, aveva realizzato che Bradford poteva aiutarlo ed era quasi avido di accettare quell'aiuto il più presto possibile per andare a riprendersi la sua vita.
Charlie poteva appena aspettare ad andare di nuovo da Bradford.


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Capitolo 17
*** A casa da soli ***


nonti17

Eccomi di nuovo! So che è passato un po' di tempo dall'ultimo capitolo, ma la storia non era ad un punto molto avvincente, allora spero che mi perdonerete :)

In ogni caso spero che il capitolo vi piacerà... :)
Ah sì, e grazie mille per le recensioni! :)


17. A casa da soli

 
Hello, darkness, my old friend.
I’ve come to talk to you again
Because a vision softly creepin’
Left its seeds while I was sleeping.
And the vision that was planted in my brain
Still remains within the sound of silence.

(Simon & Garfunkel, Sound of Silence)

 

Solo un'ora dopo l'appuntamento col Dott. Bradford, era già arrivato il momento per Alan di prendere il volo per andare da sua sorella a Chicago. Aveva riflettuto ancora su se andare davvero o no, soprattutto considerando lo stato attuale di Charlie. Naturalmente, l'aveva promesso a sua sorella – ma se suo figlio, come sembrava, stava perdendo la ragione, questo non era più importante?

Era vero che Don gli aveva ricordato che c'era anche lui e gli aveva assicurato che avrebbe avuto cura di Charlie e che sarebbe continuato ad andare alle sedute con lo psicoterapeuta, ma Alan aveva un brutto presentimento. E se fosse successo qualcosa, malgrado tutto? Se i suoi figli avessero avuto bisogno di aiuto e lui fosse stato a migliaia di chilometri di distanza, irraggiungibile e completamente inutile?

Ma allo stesso tempo aveva anche paura che Don potesse avere ragione. Forse non avrebbero avuto affatto bisogno del suo aiuto. In fin dei conti erano adulti, tutti e due. Cosa sarebbe successo se Charlie avesse realizzato che poteva tranquillamente rinunciare a suo padre, che non aveva affatto bisogno di lui? Siccome non lo ricordava, si sarebbe separato da lui e avrebbe cominciato una vita nuova. Ed Alan l'avrebbe perso un'altra volta.

No, Alan non aveva per nulla un buon presentimento riguardo quella faccenda. Ma l'aveva promesso a sua sorella e lei aveva bisogno di lui. Ed era come Don aveva detto – fra qualche giorno sarebbe ritornato.

Poteva solo sperare che dopo quei pochi giorni tutto sarebbe ancora stato come lo aveva lasciato.

 

- - -

 

Don chiuse la porta dell’ingresso e si tolse – un occhio sempre diretto su Charlie – la giacca. Erano andati tutti e tre all'aeroporto, ma avevano salutato Alan appena all’entrata, perché non avevano voluto esporre Charlie così presto a tanta folla. L'ultimo volo dal Nebraska era bastato.

«Vabbeh... Allora che facciamo stasera?»

Don lo trovava grottesco. Benché tentasse di mantenere un tono casuale, gli sembrava come se parlasse ad un estraneo.

Charlie scrollò le spalle. «Se tu vuoi puoi anche uscire o qualcosa del genere. Non hai bisogno di farmi sempre compagnia. Hai sicuramente migliori cose da fare».

Don scosse il capo. «No, non ce ne ho» rispose laconicamente mentre andava al frigorifero per prendersi una birra. «E inoltre papà probabilmente mi ucciderebbe se ti lasciassi da solo».

Charlie sorrise cautamente come se non fosse sicuro se Don scherzasse o se si sentisse veramente sforzato a fargli compagnia per amore di suo padre.

Don prese un sorso della sua birra e rifletté se fosse una buona idea proporre a suo fratello di vedere Larry o Amita. Lasciò perdere: pensò che dopo tutto ciò che era successo avesse il diritto di un po' di tempo con suo fratello da solo.

Il problema era che non riusciva a trovare il modo di cominciare una semplice conversazione e che non sapeva cosa fare in quel tempo, e così qualche secondo passò in un silenzio spiacevole.

«Insomma, che cos'è in quella scatola?» volle sapere Charlie alla fine, indicando un box nell'angolo della stanza. A Don sembrò come se la domanda fosse nella testa di Charlie già da un po’, ma non avesse mai osato chiedere finora. Eppure non poteva sapere quale significato quella scatola avesse.

«Aprilo» rispose brevemente per non lasciarsi leggere in faccia i ricordi pieni di dolore che ora si susseguivano come fotogrammi di un film nella sua mente. «Sono le cose che avevi con te durante la tua missione segreta. L'hanno rimandato a noi dopo che ci hanno informato della tua... morte. Abbiamo cominciato a darci un'occhiata mesi fa, ma a quanto pare non ce l'abbiamo ancora fatta a metterle in ordine. Però ora non è più necessario, vero?»

Don non poté reprimere il riflesso di deglutire benché sapesse bene che quel gesto non sarebbe passato inosservato agli occhi di Charlie. Infine lo sguardo del matematico camminò verso la scatola e dopo qualche attimo andò verso quella e la aprì.

Don lo osservò. E mentre Charlie esplorava pezzo per pezzo la sua vecchia vita e la prendeva in mano, la confusione nacque di nuovo dentro lui. Finora non ci aveva riflettuto per bene. Prima Charlie era stato morto e nient’altro era stato importante. Poi Charlie era ritornato nella loro vita, inizialmente spostando tutti gli altri pensieri. Ora però i pensieri erano tornati e chiedevano risposte: perché lo avevano dichiarato morto? Era vivo, si poteva vedere, allora come era potuto succedere? Qualcosa era andato storto nell'identificazione? Come avevano potuto sbagliare? E di chi era il corpo? Perché un corpo doveva esserci… Qualcuno lì fuori doveva passare per disperso benché fosse morto da sei mesi. Ma chi? E come avevano potuto scambiarlo con Charlie?

Con la confusione venne anche la rabbia. Che diavolo combinava quell'agenzia che rimaneva ancora nell’ombra in un modo tanto misterioso? Come avevano potuto affermare di aver identificato Charlie senza nessun dubbio? Avevano semplicemente fatto un errore o erano stati insicuri ed avevano semplicemente affermato una cosa qualsiasi? E cosa avevano fatto con la famiglia di quello che era morto davvero? Loro stavano ancora aspettando risposte senza che quelli gliele dessero? Forse si stavano ancora aggrappando ad una speranza che non si sarebbe mai avverata. Don sapeva come ci si sentisse a non sapere nulla. Con che coraggio quell’agenzia poteva comportarsi in questo modo? E in generale, come avevano potuto lasciar succedere tutto quello? E poi, sapevano che Charlie era vivo? Ed erano interessati a chiarire la faccenda? Oppure avrebbero voluto lasciare la famiglia del morto all’oscuro di tutto?

Con la rabbia venne la determinazione. Se quell'agenzia non avrebbe fatto niente, allora si sarebbe mosso lui. Non appena Charlie sarebbe stato meglio, avrebbe chiarito la faccenda. Avrebbe finalmente identificato l'agenzia e le avrebbe chiesto conto dei suoi sbagli. Avrebbe trovato l'identità del morto e informato la sua famiglia. Era il minimo che poteva fare ricambiare il miracolo di aver ricevuto indietro suo fratello. Sì, avrebbe fatto quello che quella dannata agenzia che non si curava di niente e nessuno aveva trascurato di fare. Avrebbe fatto ricerche e non avrebbe lasciato nulla di intentato. Non appena Charlie fosse stato meglio.

 

- - -

 

La prima cosa che catturò lo sguardo di Charlie fu il libro. Lo conosceva. Erano riassunti di trattati matematici su campi specifici della teoria dei giochi. Conosceva il contenuto e ricordava di averlo messo in valigia prima della sua partenza, sperando che gli sarebbe stato d’aiuto nella sua missione. Però non ebbe tempo di verificare la sua memoria sfogliando il libro, perché lo suo sguardo si spostò sull'oggetto che era su di esso. Una collana.

Lo sguardo di Charlie cadde sul ciondolo. Lo conosceva. Lo conosceva perfettamente. Sapeva che ci dovevano essere memorie di quel ciondolo nella sua testa, ma non poteva distinguerle in modo chiaro, non erano allo scoperto; un muro bloccava la vista.

Eppure dovevano essere lì, quei ricordi, Charlie lo sapeva. Le mura creparono. Pezzi piccoli si scrostarono. E attraverso le crepe, Charlie venne tirato attraverso il muro, lentamente, poi sempre più velocemente, una vertigine nell'uragano delle memorie... Amita gli aveva offerto la collana, gliel'ha data per il suo viaggio, per così dire come talismano... e poi...

Si era accoccolato sul letto. Aveva freddo. C'era un'oscurità assoluta attorno a lui eppure aveva chiuso gli occhi. Non voleva vedere l'oscurità.

Tanto più doveva confidare sul resto dei suoi sensi, e tanta più importanza assumeva il ciondolo tra le sue dita. Sfregavano il legno levigato. Quello e il filo di cuoio al quale era attaccato il ciondolo dovevano già essersi colorati di scuro a causa delle sue mani sudaticce, ma non lo vedeva comunque.

Ci passò le dita sopra, controllò se la chiusura fosse veramente ancora ferma, ma non osò aprirlo per la paura che il piccolo pezzo di carta con il quadrato magico potesse andare perduto. Certamente conosceva i numeri a memoria per poter ricostruirlo senza gran fatica, ma non voleva perdere anche quel pezzo di carta, quasi fosse una delle ultime testimonianze della sua vita di un tempo.

Si proibì subito di avere quel tipo di pensieri. L'avrebbero trovato alla fine. Don l'avrebbe cercato e non l'avrebbe abbandonato e tutte queste porcherie sarebbero venute allo scoperto e tutto sarebbe andato bene.

Amita aveva detto che quell’insieme di numeri lo dovrebbe proteggere. E lo faceva. Evitava che diventasse pazzo. Lo legava alle persone care che avevano promesso di non dimenticarlo. Sapeva che non era da solo, sapeva che c'era una vita fuori dalla sua prigione, sapeva che lo stavano cercando. Aveva detto agli altri che sarebbe tornato per il fine settimana. Ma non l'aveva fatto. Ed era martedì. Dovevano aver realizzato che qualcosa non andava. Dopotutto non li aveva neanche chiamati. La sua ultima conversazione con loro era stato una settimana prima, con Amita e Alan. Aveva parlato con loro solo per poco, come ogni giorno. Si era permesso dieci minuti al giorno per telefonare a casa, niente di più. Il resto della giornata aveva lavorato – dopotutto voleva terminare la sua missione il più presto possibile per poter tornare a casa. Quando era stato troppo stanco per continuare a lavorare, aveva dormito per poi svegliarsi e ricominciare a lavorare. Non aveva smesso nemmeno per mangiare, l'aveva fatto continuando i suoi compiti. Era stato veloce ed aveva sperato di poter tornare a casa presto. Almeno fino allo scorso mercoledì…

 

Il muro crollò di nuovo su Charlie, portandolo repentinamente indietro, nel presente. Disperato, provò a trovare di nuovo un varco oltre il muro, ma era inutile, non poteva, non poteva passare attraverso. L'aveva sepolto sotto e in questo momento non aveva la forza di tornare in superficie. Ma sapeva che quel mercoledì in ottobre qualcosa doveva esser successo, lo sapeva. Doveva esser scomparso quel giorno. Ma cos'era successo?

«Charlie?»

Charlie trasalì violentemente quando sentì la voce di Don direttamente accanto al suo orecchio e nello stesso momento si accorse della mano sulla sua spalla.

«Stai bene?»

Charlie deglutì e annuì. «Sì».

Non era proprio vero, constatò Don. Suo fratello sembrava ancora... sconcertato. Un po' distratto e in un altro posto con i suoi pensieri. E benché Don sapesse dove Charlie era appena stato, desiderò ardentemente che gliene parlasse.

Esitò e dovette raschiarsi la gola prima che potesse chiedere: «A che cosa hai pensato?»

Charlie non rispose. Ma Don non si diede vinto. «Alla... tua prigionia?»

Charlie ancora non lo guardò: continuava a fissare, la collana sempre stretta nelle sue mani, il vuoto. «Penso di sì. Non sono sicuro» disse infine, dopo un po' di tempo.

Don era fortemente tentato a continuare con altre domande, ma si trattenne. Credette di poter vedere nello sguardo concentrato di Charlie che suo fratello volesse dire ancora qualcosa. Non sbagliò.

«Mi... Mi sento come se qualcuno avesse passato il mio cervello con un setaccio».

Charlie tacque per alcuni attimi prima di continuare in il tono non proprio leggero di un docente amareggiato: «E considerando che circa il 90% del nostro cervello è fatto di acqua, si può immaginare quello che rimane alla fine».

Don rise; non poté farne a meno. Quel commento suonava talmente tanto da Charlie, di quel Charlie di una volta che aveva già creduto di aver perso, che la situazione ebbe ad un tratto qualcosa immensamente rasserenante, un sentimento intimo di casa. Però non gli sfuggì che Charlie, dopo essersi aperto per un attimo, era ricaduto nei tumulti della sua mente. La concentrazione c'era ancora – era anzi aumentata? – e non poteva fare a meno di sospettare che Charlie con la sua franchezza liberatoria forse avesse solo voluto impedirgli di fare altre domande.

Inutilmente, certo. «Ricordi qualcosa?»

Di nuovo passò qualche secondo di silenzio prima che Charlie mostrasse una reazione alle parole di Don. Liberò prima il suo sguardo dal vuoto, poi le sue mani dalla collana e alla fine sé stesso da Don. «Sono stanco adesso. Buona notte».

Don lo guardò mentre era di spalle. Quando Charlie fu scomparso di sopra, prese il ciondolo in mano, attorcigliandolo tra le dita. Non sapeva che importanza avesse, ma ricordò vagamente la reazione di Amita. Dio, aveva pianto per un'ora dopo aver visto quella collana. Doveva esserci qualcosa. Ma Don nemmeno conosceva quell'oggetto. Quando l'aveva visto per la prima volta mesi fa, nelle mani di Amita, aveva inizialmente creduto che l'agenzia avesse fatto un errore. La reazione di Amita aveva provato il contrario. Quello che era rimasto era un sentimento di inquietitudine come se che evidentemente non avesse conosciuto suo fratello così bene. Perché avrebbe dovuto accorgersi di una collana, no? Ma non se n'era accorto. E forse, se avesse avuto più attenzione, tutto quello non sarebbe successo e tutto sarebbe ancora come prima...

Non per la prima volta dalla scomparsa di Charlie, quei pensieri accompagnarono Don durante la notte e non lo lasciarono nemmeno nei suoi sogni.

 

- - -

 

Alan si era inginocchiato sul terreno. Il sole stava tramontando e le tre sagome nere facevano ombre lunghe e scure sull'erba. C'era un silenzio lugubre. Nemmeno gli uccelli cinguettavano. Alan aveva nascosto il viso nelle mani. Don sapeva che la faccia di suo padre era bagnata di lacrime e non voleva vederla, ma Alan non gli fece quel favore. Tolse le mani dalla faccia e si voltò verso Don, piegando il collo per poter guardarlo dalla sua posizione.

«Perché, Don?» chiese pieno di rimprovero. «Perché non hai fatto niente per impedirlo? Perché non l'hai protetto?»

Don voleva rispondere, difendersi, ma non uscì nessuna parola dalla sua bocca, nessuna giustificazione. La sua testa era vuota.

«Perché, Donnie? Dimmi, perché?»

Ma sia le parole sia l'immagine sfumarono, sciogliendosi in una nuova scena. Vide la faccia di Charlie, gli occhi truci; Charlie era arrabbiato. 

«Chi sei? So chi è Don, ma voglio sapere chi sei tu! Non sei mio fratello! Mio fratello non mi avrebbe mai piantato in asso, mi avrebbe protetto! Ho fatto affidamento su lui e lui non c'è stato! Ed è colpa tua! E' colpa tua! Lasciami in pace e vattene! E' colpa tua! Non voglio vederti mai più! Vattene! E' colpa tua...»

Respirando violentemente, Don si svegliò di soprassalto. Non si orientò subito. Fu solo dopo alcuni secondi che realizzò che era nella sua camera, a casa di Charlie. La casa di Charlie. Era di nuovo la casa di Charlie, Charlie non era morto, era di nuovo con loro e finora non l'aveva neanche cacciato – almeno se Don ricordava bene. Ad un tratto non era più sicuro che le parole nel suo sogno non venissero dalla realtà...

La sua respirazione accelerò ancora un po' prima che si forzasse a riconquistare il controllo tentando di diventare calmo. No, Charlie non aveva mai detto una cosa del genere. Don era sicuro adesso. E neanche suo padre. Aveva solo sognato tutto; non l'avevano detto davvero.

Cosa che, però, non voleva dire che non l'avevano pensato.

Don respirò profondamente. Doveva calmarsi. Non sarebbe stato d‘aiuto per Charlie se lui stesso fosse stato tanto sconvolto. Se non aveva potuto proteggerlo, era almeno suo dovere, adesso, farlo tornare quello di una volta.




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Capitolo 18
*** Il silenzio è d'argento ***


nonti18 Grazie alle recensori talmente gentili :)


18. Il silenzio è d'argento
 
That was just a dream.
That’s me in the corner,
That’s me in the spotlight losing my religion,
Trying to keep a view
And I don’t know if I can do it.
Oh no, I’ve said too much.
I haven’t said enough.

(R.E.M., Losing My Religion)

 
Benché stessero in silenzio, Don si stava godendo la prima colazione insieme a suo fratello. Charlie non sembrava più tanto teso come nei giorni passati e ogni tanto anzi lanciava un breve sguardo a Don. Forse questo era un'inizio, sperò Don. Forse adesso tutto sarebbe di nuovo andato per il verso giusto.
«Cosa vuoi fare oggi?» chiese Don mentre riempivano la lavastoviglie.
Charlie alzò le spalle, ma ci rifletté. Sapeva che Don aspettava una risposta, un segno che certe cose gli importassero ancora, e non voleva deluderlo. E infatti gli importava di cosa avrebbe fatto in futuro! Solo non sapeva che cosa potesse fare.
Il suono alla porta lo salvò dal continuare a cercare una risposta. Amita e Larry erano appena arrivati e sembravano un po' nervosi.
«Ciao» disse Amita quando Don aprì la porta. Il suo sguardo però era fisso su Charlie che spiava sopra la spalla di suo fratello. «Speriamo di non disturbare».
«Voi mai» la calmò Don. «Entrate pure».
«Volevamo solo fare una breve visita e speravamo che non fossimo troppo presto perché – oddio, Charlie!»
Amita aveva appena visto le grucce e non le era neanche sfuggita la fasciatura attorno al piede di Charlie. Anche Larry la fissò con uno sguardo confuso mentre Amita diresse i suoi occhi pieni di rimprovero verso Don. «Perché non ci hai detto... Cos'è successo?»
Don poteva ben comprendere la preoccupazione di Amita benché fosse esagerata. Lui stesso probabilmente non avrebbe reagito in modo diverso, soprattutto perché non aveva raccontato loro al telefono niente dell'incidente con il bicchiere. Entrambi avevano chiamato più di una volta durante i due giorni passati per informarsi sulle condizioni di Charlie. Non erano certi che fossero i benvenuti oppure se l'avrebbero turbato ancora di più. Ma la sera prima, Don aveva detto loro che Charlie stava meglio. E gli era sembrato così. Dopo la seduta con Bradford, si era davvero calmato e addirittura aperto un po'. Ciononostante Don aveva pensato che lo stato psichico di Charlie bastasse a preoccupare Amita e Larry. Non era stato affatto necessario raccontare loro anche del suo piede. L'avrebbero solo immaginato peggiore di com'era. Appunto quello che stavano facendo adesso.
«Charlie ha pestato dei cocci di vetro, lunedì. Hanno dovuto mettere dei punti di sutura, ma guarirà completamente, non preoccupatevi».
«Sto bene» confermò anche Charlie accorgendosi che Amita e Larry continuavano a guardarlo dubbiosi.
Le rughe sulla fronte di Larry persero un po' della loro profondità e questo sorrise. «Non immagini quante volte nei mesi passati ho desiderato sentirti dirlo ancora una volta, Charles».
Charlie arrossì, ma gli rese il sorriso. Don lo intese come un segnale per lui di ritirarsi. Quelli erano gli amici di Charlie e Charlie aveva tutto il diritto di passare un po' di tempo con loro da solo.
«Sono in cucina nel caso abbiate bisogno di qualcosa» informò i tre; poi aggiunse con uno sguardo per Charlie: «Sono a portata di voce», e scomparve con una discrezione che gli riusciva molto difficile.
Sentiva le loro voci, ma non poteva capire le parole. Però riuscì a classificare il timbro e anche le pause parlavano chiaro: la conversazione di quei tre, che prima si erano intesi talmente bene anche senza parole, incespicava avanti in modo maldestro. Don da un lato desiderava gli fossero restituite la normalità e la facilità in quelle semplici azioni, ma dall'altro lato era sollevato che anche gli altri non riuscissero a trattare suo fratello in modo normale e che non dipendesse da lui.
 
- - -
 
Benché Charlie fosse teso per l'intera visita, gli fece comunque bene parlare con Amita e Larry. Fece bene sentire che lo volevano avere con loro. Che fosse più di una memoria fastidiosa del loro passato.
Siccome avevano ancora da dare alcune lezioni, purtroppo non potettero rimanere per pranzo. Ma d’altro canto, Charlie era anche sollevato di non vedere più talmente tanta gente attorno a lui. Qualche volta diventava davvero troppo per lui e voleva semplicemente fuggire da tutto quello. Voleva ritirarsi da qualche parte e non uscire finché non avrebbe capito il mondo, finché non sarebbe diventato un posto dove sentirsi a casa. Eppure sapeva che doveva stare fuori dalla tana. Per capire il mondo doveva esplorarlo. E almeno adesso c'era soltanto Don e la tensione diminuiva di nuovo un po'. E un po', una minima parte di questa tensione, venne sostituita da un sentimento di pace e familiarità.
Tuttavia Charlie sapeva che al momento non avrebbe sopportato a lungo nessuna compagnia, e perciò domandò subito dopo pranzo – avevano riscaldato la lasagne che Alan (suo padre... probabilmente non c'avrebbe mai fatto l’abitudine) – se poteva andare in garage. Don aveva risposto come al solito: era casa sua, non c'era bisogno di chiedere. Per semplificare le cose, Charlie decise di non discutere con Don di quell'argomento.
Si fermò alla porta, respirando profondamente il profumo della polvere di gesso. Sentì quasi di dover tossire, ma trattenne il reflesso. Per niente al mondo avrebbe distrutto quel momento. Un momento di ricordo.
Conosceva il profumo. E conosceva il garage. E conosceva le lavagne verdi. E si sentiva un po' più vicino al posto perduto a cui era appartenuto.
Particolarmente la teoria – la sua teoria – sulle analisi matematiche delle amicizie lo affascinava. L’aveva trovate lì già il giorno dopo il suo arrivo e come un'idea fissa aveva avuto l’impressione che quell’analisi delle amicizie potesse risolvere almeno una parte del suo problema. Una soluzione elegante per un'equazione matematica e – voilà! – sarebbe stato meglio.
Finora non era avanzato. Aveva il fermo proposito di non darsi vinto, ma la sua speranza poco a poco era diminuita e gli riusciva difficile mettersi di nuovo a lavoro. Aveva semplicemente troppi pochi dati per riempire le variabili e questo lo deprimeva.
Eppure amava venire qui a guardare i numeri e le lettere sulle lavagne. Il verde e la polvere di gesso avevano un effetto attraente su di lui e allo stesso tempo stimolavano la sua mente matematica. Quando era lì che calcolava, il mondo reale non sembrava più tanto estraneo e brutto e lui aveva un piccolo spazio per se stesso dove poter lasciarsi trascinare e dove nessuno – nemmeno lui stesso – avesse aspettative.
Prese un pezzo di gesso in mano e continuò qualche calcolo che c'era sulla lavagna. Era bello vedere che ciò che aggiungeva era simile a ciò che era già scritto. Era vero che non sapeva se all'epoca, quando la sua mano aveva scritto i simboli che c'erano già, avesse intenzione di continuare nel modo in cui stava facendo adesso, ma almeno poteva ricordare vagamente di esser stato lì a fare quei calcoli. Era stato tempo fa, ma poteva ricordare.
Ma questo non era tutto. Quei numeri non gli facevano ricordare solo il loro passato, ma anche molti altri calcoli. Erano lì da qualche parte, e Charlie sapeva che erano importanti, ma non riusciva a catturarli, a guardarli...
Fermò gli occhi e si appoggiò con il pugno contro la lavagna. Vide file di numeri e variabili davanti ai suoi occhi, ma non erano le formule della sua lavagna: venivano da tempi passati, da un'altra vita...
I numeri davanti a lui non avevano senso. Gli davano un risultato che non poteva essere vero. Era stato sospettoso già da un po' di tempo, ma non si aspettava quello. Eppure sembrava essere vero. Le cellule terroristiche di cui aveva dovuto calcolare i progetti, i membri e la struttura, non erano omogenee. Una delle cellule era separata dalle altre e distruggeva lo schema. Ed era questa “cellula singola” ad avere tutta la diffidenza di Charlie.
Nel frattempo si trovava lì da quasi quattro settimane ad occuparsi di quel gruppo terroristico. Ai suoi committenti importava sventare attacchi futuri di Al Qaida. Volevano fare dell'Arabia Saudita un posto più sicuro e soprattutto più libero. La missione degli Stati Uniti.
Almeno così avevano detto. Era vero che Charlie aveva sospettato che ciò che importasse a questa gente erano, come al solito, i soldi e il potere, ma comunque non gli era importato se ne avrebbero tratto dei vantaggi. Non ne sapeva tanto dell'Arabia Saudita, ma si era informato e aveva scoperto che il paese era molto ricco di petrolio, e poco interessato ai diritti dell'uomo. Adesso era suo compito evitare attacchi terroristici in quel paese, e il fatto che facendo questo poteva salvare vite umane non sarebbe cambiato per gli interessi più o meno nascosti di quegli uomini.
Però non aveva previsto le dimensioni che tutto quello aveva in realtà, e queste circostanze distrussero i suoi scopi idealistici. La cosa che quella dannata agenzia stava facendo qui era tutto tranne legale, e lui certamente non vi avrebbe più partecipato.
Charlie respirò profondamente. Non sapeva come i suoi capi attuali avrebbero reagito se avesse detto loro che voleva uscirne, anzi di più, che avrebbe rivelato il loro segreto (benché, Charlie pensò a disagio, non ci fosse bisogno per lui di raccontare loro tutto). Ma non gli importava tanto della prudenza in quel momento di furiosa agitazione.
«Signor Rosenthal?»
Il suo superiore – o almeno quello con cui Charlie doveva parlare in ogni faccenda – levò lo sguardo dai suoi documenti. Come Charlie, anche lui aveva solo un piccolissimo ufficio con una finestra direttamente sotto il soffitto. «Dott. Eppes, in che cosa posso esserle utile?»
Come ogni volta, a Charlie venne la pelle d'oca quando vide quel sorriso freddo. Eppure, in qualche modo, Daniel Rosenthal riusciva sempre a rimanere cortese.
Charlie deglutì, raccolse tutto il suo coraggio e poi disse molto distintamente: «Smetterò, Signore. La prego di scusarmi, ma da questo momento i miei servizi non sono più a sua disposizione».
Per un attimo Charlie credette che l'altro stesse per attaccarlo, tanto minacciosa e distorta dalla furia sembravano le sue fattezze. Un attimo dopo, però, la sua faccia era di nuovo tranquilla e il sorriso era diventato ancora più freddo. «Ma perché, mio caro dottore?»
Di nuovo Charlie deglutì.
«Non posso più farlo, Signore».
«Non può più farlo?»
«Ho... ho scoperto che cosa fate».
Fu in quello stesso istante che Charlie realizzò che aveva fatto un errore. Il sorriso adesso sembrava venire direttamente dalle regioni polari. Rosenthal si alzò, camminò lentamente attorno il tavolo e verso lui. Charlie non osava muoversi. Come se fosse amichevole prese il braccio di Charlie, ma la presa ferrea non aveva tanto a che fare con l'amicizia e non era intesa per lasciarlo libero. Era un presagio delle cose a venire.
«Venga pure, Dott. Eppes. Dobbiamo parlare».
 
- - -
 
Quando Don aprì la porta che dava al garage, era, all'inizio, inadeguatamente sollevato di vedere Charlie davanti alle sue lavagne, prima di accorgersi che suo fratello non stava scrivendo. Si appoggiava solo contro una di quelle con il pugno, la testa leggermente abbassata. E tremava.
Don deglutì e si avvicinò lentamente.
«Charlie?» disse a bassa voce, ma non ricevette una risposta.
Si avvicinò ancora un po'. Chiamò un'altra volta il suo nome con lo stesso timbro angoscioso e lo toccò leggermente sul braccio. Vide che la maglietta di Charlie aderiva alla schiena. Era madida di sudore.
«Charlie!» chiamò Don un'altra volta, rendendo più forte la sua presa. Adesso stava direttamente accanto a suo fratello e poteva vedere che quello teneva chiusi gli occhi e aggrottata la fronte. E non si sentì meglio quando Charlie aprì gli occhi lentamente e girò la testa, guardando Don con uno sguardo vuoto.
Don deglutì un'altra volta.
«Stai bene, Charlie?»
Don non ricominciò a respirare finché non vide che lo sguardo di Charlie ebbe ritrovato un fuoco e che suo fratello stava guardando lui invece di qualcosa nelle profondità del suo cervello.
«Certo» rispose Charlie adesso, calmo, e suonava ancora un po' assente. «Che c'è?»
Buona domanda, pensò Don fra sé prima di ricordare perché era venuto lì. «I miei colleghi sono appena arrivati. Vorrebbero vederti».
«Megan?» chiese Charlie. Ritornava solo pian piano nel mondo reale, ma il ricordo delle informazione che Alan e Don gli avevano dato la settimana scorsa era ancora lì.
Don annuì. «Esatto. E David e Colby. Ma penso che non ti abbiamo ancora raccontato di loro».
Don stava ancora guardando suo fratello con occhi indagatori. Non sapeva che cosa fosse appena successo a Charlie, ma aveva il sospetto inquietante che stati del genere sarebbero potuti essere una normalità per Charlie, almeno fino a nuovo ordine. Eppure rimanevano delle domande: Charlie aveva ricordato qualcosa? E se sì, che cosa? E la situazione sarebbe mai migliorata...?
«Sanno che non li conosco?»
«Sì. Ho raccontato loro tutto ciò che sappiamo».
«E perché vogliono vedermi?» Charlie non intendeva essere scortese, ma non aveva gran voglia di esser fissato come un animale del circo.
«Che tu ci creda o no, hanno sentito la tua mancanza. Lavo – hai lavorato con noi così spesso da diventare un membro della squadra».
«Beh'» disse Charlie brevemente e si liberò dal gesso e dalla lavagna. Camminò davanti cosicché non dovette mantenere le sue fattezze sotto controllo davanti a Don. Era stato un membro della squadra? Perché non lo sapeva? Finora aveva saputo che Don lavorava per l'FBI e che lui l'aveva aiutato qualche volta con dei calcoli, ma il fatto che conoscesse i colleghi di Don tanto o quasi tanto bene quanto i propri e che la sua memoria fallisse anche lì, non lo faceva sentire meglio. Pian piano era stufo di conoscere persone che lo conoscevano già da tempo e che volevano vederlo di nuovo. Non sapeva quante volte avrebbe ancora potuto sopportare di vedere la delusione nei loro occhi e di sentirsi in colpa.
«Ehi, piccolo genio» venne salutato dall'uomo di carnagione bianca quando entrarono in soggiorno. Guardò tre facce raggianti di gioia, una femminile e due maschili. La “Megan” nella sua mente adesso ricevette un viso, che stranamente gli sembrava essere un po' famigliare; per quel che invece riguardava Colby e David non era proprio sicuro di chi fosse chi. Aveva una certa idea, non sapeva perché, ma –
«Dunque questi sono i miei colleghi: Megan, David e Colby» li presentò Don come se non li avesse mai visto. E Charlie si sentì subito un po' meglio, non solo perché i tre accettarono l'introduzione come se fosse normale, ma anche perché la sua idea riguardando la distribuzione dei nomi era risultata corretta.
«Ciao Charlie» disse la donna con un ampio sorriso. «Probabilmente non puoi immaginare quanto siamo felici di vederti di nuovo».
«E soprattutto sano e salvo» aggiunse l'uomo moro, David.
«Penso che dovremmo brindare» disse Don, già andando verso la cucina.
Charlie seguì il fratello con lo sguardo, per ignorare che gli altri lo stavano fissando. Per fortuna Don tornò poco dopo con cinque bottiglie di birra. «Mi dispiace, ragazzi, ma a quanto pare non abbiamo qualcosa a più alta gradazione alcolica in casa».
Colby sospirò in modo esagerato e disse con falsa irritazione: «Appena l’uomo di casa non c’è, tutto peggiora».
«Attenzione, Granger, sono comunque il tuo capo».
Le piccole rughe attorno agli occhi di Don rivelarono che anche lui non faceva sul serio. E divennero più profonde quando Don vide che non solo gli agenti federali si stanno divertendo, ma che anche sul viso di Charlie era apparso un sorriso, ancora cauto, ma genuino e disinvolto.
Brindarono e si sedettero nel soggiorno, il divano per i colleghi di Don e le due poltrone per ciascuno dei fratelli. Megan cominciò a mettere al corrente Don dei casi che stavano seguendo al momento e Charlie le fu grato. Godeva della possibilità finalmente di rilassarsi e di stare per del tempo senza essere continuamente osservato. E qualche volta sentì anche qualche nome che gli sembrava famigliare. Non poteva negarlo: si sentiva bene con quella gente, abbastanza bene almeno, perché naturalmente non gli sfuggivano gli sguardi che gli altri ogni tanto lanciavano verso lui. Però sarebbe potuta andare peggio.
Mentre Charlie realizzava che cosa stava vivendo – una normale conversazione tra amici che al primo sguardo non veniva danneggiata da niente – il desiderio di appartenere a loro aumentò con una velocità ed intensità dolorose, Voleva riavere la sua memoria e discutere con loro e parlare di quel caso, voleva partecipare a quella vita normale. Voleva riavere la sua.
Domani,  si disse, fiducioso. Domani avrai di nuovo un appuntamento con lo psicoterapeuta, quello ti aiuterà. Diventerai sicuramente di nuovo normale prima o poi. Il dottor Bradford ha detto di essere fiducioso. Tornerà tutto a posto. Diventerai di nuovo normale.
Quasi ce la fece a convincersi senza riserve.
 
- - -
 
Quando la squadra si preparò per andarsene, Megan si alzò in piedi.
«Aspetta, Don, ti aiuto a portare i bicchieri in cucina».
Don, che non aveva nessuna intenzione di cominciare da subito a mettere tutto in ordine, guardò la sua collega un po' stupito, borbottando un “Ma davvero non è necessario, Megan”, mentre lei in qualche modo riusciva a condurlo nell’altra stanza senza nessun contatto fisico. Don poteva sentire dietro di sé le voci di David e Colby e si chiese per un attimo se Charlie sarebbe stato bene con i due prima che Megan attirasse l’attenzione su di lei.
«Allora? Come stai?»
«Per questo mi hai fatto venire qui?»
La risposta di Megan fu solo uno sguardo fisso e severo.
«Ehi, sto benissimo! Beh', lì c'è Charlie se non te ne sei accorta, e a me sembra essere abbastanza vivo!»
«Esatto».
«Mi dici dove vuoi arrivare?»
Megan sospirò. «Perché voi ragazzi dimenticate puntualmente che ho studiato psicologia? Don, posso vedere che fai fatica a venire a capo di tutto questo. Probabilmente saresti l'uomo più insensibile nel mondo se non fosse così. Certo, da fuori di comporti come il gentile padrone di casa che è immensamente felice di riavere suo fratello con sé…».
«Ma lo sono!»
«E nessuno lo nega. Ma non puoi farmi credere che sia tutto a posto. Avevi perso tuo fratello, Don. Poi hai creduto di averlo riavuto indietro e adesso non sai se è davvero quello che era o se lo diventerà mai».
«Non è –» cominciò Don ad alta voce, ma poi si regolò repentinamente. “Non è pazzo”, avrebbe voluto dire. Però non ne era più completamente sicuro. Considerando il modo in cui Charlie si comportava ultimamente...
Don respirò profondamente e dovette constatare con riluttanza che facendo così tremava un po'. Megan aveva ragione. Aveva descritto la sua situazione in modo talmente corretto, benché avesse usato così poche parole, che Don era di nuovo disposto a credere che potesse leggere i pensieri. Sì, aveva paura per la sanità mentale di Charlie. E paura di non essere all’altezza della situazione. Perché in questo caso non avrebbe mai potuto aiutare suo fratello.
«E'... difficile» confessò infine.
«E' semplicemente troppo, vero?»
Don deglutì. Non aveva intenzione di parlarne con nessuno, ma non poteva più tenerselo dentro. «E'... è talmente difficile. Io... non posso più farlo. Era morto per noi, capisci? Era morto. E adesso è di nuovo qui...»
Si passò una mano sul viso, come a volerlo nascondere.
«Non riesco ancora a crederci» ricominciò poi a parlare. Manteneva le mani davanti alla bocca e non guardava Megan, così lei aveva qualche difficoltà a udire le sue parole. «E' talmente... straordinario. Spero solo...» Esitò. «Spero solo che non l'abbiamo perso in ogni caso».
Megan mise una mano sulla sua. «Lo sai Don, se vuoi parlare – sono qui per te».
Don annuì, grato. Megan sapeva fare davvero bene il suo lavoro. Aveva realizzato quanto aveva avuto bisogno di quella conversazione – benché fosse stata breve.
Con successo sorprendentemente grande, Don provò a rifare la perfetta e felice espressione che gli altri tre uomini si aspettavano da lui.
«Adesso torniamo dagli altri. Prima che David e Colby buttino all'aria tutta la casa».
 
La squadra di Don era appena andata via, quando anche Charlie si allontanò. A Don non era sfuggito che suo fratello ad un tratto era diventato eccezionalmente silenzioso, e questa volta non era quel silenzio nervoso come se non sapesse cosa dire, ma un tipo diverso, più triste. Era strano: all'inizio della giornata c’era stato quel silenzio nervoso che poi, però, aveva gradualmente perso. Era sembrato quasi normale. Ma poi, da un certo punto, non aveva più lasciato che niente e nessuno si avvicinasse a lui e si era rifugiato in se stesso. Ed ora sembrava essere ancora lì.
Don lo osservò dalla finestra. Suo fratello era seduto al bordo del laghetto dei Koi e guardava l'acqua e i pesci, immerso nei suoi pensieri. Don si chiese se Charlie sapesse quante volte era già stato seduto lì in quel modo, completamente nel suo mondo. Era quel genere di momenti in cui Don non voleva disturbarlo, in cui voleva solo guardarlo con fascino e aspettare finché suo fratello non si sarebbe confidato con lui di sua volontà.
Solo, non credeva che questa volta Charlie sarebbe venuto da lui. Allora dovette prendere l'iniziativa lui stesso.
Charlie non si mosse quando Don gli si avvicinò da dietro. Eppure Don non faceva piano. Non voleva spaventarlo.
«Charlie» lo chiamò perciò quando era ancora a qualche metro di distanza. Charlie sembrò trasalire un po', ma quando si voltò verso Don, almeno non c'era paura o panico nel suo sguardo. Solo una domanda. E Don realizzò che non aveva pensato ad un pretesto per distrarlo dai suoi pensieri.
«Ehi... che facciamo stasera? Pizza e vecchio film?»
Le idee spontanee erano davvero le migliori. E le più oneste perché rivelarono sia il desiderio di Don di passar tempo con suo fratello sia il desiderio di normalità.
Tuttavia Charlie sembrava avere altri piani. «No. Penso che andrò a letto presto oggi».
Don si sentì come preso in contropiede e quasi un po' stordito, ma non si diede per vinto.
«Va bene, nessun problema... E che cosa mangiamo?»
Charlie scrollò le spalle. «Puoi mangiare qualsiasi cosa che vuoi. Io non ho fame».
Ok, qualcosa non andava. Questo non era né il Charlie che Don conosceva da sempre né quello che aveva imparato a conoscere negli ultimi giorni. Il nuovo Charlie non sarebbe stato tanto scortese e l'altro probabilmente non avrebbe rifiutato l'offerta. Allora qualcosa non andava e Don era pronto a scoprire cosa.
«Che c'è, Charlie?» Esitò. «Hai un problema con me? Ho fatto un errore?»
Charlie rise a bassa voce, senza gioia. «Piuttosto il contrario, non pensi?»
Dopo questa Don era completamente confuso. «Che intendi?»
«Dai, non c'è bisogno di negarlo. Posso capire che vuoi sbarazzarsi di me, davvero. Beh, forse non posso ricordare, ma non sono ritardato o cose del genere. Capisco che non faccio altro che affliggervi».
A Don non uscì un singolo suono. Eppure la sua bocca era mezza aperta.
«Vado a letto adesso. Ma non devi avere alcun riguardo per me. Buona notte».
Fu solo quando Charlie si alzò che Don riprese i suoi sensi e lo trattenne al suo braccio. «Che stai facendo, Charlie? Che intendi?»
«Penso di averlo detto chiaramente, non credi?»
«Sì, ma... Perché credi che vogliamo... “sbarazzarci” di te?» Don era sconcertato ed estremamente confuso.
Charlie era tanto calmo quanto Don era agitato.
«Primo, è un cosa logica. Io vengo qui e disturbo tutta la vostra vita quotidiana e voi dovete sempre aver riguardo per me e poi fate sempre sforzi per me. Naturalmente è ovvio che non ne avete più voglia». Esitò e abbassò la testa. Ad un tratto il terreno sembrava essere molto interessante. Le sue prossime parole erano doppiamente difficili da capire. «E inoltre ti ho sentito parlare con Megan».
«E allora?» Don aveva aggrottato la fronte. Non ricordava di aver mai detto qualcosa che avrebbe giustificato la sua teoria astrusa che fosse indesiderato.
«Ma dai, chi vuoi illudere? Lo capisco. Appena troverò qualcosa, andrò via e voi non dovrete occuparvi di me mai più».
«Charlie, non ti capisco! Non vogliamo che tu te ne vada! Di che diavolo stai parlando? Che cosa pensi che abbia detto a Megan?»
«Beh, proviamo con: “E' difficile, così difficile, non posso più sopportarlo, era morto per noi, era morto e adesso è di nuovo qui”? L'ho sentito, Don, non devi negarlo».
«Ma Charlie!» Don era talmente sollevato che sarebbe quasi scoppiato a ridere, ma la memoria delle parole e di tutte le sue emozioni tornò viva, soffocando ogni tentativo di risata. «Certo che l'ho detto, ma in un senso completamente diverso da quello che hai capito tu!»
«E in quale altro senso, se posso chiedere?»
Charlie non gli credeva. Il sollievo di Don diventò di nuovo grave e lo buttò giù non appena lo realizzò. Charlie stava pensando che loro fossero stati felici del fatto che fosse morto e che finalmente se ne fossero liberati. Per Don era talmente assurdo che riusciva appena a comprenderlo. Ma per Charlie era una verità irrevocabile. E non gli credeva.
Doveva pur esserci qualcosa che poteva fare, no? Una possibilità per provare a Charlie come si erano sentiti davvero…?
E sapeva già come l'avrebbe fatto.
«Vieni» disse a bassa voce, ad un tratto molto serio.
Charlie lo seguì, ma sembrava esser tutto tranne che convinto. Don lo guidò in casa fino al vecchio comò nel soggiorno e aprì il cassetto in alto. Non dovette cercare a lungo: i documenti che gli servivano erano i primi.
Tese verso suo fratello tre frammenti di giornale, accuratamente ritagliati. Con uno sguardo ancora un po' diffidente, Charlie li prese e lesse i necrologi che erano apparsi sul giornale dopo la notizia della sua morte.
 
La CalSci è in lutto per il suo collega e amico Charles Edward Eppes. Non ci sono parole per descrivere la perdita che la sua morte significa per noi in ogni aspetto.
Una stella si è spenta, ma la sua luce continua a splendere.
Porgiamo le nostre condoglianze alla famiglia.
Con gratitudine e lutto, California Institute of Science

 
1 mondo – 1 genio = 0
Lei è andato e non ritornerà più. Non capiamo, perché lei non è qui per spiegarcelo. Ci manca. Che riposi in pace, professore. Non la dimenticheremo mai.
In memoria grata, la sua classe finale di matematica applicata, CalSci.

 
Non possiamo ancora comprendere che sei andato e che non ritornerai più. Ti hanno strappato via dalla nostra vita. Il dolore che lascia la tua mancanza è appena sopportabile. Senza di te nulla sarà mai più come prima. Benché ci sarai sempre nei nostri cuori, ci mancherai in un modo che parole non riescono a esprimere.
Speriamo che tu abbia trovato la pace. Ti rimpiangiamo.
Con profondo amore e rammarico, Alan e Don Eppes, Amita Ramanujan.

 
Quando arrivò a quest'ultimo necrologio, Charlie aveva già difficoltà a leggere il testo attraverso le lacrime davanti ai suoi occhi. Era davvero stato così importante per tutta quella gente? Certo, sapeva che nei necrologi spesso si lodavano i defunti a tutto spiano anche se erano state persone malviste e in parte odiate durante la loro vita. Eppure... Queste parole sembravano venire dal cuore, sembravano essere talmente sincere...
Allora era quello che era significato per tutta quella gente. E non solo per sé, Charlie temette che questa gente avesse perduto quel personaggio tanto amato. Perché non sapeva chi era stato prima, ma dubitava molto che attualmente fosse lo stesso.
«Adesso capisci?» udì una voce fioca accanto a sé e si girò di scatto. Gli occhi umidi di suo fratello lo colpirono, completamente inattesi. «Questo... questo intendiamo. Sei stato morto per noi, Charlie».
Aveva capito che intendeva suo fratello. Eppure ancora non sapeva se la sua “resurrezione” avesse soffocato il lutto oppure se avesse suscitato ancora più pena. Si vergognava, per tutto. Si vergognava per aver suscitato un lutto talmente profondo, per non potersene ricordare, per aver causato talmente tanti problemi. Non guardava Don, non poteva, nemmeno quando cominciò a parlare.
«Non sarebbe...» Gli mancò la voce. Non voleva dirlo e non voleva immaginare la risposta, ma dovette. «Non sarebbe stato meglio se davvero non fossi più qui? Non avreste talmente tanti problemi ora».
Le parole avevano avuto difficoltà ad attraversare la sua gola e finirono rauche; Don ebbe problemi a comprenderlo. Quando alla fine ci riuscì, continuò a non coglierne il significato. Scosse leggermente il capo. Suo fratello non poteva parlare sul serio, vero?
«Charlie – abbiamo pensato per più di sei mesi che fossi morto. Credimi, è decisamente meglio che sei di nuovo con noi».
Charlie si sentì liberato da un gran peso, però questo peso sembrava essersi trasferito direttamente sul suo stomaco e in qualche modo inesplicabile allo stesso tempo all’altezza della gola. Deglutì e proferì l'unica frase che gli venne in mente.
«Mi dispiace, Don».
Aveva sottovalutato il loro amore per lui. Aveva svalutato la loro sollecitudine. Aveva diffidato di loro.
«Mi dispiace».
Don lo tirò in un abbraccio fermo che Charlie ricambiò con la stessa intensità.
«Non dispiacerti» sospirò Don. «Adesso va bene».


___
"Adesso va bene"... Bello scherzo di Don, non credete? Comunque questa sarebbe stata una fine troppo semplice, allora continuiamo per un altro po'...

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Capitolo 19
*** Ambivalenza ***


nonti19 Grazie per le vostre recensioni! Mi rendono felicissima ogni volta quando le leggo :)    
 


19. Ambivalenza

Time after time I’ve tried to walk away,
But it’s not that easy when your soul is torn in two.
So I just resign myself to it every day.
Now all I can do is to leave it up to you.
Oh, you’d better stop before you tear me all apart.
(Sam Brown, Stop)


Bradford si alzò quando entrarono. «Ah, i fratelli Eppes. Come state oggi?»
Charlie proferì solo un “bene”, ma l'alzata di spalle di Don fu ancora meno espressiva.
Bradford dovette soffocare un sogghigno. La comunicazione sembrava davvero essere una rarità quasi esotica in quella famiglia. Ma fintantoché c'era gente come loro, almeno lui non sarebbe mai diventato disoccupato.
E volle cominciare a lavorare subito. Gli era venuta un'idea e si strofinò le mani per lo slancio.
«Ho avuto una idea, Charlie» cominciò appena i due fratelli si sedettero sul divano. Non continuò subito, ma aspettò una risposta.
Venne. «E sarebbe?»
Bradford fu contento di quel primo passo. Charlie aveva avuto l'iniziativa di informarsi, senza un segno percettibile di diffidenza nella voce, e questo significava che probabilmente avrebbe assentito all'idea dello psicoterapeuta. Nonostante questo, l’uomo pensò fosse meglio avvicinarsi alla cosa per gradi.
«Suppongo che lei voglia ricordare».
Charlie esitò. «Certo» disse poi.
Bradford aggrottò la fronte. Perché il suo paziente aveva esitato? Non voleva ricordare? Oppure... «Forse si è già ricordato alcuni dettagli, Charlie?»
Charlie fuggì il suo sguardo e alzò le spalle. «Qualche dettaglio forse. Minuzie, niente di più».
Bradford annuì leggermente e guardò Charlie in modo molto severo, ma siccome quello guardava il terreno, la sua azione non ebbe effetto. Bradford ne prese nota. Sembrava che il suo paziente gli facesse mistero di qualcosa, ma Bradford era piuttosto sicuro che Charlie davvero non potesse ancora ricordare la maggior parte della sua vita precedente.
Continuò. «Ma vuole ricordare tutto?»
«Sì».
Di nuovo Bradford annuì leggermente. «Va bene. Allora propongo di provare il metodo delle ipnosi».
Durante i successivi tre secondi, il silenzio fu tale che si sarebbe potuto sentir cadere uno spillo.
«Ipnosi» ripeté poi Don molto scettico.
Bradford sorrise leggermente. Aveva già previsto che Don si sarebbe opposto per principio.
«Sì, ipnosi» confermò. «O per dire meglio l'ipnositerapia. Non ha problemi psichici, Charlie. Almeno non assoluti. Tutto quello che la opprime dipende dall’amnesia. Per questa ragione dovremmo cominciare tentando di riacquistare la sua memoria. Certamente ci sono vari metodi nel principio dell'ipnositerapia, ma siccome a quanto pare il suo subconscio le nasconde delle cose che dovrebbe e, se ho capito bene, vorrebbe sapere, probabilmente sarebbe opportuno provare a farla andare trance. Poi le farò qualche domanda. Non si preoccupi, non le succederà niente di male. La trance eliminerà solo gradualmente la sua coscienza perché il subconscio abbia la possibilità di svilupparsi liberamente».
«Vuole eliminare la sua coscienza?» lo interruppe Don indignato.
Un leggero sorriso si aprì sul volto di Bradford. Guardando la fronte corrugata del suo paziente si accorse che anche quello era un po' critico verso il paralizzare la sua coscienza, ma probabilmente Don sarebbe stato il maggiore ostacolo.
«Naturalmente la coscienza non viene paralizzata completamente» li placò. «Tuttavia occorre agire e con essa paralizzare anche il suo intelletto analitico per far parlare il suo subconscio. Sarà sempre capace di udirmi, Charlie. Solo, penserà in un modo un po' meno cosciente».
Charlie ponderò brevemente le parole dello psicoterapeuta. «E lei crede che funzionerà?» chiese poi. «Che ricorderò di nuovo tutto dopo quelle ipnosi?»
«Non lo posso garantire» confessò Bradford. «Le ipnosi possono avere risultati piuttosto discutibili con pazienti traumatizzati o che soffrono di amnesia, soprattutto quando gli avvenimenti sono successi tanto tempo fa. Con lei, però, gli avvenimenti sono abbastanza recenti e a giudicare da ciò che mi ha raccontato non penso che ci siano memorie false nel suo subconscio, cosa che naturalmente avrebbe reso il nostro procedimento molto difficile, o anzi impossibile. In ogni caso penso che dovremmo provarci, Charlie».
Charlie annuì, però ad un tratto divenne insicuro. Il Dott. Bradford aveva detto che delle memorie false avrebbero potuto impedire il successo della terapia – allora non era tutto inutile? Considerando che poteva ricordare che Don era morto, ma che era ovviamente vivo?
«Non è sicuro che funzionerà ma vuole provarci lo stesso?» chiese Don e non si era ancora liberato della sua diffidenza; il corrugamento era ancora sulla sua fronte. «Come può sapere –»
«Lascia stare, Don» lo interruppe Charlie fermo, voltandosi poi direttamente verso Bradford. «Voglio provarci». Charlie stesso era un po' spaventato dalla sua decisione improvvisa. Non era ancora certo di ciò che voleva. Le probabilità che avrebbe funzionato erano, dal suo punto di vista, inferiori rispetto a quelle che sembrava vedere Bradford. Eppure non voleva perdere questa possibilità. Benché fosse talmente piccola – le coincidenze erano una realtà matematica, allora perché non sarebbe potuta accadere una coincidenza adesso? E quando Don aveva ripreso a fare il suo curatore, Charlie aveva saputo istintivamente che doveva prendere subito una decisione prima che avesse perso il coraggio.
Si poteva vedere sul suo viso che Don si sentiva abbastanza colto in contropiede. Questo non se lo aspettava. Non aveva visto un Charlie così deciso da quando – sì, si accorse con un sentimento strano nel suo stomaco, da quando Charlie, più di sei mesi prima, era partito per la sua missione segreta.
«Così va bene» trovò Bradford. «Adesso però dovremmo accordarci su come procedere. Devo confessarle, Charlie, che le ipnosi non sono il mio campo. E' vero che mi intendo del metodo, ma ci sono anche psicoterapeuti che si sono specializzati delle ipnosi. Se desidera posso mandarla da uno dei miei colleghi».
Charlie scosse la testa. Andare da un nuovo psicoterapeuta, da un'altra faccia estranea, e raccontare tutte le cose ancora una volta? «No, grazie, vorrei rimanere con lei».
«Va bene». Bradford era contento. Il comportamento di Charlie gli rivelò che era riuscito a costruire una base di fiducia. Soprattutto con le ipnosi sarebbe stato essenziale che non desse l'impressione di comportarsi da psicoterapeuta, superiore al suo paziente, ma piuttosto da amico. «E' d'accordo se l'iniziamo subito?»
Charlie si sentì colto alla sprovvista, ma sapeva anche che non sarebbe stato meglio se avesse evitato il problema. «Sì. Possiamo cominciare subito».
«Va bene. Prima la metterò in uno stato di riposo, Charlie».
Il Dott. Bradford guardò il suo paziente. Rigido e completamente teso.
«Per favore, si sdrai sul divano e fermi gli occhi. Lo so, questo suona molto stereotipato, ma realizzerà che si sentirà subito meglio».
Sempre non completamente convinto, Don fece posto sul divano, sedendosi sulla poltrona.
Charlie ubbidì alla richiesta ma con esitazione e tuttavia non fu d’accordo con le parole pronunciate dal dottore.
«Lasci perdere la sua tensione, Charlie. Non le succederà niente. Nessuno vuole ferirla. Può lasciarsi andare».
Charlie non poté farne a meno: aveva fiducia in Bradford. O per la presenza di Don o magari per la voce mite – in ogni caso sentiva la tensione che lo lascia lentamente. Però non si sarebbe lasciato andare del tutto. Non poteva. Doveva mantenere il controllo su di sé stesso, almeno un po'.
Bradford poteva vedere che Charlie si era lasciato andare un po', ma non era affatto soddisfatto del risultato. Poi cominciò ad andare meglio. Ci vollero un po' di tempo e molte parole perché i muscoli si rilassassero e la respirazione tornasse normale. Ma il risultato rimase mediocre.
Infine, Bradford prese una decisione. «Charlie, adesso manderò Don via dalla stanza ».
La testa di Don si girò verso lo psicoterapeuta con una tale velocità che slogò quasi la sua nuca. Ma Bradford rimase fermo. «Don, lei se ne andrà adesso. Capirà sicuramente».
Si poteva vedere dallo sguardo di Don che non capiva affatto e che non era neanche pronto a lasciare suo fratello da solo. Però Don realizzò dallo sguardo dello psicoterapeuta che qualsiasi forma di resistenza sarebbe stata inutile. Con riluttanza ed una sensazione sgradevole nello stomaco uscì dalla sala di terapia.
Siccome Charlie aveva osservato la partenza di Don in modo consapevole, benché silenzioso, il Dott. Bradford cominciò di nuovo con l'induzione alla trance. Pose un accento particolare sul fatto che Don non poteva più ascoltarli e che Charlie non doveva più fare attenzione a non ferire in un qualunque modo i suoi sentimenti.
«Tutto rimarrà tra di noi, Charlie. Non racconterò niente di ciò che verrò a sapere a nessuno, se lei non vuole».
Cominciarono con qualche immagine innocua. Charlie doveva immaginare posti del suo passato e dire al dottore cosa pensasse e sentisse a riguardo. Il risultato fu soddisfacente e Bradford pensò che fosse tempo di fare un passo avanti. «Adesso voglio che immagini suo padre. Ha un immagine di lui in mente?»
«Sì». La voce di Charlie aveva un suono stranamente cupo, ma tanto tranquillo quanto non era stato da tempo.
«La descriva. Che cosa può vedere?»
«Mio padre. Alan Eppes. Sorride. E c'è quello scintillio nei suoi occhi. Ha messo i suoi occhiali da lettura e è seduto sulla sua poltrona preferita, mentre legge il giornale».
Bradford fu soddisfatto. Anche il subconscio di Charlie riconosceva Alan come suo padre.
«E adesso un'immagine di suo fratello, Charlie».
Senza che l'avesse potuto controllare, l'immagine apparve davanti agli occhi di Charlie, quell'immagine che nel frattempo non si era lasciata più cacciare via dai suoi pensieri. Il Don morto, il suo corpo sul terreno, senza vita, sangue, e quella voce: Questo è colpa sua, Dott. Eppes...
Si era accoccolato sul letto. Aveva freddo. Teneva gli occhi aperti, quasi sbarrati, ma non se ne accorgeva. Attorno a lui c'era un buio assoluto, ma davanti ai suoi occhi c'era sempre quell'immagine d'orrore nei suoi colori intensi, dolorosamente stridenti e realistici. Don... Era colpa sua, aveva ucciso suo fratello, Don era morto, era morto, morto...
«No... Don... non lo volevo... Don!»
Oh-oh. Sembrò che con questo avesse colpito nel segno. Lo stato del suo paziente adesso era completamente diverso da “calmo” e Bradford rifletté febbrilmente su come portarlo indietro. «Stia tranquillo, Charlie. Va tutto bene. Mi descriva che cosa vede».
Charlie non gli diede minimamente ascolto. E con riluttanza Bradford constatò che la propria voce perdeva calma. «Niente può succederle qui, Charlie. E' al sicuro. Tutto ciò che vede succede solo nella sua testa. Voglio aiutarla, Charlie. Mi descriva che cosa vede».
Le mura attorno a lui erano grigie, ma non c'era paragone con le mura tra cui si sentiva imprigionato. Credeva di non poter più respirare, c'era sempre quell'immagine, quell'immagine terribile... Aveva creduto che Don sarebbe venuto per aiutarlo, per liberarlo dalla sua prigionia, e adesso... Non voleva credere che fosse vero, non poteva –
E lui, Charlie, ne era il responsabile, l'aveva detto, ancora e ancora, che suo fratello l'avrebbe liberato, sapeva che a casa c'era gente a cui mancava. E aveva avuto ragione. Suo fratello era davvero venuto. E aveva dovuto pagare quell'atto altruista.
Ed era la colpa di Charlie, era colpa sua, e Don... Non poteva essere, Don non poteva...
«Io... voglio andarmene... Non voglio... Don...»
«Va bene, Charlie, va bene.» Era vero che Bradford non sapeva che cosa stesse succedendo nella testa del suo paziente, ma sapeva che lo faceva agitare troppo perché potesse essere buono «Si calmi».
Ma Charlie non gli diede retta. «Don!» Adesso quasi gridò. «No! Don! Don...»
«Ritorni, Charlie, non c'è bisogno per avere paura. E' nel mio studio medico. Don sta aspettando fuori. Va tutto bene. Per favore apra i suoi occhi adesso».
La porta e gli occhi di Charlie vennero spalancati. Negli occhi di Charlie c'era solo orrore silenzioso, però alla porta c'era assolutamente più di rumore.
«Charlie!»
«Non può entrare adesso! Se il dottore l'ha mandato via –»
«Charlie, che succede?»
«Signore, non può –»
«Che gli ha fatto?»
«Basta».
La voce di Bradford era ancora poco calma, ma ciò nonostante riuscì a farsi valere, e le due persone alla porta tacquero.
«Lasci entrare il Signor Eppes, Signora Hopkins» disse alla sua segretaria, che non sembrò molto rallegrata quando chiuse la porta alle sue spalle per tornare al suo posto di lavoro.
Don non ebbe né una parola né uno sguardo per Bradford: si era già inginocchiato al fianco di Charlie. «Che cosa è successo, Charlie?»
Solo ora Bradford poté dedicarsi di nuovo completamente del suo paziente. La respirazione di Charlie era ancora rapida e piana, ma lentamente sembrava aver realizzato dove si trovava. Bradford sperò solo che la presenza di suo fratello lo aiutasse e che non fosse soltanto un fattore che lo confondeva ancora di più.
«Parla con me, Charlie! Che c'è?»
Bradford stava per pentirsi della sua decisione di lasciar entrare Don. Non senza ragione aveva lasciato il suo paziente in pace, fino a quel momento. Charlie aveva bisogno di un po' di tempo. Almeno quando anche Don realizzò che Charlie non sembrava in grado di rispondergli, ne capì il motivo e si voltò verso lo psicoterapeuta.
«Che sta succedendo?» chiese di nuovo. «Che cosa gli ha fatto?»
«Si calmi, Don. Va tutto bene».
«”Si calmi”? Ma è impazzito? Ho sentito Charlie gridare! Ha gridato il mio nome! Ha sbagliato a mandarmi via!»
«Per favore, si calmi». Bradford si sentiva come un disco rotto.
«Che cos'ha fatto a mio fratello?!»
«Don... Lascia stare».
La voce di Charlie era ancora un po' tremolante, eppure non ebbe meno potenza su di Don. Il maggiore si dimenticò subito dello psicoterapeuta e guardò Charlie con preoccupazione.
«Che è successo? Come stai? Cos'ha fatto?»
Charlie non rispose a nessuna delle domande, ma disse solo: «Voglio andare adesso».
Il Dott. Bradford dovette interromperlo. «Charlie – con permesso, non penso che sia una buona idea».
«Ah no?» Don non si era ancora liberato dalla sua rabbia. «Abbiamo visto i risultati delle sue “ottime idee”!»
«Voglio restare da solo adesso».
«Charlie, penso davvero che non sia la cosa migliore per lei in questo momento. Dovrebbe parlare di ciò –»
«Avrei dovuto sapere che era un'idea stupida!»
E senza ascoltare il consiglio di Bradford, un Eppes molto agitato e uno chiuso in sé stesso uscirono dallo studio medico di Bradford.

- - -

I fratelli non erano da poco arrivati a casa quando Don realizzò che Charlie non aveva detto niente durante il tragitto mentre lui stesso si era irritato per Bradford con un'eloquenza che finora non aveva mai visto. Ora la sua rabbia era ad un tratto andata in fumo e Don lanciò a suo fratello sguardi di lato nervosi mentre allo stesso tempo tentava di non perdere di vista il traffico di pomeriggio a L.A.
«Stai bene, Charlie? Vuoi parlare di qualcosa?»
«No» rispose Charlie a bassa voce, guardando dalla finestra.
Don lottò con sé stesso, però poi si decise a rinviare la conversazione a più tardi.
Più tardi, però, la situazione non era migliorata. Charlie si ritirò nel suo garage. Doveva riflettere e no, Don non poteva aiutarlo. «Ho solo bisogno di un po' di tempo».
Don deglutì. Ecco l'aveva di nuovo, quel mezzo magico. Tempo. Aveva già completamente dimenticato il consiglio della Dottora Andrews. Aveva fatto troppa pressione su di lui senza che l'avesse voluto, senza che se ne fosse nemmeno accorto? Sembrava così. E tutto ciò che poteva fare adesso era lasciare Charlie in pace, per quanto gli riuscisse difficile.

- - -

Di nuovo le lavagne verdi lo calmarono un po'. Esercitarono ancora una certa magia su di lui: lo stimolavano quando stava cercando impulsi, e lo rendevano calmo quando era troppo nervoso. Almeno ci riuscirono quella volta. E la cosa che aveva temuto per tutto il tempo adesso divenne una certezza: aveva fatto un errore. Non avrebbe dovuto lasciare lo studio medico di Bradford così in fretta. Quell'immagine... Era sempre dentro di lui e probabilmente non se ne sarebbe andata da sola. E Bradford aveva ragione: doveva parlarne con qualcuno. E in quel momento, per Charlie, lo psicoterapeuta era l'unico uomo al mondo da prendere in considerazione.
Domani, si disse. Aveva un appuntamento il giorno dopo. Fino a quel momento avrebbe – sì, che cos'avrebbe fatto? Che cosa doveva fare fino ad allora? Era tentato di scacciare l'immagine via dalla sua memoria, ma… innanzitutto non sapeva che ci sarebbe riuscito, e secondo… aveva paura proprio di riuscirci. Aveva già dimenticato talmente tanto dal suo passato – era veramente consigliabile scacciare via i pochi ricordi che aveva? Sicuramente no.
D’altro canto, non poteva neanche sopportare la vista di quell'immagine nella sua testa. Probabilmente sarebbe stato meglio distrarsi un po', in compagnia. Ma in casa c'era solo Don e quello era l'unico che Charlie non poteva vedere senza poter dimenticare ciò che non voleva vedere.
Ma forse quell'immagine, che pure era tanto terribile, avrebbe potuto essere anche un'opportunità? Forse poteva, partendo da essa, rivelare altri segreti del suo passato? Sì... Era come una porta aperta davanti a lui, e Charlie era determinato ad attraversarla.
Di nuovo vide l'immagine. Come era potuta succedere una cosa del genere? Cosa era successo? Che sapeva?
Bradford aveva detto che probabilmente Charlie era stato imprigionato. Per Charlie era un'idea plausibile. E non poteva cacciar via il pensiero che quel Signor Rosenthal avesse qualcosa a che fare con la faccenda – comunque la pelle d'oca che Charlie aveva ogni volta che pensava a lui era un indizio. “Ho scoperto che cosa fate” gli aveva detto. E poi...
Le quattro mura grigie, il vuoto della stanza, l'umidità, il freddo – tutto gli faceva, in modo inquietante, pensare a un carcere. Il fatto che non sapesse che cosa intendevano di fare di lui non migliorava il suo stato e non sapeva neanche che cosa dovesse pensare del fatto che per quanto sembrasse non lo sapevano neanche loro. Sembrava che l'avessero semplicemente spostato lì finché il problema non si fosse risolto da solo. Per esempio tramite Charlie se si fosse deciso a lavorare di nuovo per loro. Oppure se avessero concluso i loro affari. Oppure se Charlie si fosse suicidato.
Charlie deglutì. Aveva paura, paura di quello che gli avrebbe potuto fare quel carcere o i suoi nemici. Voleva andare via...
E allo stesso tempo voleva restare lì. Perché sapeva che lo lasciavano uscire solo quando lo volevano interrogare, e tutto era meglio di quello. Finora avevano evitato di infliggergli dolori fisici, ma questo era tutto. Charlie sapeva che cosa volevano. Avere di nuovo il suo aiuto. Volevano distruggerlo psicologicamente così nel profondo che sarebbe diventato una marionetta senza volontà nelle loro mani, continuando a eseguire giochi di prestigio matematici per loro. Ma non ci sarebbero riusciti, non ora che sapeva che cosa facevano.
Almeno sperava che non ci sarebbero riusciti. Ma la sua convinzione diminuiva ogni giorno un po' di più. E il desiderio di sfuggire a tutto quello aumentava con proporzionalità inversa.
Avrebbe fatto di tutto solo per informare una qualsiasi persona fuori dalla sua prigione, se avesse potuto farsi notare in qualsiasi modo, gridare aiuto. Ma lì era completamente separato dal resto del mondo; la stanza non aveva nemmeno finestre. Quanto desiderava avere il suo cellulare per chiamare aiuto –
Ecco perché! Ecco la ragione dei numeri!
Charlie era talmente eccitato che l'atmosfera del suo carcere svanì in un istante. Aveva trovato un altro pezzo del puzzle che si inseriva senza problemi nel quadro che aveva già e che finora non gli dava tante informazioni: i numeri del suo sogno. Ora poteva spiegare il sogno che aveva avuto alla clinica: aveva sognato il numero di telefono di Don, naturalmente, e prima di questo aveva sognato la sua prigione. Voleva chiamare Don per chiedergli aiuto, e infatti Don era venuto, però in circostanze del tutto diverse!
Charlie respirò profondamente e un sorriso si allargò sulla suo viso. Era certo che queste ipnosi non erano state un'idea talmente brutta. Lo avevano aiutato. Cominciava a ricordare.


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Capitolo 20
*** A casa insieme ***


nonti20 Mille grazie, BlackCobra! Spero che anche questa canzone ti piacerà! :)
Please enjoy :)



20. A casa insieme

The world is closing in.
Did you ever think
That we could be so close,
Like brothers?

(Scorpions, Wind of Change)



Il rendersi conto che il passato si stava pian piano rivelando da sé, senza che qualcuno intervenisse a spiegarglielo, era una buona ragione per tenere Charlie di buon umore almeno per un po’. Si sentiva anzi abbastanza tranquillo da cercare la compagnia di Don.
All'inizio era un pochetto insicuro. Quando entrò in casa, Don era seduto sul divano e faceva zapping tra i programmi senza meta, ma si alzò di scatto non appena sentì il rumore dietro di lui.
«Charlie, ehi! ...Come stai?».
Il nervosismo di Don stava per influenzare anche Charlie, ma il suo umore era abbastanza buono da permettergli di confrontarsi con suo fratello ed evitare un'altra ritirata. «Sto bene». E adesso fu il suo turno. «Hai già mangiato?»
«Io – no. No... Hai fame?»
Charlie sogghignò, tentando leggermente di nasconderlo. «Certo».
«Bene».
Il nervosismo di Don pian piano se ne andò e anche sulla sua faccia apparve un sogghigno che gradualmente aumentò in intensità. «Bene. Riscaldiamo qualcosa di quello che ci ha lasciato papà?»
«Certo».
In quel momento Charlie avrebbe dato il suo consenso a qualsiasi cosa. Non poteva completamente bandire il ricordo di quell'immagine dalla sua memoria, ma allo stesso tempo era determinato a non rifletterci troppo. Che cosa significava in quel momento? Don era lì, sano e salvo, e stavano insieme. Per ora avrebbe cacciato via i demoni.


- - -


La cena passò in una normalità quasi tremenda. Per la prima volta da sei mesi, Don poteva avere una vera e propria conversazione con suo fratello e non lo disturbò minimamente il fatto che Charlie cominciò subito a presentare statistiche non appena presero a parlare di baseball. Certo, l'amnesia di Charlie era ancora evidente, ma c'erano momenti, solo istanti, in cui Don quasi dimenticava tutto quello.
Dopo la cena guardarono un vecchio film e questa volta Don fu sicuro che Charlie andasse al letto davvero a causa della stanchezza e che non fosse solo un pretesto.
Anche lui era stanco, ma felice come non lo era stato da tanto. Quando si scoprì a canticchiare a bassa voce nel bagno, il suo sogghigno diventò ancora più largo e il suo buon umore ancora migliore. Tutto si stava sistemando, tutto stava andando bene...
La bella atmosfera e la stanchezza profonda lo fecero rapidamente passare in un sonno senza incubi. La notte era tranquilla e tutta Pasadena sembrava entrata in un sopore pacifico. Non c'era nulla di cattivo nel mondo. Le foglie degli alberi, fuori, stormivano pianamente, qualche uccello lanciava il suo sprillo ogni tanto. Tranne quello, silenzio. Una pace profonda e pura. Finalmente un po' di calma.
E poi, in piena notte, un grido assordante strappò il silenzio serafico.
Don fu subito seduto sul suo letto e un attimo dopo era già uscito di corsa dalla sua stanza, correndo verso Charlie. Che cosa era successo? Forse qualcuno era entrato in casa loro? Forse era solo un incubo, ma Don non poteva esserne sicuro; forse in quel momento c'era un uomo scuro e mascherato piegato sopra il letto di Charlie, in mano un coltello che tremava sopra la sua figura spaventata, pronto ad andare giù e colpirlo...
Don spalancò la porta. La sua paura si placò. Non c'era quell'estraneo terribile. C'era solo Charlie, sdraiato sul suo letto. No, non proprio sdraiato. Si stava lanciando da un lato all'altro, lottando con la sua coperta. Allora era davvero solo un incubo.
Eppure Don sapeva che era troppo presto per lasciarsi scappare un sospiro di sollievo. Certo, gli incubi erano innocui, ma dopo quello che aveva detto Bradford – che Charlie tramite quegli incubi tentava di venire a capo di cosa gli era successo... E inoltre Don trovò che fosse estremamente inquietante che Charlie, malgrado il suo urlo, non si fosse ancora svegliato.
«Charlie, calmati, va tutto bene!»
Don aveva attraversato la stanza in tre passi e adesso, senza sapere cosa fare, stava piegato sopra suo fratello che ancora lottava con le lenzuola.
Per un secondo, le mani di Don esitarono sugli omeri di Charlie. Infine, però, si riscosse. Era stufo. Prese gli omeri di Charlie in modo fermo, tentando di bloccargli il busto.
«Sta tranquillo, Charlie» disse ancora una volta, cercando di seguire anche lui il consiglio e di calmare le sue preoccupazioni e la sua ansia.
Charlie non lo guardava ancora; al contrario, aveva chiuso gli occhi benché fosse abbastanza buio attorno a lui come se volesse proteggersi da un qualsiasi avvenimento. Ma almeno aveva, nel frattempo, smesso di lottare. Era seduto quasi senza muoversi, benché stesse ancora respirando rapidamente, con Don accanto a lui.
«Così, Charlie, calmati, va tutto bene».
«Don?»
La voce di Charlie ebbe un timbro sgradevolmente famigliare: panico. A Don si strinse il petto, sia per l'inquietudine, sia per un'altra sensazione. Charlie lo aveva chiamato per nome...
«Sono qui, fratellino». Cautamente, mise una mano tremolante sulla guancia di Charlie.
Sotto l'influenza della voce dolce, le palpebre di Charlie si aprirono, e le grandi iridi marroni saltarono per la stanza finché non trovarono la sagoma calma di Don, lasciandovi correre sopra lo sguardo in fretta e inquietamente. Don vide che Charlie si sedette frettolosamente, scuotendo il capo come se tentasse di liberarsi da un'immagine nella sua testa.
Aveva tolto la sua mano dalla guancia di suo fratello. Non voleva turbarlo ancora una volta. Ma di nuovo ebbe la certezza che Charlie non avrebbe mai smesso di sorprenderlo. Suo fratello allungò una mano tremolante che si avvicinò a Don finché, dopo un cammino lento come in un sogno, non trovò la sua meta: il petto di Don. Le dita di Charlie toccarono leggermente il punto a cui corrispondeva il cuore.
Don non si era mosso. Però gradualmente, la tensione aumentò fino a un grado che non poteva quasi più sopportare, e stette per prendere la parola, quando – infine – Charlie parlò.
« ...Sto sognando?»
Don fece fatica ad udirlo, perché le parole uscirono in modo soffocato. Però fece ancora di più fatica a pensare ad una risposta.
«No, sei sveglio» gli spiegò infine, con quanta più tranquillità gli era possibile. Eppure la sua voce tremolava.
«Ma...» Charlie non sembrava esser meno confuso di lui. Però la confusione di Charlie minacciava di trasformarsi in panico. «Ma tu sei qui...»
Don volle urlare. Per un momento, un momento meraviglioso come un sogno, aveva davvero creduto che Charlie lo volesse con lui. E invece aveva un paura tremenda di lui.
«Me ne vado…?» chiese triste, cercando però di non darlo a vedere. Si era già mezzo alzato quando sentì una presa sorprendentemente ferma sul suo polso. Chi poteva essere?
Don guardò riconoscendo la mano di Charlie, mentre suo fratello bisbigliò, ancora inquieto e in modo soffocato: «No! No, ti prego! Ti prego, resta!»
A Don riuscì un sorriso, e un po' incredulo, ma con sollievo, scosse il capo. La volubilità di Charlie lo confondeva.
Charlie interpretò quel momento di esitazione in modo erroneo e rafforzò la sua presa.
«Mi dispiace» bisbigliò, cominciando a singhiozzare. «Mi dispiace, mi 'spiace... ma... ma ti prego... res-resta qui!»
Don non aveva idea che cosa stesse succedendo, ma non aveva alcun dubbio che – pur non capendo nulla – il suo orrore non fosse inopportuno.
«Certo che resto qui, Charlie» gli assicurò frettolosamente, piegandosi di nuovo verso lui. Cautamente, mise un braccio attorno alle sue spalle tremolanti. Il braccio non fu allontanato; eppure Don esitò prima di continuare a parlare. « …Vuoi parlarmi del tuo incubo?»
Charlie si liberò dalla presa leggera di Don, si sdraiò di nuovo, si girò sul suo fianco e scosse il capo. Però continuò a tenere fermo il polso di Don.
«Sei sicuro?» chiese Don.
Ancora una volta Charlie scosse il capo e Don fece fatica a sentire le parole che mormorò nel cuscino. «Semplicemente resta con me».
E sia incapace sia riluttante ad opporsi alla richiesta di Charlie, Don si sdraiò sul letto accanto a suo fratello, mettendo il suo braccio destro attorno a lui. Charlie, che finalmente aveva lasciato il polso, mise il suo braccio sinistro sul quello destro di Don e infine si sentì abbastanza rassicurato da chiudere gli occhi, dietro ai quali cominciarono a sbucare lacrime. Mentre gli scivolavano giù per le guance, fece un solo singhiozzo piano che finì in un respiro tremolante.
Don sentì che la tensione dei muscoli rigidi di suo fratello diminuì, ma il miglioramento era terribilmente piccolo. Avrebbe fatto tutto perché Charlie si fosse finalmente sentito meglio. Ma che cosa poteva fare?
«Ehi... shhh....» tentò di calmarlo. Gli si stava per spezzare il cuore. «Va tutto bene».
Don avrebbe voluto darsi uno schiaffo. Cosa aveva detto? Va tutto bene? Era forse impazzito? Persino un cieco poteva vedere che niente andava bene! Charlie era sfinito! Qualcuno lo aveva rovinato! E Don avrebbe scoperto chi era stato. Avrebbe trovato quel tizio e lo avrebbe arrestato, avrebbe –
Don sentì che il diaframma di Charlie si restrinse quando singhiozzò ancora una volta. Quando strinse il suo fratellino ancora più forte contro sé, anche sul suo viso scivolò una lacrima, prima di perdersi nel cuscino. Era vero. Qualcuno aveva rovinato Charlie. Ma ora, in quel momento, quando poteva sentire Charlie vicino a lui, non era importante. Non importava che cosa fosse successo a Charlie, perché adesso era finito. Andava tutto bene. Charlie stava bene fisicamente e Don era con lui. Il resto lo avrebbero potuto chiarire col tempo.
Don ci credeva fermamente.


- - -


Alan pagò il tassista, gli fece capire che era capace di portare la sua borsa da viaggio e camminò verso la casa. Naturalmente non avrebbe dovuto farlo lui stesso. Naturalmente non avrebbe dovuto prendere un taxi. Naturalmente avrebbe potuto chiamare Don perché venisse a prenderlo all'aeroporto. Però non voleva né che Don lasciasse Charlie da solo né che Charlie dovesse sopportare troppa gente attorno a lui.
Comunque era felice di essere di nuovo a casa, non solo per poter stare con i suoi figli, ma anche perché era completamente esausto. Realizzò che durante l’ultima settimana e mezza era andato in aereo quattro volte, e sia per amore della sua salute sia per amore dell'ambiente preferiva che non diventasse un’abitudine.
Alan posò prima la sua valigia al pianoterra. Voleva innanzitutto parlare con Don e chiedergli come stesse Charlie. Salì le scale e in breve ebbe lo sguardo sulla porta della camera di Don. Sulla porta aperta.
Alan attraversò il corridoio velocemente finché si trovò in mezzo alla stanza del figlio maggiore.
«Donnie?» chiamò a mezza voce, facendo un giro completo. Ma Don non era lì.
Alan guardò nel bagno.
«Donnie?»
Anche lì non c'era nessuno. Mentre scendeva le scale, la sua confusione aumentava. Dov’era Don? Di sicuro non aveva lasciato Charlie da solo – dopo tutto che era successo…?
«Donnie!»
Anche questa volta non ricevette risposta. In poco tempo Alan aveva cercato in tutta la casa. Don non c’era. Aveva davvero lasciato Charlie da solo. Alan non riusciva a capacitarsene.
E se... Per un attimo, il cuore smise di battere. Se era successo qualcosa? Forse i due erano dovuti di nuovo andare all'ospedale oppure –
Prima che Alan potesse concludere il pensiero, si trovò davanti alla porta di Charlie e la aprì velocemente. Aveva già aperto bocca, quando ciò che vedeva bloccò tutto con un nodo in gola.
Eccoli lì, i suoi figli. Tutti e due, l'uno accanto all'altro, sul letto di Charlie. Tenevano gli occhi chiusi: ovviamente stavano ancora dormendo. Il braccio di Don era messo, come per proteggerlo, attorno allo stomaco di Charlie, e il braccio di Charlie, come per assicurarsi della sua presenza, su quello di Don. Era un'immagine terribilmente tranquilla. Un'immagine di giorni passati.
Alan sorrise e sentì le lacrime che spingevano da dietro i suoi occhi. Perché si era preoccupato talmente tanto? Perché era stato talmente sospettoso? Perché non aveva avuto fiducia in Don?
Il mondo era talmente buono!
Li vedi, Margaret?, pensò, e sentiva la risposta: sì. Margaret li vedeva. Li osservava. Era con loro. In quel momento, erano di nuovo tutti insieme.
Quando la prima lacrima scivolò sulla guancia, Alan chiuse la porta il più silenziosamente possibile e scese giù in punta di piedi. Lanciò un sorriso al ritratto di sua moglie, guardò a lungo le piccole rughe attorno alla sua bocca sorridente e poi si sdraiò sul divano. Si addormentò con la stessa espressione tranquilla dei suoi figli.


- - -


Ancora ad occhi chiusi, Don si allungò. Almeno tentò di farlo. Ma qualcosa lo trattenne, al suo polso. Una mano. Ma a chi apparteneva?
Aprì i suoi occhi. Ah sì. Certo. Charlie.
La fronte era corrugata e Don pensò di vedere movimento sotto le palpebre. Ma quando finì il suo tentativo di liberare la sua mano da quella di Charlie, le rughe scomparirono.
Don sorrise. Era passato molto tempo da quando aveva visto suo fratello così calmo e rilassato. E in fondo non voleva svegliarlo proprio ora. Charlie aveva dovuto sopportare talmente tante cose in quell'ultimo periodo che aveva più che meritato il suo sonno – senza dimenticare che Don non sapeva nemmeno che cosa Charlie avesse passato prima della sua amnesia. Ma teoricamente sarebbe anche voluto andare a prendere suo padre all'aeroporto, almeno se Charlie non aveva nulla da obiettare.
Charlie fece prima di lui, svegliandosi. I suoi occhi vagavano un po' per la stanza prima di fissare suo fratello.
«Don?» chiese e sembrava essere abbastanza confuso.
«Sorpreso di vedermi qui?» rispose Don con un sorriso.
Suo fratello scosse il capo, ma Don non era sicuro se fosse una risposta alla sua domanda.
«Ho... ho pensato che... che l'avessi solo sognato...» mormorò Charlie, ancora immensamente confuso.
«Beh', come puoi vedere non è così».
Don si prese un po' di tempo per esaminare con uno sguardo indagatore la faccia di suo fratello: la pelle pallida, le occhiaia scure, le labbra tremolanti, le ali nasali tremanti e quegli occhi... era ancora il panico della notte passata?
«Stai bene?» chiese, preoccupato, e potette subito darsi la risposta. Non avrebbe avuto bisogno della parte psicologica del suo addestramento per constatare che la paura era diventata una compagna fissa di Charlie
«Sì, certo, sto benone».
Bugiardo, pensò Don con un sorriso triste.
Charlie si mise a sedere e scivolò un po' via da Don prima di alzarsi completamente. Non si fermò finché non ebbe raggiunto la porta.
«Vado al bagno per un attimo» disse con una certa fretta, uscendo pianamente sul corridoio.
Don rimase seduto sul letto e fissò la porta chiusa: gli sembrò che fosse la porta dell'anima di Charlie.


Ancora la stessa mattina Don constatò che Charlie era cambiato. Manteneva una certa distanza. E Don doveva realizzare che gli dispiaceva che Alan avesse preso una taxi dall'aeroporto. Solo dopo aveva capito quanto avesse pregustato il breve giro in macchina con suo fratello.
Adesso, però, non aveva più nessun pretesto per stare con lui, mentre più suo fratello minacciava di allontanarsi da lui e da suo padre, più il suo desiderio di passare più tempo con Charlie diventava forte. Naturalmente era ancora cortese e gentile – però quella situazione dava loro un tale dolore. Charlie li trattava come estranei ed ogni avvicinamento da quando erano ritornati dal Nebraska sembrava di nuovo distrutto.
Ma perché? Don aveva il sottile sospetto di dover cercare la ragione nella notte appena passata. Charlie per la prima volta aveva perso il controllo di sé stesso e non se n'era accorto fino alla mattina dopo. E a quanto pareva non voleva perdere il controllo. Voleva mantenere le distanze. Ma era ancora psicolabile e aveva bisogno di ogni sostegno che poteva avere, però per Don non c'era dubbio: in realtà Charlie voleva liberarsi di loro – e l'avrebbe fatto non appena ne avesse avuto la possibilità.
Mentre Don osservava suo fratello, realizzò che cosa significava: avrebbero perso Charlie una seconda volta, però questa volta non nel regno dei morti, ma in quello dei vivi, a causa di una nuova vita. E naturalmente Don sapeva che quello era il meglio per Charlie, avrebbe dovuto rallegrarsene, anche per suo fratello. E lo era, era felicissimo che Charlie fosse vivo. Ma se l'avessero perso adesso, malgrado tutto... Perché in questo caso non sarebbe stata una calamità tragica, ma una decisione libera di Charlie, quella di allontanarsi da loro. E anche se Don sapeva che Charlie sarebbe stato bene pur non rimanendo con loro, gli era chiaro comunque che un addio deliberato di Charlie gli avrebbe dato un dolore immenso, probabilmente un dolore maggiore della sua presunta morte. E questo Don, malgrado tutta la sua forza, non l'avrebbe sopportato.
La disperazione crogiolava dentro di lui, tentando di raggiungere la superficie, ma ad un tratto ci fu qualcos'altro, qualcosa di nuovo, eppure conosciuto: lo spirito combattivo. Se non avesse sopportato l’allontanamento di Charlie – pensò Don – allora avrebbe fatto in modo che Charlie decidesse di restare con loro! Dopo tutto ciò che era successo, non avrebbe rinunciato a suo fratello così semplicemente. La serata passata gli aveva mostrato tutto ciò a cui avrebbe rinunciato. Avrebbe lottato per lui. Certo, normalmente era Charlie tra i due quello che sentiva di più il bisogno dell'approvazione e dell'affetto dell'altro. Però a quanto pareva avrebbero dovuto cambiare i ruoli. Perché Don non era pronto a lasciar andare suo fratello con tanta semplicità. Avrebbe fatto tutto ciò che poteva, il massimo possibile.
Non avrebbe perso Charlie un'altra volta.


- - -


Mike Kirtland esitò. Aveva appena digitato i dati e visto al primo sguardo che qualcosa non andava. Dopotutto faceva questa cosa ogni due settimane da alcuni mesi – e all'inizio anche più spesso – e sapeva cosa aspettarsi. Tuttavia l'immagine non apparve sul suo schermo e non sapeva se dover dubitare della sua ragione o del programma. Perché la sua ragione funzionava – almeno per quel che ne sapeva – benissimo. Però aveva anche fiducia nel programma – almeno nel caso in cui lo controllava lui. Perché era certo che lo si potesse ingannare – in fondo era proprio quello che faceva per vivere.
Allora era molto improbabile che il risultato non fosse corretto. E questo significava che qualcosa non andava in maniera intenzionale. Perché non poteva che essere intenzionale il fatto che il professore non si trovasse più nella clinica, né in Nebraska, ma nella California.
«Dan?» chiamò senza voltarsi e realizzò che la sua voce suonava abbastanza insicura.
«Che c'è?».
L’altra invece parve un po' irritata, come era spesso nelle ultime settime e negli ultimi mesi, da quando niente stava più funzionando come volevano.
Passi si avvicinarono, ma Mike non si girò. Poteva ben immaginare che Daniel Rosenthal fosse pericolosamente furioso. E Daniel non era spesso furioso, ma quando la furia prorompeva al di fuori della sua espressione rilassata aveva un'energia tremenda ed un'incredibile mania di distruzione premeva su tutto ciò che era d'impiccio, colpevole o meno.
E Mike non aveva colpa. Aveva semplicemente fatto ciò che Rosenthal gli aveva detto, qualche volta un po' di più, ma mai di meno. E dopotutto, era Rosenthal il responsabile per tutto ciò che succedeva lì, benché, in altre occasioni, Mike si fosse opposto con forza alla definizione di “tirapiedi”. Era più di questo, tanto di più: era un membro del gruppo a tutti gli effetti.
Eppure la responsabilità era una faccenda altrui, e questo a lui stava bene. Avrebbe avuto un pezzo della torta, ma sarebbe stato certo che il rischio fosse il più minimo possibile.
Adesso però, sembrava un po' difficile. Il loro rischio era aumentato estremamente. Il professore era sfuggito alla loro osservazione in teoria perfetta e adesso era perfino possibile che si trovasse nella sua famiglia. E così era diventato una bomba a orologeria che li avrebbe potuti distruggere in qualsiasi momento e senza preavviso. Perché adesso chi poteva sapere se il professore avesse improvvisamente ricordato, se avesse perfino dato informazioni a qualcuno per quanto li riguardava? Era diventato un rischio incontrollabile.
Mike deglutì prima di interpretare per il suo collega il segnale GPS sul suo schermo: «Dan, penso che abbiamo un problema».

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Capitolo 21
*** Solo cammini separati riuniscono ***


nonti21


Scusate, è passato un po' di tempo dall'ultima volta... Spero che continuaste a leggere la storia lo stesso!
Grazie a BlackCobra!





21. Solo cammini separati riuniscono

I’m walking down the line
That divides me somewhere in my mind,

On the border line
Of the edge and where I walk alone.
Read between the lines
What’s fucked up, and everything’s alright.

(Green Day, Boulevard of Broken Dreams)



Adesso tutto succedeva con una velocità enorme. Speravano che non fossero già stati scoperti, ma siccome il matematico si trovava in California quella speranza poteva infrangersi ad ogni istante che passava. Era dunque chiaro che dovevano sparire per un po'. E dopotutto potevano perseguire i loro progetti quasi da qualunque posto si trovassero.

Già in quello stesso giorno abbandonarono il quartier generale che era servito loro come base per quasi un anno, e il gruppo si sciolse. Adesso non era consigliabile esser visti insieme. E dopotutto sapevano come raggiungere l'uno l'altro senza dare nell'occhio. Non appena uno di loro avesse avuto idea di come risolvere il loro problema si sarebbero di nuovo riuniti, questo era sicuro. Ed era tanto sicuro quanto quel fatto che nessuno di loro avrebbe detto qualcosa dei loro affari ad estranei: c'era troppo in gioco per ognuno di loro.

Restava la domanda circa come tutto questo era potuto accadere. Dopotutto avevano fatto sorvegliare il professore nella clinica. E si erano sempre tenuti aggiornati circa le sue condizioni – che, tra l'altro, non erano mai cambiate di molto. Il dottore era rimasto un relitto per quanto riguardava i suoi nervi e alla fine era caduto in una depressione tale che non avevano più potuto sperare di poter utilizzare il suo aiuto per i loro progetti, almeno non in un prossimo futuro.

Questo era ciò che diceva la loro fonte. Ma a quanto pareva quelle informazioni si erano rivelate insufficienti, o peggio, false. Era difficile da credere, ma per il momento sembrava essere l'unica possibilità. Potevano solo essere sollevati dal fatto che non avevano contato solo sull'infermiera, ma avevano mantenuto un asso nella manica. E l'osservazione del segnale GPS infine aveva conseguito il suo scopo.

Insomma, pensò Daniel Rosenthal fra di sé, ce la siamo cavati con poche seccature. Il danno era rimediabile. Certo, prima dovevano scoprire quanto sapeva la costa occidentale. E faceva proprio al loro caso avere uno dei loro da quelle parti. La situazione però era problematica. Il fratello era coll'FBI – forse stavano già investigando? Ma questo l'avrebbero sicuramente saputo; allora forse erano ancora in tempo per soffocare tutto sul nascere. Una cosa però era certa: il professore doveva sparire, e a seconda dello stato d'informazione dei loro avversari avrebbero deciso come.

Intanto dovevano attenersi al loro secondo piano per un po' di tempo e muovere i fili da lì. Non importava in quale modo la faccenda col professore sarebbe finita, sarebbe probabilmente scoppiato uno scandalo di media grandezza, anche se con grande probabilità il pubblico non ne sarebbe mai stato informato, almeno non da autorità ufficiali. Ma fra qualche tempo, quando la situazione politica sarebbe cambiata un po', quando ci sarebbe stato qualche cambio nei posti alti, nessuno si sarebbe più interessato al passato. E se il loro progetto si fosse svolto come immaginavano, avrebbero potuto attendere il loro futuro non solo serenamente, ma anzi con tante aspettative.



- - -



Charlie si era di nuovo ritirato in bagno e stava fissando la sua immagine riflessa. Era primo pomeriggio e fra poco avrebbe avuto il suo appuntamento col Dott. Bradford. In confronto alla sera passata, la gioia dell'attesa di Charlie era molto limitata. Era vero, il pensiero di un'altra seduta non aveva niente di spaventoso, anzi; ma l'appuntamento significava anche che avrebbe dovuto dire a Don che preferiva andarci da solo.

«Charlie, sei pronto? Dovremmo andare se non vogliamo arrivare tardi».

Sentì i passi di Don scendere le scale, respirò profondamente, si bagnò leggermente il viso pallido e poi scese di sotto.

«Vorrei andare da solo dal Dott. Bradford» disse a loro.

Alan guardò prima lui, poi Don, e Charlie fu sollevato. Suo padre sembrava guardare la faccenda delle sedute come qualcosa che non lo riguardava direttamente; dunque almeno lui non era contrario alla sua domanda.

In grande contrasto con Don.

«Da solo?» Sembrava esser offeso e incapace di capire. «Perché?»

«Beh, Don può almeno accompagnarti, no?» convenne Alan con uno sguardo all'orologio. Anche lui non aveva un buon presentimento riguardo questa faccenda, ma ricordava le parole della Dott. Andrews. Tempo e spazio. Queste erano le cose di cui Charlie attualmente aveva bisogno, e Alan avrebbe fatto di tutto perché suo figlio si fosse ristabilito e fosse tornato da loro. Anche se per questo avrebbero dovuto agire contro il comune buonsenso.



- - -



Erano appena partiti quando Charlie si accorse che aveva parlato troppo presto. Ora Don aveva tutto viaggio in macchina per tempestarlo di domande sulle ragioni della sua decisione.

«Perché non vuoi più che sia presente, Charlie?»

Esitò, ma siccome non la smetteva di parlare, questo non rendeva la faccenda più facile per Charlie.

«Non ti fidi più in me?»

«Ma certo che mi fido!».

Don era così sorpreso, benché rallegrato della risposta, che per poco non fece un incidente. Poté mangiarsi un “Sul serio?” e chiedere invece: «Allora perché?»

«Così. Adesso possiamo parlare di altra cosa per favore?»

«Ma voglio semplicemente capirti, Charlie. Che cosa hai in contrario?» Di nuovo esitò prima di continuare a voce più bassa. «Hai forse fatto qualcosa di illegale?»

Charlie tacque. Non ci aveva ancora pensato. Aveva fatto qualcosa di illegale?

«No» disse infine. «No, non credo».

«Allora perché? Intendo, se ti fidi in me» – e Don l'avrebbe lasciato in pace dopo quella risposta e sicuramente non sarebbe tornato sull'argomento, questo era certo – «allora perché non posso essere presente? Intendo, dopo ciò che era successo l'ultima volta...»

«Forse ha proprio a che fare con ciò che era successo l'ultima volta! E adesso forse potremmo lasciar perdere questo, per favore

A Charlie dispiaceva aver reagito in modo tanto irritato, ma la situazione era semplicemente così difficile... E forse Don adesso l'avrebbe finalmente lasciato in pace.

E in effetti, non disse niente per qualche istante. E quando ricominciò a parlare, ciò che disse era ampiamente lontano dall'imminente seduta. Tuttavia a nessuno dei due poteva sfuggire quanto terribilmente forzato fosse quel discorso in confronto alla loro conversazione animata della sera precedente.



- - -



Bradford era sorpreso, ma contento quando capì che Don avrebbe aspettato fuori. Charlie sembrava aver deciso così e quello non significava solo che pian piano aveva di nuovo una vera identità, ma anche che oggi avrebbero potuto passare una seduta in pace senza che Charlie diventasse nervoso a causa della presenza di suo fratello.

«C'è qualcosa di specifico di cui vorrebbe parlare?» incominciò Bradford.

«No» rispose Charlie, però non poteva guardare negli occhi lo psicoterapeuta. Bradford si accorse che, ancora una volta, faceva mistero di qualcosa e tacque.

Infine, Charlie si riscosse. Poteva fare progressi solo dando al suo psicoterapeuta la possibilità di aiutarlo.

«C'è un... un'immagine, se si può chiamarla così, che mi... Penso che sia responsabile degli incubi. Della maggior parte».

«Mi descriva l'immagine».

«Non posso».

«Dai, Charlie. Può farlo».

Charlie deglutì. «E' Don» cominciò e si chiese come avrebbe fatto a spiegare allo psicoterapeuta l'immagine con tutto il suo orrore. «E'... E' morto».

Charlie tacque per talmente tanto tempo che Bradford si vide costretto a fare altre domande.

«Come sa che è morto?»

«Lui... c'è del sangue. L'hanno sparato. Indossa la sua giacca dell'FBI e si può vedere il sangue. E sta sul terreno e non si muove più». Charlie realizzò che la sua respirazione era di nuovo accelerata. Semplicemente non poteva sopportarlo, non poteva essere, Don era morto, ma era vivo...

«Resta tranquillo, Charlie. Ci sono spiegazioni completamente logiche per quest'immagine. Ed è come ha detto lei stesso, è solo un'immagine di un incubo che ci –»

«No!» contraddisse Charlie, violente. «Non è un incubo! Era reale! L'avevo visto davvero!»

Bradford aggrottò la fronte. «Charlie... è sicuro?»

«Sì! Intendo... non so...» Se non sapeva nemmeno se aveva perso la ragione, allora come potrebbe sapere se aveva allucinazioni o meno?

«Va bene, dall'inizio: quando ha visto quell'immagine per la prima volta?»

«L'ho visto solo una volta, cioè nella realtà. Quando ero imprigionato. Le altre volte, l'ho solo sognato. Poi ho dimenticato l'immagine di nuovo, cioè... Sapevo che c'era qualcosa, ma non sapevo cosa. E poi, quando Don è venuto nella clinica con mio padre, ad un tratto c'era di nuovo quest'immagine, ma poi era di nuovo scomparsa e in qualche modo non potevo vedere una connessione tra l'immagine e Don».

«Allora, da quando è stato in clinica ha sognato un'immagine che ha visto durante la sua prigionia, ho capito bene?»

«Sì – no... forse ho sognato l'immagine anche prima, non ricordo. Da quando sono in clinica, con certezza. Qualche volta l'immagine era un po' diversa ed è cambiata negli incubi, ma questa volta l'ho vista per bene». E non lo dimenticherò mai più, aggiunse nei suoi pensieri, e di nuovo dovette deglutire.

«Dunque si ricorda di esser stato imprigionato?»

«Sì. Ma non so dove né da chi».

Data la specificità di Charlie, Bradford avrebbe voluto chiedere se il suo paziente ricordava il perché, ma non voleva allontanarsi dalla questione principale.

«E come mai ha visto il corpo di Don?»

Charlie rifletté. Aveva anche chiuso gli occhi, benché così non avesse un aspetto più tranquillo di se li avesse tenuti aperti.

«Me l'avevano mostrato» disse infine; la sua voce era diventata più bassa e tremolava un po'. «Mi hanno portato fuori dalla mia cella perché potessi vederlo. E poi l'hanno... gli hanno dato calci e... e... e gli hanno sparato ancora... Volevano... Volevano che fossi certo che era morto. Volevano sfinirmi».

E ce l'hanno fatta, constatò Bradford tra sé, non considerando opportuno esprimerlo ad alta voce davanti al suo paziente. Invece tentò di chiarire la faccenda. «Come sa che il morto era Don?»

«L'ho riconosciuto» rispose Charlie, un po' sorpreso. Non poteva esserci nessun dubbio che il morto fosse Don. Inoltre... «Mi hanno detto che era Don».

La faccenda sta diventando interessante, pensò Bradford tra sé. «Si sta contraddicendo, Charlie. Ha riconosciuto Don da solo oppure gli hanno detto che era lui? A quale distanza si trovava dal corpo?»

«Forse... una ventina di metri, credo».

«E da questa distanza ha riconosciuto suo fratello?» Bradford non poteva far di meno di ricordare i suoi vecchi interrogatori da poliziotto – solo che adesso aveva la speranza che con le sue domande avrebbe potuto aiutare la persona di fronte a lui.

«Beh, è mio fratello...»

«Ha potuto vedergli la faccia?»

«Ma no, mi voltava le spalle. Ma i capelli erano gli stessi. E inoltre indossava i suoi vestiti dell'FBI».

«Solo i vestiti? Non un giubbotto antiproiettile?»

«No! Altrimenti avrebbe...» Charlie dovette deglutire. «Altrimenti non l'avrebbero...» Si bloccò. Non poteva continuare.

Adesso la faccenda era chiara per Bradford. C'era solo una cosa di cui voleva avere certezza.

«Lei dice che ha davvero visto quello scenario, Charlie? E' sicuro che non fosse un incubo?»

«No! Gliel'ho già detto! Questi incubi venivano solo da... dalla... da quell'immagine.», Charlie si sentiva tradito. Avrebbe dovuto sapere che Bradford non gli avrebbe creduto, ma aveva sperato...

«Va bene, Charlie, penso di sapere come spiegarlo. Perché penso che siamo d'accordo sul fatto che attualmente Don è fuori, nella sala d'aspetto».

«Ma gliel'ho detto, non è stato un incubo!»

«Non è ciò che intendo dire. Ma se immagino in che stato i suoi nervi erano quando ha visto quella cosa, non mi riesce difficile credere che lei è stata vittima di un inganno».

«Un inganno?», Charlie rimase diffidente; non sapeva se voleva veramente ascoltare il resto della spiegazione. Un inganno – il dottore intendeva come un tipo di allucinazione? Era davvero matto?

«Come ha detto lei stesso, i suoi avversari volevano indebolirla psichicamente. Ammetto che non so perché e neanche come hanno acquistato le informazioni necessarie, però per me non c'è dubbio che abbiano fatto indossare a qualcun altro i vestiti dell'FBI per farle credere che si trattasse di suo fratello, per scoraggiarla. E penso che la presenza di Don nel mio studio sia un indizio abbastanza forte della mia ipotesi».

Charlie fu solo in grado di fissare lo psicoterapeuta. Era veramente così facile...? Don... era vivo, non era mai stato morto? Era semplicemente qualcun altro?

«Ma era Don...» La protesta di Charlie era debole, ma c'era.

«Questo gliel'hanno fatto credere i suoi rapitori, Charlie. E considerate le circostanze lei si è convinto e così quella è diventata una verità irrevocabile nella sua testa. Nondimeno questa “verità” non è vera, Charlie. Lo ripeto volentieri per lei: il morto che ha visto, non era Don».

A Charlie riusciva ancora difficile capirlo.

«Ma se è così, allora... allora non è... non è colpa mia?»

«La morte di suo fratello? Certo che no».

«Va bene...» disse Charlie. Sembrava ancora piuttosto sconvolto. «Va bene. Ah... grazie». Si alzò.

«Non deve andarsene adesso, Charlie. Abbiamo ancora qualche minuto».

«No». Charlie sembrava ancora un po' confuso. «No, penso che vorrei restare un po' da solo adesso».

Bradford annuì. Poteva capirlo e doveva accettarlo. E forse Charlie aveva ragione. Lui adesso non avrebbe potuto aiutarlo, comunque non abbastanza. Venire a capo con i suoi pensieri adesso era una cosa che Charlie avrebbe dovuto fare da solo.Perciò Bradford era sollevato del fatto che non aveva ancora raccontato tutto a Don. Anche se il morto non era stato Don, c'era, molto probabilmente, stato un corpo, e questo era una cosa che un'amministrazione avrebbe dovuto sapere, ma Bradford riuscì a convincersi che un altro fine settimana dopo sei mesi non avrebbe cambiato molto.

«Beh... Allora ci vediamo la settimana prossima», esitò Bradford.

Considerando le circostanze, avrebbe preferito spostare le cose che aveva progettato. «Avrei preferito fare un'altra seduta o due con lei durante il fine settimana, ma sfortunatamente non mi troverò in città... Le lascio il numero di uno dei miei colleghi nel caso ci sia qualcosa di urgente?»

«No, grazie. Penso che sia una buona idea avere un po' di tempo per... riflettere su tutto».

Il fatto che si trattasse di un intero fine settimana, non rassicurava molto Bradford, ma era una decisione del suo paziente.

«Va bene, Charlie. Stia bene fino ad allora. E per casi urgenti ha il mio numero, no?»

Charlie annuì e uscì dallo studio. Gli occhi pieni di preoccupazione di Bradford accompagnarono la sua schiena.



- - -



Don si alzò di scatto quando Charlie entrò nella sala d'attesa, ma riuscì a farsi dire solo poche e brevi frasi durante tutto il tragitto verso casa. Poteva solo sperare che quello stato meditabondo lo avrebbe abbandonato durante il fine settimana, perché da lunedì sarebbe stato di nuovo in servizio e non avrebbe visto Charlie così tanto come ora. Certo, c'era ancora suo padre, ma benché la testa di Don gli dicesse di non preoccuparsi, non poteva reprimere l'istintivo desiderio di stare lui stesso con Charlie.

Tutti e due i giorni del fine settimana, sia Amita e Larry sia la squadra fecero una visita a casa Eppes. E benché Charlie fosse ancora insolitamente taciturno, sembrava aprirsi pian piano sempre più. Sembrava un po' più socievole con tutti, anche se Don sentiva ancora una certa prudenza nel modo in cui Charlie lo trattava. Voleva convincersi che non fosse niente, che Charlie lo trattasse proprio come trattava tutti gli altri – ma non funzionava. Aveva la sensazione che Charlie lo evitasse – no, non era proprio quello. Sembrava piuttosto che tentasse di prendere contatto con lui, ma che poi indietreggiasse spaventato di tanto in tanto. E questi tentativi falliti creavano un dolore immenso, almeno in lui.

Venerdì, fu la prima volta che fece una passeggiata.

Don ed Alan rimasero sorpresi quando Charlie disse loro di averne voglia e sopratutto del fatto che era riuscito a staccarsi sia dal garage sia dal laghetto dei Koi. Ma forse era anche una fuga da due posti tanto stretti. In ogni caso capirono ben presto che era una fuga dalla gente, precisamente quando Don gli chiese di accompagnarlo.

«No, Don. E' una cosa che devo fare da solo».

Questo fece ricordare a Don il monito di tempo e spazio, però non fece sparire i suoi scrupoli.

«E se non trovi la strada di ritorno?»

Charlie gli lanciò uno sguardo scettico. «Primo, non sono stupido; secondo, potrei chiedere a qualcuno di passaggio e terzo, sono cresciuto qui. Conosco bene le strade, Don».

Don non l'avrebbe considerato possibile, ma aveva davvero trovato una situazione in cui avrebbe preferito che Charlie ricordasse di meno.

«E il tuo piede? Il dottore ha detto di non sforzarlo troppo».

«I graffi sono quasi guariti e dopo tutti questi giorni le suture non si scuciranno per una passeggiata».

Come sempre, fu Alan a trovare una soluzione che piaceva ad entrambi.

«Ecco», disse al minore, dandogli il suo vecchio cellulare. «Chiamaci se hai problemi. Penso che tu sappia il numero di casa?»

Siccome Alan sorrideva, anche Charlie riuscì ad arrivare con un po' di sforzo ad un sorriso.

«Certo».

«Beh', allora siamo d'accordo».

Lanciò uno sguardo breve verso il maggiore, e la sua espressione gli confermò che era d'accordo «E – Charlie? Rimani raggiungibile».

Per Don non sarebbe stato necessario quella conversazione padre-figlio per sapere che Charlie era un uomo adulto (beh, forse non era una cattiva idea ricordarglielo ancora una volta). Comunque, per la prima volta, capì quanto difficile doveva essere per un padre e di quanta fiducia doveva aver bisogno per lasciar andare i propri figli.



- - -



Le strade e le case gli davano una sensazione famigliare che lo rassicurava. Conosceva i dintorni, anzi di più, quello era il posto dov'era cresciuto, il posto a cui apparteneva, e non importava che cosa sarebbe successo, avrebbe sempre considerato questo luogo la sua patria.

E gradualmente... sì, gradualmente tutto sembrava mettersi in ordine. Don non era morto. Allora non poteva essere responsabile per la sua morte, perché Don non era stato ucciso mentre cercava di salvarlo. Don era vivo, davvero, anche il Dott. Bradford lo aveva detto. E gli aveva dato anche una spiegazione del tutto logica per quella faccenda. Ad un tratto, tutto aveva senso. Era la realtà; non aveva perso la ragione.

Cautamente, una sensazione di euforia si allargò in lui. Sì, adesso aveva esaminato la spiegazione di Bradford da tutti i lati e l'aveva considerata giusta, ma ancora gli riusciva difficile comprenderla davvero. Era talmente... talmente liberatorio che si sentiva quasi perso. Un peso pesantissimo sembrava essere scomparso dalla sua anima e non poteva credere che tutto fosse davvero così semplice. La verità – no, la bugia, perché la storia come la conosceva lui era una bugia – era radicata così profondamente in lui, si era fissata con così tanta violenza che quasi non poteva esser strappata da lui. Ma prima o poi si sarebbe decisa a lasciarlo andare, Charlie ne era certo. Doveva solo essere pronto a crederlo, doveva solo continuare a ricordare che in realtà andava tutto bene. Doveva solo crederci.

Arrivò al piccolo parco con quei vecchi alberi enormi tra i quali lui e Don avevano spesso giocato da bambini. Certo, poco dopo il tempo li aveva separati, però nella testa di Charlie c'era ancora qualche immagine di picnic con la famiglia, di giochi con gli amichetti d'infanzia.

Entrò nel parco che era sempre stato un po' più naturale e selvaggio degli altri. I percorsi erano parzialmente ombreggiati, e sopra sporgevano alberi e cespugli. C'era sempre stato qualcosa d'incantato lì dentro.

Quando la panchina entrò nel campo visivo di Charlie, si sentì subito attirato come da qualcosa di magico e si sedette. Non era in ottime condizioni, ma dava una vista meravigliosa sul parco. E una vista meravigliosa sul passato.

Su quella panchina era stato seduto con Amita. Era ancora la sua studentessa allora, e poiché avevano verniciato il suo ufficio, avevano discusso della tesi di dottorato a casa di Charlie e poi avevano fatto una pausa andando lì.

Amita stava per finire il suo dottorato, ed entrambi avevano sperato che il tutto andasse più veloce. Perché tutti e due si erano accorti già da allora che cosa si stava sviluppando, e tutti e due avevano voluto che la loro relazione diventasse più stretta. Era vero che il dottorato aveva permesso loro di passare più di tempo insieme, ma all'epoca non avevano ancora osato mostrare francamente i loro sentimenti.

Charlie sentiva la sua mancanza. Avrebbe voluto che lei fosse lì ora, accanto a lui, la sua testa poggiata sulla propria spalla e il suo braccio attorno al corpo di lei. L'amava.

Charlie si alzò, ma l'emozione rimase dentro di lui, per sempre. C'era sempre stato anche se non ne era accorto durante i mesi passati. Ma quel tempo era passato. Amava Amita, adesso lo ricordava, e ad ogni passo che faceva poteva ricordare nuove cose che avevano vissuto insieme.

Charlie sorrise leggermente quando lasciò l'ombra dietro di lui, camminando sotto il sole primaverile. Sì, sembrava che la memoria stesse finalmente tornando. Il sole illuminava di nuovo la sua vita, e il buio stava sparendo alle sue spalle.





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Capitolo 22
*** Osservazioni ***


nonti22 Mille grazie per le vostre carine recensioni! E scusate il ritardo...
Spero che vi piacerà!



22. Osservazioni

Every breath you take,
Every move you make,
Every bond you break,
Every step you take,
I’ll be watching you.

(The Police, Every Breath You Take)


Juan Juarez aspettò finché anche l'uomo più anziano non fosse uscito di casa e partito in macchina. Ce n'era ancora una davanti casa, un'utilitaria blu, ma Juan sapeva dalle sue fonti che con tutta probabilità al momento abitavano lì solo tre persone e gli altri due, gli uomini più giovani, erano usciti da più di un'ora. Perché tre membri della stessa famiglia avevano bisogno di tre macchine?
Juan sapeva solo il necessario: l'uomo anziano doveva essere il padre e i due uomini più giovani i suoi figli. Il più giovane di quelli era l'obiettivo delle persone per cui lavorava. Era lui che volevano spiare. Il perché rimaneva segreto. E non gli interessava.
Le informazioni che gli avevano dato erano insufficienti per sapere dove i tre uomini fossero andati e quando sarebbero ritornati. Era possibile che fossero usciti per lavoro, così come per fare la spesa, o anche per una gita di un intero weekend.
Sospirò. Al momento non poteva fare altro che rischiare. Si assicurò che non ci fosse nessuno per strada o in giardino che curiosasse, e scese dalla macchina che aveva parcheggiato in vista, ma non troppo vicino, alla casa degli Eppes, dall'altro lato della strada.
La sua divisa nera portava il logo di una ditta che non esisteva. Fingeva di essere il dipendente di un'impresa privata di recapito di pacchi ed era certo che fosse un camuffamento perfetto.
Suonò il campanello. Nessuno aprì. Evitò di chiedere se qualcuno fosse in casa – avrebbe solo attirato inutilmente l'attenzione – e percorse il perimetro della casa come se stesse cercando qualcuno. In realtà, però, stava solo cercando l'ingresso posteriore. Non solo perché la porta sarebbe stata più facile da aprire rispetto a quella principale, ma anche perché era protetta da eventuali sguardi. Inoltre avrebbe probabilmente lasciato tracce della sua presenza se fosse entrato dalla porta anteriore, anche se fossero stati solo graffiature piccolissime. Dalla porta posteriore lo avrebbe facilmente evitato.
La serratura scattò e lentamente Juan entrò in casa. Si guardò intorno e subito capì che era il soggiorno ad essere il centro della casa. Dunque piazzò lì una cimice, dietro all'orologio a muro. Un'altra la fissò dietro una delle gambe del tavolo da pranzo. Un'altra sopra un mobiletto, in cucina. Le cucine erano il posto più convenzionale per una conversazione, soprattutto quelle che non tutti i membri della casa avrebbero dovuto ascoltare. Beh, così in ogni caso sarebbe stata intercettata da gente fuori dalla casa.
Juan esaminò il piano di sopra, ma qui c'erano solo camere singole, nessun posto dove sarebbero state facili le conversazioni. Rimaneva ancora il telefono. Abile ed esperto, Juan lo aprì e posizionò una quarta microspia direttamente accanto al microfono del telefono prima di rimettere tutto a posto.
Lanciò uno sguardo indagatore intorno. Non c'erano tracce del suo passaggio, come se fosse stato un fantasma a fare un simile lavoro. Soddisfatto, uscì dalla casa e stava per ritornare in strada quando vide la macchina dei fratelli fermarsi e trasalì, indietreggiando.
Si appiattì contro il muro della casa e quasi non osò respirare. I due uomini scesero e le portiere si chiusero di scatto. Sembrava che non l'avessero visto.
«Perché non hai voluto che fossi presente oggi, Charlie? Non c'erano stati problemi durante le due scorse sedute, no? Allora perché non questa volta?»
«Don... Sono fiducioso che tutto si sistemerà, va bene? Ma al momento... è semplicemente tutto un po' troppo. Vado in garage». Dei passi si allontanavano, ma poi si fermarono e la voce risuonò di nuovo: «Ti prego, non essere arrabbiato. Va bene?»
Juan pensò che l'altro non intendesse rispondere più, ma poi potette appena udire un calmo «Sì» prima che i passi si allontanassero definitivamente, fortunatamente lontano da lui.
L'altro invece si avvicinò alla porta della casa. Una chiave girò nella serratura, la porta si aprì e si chiuse di nuovo.
Solo in quel momento Juan osò espirare. Si inginocchiò e cautamente spiò da dietro l'angolo. No, non c'era più nessuno. Ne era certo.
E inosservato come era venuto, sparì di nuovo da Pasadena.


- - -


Per quanto riguardava le sue relazioni con altre persone, le passeggiate durante il fine settimana lo aiutavano molto. Per venire a sapere che cos'era successo durante la sua detenzione, lo aiutava il garage e forse era quella la ragione per cui ormai passava davvero poco tempo lì. Probabilmente non era molto ragionevole, ma preferiva riflettere su tutte le persone che gli erano vicine, piuttosto che sul tempo passato tutto da solo in chissà quale posto buio.
E pian piano ricordava. Era incredibile; ogni minuto che passava, gli sembrava di ricordare un pezzettino di più della sua vita di una volta. Ricordava di nuovo il tempo trascorso a Princeton, con Larry come professore, quello successivo con Larry come mentore e tutto il resto del tempo in cui era stato suo amico. Poteva di nuovo ricordare conversazioni tra di loro e anche il silenzio non meno gradito quando era stato seduto nell'ufficio di Larry, taciturno, pochi giorni dopo la morte di sua madre.
Le immagini di lei erano le sole che ricordava da sempre benché, stranamente, quelle della sua malattia sembravano essersi spostate indietro. Quello che era nuovo in queste immagini era l'uomo sorridente al suo canto.
Charlie non avrebbe potuto desiderare padre migliore di Alan. Aveva cura di lui, però allo stesso tempo gli lasciava la libertà di cui aveva bisogno. E Charlie ricordava. Ricordava il sentimento di famigliarità e sicurezza collegato a suo padre e non solo ricordava quelle sensazioni, ma le sentiva davvero. Erano di nuovo lì, quasi come allora, solo che adesso Charlie sapeva apprezzarle ancora di più. Poteva ricordare conversazioni con suo padre, conversazioni serie e chiacchierate piacevolmente insignificanti, che proprio per questo avevano tanta importanza. E ciò che Charlie aveva tentato di imparare adesso veniva quasi da solo: Alan era suo padre. Non era una persona qualsiasi, non un estraneo che voleva aiutarlo, non un vecchio ospitante gentile, ma suo padre, un genitore, l'uomo che gli aveva dato la vita, che lo aveva allevato e accompagnato sul suo cammino nella vita offrendogli sempre il suo aiuto.
E non pensava solo a suo padre. C'era anche Don...
Certo, sul campo professionale i ricordi non erano un problema. Pensava alle sale delle conferenze e alla squadra, alle loro facce a volte concentrate, a volte piuttosto annoiate, spesso confuse. Poteva ricordare casi che avevano risolto insieme. No, in sé, il lavoro di Don non era un campo minato.
Solo quando pensava alla giacca dell'FBI.
Charlie sapeva che Don non era morto, lo sapeva, era una certezza nella quale credeva fermamente. Le sue emozioni, però, non intendevano assentire alla logica e continuavano a farlo impazzire quando si trattava di suo fratello.
Perché in fondo era Don che lo confondeva completamente. Perché se Charlie giudicava in base a quello che poteva ricordare, la reazione di Don non era affatto normale. Allora la sua memoria non funzionava bene come aveva osato sperare? Perché poteva ricordare tante scene tra di loro, innumerevoli... Come Don aveva reagito quando Charlie era andato nella sua classe... il modo in cui roteava gli occhi quando Charlie parlava di numeri o quando era al centro dell'attenzione o cercava di entrare nella comitiva... all'epoca, nel garage, quando Don l'aveva rimproverato, gridando, perché aveva dato più importanza al problema di P contro NP che alla loro madre...
No, dopo quello che Charlie sapeva, non poteva affatto capire l'improvviso affetto di Don per lui. Certo, durante gli ultimi anni, il contatto tra di loro era diventato più stretto, ma non in quel modo e con quell'intensità ed era solo dovuto al lavoro comune, Don si era solo rassegnato ad accettare la sua presenza perché aveva capito che i trastulli matematici del suo fastidioso fratellino non erano solo ciarpame inutile. Sì, qualche volta Charlie aveva creduto che la loro relazione fosse diventata più stretta, ma questo era stato solo un suo desiderio... vero?
Altre scene apparivano nella sua mente e sapeva che erano vere: l'improvvisa comprensione di Don per la preoccupazione di Charlie quando l'avevano sparato in quella rapina a una banca, anni prima; come, in seguito, avevano davvero lavorato insieme come fratelli... il panico negli occhi di Don e la sua premura non esagerata quando Charlie era stato quasi sparato da un cecchino... E sì, anche durante il periodo proprio prima la sua scomparsa, quando tutto era andato a catafascio, sembrava che fossero diventati più intimi, quando l'ex-collega di Don si era apparentemente suicidata, quando c'era stato la follia omicida alla centrale dell'FBI, quando la mafia li aveva presi di mira, quando avevano sequestrato Megan...
Sì... Se considerava anche questo periodo, il comportamento di Don era più facile da comprendere. Sì... Riflettendo, il loro rapporto era davvero diventato più stretto nelle settimane e nei mesi prima della sua scomparsa. E questo significava che erano avvenimenti reali quelli che ricordava, solo reali.


Ma rimaneva tranquillo. Qualche volta si sentiva come se stesse seduto su un vulcano, ma non aveva ancora detto che era riuscito a ricordare, e continuava a tenersi molto nell'ombra. Preferiva osservare un po'. Perché cosa ne sapeva lui se tutto era davvero ancora come lo ricordava? Erano passati più di sei mesi ed avevano creduto che non sarebbe mai più tornato. No, era troppo pericoloso lasciare che vedessero le sue carte. Doveva prima essere certo che la situazione non fosse cambiata.
Era difficile, certo. Tenersi nell'ombra significava che non poteva né avvicinarsi a loro, né aprirsi con loro. Certo, alle volte si lasciava andare, era inevitabile, ma manteneva la distanza quanto più gli era possibile.
Soprattutto con Amita gli riusciva difficile. Desiderava ardentemente essere con lei e mostrarle che provava le stesse cose di prima, ma non osava. Solo la osservava accuratamente. Qualche volta i loro sguardi si incontravano ed ambedue arrossivano fino alle punte dei capelli. Eppure Charlie non era sicuro: anche Amita l'amava come prima? Oppure aveva deciso che preferiva una vita senza di lui? Forse aveva già un altro ragazzo? Sì, finora nessuno aveva detto una cosa del genere, ma era possibile che finora non gli avevano detto niente per rispetto o semplicemente per caso.
Se era difficile con Amita, con Don era quasi impossibile. Charlie semplicemente non sapeva cosa fare. Da un lato era così felice del fatto che adesso tutto andasse bene e voleva essere vicino a suo fratello, ma dall'altro lato non ce la faceva a guardare Don senza che immediatamente quella terribile immagine apparisse di nuovo davanti ai suoi occhi. Naturalmente, adesso sapeva che il cadavere non era quello di Don, ma il fatto che avrebbe potuto esserlo e il ricordo di quando l'aveva creduto suscitavano la nausea ancora oggi. Però Charlie non abbandonava la speranza. Era fiducioso che gli sarebbe di nuovo stato possibile trattare Don in modo normale, non appena avrebbe interiorizzato la verità di quegli avvenimenti.
Qualche volta, però, si chiedeva se ci sarebbe mai riuscito. Ed era giunto alla conclusione che probabilmente non sarebbe mai successo se avesse continuato a rifiutarsi di riconoscere una parte del suo passato. Qualcosa dentro di lui insisteva ad esplorare tutto, a non accontentarsi di ciò che sapeva già. Un'altra parte aveva ancora bisogno di tempo per assimilare le parti già ricordate. Dunque Charlie decise di aspettare la fine della settimana e di parlarne con il Dottor Bradford per prima cosa lunedì.


- - -


Domenica pomeriggio, la conversazione era rimasta per la maggior parte del tempo su argomenti di lavoro. Don, Larry ed Amita avevano parlato di casi alla cui soluzione anche Charlie aveva partecipato. Alan aveva cercato di osservare la reazione di suo figlio, cosa che considerando le circostanze non gli era riuscito facile, perché sembrano essere tutte cose di cui lui non aveva mai sentito parlare prima. Certo, gli era stato raccontato di volte in cui i suoi figli erano stati in pericolo, ma questo era avvenuto subito dopo la risoluzione del caso. Qui, invece, si trattava di storie vecchie di almeno sei mesi, delle quale nessuno aveva finora ritenuto necessario informarlo.
Allo stesso modo Alan era insicuro con le sue diagnosi. Credeva che Charlie fosse più calmo, non più talmente teso, e che mostrasse più disponibilità nel partecipare alla conversazione, ma allo stesso tempo sembrava essere ancora così ritirato e chiuso in sé stesso, così silenzioso e osservante come se tutto fosse ancora estraneo per lui.
In ogni caso arrivò il momento di confrontarsi con suo figlio.
Andarono in cucina e lasciarono i tre scienziati da soli con la loro conversazione. Alan osservò suo figlio, tentando di dedurre dalla sua mimica facciale cosa ne pensasse lui della faccenda. Ma il modo diretto era naturalmente il più efficace.
«Dunque, tu che ne pensi?»
Don sospirò. «Non lo so. Non posso... non riesco a capirlo».
Aveva esitato e Alan sapeva perché. Sapeva che per Don non era facile ammetterlo, ammettere quest'alienazione. Per ambedue, Charlie finora era stato come un libro aperto. Però ora ero chiuso con sette sigilli.
«Credi che ci tenga nascosto qualcosa? Che ricordi?»
«Davvero non lo so, Papà. Penso... Noi siamo ancora degli estranei per lui, quindi è possibile che non ci metta a parte di tutto ciò che sa. E penso anche che Bradford lo abbia davvero aiutato».
«Sai come sono andate le sedute?»
Don sospirò ancora.
«Bene, credo» disse infine ed Alan decise di lasciar perdere. Poteva ricordare fin troppo bene che Don non aveva voluto capire perché fosse così importante per Charlie continuare la terapia da solo. Non che a loro avrebbe fatto male seguire una terapia, considerate le circostanze.
Con sorpresa, fu Don a tornare sull'argomento.
«Forse scopriremo qualcosa domani. Comunque può stare tranquillo, non sarò alla seduta. Forse così finalmente parlerà di nuovo con noi».
Ad Alan non sfuggì la nuova amarezza nelle parole di Don, e un po' a disagio si chiese come le cose si sarebbero sviluppate se Charlie anche dopo la seduta di domani fosse rimasto nel suo silenzio.


- - -


«C'è qualcosa di nuovo?» volle sapere Daniel Rosenthal dopo che Cedric Patter gli aveva fatto cenno di venire al computer. Patter annuì mentre continuava ad ascoltare la conversazione dei due uomini, e gli diede la seconda cuffia senza parlare.
Rosenthal la indossò e sentì la voce di un uomo che aveva imparato a conoscere bene negli ultmi due giorni: Don Eppes, il fratello maggiore del professore.
«Bene, credo». Seguì una breve pausa che bastò per far crescere l'impazienza di Rosenthal. Guai a Patter se non l'aveva chiamato per qualcosa d'importante. «Forse scopriremo qualcosa domani. Comunque può stare tranquillo, non sarò alla seduta. Forse così finalmente parlerà di nuovo con noi».
«Devi lasciargli tempo, Donnie».Quello era il padre, Alan. «Non puoi prenderla sul personale se ha un po' di...»
Rosenthal lo lasciò continuare e si tolse la cuffia.
«Questo è tutto?» chiese a Patter. «E per questo mi hai chiamato?»
Questa conversazione a lui sembrava definitivamente troppo sentimentale per poter essere rilevante.
Anche Patter tolse la cuffia. Forse avrebbe ascoltato la registrazione del seguito più tardi.
«Sì» rispose, tentando appena di reprimere il tono aggressivo della sua voce. «Non l'hai sentito? Domani il dottore andrà di nuovo dallo psicoterapeuta. A parte che c'era già stato venerdì quando il tuo amico ha installato le mie microspie, e che questo non può significare nulla di buono per noi–»
«Perché non può significare nulla di buono?» lo interruppe Rosenthal. «Con i nervi a fior di pelle non può esserci utile; forse lo psicoterapeuta ci sarà d'aiuto».
«Ma con i nervi a fior di pelle il dottore non è nemmeno pericoloso».
«Non puoi saperlo. Allora perché mi hai chiamato?»
«Ma non l'hai sentito? Eppes sembra ricordare – allora forse ricorda anche ciò che gli abbiamo fatto. Finora non ha detto niente a nessuno. Finora. Ma se lo psicoterapeuta domani continuerà il suo lavoro, allora la situazione potrebbe cambiare».
Rosenthal rifletté. A questo non c'aveva pensato. Fortunatamente aveva una squadra i cui membri erano i migliori nei loro rispettivi campi. Altrimenti la loro missione sarebbe andata in fumo sin dall'inizio. Tuttavia Rosenthal non avrebbe mai ammesso quanto dipendesse dalle facoltà dei singoli membri della squadra, anche se loro stessi ne erano consapevoli già più del necessario. Ad ogni modo era lui quello che aveva in mente l'idea generale del piano e che perciò poteva meglio estimare che cosa fosse buono per i loro progetti e che cosa dovevano, invece, evitare.
«Allora che facciamo adesso?» volle sapere Patter e Rosenthal sentì un'emozione di soddisfazione. Sì, Patter era insostituibile per quanto riguardava problemi tecnici, ma era lui che guidava le loro azioni.
«Dobbiamo toglierlo dalla circolazione prima che vada di nuovo da quello psicoterapeuta».
«Allora lo uccidiamo?»
Rosenthal scosse il capo.
«No. Sarebbe uno spreco. E inoltre controproduttivo; attualmente non possiamo permetterci che a causa di un omicidio qualcuno ficchi il naso in una vecchia faccenda. Dobbiamo tentare di integrarlo di nuovo nella nostra squadra. Altrimenti tutti questi guai che abbiamo avuto con lui saranno stati inutili».
«Ma non vorrà».
«Chi ha detto che gli lasceremo scelta?» chiese Rosenthal malignamente.
«Dunque vuoi rapirlo?»
Rosenthal sogghigno. Aveva già un'idea. «Qualcosa del genere».


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Capitolo 23
*** Bentornato ***


nonti23 Grazie a BlackCobra per un'altra recensione molto dettagliata :)


23. Bentornato!


I couldn’t hide,
no matter how hard I tried,
was foolish to have begun,
to believe I’d ever outrun.

(Dwight Yoakam, Love Caught up to Me)


Anna Silverstein chiuse la porta dietro di sé, respirando profondamente. Quando espirò, un largo sorriso si distese sulla sua faccia. Continuava ancora ad essere così entusiasta del suo nuovo appartamento! Non perché fosse particolarmente bello o caro. No, era un appartamento piuttosto piccolo, carinamente arredato, certo, ma niente di speciale. Almeno non per altre persone, perché per lei era un sogno. Era il suo appartamento; adesso era completamente indipendente dai suoi genitori e dal suo nuovo ragazzo, ed era libera. Aveva un nuovo lavoro che le piaceva e che non era pagato tanto male. Si era lasciata dietro tutto ciò che l'aveva ostacolata e adesso si manteneva ancora in contatto solo con alcuni amici molto stretti. E tutto ciò che non le era più servito a nulla l'aveva tolto dalla sua vita. Aveva una vita nuova ora.

Quella parte di sé era finita. Non avrebbe sopportato di rimanere con quei pazzi ancora a lungo. C'era stato un tempo in cui aveva sempre voluto aiutare la gente e aveva pensato che anche persone malate di mente avessero diritto all'assistenza e all'affetto. Però presto si era accorta che quel lavoro non faceva per lei. Rischiava di impazzire anche lei.

E l'offerta del Signor Doe era arrivata a proposito. Non sapeva qual era il suo vero nome, ma per i soldi che pagava era stata prontissima ad assentire a quell'aria di mistero di John Doe. Non aveva nemmeno saputo perché quell'uomo avesse cercato proprio lei, ma non le interessava molto. Forse aveva semplicemente lanciato uno sguardo al suo conto in banca – dopotutto lo riteneva capace di farlo, quel misterioso uomo d'affari. Tutto ciò che le interessava era il suo compito – e quello era stato, rispetto al pagamento, ridicolo.

Aveva semplicemente dovuto informarlo dei progressi di un paziente. E questo l'aveva fatto. Aveva detto loro com'era diventato depresso, che continuava a non ricordare. E ogni mese aveva ricevuto il suo pagamento, in modo confortevole ed essente da imposte, direttamente sul suo conto.

Per Anna, l'offerta era venuta esattamente nel momento giusto della sua vita. Aveva cominciato ad odiare il suo lavoro. Era stata spesso di malumore e anche quando rincasava non riusciva a prendere iniziativa per nulla. E dal momento che si considerava troppo giovane per una crisi di mezza età, era arrivata ad una conclusione ed aveva deciso di cambiare. E il pagamento di John Doe era un capitale iniziale di prima classe.

Siccome tutta la questione già dal primo contatto era andata avanti per telefono, aveva continuato così anche una volta licenziatasi. Aveva ancora un'amica nella clinica che le aveva passato le informazioni richieste. Ma al di là di questo, aveva raccontato a John Doe nient'altro che frottole. Dopotutto lui non poteva verificarle.

Sogghignò quando pensò di nuovo alla messinscena che aveva fatto al telefono: "No, Signor Doe, mi dispiace. E' sempre depresso e a quanto pare la situazione non cambierà così presto, è talmente chiuso in sé stesso e non parla con nessuno... Sì, forse sarà necessario che vada di nuovo in ospedale se continua così... No, non ricorda niente... Certo che la informerò quando qualcosa cambierà."

Aveva il suo numero, ma finora aveva sempre aspettato che fosse lui a chiamare.

Dopotutto, non è mai successo nulla, pensò Anna sogghignando.

Un po' le dispiaceva che fosse finito, ma almeno era completamente libera ora e i soldi le erano bastati per costruirsi una nuova vita, anche se semplice. Ma almeno senza pazzi.

La settimana prima aveva deciso di tirarsene fuori. Aveva buttato via il suo cellulare insieme al caricabatteria e trasferito tutti i soldi su un altro conto. Adesso John Doe non poteva più trovarla, si era liberata di lui e non doveva più contattarlo. Faceva un po' male quando pensava alla fonte di guadagno a cui aveva rinunciato, ma era stata la cosa più ragionevole da fare. La sua amica della clinica l'aveva chiamata la settimana scorsa e le aveva raccontato che il paziente era tornato a casa. Non aveva ricordato ancora tutto, ma poteva essere solo una questione di tempo, ed Anna non voleva più correre rischi. Chi sapeva che cosa intendeva fare quel John Doe e che cosa c'era sotto tutta quella storia e che sarebbe successo se Michael avesse finalmente ricordato? No, era stata la decisione giusta quella di terminare la faccenda lì.

Anna si accomodò sul suo nuovo divano, tirò fuori dalla tasca il suo nuovo cellulare per chiamare un ragazzo che aveva da poco conosciuto – sarebbe potuto nascere davvero qualcosa? – e si tirò fuori dai suoi vecchi ricordi, di nuovo nella sua nuova vita.


- - -


L'atmosfera era calma e rilassata quando Larry ed Amita andarono a prendere Charlie, lunedì mattina. Mentre andavano, si accorsero che non l'avevano mai fatto prima, andare insieme alla CalSci. Ma tutti e tre si resero conto che non avrebbero avuto niente in contrario se si fosse ripetuto. E tutti speravano che questo avrebbe destato o rafforzato qualche memoria nella mente di Charlie.

Dopo una veloce visita dal dottore, che tolse finalmente a Charlie i punti dal piede, il campus entrò nel loro campo visivo e questi si sentì sollevato da un peso paragonabile a un Cray-1. Tutto era esattamente come aveva ricordato, niente era cambiato, niente era stato solo frutto della sua immaginazione.

Solo quando erano già scesi dalla macchina Amita osò chiedergli: «Lo riconosci?»

Charlie prima inspirò la fresca aria della mattina, beandosi di poter lasciar vagare lo sguardo per il campus famigliare e poi annuì.

I volti di Larry ed Amita si rasserenarono entusiasti, ma non trovarono parole e così fu Charlie ad interrompere il silenzio, di buon umore. «E adesso che si fa? Ci sediamo qui fuori o andiamo dentro? Sono quasi certo che dobbiate fare lezione...» disse, benché, con uno sguardo all'orologio, avesse constatato che avevano ancora un po' più di mezz'ora.

Il foyer e i corridori dell'università si rivelarono ben presto una sfida e il buonumore di Charlie fu ben presto smorzato. Sguardi e bisbigli lo seguivano dappertutto, la gente lo additava e sussurrava a bassa voce con espressioni di meraviglia. Charlie poteva immaginare perché; in fin dei conti non era ufficiale che era ritornato al mondo dei vivi. Eppure avrebbe preferito rinunciare agli sguardi curiosi e invadenti, tanto più perché venivano anche da studenti che non aveva mai visto prima. Era vero, qui e lì vedeva una faccia famigliare, ma per la maggior parte degli studenti non era sicuro e scorgendo tante facce sconosciute si chiese se invece avesse dovuto conoscerle.

I tre si fermarono davanti alla porta di un ufficio che Charlie conosceva benissimo. Era la sua porta.

Amita bussò e lui sentì addosso i loro sguardi curiosi, le occhiate indagatrici per sapere se ricordava o meno.

«Entrate!» udirono una voce smorzata e mentre entravano nell'ufficio, davanti agli occhi di Charlie apparirono immagini delle innumerevoli volte che era passato per questa porta, di solito in modo meccanico – era sempre stata solo una procedura poco impegnativa che adesso, invece significava talmente tanto per lui, adesso che era finalmente sicuro di ricordare qualcosa...

Era diverso.

Ciò che aveva di fronte non era quello che aspettava. Per un momento fu sicuro che il battito del suo cuore si sarebbe fermato. Tutto era diverso... Beh', i mobili erano ancora come li ricordava e c'erano qualche rassomiglianza generale, ma tutti gli oggetti personali...

Oggetti personali. Ecco. Lì non c'erano le sue cose, certo che no, ma quelle del possessore attuale dell'ufficio, questo era innegabile, logico e non escludeva che la sua memoria gli avesse dato informazioni veri.

«Buongiorno, Charles! Non sa quanto sia bello vederla vivo e vegeto».

Solo in quel momento Charlie prestò attenzione all'uomo davanti a lui. Era più anziano di lui, alla fine dei sessanta, ma sembrava alquanto in forma. Certo, i capelli erano grigi, ma sia la parte calva della testa sia le rughe stavano nei limiti e anche gli occhi non avevano perso lo sguardo intelligente e sveglio. Anche i movimenti non erano stanchi, ma risoluti e scorrevoli quando andò verso Charlie porgendogli la sua mano.

«Probabilmente non si ricorda di me» aggiunse, con un sorriso apologetico, al suo saluto esuberante, «io –»

Ma Charlie lo interruppe. «No, la ricordo». Tre persone trattenerono il fiato. Era possibile...? «Walter Bell; insegna matematica qui. Ma era andato in pensione da tre o quattro semestri. E' ritornato quando la CalSci all'ultimo momento aveva bisogno di una sostituzione, perché io sono dovuto... partire...»

Charlie esitò. Sì, lo ricordava di nuovo. Ricordava che doveva partire per una missione e che la CalSci aveva richiamato Walter Bell dato che con un così breve preavviso non avevano trovato una sostituzione per il mese in cui, probabilmente, Charlie sarebbe stato via. E poi lui era partito, con uomini in completo formale, e poi...

Per qualche momento ci fu silenzio e la paura cominciò ad insinuarsi di nuovo in Charlie. Non era giusto? Quell'uomo non era il suo ex-collega Walter? Aveva di nuovo sbagliato? Immaginava solo quelli che credeva ricordi? Deglutì.

«Qualcosa... non va?»

Il silenzio svanì in sollievo.

«Ma sì, Charlie, va tutto bene» disse Amita, suonando ancora incredula.

«Più di “bene”» aggiunse Larry. «Tutto quello che hai detto è giusto».

Il sorriso di Bell divenne più largo. «Considerando le circostanze posso dirle che mi sento molto onorato che si ricordi di me».

Anche Charlie sorrise, ma più per cortesia che altro. Non sapeva perché, tra tutta la gente, poteva ricordare proprio il professore Bell. Non aveva una relazione stretta con quell'uomo; erano colleghi, niente di più. Ma non voleva lamentarsi. A quanto dicevano gli altri, la sua memoria ricordava; quella era già una buonissima ragione per dubitare un po' di meno della sua sanità mentale.

«Mi dispiace» disse Walter, dopo un breve sguardo al suo orologio. «Purtroppo adesso devo andare alla mia lezione. Ma può accompagnarmi se vuole; sono i suoi studenti del quarto semestre».

«No, grazie» rispose Charlie cortesemente e prendendo ancora un po' le sue distanze. Poteva rinunciare alla folla e gli sguardi curiosi.

«Beh', può anche rimanere qui, naturalmente, e guardarsi un po' attorno, se può aiutarla» gli consigliò Bell. Ad un tratto sembrava che si sentisse un po' a disagio. «Mi dispiace però che non vedrà molte cose che gli sembreranno famigliari. Come probabilmente sa, le sue cose personali sono state rimosse da quest'ufficio dopo che... dopo che sembrava non sarebbe tornato».

Sembrava aspettare una risposta da Charlie e così ci fu un silenzio sgradevole prima che cominciasse di nuovo a parlare.

«Ma la prego, non pensi che l'avessimo semplicemente sostituito. Se sono ben informato, la CalSci non ha ancora deciso chi sarebbe stato il suo successore. Io sono solo una transizione, capisce. Dopo che lei non è tornato, la CalSci mi ha chiesto di riempire il vuoto per uno o due semestri finché non avessero trovato una sostituzione. Ma non appena lo desidera può di nuovo occupare il suo posto, Charles». Il suo sorriso era ritornato, benché sembrasse ancora un po' insicuro.

«Grazie» disse Charlie cortesemente. Non sapeva se avrebbe mai voluto tornare ad insegnare. Non ci aveva pensato finora. Solo adesso che ci pensava e ricordava com'era stato una volta... studenti che lo ascoltavano con attenzione... che cominciavano a sviluppare proprie idee... che apprendevano ogni giorno un po' di più... Sì, rifletté Charlie, gli era davvero piaciuto. E probabilmente gli sarebbe piaciuto ancora. Ma non proprio adesso.

Di nuovo si diedero la mano prima Bell svanisse e anche Larry ed Amita annunciassero di dover andare alle loro lezioni.

«Sicuro che starai bene da solo?» chiese Amita. Gradualmente sembrava aprirsi e perdere il suo nervosismo, man mano che in quel Charlie riconosceva il suo Charlie.

«Certo».

«Va bene. Se hai bisogno di noi, io sarò nel locale D216 e Larry farà una lezione nella vecchia sala al piano di sopra». Esitò, riflettendo su come avrebbe meglio potuto descrivere il cammino per le aule.

Larry venne in suo aiuto. «Si trova...»

«So dove si trovano. Grazie».

«Bene... Bene. Allora... ci vediamo dopo».

Charlie annuì, sorridendo loro brevemente. Amita gli diede un sorriso raggiante, incoraggiante anche, mentre Larry svanì già, e in quel momento Charlie vide la sua opportunità. Abbandonò la costrizione che si era imposto durante i giorni passati e fece qualcosa che aveva voluto fare da tanto: baciò Amita.

Fu solo un bacio svelto, fugace, e solo sulla guancia, ma nondimeno sia lui sia lei diventarono rossi come un peperone. Per un istante Charlie temette di aver rovinato tutto. Si guardarono negli occhi, per lungo tempo. E poi sulla faccia di Amita apparve di nuovo un sorriso che cacciò via lo stupore.

«Devo andare adesso» disse a bassa voce, esitò brevemente e poi ripetette il gesto un po' maldestro di affetto. Il suo sorriso fu ancora più raggiante quando si congedò definitivamente da Charlie. Lui sogghignò un po' scioccamente mentre ancora la guardava, poi chiuse la porta dietro a sé e si voltò verso la stanza.



Per qualche istante restò ancora in quella dimensione sospesa in cui l'aveva portato Amita. Era semplicemente troppo bello per essere vero... Sembravano amarsi così tanto... come prima della sua partenza, se non di più. E che male poteva succedergli se Amita era al suo fianco?

Infine, diede ad Amita un posto separato nella sua mente e fissò la sua attenzione di nuovo sul tentativo di ricordare, esaminando l'ufficio più attentamente.

Si guardò intorno, prese alcuni libri in mano, li sfogliò, andò alla finestra e guardò fuori. Lì tutto era a posto. Però l'immagine dentro non concordava perfettamente con la sua memoria. I mobili non erano cambiati, ma sugli scaffali un tempo c'erano stati altri oggetti, definitivamente di più di quanti invece cerano ora, la scrivania era stata più sovraccaricata, con pile di documenti... Ma tutti quelli erano cambiamenti possibili anche nella realtà, non solo nella sua testa. Sì, ricordava, quello era stato il suo ufficio una volta, lo sapeva di nuovo, poteva ricordare.

La porta si aprì e per un istante non seppe se fosse davvero riuscito a mettere a fuoco immagini vecchie che erano nella sua memoria, oppure se stesse succedendo nella realtà. Perché erano parallele, ma le immagini non concordavano.

Due uomini in abito scuro entrarono nell'ufficio. Diedero un breve cenno col capo a Charlie, si tolsero gli occhiali da sole, e uno dei due chiese in un tono freddo con professionalità: «Professor Eppes?»

Charlie lasciò cadere la sua mano con il pezzettino di gesso, ma levò le sopracciglia in compenso. «Sono io. Che posso fare per lei?»

«Per parlare di questo ci vogliono una località più sicura e più tempo». Il sorriso che durante la sua risposta apparve sulle labbra del secondo uomo era talmente freddo che Charlie rabbrividì.

«Professor Eppes?»

Charlie deglutì. Era stato solo il pezzettino di un ricordo, ma sapeva che era davvero accaduto, che poco prima della sua scomparsa erano davvero venuti due uomini in abito scuro nel suo ufficio, proprio come adesso, per quanto Charlie non credesse che fossero gli stessi uomini.

«Sì...» rispose e la sua voce era fioca.

«Dobbiamo chiederla di venire con noi» disse l'uomo in abito – questa volta uno senza occhiali da sole – e senza preamboli: «La prego di voltarsi, faccia al muro, e di mettere le mani sopra la testa».

In quel momento Charlie non era certo che non stesse immaginando tutto. «Chiedo scusa, ma penso...»

«Ha capito bene, mi creda» disse l'altro. «E adesso si volti e metta le mani in alto. E' in arresto per la protezione della sicurezza nazionale».

L'uomo più alto mise gli occhiali da sole nella tasca della sua camicetta. «Il governo ha bisogno del suo aiuto, Dottor Eppes. E' per la protezione della sicurezza nazionale».

Charlie era ancora troppo confuso per opporre resistenza e si voltò quasi automaticamente verso la lavagna. Il verde sembrò stimolarlo abbastanza da fargli ritrovare la voce.

«Ma voi chi siete?»

«CIA» fu la breve risposta mentre tirarono giù le sue mani e gli misero le manette.

Le tre lettere risuonarono nelle orecchie di Charlie mentre lo portarono dal suo ufficio lungo il corridoio, passando tra studenti e professori che avevano un aspetto curioso e confuso.

«Che cosa sta succedendo? Che volete da me?»

«Vorremmo farle qualche domanda» venne la risposta viscida mentre andarono verso un veicolo scuro. Charlie non riusciva a credere che tutto quello stesse davvero succedendo. Perché nessuno interveniva?

«Charlie?!»

Di nuovo Charlie era insicuro se il grido fosse venuto solo dalla sua mente, però quando si voltò, il meglio possibile considerando la presa ferma del suo sorvegliante, poteva vedere distintamente il viso di Amita che stava in cima alla scalinata, davanti all'entrata.

«Mi hanno arrestato!» gridò verso lei, e adesso avevano raggiunto la macchina e stavano piegando in giù la sua testa mentre lo spingevano nel veicolo. Uno degli uomini si sedette accanto a lui sul sedile posteriore. I suoi occhi vigili si accorsero dell'ombra di disperazione che attraversò lo sguardo di Charlie quando questi si voltò verso l'edificio e poi verso quel viso che era appena diventato famigliare.


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Capitolo 24
*** Déjà vu ***


nonti24

Grazie per le recensioni :)


24. Déjà vu


You’ll get no answer,
No use in calling
Because I’m leaving on Monday morning.

(Melanie Fiona, Monday Morning)


«Ma ve l’ho detto! Era lungo almeno un metro! E pesava una trentina di chili!»

«Certo, Colby» disse David con un sogghigno condiscendente. «Se lo dici tu».

Megan tentava di soffocare una risata mentre Colby continuava a parlare, senza, evidentemente, dare importanza al fatto che i suoi colleghi stessero ridendo.

«In ogni caso avevamo solo una piccola barca a remi» continuò Colby. «Con un motoscafo non ci sarebbe stato nessun problema; non avrebbe ballato così tanto nell'acqua. Ma io e mio padre erano in quella barchetta e ad un tratto quel pesce gigantesco aveva abboccato. Io, certo, punto i piedi immediatamente contro una delle pedane, ma il pesce tira nell'altra direzione e sviluppa la forza di un leone. Anch'io resisto, ma ciononostante mi avrebbe probabilmente tirato fuori dalla barca se mio padre non mi avesse tenuto. A quel punto la barca è già inclinata di molto verso l'acqua, ma noi manteniamo l'equilibro. E ad un tratto sentiamo uno “zaff”, cadiamo all'indietro e un attimo dopo la nostra barca galleggia sull'acqua con la chiglia in alto».

David e Megan risero; l'idea di un Colby con uno sguardo stupito in un piccolo fiume con alghe nei capelli aveva qualcosa di molto buffo. Anche il diretto interessato sogghignò, rallegrandosi del successo che aveva avuto con la sua piccola recita, e lo stesso Don dovette constatare di avere un sorrisetto sulle labbra. Sapeva che tra un po’ avrebbe mandato via dalla cucina la sua squadra per cominciate il lavoro, ma per il momento riusciva a tenere a bada per un altro po' il suo senso del dovere fin troppo sviluppato. C'era semplicemente troppa normalità nella situazione per farla finire così presto.

Però non era lui a deciderlo, e il suo cellulare lo chiamò nella vita quotidiana del suo lavoro.

«Eppes».

«Don? Qualcosa non va qui! Non so che cosa sta succedendo, ma c'è qualcosa di sospetto e –»

«Amita, calmati» disse Don in modo deciso mentre il nervosismo si stava di nuovo svegliando. Amita era molto agitata e siccome era attualmente alla CalSci insieme a Charlie, e considerando gli avvenimenti più recenti, Don aveva un timore molto specifico e molto spiacevole per la sua agitazione. «Cos'è successo?»

«Si tratta di Charlie!» rispose Amita confermando immediatamente i suoi presentimenti e il sentimento spiacevole nel suo stomaco. «L’hanno preso!»

«Cosa?!»

La squadra si voltò verso lui, le loro facce sorridenti ora gelate, ma Don se ne accorse appena.

«L'hanno preso, ma non so per portarlo dove e non posso – »

«Amita, calmati, ti prego!» Perché se Amita non si calmava, come poteva rimanere calmo lui? «Chi l'ha preso? Cos'è successo?»

«La polizia».

«La polizia?» ripeté Don incredulo. La sua preoccupazione era diminuita un po', ma in cambio la sua confusione era cresciuta. Il suo fratellino era stato condotto via dalla polizia? «Che diavolo è successo da voi, Amita?»

«Niente! Era tutto normale! Abbiamo mostrato a Charlie il suo vecchio ufficio e l'ha riconosciuto e poi Larry, io e Walter siamo andati alle nostre rispettive lezioni e quando sono tornata ho visto Charlie che veniva condotto via da questi due tipi. Li ho visti solo di spalle, ma potevo scorgere chiaramente che gli avevano messo delle manette, tirando indietro le braccia; poi sono saliti in una macchina e sono andati via».

Don aveva già preso le chiavi e la giacca, ma poi si arrestò. Se Charlie era stato preso in custodia dalla polizia, non avrebbe potuto trovare più informazioni lì, ma forse ne avrebbe ottenute dall'ufficio.

«Chi erano questi due tipi, Amita? Erano dall'LAPD?»

La sua squadra lo guardava teso, però con espressioni confuse – quasi non diede loro attenzione.

«No, erano vestiti in abito. Avevano l'aspetto di agenti, forse dalla NSA, non lo so, Don!»

«Va bene, Amita, va bene. Che mi dici della macchina? Aveva qualche scritta particolare? Oppure hai visto la targa?»

«No, non lo ricordo, mi dispiace! Semplicemente non ci ho pensato... Ma non c'era scritto niente sulla macchina, era un KIA normalissima, un SUV».

«Va bene, Amita, va tutto bene. Ti chiamerò non appena avrò trovato qualcosa e lo farai anche tu, va bene? Tutto questo sarà sicuramente solo un malinteso».


Un malinteso non sembrava essere l'espressione giusta; piuttosto non c’era nulla che potesse essere inteso. Benché Amita avesse detto che gli uomini erano vestiti in abito e non in divisa, Don tentò prima l'LAPD. Nessuno lì sapeva nulla dell’arresto di un Dott. Eppes, ma l'ufficiale al telefono conosceva Don e un po’ anche Charlie e gli promise che avrebbe chiesto in giro, anche in altri dipartimenti, ed eventualmente lo avrebbe avvisato.

Poi fu il turno dell’FBI. Beh', non sapeva niente di un’inchiesta contro Charlie, ma questo non voleva dire nulla. Tuttavia anche qui le sue indagini non ebbero successo. Nessuno nell'ufficio sapeva qualcosa dell'arresto di Charlie, ma tutti promisero di far attenzione.

Don raggiunse risultati simili chiedendo nelle altre agenzie investigative. Questa volta ricevette una risposta anche dall'NSA, benché fosse una negativa. Con la CIA ci aveva messo un po', ma alla fine anche lì era arrivata una risposta: neanche loro sapevano nulla e Don ebbe lo stesso risultato quando la sera ricevette infine una risposta anche dal DOD, il ministero della difesa.

Dall’Interpol – l'idea era venuta a Don durante la sua telefonata alla NSA – non aveva ancora ottenuto niente, ma comunque dubitava che altri continenti erano in gioco in questa faccenda, benché naturalmente non volesse escluderne la possibilità. Però a differenza di tutti i suoi tentativi, il cattivo sentimento nel suo stomaco, che era nato durante la telefonata con Amita, era continuato a crescere, e Don non riusciva più a far svanire il presentimento che stesse succedendo qualcosa di molto meno innocuo di un arresto ufficiale. Charlie o almeno il suo avvocato avrebbero dovuto chiamare nel frattempo, no?

Proprio quando Don stava per dare libero sfogo al panico, il suo cellulare suonò. L’assurda speranza che potesse essere Charlie venne distrutta immediatamente quando sul display apparve "Amita".

«Charlie è venuto da voi?» fu la sua prima domanda.

«No». Il fatto che lui avesse atteso la risposta non la rese meno costernante. «Ma mi è venuto in mente che quegli uomini hanno parcheggiato nel campo visivo delle telecamere di sorveglianza».

Una nuova speranza colse Don e con essa venne la determinazione. «Abbiamo bisogno dei nastri immediatamente».

«Larry ed io li abbiamo già guardati e corretti: non si poteva leggere la targa, ma adesso, con qualche ottimizzazione, l'abbiamo resa visibile. Tuttavia non possiamo ancora distinguere i volti degli uomini».

Gli diede il numero della targa e Don la ringraziò. Rifletté per un attimo su se avesse dovuto incaricare Megan, David o Colby di esaminare la traccia – lui stesso era desideroso di fare la prossima chiamata – ma non voleva dar loro problemi. La scomparsa di Charlie, arresto o meno che fosse, non era un loro caso e non avevano una ragione giustificata per investigare. Dovevano attenersi al loro caso, un vero caso. No, almeno per ora, Don avrebbe fatto le sue indagini da solo. Infine, non era affatto sicuro che c'era qualcosa di sospetto nella faccenda, vero?

La macchina apparteneva a un'azienda che noleggiava automobili. Don le telefonò, ma come aveva sospettato, non vollero dargli informazioni al telefono.

Sbrigativamente Don afferrò le chiavi del SUV. La faccenda sembrava far progressi, anche se lentamente, ed era evidente che qualcosa non andava. Perché un'autorità ufficiale avrebbe dovuto condurre Charlie via in un automobile noleggiata?

«Vi lascio per un po', va bene?» disse alla sua squadra ed era già scomparso. Megan disse qualcosa, ma non ci fece attenzione. Qualcosa non andava, già quella stupida missione di Charlie era stata sospetta. All'epoca Don si era permesso di essere distratto dal lutto e non aveva fatto altre indagini, ma questa volta non si sarebbe lasciato distrarre da nessuno. Avrebbe scoperto che cosa stava succedendo.



Come si rivelò durante il pomeriggio, il noleggiatore della macchina ricercata non esisteva. Era un fantasma. La carta d'identità era stata falsificata e non si poteva riconoscere lo sconosciuto né dal nastro del video di sorveglianza della CalSci né da quello dell'azienda di noleggio di macchine. Le immagini erano troppo sfocati e gli sconosciuti in qualche modo erano riusciti a mostrarsi sempre e solo di fianco o di spalle. E al momento del noleggio, lo sconosciuto non aveva solo, come quelli alla CalSci, indossato degli occhiali da sole, ma anche un berretto di baseball che, malgrado una risoluzione migliore, lo rendeva completamente irriconoscibile.

Amita e Larry tentarono di migliorare in qualche modo la definizione delle immagini per renderle utilizzabile, ma Don non voleva farci affidamento. Voleva e doveva entrare in azione se non voleva piantare suo fratello in asso. Perché adesso non poteva esserci nessun dubbio: Charlie non era stato arrestato, ma sequestrato! Almeno sia la macchina a noleggio sia tutte quelle circostanze misteriose erano indicatori definitivi. E la circostanza che Charlie sembrava essere come inghiottito dalla terra.



Don si sentiva bloccato in un orribile déjà vu. Di nuovo veniva ammesso da Jonathan D. Stevens sorprendentemente dopo poco tempo e trovava nuovamente inquietante che fosse lui ad iniziare la loro conversazione. E di nuovo si trattava di Charlie perché era nuovamente scomparso in modo misterioso.

«Non so se lei è già informato» cominciò Don dopo il saluto e raccontò al suo superiore sia del ritorno di Charlie sia della sua nuova scomparsa. Il panico e la paura, tremende, minacciavano di sopraffarlo, ma li teneva a bada; doveva mantenere la calma. Il contrario sarebbe potuto essere fatale sia per lui sia per Charlie.

Gli avvenimenti sembravano essere delle novità per Jonathan D. Stevens; o almeno così parve a Don, leggendo il suo viso.

«Effettivamente la cosa non sembra tanto normale» ammise quando Don ebbe finito. «E adesso, suppongo, mi sta chiedendo il permesso di investigare, giusto?»

«Non completamente» lo contraddisse Don, tentando di non mostrare tanto la sua impazienza. Sentiva il forte bisogno di aiutare Charlie, di fare qualcosa di utile. «Penso che siamo d'accordo sul fatto che l’attuale scomparsa di Charlie abbia a che fare con quella di sei mesi fa».

«Questo non è detto».

Don inarcò le sopracciglia. La furia stava per emergere, ma tentò di rimanere calmo.

«Durante la sua missione all'epoca, mio fratello è scomparso in circostanze molto misteriose e dichiarato morto. E poco dopo che è riuscito a tornare a casa viene di nuovo... rapito. E in tutti e due i casi c’è di mezzo una qualche agenzia investigativa che però, guarda caso, non si è mai presentata».

«Eppure tutto potrebbe essere una coincidenza».

«Non ci credo».

Stevens sospirò. «Allora cosa vuole da me, agente Eppes?»

«All'epoca non mi ha detto tutto quello che sapeva» rinfacciò al suo superiore. Aveva sospettato già allora che Stevens sapesse qualcosa, ma adesso ne era certo.

«Sta fantasticando, Eppes».

«Non credo. All'epoca era stato lei a dare l'ordine di terminare l’indagine sulla scomparsa di mio fratello».

«Perché lei non poteva presentare nuovi sviluppi».

«No. Aveva detto che l'ordine di interrompere l’indagine veniva dall'alto. Da quanto alto, signore? Chi c’è dietro questa faccenda?»

Il vice-direttore fece un sospiro, tacque per qualche istante e poi guardò Don con un'espressione molto seria.

«Non ne ho minima idea, Eppes. Le ho solo detto quello che mi ha detto il mio superiore. Posso solo presumere che lei abbia avuto a che fare con un avversario influente. E se è così, allora non verrà a sapere niente anche da più in alto. Deve cercare di risolvere questo caso in un altro modo».

Don tacque. Ora era certo che il suo superiore non gli stesse nascondendo nulla, ma purtroppo questo non lo aiutava. Perché Stevens aveva ragione: se anche lui non sapeva nulla dei retroscena di questa faccenda, anche Don avrebbe fatto un buco nell’acqua. Ma questo non voleva dire che non ci avrebbe provato. Tuttavia per ora sarebbe stato probabilmente più efficace trovare un “altro modo”, come il vice-direttore aveva suggerito.

«Dunque lei ci dà il permesso di investigare su... sulla scomparsa di Charlie Eppes?» si assicurò.

Stevens annuì. C'era un leggero sorriso sulle sue labbra. «Sì, lo faccio, agente. Vada a riprendere il nostro consulente».

Don non sapeva come si sentisse Stevens, ma lui provò una sgradevole sensazione nel ricordare che l’ultima volta il suo superiore aveva utilizzato quasi le stesse parole. E non poteva impedire che il ricordo del suo fallimento e dell’esito della vicenda tornasse alla mente.

- - -

Anna Silverstein aprì la porta di casa, entrò, mise le chiavi sul piccolo comò, in corridoio e andò innanzitutto in bagno per rinfrescarsi un po’ il viso. Lì in Mississippi faceva davvero più caldo di quanto avesse immaginato. Il giorno prima si era anche scottata lievemente stando sul balcone. Solo un segno che mostra quanto il sole mi vizi, disse a sé, scacciando con un sorriso lo stress del traffico delle ore di punta dalla faccia.

Si osservò allo specchio e pensò che per una ragazza alla fine dei venti avesse un aspetto abbastanza bello. Si chiese se dovesse chiamare il suo nuovo forse-sì-forse-no-ma-attualmente-piuttosto-sì-ragazzo, ma poi optò per un no. Non c’era nulla di male a lasciarlo sulle spine per un po’, non doveva pensare che fosse dipendente da lui. Non era più dipendente da nessuno. Era libera. Libera, libera, libera...

La cantilena l'accompagnò nella sua testa e, a bassa voce, sulle sue labbra fino alla cucina. Cosa avrebbe cucinato quella sera? Aveva voglia di qualcosa di un po' più stravagante. Forse cinese? Aveva anche un wok nel suo buffet. Tailandese sarebbe stata un'altra ottima idea. Oppure qualcosa di completamente diverso?

Stava per guardare nel libro di cucina cercando altre proposte quando credette di aver sentito un movimento dietro di lei, un basso fruscio di stoffa. Sicuramente solo le tende, si rimproverò. In realtà non avrebbe dovuto essere così paranoica, e non c'era nessuna ragione per voltarsi, no, non avrebbe mostrato a sé stessa il suo lato debole, non c'era niente... Ma non avrebbe visto nessuno se cedeva alla sua mania di persecuzione.

Anna Silverstein riuscì a voltarsi solo per metà. Dell'uomo che l'afferrò poteva solo distinguere che era più alto che lei. Il suo grido fu soffocato dalle mani di cuoio di lui e prima che potesse cominciare a difendersi, il suo coltello da carne trapassò la gola da parte a parte. Lei rantolò e cadde per terra.

Quella sera, il suo coltello non avrebbe avuto nessun altro impiego, né tailandese, né cinese.


Complimenti ad agrumi per le tue capacità divinatrici :)


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Capitolo 25
*** Déjà vu ***


nonti26 Grazie per le recensioni :)

25. Déjà vu


Als ein Spielball aller Winde                                         Come un giocattolo di tutti i venti,
Selbstkontrolle nicht zu verliern,                                   non perdere mai l’autocontrollo,
außer Kopf und Kragen möglichst                                e, se possibile,
doch nicht allzuviel riskiern.                                           non rischiare troppo tranne la pelle.

(Pur, Adler sollen fliegen ("Aquile devono volare"))

«Allora? Di che cosa si tratta?»

Nella luce chiara del sole e nei dintorni famigliari e sereni, le figure nere avevano un’aria grottesca. Charlie non sapeva perché credessero che fuori dal campus sarebbero stati meno disturbati o che avrebbero corso un rischio minore di esser ascoltati, ma lui non aveva niente in contrario. Perché lì, all'aria aperta, i due uomini misteriosi perdevano gran parte della loro aura spaventosa.

«Si tratta di lotta contro il terrorismo» rispose il più piccolo e, se fino ad ora l’impressione di Charlie era giusta, anche il più taciturno dei due. «Con questo, il governo la incarica di contribuire alla lotta contro Al-Qa'ida analizzando i loro attentati e tentando di costruire uno schema che ci dica quando, dove e come l'organizzazione farà nuovi attentati».

Per un attimo Charlie rimase di stucco. Terrorismo? Al-Qa'ida? Tutto questo aveva un suono gigantesco. «Da quanto lavorate a questo progetto? E con quanta gente?»

«Comprenderà che possiamo darle informazioni più precise solo sul posto. Allora, accetta l'incarico?»

Non suonava proprio come una domanda.

Charlie scosse la testa. Tutta quella storia era abbastanza pesante.

«E dov’è esattamente “sul posto”? Quanto tempo durerà l'incarico? Io ho un lavoro qui».

«Non crede che il suo paese abbia la precedenza sul suo lavoro? Ma non si preoccupi, ci occuperemo che la sua temporanea assenza non si ripercuota su di esso. E' indispensabile che venga con noi, non solo a causa della segretezza, ma anche per ragioni pratiche, come lo scambio di informazioni. Non può sapere dove andremo».

«E per quanto tempo?» ripeté Charlie e non fece il minimo tentativo di nascondere la sua irritazione per quel trattamento.

«Dipende da lei. Dalle informazioni che abbiamo sui suoi incarichi con le altre agenzie, stimiamo che non durerà più di due o tre mesi».

Charlie aggrottò la fronte. «Due o tre mesi per analizzare gli attentati di un'organizzazione vasta come Al-Qa'ida?»

«La nostra agenzia attualmente si interessa solo degli attentati in un paese specifico e perciò dell’attività di poche cellule».

«Quale paese? E quale agenzia? Voi, chi siete?»

«Le sarà detto tutto non appena verrà con noi».

Charlie scosse il capo. C'era qualcosa di molto sospetto in quella faccenda.

«Mi dispiace, ma in queste circostanze temo che dovrò negarvi il mio aiuto. O mi raccontate di che cosa si tratta o cercate qualcun altro».

Con un po' di soddisfazione Charlie osservò come i due agenti si scambiarono uno sguardo. Era ovvio che non volessero rinunciare al suo aiuto. E prima o poi avrebbero comunque dovuto dargli informazioni più precise.

«Si tratta dell'Arabia Saudita» gli rivelò il portavoce «Il governo spera di poter combattere il terrorismo lì per poi insediare un governo pro-americano, sia per dare alla gente di quel paese la libertà che meritano, sia per ridurre il pericolo di un attentato ai danni degli Stati Uniti ottenendo così un nuovo alleato».

Charlie annuì. Questo suonava plausibile, anche se si chiedeva se la libertà della gente dell'Arabia Saudita e la protezione degli Stati Uniti fossero davvero le uniche ragioni per cui preferivano un governo pro-americano. «E voi, chi siete?» ripeté.

«Siamo della CIA».

Oh-oh. Quello non gli piaceva. «CIA?» ripeté Charlie, accorgendosi un po' irritato di dover deglutire. Ad un tratto si sentiva abbastanza a disagio. Tutti sapevano – no, non sapevano – tutti sospettavano che la CIA agisse spesso per vie non del tutto legali.

«Esatto. Allora, Dottore? Aiuterà il suo governo?»

«Posso rifletterci un po'?»

«Che c'è da rifletterci? Il suo paese ha bisogno di lei, Dottor Eppes».

«E' ciò che mi dite voi. Ma chi mi dice che posso fidarmi? Non se la prenda con me, ma ormai anche i bambini sanno delle… cose» – Charlie aveva evitato di chiamarle “crimini” – «di cui la CIA si è resa colpevole». Tra cui varie provocazioni di colpi di stato, interventi o suscitazioni dubbiose di operazioni belliche e naturalmente i più recenti coinvolgimenti nella guerra al terrorismo, incluso Guantánamo...

«Ma dai, professore, queste cose sono il passato. Allora la CIA non era ancora ciò che è oggi. Lei non vorrà dare a me e ai miei colleghi la colpa per ciò che è successo durante gli anni sessanta o anche prima!»

«No, ma nondimeno –»

«Va bene, non ha fiducia in noi. Ma pensi un po' in modo logico, professore, come un matematico, dovrebbe esserne capace: è giusto rifiutarci il suo aiuto anche se questo potrebbe contribuire a portare ad un esito positivo la lotta al terrorismo nel Medio Oriente? E questo solo perché un dipartimento, una volta su cento, ha preso la decisione sbagliata? Anche se alcune delle nostre attività sono discutibili, che cosa ha a che fare con la sua collaborazione in quel caso specifico? Il terrorismo è e rimane terrorismo e deve esser impedito, oppure è di un'opinione diversa?»

Charlie non rispose. Anche se non gli piaceva doveva ammettere che c'era un pezzo di verità nelle parole di quell'agente.

«Ci rifletta» disse l'agente. «Torneremo fra un'ora. Speriamo che non voglia deludere il suo paese».

Detto ciò, lasciarono solo Charlie.

Lui si lasciò cadere su una panchina, la testa tra le mani e lo sguardo che vagava senza meta per il campus come se potesse trovare la risposta lì da qualche parte. Invano, certo. Era vero, non aveva fiducia in quei due agenti – aveva già sentito troppe storie di crimini e sbagli della CIA – ma se anche la CIA aveva avuto scopi poco onesti, questo non avrebbe cambiato il fatto che Charlie avrebbe potuto, con la sua collaborazione, contribuire alla lotta contro il terrorismo e così salvare innumerevoli vite umane, no? E in confronto alle altre azioni della CIA di cui Charlie aveva già sentito parlare, quella suonava abbastanza ragionevole: analizzare i passi dell'avversario, poi prevedere i successivi... Queste erano cose che di tanto in tanto faceva anche per Don. Allora forse avrebbe causato più danno negando il suo aiuto che, invece, se si fosse messo a disposizione alla CIA, dal momento che senza la sua collaborazione sarebbero stati costretti di utilizzare mezzi meno legali per raggiungere i loro scopi?

Charlie avrebbe voluto tanto parlarne con qualcuno, ma un'ora non era tanto tempo per riflettere sulla faccenda e poi avrebbe comunque dovuto trovare qualcuno con uno stato di sicurezza abbastanza alto da poterlo mettere a parte di segreti simili sulla lotta al terrorismo.

Tuttavia tentò di immaginare cosa gli avrebbero consigliato. Amita probabilmente si sarebbe preoccupata, ma avrebbe capito che doveva farlo per il suo paese. Larry avrebbe fatto qualche allusione cifrata che probabilmente avrebbe portato alla conclusione che Charlie doveva sapere da solo che cosa fare e che nessuno poteva prendere quella decisione al suo posto. Anche suo padre probabilmente sarebbe stato preoccupato, ma anche molto fiero di lui, se Charlie avesse accettato l’incarico per la salvaguardia della pace e della sicurezza nel suo paese (o almeno Alan l’avrebbe pensata così se non avesse saputo che il committente era la CIA). E Don...

Un ricordo gli venne improvvisamente in mente. “Devi conoscere le tue priorità, Charlie!” aveva detto Don. Era stato irritato e snervato perché Charlie si era occupato solo allora di un caso che Don gli aveva dato il giorno prima. No, nessuno dubbio, Don avrebbe preteso che Charlie servisse il suo paese. E forse... forse Charlie avrebbe potuto anche impressionarlo accettando quell’incarico?

Quando gli agenti tornarono un'ora più tardi, Charlie ce l'aveva fatta a farsi coraggio. Non era ancora davvero convinto di fare la cosa giusta, ma trovava che c'erano in ogni caso più ragioni per accettare l'incarico che per rifiutare. Sarebbe probabilmente stato in grado di aiutare un sacco di persone. E nondimeno, l'incarico aveva un suono promettente ed eccitante. Quasi un po' troppo eccitante, considerando che in fondo non aveva nessun'idea di cosa fosse ciò a cui stava per dare il suo consenso.

Stava ancora riflettendo su come dirlo agli altri quando questi si accorsero che aveva un peso sul cuore.

«Qualcosa non va, Charlie?» chiese suo padre appena Charlie si era unito a lui e Don nel soggiorno.

Siccome avrebbe dovuto dirlo prima o poi, decise che poteva semplicemente farlo subito. Anche Amita aveva reagito abbastanza bene quel pomeriggio quando ne era stata messa al corrente. E dopotutto non era pericoloso. Avrebbe fatto calcoli, come sempre, solo che questa volta non li avrebbe fatti a casa, ma... beh, dovunque fosse.

«Non sarò qui per qualche settimana» disse loro.

I due lo fissarono. «Che stai dicendo?» chiese Alan confuso.

«Ho accettato un incarico. Comincerò giovedì e ritornerò probabilmente entro un mese». Almeno era ciò che Charlie sperava, ma dopo aver accettato e in seguito ricevuto altre informazioni più precise, trovò che l’incarico sarebbe stato più che finito in un mese.

«Da dove tornerai? Dove andrai? E che tipo di incarico è?»

Charlie deglutì. Sapeva che a Don non sarebbe piaciuta la risposta. «Non posso dirvelo».

«Che vuol dire, “non posso dirlo”? Per conto di chi lavorerai? E che cosa dovrai fare?»

«Non posso dirvelo, Don. Ti prego, lascia stare».

«Lascia stare? Dai, Charlie, questa faccenda puzza! Non puoi accettare questo dannato incarico!»

«Ma ho già accettato, Don!» Anche Charlie adesso diventò più irritato. «Semplicemente rassegnatici. E' la mia decisione e tu la devi accettare, che ti piaccia o meno».

Charlie sospirò. No, Don non aveva mai accettato la sua decisione. Anzi quando era partito da solo per prendere il suo volo, nell'incertezza, insieme agli agenti, Don aveva tentato di dissuaderlo. Charlie però era rimasto fermo. Aveva preso la sua decisione e non avrebbe potuto cambiare niente adesso. Aveva dato la sua parola, e mancare a una parola data per lui era fuori questione. E il fatto che Don sembrava volergli dire come condurre la propria vita aveva solo rafforzato la sua ostinazione e l'aveva reso ancora meno collaborativo. Che diritto aveva Don di immischiarsi nelle sue faccende?

Infine, Charlie l'aveva evitato: ce l'aveva fatta a liberarsi di Don e ad andare con gli agente della CIA. Si era sentito sollevato quando il piccolo jet si era finalmente alzato in volo e in quel momento gli interessava appena sapere dove stessero andando.

Solo adesso si accorgeva che ovviamente aveva fatto un errore. La CIA era ritornata e l'aveva di nuovo preso con sé – solo questa volta non era stato volontario. Inizialmente aveva continuato a chiedere che cosa volesse dire tutto quello, ma non gli avevano risposto, solo detto di fare silenzio. Anche quando si erano spostati dalla macchina in un elicottero, non gli avevano dato informazioni.

Charlie si chiedeva che cosa volessero da lui. In ogni caso quello non era un arresto normale; sia il comportamento taciturno sia la mancanza di ogni tipo rispetto della legge facevano pensare il contrario. E nel frattempo credeva che i suoi avversari fossero capaci di tutto, anche se non ricordava da dove venisse la sua diffidenza. Ma loro sapevano che lui poteva ricordare, se non tutto, sempre più cose man mano che passava il tempo? E se lo avessero saputo sarebbe cambiato qualcosa nei loro piani? Che cosa ne avrebbero fatto di lui?

E che cosa gli avevano già fatto?

Charlie chiuse di nuovo gli occhi – e lo fece benché fossero già coperti – per immergersi di nuovo nelle profondità della sua memoria. Se non poteva sfuggire a questi uomini voleva almeno provare a ricordarli. Perché sicuramente non avrebbe detto loro che cosa sapeva già, ma allo stesso tempo avrebbe tentato di trovare il più presto possibile anche il resto di ciò che era successo all'epoca. Doveva saperlo. Perché in ogni caso non avrebbe dovuto credere a ciò che gli raccontavano gli agenti.

Però non ottenne molto. Dopo gli sforzi della prima memoria, il suo cervello sembrava essere una matassa contorta e non importava quanto tentasse di tornare a momenti della sua prigionia non solo fisicamente, ma anche mentalmente – semplicemente non riusciva a concentrarsi.

Finalmente – dovevano esser passate ore – l'elicottero atterrò. Charlie fu spinto fuori e una o più mani tirarono con forza la sua giacca, trascinandolo via dalle pale rumorose, ma già dopo pochi passi quella libertà per i suoi piedi svanì ed fu di nuovo costretto a sedersi. Quando sentì il motore e il posto in cui si trovava mettersi in moto, Charlie distinse che doveva trovarsi in un qualche veicolo da trasporto.

Il viaggio durò molto. Charlie calcolò che dovevano essere passate due o tre ore. Però era difficile mantenere l'orientamento, sia quello locale, sia quella temporale. Quella benda stava per farlo impazzire.

Di nuovo si fermarono, di nuovo fu tirato in piedi. Sentiva che doveva esserci asfalto o calcestruzzo sotto le sue scarpe da tennis, ma già dopo pochi passi il terreno diventò più molle. Terra, pensò Charlie mentre ascoltava come il veicolo si allontanava da loro. Sembrava come se si fossero semplicemente fermati in mezzo alla strada o simile, li avessero fatti scendere e l’autista se ne fosse andato.

Dalle mani che rimanevano – dopo pochi minuti Charlie era quasi sicuro che dovessero essere due uomini – veniva trascinato e colpito così che andasse avanti; lui incespicava, barcollava avanti, cieco, attraverso un paesaggio sconosciuto. Doveva essere da qualche parte nella natura; poteva sentire il cinguettio di uccelli e lo stormire del vento tra gli alberi. Però ciò era tutto quello che poteva distinguere. Dopo un'eternità – di nuovo dovevano essere passate tre o quattro ore – il rumore degli uccelli e degli alberi scomparve. Venne guidato giù per delle scale e sentì che qui faceva un po' più freddo. Venne spinto in avanti, in direzioni diverse finché alla fine non perse completamente l’orientamento. Poi, si sedette su una sedia e gli fu tolta la benda dagli occhi.

Respirando in modo violento, Charlie socchiuse gli occhi. La stanza era immersa in una luce crepuscolare eppure ci volle un po' di tempo perché i suoi occhi, dopo l'oscurità delle ore passate, considerassero la luce sopportabile e poi, finalmente, Charlie vide che era seduto davanti a un tavolo, di fronte a un uomo in un abito scuro. Dietro di sé poteva più sentire che vedere altri due uomini, ma non osava girarsi intorno. Comunque la sua attenzione era quasi esclusivamente diretta su quell'uomo davanti a lui che aveva un’aria così familiare...

«Ecco, dottore, questo sarà il suo studio per il mese seguente. Si rivolga a Dexter Johnson nel caso abbia bisogno di qualsiasi cosa. Per il resto le auguro un buon lavoro».

«Ecco, dottore. Sembra che lei sia piuttosto nei guai, non pensa?»

«Di che sta parlando? Che cosa volete da me? Non potete trattenermi qui!»

«Oh, ma che tono aggressivo! Certo che possiamo trattenerla qui, Dottor Eppes».

L'uomo parlava con una certezza talmente naturale che ad un tratto Charlie divenne insicuro. «No» contraddisse, ma più per convincere sé stesso che l’altro. «Mi avete sequestrato, contro la mia volontà. Non ne avete diritto».

«Sequestrato? No, no, no, Dottore. Si sbaglia. L'abbiamo arrestata, da parte del governo».

«Ma io non ho fatto niente! Voglio parlare il mio avvocato».

«Lei non ha fatto niente, ah sì».

«No, niente!»

L'uomo fece un sospiro. «Ma a chi vuole farlo credere, Dottore? Sappiamo tutti che cos'ha fatto. Oppure vuole affermare di non ricordarlo?»

Charlie scosse il capo. Era insicuro. «Non so di che cosa stia parlando. Non ho commesso nessun crimine. Quando... quando l'avrei fatto, secondo lei?»

«Circa sei mesi fa, in ottobre. Avanti, negarlo non ha senso. Sappiamo che cos'ha fatto, e adesso dovrà vedersela con le conseguenze».

Charlie deglutì. Forse quest'uomo stava davvero dicendo la verità? Aveva davvero commesso un crimine di cui non ricordava?

«Voglio parlare col mio avvocato» ripeté Charlie. «Questo dovete accordarmelo. Conosco i miei diritti».

«Potrà parlare col suo avvocato a tempo debito, Dottore. Ma per ora noi faremo due chiacchiere con lei».



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Capitolo 26
*** Prime conoscenze ***


nonti26 Grazie a BlackCobra :)


26. Prime conoscenze 


Another head hangs lowly. Child is slowly taken.
And the violence caused silence. Who are we mistaken?
But you see, it’s not me. It’s not my family.
In your head, in your head they are fighting
with their tanks and their bombs and their bombs and their guns.
In your head, in your head they are crying.

(The Cranberries, Zombie)


«Che volete da me?» chiese Charlie. Cercò di sembrare freddo e controllato, ma non potè evitare del tutto che la sua voce tremolasse un po'.

«Vogliamo la sua collaborazione. Le diamo la possibilità di servire il suo paese. E' vero, ha fatto un errore all'epoca, ma se assisterà il suo governo adesso, forse potremmo trovare una soluzione piacevole per tutti e due».

Charlie aveva cominciato a scuotere il suo capo mentre l'uomo di fronte a lui stava ancora parlando, più per una reazione del suo subconscio che come risposta alla “domanda”. Aveva già un'idea abbastanza specifica del tipo di aiuto che volevano da lui e non l’avrebbe messo a loro disposizione. Non ricordava che cosa avevano fatto all'epoca, ma sapeva che doveva esser stato qualcosa di cattivo, molto cattivo. E avrebbe preferito andare in prigione per ciò che aveva fatto allora – se poi aveva davvero commesso un crimine all'epoca.

«Di cosa mi accusate?»

Charlie deglutì, e non solo perché si stava mostrando più coraggioso di come si sentisse in realtà. Che cosa sarebbe successo se fosse stato accusato di complicità in un qualche crimine, qualunque fosse? Perché all'inizio li aveva aiutati e non aveva smesso finché non si era reso conto di cosa stesse facendo. E la violazione della legge non scusava nessuno. Aveva fatto un errore anche se non ne era stato consapevole – e non ne era tuttora –, anche se non sapeva quanto grande e di che tipo fosse il danno che aveva causato.

Charlie aveva freddo. Non era stata sua intenzione! Lui aveva solo voluto aiutare le persone, servire il suo governo! E adesso – Adesso... adesso quel governo lo accusava di aver commesso un crimine. Ma se aveva lavorato per loro, allora come era potuto essere un crimine che loro potevano punire? Oppure aveva fatto qualcosa dopo, dopo essersi staccato da loro? Ma di che l'accusavano?

«Terrorismo» fu la risposta e Charlie credette che qualcuno lo avesse buttato in dell’acqua gelido. Terrorismo? L'accusavano di terrorismo? Come veniva loro in mente una simile assurdità?!

«L'autunno scorso lei ha finto di lavorare ad un progetto del governo. Invece si è servito di questa mimetizzazione per progettare ed eseguire, o per meglio dire fare in modo che altri eseguissero, atti terroristici».

Tutto quello era assurdo.

«Ma io non ho –» Charlie ammutolì. Certo, ciò che stava dicendo quell'uomo era assolutamente falso. Aveva lottato contro il terrorismo, non l'aveva praticato... giusto? Eppure quello avrebbe spiegato quel frammento di memoria – Lei ha ucciso suo fratello... – Ma quella scena era solo stato una messa in scena, vero? Dopotutto Don era vivo… e allora il terrorismo non avrebbe spiegato quella situazione, e non poteva essere, semplicemente non poteva essere...

Charlie aveva una paura tremenda, ma la sua ragione gli disse che quella gente stava sbagliando. Non poteva ricordare di aver fatto un qualsiasi tipo di crimine, almeno non consapevolmente, e ciò che era ancora più importante: non poteva nemmeno immaginare ragioni che avrebbero potuto spingerlo a commettere atti terroristici. Quell’agenzia stava sbagliando.

Cioè... Stava davvero sbagliando? Era un'agenzia, innanzitutto? No. No, era estremamente improbabile che quelle persone lavorassero per conto del governo. Non l'avevano arrestato, ma rapito: erano venuti di soppiatto e poi erano scomparsi dalla scena e non gli stavano accordavano i suoi diritti. Queste persone non erano un qualche tipo di polizia, erano criminali. Così la probabilità che avessero imprigionato Charlie per conto della legge statunitense calava in modo inquietante. Dovevano sapere che Charlie non era un terrorista. La domanda che restava era cosa intendevano fare affermando una cosa del genere. E questo portava Charlie ad interrogarsi su come avrebbe dovuto comportarsi.

«Che cosa c'è?»

La testa di Charlie si mosse verso l’alto e guardò direttamente negli occhi l'uomo di fronte a lui. «Vuole dirci qualcosa, Dottor Eppes?»

Charlie deglutì e scosse il capo. «No» disse con determinazione. «Voglio parlare col mio avvocato».

Charlie sapeva molto bene che la sua richiesta era utopistica e non si aspettava affatto che queste persone l’avrebbero esaudita o che ci avrebbero anche solo riflettuto. Però aveva bisogno di tempo per riflettere, e non aveva ancora abbandonato la speranza di ottenerlo.

«Potrà parlare col suo avvocato più tardi, Dottore». Stai scherzando?, pensò Charlie tra di sé. «Ma considerando che persiste nei fare appello ai suoi diritti in questo modo, perché non ci racconta la sua versione della storia?»

Ma Charlie rimase fermo. «Non dico più niente».

L'altro sospirò. «Va bene. Se è questo ciò che vuole...» Non finì la frase, ovviamente sperando di poter far parlare Charlie di più, ma fallì.

«Imparerà ad apprezzare la nostra offerta col tempo» disse poi e Charlie resistette all'impulso di mandare un sospiro di sollievo. Quella frase aveva un suono finale. «Ci pensi, ma lo faccia in fretta. Quando il governo non avrà più bisogno del suo aiuto, lei sarà davvero nei guai. A quel punto nemmeno io potrò fare qualcosa per lei».

Ipocrita! Charlie voleva dirglielo in faccia, però rimase fermo nel suo silenzio stoico benché al suo interno fosse molto più agitato di quanto dimostrasse.

- - -

Al suo interno, Alan era molto più agitato di quanto dimostrasse. Aveva cercato di contattare Don dopo che l’ufficio di Bradford aveva chiamato per chiedere perché Charlie non si fosse presentato all’appuntamento. Perché quella era una domanda la cui risposta interessava tremendamente anche Alan. Fino a quel momento, però, Don non aveva risposto alle sue chiamate o reagito in un altro modo.

Infine aveva contattato Amita. Lei gli aveva detto che delle persone avevano preso Charlie con sé, ma chi, dove e perché non era ancora chiaro. E la fiducia di Alan nella giurisdizione statale delle agenzie non era abbastanza ferma perché non fosse preoccupato.

Ma tentava di rimanere razionale. Più di una volta tentò di rinnegare ogni teoria che conteneva pericoli per Charlie, ma non ci riuscì. Semplicemente tutto era di nuovo emerso: la disperazione, il periodo senza di lui, il periodo del lutto...

Alan si proibì di pensare in quel modo. Charlie era stato arrestato. Una volta era successo anche a lui. Un arresto, niente di più. E Don avrebbe potuto certamente rispondere alle sue domande, sempre che Charlie non fosse stato più veloce di suo fratello e fosse rientrato da un momento all’altro. Forse tutto quello era solo un malinteso. Forse uno sbaglio di identità. Tutto si sarebbe sicuramente chiarito in breve tempo. Forse era per questo che Don non rispondeva alle sue chiamate: in quel momento stava spiegando qualcosa a qualcuno, dicendo loro che non c'era nessuna ragione per arrestare Charlie. Esatto, prima l'avrebbe spiegato a loro e poi ad Alan.

Supposto che fosse davvero in grado di poter spiegare la scomparsa di Charlie.

- - -

Nella piccola cella, Charlie andava su e giù, tentando di non guardare in ogni direzione. Supponeva che l'osservassero, ma preferiva che la CIA o chiunque fossero quegli uomini non avessero idea del suo presentimento. Era difficile fare finta di nulla, ma lo aiutava il fatto che voleva chiudersi in sé stesso per cercare di farsi finalmente un’idea di cosa stesse succedendo.

Però non lo aiutava affatto l'immagine di suo fratello intriso di sangue che semplicemente non poteva far sparire...

Dai, si disse. Don è vivo, questo lo sai. Non l'hai ucciso. E sicuramente ti sta già cercando, ma tu dovresti aiutarlo nel miglior modo possibile, allora concentrati!

Spinse l'immagine da parte, ma tornò indietro. La sua determinazione aumentò insieme alla sua disperazione e ad un tratto non era più lì.

La cella era piccola e non aveva finestre. E benché Charlie avesse ricordato da poco l'ufficio in cui aveva lavorato per quattro settimane e avesse odiato quello che aveva ricordato, gli mancava la finestra che aveva visto lì. Era vero, la finestra nel suo ufficio di una volta – no, non meritava la denominazione “ufficio” – era collocata direttamente sotto il soffitto e non poteva guardare fuori, nemmeno se fosse salito su una sedia. Certo, aveva potuto guardar fuori dalla finestra, ma non fuori o almeno non per una distanza ragionevole perché la finestra dava visibilità solo di un pozzetto sopra di cui c'erano griglie attraverso le quali durante il giorno la luce penetrava nella stanza. Si trovava dunque in uno scantinato. Da qualche parte nel mondo. E di quel mondo fuori dalla sua prigionia non vedeva niente più di quel pezzo lungo quasi un metro fino a quel muro di calcestruzzo che, a quanto pareva, si estendeva tutto intorno alla casa, simile a un fossato.

Se quei pozzetti desolanti erano il fossato, allora quella cella era il suo carcere. Adesso Charlie sapeva che era stato un errore enorme raccontare ciò che aveva capito a Rosenthal. Avrebbe dovuto riconoscere subito il pericolo appostato in quei freddi occhi blu.

Adesso era troppo tardi. Non poteva uscire da lì. Solo loro venivano dentro. Non sembravano ancora stanchi di chiedergli collaborazione. Ma non l’avrebbe più fatto. Mai più. Non da quando aveva capito quale atroce crimine stava succedendo lì.

Rabbrividì. Non li avrebbe aiutati, non importava che cosa ne sarebbe stato lui. Aveva già fatto troppo aiutandoli in passato. Era sufficiente per una coscienza sporca a vita che probabilmente gli avrebbe fatto perdere il sonno per anni. Perché anche se non aveva realizzato che cosa stava facendo, l'aveva fatto comunque. E le suoi azioni avevano contribuito a svariati crimini e in un grado considerevole. Era stato lui a calcolare le località migliori per eventuali atti terroristici. Le zone che, dal punto di vista dei terroristi, erano più proficue. I punti che avrebbero colpito il governo con maggiore danno. I punti con più vittime civili possibile.

Charlie nascose il viso fra le mani che sentiva già sporche del sangue di quelle persone innocenti. Il suo stomaco si ribellò benché fosse quasi vuoto. La gola gli comprimeva l'aria; i suoi polmoni non volevano più riempirsi. Come se volessero aiutarlo a esaudire il suo desiderio, come se volessero rendere possibile la fine di tutto, far sparire il dolore e il senso di colpa per sempre...

Una parte di sé cercava di dirsi che sarebbe successo comunque, che l'avrebbero fatto lo stesso. Non in un modo così efficace e molto più vistosamente, ma probabilmente l'avrebbero fatto lo stesso.

Non serviva a nulla. Li aveva aiutati, non importava se consapevolmente o meno. Non avrebbe mai potuto fingere che non fosse successo.

Charlie respirava velocemente. Ricordava di nuovo il dolore, il senso di colpa – no, non era proprio giusto, non li ricordava, li sentiva di nuovo. Sapeva di nuovo che cosa aveva fatto. E ad un tratto ebbe il la sensazione che il suo cervello non avesse avuto la peggiore delle idee quando aveva seppellito quel ricordo in profondità.

Ma ormai era troppo tardi. Non c'era modo di tornare indietro. Adesso che ricordava la verità non poteva più reprimerla. Aveva aiutato la CIA. Non proprio la CIA, no, ma alcune persone della CIA, se stavano poi davvero lavorando per quell'agenzia. Oppure avevano semplicemente falsificato i documenti. Perché le loro azioni erano state talmente scandalose, talmente...

Charlie non trovò parole adeguate. Comunque aveva difficoltà a comprendere le cose successe, a trovarvi un ordine, anche se era solo un ordine nella sua mente.

La CIA – per semplificare decise di continuare a chiamarli così – l'aveva assunto. Avevano detto che doveva analizzare una, forse anche più cellule terroristiche e i loro attentati in un'area abbastanza vasta, cioè in tutta l'Arabia Saudita e i paesi limitrofi, per trovare un sistema che avesse potuto predire attentati in futuro, creare un algoritmo per la predizione che avrebbero potuto adoperare anche dopo la conclusione del suo lavoro. Ed i primi attentati che Charlie aveva calcolato dopo circa tre settimane senza che fosse già stato in grado di trovare un algoritmo completo e sicuro erano stati giusti. Sempre. Esattamente.

Quel dato lo aveva sorpreso, anzi insospettito. Normalmente, ci sarebbero dovute essere delle irregolarità; gli attentati venivano eseguiti da gruppi diversi che in tutta probabilità erano legati tra loro molto alla lontana. Le sue prime predizioni erano state approssimative, solo un avvicinamento per testare se le informazioni che gli avevano dato e le deduzioni che aveva tratto da esse fossero giuste. Eppure aveva colto esattamente nel segno.

Dopo che la sua diffidenza era stata svegliata non ci era voluto molto per rivelare tutto l’imbroglio. Però non aveva potuto crederci. Non aveva voluto crederci. E non aveva nemmeno avuto delle prove valide; le sue equazioni non potevano dargli una certezza obbiettiva. Però lui ne era stato certo; dopotutto era abbastanza esperto di matematica o per meglio dire di logica per fare due più due: la CIA non gli aveva dato le informazioni relative agli attentati delle cellule terroristiche su cui doveva concentrarsi, non solamente. Una gran parte delle attentati non era stata eseguita da terroristici ordinari. Ma dalla CIA.

- - -

Non stavano continuando a seguire la pista delle agenzie investigative. Se fosse successo qualcosa e Charlie fosse, contro ogni aspettativa, ricomparso da una delle agenzie, loro avrebbero informato Don. Era vero, non l'avrebbero fatto se la loro missione e la ragione della scomparsa di Charlie fossero state segrete (e date quelle circostanze la faccenda con l’automobile a noleggio e la carta d'identità falsificata sarebbero stati un po' più comprensibili), ma se il caso fosse stato segreto, non avrebbero raccontato niente a Don anche se avesse tentato di seguire quella teoria. Don aveva – soprattutto recentemente – avuto troppa esperienza con agenzie investigative segrete, per aver ancora una qualche speranza.

Dunque avevano preso a concentrarsi sui video di sorveglianza e la macchina a noleggio. Amita e Larry erano ancora occupati a rendere i video di una qualità migliore usando i loro trucchi matematico-tecnici. Don non era molto fiducioso. La telecamera sull'area della CalSci inquadrava solo il parcheggio e i due “agenti” erano visibili soltanto attraverso il parabrezza e per di più in modo molto sfocato. Anche la mimetizzazione usata, nel video del officina di noleggio, sembrava perfetta. Eppure avevano pubblicato l'identikit di quell'uomo, malgrado il berretto da baseball e gli occhiali da sole, e l'avevano distribuito a tutte le agenzie investigative.

Ora, però, non c'era più niente da fare. Peggio: Don non riusciva a togliersi l'idea che ci dovesse essere qualcosa da fare, qualcosa che però non gli veniva in mente. Non potevano smettere di fare progressi già adesso, giusto? Non era possibile che già adesso non sapessero più cosa fare... vero? Doveva esserci qualcosa che potevano fare...

Ma a Don non veniva in mente nulla. Nella sua testa c'era solo vuoto. Forse era a causa dell'insonnia. Siccome non c'era stato niente da fare già la sera prima, era finalmente andato a casa e aveva infine risposto di persona alle chiamate eccitate di Alan. Suo padre era già stato ben informato, un po' troppo bene, e il fatto che Don non avesse potuto dargli nessuna novità non era stato buono per il suo umore. Infine aveva passato una notte estremamente breve ed estremamente inquieta prima di tornare in ufficio. Anche lì non aveva smesso di pensare: dov'era Charlie? Come stava? Chi l'aveva rapito? E perché? Che cos'avrebbero fatto con lui?

E Don l'avrebbe mai trovato?

- - -

Gli avevano tolto l'orologio e non c'erano finestre. Poteva solo supporre che fosse notte quando spegnevano la luce, ma non poteva mai esserne sicuro. Si era stretto sul materasso sottile e sotto le coperte sottili, ascoltando attentamente nell'oscurità. Forse volevano solo illuderlo di essere al sicuro spegnendo la luce? Forse sarebbero entrati da un momento all’altro per interrogarlo ancora una volta? Comunque sarebbe stato interessante sapere quando sarebbero tornati. Lui finora non era uscito da questa cella.

Quando sarebbero tornati?

Quella domanda occupava i suoi pensieri in modo così opprimente che riuscì appena ad eseguire il suo piano elaborando una strategia su come trattare i suoi avversari nel futuro. Aveva già deciso che si sarebbe comportato come uno stupido, facendo finta di non poter ancora ricordare niente del suo incarico e dei loro crimini all'epoca. Ma di quanto sarebbe stato al corrente se avesse avuto l'amnesia, che cosa avrebbe potuto dedurre e come si sarebbe comportato? Doveva fare massima attenzione se non voleva che si accorgessero che li stava ingannando...

Charlie sbuffò. "Ingannare". In confronto a ciò che la CIA aveva fatto con lui, il suo "inganno" era talmente insignificante... L'avevano sfruttato. Gli avevano detto che avrebbe aiutato delle persone. Invece le aveva uccise.

Di nuovo la nausea affiorò e per cacciarla via Charlie tentò di capire quali potevano essere stati i motivi della CIA. Avevano commesso atti terroristici, questo lo sapeva con una probabilità che rasentava la certezza. Non tutti quelli che aveva analizzato, ma alcuni di questi. Quelli con più vittime. Era così che aveva scoperto le loro macchinazioni; era riuscito ad assegnare gli atti terroristici ad alcune cellule, precisamente a due gruppi diversi, perché gli avevano dato sia le informazioni degli atti terroristici veri sia quelle dei loro atti. Dopo un'analisi accurata una cosa era stata ovvia: uno dei gruppi commetteva tanti attacchi suicida quanti normali, l'altro non commetteva mai attacchi suicida; uno era costituito da cellule terroristiche piuttosto isolate da altri gruppi di Al-Qa'ida, l'altro sembrava stranamente superiore alle altre cellule, come se questo gruppo commettesse gli atti per completare la grande opera...

Era esattamente per questo che avevano avuto bisogno di lui – per completare i loro atti. Aveva dovuto dare loro i calcoli dicendo dove e come commettere attentati perché le cellule vere sembrassero essere i colpevoli. I suoi pronostici non erano serviti per impedire atti terroristici, ma per commetterli.

Ma perché? Per protestare contro il governo Saudita-Arabo o i governi occidentali? Non avrebbe senso. In fondo però nulla in quella storia sembrava avere senso.

Non avevano solo commesso attentati, avevano anche voluto far in modo che sembrassero gli attentati dei veri terroristi. Era per questo che avevano incluso Charlie nel loro gruppo. Avevano voluto fare mostra dei terroristi commettendo molto di più crimini ed essendo molto più pericolosi e potenti di quanto quello fossero mai stati. Ma perché... perché...

Un rumore lo fece trasalire, lo sbattere di una porta. Trattenne il fiato. Molto teso ascoltò se c'era qualcos'altro. Aveva sbarrato gli occhi, guardando nelle tenebre che non gli rivelavano nulla. Per alcuni minuti restò immobile, sicuro che sarebbero venuti da un momento all’altro per prenderlo di nuovo con loro.

Ma non successe nulla. Questa volta lo risparmiarono.

Di nuovo Charlie si chiese che cosa ne sarebbe stato di lui adesso. Interrogarlo ancora una volta? A che scopo? Per sapere se era ancora un pericolo per loro? E se lo era, questo come avrebbe influenzato le loro scelte successive? L'avrebbero lasciato andare se fosse riuscito a far credere loro che non ricordava?

Probabilmente no. Charlie non sapeva ancora quali erano i motivi dietro i crimini dei suoi avversari, ma anche senza quelli sapeva che loro erano pericolosissimi. Senza scrupoli. Avevano sacrificato innumerevole persone innocenti per i loro fini e probabilmente erano pronti a continuare. Dunque ci doveva essere una ragione per cui non si erano ancora liberati di lui. Avevano paura di una persecuzione da parte dell’FBI? Oppure speravano ancora di raccogliere delle informazioni che lui non sapeva di possedere? Allora forse non ricordava ancora tutto? Che cosa volevano? Che cosa ne avrebbero fatto di lui?

E Don l'avrebbe mai trovato?


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Capitolo 27
*** Giochi mentali ***


nonti27 Grazie a BlackCobra, celtics e (benvenuta!) redbullholic per le vostre recensioni gentili! :)
Ecco il nuovo capitolo, spero che vi piacerà.


27. Giochi mentali


For what is a man? What has he got?
If not himself, then he has naught.
To say the things he truly feels
And not the words of one who kneels.

(Frank Sinatra, My Way)


Mike Kirtland sbadigliò e guardò l'orologio del suo computer. Le sette e ventitré. Il sole doveva già esser sorto. Lì giù, però, scorreva un tempo completamente diverso. Era giorno quando la luce era accesa ed era notte quando la spegnevano. Il loro generatore era il loro sole e il ritmo vitale lo determinavano loro stessi.

Non erano di molto sotto terra, forse un metro. Bastava però a nasconderli perfettamente. E in quello spazio isolato nessuno li avrebbe comunque cercati. Né loro né il professore.

«Dan?» chiamò Mike quando vide il suo collega passare davanti alla sua porta. Non si aspettava una risposta che comunque non avrebbe ricevuto, ma continuò a chiamarlo: «Che si fa col professore? Non è di nuovo tempo d'interrogarlo?»

Daniel Rosenthal comparve alla porta. «Perché? Non farà male tenerlo sulle spine per un po'».

«Sei sicuro?»

In fondo avevano tutti deciso all'unisono che non volevano ripetere un tale disastro come l'ultima volta. Lui non si intendeva tanto di tattiche interrogative, ma ciò che aveva visto in autunno gli era bastato. In fondo era “solamente” l’hacker del gruppo, ma Rosenthal aveva probabilmente saputo che si intendeva molto di più delle cose tecniche solo quando l'aveva, con promesse allettanti, fatto unire a loro. Eppure, malgrado queste promesse, durante quell’autunno Mike aveva temporaneamente avuto dei dubbi: ciò che avevano fatto col professore non era stato altro che tortura, anche se era stata più mentale che fisico. Non era durato abbastanza da far scoprire a Mike come quella tortura avrebbe potuto cambiare un uomo del tutto normale come il professore. Beh, il fine giustificava i mezzi – ma Mike non voleva vedere quello spettacolo un'altra volta.

«Certo che sono sicuro» dichiarò Rosenthal nel suo modo lapidario. «Non preoccuparti, ho tutto sotto controllo. Più lasciamo il professore da solo, più insicuro diventerà e più probabilità avremo che collabori con noi».

«E se diventerà di nuovo completamente pazzo? Cosa faremo? Vuoi di nuovo segregarlo in manicomio con tutti i rischi del caso?»

Rosenthal alzò le spalle. «La nostra situazione è cambiata» disse in modo vago. «Anche la sua. Non sappiamo ancora come reagirà. Prima vedremo come si comporterà nella sua bella camera, poi vedremo che cosa sa e se è pronto ad aiutarci. Finora sembra stare bene, non pensi?»

Mike inarcò le sopracciglia e cambiò le immagine sui suoi schermi cosicché potesse guardare nella cella del professore. Era sdraiato sul letto già da alcune ore, accucciato come un bambino. E quando non era sdraiato sulla branda, andava avanti e indietro nei pochi metri quadrati. A Mike non sembrava che lo stato psichico del professore attualmente fosse molto stabile.

- - -

«Oddio! Non è possibile!»

I tre membri della squadra si girarono sorpresi verso Megan. Era martedì pomeriggio e da poco più di 24 ore Charlie era ufficialmente scomparso. A loro sembrava essere trascorso molto più tempo, benché non avessero quasi nessuna informazione nuova. Probabilmente però le cose stavano per cambiare: l'espressione vivace di Megan ne era un chiaro indizio.

Aveva ancora le mani alla testa quando finalmente informò i tre uomini del motivo della sua eccitazione: «Sapete quanto siamo stati stupidi?»

Don avrebbe potuto darle varie risposte, ma i suoi sensi di colpa fecero in modo che non parlasse. Forse fu un bene che Megan continuò subito: «Questi uomini l'hanno sequestrato alla CalSci!»

Don, David e Colby scambiarono sguardi confusi e un po' preoccupati – Megan era certa di sentirsi bene, vero? Certo che Charlie era stato sequestrato alla CalSci; lo sapevano già da tempo! E allora?

«Ma non capite?» si infervorò. Si era alzata e i grandi movimenti delle mani facevano capire quanto si sentisse agitata. «Avrebbero potuto arrestare Charlie anche a casa sua o quando era qui, ma non erano stati a casa sua oppure Alan ce l'avrebbe detto, no? Dunque devono aver saputo che quel giorno a quell'ora Charlie sarebbe stato all'università!»

I tre uomini la guardarono fisso. Perché non ci avevano pensato prima? Eppure non avevano ancora del tutto messo da parte il loro scetticismo e esaminarono la tesi di Megan in dettaglio.

«Ma...» obiettò David infine. «Anche quando noi cercavamo Charlie, abbiamo sempre iniziato dalla CalSci e non a casa sua».

«Sì, ma quando noi lo cercavamo, Charlie non era scomparso per sei mesi» ricordò lei ai suoi colleghi. «Attualmente non dà più lezioni, David».

«Ma forse questi uomini non lo sanno» continuò Colby, sopportando il suo partner.

«Se partiamo dal presupposto che hanno a che fare con la scomparsa di Charlie l'autunno scorso, lo sanno».

«Ma questo è solo un presupposto; non abbiamo nessuna prova e solo pochi indizi» ricordò David.

«Eppure dovremmo provare a scoprire se hanno sorvegliato Charlie» decise Don. «Interrogate i vicini, chiedete se hanno visto qualcosa di strano».

Prima che qualcuno di loro potesse aggiungere qualcosa, Don si era già alzato per ritirarsi nella cucina.

Il senso di colpa era tornato con tutta la sua forza e semplicemente non poteva farlo svanire. Non era solo il fatto che si era dato per vinto con Charlie sei mesi prima. Non era solo perché non era stato particolarmente attento a lui. Non era solo perché le loro ricerche procedevano in modo così lento e insignificante. Adesso c'era anche la possibilità che Charlie fosse stato sorvegliato e Don non se n’era accorto.

Avrebbe dovuto accorgersene, no? In fondo, era un agente federale; conosceva un sacco di tecniche di sorveglianza ed era anche esperto nel riconoscerle. Perché non se n'era accorto questa volta, quando sarebbe stato davvero necessario?

Ovviamente, sapeva che nessuno lo avrebbe rimproverato per quello. Tutti avrebbero detto di non essersene mai accorti. Nessuno aveva la colpa di ciò che era successo, neanche Don. Non era compito di Don proteggere il suo fratellino.

Ma che cosa significavano tutte quelle parole quando Don non riusciva a cancellare il pensiero che Charlie sarebbe potuto essere ancora con loro se avesse agito diversamente?

- - -

Un battito. Battito. Battito. Battito.

Charlie aveva una mano poggiata sul cuore e ne contava i battiti. Forse in quel modo sarebbe riuscito a trovare nuovamente il senso del tempo. Sapeva, però, che era troppo tardi: così facendo avrebbe potuto ricostruire le ore, i giorni o le settimane che erano passati solo in un modo molto impreciso.

Nella sua testa, Charlie scacciò via le "settimane". Finora non gli avevano dato né qualcosa da mangiare né da bere, quindi anche solo da un punto di vista biologico era impossibile che fossero passati più di tre o quattro giorni. E anche se Charlie aveva sete, era ancora sopportabile. Stimò che si trovasse lì da circa un giorno. Dunque avrebbe dovuto essere martedì sera.

Che cosa ne avrebbero fatto di lui? Quali erano i loro progetti? Sarebbero mai tornati da lui nella sua cella? Oppure l'avrebbero lasciato da solo? In fondo, erano ancora lì? Qualche volta aveva creduto di sentire un suono, ma forse veniva da fuori oppure l'aveva semplicemente immaginato.

Come quei passi. Si avvicinarono... ancora di più... sempre di più – si fermarono. Dovevano essere proprio davanti alla porta della cella di Charlie.

Charlie si sedette. Era immobile. Ogni muscolo era teso. Tentò di prepararsi a tutto. La porta si sarebbe potuta aprire in ogni momento – sarebbero potuti entrare in ogni momento – ti prego, falli entrare – e poi... Ti prego, fa che non mi facciano del male...

Una chiave girò nella serratura, la porta si aprì, battendo contro il muro. Charlie trasalì.

«Alzati, voltati di schiena, mani sopra la testa!»

Con il cuore all’impazzata, Charlie ubbidì, concentrandosi su movimenti dei due uomini. Che cosa gli stavano facendo? Che cosa avrebbero fatto?

Uno gli abbasso le mani, mettendogli delle manette. Lo guidarono attraverso alcuni brevi corridoi e Charlie era alquanto sicuro che fossero gli stessi del pomeriggio o della sera prima. In ogni caso era lo stesso l’uomo che lo stava aspettando, seduto al tavolo con il suo abito scuro. Dunque Charlie si trovava di nuovo nella stanza degli interrogatori.

«Beh', Dottor Eppes? Come sta?»

Charlie si chiese che cosa mai avrebbe dovuto rispondere a quella stupida domanda.

«Bene» disse infine, sia per non irritare i suoi rapitori, sia per mostrare loro l'assurdità della domanda. «Solo… avrei sete. E fame».

«Sono sicuro che potremo eliminare subito questo fastidio» replicò l'uomo in abito con il suo sorriso falso.

Fece un segno ai suoi colleghi, non più di un breve gesto con la mano, e quelli misero davanti a Charlie una bottiglia d'acqua e un panino dall’aspetto fresco.

Charlie esitò. Aveva tanta voglia di servirsi, però non osava cedere all'impulso. Adesso, a quella vista, la sete e il fame aumentarono tremendamente, ma rimase fermo. Era una trappola? L’avrebbero punito nell’istante stesso in cui avrebbe afferrato i viveri?

«Coraggio» lo esortò lo sconosciuto, «prenda pure. Non siamo mostri noi, sa?»

Qualcosa in quelle parole fece levare lo sguardo di Charlie e ciò che vide fu più di quello che era realmente davanti a lui.

«Faccia una pausa quando ne ha bisogno, non importa se per bere, mangiare o dormire. Non siamo mostri noi, sa?»

Charlie riuscì solo a fare un mezzo sorriso. Gli occhi freddi che troneggiavano sopra un sogghigno quasi maligno erano ancora sospetti. Un po' insicuro, si guardò intorno nella stanza piccolissima. Dentro, c'erano tre computer, ma non tanto di più. Nemmeno una finestra. E sarebbe dovuto essere il suo posto di lavoro per il mese successivo? Che futuro roseo.

Ma almeno aveva una certa libertà per quanto riguardava la sua distribuzione del tempo libero – benché probabilmente non l'avrebbe usato tanto.

«Come ho detto, nel caso abbia un qualsiasi problema, vada dal Signor Johnson. E adesso la auguro un buon lavoro».

«Grazie, Signor Rosenthal».

«Dr. Eppes, è ancora con noi?»

Charlie ci mise un po' per riemergere dal suo stato quasi come se fosse in trance.

«Mi scusi. Che cos'ha detto?» Doveva semplicemente non dare a vedere nulla, non dare a vedere che non aveva solo – finalmente! – riconosciuto l'uomo davanti a lui, ma che era anche riuscito a dargli un nome...

«Le ho chiesto se era finalmente riuscito a ricordare qualcosa, Dottore».

Charlie trasalì. Rosenthal non si era accorto che –? No... no, come avrebbe potuto saperlo? No, Rosenthal e i suoi complici credevano ancora che non potesse ricordare nulla... vero?

Charlie osservò il suo contraente accuratamente. Il sogghigno presuntuoso era ancora lì, come se l'agente non credesse tanto quanto prima alla perdita di memoria. Però a Charlie non sfuggì la tensione nello sguardo di Rosenthal. Era ovviamente nervoso, e Charlie era quasi certo di sapere il perché. Per lui doveva essere fondamentale il fatto che non ricordasse. Altrimenti sarebbe stato un pericolo enorme per loro e il progetto terroristico, se veramente stavano ancora progettando la stessa cosa.

Dunque, data quella tensione, non sapevano ancora niente dei suoi flashback che diventavano sempre più frequenti. Bene. Considerando questo, Charlie decise di fingersi quanto più ignorante possibile. Tutto ciò unito ad un po' di semplicità, come la scorsa sera.

«Non mi avete ancora detto di che cosa state parlando. Lasciatemi andare».

Non era necessario fingere la stanchezza. Gli eventi passati, incluse le ventiquattro ore in prigionia completamente isolata, l'avevano fiaccato molto.

«Su, la smetta di fare l’innocente!» lo attaccò l'agente e benché Charlie pensasse che credesse alla sua storia, trasalì. «Non ha senso. Sappiamo che sta solo cercando scuse per sfuggire alla responsabilità delle sue azioni. Ma non le servirà. E' e rimane un terrorista, anche se non può ricordarlo. E le ripeto: sarebbe davvero meglio per lei se potesse ricordare e confessare i suoi crimini. Perché anche se lei ha dimenticato sia quelli che noi, noi non ci siamo dimenticati di lei».

«Non so ancora che cosa volete da me».

«Vogliamo che confessi i suoi crimini, Dottore. Penso che l'abbiamo reso abbastanza chiaro ormai».

«E allora perché mi avete sequestrato? E dov'è il mio avvocato?»

«Dottor Eppes, ne abbiamo già discusso ieri, qua sta girando in tondo. A che cosa le servirebbe un avvocato? Di certo non potrebbe fare in modo che quello che lei ha fatto non sia mai successo. Dunque non può servirle. Anzi potrebbe essere un male. Finora, nessuno sa delle sue attività terroristiche. Tutto sommato, è un cittadino pulito. Se fa intervenire un avvocato, non lo sarà più: tutto verrà a galla. Ma se collabora con noi, potremmo sistemare tutta questa faccenda in modo amichevole».

Se avesse ancora avuto anche solo una briciola di fiducia nell'onestà dei suoi rapitori, era appena andata del tutto persa. Una soluzione amichevole con dei terroristi? Se le cose funzionavano così, poteva improvvisamente capire il passato hippy di suo padre.

Ma aveva scelto di mostrarsi quanto più ingenuo possibile. «E che vuol dire, “sistemare in modo amichevole”?»

«Ne abbiamo parlato ieri: la sua memoria sembra essere un po' lacunosa di tanto in tanto». Il sorriso diventò più largo, ma rimase gelido. «Se accetta di mettere le sue facoltà matematiche al servizio del governo per combattere, con noi, il terrorismo, potrà in un certo senso fare ammenda per i suoi crimini».

«In che misura?»

«Dipende dal suo successo. Se adempe al suo incarico in modo impeccabile, potremo anche dimenticare completamente questa faccenda e lei potrà tornare alla sua vita di sempre».

Charlie non credette a nessuna di quelle parole, ma si guardò bene dal rivelare a Rosenthal i suoi pensieri. Non poteva esporre nessuna delle sue domande, che sarebbero state possibilmente anche pericolose, ed era per questo che esitò a riprendere parola. Eppure era di una necessità enorme che non sembrasse solo semplice, ma anche credibile.

«E come sa che può fidarsi in me?»

«Non lo sappiamo» quella risposta sembrò un pugno in pieno viso. «E' per questo che dovremo sorvegliarla, no?»

Charlie deglutì – quello scenario non gli piaceva affatto –, però tentò di mantenere la sua credibilità. «E lei comprenderà ciò che faccio e se ne accorgerà subito nel caso in cui tenterò di tradirvi, come l'ultima volta?»

«Contrariamente all'ultima volta, saranno i nostri matematici a tenerla d'occhio, Dottor Eppes. Ne stia sicuro».

Di quello Charlie era davvero certo, eppure quella rassicurazione non lo fece sentire tanto meglio.

«Però dalle sue parole deduco» continuò Rosenthal «che confessa le sue azioni passate e che ammette di ricordare. Dunque posso presumere che accetterà la generosa offerta del governo?»

Charlie rimase silenzioso.

«Allora, Dottor Eppes?»

«Preferirei pensarci un altro po'».

«Mi dispiace» la risposta venne con una semplicità brutale. «Ha avuto tempo per pensarci. Vuole collaborare con noi o no?»

Charlie deglutì. Questo non se l'aspettava. Aveva sperato di poter rinviare la decisione per un altro po'. In fondo, che cosa avrebbe potuto dire, senza farli arrabbiare? Niente, poteva solo accettare. E se l'avesse fatto, sarebbe stato di nuovo costretto a fornire loro le basi per l'attuazione dei loro attentati...

«No».

La cortissima sillaba aveva appena lasciato la bocca di Charlie che una paura indescrivibile lo invase. Come avrebbero reagito i suoi rapitori? Che cosa ne avrebbero fatto di lui?

«Scusi, come?» Sotto la gentilezza, c'era una nota sottile che non si poteva ignorare e che suggeriva, senza lasciar dubbio, pericolo. «Che cosa ha detto?»

Charlie deglutì ancora una volta, quasi fosse un modo per darsi coraggio. Vedeva di nuovo le immagini di Don, di suo padre, di Amita, di Larry e si chiese come avrebbero reagito se lui avesse accettato. La risposta che si diede confermò la sua decisione abbastanza da respingere la paura e rendergli possibile metter in azione il suo proposito.

«No» disse con una voce più ferma di prima, «non vi aiuterò col vostro... lavoro».

Malgrado la sua convinzione, il suo coraggio crollò quando vide lo sguardo di Rosenthal, e non riuscì a respingere la sensazione di avergli appena dato la risposta sbagliata.




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Capitolo 28
*** Speranza ***


Grazie a BlackCobra per recensire e ad Alchimista per correggere regolarmente le mie storie :)




28. Speranza

 

I can smile at the old days.
Life was beautiful then.
I remember the time I knew what happiness was.
Let the memory live again.
(Cats, Memory)


 «Oh, oh» fu tutto ciò che disse Mike non appena ebbero riportato il professore nella sua cella. Daniel Rosenthal finse di non averlo sentito, semplicemente perché Mike voleva che reagisse al suo stupido “oh-oh”.

Ma naturalmente questo non impedì a Mike di continuare ad infastidirlo. «Questo non mi piace» continuò col tono di qualcuno che voleva sostenere un'intelligente discussione sulla situazione con il suo superiore.

Rosenthal non poté più controllarsi. Come hacker, Kirtland era insostituibile, ma qualche volta riusciva davvero a farlo imbestialire. «E perché non ti piace?», lo attaccò adesso. «Eppes è sfinito. È solo una questione di tempo prima che si decida a lavorare con noi».

«Ma ha rifiutato».

«E allora? Sarebbe la prima volta che riusciamo a far cambiare idea a qualcuno?»

«Ma... se crolla di nuovo?»

«Ma dai, lascialo stare, Mike. Faremo anche attenzione che il nostro dottorino mantenga tutti i suoi venerdì. Resta con i tuoi computer e lascia fare i progetti a me».

L'aveva desiderato. Non aveva nemmeno osato sperare che fosse la volta buona che Mike stesse zitto, ma per un attimo l'aveva desiderato. Non ce l'aveva fatta a sperarlo, però: conosceva Mike troppo bene.

«Ma... l’hai visto anche tu. Come ad un tratto è sembrato stravolto: è assai inquietante, devo dirti. Come qualche volta sembra semplicemente smettere di sentirti».

«Forse è a causa della depressione, o ha semplicemente cercato a ricordare».

«E se ce la farà?»

«Se ricorderà mai? Macché. Se non è riuscito a ricordare nulla in sei mesi, non cambierà adesso».

- - -

«Non può tenermi imprigionato per sempre».

Fervidamente Charlie tentò di convincere anche sé stesso con quella frase. Ma il maligno sogghigno evidentemente onnipresente distrusse il suo progetto.

«Non immagina, professore, che cosa possiamo fare».

Charlie deglutì. Eppure era pronto a far tutto ciò che era in suo potere per far cambiare idea ai suoi avversari. «Sicuramente mio fratello mi sta già cercando». E Charlie sperava, sperava così ardentemente che fosse la verità.

L'agente Johnson rise con tono sarcastico. «È questo ciò in che ripone la sua speranza? Che lì fuori ci siano delle persone che la stanno cercando? Insomma, quanto è ingenuo? Nessuno – glielo dico io, nessuno! – la sta cercando. Le persone lì fuori non si interessano a lei». Fece una piccola pausa, voltandosi dall’altra parte, come se volesse lasciar Charlie da solo prima di riprendere a parlare. Ad un tratto aveva un tono un po' più umano. «A voler essere sincero, non so perché non è ancora pronto a guardare in faccia la verità. Le persone lì fuori non vogliono che lei ritorni. La sua famiglia vuole che lei serva al suo paese. Non l'ha ancora capito? Cosa crede che direbbe suo fratello se lei ritornasse senza aver adempiuto al suo incarico?»

Lo sguardo impaurito di Charlie era diventato instabile, proprio come la sua convinzione. Un sorriso disperato era apparso sulle sue labbra. “La sua famiglia vuole che lei serva il suo paese” – poteva esser la verità. Ma che Don non avrebbe mai voluto che suo fratello facesse il terrorista era sicuro come il fatto che due più due facesse quattro, benché all'epoca Johnson fosse riuscito a fargli dubitare di ciò e a farlo diventare insicuro. E Don non avrebbe nemmeno voluto che Charlie accettasse l'incarico in autunno, tanto meno che aiutasse la CIA dopo che loro lo avevano privato della sua libertà. Significava che questa volta aveva risposto nel modo giusto, come Don avrebbe voluto. Charlie non sarebbe mai più diventato criminale, non importava che cosa gli avrebbero fatto. Aveva rifiutato la loro “offerta” categoricamente e questa era stata la decisione giusta, definitivamente giusta...

E se sbagliava?

Improvvisamente pensò alle possibilità che avrebbe avuto accettando la loro offerta. Avrebbe avuto un'idea più precisa di ciò che intendevano fare i terroristi della CIA. Non sarebbe più stato sempre in quella cella, ma probabilmente di nuovo in una specie di ufficio, davanti a un computer. Magari davanti a un computer collegato a un qualche tipo di rete cosicché sarebbe stato in grado di far sapere a qualcuno fuori che cosa gli stava succedendo e dove si trovasse? E innanzitutto avrebbe avuto la possibilità di scoprire egli stesso dove si trovasse.

In ogni caso lui avrebbe avuto un'influenza su ciò che sarebbe successo. E forse sarebbe stato in grado di dare loro risultati tali che gli attentati non avrebbero fatto danni a persone. Oppure tali che gli attentati avrebbero potuto condurre altre agenzie investigative sulle tracce di questi criminali?

Ma ormai, aveva perso tutte queste possibilità. Quindi aveva comunque fatto un errore? Sarebbe stato meglio se avesse acconsentito ad aiutare i terroristi del CIA – anche se solo per finta?

Poi però gli era venuto in mente come erano state le cose sei mesi prima. E qualche minuti prima. Aveva saputo che cos'aveva fatto, e continuava a sentirsi insopportabilmente cattivo e sporco. Cosa sarebbe successo se anche stavolta non sarebbe stato in grado di proteggere la gente, se a causa dei suoi calcoli ci fossero stati nuovi morti?

Dunque forse il suo intuito aveva avuto ragione questa volta. Perché sarebbe stato troppo. Charlie non avrebbe sopportato di essere di nuovo la causa di molte morti. Una sola volta gli bastava definitivamente. Il pensiero della sua colpa non lo lasciava respirare, faceva girare i suoi pensieri come se fossero in fuga da lui benché sapesse che non sarebbe mai, mai potuto sfuggire loro, né ai suoi pensieri né a se stesso. Era condannato a vivere con le sue azione e non sarebbe mai stato in grado di annullarle né avrebbe mai potuto bandire questa verità orribile di nuovo della sua memoria. Aveva degli essere umani sulla coscienza!

Charlie rabbrividì, ma non servì a scuotersi di dosso la sensazione di freddo che provava.

- - -

David e Colby suonarono il campanello. Di nuovo. Colby, gli occhiali da sole davanti agli occhi, guardò a destra e a alle sue spalle mentre David lanciava uno sguardo di controllo prima al nome sul campanello, poi su una finestra e infine a sinistra (e a dietro). Di nuovo. Sentirono dei passi e la porta veniva aperta – di nuovo. David si chiese (di nuovo) quante volte ancora avrebbero dovuto fare quella procedura prima che avessero finalmente avuto un'informazione che li aiutasse. Come ogni volta quelle riflessioni venivano immediatamente seguite della fatidica domanda riguardo cosa avrebbe messo fine a tutto quello: un'informazione che finalmente li avrebbe aiutati oppure il semplice esaurirsi di case alle quali bussare, cosa che sarebbe significato essere di nuovo a mani vuote.

«Buongiorno?» la donna di mezza età li salutò con un tono definitivamente interrogativo.

«Buongiorno, Signora Jenkins. Mi chiamo David Sinclair e questo è Colby Granger. Siamo dell'FBI e vorremmo farle qualche domanda».

Le mostrarono i loro distintivi e la donna li guardò spalancando gli occhi. «FBI? E' successo qualcosa?»

Naturalmente è successo qualcosa, altrimenti non saremo qui, pensò Colby fra di sé. Aveva sentito questa domanda sia durante il suo corso professionale sia in quella giornata così spesso da snervarlo.

«Si tratta del Professore Charles Eppes» rispose David e poté vedere la donna lasciarsi scappare un sospiro di sollievo, probabilmente perché la faccenda non riguardava direttamente lei o la sua famiglia. «Abita sull'altro lato della strada, qualche casa dopo questa».

La Signora Jenkins annuì. Conosceva il giovane professore di vista e sapeva anche qualche cosa della famiglia Eppes, quel po’ che si diceva tra vicini. «Ho sentito cos'è successo. Terribile».

«Forse sa qualcosa che potrebbe aiutarci per trovarlo?» chiese David.

La donna aggrottò la fronte. «Trovarlo? Ma... ma è morto. È stato sepolto, già... settimane fa».

Per essere esatti, alcuni mesi, la corresse Colby mentalmente mentre capiva. «Ciò che è successo mesi fa si è rivelato un errore. Ma l'altro ieri, il professore Eppes è di nuovo scomparso» le diede le informazioni più necessarie, «e crediamo che sia stato rapito». Colby non le diede l'opportunità esprimere il proprio orrore se non con l’espressione del suo viso, ma continuò subito: «Forse lei si è accorta di qualcosa di strano durante i giorni passati? Forse un veicolo che solitamente non si trova da queste parti o qualcuno che non ha mai visto prima in questo quartiere?»

La Signora Jenkins, occupata ad assimilare le informazioni, scosse il capo. «No... cioè, una settimana fa la famiglia doveva partire; la casa era vuota. In ogni casa è ciò che ha detto la Signora Connally; abita nel numero 873, direttamente di fronte».

David trattenne un sospiro. Il fatto che Don ed Alan erano stati in Nebraska non era niente di nuovo. «Nient'altro?» chiese con un briciolo di speranza.

Di nuovo lo scuotere della testa. «No, mi dispiace».

I due agenti federali la ringraziarono, la salutarono e continuarono l'azione investigativa con un po’ di speranza in meno.

- - -

«Eppes».

«Ehi, Papà».

«Charlie! Come stai? Come va il tuo... lavoro?»

«Bene... Va tutto bene. Non preoccuparti. Sto bene qui, davvero». In realtà trovava tutto ancora un po' inquietante, ma pian piano si abituava davvero alla situazione e anche il suo lavoro cominciava a fare grandi progressi.

«Hai già parlato con Don?»

Per un attimo, Charlie stava per riattaccare il ricevitore. «No» replicò e ad un tratto fu asciutto. «Possiamo parlare di qualcos’altro?»

«Certo. Perché non mi racconti un po' cos'è che stai facendo esattamente? E con chi lavori? E a proposito: forse parlando vengo a sapere anche in quale continente mio figlio si trova al momento».

«Papà, dai...»

«Don si preoccupa di te proprio quanto faccio io, Charlie. Sei via già da quattro giorni e non hai pensato che fosse necessario chiamarlo?»

«Sono molto impegnato qui, Papà. E inoltre...» Charlie esitò, ma pian piano era stufo delle insistenze di suo padre. «Inoltre Don si lamenterebbe di nuovo del fatto che sto facendo tutto in segreto. E vorrebbe interrogarmi nonostante sappia bene che non posso dirgli nulla. E' semplicemente sempre incavolato perché ho accettato l'incarico e per una volta non ho seguito i suoi ordini».

«Non è vero e tu lo sai. Alla fine, chiamalo, Charlie. Oppure volete evitare di rivolgervi la parola per un mese intero?»

Non sarebbe la prima volta”, voleva rispondere Charlie, ma qualcosa lo distolse. Era vero, in passato il contatto tra lui e Don si era ridotto alle cose le più necessarie. Ma Charlie non era mai stato davvero contento di quella situazione. E in qualche modo sentiva e sperava e credeva che quel tempo dell'alienazione fosse finito e che avesse fatto posto a una nuova fase, una che comprendeva un legame fraterno.

«Eppes».

«Ciao, Don». Il suo tono era un po' controllato.

«Charlie!» Quello non era un tono controllato. «Ehi... Come stai? Papà dice che... Che stai facendo?»

Bentornata, nervosità non amata. Ma in qualche modo faceva bene sapere che Don non si sentiva meglio di lui in quella conversazione.

«Io sto bene. E tu?» Oh Dio, sarebbero riusciti a mettere insieme almeno una frase sensata?

«Sì, anch'io, ascolta...»

Sì, lo faccio Don, ma se io devo ascoltarti, tu devi parlare.

«Io...» Sì...? «Io non ti assillerò più perché tu mi racconti qualcosa, va bene? Solo a patto che tu me lo dica se ti sembra che qualcosa non vada o che sia troppo pericoloso. Va bene?»

Wow. Per un attimo Charlie era senza parole. Erano arrivati al punto più velocemente di quello che avrebbe creduto.

«Va bene» acconsentì.

Ci fu silenzio per un po' prima che cominciasse di nuovo a parlare, con un sogghigno ancora un po' cauto sulle labbra: «Ehi, Papà dice che ti preoccupi. Ti stai intenerendo, Don».

Un'esitazione breve, poi Charlie poté sentire dal tono di suo fratello che anche lui stava sogghignando. «Io, intenerirmi? Aspetta, io… preoccuparmi? No, no, no, Chuck. Devi aver capito qualcosa male. Oppure papà sta diventando vecchio».

«Concordo con la seconda».

«Va bene. Ma dobbiamo tenerlo per noi. Perché per un uomo vecchio fa ancora delle lasagne ottime».

Nella sua memoria, Charlie sentiva il proprio sorriso, ma adesso quel pensiero causò solo un sorriso che non sarebbe potuto essere più triste. Sì, anche all'epoca era stato separato dalle persone che erano importanti per lui ed era stato quasi imprigionato, ma allora aveva almeno avuto la possibilità di contattare il mondo esterno. Aveva potuto parlare con la sua famiglia e i suoi amici, benché avesse concesso a sé stesso solo pochi minuti al giorno per pensare alla sua vita, di solito prima di coricarsi perché a quel punto non aveva più potuto riflettere a un livello sensato. E dopo si era sentito abbastanza bene da passare alcune ore tranquille e riposanti. Sì, le telefonate all'epoca gli avevano dato forza, e desiderava averle anche in quel momento talmente tanto che faceva male.

Nel frattempo si era chiesto perché la prima volta gli avessero concesso il contatto col mondo esterno. Avevano corso il rischio che lui rivelasse qualcosa sul progetto, no? E forse poi qualcuno di fuori, con altri dati a sua disposizione, avrebbe scoperto ciò che stava succedendo…

La prima risposta che si era dato non lo aveva soddisfatto del tutto: avevano semplicemente voluto tenerselo buono con simili “confort” perché non diventasse ricalcitrante e restasse accondiscendente a ciò che avevano intenzione di fare? L'altra possibilità gli dispiacque tanto di più – la possibilità che avessero intercettato le sue conversazioni. Dovevano aver sorvegliato sia lui sia i telefoni. Probabilmente avevano sentito ogni conversazione che aveva avuto con suo padre, con Don, con Larry e con Amita.

Ora come ora non gli sarebbe importato. Avrebbero anche potuto intercettarlo: se non altro avrebbe finalmente parlato con qualcuno di loro, finalmente avrebbe sentito di nuovo le loro voci, sarebbe stato contentissimo. Però non si illudeva. Il tempo della prigione relativa era passato. Questo non era più relativo, ma assoluto. E non gli avrebbero mai più lasciato neanche un pezzettino di libertà. Era il loro prigioniero e lo sarebbe rimasto per sempre se non fosse successo un miracolo.


 

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Capitolo 29
*** Risultati ***


Grazie mille a BlackCobra e celtics!




29. Risultati

 

And now my life has changed in, oh, so many ways.

My independence seems to vanish in the haze.

But ev’ry now and then I feel so insecure.

I know that I just need you like I’ve never done before.

Help me if you can, I’m feeling down.

And I do appreciate you being ‘round.

(The Beatles, Help)

 

«Avete trovato qualcosa?»

Quasi in modo doloroso, il viso di David si deformò in una brutta smorfia. Faceva male dover vedere Don in quello stato, così nel panico, così inopportunamente pieno di speranza, mentre allo stesso tempo si poteva quasi sentire la sua paura. E faceva anzi ancora più male, perché David sapeva che la sua risposta avrebbe tolto a Don ancora un po' di speranza.

«Niente» disse, non riuscendo a guardare negli occhi il suo amico.

Don non voleva crederci. Comprensibilmente. «Niente di niente? Non può essere! Se sorvegliavano Charlie, qualcuno deve aver visto qualcosa!»

«Forse ci è di nuovo sfuggito qualcosa»

I due uomini si girarono verso di lei. A differenza di Don, Megan era rimasta più o meno calma sulla sua sedia quando David si era avvicinato loro.

David scosse il capo.

«Abbiamo chiesto a tutte le persone del vicinato. Nessuno ha visto o sentito nulla».

Con un po' di riservatezza, Megan lanciò uno sguardo verso Don. «E neanche voi, giusto Don?»

«No, maledizione!» insorse, e lei trasalì. In qualche modo si aspettava una reazione del genere. «Non c'era nessuno! ...credo...»

Megan decise di lasciarlo in pace. Non si era accorto di un pericolo o anche solo di qualcosa di strano, e insistere sulla cosa non sarebbe stato d’aiuto nella ricerca di Charlie.

«Forse abbiamo cercato nel posto sbagliato» intervenne Colby da qualche metro di distanza. Con passi veloci e quattro caffè, che traboccarono un po' quando li pose sulla scrivania di Megan, venne di corsa verso di loro. Megan alzò le sopracciglia, non solo per il disastro alla sua postazione, ma soprattutto per lo stupore, data la cortesia; poi capì che andare a prendere il caffè aveva liberato Colby dell'incarico di dare Don le cattive notizie.

«E secondo te, dove dovremmo cercare invece, Colby?» chiese Don, con tono già distintamente snervato.

«E' ovvio: a casa vostra! Finora abbiamo supposto che questi tizi abbiano pedinato Charlie – ma sarebbe stato un grande rischio, per nulla necessario! Potevano semplicemente installare delle telecamere o delle microspie o qualsiasi altro tipo di equipaggiamento!»

Don lo fisso e finalmente cominciò ad annuire lentamente. «Va bene» disse. «Ci andiamo. E sarà meglio chiamare anche una squadra dei RIS».

 

Andarono con due macchine e Megan pensò che fosse un bene. Perché a lei, Don non aveva potuto dare a bere la sua calma. Lei si era accorta distintamente di quanto fosse eccitato, quanto nervoso per la possibilità di fare di nuovo uno sbaglio.

Tanto meglio allora avere qualche minuto da soli in cui Don non avrebbe avuto bisogno né di provare qualcosa a qualcuno né di illudere gli altri. Megan prese un respiro profondissimo preparandosi ad una reazione violente del suo capo.

«Non pensi che dovremmo affidare il caso ad un'altra squadra?»

Don girò la testa verso lei così velocemente che per un momento lei temette che avrebbero avuto un incidente. «Stai scherzando. E attualmente non sono nell'umore giusto per questo».

«No, Don, non sto scherzando». Megan rimase ferma. «Dai, non puoi contestare che facciamo uno sbaglio dopo l'altro. Non vediamo quello che abbiamo sotto il naso. La faccenda delle microspie – in un altro caso non sarebbe mai successo a noi».

«E solo per questo vuoi abbandonare il caso? Megan, si tratta di Charlie!»

«Esatto!» disse in modo insistente. «Per questo non possiamo più assumerci la responsabilità di questo caso. Charlie adesso è scomparso da quasi 60 ore, Don! Facciamo progressi troppo lenti, siamo troppo coinvolti. Pensiamo troppo a Charlie invece di concentrarci su come trovarlo!»

Erano arrivati davanti al Craftsman e Don frenò repentinamente. Si girò verso di lei e Megan, istintivamente, rabbrividì. Sul viso di Don c'era una tale fermezza che sembrava pericoloso contraddirlo. «Credi che io spenda anche solo un istante a pensare a qualcosa che non sia trovare Charlie?» La sua voce era bassa, ma articolò tanto bene ogni singola sillaba, data la sua furia repressa, che lei lo comprese molto bene. «Non daremo il caso a qualcun'altro. Noi cercheremo Charlie – e maledizione, lo troveremo!»

 

- - -

 

«Sei pronta?»

«Quasi» rispose Amita mentre fissava lo schermo del suo computer con concentrazione. Digitò ancora qualcosa, il computer emise un “bip”, poi le fece vedere che stava lavorando a pieno ritmo.

«Okay» disse. «Le informazioni sono state registrate e se ho regolato il programma in modo corretto, dovremmo ottenere un'immagine più distinta non appena i dati si saranno sistemati. Giusto?»

Larry fu colto un po’ di sorpresa dalla domanda che rivelava l'insicurezza di Amita. «Certo. Non posso immaginare dove potremmo aver fatto uno sbaglio. Comunque tutto questo ha già funzionato una volta».

Amita annuì. «Lo so. Ma all'epoca fu Charlie a fare l'analisi».

Larry sospirò. Sapeva quanto teneva a Charlie e lui provava lo stesso. Ma sapeva anche che non dovevano né lasciarsi andare all’autocommiserazione né perdere la stima di sé – e con essa la speranza – se volevano ritrovare Charlie.

«Amita, non intendo negare che Charlie sia un matematico geniale – ma lo sei anche tu».

«E allora perché non posso aiutarlo?!»

Larry trasalì. Le parole violente di Amita erano state accompagnate da un colpo non meno forte della sua mano sul tavolo che fece voltare Larry dalla lavagna verso lei. Non gli sfuggirono le lacrime nei suoi occhi.

La veemenza di Amita sparì così velocemente com'era venuta e ciò che rimase fu disperazione. «Perché non riusciamo ad aiutarlo, Larry?»

Larry deglutì. Si era fatto la stessa domanda, ancora e ancora: perché c'era così poco che potevano fare? Aveva quasi perso tutte le speranze; non ce l’aveva fatta a continuare a credere che potessero fare ancora qualcosa per Charlie. La paura aveva paralizzato la sua mente e l'aveva imprigionato in un pessimismo pericoloso dal quale solo Megan era riuscita a liberarlo. Lei gli aveva dato abbastanza forza per poter confortare, ora, anche Amita.

«Possiamo aiutarlo» le contraddisse quindi, e fu sollevato quando sentì che la sua voce aveva un tono abbastanza fermo. «Forse non possiamo fare tanto, ma ciò che possiamo fare, lo faremo, e questo aiuterà Don e gli altri a trovarlo. Vedrai».

Amita lo guardò negli occhi, mentre i suoi trasmettevano incomprensione ed un po’ di rinnovata speranza. «Come fai ad esserne così sicuro?»

«Logica. Dal momento che non termineremo la ricerca finché non l'avremo trovato, lo troveremo».

 

- - -

 

«Ce n’è un’altra qua!» chiamò Steve Marroway, un membro della squadra dei RIS, segnalando agli altri la quarta microspia del giorno. Scese dal piano di lavoro accanto al forno e la diede al suo superiore.

Con la coda dell'occhio, Don si accorse che Alan si voltò, uscendo dalla cucina e probabilmente anche dalla casa. E anche Don aveva emozioni contrastando mentre guardava il piccolo miracolo tecnologico. Da un lato, certo, aveva confermato le loro supposizioni e avrebbe potuto aiutarli nella ricerca di Charlie – ma dall'altro, quell'oggetto era un'altra prova che erano stati spiati in casa loro, un altro oggetto che aveva invaso la loro privacy e forse un oggetto senza il quale il rapimento di Charlie non sarebbe stato possibile.

La prima microspia l'avevano cercata e trovata nel telefono. Era un modello fatto a mano e benché l'avessero mandato subito al laboratorio, non erano molto ottimisti a riguardo. I pezzi che lo componevano avevano l'aspetto di articoli prodotti in serie, non osavano sperare che ci fossero delle impronte digitali e se non sbagliavano, la microscopia era stata fatta secondo istruzioni che si potevano scaricare gratuitamente (e soprattutto anonimamente) dalla rete. Oppure, con un po' di conoscenza tecnica, addirittura da sé. In ogni caso, il modello a prima vista non era così eccezionale da fargli pensare ad altri casi e altri nomi o qualunque altra cosa.

Dopo, avevano trovato una microspia sotto il tavolo e una nell'orologio a muro. E adesso quella nella cucina sopra la credenza.

Don sospirò. Quante microspie avrebbero trovato ancora? E come avrebbero potuto mai essere sicuri che la casa fosse davvero priva di microspie e simi dispositivi di sorveglianza? Oppure c'era qualcuno ad osservarli anche adesso, in questo momento, mentre stavano cercando gli altri pezzi?

L'unico modo per essere sicuro o almeno più sicuro nelle parete domestiche sembrava quello di trovare la persona che aveva installato le microspie. E se avessero trovato quella, avrebbero probabilmente trovato anche Charlie in un modo o un altro. Ma se non lo avessero trovato...

Di nuovo, Don sentì la stanchezza colpirlo e non esclusivamente perché era già l'una e mezza di mattina. Stava per fuggire dall’opprimente sensazione di essere fuori posto nella casa dove era cresciuto e fare compagnia a suo padre nel giardino notturno (oppure nel garage? In un posto o un altro l'avrebbe sicuramente trovato) per qualche minuto, solo una breve pausa per ritrovare un po’ di forza, quando venne fermato da Colby.

«Ehi, Don, il RIS dice che sembra essere tutto. E anche noi pensiamo di aver finito. Se questi tipi non hanno trovato dei posti ancora più nascosti per altre microspie, sembra che abbiamo recuperato tutto. Torneranno domani, ma per oggi la ricerca è finita».

Don annuì. Era un po' contro il suo senso del dovere, ma considerando l'ora tarda (no, fin troppo presta) era più razionale, e comunque preferiva avere la casa finalmente di nuovo vuota. Nondimeno era davvero grato ai suoi colleghi, alcuni dei quali avevano fatto addirittura gli straordinari per aiutarlo. In quei giorni, aveva bisogno di supporto più che mai.

«Smettiamo anche noi per oggi» disse e anche lui fu un po' sorpreso nel sentire quelle parole e riconoscerle come le proprie.

Colby inarcò le sopracciglia. Don doveva essere davvero esausto. Oppure non aveva idea di cos’altro fare. Certo, era più ragionevole riposare per un po' tornare sul caso la mattina successiva, con nuove forze – ma da quando Don si comportava in modo ragionevole se si trattava di Charlie?

 

- - -

 

«Voglio questo caso».

Il capo di un’altra sede dell'FBI, James H. Burbank, guardò in alto quando vide scivolare sulla sua scrivania un fascicolo. Edgerton, certo, chi altro?

Burbank non aveva nullo contro di lui, non direttamente comunque. Ian Edgerton faceva il suo lavoro e lo faceva bene – no, lo faceva in modo straordinario. Era il... che? Il quarto tiratore scelto del mondo? In ogni caso era abbastanza bravo da non volerselo fare nemico. Ed era uno scout eccellente. Ed era indipendente da altre persone. E qualche volta era un po' inquietante.

Ma godeva, nell'FBI, non solo a causa della sua attività come istruttore di tiratori scelti, di una reputazione assai eccellente, tanto da permettergli di scegliere da sé i casi da seguire. E usava questo diritto attivamente. Burbank non sapeva con quali criteri l'investigatore sceglieva i suoi casi, ma a condizione che li risolvesse – ed era rarissimo il caso in cui non ci riusciva – poteva fregarsene dei criteri e di alcuni dei metodi di Edgerton. Eppure non poteva liberarsi da una certa curiosità circa quale caso Edgerton avesse scelto questa volta.

Aprì il documento e riconobbe subito la faccia: la conosceva definitamente di più dalle foto che per trascorsi nella vita reale, ma lo aveva comunque incontrato qualche volta: Clifford Wellman, 36 anni, celibe e – agente dall'FBI.

Avevano tenuto la faccenda largamente sotto chiave. Solo la squadra che stava investigando e la ex-squadra di Wellman – questo era stato inevitabile – ne erano al corrente. E a quanto pareva anche le persone che avevano un certo NOS, perché un modo o un altro, Edgerton doveva aver avuto quel fascicolo e Burbank preferì credere che l'avesse ottenuto in modo legale.

«Perché questo caso?»

Edgerton scrollò le spalle. «Suona interessante. E non posso soffrire le persone che ingannano i propri ragazzi».

Burbank annuì. Anche lui non amava tanto gli agenti come quel Wellman che ad un tratto si era rivelato membro della parte opposta.

Quasi una settimana prima, il venerdì o il sabato prima, Clifford Wellman era scomparso. Lunedì, la sua squadra si era chiesta perché non si fosse presentato a lavoro – e soprattutto perché non avesse detto niente a nessuno. Non erano riusciti a contattarlo al cellulare, ma il giorno dopo erano andati al suo appartamento dopo che nessuno aveva avuto notizie di lui. L'appartamento era stato trovato vuoto, i vicini non sapevano niente e ancora non erano riusciti a contattare Wellman. Infine, la squadra aveva cominciato a considerare la sparizione del loro collega qualcosa di serio e aveva iniziato a esaminare attentamente la vita privata di Wellman. Non avevano saputo quasi nulla di lui, era un solitario e già dopo poco tempo avevano trovato una ragione abbastanza chiara sul perché si fosse isolato così tanto da loro: aveva un sacco di segreti. Sui suoi conti, c'erano transazioni strane con grandi importi di solito in arrivo, e controllando i suoi tabulati telefonici, constatarono che conosceva delle persone della CIA. Però, quando avevano tentato di contattare le suddette, si erano resi conto che risultavano scomparse tanto quanto Wellman.

A questo punto si erano definitivamente allarmati. Il vice-direttore aveva – naturalmente mantenendo le misure di sicurezza necessarie, dato che finché non sapevano che cosa stava succedendo e chi era collegato con questa faccenda, dovevano fare la massima attenzione – spostato il caso ai piani alti e lì avevano deciso che una squadra speciale di agenti – che si erano mostrati impeccabili in passato – avrebbe dovuto investigare sulla faccenda. E l'aveva fatto. Finché, però, le sue investigazioni erano finite in un vicolo cieco. Clifford Wellman era stato come inghiottito dalla terra. Siccome preferivano tenere la faccenda segreta fino a nuovo ordine, era difficile fare una caccia all'uomo e così dovevano tentare di ricostruire la sua via di scampo.

E facendo questo, Ian Edgerton sarebbe probabilmente stato un aiuto inestimabile.

«Va bene. Suppongo che lei abbia i dati per contattare la squadra investigativa?»

Edgerton annuì. «Certo».

«Sa già dove si trovano attualmente? Se vuole saperlo –»

Ma come Burbank ebbe quasi esitato, Edgerton fece cenno di no. «Non sarà necessario. Lavoro meglio da solo che in squadra».

Burbank annuì. Sì, questo lo sapeva. E a condizione che Edgerton non nascondesse informazioni alla squadra e al suo superiore, poteva fare come voleva. Comunque, questo caso doveva esser risolto. Con ogni mezzo.

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Capitolo 30
*** Dubbi e certezze ***


Sembro di aver fatto qualcosa di buono quando ho fatto entrare Edgerton nella storia... ;)
In ogni caso mille grazie per le recensioni e un altro ringraziamento alla mia beta Alchimista!
Divertitevi :)

 



30. Dubbi e certezze

 

Take me to a place so holy

that I can wash this from my mind,

the memory of choosing not to fight.

If it takes my whole life,

I won’t break, I won’t bend.

(Sarah McLachlan, Answer)


 

Mentre Ian parlava con il suo superiore, a centinaia di chilometri di distanza Colby entrò nella centrale dell'FBI. Credeva di essere arrivato presto, ma vide i suoi colleghi già seduti in un angolo dell’ufficio

«Ehì, non avete cominciato senza di me, no?» li salutò con un sorriso un po' cauto. Malgrado la serietà della situazione era certo che non avrebbe fatto bene a nessuno essere tanto abbattuti tutto il tempo. Li avrebbe solo fatti deprimere ancora di più e non li avrebbe aiutati.

«Non preoccuparti» disse David, ma Colby si accorse che il mezzo sorriso sulle labbra del collega non era del tutto sincero. Però, quantomeno, era migliore delle le fattezze rigide di Don. «Siamo appena arrivati anche noi».

«E perciò è tempo di cominciare. Dobbiamo riflettere sulla prossima mossa da fare. Qualche proposta?»

Lo guardo di Don si posò sui suoi colleghi, non così veloce da non permettere a Colby di notare quanto fosse accigliato, ma abbastanza da non riuscire a replicare qualcosa, prima che continuasse: «Penso che dovremmo continuare a concentrarci sulla clinica finché non sapremo qualcosa di più preciso dal laboratorio. E inoltre dovremmo controllare più nel dettaglio quello che sappiamo del camionista che ha portato Charlie alla clinica».

«Ma perché l'hanno sorvegliato?» chiese David. «E chi? Non sappiamo nemmeno se ha qualcosa a che fare con il suo incarico di allora…».

Benché Don avesse l'aspetto di chi non riesce neanche a tenere gli occhi aperti, questi luccicarono improvvisamente di furia.

«Senti, David, Charlie è scomparsa sei mesi fa durante un incarico per una qualche agenzia, non sappiamo né quale né dove sia stato. Sappiamo solo che non è ritornato e che questa dannata agenzia l'ha dichiarato morto benché sia ovviamente vivo, quindi non venire a dirmi che la sua attuale scomparsa non ha niente da fare con quel maledetto incarico!»

«Ma David ha ragione» obiettò Megan cautamente. «Potrebbe essere una coincidenza. Cosa dice il laboratorio delle microspie che abbiamo trovato da voi?»

Don le mostrò il rapporto che mezz'ora prima aveva preso personalmente dal laboratorio. «Niente» rispose. «Non possono rintracciare la fonte o attribuirle a qualcuno. E finché non sapremo che cos'è acceduto a Charlie nell'ottobre dello scorso anno e non avremo altre tracce, dobbiamo continuare a indagare su cos'è successo all'epoca. E troveremo Charlie!»

A Colby non sfuggì che il comportamento di Don e ciò che giustificava le sue azioni era pericoloso. Si rendeva conto che le conclusioni di Don al momento non seguivano la logica, benché fosse possibile che avesse ragione in questo caso particolare. Ma come potevano esserne sicuri? Forse la soluzione era in tutt'altro posto? E Don non aveva intenzione di allargare l’orizzonte, era troppo fissato, troppo impuntato, troppo disperato nel voler risolvere questo caso...

Caso, pensò Colby con un'ombra di una coscienza sporca. Questo era più di un caso. Era Charlie ad essere scomparso. Il loro collega. Il loro amico.

«Ma anche se ha qualcosa da fare con quell'incarico» la voce di David fece ritornare Colby, «non abbiamo ancora trovato una motivazione valida per cui quest'agenzia o chiunque altro abbia fatto sorvegliare Charlie. L'incarico era finito, no?»

«Lo era?» disse Don in tono provocatorio. «Chi lo dice?»

Non ricevette una risposta. Colby dovette dargli ragione: non avevano prove che Charlie avesse finito il suo incarico. Piuttosto il contrario: dal momento che Charlie non era ritornato prima della sua presunta morte, aveva probabilmente continuato a lavorare al progetto. Ma perché non li aveva contattati? E perché l'informazione della sua morte era arrivata così tardi, solo quasi un mese dopo la sua scomparsa e la sua presunta morte?

«In ogni caso dobbiamo scoprire da dove provengono le microspie» disse Megan, tentando di rivolgere la conversazione in una direzione che sarebbe stata loro effettivamente d’aiuto.

«Aspetta!» la interruppe Colby. «Se le microspie hanno davvero qualcosa a che fare con l'incarico di Charlie in autunno, perché non l'hanno sorvegliato fino da allora? Oppure le microspie sono state istallate per voi, per te e tuo padre?»

Don ci rifletté per un attimo, ma aveva troppi pensieri per la testa e la cosa non fu così facile.

«Chi ci dice che Charlie non sia stato sorvegliato già prima?»

Gli altri lo presero in considerazione. «Pensi» chiese David, «che forse era già sorvegliato nella clinica?»

Don annuì leggermente e sembrava essere sempre di più convinto della sua idea. «Sarebbe plausibile, no? Devono aver saputo in un modo o un altro che Charlie era ritornato in California. In ogni caso dovremmo controllare».

«Va bene. Mi metterò in contatto con la clinica» disse David.

«Ed io farò in modo che una squadra dell'RIS controlli ogni cosa, soprattutto la camera in cui stava Charlie» aggiunse Colby.

Don annuì e i due scomparvero. Megan rimase con lui. L'espressione preoccupata non aveva ancora lasciato le sue fattezze e Don non riusciva a togliersi di dosso la sensazione che quella preoccupazione riguardasse più lui che suo fratello.

E la sua impressione si rivelò esatta. «Don?» chiese Megan con voce bassa e cauta. Aveva di nuovo messo su il suo sguardo da psicologa. «Sei sicuro –»

Ma Don non le lasciò finire la frase. «Non sono stato chiaro?! Al lavoro, Megan!»

 

- - -

 

Charlie sobbalzò quando bussarono. Avrebbe dovuto abituarsi a quel suono in futuro, pensò vagamente, mentre si alzava sulle ginocchia che facevano giacomo-giacomo.

Con una presa ferma sul suo omero, lo portarono nella stessa stanza d’interrogatorio dell'ultima volta, però ora l'acqua e il sandwich erano già sul tavolo. Accanto a un'altra pagnotta, salume, formaggio e un grosso coltello. Per un folle istante, Charlie pensò semplicemente di afferrare il coltello e buttarsi allo sbaraglio, ma sapeva che non avrebbe avuto nessuna probabilità. Era da solo contro un numero sconosciuto di avversari. Sarebbe stata pura follia.

Allo stesso modo oppresse, con uno sforzo enorme della propria volontà, l'istinto di dare subito un morso alla pagnotta, sedendosi prima e aspettando che Rosenthal gli facesse un breve cenno del capo.

«Vada pure. Si serva».

Vorace come mai si sarebbe ritenuto capace, Charlie buttò giù il pane. Rosenthal aspettò finché non ebbe finito, prima di passare alla parte della riunione che a Charlie piaceva decisamente meno del cibo.

«Dunque, Dottore – è diventato più ragionevole nel frattempo? Che cosa ci può dire dei suoi complici?»

Con il cibo, Charlie sembrava aver preso anche rinnovata fiducia in sé; in ogni caso rimase sicuro e fermo. «Niente. Non ho dei complici».

«Ma non può dirmi che ha commesso questi attentati da solo! E se l'ha fatto, si sarà sicuramente accorto che ora avrà solo lei la colpa di tutto; non migliorerà le sue prospettive davanti a un tribunale».

Charlie poteva solo supporre che quei terroristi del CIA intendevano fargli fare una deposizione con la quale lo avrebbero tenuto in pugno. Ma non avrebbe fatto loro questo piacere.

«Non ho commesso attentati. Non sono un criminale, a differenza vostra».

Rosenthal doveva essere un bravo attore. In ogni caso incredulità e derisione erano cose che padroneggiava alla perfezione.

«Olà! Non mischi i fatti, professore. Non vorrà dire sul serio che il governo degli Stati Uniti commette crimini! Lei sa che noi operiamo solo per il governo. E' lei il criminale».

Pian piano, Charlie stava diventando stufo di quelle ripetizioni. Però si accorgeva anche che era quello lo scopo di Rosenthal e la sua banda: renderlo mansueto facendogli sempre le stesse domande, con la stessa tenacia, la stessa incredulità. Ma lui non l'avrebbe permesso.

«Sono innocente» ripeté con un tono fermo.

Il viso di Rosenthal diventò più freddo e Charlie non fu più sicuro del fatto che stesse fingendo. «Davvero?» Prese il primo di una piccola pila di fascicoli accanto a sé, lo aprì e sbatté le immagini davanti a Charlie. «Lo vede? Questo è opera sua! Questi sono i suoi attentati! Guardi! Guardi che cos'ha fatto!»

Charlie voleva distogliere lo sguardo, ma non poteva. Le immagini l'attiravano in un modo terribilmente tragico, benché preferisse molto di più chiudere semplicemente gli occhi. Ma doveva continuare a fissarle, quelle persone, i loro corpi morti in mezzo alla strada, indegno per un essere umano, come se fossero rifiuti la cui rimozione è uno scomodo dispiacere. Una delle donne teneva una bambina tra le braccia, probabilmente sua figlia. Entrambi i visi erano sfigurati, la parte bassa del suo corpo mancava. La bomba l'aveva tranciato.

Charlie deglutì e la sua voce fece posto a un bisbiglio instabile. «Non sono stato io. Sono innocente».

Sapeva che non era la verità. Non era innocente. Non ne era stato consapevole, ma aveva aiutato quella banda: trovare il posto giusto per la bomba era stato il suo incarico. Se non l'avesse accettato, tutte quelle tante persone in foto sarebbero ancora vive ora.

«Sta mentendo. È stato lei a fare questa bomba, o almeno ha avuto aiuti per questo. In ogni caso è coinvolto. Ci dica che cosa sa!»

La voce di Charlie diventò più disperata e aumentò in volume. «Niente! Non so niente!»

«Non menta!» Anche l'altro urlò. «Guardi le immagini! Guardi le persone! Lei le ha uccise! E insiste ancora nel dire che non è un terrorista?!»

Charlie non rispose. Sì, era sicuro, poteva ricordare, sapeva che cos'aveva fatto e che cosa non aveva fatto. Sapeva quanta colpa gravava su di lui e quanta sugli uomini che l'avevano in custodia. Ma questo quegli uomini non avrebbero mai dovuto saperlo. Perché se avessero capito che lui ricordava i suoi crimini di allora, avrebbero anche saputo che era un pericolo per loro. Avrebbe potuto identificarli, avrebbe potuto svelare i loro crimini, testimoniare contro loro. No, doveva tacere, non poteva lasciar capire loro che avrebbe potuto identifi-

Ma poteva identificarli anche così! L'avevano fatto prigioniero, contro la sua volontà: stavano commettendo un reato, l'avevano sequestrato! E non importava quante volte gli avrebbero ancora raccontato che era successo tutto nei limiti della legge, che facevano parte del governo, rimaneva una storia falsa e lo sapevano, proprio come lo sapeva lui. E se Charlie fosse stato liberato, non ci sarebbe stato – anche dal loro punto di vista – più nessun dubbio sul fatto che nulla in quella faccenda era regolare, che quegli uomini ne avevano fatte di cotte e di crude, enormemente. E ciò voleva dire... Charlie deglutì, ma non vedeva nessun'altra fine: poteva identificare i suoi rapitori e questo significava che non gli avrebbero dato la possibilità di venire in contatto con nessuno. Mai più.

 

- - -

 

Don tentava di rimanere calmo, ma era tutto tranne che semplice. Gli dispiaceva già per aver sgridato Megan in tale modo, ma non dovevano perdere di vista il loro obbiettivo, dovevano rimanere fissi su Charlie, non dovevano permettere che sparisse per sempre...

Appena prima di addormentarsi, quando il cervello era talmente pieno e vulnerabile che avrebbe semplicemente preferito scappare da se stesso, si era chiesto come stava Charlie. Probabilmente lo tenevano prigioniero. Ma come lo trattavano? Lo colpivano? Oppure lo lasciavano semplicemente da solo? Viveva nell’incertezza di come le cose sarebbero andate avanti? E che cosa volevano da lui? Gli facevano pressioni? In che modo? Mentale o fisico? Quale sarebbe stata la cosa peggiore? Oddio, che cosa ne avrebbero fatto di lui...

Alla fine, Don aveva dovuto prendere un sonnifero per concedere al suo cervello almeno alcune ore di riposo. Eppure non appena svegliato, quelle domande avevano continuato a tormentarlo. E Don non poteva semplicemente ignorarle; benché stesse sbattendo la testa contro il muro nella possibilità di trovare un modo per riavere Charlie indietro, c'erano sempre quelle scene orribili nella sua testa, in continuazione. Per questo era irritato e aveva problemi a stare in compagnia con altri.

E ancora una volta, sul fondo ma impossibile da ignorare e dimenticare, nascosta, c'era di nuovo quella domanda: “Che cosa succederà se non lo troveremo?”. Poi c'era anche la paura, la paura per nulla irrilevante, di far un errore che avrebbe portato a conseguenze fatali per il suo fratellino...

«Don?»

La voce era dolce e dolce era la mano sulla spalla di Don. Forse anche più dolce di quella di Megan. Don guardò in alto e fu sollevato che non fosse di nuovo la sua collega – benché l'apprezzasse e amasse –, ma Robin. Fermò gli occhi e sospirò, basso. Era un bene che Robin fosse lì.

«Ehi» disse lei a bassa voce. «Come stai?»

«Di merda» bisbigliò Don. Robin era la sola persona al mondo alla quale l'avrebbe mai ammesso in modo così franco.

Gli accarezzò un po' i capelli. «Avete trovato qualcosa?»

Don era certo che lei sapesse molto bene quanto incatenate fossero le due domande. Lo sapeva da un anno. La situazione era così orribilmente simile a quella di allora...

«Forse» disse, vago. Non voleva creare troppa speranza in altri e in se stesso solo per vederla distrutta l’attimo successivo, ma allo stesso tempo voleva aggrapparsi ad ogni filo che potevano trovare.

«Hai un'idea su dove possa essere Charlie?»

Don esitò. La sua idea era vaga e non ne aveva nessuna prova, e nessun indizio. Eppure sperava così ardentemente di esser sulla pista giusta che non poteva più tenerlo per sé.

«Sto pensando che sia in Nebraska. Siamo piuttosto sicuri che è stato sequestrato dalle stesse persone dell'altra volta. All'epoca lo abbiamo trovato in Nebraska, dunque perché non ora?»

Robin aggrottò la fronte in una smorfia di vaga compassione.

«Lo sai che è piuttosto tirato per i capelli? Se i sequestratori all’epoca avessero voluto liberarsi di Charlie, avrebbero potuto abbandonarlo in qualsiasi posto comodo per loro. Non hai detto che l'incarico di Charlie era all'estero?»

«L'abbiamo pensato allora. Ma non abbiamo mai avuto prove. E inoltre non sappiamo se i rapitori abbiano lasciato andar via Charlie liberamente. Siccome, a quanto pare, l'hanno sequestrato un'altra volta, a questo punto credo sia improbabile. E se Charlie è effettivamente scappato, è molto probabile che anche all'epoca sia stato tenuto prigioniero in Nebraska».

Robin non sembrava ancora convinta. Non intendeva demoralizzare Don, ma dovevano attenersi ai fatti. «Stai supponendo così tante cose…» disse perciò, sperando che Don avrebbe reagito in modo calmo alle sue parole.

Gli fece quel piacere. «Lo so. Ma è una possibilità. E esaminerò ogni possibilità finché non avremmo trovato Charlie».

 

- - -

 

Pian piano, Charlie sembrava riuscire a riconoscere un certo ritmo: una o due ore di interrogatorio, una mezza giornata o una intera in cella, poi l’interrogatorio, poi la cella... Da un lato, quella continuità gli dava sicurezza; dall'altro, la sua vita (Charlie decise di applicare questo termine grandiosamente) era monotona in modo appena sopportabile. E non aveva nessuno con cui parlare. O comunque, nessuno con cui poteva fare conversazioni che andassero oltre le sue affermazioni di innocenza.

Aveva una nostalgia ardente di tutte le persone da cui quegli uomini l'avevano separato, e il desiderio di rivederle gli diede una speranza tale da impedirgli di affondare nelle profondità della disperazione. Li avrebbe visti, prima o poi. L'avrebbero trovato, sicuramente. Prima o poi tutto questo sarebbe terminato. I terroristi non l'avrebbero tenuto prigioniero per sempre.

Per un attimo, il rispiro di Charlie si bloccò. Aveva ragione, non l'avrebbero tenuto prigioniero per sempre. Solo per quel tanto che bastava ad essere utile per loro. A seconda di ciò che avevano ancora in mente di fare, questo periodo sarebbe potuto arrivare fino ad anni, anni in prigionia, in una zona d'ombra scurissima concernente la morale, ma anni di vita e con un minimo di speranza di esser trovato e salvato prima o poi o forse anche di liberarsi da solo.

Tuttavia poteva anche essere probabile che avevano intenzione di usarlo solo per quella pseudo-caccia ai terroristi. E non importava che cosa intendessero ottenere – quel progetto non sarebbe durato un'eternità. E comunque lui era un rischio per loro; dovevano aver interesse perché tutto si svolgesse nel minor tempo possibile, per toglierselo di torno.

Soprattutto... soprattutto se faceva di tutto per non essere di alcun aiuto. Perché in quel modo rimaneva solo un potenziale rischio per i loro progetti e non più un mezzo per avvantaggiarli. Quando sarebbero arrivati alla conclusione che non avrebbero potuto usarlo e ottenere la sua adesione ai loro progetti, l'avrebbero, con ogni probabilità, ucciso.

Charlie rabbrividì. Non aveva alcun dubbio riguardo quello che aveva appena pensato. Ma che cosa doveva fare? Anche se il rifiuto di aiutarli faceva tutto tranne aumentare le sue possibilità di sopravvivenza, doveva resistere, giusto? E non avrebbe mai potuto confessare di essere un criminale; non avrebbe mai potuto collaborare con loro! Perché così, avrebbe perso anche quel po’ di speranza che ancora rimaneva in lui, da qualche parte.

Tremolante, fece un respiro. Doveva semplicemente continuare a sperare. Doveva sperare che Don l'avrebbe trovato. Il più presto possibile.

 

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Capitolo 31
*** Senza speranza ***


Grazie per le recensioni!



31. Senza speranza


And I see no bravery,
No bravery in your eyes anymore,
Only sadness.
(James Blunt, No Bravery)
 

«Don, che ci fai qui?».

Alan era confuso, quasi sconvolto. Suo figlio maggiore era appena ritornato a casa e, dopo un breve "Ehi, Papà", era scomparso in camera sua. Non aveva detto nient’altro. Nessuna spiegazione, nessuna informazione. Per Alan quell’incertezza era peggiore di qualsiasi altra cosa.

«Che sta succedendo, Donnie? Avete trovato qualcosa? Sapete qualcosa?»

«No» la risposta arrivò brusca mentre Don andava freneticamente avanti e indietro per casa, evidentemente radunando un guazzabuglio di oggetti. «Non abbiamo trovato niente, proprio niente» aggiunse nello stesso tono che mostrava la sua amarezza fin troppo bene.

Tutto questo non dava ad Alan più informazioni, lo rendeva solo un po' più disperato. E allo stesso tempo poco rilassato. «Quindi che cosa ci fai qui?».

La voce di Don veniva dal bagno. «Sto facendo le valigie. Andrò in quella clinica, in Nebraska».

«In Nebraska?! Quando?».

Questa volta la voce venne dalla sua stanza. «Fra mezz'ora».

Okay, questo Alan non se l’aspettava. E il suo istinto paterno gli diceva che con simili eventi imprevisti bisognava usare il doppio della prudenza. Eppure recuperò un po' di speranza.

«Credete che Charlie sia lì?».

La risposta non venne subito. Dopo qualche istante, invece della risposta comparve Don nel soggiorno, con una sacca di ginnastica in spalla. Quando entrò, però, mise la sacca sul pavimento, come se fosse già così carico da essere stanco. Alan ce la faceva appena a sopportare la tensione. «Non lo so», rispose Don finalmente, ma stranamente Alan questa volta non sentì la sua speranza diminuire. Forse perché era certo di cosa suo figlio avrebbe aggiunto: «Ma lo spero».

Alan deglutì; non era ancora sicuro se poteva sentirsi sollevato o meno. Non sapeva come continuare a fare domande e così fu felice che suo figlio, per una volta, non si fece cavare le parole dalla bocca, ma rivelò le informazioni che voleva sapere da sé. «Supponiamo che Charlie sia stato sorvegliato in questa clinica in Nebraska. Abbiamo mandato lì una squadra del RIS locale, ma loro non hanno trovato niente. E adesso vogliamo controllarlo noi stessi».

Alan si sentì confuso. «Credi davvero che troverete qualcosa?»

La risposta di Don venne con una nota dolorosa: «E' la migliore pista che abbiamo».

 

- - -

 

Amita e Larry ce l'avevano fatta a compilare un identikit provvisorio, ma, come si aspettavano, a causa del risultato molto vago, la comparazione dei punti facciali con le banche-dati non era servito a niente. Certo, intendevano ottimizzare l'immagine e sperare che poi sarebbe servito a qualcosa nelle indagini, ma avrebbero potuto metterci del tempo e Don non aveva intenzione di aspettare senza far nulla.

Sapeva che la sua squadra non era completamente d'accordo con la sua decisione. Eppure non potevano negare che attualmente non avevano altra pista che quella clinica. E inoltre era il loro capo. Dovevano accettare alla sua decisione, che fossero d’accordo o meno.

Sapeva che c’era la possibilità che seguendo quella pista non avrebbe fatto altro che perdere tempo, tempo di cui Charlie probabilmente aveva un bisogno disperato. Ma si proibì di pensarci. Non voleva perdere la speranza, la speranza che avrebbero finalmente fatto un passo avanti, che si sarebbero avvicinati a Charlie almeno un po'... In ogni caso avrebbero avuto più possibilità di raccogliere i dati necessari nella clinica senza seguire la lunghissima procedura burocratica della direzione. E forse in quei documenti avrebbero trovato indicazioni che Charlie era stato davvero sorvegliato anche lì. E forse così avrebbero trovato qualche nome e le persone che l'avevano sequestrato...

Il cuore di Don batteva violentemente mentre manteneva la sua speranza con forza.

 

- - -

 

Charlie trasalì quando fu svegliato da un forte rumore alla porta della sua cella. Socchiuse gli occhi. Era già di nuovo tempo per l’interrogatorio? Poteva quasi immaginarlo. Si sentiva come se si fosse appena appisolato e la stanchezza ne era un chiaro sintomo. Però forse aveva già perso completamente il senso di tempo?

«Su, si alzi! Si volti, le mani dietro la schiena!»

Charlie riuscì appena a mettersi in piedi, per quanto era esausto. Ma la voce aspra dell'uomo alla porta era abbastanza intimidatoria perché si desse velocemente una mossa ed eseguisse i suoi ordini.

«Venga!».

Charlie incespicò quando lo tirarono con loro. Era talmente stanco... Aveva creduto che l’avrebbero lasciato un po' in pace, si era preparato ad alcune ore di relativo riposo.

Di nuovo veniva condotto in una sala d’interrogatorio, di nuovo c'era Rosenthal di fronte a lui, di nuovo pronto a valutarlo, di nuovo con quel sorriso freddo. Questa volta però Charlie pensò di poter scorgere una nuova sfumatura nelle sue fattezze, un nuovo attributo di malignità.

Lo fanno apposta!, gli passò per la testa, e ad un tratto era sveglio, allarmato. Non l'aveva immaginato: questa volta era passato molto meno tempo fra gli interrogatori. Era davvero così: i terroristi avevano cambiato ritmo.

Ma perché? Charlie aveva un sospetto distinto: dovevano sapere che un tale sbalzo nella routine spossava il loro prigioniero, lo confondeva, lo faceva sentire incerto, gli faceva perdere l'equilibrio. Dovevano sperare che in questo modo avrebbero potuto fargli cambiare idea.

Ma si sbagliano, pensò Charlie con caparbietà e allo stesso tempo tentò di reprimere la sensazione di aver pensato a qualcosa di troppo grande. Come poteva sapere che avrebbe potuto far resistenza ai loro giochi mentali? Come poteva sapere che cosa gli avrebbero fatto, come questa tortura l'avrebbe cambiato? Soprattutto perché l’avevano spezzato già una volta...

Charlie prese a correre. Era un reazione di panico, completamente irrazionale. Ma non aveva più potuto sopportarlo, per nemmeno un attimo. Semplicemente non ce l'aveva fatta.

L'immagine di suo fratello morto era sempre davanti a lui e faceva riempire i suoi occhi di lacrime che offuscavano pericolosamente la vista. Ma doveva andar via, doveva fuggire, via dalla sua prigione, via dai suoi persecutori, via dall'immagine...

Sentiva i passi dei suoi avversari dietro di sé. Sapeva che sarebbe stato vano, sapeva che non poteva fuggire da lì, eppure aveva dovuto provarci.

'Dai, corri. Non darti per vinto.'

La nausea aumentò a una misura appena sopportabile quando si chiese se le parole erano venute da sé stesso o dal suo fratellone. Don... Perché, perché era morto? Perché...

Charlie cadde sulle ginocchia. Non ce la faceva più. Semplicemente non poteva. Non aveva più forza. Aveva tentato di dirsi che Don avrebbe voluto che avesse fatto di tutto per liberarsi, che non si fosse dato per vinto. Ma Don non c'era più. E il tentativo di Charlie non aveva mai avuto altra possibilità che fallire. Dunque dov'era il senso?

I suoi persecutori quasi inciamparono su di lui. Non resistette. Poteva solo pensare a Don, a come l'avevano ucciso, che l'avevano...

Charlie piangeva, ma se ne accorgeva appena. Voleva semplicemente che tutto finisse, che tutto terminasse, che lo lasciassero in pace...

Le loro parole raggiungevano solo il suo subconscio. «Ti piacerebbe, eh? Ma non puoi fuggire, mio caro. E anche se riuscissi a scappare da questo posto, non potresti comunque fuggire da noi. Non ricordi la nostra piccola misura precauzionale?»

Con una presa ferma afferrò il polso sinistro di Charlie e lo tenne davanti agli occhi irrorati di lacrime del suo prigioniero. Charlie poteva distinguere una ferita quasi guarita, un taglio sulla pelle, eseguito con precisione chirurgica. Sì, gli avevano inciso il polso contro la sua volontà. L'avevano anestetizzato, ma quando si era svegliato, con le mani legate ai braccioli di una scomoda sedia, aveva potuto capire che cos'era successo, soprattutto perché l'avevano minacciato: un microchip. Gli avevano impiantato un microchip. Ed anche se ce l’avesse fatta a fuggire, avrebbero ancora potuto localizzarlo.

Gli avevano tolto tutto. L'avevano privato della sua libertà, la sua dignità, di suo fratello e infine della sua speranza. Gli avevano tolto tutto ciò a cui si era aggrappato e l'avevano lasciato a se stesso. E lui non aveva più di forza. Sì, i loro giochi mentali l'avevano spinto alla disperazione cosicché aveva sferrato quest'ultimo tentativo di fuggire, ma non aveva avuto speranza di riuscirci. Ce l'avevano fatta a demoralizzarlo completamente. E sebbene ci avesse pensato tanto – non riusciva a trovare nemmeno una ragione per mantenersi in vita.

Charlie aveva freddo. La sensazione veniva dal suo interno e per un attimo ebbe la sensazione assurda che il microchip nel suo polso fosse l'origine di quel freddo. E forse lo era. Ricordava: durante la sua prigionia in autunno gli avevano impiantato il microchip, cosa che in fondo era stata superflua perché nel periodo seguente l'avevano tenuto sotto un controllo talmente rigoroso che non aveva nemmeno potuto cercare di rimuovere il meccanismo di localizzazione. E infine non gli era più interessato, per niente. Nulla più gli importava. Don non c'era più e non vedeva alcuna possibilità di fuggire dai suoi rapitori. E collaborare non era neanche un'opzione. Così, la sua volontà di vivere, che comunque era stata quasi pari a zero, si era minimizzata sempre di più finché non era più rimasto niente. Aveva smesso di mangiare, di bere, e di vivere. Vegetava. E questo doveva esser stato il suo ticket per la libertà.

Erano diventati nervosi. Il loro prigioniero, che una volta aveva elaborato delle risorse promettenti, era andato vicino alla morte; avevano dovuto agire in fretta. Si erano liberati di lui, ma a giudicare dalle apparenze, avevano continuato a tenerlo d'occhio. Alle loro risorse. Al loro punto debole.

Adesso, avevano agirato il pericolo all’origine: lui. L'avevano catturato di nuovo. E Charlie ne era stufo. Era stufo di lottare, degli interrogatori, di essere da solo. Voleva che tutto avesse fine. Era talmente stanco...

«Chi sono i suoi complici?»

«Non ho dei complici» mormorò Charlie, ancora pensando più al suo ricordo che al presente ugualmente sgradevole.

«Dunque ha commesso gli attentati da solo?»

«Sì... No, non ho...» Charlie era confuso. Non riusciva più a concentrarsi. Aveva mal di testa. Voleva dormire, era talmente stanco... «Non ho commesso gli attentati. Sono innocente».

Quando avrebbero finito? Quando l'avrebbero finalmente lasciato in pace?

Charlie si sentì male quando si accorse che sapeva la risposta: mai.

 

- - -

 

Don aveva un peso sul petto e la sua bocca non era più di una linea sottile quando si alzò dal letto. Il RIS che era stato lì prima aveva ragione: non c'era più niente, nessuna microspia, nessuna telecamera nascosta, niente. Nemmeno un'indicazione che Charlie era mai stato lì. Avevano pulito la camera a fondo, anche se non era stata più usata dalla dimissione di Charlie.

Nel frattempo avevano perquisito la sua camera due volte (se contava anche il RIS esterno, tre) e il fatto che semplicemente non c'era niente da trovare non sarebbe cambiato. Prima del loro secondo tentativo, avevano anche lanciato uno sguardo al soggiorno, sulla terrazza e in altre stanze comuni della clinica. Niente.

«Voglio parlare con gli addetti alle pulizie» disse Don, ma la sua voce così abituata ad ordinare tremò. Cosa avrebbe fatto se anche quello fosse risultato un vicolo cieco? Se stavano solo perdendo tempo?

«Per questo devo guardare negli atti» rispose il capo della clinica. Era una cinquantenne risoluta, energica, ma non scortese. Aveva acconsentito a collaborare con le agenzie controllando il caso del suo ex-paziente scomparso benché non potesse immaginare che cosa mai l'FBI avrebbe potuto trovare.

La donna delle pulizie in questione era nella clinica, ma alle domande della squadra se si fosse accorta di qualcosa pulendo la camera di Charlie, poté solo rispondere con un "no". Un altro vicolo cieco.

Don però non era intenzionato a rinunciare. In un modo o un altro, i sequestratori di Charlie dovevano aver saputo che aveva lasciato la clinica ed era tornato a casa – almeno se, come credevano, il rapimento di Charlie aveva a che fare con il suo incarico in autunno. E in questo non dovevano sbagliarsi, semplicemente non dovevano...

«Abbiamo bisogno delle cartelle personali di tutti i suoi collaboratori, Signora Heydrich».

E con questa richiesta era giunto il momento in cui il capo della clinica non era più pronta a collaborare. «Con quale giustificazione?» chiese prontamente.

«Abbiamo il forte sospetto che la vittima di rapimento sia stata sorvegliata qui e se non è successo con mezzi tecnici, forse allora si sono serviti di uno dei suoi collaboratori».

«Lo credete voi».

«Per favore, Signora Heydrich» intervenne Megan. Sapeva che con i pochi indizi che avevano avrebbero fatto fatica ad ottenere un mandato di perquisizione, ma sapeva altrettanto bene che Don non si avrebbe dato per vinto. E benché fosse difficile ammetterlo, non avevano abbastanza tracce per continuare. «Tratteremo i documenti con discrezione. Se i suoi collaboratori non risulteranno implicati, non avranno nulla da temere».

La Signora Heydrich non sembrava ancora convinta. «Questo lo dite ora» obiettò. «E la settimana prossima tutti i fascicoli saranno accessibili ad ogni agenzia senza problemi». Esitò e poi sembrò prendere una decisione. «Datemi un ordine giudiziario e io vi darò tutto».

«Il problema, Signora Heydrich, è questo» prese parola Colby, «per quando lo otterremo potrebbe essere troppo tardi. Al momento, Charles Eppes è considerato scomparso da cinque giorni. Ogni minuto potrebbe salvargli la vita».

Si poteva vedere che la Signora Heydrich stava lottando con se stessa. Come capo, non aveva molto contatto con i pazienti, ma quelli che risiedevano lì, li conosceva almeno di nome. E anche se non c'erano casi di routine, il caso di Michael era stato particolarmente fuori dagli schemi. Prima le circostanze misteriose circa il modo in cui era arrivato da loro, poi le circostanze altrettanto misteriose su come li aveva lasciati... E adesso, era scomparso di nuovo. Era difficile da comprendere. E lei, come capo della clinica di cui era stato paziente poco prima di scomparire, non aveva una certa responsabilità? Soprattutto perché era possibile che uno dei suoi collaboratori sapesse qualcosa. Lei era ben lungi dal mettere la mano sul fuoco per ogni di loro; semplicemente aveva poco conoscenza del personale. E tra di loro c'erano anche quelli che lavoravano solo occasionalmente lì, aiutanti – come poteva essere certa che non avessero qualcosa a che fare con la scomparsa del giovane uomo?

Deglutì. «Va bene. Ma tratterete gli atti con discrezione!»

«Ovviamente».

 

- - -

 

Charlie si sentiva avvilito. Voleva solo dormire, preferibilmente nel suo letto, ma si sarebbe accontentato anche del materasso sottile nella sua cella. Gli bastava poter fuggire nel sonno e nella solitudine. Perché i suoi incubi in quel momento gli sembravano migliori di quella situazione. Almeno poteva svegliarsi dagli incubi.

Lì, invece, non poteva nemmeno addormentarsi. Non sapeva per quanto tempo lo stavano già tenendo sveglio, ma non potevano essere più di tre o quattro giorni, anche se gli sembrava un'eternità. Gli interrogatori cambiavano, ma gli interrogativi rimanevano sempre gli stessi, ancora e ancora... “Confessa che è un terrorista?”, “Quanti attentati ha già commesso?”, “Chi sono i suoi complici?”, “Ci dia i loro nomi!”, “Come si chiamano i suoi...”.

Charlie si era appena appisolato quando un colpo lo fece sussultare. Levò la testa per alcuni centimetri e sotto le palpebre gravi distinse vagamente una mano piatta sul tavolo, ma non poteva nemmeno vedere a quale terrorista della CIA toccava di interrogarlo in quel momento.

«Come si chiamano i suoi complici? Risponda!».

«Non lo so» mormorò Charlie, debole. Era stanco, incredibilmente stanco...

«Non menta!»

Charlie trasalì, ma le sue palpebre rimasero ferme, tranne che per una fessura piccolissima. Erano talmente pesanti e lui era semplicemente così stanco...

«Ci da i loro nomi!»

«Non so niente...»

Contro la sua volontà, gli salirono le lacrime: premevano sui suoi occhi e al di fuori, per scivolare lungo le sue guance. Non voleva piangere, davvero non voleva, ma era talmente stanco...

«I nomi!»

Le lacrime scesero più veloci. Perché avrebbe dovuto impedirlo? Non ce l'avrebbe fatta comunque. Era talmente stanco...

«Dobbiamo farle del male, professore? Lo vuole? Dobbiamo farle male?»

«Non so niente...»

Potevano colpirlo. Potevano fare di lui qualunque cosa volevano. Lui voleva solo dormire, dormire, voleva calma...

«Possiamo devastarla se non ci aiuterà!»

Potevano, potevano fare qualunque cosa volevano. Non era importante. Niente non era più importante. A Charlie sembrava tutto uguale.

Come da lontano, sentì la sua testa abbassarsi sul petto. Nello stesso momento sentì la paura di venir spaventato da un rumore forte o di venir trascinato in piedi o di venir sgridato con delle grida. Ma non successe niente e diventò un po' più calmo. Era stanco, talmente stanco...

Praticamente nel suo subconscio, sentì un click piano, ma non ci badò. E poi una voce, una voce che, in confronto alle altre, era talmente dolce che Charlie era quasi sicuro che fosse già scivolato nel regno dei sogni.

«Ecco, professore. Sembra esser stanco, molto stanco. E noi abbiamo ben voglia di lasciarla dormire. Ma anche noi vogliamo dormire in pace. E potremo farlo solo quando lei ci avrà assicurato il suo aiuto».

Charlie aveva appena ascoltato. Non gli importava comunque.

«Voglio che adesso lei risponda alla mia domanda obbligatoria: farà i calcoli che le sottoporremo? Dica "sì" se acconsente».

Charlie non sapeva molto bene che cosa stava facendo, non sapeva di che cosa si trattava, voleva semplicemente dormire, tentare di dare un colpo al cerchio e uno alla botte perché lo lasciassero semplicemente in pace.

«Sì».

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Capitolo 32
*** Senza scelta ***


Grazie per le recensioni e buon divertimento!
 




32. Senza scelta
 

You’re obsessed with all my secrets.
You always make me cry.
You seem to wanna hurt me,
No matter what I do.
I’m telling just a couple,
But somehow it gets to you.
(Lene Marlin, Sitting Down Here)
 

Charlie ci mise un po’ ad essere abbastanza sveglio da capire che erano di nuovo venuti nella sua cella e gli stavano gridando degli ordini. Si mise a sedere il più velocemente possibile, ma non abbastanza per i suoi avversari.

«Dai, sbrigati!»

Charlie si alzò, si lasciò tirare in piedi, trascinare fuori: si lasciava fare di tutto. Era stanco, poteva appena tenere gli occhi aperti. Non era peggio di… era stato ieri? Non lo sapeva, aveva perso ogni senso d’orientamento. A giudicare da come si sentiva poteva aver dormito per un'ora o per una settimana: tutto era possibile. Comunque il suo cervello era di nuovo moderatamente attivo, ma il suo corpo rimaneva completamente esausto.

Quando si sedette di nuovo sulla sedia, avrebbe potuto addormentarsi all’istante, se non ci fosse stato Rosenthal.

«Buongiorno, dottore. Suppongo che non abbia nulla in contrario se cominciamo subito col lavoro. Vogliamo solo chiarire brevemente le nostre condizioni contrattuali».

Pian piano, Charlie realizzò che non aveva idea di cosa Rosenthal stesse parlando, ma lo lasciò continuare.

«Saremo noi a stabilire quando sarà terminato il suo incarico. Fino ad allora, lei, sotto la nostra supervisione, lavorerà ai progetti che le daremo. Avrà contatto col mondo esterno solo quando noi glielo permetteremo. Non sarà retribuito, ma riceverà cibo e alloggio gratuito. In compenso, il governo accetterà di non muovere alcuna accusa contro lei riguardo le sue attività terroristiche».

Anche se Charlie fosse stato più sveglio probabilmente non avrebbe trovato parole da dire. I suoi rapitori potevano davvero essere così sfacciati? Potevano, dopo tutti i suoi rifiuti, veramente credere che sarebbero riusciti a farlo cooperare con una tattica simile, cercando di coglierlo di sorpresa?

«Scordatevelo».

Solo un istante più tardi gli venne in mente che sarebbe stato opportuno mantenere un tono più cortese con le persone nelle cui mani si trovava, ma le parole erano già fuori. Non dovette attendere a lungo la reazione: le sopracciglia di Rosenthal si restrinsero.

«Che cosa intende dire, Dottor Eppes?»

«Dico che non vi aiuterò. Ve l'ho già detto». Innumerabili volte, aggiunse nella sua testa con una traccia di disperazione.

Rosenthal scosse il capo. Le sue fattezze erano pietrificate e Charlie sentì di nuovo brividi lungo la schiena. «Ci ha dato la sua parola, Dottor Eppes. Si è impegnato a collaborare con il governo».

Charlie era convinto che fosse un'altra delle loro bugie per renderlo insicuro. E lui non avrebbe fatto loro un simile piacere... almeno non avrebbe voluto farlo. «Non è vero».

«Non menta, dottore» lo redarguì Rosenthal, e suonava talmente serio e credibile che Charlie non osò contraddirlo di nuovo.

L’uomo allungò la mano verso un registratore a nastro sul tavolo e premette un bottone. Fece clic; il suono svegliò qualcosa nella memoria di Charlie.

«Ecco, professore. Sembra esser stanco, molto stanco. E noi abbiamo ben voglia di lasciarla dormire. Ma anche noi vogliamo dormire in pace. E potremo farlo solo quando lei ci avrà assicurato il suo aiuto. Voglio che adesso lei risponda alla mia domanda obbligatoria: farà i calcoli che le sottoporremo? Dica "sì" se acconsente».

Passarono solo pochi istanti prima che Charlie udisse la sua voce: «Sì».

Charlie respirava rapidamente. Aveva avuto uno strano presentimento su cosa sarebbe arrivato, quale risposta avrebbe pronunciato, ma aveva pensato che l'avesse solo sognato o immaginato, come un déjà vu. Invece l'aveva detto. Lui, proprio lui l'aveva detto: in realtà, aveva accettato l'incarico. Ricordava appena la conversazione, era stato talmente stanco, ma sapeva che aveva avuto luogo, che non era uno dei loro trucchi.

«Questo è un contratto vincolante, Dottor Eppes. Lei ci ha promesso la sua collaborazione. Se rompe il contratto sarà passibile di pena. Un altro reato che si aggiungerà a quelli che già gravano su di lei».

Charlie cominciò ad accaldarsi. Doveva fuggire da lì. Doveva riflettere. Doveva recuperare la calma.

«Allora, Dottor Eppes? Con questo, la faccenda è chiara, giusto? Ha accettato l'incarico. A lavoro».

Con questo, Rosenthal si alzò. Charlie rimase seduto. Almeno finché degli uomini non lo trascinarono brutalmente per omeri fuori dalla stanza.

Charlie pensò prima che lo stessero portando di nuovo nella sua cella, ma i tre uomini si fermarono davanti ad un'altra porta e l'aprirono.

«Questo, dottore, sarà il suo nuovo posto di lavoro. Vi manderò subito uno dei nostri tecnici che l'aiuterà a familiarizzare con tutto. Non faccia scherzi, comunque non avrà alcuna chance».

Charlie credette che era giunto il momento di mostrare la sua reticenza con un po’ più di forza. «Non lavorerò per voi».

«Vuole violare il contratto?»

Charlie non rispose subito. Il suo cuore batteva veloce. Se avesse detto "sì" in quel momento, se avesse violato il contratto orale, avrebbe davvero commesso un crimine. E a quel punto i terroristi l'avrebbero davvero tenuto in pugno.

Dall'altro lato, però, lo tenevano in pungo già da tanto tempo. E se avesse eseguito i loro ordini, la sua illegalità non si sarebbe limitata alla violazione di un contratto.

«Sì, lo voglio» rispose quindi Charlie, però non poté evitare il tremolo della sua voce. Questo ruolo non gli si addiceva affatto. Stava agendo secondo il suo senso morale, ma completamente contro il suo istinto di sopravvivenza. «Non lavorerò per voi». L'aveva detto talmente tante volte fino ad allora che stava per aggiungere un "e adesso basta" prima di accorgersi che non avrebbe dovuto mostrare ai suoi rapitori una simile mancanza di prospettive per i loro progetti con tanta chiarezza.

- - -

Mentre David e Colby controllavano gli atti cercando delle irregolarità e tentando di trovare informazioni sui conti di alcuni di loro, Don e Megan si stavano occupando di interrogare il personale. Ha fatto caso a qualcuno sospetto negli ultimi sei mesi? Uno dei suoi colleghi ha mostrato un improvviso interesse per un paziente in particolare? Le risposte di solito non li aiutavano. Di tanto in tanto qualche infermiere sembrava dare loro un paio di informazioni rilevanti, ma nella verifica si rivelavano puntualmente un buco nell’acqua.

Per tutto il fine settimana furono occupati con il personale senza però trovare una qualsiasi informazione che fosse rilevante. Avevano cominciato ad interrogare quelli che erano in servizio in quel momento ed nel pomeriggio della domenica proseguirono andando ai domicili degli altri collaboratori della clinica.

Sabato sera, Colby aveva ipotizzato che qualcuno aveva potuto hackerare dall’esterno i computer della clinica e avere accesso a tutti i dati. Esaminarono questa traccia con diligenza, ma scoprirono che la clinica aveva un sistema interno e che nessuno computer era collegato ad internet o ad un’altra rete esterna; in ogni caso non c'era alcun indizio che qualcuno non autorizzato si fosse procurato i dati dei pazienti o altre informazioni dai computer.

Megan infine aveva proposto di dare un’occhiata più approfondita alle persone che avevano lavorato in clinica durante il soggiorno di Charlie. E fu a quel punto che trovarono qualcosa: c'era un infermiere, Jonathan Taylor, che aveva cominciato poco dopo il ricovero di Charlie e che si era licenziato all'inizio dello scorso mese, un tempo di lavoro davvero breve con date d'inizio e di fine sospette. Quando però approfondirono le ragioni di quella stranezza, la cosa fu ovvia: sua moglie aveva trovato un nuovo lavoro ben pagato nell'area e durante il mese di settembre dello scorso anno si erano trasferiti. Suo marito aveva trovato un nuovo lavoro solo ad aprile e fino ad allora era, per un periodo di transizione, stato impiegato nella clinica. Naturalmente lo avevano sottoposto ad un controllo accurato, ma non avevano trovato niente. Taylor sembrava avere la coscienza pulita e dunque essere un altro vicolo cieco.

Intanto, era lunedì e non avevano ancora fatto un singolo passo in avanti. La speranza era diminuita sempre più, ma non aveva ancora raggiunto il punto zero. Non avevano ancora controllato tutti, c'era ancora la possibilità di trovare qualcuno, c'erano ancora delle persone potenzialmente sospette.

Per esempio Doris Conrad. Prossima ai trent’anni, impiegata lì da già otto, sembrava poco appariscente e forse un po' nervosa mentre si trovava faccia a faccia con due agenti federali. Era poco dopo le cinque del pomeriggio; aveva appena terminato il suo turno di lavoro ed aveva acconsentito a rimanere per un altro po' per rispondere alle domande dei due agenti della California.

«Signora Conrad» cominciò Megan, «ricorda per caso un paziente che soffriva di amnesia di nome Michael che è stato curato qui fino a metà aprile?»

Olà, pensò Don fra di sé e per la prima volta dopo ore fu completamente concentrato. Perché era sicuro che Doris Conrad aveva spalancato appena un po' gli occhi. Cercò comunque di non mostrare il suo interesse. Se la donna sapeva o cercava di nascondere qualcosa, non voleva intimorirla.

Dopo un'esitazione molto rivelante rispose: «Sì».

Anche a Megan non era sfuggito il nervosismo anormale della donna, ma neanche lei lo mostrava. «Sa che questo paziente è scomparso una settimana fa?»

Gli occhi si allargarono ancora di più e i due agenti potevano vedere che la donna deglutire. «No».

«Ne sa qualcosa?» chiese Don energicamente.

Megan gli diede un breve sguardo. Poteva comprendere l'impazienza di Don, ma se metteva paura alla testimone, questa avrebbe probabilmente smesso di parlare del tutto.

«Io... no, non direttamente».

Non era difficile distinguere che la Signora Conrad avrebbe preferito essere in tutt'altro posto in quel momento. Megan continuò con un tono che – almeno sperava – potesse calmare la donna almeno un po'. «E indirettamente, Signora Conrad? Per favore, deve comprendere che la sua deposizione potrebbe aver un'importanza enorme per noi. Supponiamo che... Michael sia stato sequestrato. Se sa qualsiasi cosa, non importa quanto insignificante la trovi, per favore, ce la dica. Possiamo anche tacere il suo nome se lo preferisce, ma deve dirci che cosa sa. Forse uno dei suoi colleghi ha dimostrato un aumentato interesse per Michael?»

La Signora Conrad tacque. A lungo. Megan poteva vedere che Don stava per far nuova pressione sulla testimone da un momento all’altro e anche lei dovette contenersi per non intimidire la donna tramite altre domande. Tutti e due sapevano benissimo che adesso dovevano essere pazienti, per quanto difficile fosse.

«Sì» rispose l'infermiera infine. «Una mia amica. Anna Silverstein».

Don dovette controllarsi con forza per non alzarsi in piedi immediatamente ed andare a trovare quell'Anna Silverstein a chiederle che cosa ne avesse fatto di Charlie. Invece chiese: «Dove possiamo trovarla? E in che senso ha dimostrato interesse per lui?»

Di nuovo la donna esitò, ma di nuovo la sua compassione per la vittima di sequestro, il suo paziente di una volta, sembrò aver il sopravvento. «Mi ha chiesto d'informazioni su di lui» rispose. «Anna ha smesso lavorare qui già da due mesi e da allora mi ha chiamato ogni settimana per chiedere come stesse Michael. Voleva essere sempre al corrente su di lui. Un sabato, due mesi fa, l'ho chiamata per dirle che era ritornato a casa. Da allora non ho più saputo niente di lei».

Il cuore di Don batteva con una tale velocità che poteva appena sopportare. Quella era una pista, davvero una pista! «Sa perché la sua amica fosse talmente interessata?»

«Non direttamente. Certo, gliel'ho chiesto, ma ha sempre evitato di rispondermi. Ma credo che avesse qualcosa da fare con dei soldi. Voleva andarsene da qualche tempo e da quando Michael è stato ricoverato qui, ha cominciato raccontare di come si sarebbe trasferita a breve perché avrebbe finalmente i soldi per farlo. Ma da dove li avesse presi non l'ha mai detto».

«Ha il suo indirizzo?»

«Sì. Me l'ha dato, per il numero di telefono. Adesso abita a Jackson, Mississippi, ma dovrei consultare la mia agenda per l'indirizzo esatto».

Don annuì e riuscì appena a nascondere la sua agitazione. Quell'Anna Silverstein aveva qualcosa da fare con la scomparsa di Charlie, era così ovvio...

«Controlleremo le sue dichiarazioni, signora Conrad. Purtroppo dobbiamo prenderla in custodia fino ad allora».

Ad un tratto il nervosismo della Signora Conrad si trasformò in orrore. «Deve fare cosa?!»

«Dobbiamo essere sicuri che lei non possa avvertire la sua amica finché non le avremo parlato. La prego di comprenderlo. Naturalmente sarà rimborsata dell’eventuale perdita finanziale causata da questo provvedimento».

«Sì, ma...»

Megan provava quasi pena per lei, ma sapeva che non avrebbe potuto far cambiare idea a Don. Lui non avrebbe rischiato di perdere una pista talmente buona riguardo l’ubicazione di Charlie. «Sarebbe davvero meglio per lei, signora Conrad, se venisse con noi volontariamente. Domani a quest'ora sarà tutto finito».

Doris Conrad sembrava ancora adirata, ma nei suoi occhi Megan poteva vedere che si sarebbe adattata.

- - -

Rosenthal colse l'occasione non appena il suo tecnico passò davanti la porta aperta del suo "ufficio". «Aspetta, Cedric!»

Cedric Patter si voltò e guardò verso lui dall'infisso. «Che c'è?»

«Entra. Chiudi la porta». Patter ubbidì. «Siediti». Rosenthal aspettò finché Patter non fosse seduto prima di continuare: «Come vanno le cose con Wellman?»

Cedric storse la bocca. «Non mi rende di certo le cose facili» rivelò senza esitazione. «Dico, non ho tanto da fare data la situazione attuale, ma davvero non so cosa fare con lui. Era più utile come talpa».

Rosenthal annuì, la faccia truce. «Ha completamente esagerato, quell'idiota».

La squadra intera – non solo quegli cinque che si trovavano nel bunker – era stata, a dir poco, infastidita delle ultime azioni di Clifford Wellman. Il fatto che di fosse lasciato la sua vita alle spalle e fosse fuggito via solo perché avevano dovuto cercare un nuovo nascondiglio… – no, era davvero stato esagerato. Beh', lavorava dall'FBI, proprio come il fratello del professore – ma era un legame del quale gli agenti federali non sapevano niente. No, non ce n'era un dubbio, la reazione di Wellman era stata stupida. E a causa di questo, adesso mancava a loro un informatore interno all'FBI. E a prescindere da quanto la proceduta investigativa sarebbe potuto rimanere segreta – perché il fatto che il fratello di Eppes e l'FBI avrebbero investigato sul caso era, per Rosenthal, chiaro come il sole –, adesso sarebbe potuto essere un problema ottenere le informazioni di cui necessitavano. Faceva sempre comodo loro sapere che cosa sapeva l’avversario. Ma d’altro canto, il rischio che dalle investigazioni dell'FBI sarebbe potuto emergere qualcosa era infinitamente piccolo. Lì sotto, nessuno li avrebbe mai trovati.

«E allora che cosa facciamo col professore?» voleva sapere Patter. «Sta parlando?»

I lineamenti di Rosenthal si oscurarono. «Non ancora. Ma lo sapremo fra poco».

Le sue parole suonavano più ottimistiche di quanto potessero concedersi nella realtà. Era una settimana che il dottore non parlava. Rosenthal era sempre più tentato di passar alla forza fisica, ma in fondo la cosa lo ripugnava. Lui non era un uomo rozzo. E chi sapeva se sarebbero davvero riusciti nell’intento usando metodi più brutali? Perché in fondo, il dottore aveva l'apparenza di uno che si poteva ben distruggere psicologicamente.

Ma anche in questo caso dovevano fare attenzione: il dottore non doveva impazzire ancora una volta. Era davvero un'impresa azzardata; forse era per questo che facevano progressi così lenti.

«Ci deve essere un modo per far pressione su di lui» mormorò Rosenthal, più a sé stesso che al tecnico. «Dobbiamo trovare i suoi punti deboli...»

Cedric tacque per un po'. Ma non era ancora stato dimesso, ragion per cui Rosenthal aspettava ancora che cercasse una soluzione al problema. E in effetti ebbe successo: «L'abbiamo sorvegliato continuamente, no? Non dovrebbe essere difficile trovare una qualsiasi cosa che ci riveli i suoi punti deboli…»

Rosenthal annuì lentamente. «Mica male... Abbiamo ancora le registrazioni delle sue telefonate di allora?»

«Certo». Cedric Patter raramente buttava via qualcosa. E qualche volta questo si era rivelato essere anche un bene, per esempio in quel momento.

«Va bene. Allora cerca di trovare qualcosa. Relazioni con altre persone, il suo passato... Semplicemente fruga ovunque e dimmi quando hai trovato qualcosa».

Patter annuì e se ne andò.

Rosenthal si appoggiò indietro sulla sua sedia girevole, contemplando, pensieroso, il telefono, come se tramite esso potesse guardare il passato. Potevano davvero ritenersi felici del fatto che avevano registrato le telefonate del dottore durante il suo incarico regolare a settembre. Questa sorta di metodo molto spesso si rivelava utile in seguito. Certo, il fatto che non fosse riuscito da solo a fare in modo che il professore collaborare offendeva un po' il suo orgoglio (ma solo perché abbiamo dovuto trattarlo con i guanti, si giustificò con se stesso, ostinato), ma ora aveva il buon presentimento che Cedric gli avesse presentato la soluzione ai loro problemi: si sarebbe risolto tutto oggi o forse domani o dopodomani. E poi avrebbero avuto il dottore finalmente al posto in cui lo volevano: con le spalle al muro.

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Capitolo 33
*** Punti deboli ***


33. Punti deboli

 

Another mother’s breaking, heart just taking over.

And the violence caused silence. We must be mistaken.

It’s the same old team since 1916.

In your head, in your head they’re still fighting

With their tanks and their bombs and their bombs and their guns.

In your head, in your head they are dying.

(The Cranberries, Zombie)

 

«Ne hai bisogno urgentemente?»

Rosenthal guardò in alto. Alla sua porta c'era Cedric Patter e per qualche ragione era un bene vederlo. «Hai trovato qualcosa?»

«Credo di sì. Non ho potuto esaminare le conversazioni in ogni dettaglio per ora, ma penso che il suo migliore amico sia un obiettivo adeguato».

Esitò per un attimo aspettando una prima reazione. Venne: Rosenthal inarcò le sopracciglia. «Sto ascoltando…»

«Si chiama Lawrence Fleinhardt; il professore però lo chiama Larry. Sono colleghi e a quanto pare si conoscono da sempre, non ho ancora approfondito la cosa. Ma a quanto ho capito dalle conversazioni, questo Fleinhardt sembra essere una sorta di figura paterna per Eppes. E' possibile che sbagli, comunque si conoscono benissimo, sono amici da anni e sono molto stretti. Inoltre quel professore probabilmente sarebbe facile da assalire in qualche modo; in ogni caso più facile del fratello, per esempio. E con Fleinhardt colpiremmo il professore probabilmente dove meno se l'aspetta».

Rosenthal annuì. Sembrava un piano promettente. Poteva semplicemente aver fiducia in Patter, soprattutto considerando che gli aveva dato quell'incarico solo il giorno prima. Mancava solo un piano. Ma Rosenthal aveva già un'idea...

 

- - -

 

Mentre Don e Megan erano andati in aereo a Jackson per continuare le loro indagini lì e investigare su Anna Silverstein, David e Colby erano rimasti in Nebraska per continuare a controllare il personale. Avevano considerato più intelligente non puntare tutto su una sola carta, ma lasciare aperte altre piste.

Don e Megan erano atterrati circa da un'ora appena fuori Jackson e adesso si trovavano in una zona poco lontana del centro. Stavano davanti ad una palazzina un po' vecchia ma in buono stato e controllavano i nomi dei campanelli. Alla quarta riga in basso, infatti, c'era "A. Silverstein".

Quando una donna anziana con un sacchetto della spesa vuoto uscì dalla casa, loro entrarono e salirono le scale verso l'appartamento della loro sospetta.

Don e Megan non suonarono finché si furono assicurati che non ci fosse un'altra via d'uscita dall'appartamento eccetto la porta d'ingresso. E siccome l'appartamento si trovava al terzo piano, speravano che quell’Anna Silverstein non sarebbe mai stata così matta da saltare dalla finestra. Se aveva una buona spiegazione e poteva aiutarli alla ricerca per Charlie, non avrebbe avuto una ragione per un atto così disperato.

La porta venne aperta e Megan e Don tesero i loro distintivi verso una trentenne. Don fu un po' sorpreso di vedere due bambini dietro la donna, un ragazzo e una ragazza, di circa dieci anni – Doris Conrad non aveva detto niente che lasciasse pensare che Anna Silverstein avesse dei bambini –, ma fu ancora più sorpreso delle numerose scatole di cartone che si intravedevano, l’una sull’altra. La Signorina Silverstein si stava preparando per fuggire da loro?

«Signorina Silverstein? FBI. Avremmo qualche domanda per lei».

La donna spalancò gli occhi. «FBI?» Ci mise un po' prima che il suo cervello sembrasse di nuovo pronto a connettere. «Un attimo». Si girò verso i suoi bambini. «Piccoli, perché non andate a giocare in camera vostra? La mamma deve parlare da sola con i signori della polizia».

«Ma mamma–» protestò il ragazzo.

«Andate in camera vostra!» strillò la madre con una violenza vistosa. I suoi bambini si ritirarono mettendo il broncio, chiusero la porta dietro di loro con un botto inequivocabile e la donna si girò di nuovo verso gli agenti federali. «Che posso fare per voi?»

«Siamo qui a causa del periodo che ha passato nella Clinica Alessio-di-Roma, signorina Silverstein».

La donna deglutì e si voltò indietro verso la porta del dormitorio. «Non sono la signorina Silverstein» disse a bassa voce, fece un passo verso gli agenti e si tirò dietro la porta, stringendola fino ad una fessura alle sue spalle.

Don inarcò le sopracciglia. Lui e Megan si guardarono. «E allora chi è lei?»

«Judy Spark. Anna Silverstein abitava qui prima di me».

«Ma sul citofono c’è scritto Silverstein».

«Non l'ho ancora cambiato. Ci siamo trasferiti solo ieri».

«Possiamo vedere la sua carta d'identità?»

Senza dire altro si ritirò nel corridoio. Don e Megan le tennero d'occhio e fecero attenzione che la porta fra loro rimanesse aperta.

«Ecco» disse la donna infine tendendo loro una carta d'identità che recava, in modo inconfondibile, una sua foto. E il nome accanto era Judy Spark, non Anna Silverstein.

«Sa dove possiamo trovare la signorina Silverstein?» continuò a chiedere Don. Non aveva ancora perso parte della sua diffidenza. La carta d'identità poteva essere falsificata e comunque il comportamento sospettoso di questa donna gli dava da pensare.

Di nuovo lei lanciò uno sguardo sulla porta dietro di sé prima di rispondere bisbigliando: «E' morta. E' stata uccisa».

Don e Megan si guardarono. Megan aveva aggrottato la fronte. «Come lo sa?»

«La signora Marroway, dell’appartamento di fronte, me l'ha raccontato. Non lo sapevo, altrimenti non avrei mai preso questo posto! Ma abbiamo fatto tutto così in fretta, avevamo urgentemente bisogno di un appartamento e poi ho saputo per caso che qui ce n’era uno a buon mercato... non ho nemmeno pensato a fare altre domande! E adesso... è talmente... Sono così felice che i bambini non ne sappiano nulla; è già abbastanza difficile così. Posso dirvelo, sarò felice quando potrò abbandonare questo posto!»

«Quando è stata uccisa?» chiese Don senza far attenzione alle chiacchiere della donna.

«Lunedì scorso, il ventitré».

Don si allarmò immediatamente. Charlie era scomparso proprio quel giorno.

Non ebbe tempo però per collegare i due eventi logicamente, perché Judy Spark continuò: «I vicini hanno detto che è stata pugnalata, nella cucina. Riesco a malapena a mangiare lì. Non si vede più niente, ma quando immagino che giusto al nostro tavolo da cucina un tizio raccapricciante l'ha pugnalato semplicemente così...»

Ammutolì e così non poté sfuggire loro che dietro alla porta chiusa che dava nella camera dei bambini, qualcosa sembrava esser caduto a terra.

Solo in quel momento si accorsero di quanto insolitamente silenzioso fosse l’appartamento. Nella camera dietro la porta c’erano due bambini di dieci anni, ma finora nemmeno il suono più piccolo ne era emerso.

Judy Spark sbarrò gli occhi, si girò repentinamente e aprì la porta della stanza dei bambini. Guardò i due paia d'occhi che erano pieni d'orrore quanto i suoi. Sul pavimento rotolavano due bicchierini. Don poteva ben immaginare cos'era successo; era solito farlo qualche volta anche lui da bambino. I bambini dovevano aver origliato la conversazione mettendo i bicchieri come amplificatori contro la porta. Un metodo d'intercettazione semplice ma molto efficiente.

Don sentì lo sguardo di Megan su di sé e capì. Dovevano andarsene adesso. La signora Spark non sembrava poterli aiutare, tanto più che probabilmente era altrove con i suoi pensieri.

Non avevano fatto progressi. L'unica cosa che sembravano aver ottenuto erano gli incubi di due bambini su una donna senza faccia che nella loro cucina, sotto il loro tetto, al tavolo dove finora avevano solito mangiare, veniva pugnalata al petto.

 

- - -

 

Charlie ne era semplicemente stufo. Voleva andarsene da lì, voleva andare a casa, voleva vedere i suoi amici e la sua famiglia.

«Ha già progettato altri attentati?» Questa volta non era seduto di fronte a Rosenthal, ma ad altri due uomini che anche durante i giorni passati l'avevano interrogato qualche volta, un biondo sulla trentina e un bruno che aveva superato i quaranta.

«No, non ho progettato altri attentati» rispose, esausto. «Voi sapete che sono innocente. Lasciatemi andare, per favore».

«E' un terrorista» gli rammentò il bruno.

«Non lo sono e lei lo sa molto bene. Conosco i miei diritti. Non potete fare questo».

«Eppure lo facciamo».

Charlie deglutì. Non aveva neanche osato sperare di influenzare i terroristi della CIA con le sue parole, ma il fatto che adesso stessero cominciando a smettere di far mistero dell'illegalità dei loro atti a lui faceva correre brividi lungo la schiena. Perché lo facevano? Aveva già altri progetti per lui? Avevano finalmente deciso cosa fare di lui?

L'avrebbero ucciso?

La gola di Charlie fu immediatamente secca – una reazione tremendamente controproducente. Perché adesso doveva difendersi, più che mai: doveva impedire loro di andare fino in fondo.

«Sicuramente... mi staranno cercando».

Il biondo fece apparire un sogghigno derisorio sulle sue labbra. «Chi la sta cercando? Non penserà sul serio di avere qualche amico lì fuori!»

Charlie istintivamente pensò a Larry, ad Amita, suo padre, Don e la sua squadra. Sì, aveva degli amici fuori, ne era certo. E probabilmente lo stavano già cercando.

«Sì. Mi cercheranno».

«Ah sì, certo. Però si è accorto che la cosa potrebbe diventare piuttosto rischiosa per la salute dei suoi amici, no?» Il biondo si sporse un po' in avanti abbassando la sua voce e facendo rabbrividire Charlie. «Suo fratello l'ha già provato». Charlie deglutì. A quell’uomo di certo non era sfuggito quanto lui fosse problematico. «Vorrebbe che rivivesse quell’esperienza?»

La respirazione di Charlie diventò più veloce. No, non avrebbero osato farlo, non avrebbero... vero? Aveva già pensato, sperato una volta che non sarebbero arrivati fino a quel punto, che non avrebbero fatto niente a loro, e si era sbagliato.

Don...

No, Don non sarebbe dovuto venire a cercarlo. No, no, no. L'aveva già desiderato una volta e sperato e l'aveva detto ai suoi avversari. E Don era arrivato ed era morto ed era la colpa sua. E lo sapeva.

«Beh, Dottore? Allora che succederà? Chi altro la cercherà adesso? Uno è già morto, quanti amici fedeli ha ancora?»

Immagini dei loro visi emersero dentro Chralie, di suo padre, di Amita, di Larry, di Megan, Colby e David e di Don, sempre di nuovo di Don...

«Nessuno» rispose a voce aspra. Il suo campo visivo era sfocato, ma almeno quei volti rimanevano distinti. No, non aveva più nessuno che lo avrebbe cercato, non poteva più avere nessuno. Era già assai difficile con Don... No, non conosceva più nessuno lì fuori.

E neanche Don. Non conosceva Don. Non aveva un fratello. Non poteva averne uno, perché altrimenti tutto questo sarebbe stato insopportabile. No, non conosceva Don. La morte di suo fratello non era colpa sua perché non aveva nessun fratello.

Charlie si sentiva meschino, profondamente meschino. Ma si diceva che non stava tradendo le persone che per lui erano importanti fintantoché lui stesso sapeva la verità. Stava solo tentando di proteggerli. Doveva solo fingere con gli altri di non avere più nessuno lì fuori. E forse un pochettino anche con se stesso per non farsi spezzare dal pensiero della morte di Don...

No, nell'intimo del suo cuore Charlie avrebbe sempre saputo che non era da solo. Non si sarebbe mai scordato di loro.

Tremava. Quello... ecco com’era andata! Quella doveva essere stata la ragione per cui non aveva potuto ricordarli. Non aveva voluto qualcos'altro. Li aveva tolti dalla sua vita. Li aveva rinnegati, e questo in un modo talmente profondo che li aveva cancellati completamente dalla sua coscienza.

Era stato un mezzo di protezione, un tipo di protezione doppio, come si stava accorgendo ora, che avrebbe difeso loro e lui. Perché se taceva ai suoi avversari, loro non avrebbero più tentato di eliminare i suoi potenziali salvatori. Ed era stata una protezione per sé stesso perché non avrebbe potuto sopportare di metterli in pericolo. E non avrebbe potuto sopportare la colpa della morte di suo fratello.

Il problema era che voleva che Don lo cercasse. Era come se non avesse imparato niente da tutti gli incubi, sia veri sia immaginari. Perché che cosa sarebbe successo se Don fosse di nuovo venuto a liberarlo? L'avrebbero di nuovo aspettato, gli avrebbero teso una trappola, l'avrebbero ucciso, solo a causa sua, tutto solo a causa sua...

Ma non c’era un "di nuovo", non doveva dimenticarlo, doveva mantenerlo fisso nella testa! All'epoca, Don non era venuto, non l'avevano aspettato, non gli avevano teso una trappola, non l'avevano ucciso. Tutto questo era successo solo nella sua testa. Don era vivo. Don era lì fuori. Don poteva ancora trovarlo.

Ma chi gli diceva che non l'avrebbero ucciso questa volta...? Anche se l'ultima volta... E comunque l'ultima volta c'era stato un cadavere. Qualcuno era morto. Che fosse stato ucciso solo per farlo collaborare con loro oppure se l'estraneo, il finto Don, fosse morto da prima – Charlie non lo sapeva. Ma sapeva che – chiunque fosse il morto – lo avevano umiliato anche dopo la sua morte. Avevano disonorato il suo corpo, l'avevano privato della sua dignità. L'avevano maltrattato per assicurarsi l’aiuto di Charlie e infine ci erano riusciti. Erano senza scrupoli.

E Charlie era stato uno di loro.

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Capitolo 34
*** Uomini e macchine ***


Grazie a BlackCobra :)



34. Uomini e macchine

 

There’s a road I have to follow, a place I have to go.

Well, no one told me just how to get there,

but when I get there I’ll know

cause I’m taking it.

(Whitney Houston, Step by Step)

 

Juan Juarez fischiò quando vide la macchina. Una Ford Modello A del 1931. Che bella. Per ora.

Non era stato difficile scoprire quale macchina appartenesse al bersaglio. Aveva ricevuto una foto e le indicazioni sul suo posto di lavoro e una copia del conto d'acquisto della macchina dai suoi committenti. Non c'erano informazioni inaccessibili. Aveva solo dovuto aspettare finché la macchina interessata non fosse passata a velocità da lumaca e in modo guardingo nel parcheggio dell'università.

Juan osservò il bersaglio scendere dall'automobile ed entrare in università dopo alcune brevi conversazioni con gli studenti. Aspettò ancora un po' per essere certo che le lezioni fossero cominciate per la maggior parte della gente. Fortunatamente era mattina presto, quelle erano le prime lezioni a cominciare e così non c'era quasi nessuno tranne gli studenti e i professori che avevano i corsi. E se c’erano altri, si trovavano in biblioteca e non nel campus o in una zona da cui potessero vedere l'auto d'epoca. Fortunatamente la macchina era un po' distante dal centro del campus.

Juan aveva riflettuto su se fosse meglio colpire nel trambusto o quando non c'era nessuno. Perché nel secondo caso naturalmente avrebbe attirato l'attenzione delle poche persone in strada ancora di più. Però una Ford Modello A del 1931 attirava l'attenzione anche nel trambusto, soprattutto quando una persona armeggiava intorno a essa senza essere ovviamente autorizzata.

Dunque avrebbe eseguito la sua missione in quel momento, lì, dove nessuno lo avrebbe visto. Si guardò intorno casualmente per un'ultima volta e poi cominciò il suo lavoro.

 

- - -

 

«Okay, grazie, David». Megan attaccò e rivolse la sua attenzione ai fascicoli sul suo grembo.

Nonostante Don, accanto a lei sul sedile del conducente, si fosse concentrato molto poco sul traffico pur di comprendere ogni parola almeno della parte di dialogo che poteva sentire e perciò fosse certo di conoscere già la risposta, fece lo stesso la domanda. «Hanno trovato qualcosa?»

Megan scosse la testa che continuava a tenere abbassata sui fascicoli.

«No. O meglio, ci sono alcuni infermieri che si sono comportati in modo sospetto, ma tranne un piccolo spacciatore di droga non hanno trovato niente».

Don prese fiato, ma Megan non gli lasciò la parola: «E no, Don, lo spacciatore di droga non ha nulla a che fare con la scomparsa di Charlie».

Don tacque per qualche attimo. «E i fascicoli?» chiese poi. Lasciando l’appartamento che una volta era stato di Anna Silverstein erano andati direttamente alla questura competente e lì avevano, dopo una certa resistenza e più di una chiamata tra polizia e FBI, finalmente ricevuto qualche copia degli atti investigativi sull'omicidio della Silverstein. Il caso era ancora aperto per cui i due agenti dell’FBI erano rimasti alquanto sorpresi dal fatto che l'appartamento fosse stato sbloccato così velocemente. Ma forse avevano semplicemente abbandonato ogni speranza di trovare nuove tracce.

La sera tardi avevano preso una stanza in un motel di poco conto; era stata la soluzione più semplice e comunque sarebbe stata una cosa temporanea.

Avevano cercato di analizzare per bene il caso, ma alla fine tutti e due avevano capito di essere troppo stanchi per concentrarsi e così avevano deciso di rimandare tutto al giorno dopo.

Ora si stavano dirigendo verso l’abitazione del ragazzo della Silverstein. Non avevano ancora tentato di raggiungere i suoi genitori, ma speravano che non sarebbe stato necessario.

«Ecco», Megan cominciò a riassumere le loro informazioni dell'omicidio. «Anna Silverstein è stata pugnalata lunedì, il 23 aprile, tra le cinque e sei del pomeriggio nella cucina del suo appartamento. È stata trovata dal suo ragazzo che doveva prenderla per un appuntamento alle sette di sera. È stato lui a chiamare la polizia. L'autopsia ha confermato che l’arma del delitto è un coltello da cucina appartenente alla vittima, come sospettato. Non hanno trovato impronte digitali sul coltello e nessuna traccia del colpevole».

«I colleghi hanno qualche sospetto?»

Megan sfogliò i documenti. «No... Sembra che abbiano interrogato il ragazzo a lungo, ma aveva un alibi e non ha fornito indizi utili alle indagini. Oltre a questo brancolano completamente nel buio. Non conoscono neanche il movente. Per quanto il suo portafoglio sia stato rubato, gli estratti conto fanno pensare che non si sia trattato di più di cento dollari. Per il resto, niente. L'appartamento non è stato rovistato, non c'era segno di violenza sessuale e il suo ragazzo e i suoi genitori dicono che non aveva degli nemici. Il dipartimento di polizia non può sospettare di altri che di uno scassinatore non identificato».

«Deve aver qualcosa da fare con Charlie» disse Don a bassa voce.

Megan non disse niente. Aveva paura che Don si stesse lasciando trasportare troppo da quella faccenda, ma allo stesso tempo non poteva che dargli ragione: sembrava davvero che Anna Silverstein fosse stata uccisa a causa del suo presunto resoconto ai sequestratori di Charlie. Perché un omicidio per rapina era – malgrado il portafoglio rubato – estremamente improbabile: sembrava piuttosto essere una manovra diversiva. Naturalmente era possibile che la Silverstein avesse semplicemente sorpreso uno scassinatore che poi aveva perso il controllo, ma contro questa teoria parlavano sia l'area residenziale non molto cara e allo stesso tempo non molto accessibile della vittima sia il fatto che lo scassinatore sembrava non aver cercato niente nell'appartamento.

Eppure era molto sospetto che entrambi i crimini – l'omicidio di Anna Silverstein e il sequestro di Charlie – avessero avuto luogo proprio lo stesso giorno, sebbene a centinaia di chilometri di distanza. Questo diventava ancora più sospetto tenendo conto che, secondo la loro testimone, Anna aveva sorvegliato Charlie nella clinica. La domanda era: perché l'aveva fatto? Qual era il suo rapporto con i sequestratori di Charlie? Era solo una coincidenza? Era estremamente improbabile. Ma che altro c’era dietro? Anna Silverstein apparteneva alla cerchia dei sequestratori? Ma se era così, perché era stata uccisa? C'erano delle rivalità tra i sequestratori? Oppure lei non era stata un membro effettivo, ma solo una spia pagata? Oppure aveva trovato delle informazioni sui sequestratori di Charlie e li aveva ricattati?

E le risposte avrebbero aiutato loro a trovare Charlie?

 

Finalmente arrivarono all'appartamento del ragazzo di Anna, un certo Pete Thorpe. Un uomo assai attraente di 29 anni (almeno il fascicolo dell'omicidio della sua ragazza recava quest'età) aprì loro la porta. Era di altezza media, allenato, aveva i capelli un po' troppo lunghi e non del tutto alla moda, proprio come il suo appartamento. Dopo essersi identificati, l’uomo li guidò per l'appartamento nel quale – tenuto conto dell'ordine e l'arredamento – viveva da solo e offrì loro di sedersi sul suo divano nero, fin troppo adatto ad uno scapolo.

«Signor Thorpe, siamo qui perché speriamo possa aiutarci nel caso di sequestro di Charles Eppes» cominciò Don. Osservò l'uomo di fronte con concentrazione mentre diceva il nome di suo fratello. Thorpe mostrava un qualche tipo di reazione? Conosceva il nome? Anna Silverstein gli aveva raccontato qualcosa su di lui? Se l'aveva fatto, aveva usato il nome Charlie oppure quello che la clinica gli aveva dato? Perché finora, Don non aveva potuto trovare alcuna reazione sospetta, ma forse, forse avrebbe avuto più successo a breve.

«Charles – » ripeté Thorpe e sembrava davvero confuso. Ovviamente aveva supposto che la visita dei due agenti federali avesse qualcosa da fare con la morte della sua ragazza. «E come potrei aiutarvi io con questa faccenda?»

«Era uno dei pazienti della sua ragazza. Forse lo conosce anche col nome Michael».

Thorpe sembrava ancora non sapere di che cosa si trattasse. «Mi dispiace... non so di che cosa state parlando».

La cosa peggiore era che Don gli credeva. Thorpe sembrava sincero. A giudicare dall'espressione confusa, non doveva essere un genio, ma non poteva neanche dire che fosse un bugiardo. E questo significava che erano di nuovo arrivati ad un vicolo cieco.

Solo Megan non sembrò darsi per vinta. «Abbiamo scoperto che questo paziente è stato sorvegliato dalla sua ragazza. Le ha mai menzionato qualcosa del genere?»

Thorpe scosse il capo. «No. Non ha mai parlato del suo lavoro di una volta. E ci conoscevamo solo da un mese». A giudicare dall'espressione trasognata dei suoi occhi, quel mese doveva essere stato bellissimo.

«Va bene». Megan si massaggiò la fronte, ma sembrava decisa di non abbandonare la speranza troppo presto. «La sua ragazza ha mai menzionato una qualche... fonte di guadagno?»

Don poteva solo provare ammirazione verso la sua collega. Perché anche se lui non aveva avuto abbastanza sangue freddo per farselo venire in mente, sapeva a che cosa stava mirando Megan: se Anna non aveva detto niente di Charlie o di Michael al suo ragazzo e se lui non ne sapeva niente, era facile supporre che l'infermiera non l'avesse osservato per motivi personali. In questo caso era probabile che avesse ricevuto l'incarico dai sequestratori di Charlie e che in cambio fosse stata pagata. Naturalmente era anche possibile che fosse stata ricattata dai suoi sequestratori oppure che avessero usato un altro mezzo per farle pressione, ma il fatto che sembrava essersi creata una nuova vita in poco tempo faceva piuttosto pensare ai soldi.

Thorpe rifletteva con concentrazione sulla domanda; almeno la sua fronte aggrottatissima ne era un'indicazione distinta. «Beh'» disse, «ha menzionato qualcosa del genere. Qualcosa come il fatto che riceveva dei soldi senza far niente tranne telefonare una volta la settimana. Non l'ho davvero capito e allora le ho chiesto di spiegarsi, ma non so...» ci riflette ancora su. «Non mi ha dato una risposta precisa» notò poi. «Ha semplicemente cambiato il soggetto».

Don era di nuovo in allerta. «Con chi ha fatto queste telefonate? Ha il nome o il numero?»

«No, erano sul suo cellulare».

Se Don ricordava bene, non c'era stata menzione di un cellulare nel rapporto della polizia. «E dove si trova questo cellulare? Da lei? O dai suoi genitori?»

«No, l'ha buttato via; proprio per questo gliel'ho chiesto e poi mi ha raccontato di questa... questa "fonte di guadagno". Ha detto che non aveva più bisogno dei soldi».

«Ha buttato via il cellulare?»

«Ve l'ho appena detto, no?»

Don si morse il labbro inferiore. Riuscì appena a mantenere la sua frustrazione sotto controllo. Un secondo prima avevano una nuova pista, una molto promettente – quel numero avrebbe potuto guidarli direttamente da Charlie – e adesso l'avevano di nuovo persa.

Ma forse... forse la Silverstein era stata abbastanza imprudente da annotare il numero da qualche parte nel suo appartamento? In questo caso avrebbero solo dovuto frugare tra le sue cose. Ci avrebbero messo tempo, sì, ma se c'era solo una minima possibilità di trovare il numero–

«Qual'è il suo numero?» la domanda di Megan interruppe il treno di pensieri di Don.

«Di Anna?»

«Sì. Se ha buttato via il suo cellulare, forse qualcuno l'ha trovato e portato nell'ufficio degli oggetti smarriti o l'ha preso con sé. In ogni caso c'è la possibilità che il numero sia ancora memorizzato».

Don deglutì. Sì, c'era questa possibilità, ma c'era anche la possibilità che il cellulare si trovasse già in una qualche discarica, spento e con la batteria scarica, così da non riuscire più a trasmettere un segnale. Ma dovevano sperare, dovevano sperare...

Thorpe diede loro il numero e si congedarono velocemente. La contatteremo nel caso se ci saranno altre domande. Speravano che non sarebbe stato necessario, che avrebbero finalmente fatto un passo avanti.

 

Quando salirono in macchina, Megan aveva già digitato il numero del cellulare di Anna. I due aspettarono, tesi, nella macchina parcheggiata. Megan non aveva acceso l'altoparlante per non scoraggiare subito la persona all'altro capo della linea, ma Don si era appoggiato così vicino a lei che avrebbe potuto sentire perfettamente la conversazione. Per tutti e due era chiaro che Megan sarebbe stata più adatta a portare avanti la chiamata.

Se poi ci sarebbe stata una conversazione. Era già il quarto squillo. Nessuno risponde, nessuno...

«Sì?»

Il cuore di Don quasi smise di battere per il sollievo. Era la voce di un uomo, bassa e rauca.

«Buongiorno, mi chiamo Megan Reeves. Con chi sto parlando?» disse Megan con il suo tono più affascinante.

Questo però non sembrò aver alcun effetto dall'altra parte. «Harry». La risposta arrivò breve e nonostante tutto piena di diffidenza.

«Harry – e poi?»

«Niente "poi". Per te solo Harry. Che cosa vuoi?»

Megan cercò con grande successo di non lasciarsi confondere dalla sua scortesia. «Vorrei parlare un po' con lei, Harry. Dove si trova attualmente?»

«Che cosa vuoi?» ripeté Harry.

Megan rifletté febbrilmente. Non doveva dire niente che portasse il suo interlocutore a chiudere la chiamata. Finora però sembrava essere stata fortunata: malgrado la sua laconicità, l’uomo non sembrava voler terminare la conversazione. «Vorrei dare una breve occhiata al suo cellulare, Harry, questo è tutto».

La diffidenza divenne maggiore. «Perché? Chi sei?»

Megan si decise per la verità. Almeno parzialmente. «Ho urgente bisogno di un numero che probabilmente è salvato su questo cellulare. Suppongo che l'abbia trovato da qualche parte, giusto?»

«Vuoi riprendertelo?»

«No, Harry, voglio solo dargli un'occhiata. L'ha trovato di recente?»

Una piccola esitazione. Poi: «Sì».

Megan mandò un sospiro di sollievo. «Va bene. Allora potrei venire da lei adesso per guardarlo? Dove si trova attualmente?»

«Nel Parco di Livingston. All'entrata dello zoo».

«Va bene. Per favore, rimanga lì. Saremo da lei in un attimo».

Megan riattaccò. Per un attimo lei e Don si poggiarono contro gli schienali dei sedili prima che la risolutezza avesse di nuovo il sopravvento: in qualche minuto, con una probabilità quasi certa, avrebbero avuto il numero di telefono di uno dei sequestratori di Charlie.

- - -

L’aspetto di Larry era stanco più o meno quanto quello di Amita quando si congedarono davanti alla CalSci. La notte era già calata, ma comunque non vivevano secondo il ritmo di sole e luna da già una settimana. La notte non era neanche un periodo di riposo per loro.

Facevano progressi troppo lenti. L'analisi curvelet richiedeva una quantità enorme di tempo perché le due telecamere di video sorveglianza, quella davanti alla CalSci e quella nel negozio di automobili, mostravano loro dei piexel appena utilizzabili. Nel frattempo avevano dei visi, sì, ma era ancora troppo poco per fare un qualsiasi confronto con le banche-dati.

Malgrado la stanchezza, Larry non riusciva a liberarsi di quella sensazione nervosa che provava se la sua testa non era occupata con processi ed equazioni complicatissimi. E attualmente la sua testa era relativamente vuota e grazie all'aria notturna fresca anche abbastanza chiara da realizzare che non facevano progressi. E che questo non poteva significare nulla di buono per Charlie.

Fermò gli occhi per un attimo. Di nuovo si chiese che cosa sarebbe successo se avessero fallito, se non avessero trovato Charlie. Ma riuscì a bandire la domanda dalla sua coscienza abbastanza velocemente da non permettersi, fortunatamente, di darsi una risposta.

Si sedette nella sua macchina tentando di non lasciarsi sprofondare troppo nel cuscino molle. Era abbastanza stanco e doveva ancora fare la via per casa in sicurezza.

Di solito non guidava mai la macchina – o, come la chiamava lui, "l'opera d'arte" – a una velocità eccessiva; solo lungo la strada che scendeva la piccola collina dove si trovava la CalSci aveva osato andare a quasi quaranta chilometri all’ora – e anche questo solo per risparmiare sui freni. Li usava sempre solo un po', un pochino–

Ma ora sembrava che stesse esagerando con quel "un po'". "L’opera d’arte" accelerò, il tachimetro mostrò a Larry che andava già a cinquanta chilometri all’ora. Non era mai andato così veloce con la sua macchina.

Deve essere la stanchezza, pensò fra di sé, benché ora la stanchezza fosse del tutto svanita. Più risoluto di prima fece una frenata. La macchina non reagì. L'automobile andò avanti senza rallentare. Premette il pedale con tutta la forza.

Non successe nulla.

 

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Capitolo 35
*** Battaglie della vita ***


E di nuovo, mille grazie a BlackCobra e scusa per il ritardo. Ma adesso vedremo quanto male ho fatto a Larry ]:)

 



35. Battaglie della vita

Regrets? I’ve had a few,
But then again too few to mention.
I did what I had to do
And saw it through without exemption.
(Frank Sinatra, My Way)


La notte stava già per calare quando Megan e Don arrivarono al Parco di Livingston. "Harry" – se si chiamava davvero così – sembrava aver detto la verità: quantomeno c’era davvero lo zoo.

Quando Megan e Don si avvicinarono all'entrata dello zoo, la loro supposizione, finora latente, si rafforzò, perché a pochi metri di distanza dall'entrata, su una panchina, c'erano tre uomini di età diversa e aspetto simile: non sembravano essere molto puliti, abbastanza decaduti, e se i due agenti federali avessero avuto dei bambini con loro, probabilmente avrebbero badato a stare molto alla larga da loro. Data la situazione, però, andarono direttamente verso i tre uomini, ovviamente dei senza tetto.

«Uno di voi è Harry?» cominciò Megan. Don era un po' dietro di lei, ogni muscolo teso. Era pronto a reagire se una qualsiasi cosa non fosse andata come doveva.

«Potrebbe essere» rispose l'uomo in mezzo e Megan riconobbe nella sua voce quella di Harry. Era un cinquantenne e così si trovava ad occupare una posizione mediana anche riguardo l’età. L'uomo alla sua sinistra aveva sicuramente più di sessanta anni, l'altro probabilmente non ancora quaranta. Benché i loro vestiti fossero molto logori e Don non si sarebbe mai lasciato vedere in nessuna piazza pubblica conciato in quel modo, tutti i tre sembravano esser sobri e nel pieno possesso delle loro forze mentali.

«Abbiamo telefonato» disse Megan.

«Mi ricordo» rispose Harry. Non sembrava esser diventato più comunicativo dalla loro ultima conversazione.

La sua laconicità non rendeva Don più paziente. «Allora ricorda anche la sua promessa?»

Harry lanciò a Don uno sguardo provocatorio prima di voltarsi verso Megan. «E lui che vuole?» le chiese.

«E' il mio collega». Megan si costrinse a rimanere calma. «Le saremmo molto grati se ci lasciasse vedere il cellulare».

Harry tirò fuori l'apparecchio dalla sua tasca e lo mise sotto il naso dei due agenti. «Eccolo».

«Vorremmo guardare la rubrica» disse Megan, allungando la sua mano con un gesto di richiesta.

«Vorreste farlo, sì». Harry fece una pausa retorica. «E cosa riceveremmo noi tre in cambio?»

Don non riuscì più a contenersi. «Dovreste essere felici se non vi denunciamo per sottrazione di oggetti ritrovati. Inoltre non saprebbe che farsene di un cellulare». E poi, un oggetto come un cellulare era, nella compagnia di Harry, non solo una ragione per contrasti, ma con la giusta dose di alcool nelle vene, sarebbe potuto diventare motivo di un omicidio.

Harry sorrise con disprezzo. «La tua amica è un negoziatore migliore di te» disse in modo molto diretto. «Forse non ci crederai, ma tre anni fa avevo anch'io un cellulare, e inoltre una casa, una donna e un lavoro con cui ho guadagnato in un mese probabilmente più di quanto tu – ma lasciamo perdere. Potete averlo, per quel che mi riguarda. Può essere davvero difficoltoso trovare una presa di corrente in tempo. E non lo userei comunque. Sapete, noi non siamo abituati a farci chiamare col cellulare. Chissà perché».

Sogghignò con occhi scintillanti e Don e Megan si sentirono costretti a ricambiare un sorriso forzato. Comunque avevano già pensato a che senso avrebbe potuto aver un cellulare per un senza tetto.

«Dunque possiamo darvelo» continuò. «Ma i miei amici e io siamo sempre un po' al verde…»

Non era difficile indovinare cosa volesse Harry. A Don ripugnava un po' l’idea di dare soldi a quel tipo, ma considerate le circostanze non pensò sul serio alle alternative.

Tirò fuori il portafogli, sempre pronto a reagire ad un eventuale attacco dei tre uomini. Loro però rimasero calmi e pazienti finché Don non tese loro una banconota da 20 dollari.

Harry piegò la sua testa e inarcò le sopracciglia. «Stai scherzando? Ascolta, non siamo stupidi, va bene? E tutti e tre siamo stati uomini d'affari una volta. Capisco che non importa a gente come voi e che non riuscite ad andare oltre il pregiudizio secondo cui i clochard sono tutti beoni pigri, ma ehi, non potete liquidarci così facilmente. Voglio dire, non è difficile vedere che tenete molto a questo coso». Tenne il cellulare in alto. «Credo che un centinaio dovrebbe andare bene, no?»

Don strinse i denti. Cento dollari per qualcosa che questi tre avevano probabilmente trovato – e rubato! – senza pagare niente in una qualsiasi discarica pubblica! Però era chiaro che a Don non importava nulla il prezzo. Si trattava di Charlie e quella era l'unica pista promettente che avevano. Non doveva davvero rifletterci. Era solo felice che si fossero fermati a un bancomat prima di arrivare lì e che così aveva pronta la somma richiesta. Tentò di non pensare a quanto poco professionale fosse questo comportamento, ma piuttosto sperò che avrebbero davvero fatto progressi in quel modo.

Il cellulare – insieme con il caricabatteria che Harry tirò fuori dagli abissi delle tasche del suo cappotto – e i soldi cambiarono i rispettivi proprietari. I tre senza tetto sembrarono molto contenti di sé, ma Don non poteva ancora fidarsi della situazione. Solo quando trovò nella rubrica sia un "Pete" sia una "Doris Conrad", si ritenne soddisfatto: quello sembrava davvero essere il cellulare di Anna Silverstein. Posticiparono un’analisi più approfondita del cellulare ad un secondo momento, nel motel, perché la batteria era quasi scarica. Non volevano rallentare ancora di più la loro ricerca dei sequestratori incappando nel PIN del cellulare.

Quando Megan e Don voltarono le schiene ai loro "partner d'affari", Harry augurò loro una "Buona serata!". E anche se Don sperava che quella serata passasse in modo migliore rispetto alle precedenti, non poteva ancora sapere che cosa avrebbero portato le ore successive.

- - -

Larry fu preso dal panico. Ma fortunatamente anche in quello stato desolante i nervi nel suo cervello non avevano ancora dimenticato cos'era logico: voleva sopravvivere e il panico non l'aiutava, quindi doveva costringersi ad agire razionalmente. Fino a qui tutto bene.

C’era però un ostacolo all'esecuzione di quel piano: niente panico? Come, precisamente?! La sua macchina stava continuando ad accelerare, la strada era sempre più in discesa ed era ancora umida a causa del breve rovescio di pioggia di pochi minuti prima e –

Oh mio Dio.

Direttamente di fronte a lui, un albero era apparso dalla nulla.

In un solo movimento, Larry sbloccò la cintura e aprì la portiera. La strada volava sotto di lui, ma non aveva davvero la calma per osservarlo più attentamente. Dopo un grosso salto e un rotolamento di cui non si sarebbe mai ritenuto capace, Larry molto bruscamente cadde sull’asfalto duro. Continuò a rotolare fino a che si trovò a metà fra strada ed erba. Nello stesso momento sentì una botta forte, poi un fischio. Non osò voltarsi.

Larry rimase immobile sul terreno per qualche minuto, incapace di muoversi. Non era incosciente – almeno di questo era abbastanza sicuro – ma sentì che sarebbe andato al di là delle sue forze alzarsi in quel momento.

Sentì passi e grida. Persone che gridavano cose incomprensibili, sottosopra. Larry non capiva né che cosa dicessero né poteva distinguere quanti fossero. Tentava di indovinarlo, voleva aprire i suoi occhi, ma le palpebre erano troppo pesanti e tanto più tentava di avvicinarsi alle voce, tanto più questi si allontanavano da lui. E infine la notte per Larry divenne più oscura che mai.

- - -

Il cellulare era attaccato alla presa di corrente e adesso Don riteneva finalmente sicuro cercare l'investitore misterioso. Lui e Megan prima frugarono tra tutti i nomi notando quelli che non conoscevano: li avrebbero controllati più tardi. Almeno questo era il piano.

Fino a che non trovarono “John Doe”.

Ambedue fissarono lo schermo per qualche istante senza crederci. Don non osava sperare: l'avevano d'avvero trovato? Quello era uno dei sequestratori di Charlie? Era troppo bello per essere vero.

«Forse la Silverstein conosceva davvero una persona con questo nome?» fece Don considerare.

Megan lo guardò in modo scettico. Chi avrebbe dato al proprio figlio oppure a se stesso un nome che veniva generalmente usato per cadaveri non identificati?

«E allora come dovremmo procedere secondo te?» chiese lei.

«Potremmo chiamare il numero, per esempio» propose Don senza riflettere.

Questa nuova traccia caldissima sembrava aver attizzato un po' troppo il suo dinamismo; altrimenti Megan non avrebbe dovuto spiegargli che non era una buona idea: «Don, se chiamiamo quel John Doe adesso, lui potrebbe insospettirsi e scappare».

Don abbassò la testa, le fattezze contratte. Gli venne in mente – non per la prima volta! – che questo caso gli stava chiedendo troppo. Faceva errori che altrimenti non avrebbe mai fatto, era accanito, aveva i paraocchi, era diritto verso una sola meta e si lasciava sfuggire troppe cose. E sempre più spesso si chiedeva se non sarebbe stato meglio dare il caso a qualcun altro.

Grazie a Dio aveva la sua squadra, anche se questa nuova distribuzione dei ruoli non gli piaceva affatto. Non gli piaceva chiedere consiglio. Ma si trattava di Charlie... «E invece che cosa proponi tu?»

«Prima dovremmo scoprire a chi appartiene il numero e poi controllare tutto ciò che abbiamo su questa persona. Senza che essa se ne accorga».

Don annuì lentamente, ma non ce fece in tempo a rispondere perché in questo momento il suo cellulare squillò. «Eppes».

Per un po’ ascoltò senza dir niente. Megan lo osservava. Non le piaceva cosa vedeva, non le piaceva per niente. Credette di vedere il suo capo impallidire e gli occhi si allargarono. Le notizie che stava ricevendo non potevano essere buone. Dalle sue risposte però non riusciva a capire che cosa era successo.

«Sì, è accanto a me. Glielo dirò. Grazie, Amita. E salutalo da parte nostra. Ciao».

Riattaccò e benché sentisse lo sguardo di Megan sui lui, fissò il tavolo davanti a lui per qualche attimo prima di volgersi verso di lei. «Okay, Megan, non allarmarti ora».

Queste parole la misero ancora di più in uno stato d'allarme. «Cos'è successo?»

«Larry ha avuto un incidente».

Don non era stato completamente sicuro come la sua forte collega avrebbe reagito. Però non fu molto sorpreso delle sue fattezze sconvolte.

«Come sta?» chiese così veloce che Don poté solo indovinare le parole della sua domanda.

«Sta bene, considerate le circostanze. E' cosciente e trattabile. Ma è in ospedale». Don aveva considerato prudente placare Megan in anticipo, ma non era servito a molto.

«In ospedale?!»

«A quanto pare non è nulla di serio, solo varie contusioni e graffi. E forse una commozione cerebrale; non lo sanno ancora, perciò vogliono tenerlo in osservazione. Megan, sta bene; Amita ha già parlato con lui».

«Sta bene?!» ripeté Megan, sconcertata. Come poteva stare bene con tutte quelle ferite? E soprattutto: perché era ferito? «Cos'è successo?» pretese di sapere.

«Non lo so esattamente, un incidente con la macchina; Amita ha potuto parlare con lui solo per un attimo, anche lei non sa niente di specifico, ma... Okay Megan, ascolta». Don non era sicuro che sarebbe riuscito ad essere quello forte dei due, ma non aveva altra scelta. «C'è qualcos'altro. Sai, Amita ha potuto parlare con Larry dopo l'incidente».

«L'hai già detto».

Don non perse le staffe per i suoi modi impazienti. «E Larry ha detto... Megan, a quel che sembra non è stato un incidente».

- - -

«E davvero non sai chi potrebbe esser stato?»

Larry cautamente scosse la testa che stava sul cuscino morbido dell'ospedale. Poco a poco, sentiva di nuovo la stanchezza grave calare su di lui. Forse aveva anche qualcosa a che vedere con gli analgesici, benché Larry non fosse assolutamente sicuro se poi gli avevano dato davvero analgesici, dal momento che aveva comunque dolori ovunque.

Sospirò e fermò gli occhi, ma li aprì subito quando sentì la voce preoccupata di Amita: «Stai bene?»

La scrutò. Era tutta pallida, solo gli occhi avevano delle ombre scure. Doveva avere un aspetto esausto almeno quanto lui. Ma se non andava errato, una parte del suo pallore derivava anche dalla sua prima rivelazione dopo l'incidente: Penso che sia stato fatto apposta.

Amita aveva reagito in modo sconvolto alla sua presupposizione. E quello spavento non era diminuito quando lui le aveva spiegato la cosa: qualcuno doveva aver manomesso la macchina, probabilmente qualcuno aveva tagliato i fili dei freni. Certo, la macchina di Larry era vecchia – ma era in ottimo stato. E nessuno poteva fargli credere che i freni avessero semplicemente smesso di funzionare.

Tanto di meno considerate le recenti indagini.

Era l'unica spiegazione che gli veniva in mente, perché per quanto Larry pensasse che non c'era nessuno che avrebbe voluto vederlo morto – quella doveva essere stata l’intenzione del sabotatore, in ogni caso ne aveva accettato la possibilità. Se davvero i fili dei freni della sua auto d'epoca erano state tagliati, qualcuno aveva attentato alla sua vita.

«Penso che Don dovrebbe esserne informato».

«L'ho già informato» rispose Amita.

Larry fermò di nuovo gli occhi. Era felice che lei fosse qui. All’inizio l’aveva chiamata solo perché aveva temuto che anche lei fosse stata attaccata in modo simile, ma adesso si sentiva sollevato nel sapere che lei si stava cura di tutto. Perché da solo si sentiva troppo coinvolto nella faccenda.

Sentì la porta aprirsi e aprì gli occhi un po', giusto una fessura sufficiente però per vedere entrare l'infermiera. «Devo pregarla di andare adesso» disse ad Amita. «Il signor Fleinhardt ha bisogno di calma».

«Certo» disse Amita e si alzò, poi però si chinò di nuovo giù verso lui. «Tornerò domani».

Larry annuì, ma i suoi occhi si chiusero prima che potesse pronunciare il suo ultimo pensiero: Abbi cura di te!

 

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Capitolo 36
*** Errare humanum est ***


Come sempre, mille grazie sia a BlackCobra per recensire sia ad Alchimista per correggere :)
 




36. Errare humanum est


Now ain’t it good to know that you’ve got a friend
When people can be so cold?
They’ll hurt you, yes, and desert you
And take your soul if you let them.
But don’t you let them.
(Carole King, You’ve Got a Friend)


Megan sembrava essere molto nervosa dalla serata trascorsa esattamente fino al momento in cui suonò il suo cellulare, giovedì mattina. Larry. Don si allontanò (senza dire nulla) discretamente, sarebbe sembrato insensibile se le avesse ricordato che originalmente stavano cercando Charlie prima che lei non avesse almeno parlato con Larry e anche se Don si sentiva davvero sotto pressione per il caso, non poteva ignorare che l'incidente di Larry aveva con tutta probabilità qualcosa a che fare con la sparizione di Charlie, questo era più che inquietante.

Insomma, che cosa stava succedendo?

Don sprofondò nella poltrona vecchia e dall’odore di muffa – uno dei pochi mobili nella camera – e si immerse nei suoi pensieri. Questo caso gli sembrava talmente complicato... ma forse era semplicemente lui che stava impazzendo .

Ricordò le varie vicende e fatti ancora una volta. Anna Silverstein, una delle infermiera di Charlie, aveva ricevuto dei soldi per i controlli che aveva fatto, probabilmente da John Doe. Avevano tentato di rintracciare il trasferimento, ma la pista aveva condotto solo a un vecchio uomo che in un secondo momento avevano scoperto essere già morto, ma il suo conto era ancora attivo. L'uomo morto non aveva parenti e così non c'era un'indicazione circa chi poteva essere entrato in possesso del suo conto, soprattutto perché ora, non avvenivano più transazioni.

Dunque, Anna Silverstein aveva ricevuto dei soldi. Ma perché era stata uccisa? Sembrava essere coinvolta nella faccenda solo nel ruolo di informatrice, non di più, perciò Don credeva che molto probabilmente erano state proprio quelle informazioni ad esserle state fatali, era stata uccisa lunedì, una settimana prima, lo stesso giorno della scomparsa di Charlie. Perché? Da quello che sapevano non aveva ricattato i suoi committenti, perché altrimenti non avrebbe buttato via il suo cellulare. Don era quasi sicuro che i sequestratori di Charlie avevano voluto liquidarla perché era una complice. Probabilmente avevano temuto che Anna Silverstein – se avesse saputo che avevano sequestrato Charlie (l'avrebbe saputo durante l'investigazione di Don se non fosse stata già uccisa) – avrebbe detto la verità. L'avevano fatta fuori perché era un potenziale pericolo e un potenziale aiuto alle indagini.

Dunque i due casi dovevano essere in relazione, ma c'era anche un terzo caso: il sabotaggio della macchina di Larry. Non avevano ancora il rapporto dell’incidente, ma Don non aveva più alcun dubbio che anche per quel caso avrebbero indagato sugli stessi colpevoli e questo gruppo doveva essere potente o almeno avere grandi possibilità di spostamento – considerando che poteva agire sia in California, sia in Mississippi.

Come un fulmine, un ricordo attraversò la mente di Don: la conversazione del giorno della scomparsa di Charlie con il suo superiore. “Posso solo presumere che lei abbia avuto a che fare con un avversario influente”, aveva detto Stevens. Don si sentiva sempre di più costretto a crederci.

I loro indiziati però non sembravano solo essere influenti, ma anche senza scrupoli, avevano ucciso una donna nel suo appartamento in pieno giorno perché poteva diventare un rischio se fosse stata interrogata e avevano fatto un attentato ad un professore universitario, ad un – almeno ai loro occhi – consulente innocuo.

Era in mano a queste persone che si trovava Charlie.

Il problema era che Don semplicemente non riusciva a vedere il movente dietro le azioni del gruppo, era necessario vederlo, doveva trovarlo, perché lentamente tutto questo avrebbe raggiunto una portata che avrebbe superato tutti loro. Larry era stato vittima di un attentato, per tutta probabilità a causa del suo aiuto nell’indagine sul rapimento di Charlie. Fino a che punto i sequestratori di Charlie sarebbero arrivati per eliminare i loro obiettivi? Chi era prossimo? Don poteva continuare ad assumersi la responsabilità dell'intera squadra? Larry sarebbe potuto morire per quel sabotaggio alla sua macchina. Don aveva il diritto a continuare a coinvolgere civili nell’indagine?

Ma si trattava di Charlie...

Don si passò le mani sul viso. Il suo punto di vista era ancora oggettivo? Non doveva perdere la testa.

Tentò di avvicinarsi al dilemma da un altro lato: si trattava di Charlie, questo era vero – dunque Amita e Larry avrebbero acconsentito a lasciar perdere il caso, innanzitutto? No... no, probabilmente no. E loro non erano stupidi, potevano pensare quale rischio stavano correndo... Sì, probabilmente non spettava a Don prendere una decisione... Ma doveva essere sicuro.

«Megan?»

Megan girò la testa, un sorriso leggero sulle labbra che gradualmente diventava sovrapposto da un'espressione colpevole. «Aspetta un attimo» disse al cellulare e poi, verso Don: «Sì?»

«Se Larry e Amita sono pronti a continuare a lavorare alle videoregistrazioni, dovranno farlo alla centrale. Fino a che non avremo chiarito se possono essere messi sotto protezione».

Megan annuì lentamente. Deglutì. «Okay», disse e trasmise l'informazione all'altra estremità della linea.

Don sospirò ad un tratto, si sentì infinitamente stanco, però ovviamente non c'era modo per lui di riposarsi prima di sapere Charlie di nuovo al sicuro, con loro.

- - -

Questa volta, Rosenthal voleva di nuovo interrogarlo di persona e non l'avrebbe trattato con i guanti. Questa volta avrebbe funzionato. Vabbè, forse non sarebbe successo subito quella sera – dopo una settimana e mezza!, constatò amaramente –, ma magari solo nel corso del giorno seguente. Ma una cosa era certa: lo avrebbero sconfitto. Erano invincibili.

«Allora, Dottor Eppes, è finalmente pronto a collaborare con noi?»

«No, non sono pronto a fare niente. Lasciatemi andare. E' privazione della liberà personale ciò che state facendo».

Rosenthal osservò il suo prigioniero. Sembrava esausto ed era ovviamente stufo di avere sempre le stesse domande e risposte, ma poteva anche vedere la determinazione nei suoi occhi. Eppes era risoluto a non collaborare.

Vedremo per quanto durerà.

«Si sbaglia. Sarebbe privazione della libertà se non fosse qui volontariamente».

Aveva vinto. Era talmente presso alla destinazione... Il dottore alzò lo sguardo, lo fissò, e Rosenthal riusciva appena a tenersi per gioia dell'attesa. Negli occhi interrogativi c'era talmente tanta paura che Rosenthal non avrebbe potuto godere di più per come stava riuscendo a tenere a bada il suo prigioniero.

«E' ancora convinto che i suoi amici la stanno cercando?» chiese infine in un tono deliberatamente casuale.

Il professore esitò. «Non lo so» rispose finalmente.

Ecco. Rosenthal aveva vinto. Eppes aveva paura per i suoi amici, lo sentiva. Se ora fosse stato capace di fargli capire quanto giustificata fosse quella paura, Rosenthal avrebbe potuto fargli cambiare idea, ne era sicuro. Il loro complice a Los Angeles magari si era spinto un po’ troppo oltre, ma il risultato era migliore di quanto Rosenthal avrebbe potuto immaginare.

«Ma noi lo sappiamo» disse, tirando fuori dalla tasca della sua giacca la stampa di un ritaglio di giornale che Juarez gli aveva mandato pochi minuti prima. «Noi sappiamo benissimo chi lì fuori sta cercando di trovarla. Sappiamo tutto. E lei dovrebbe sapere che facciamo giustizia sommaria con le persone che si immischiano nei nostri affari».

Aprì il foglio e lo tese verso il suo prigioniero. Avevano ritagliato l'articolo – menzionava anche Fleinhardt era sopravvissuto – e aveva tenuto solo l'immagine. Mostrava l'auto d'epoca del professore che era contro un albero, il lato del conducente talmente distrutto che nessuno avrebbe mai potuto immaginare che qualcuno fosse sopravvissuto. Un'immagine bellissima.

Rosenthal si concentrò sulla reazione di Eppes. Vide il sollevamento del suo torace aumentare in frequenza e veemenza mentre guardava la fotografia. Un segnale di principio di panico. Bene.

«Cerca di fregarmi».

Sì! Rosenthal serrò il pugno nella sua tasca, questa volta non per la furia, ma per un sentimento di trionfo: la voce del professore era bassa, appena udibile e rauca. Abbiamo vinto, abbiamo vinto, abbiamo vinto...

«Non conosco la macchina».

Vabbeh', quello era davvero miserevole. «Avanti, Eppes, chi vuole illudere? Dalle uno sguardo più accurato, penso che dovrebbe addirittura poter vedere la targa. Ma non sarà necessario, lei sa quanto me a chi appartiene questa macchina. E sa anche perché abbiamo dovuto farlo. Il suo amico l'ha cercata. Ha pensato che lei non volesse stare con noi. E questo è il risultato di tale valutazione errata».

Il dottore continuava a respirare in quel modo così grave. Che cosa toccante.

«Come sta?»

Oh-oh. Rosenthal retrocesse un po' con il suo busto. Non aveva anticipato questa reazione. Aveva stimato Eppes in modo erroneo. Non aveva creduto che gli occhi del dottore fossero ancora in grado di attaccarlo con questo sguardo schizzante di furore. No, questo era inatteso.

Ma erano ancora loro ad avere tutti i vantaggi.

«Beh', non so come sta il suo amico. Ma non mi sembra che le cose gli vadano bene. Mah, mah, mah... la macchina è davvero un relitto adesso. Chi sedeva al posto di guida potrebbe esser sopravvissuto? Personalmente, ne dubito. Ma probabilmente bisognerebbe esser un matematico per saperlo».

Con divertimento Rosenthal vide la sua vittima serrare i pugni. E sicuramente non l’aveva fatto per un sentimento di trionfo.

«E' davvero peccato per il suo amico» continuò Rosenthal con quel cinismo che – almeno secondo lui – gli stava così bene. «Mi chiedo come i suoi conoscenti reagiranno alla notizia. Dicono che ha una collega bellissima, una certa Amita Ramanujan». Rosenthal non era sicuro, ma gli parve che i pugni si serrassero ancora di più quando menzionò quel nome. Eppes però continuò a scansare il contatto visivo, tenendo la sua testa bassa, testardo. «Come reagirà lei? Chissà, forse è talmente disperata a causa della morte del suo collega che magari si butterà dal tetto dell'edificio universitario? O forse prenderà inavvertitamente una dose eccessiva di sonniferi? Sono cose che succedono quando si è disperati... Chissà, forse domani ci sarà un articolo su di lei nel giornale. Però io penso che vivrebbe con molti meno pericoli se lei, Dottor Eppes, acconsentisse finalmente a lavorare con noi».

Rosenthal era sicuro di essersi espresso chiarissimo. E non dubitava per un momento che adesso Eppes avrebbe collaborato. Avevano – come sembrava – ucciso il suo miglior amico e adesso minacciavano di togliere dalla circolazione anche la sua ragazza. In realtà Eppes non aveva scelta.

Gli mise un contratto sotto il naso con cui il dottore, una volta firmato, sarebbe diventato in parole povere loro schiavo e avrebbe dichiarato il trattamento finora e futuro della sua persona completamente legale, e gli diede una penna. «Allora, dottore?»

«Io...» La sua voce ormai non era più di un gracchio. Avevano vinto, maledizione, ce l'avevano finalmente fatta!

«Sì?»

Infine, Eppes levò la testa. I pugni erano ancora serrati e negli occhi c'era ancora quell’ira, ma non c’era solo questo. A causa della sua sicurezza di vincere, Rosenthal era incapace di nominarlo, ma aveva un po' l'impressione di essere radiografato da quello sguardo.

Lo sguardo e il silenzio di Eppes prolungarono prima che, infine, rispose.

«No».

Si poteva quasi udire il dottore deglutire, così silenzioso era ad un tratto. «Non vi aiuterò».

- - -

La sua squadra era eccezionale, non c'era un dubbio. Lavorando sia dal Mississippi sia dal Nebraska, avevano controllato una montagna di documenti più o meno segreti, ma in grande parte virtuali, e non si erano dati per vinto finché non avevano trovato finalmente ciò che cercavano: il gruppo dei sequestratori.

Partendo dal numero di John Doe avevano prima identificato il suo offerente, e dopo alcuni telefonate e negoziazioni avevano infine ricevuto un accesso limitato ai dati dell'utente. Non conoscevano il suo nome, ma avevano alcuni dei numeri che aveva chiamato, nonostante dal giorno prima dell'omicidio di Anna Silverstein e della scomparsa di Charlie non era stata effettuata alcuna telefonata dal cellulare. I criminali avevano perso il coraggio per fare qualunque cosa stavano progettando? In ogni caso non erano stati certamente felici quando sulla scena dell'omicidio non avevano trovato il cellulare della loro vittima, l'unico legame con loro.

Non avevano potuto verificare la maggior parte dei proprietari dei numeri di cellulari trovati perché – proprio come il cellulare di John Doe – non si trattava di modelli con contratto e dunque non era stato necessario fornire dati privati. Tuttavia riuscirono a risalire a tre numeri fissi. Quando li controllarono scoprirono che tutti e tre lavoravano per agenzie investigative, due nell'amministrazione della CIA ed uno all'FBI. E quando fecero un controllo un po' più accurato, la bomba scoppiò: il loro terzo utente di telefonia fissa, un certo Clifford Wellman, lavorava nel FBI da più di dieci anni. E da meno di due settimane era scomparso.

C’era voluto più incoraggiamento che tempo per persuadere il capo della sede in questione, James Burbank, a dare loro le informazioni principali dell’indagine. Wellman era ancora introvabile, ma la squadra responsabile seguiva una pista promettente nel Parco nazionale di Yellowstone.

Don era diventato particolarmente impaziente quando lo aveva sentito, e aveva sentito come un campanello nelle orecchie. Erano così vicini, su una pista così promettente... Un parco nazionale, sarebbe perfetto, un nascondino perfetto per una vittima di sequestro. E Wellman era scomparso ed era legato a John Doe che aveva pagato Anna Silverstein per osservare Charlie... Tutto aveva senso, erano talmente vicini... Ad un tratto, tutto andava così veloce che Don doveva far attenzione a non perdere la visione d'insieme. Adesso non dovevano più fare errori, dovevano andare dritti al loro scopo...

In mattinata, un elicottero sarebbe stato pronto per portare lui e Megan in Idaho, al confine del parco, dove avrebbero incontrato la squadra investigativa. E speravano di incontrare anche David e Colby.

Intanto era la sera del giovedì e Don non aveva alcuna intenzione di andare a letto, benché Megan dormisse già. Non sapeva come ci riuscisse. Perché anche se la giornata era stata più che faticosa, lui sembrava ancora avere un sacco di energia, per quanto fosse energia nervosa, adrenalina pura, attinta dalla rediviva speranza di avvicinarsi a suo fratello sempre più ad ogni minuto che passava.

Don era più che contento dei risultati del giorno. Non solo avevano fatto grandi progressi con il caso, ma avevano anche potuto organizzare un servizio di protezione per Amita e Larry dopo che Don, senza dimenticare suo padre, li aveva sistemati a casa di Charlie. Inoltre facevano finalmente progressi nella ricerca di Charlie, era ora. Solo il giorno prima avevano trovato la pista di John Doe e oggi erano già alla caccia di un’intera banda di criminali. Era, però, un seguire le tracce piuttosto che una vera e propria caccia, perché a Don non sfuggiva che fossero ancora molto lontani dalla loro meta e non solo in termini di spazio. Giusto, avevano un'indicazione, il Parco nazionale dello Yellowstone, ma Don non poteva ignorare il fatto che l'altra squadra dell' FBI, quella che cercava Wellman e i suoi presunti complici, si muoveva già da due settimane senza successo. Come poteva sperare che loro invece avrebbero avuto più successo? Era completamente irrazionale, ma la speranza continuava a bruciare.

Con la meta davanti agli occhi e lo sguardo fisso sulla parete della camera scura del motel, era arrivato il momento in cui Don non poteva più eliminare quegli scenari orribili dalla sua testa. Doveva confrontarsi necessariamente con la domanda riguardo cosa i sequestratori avrebbero potuto fare a Charlie; la risposta era probabilmente necessaria per trovarlo.

Un gelido brivido attraversò la sua schiena quando per un attimo gli venne il pensiero che sarebbe potuto essere già troppo tardi. Forse era tutto inutile. Forse i sequestratori si erano già sbarazzati di suo fratello. Forse non avevano più saputo che farne di lui oppure lui era diventato un rischio o magari si erano semplicemente tirati indietro dalla loro impresa e l'avevano fatto fuori–

Il corpo morto di Charlie apparve davanti ai suoi occhi, pallido, le membra storte, sul terreno nudo in una stanza vuota, illuminata solo da un lampadina, gli occhi scuri verso lui, senza espressione, lo fissavano, senza che le palpebre li coprissero, fissando il vuoto di un altro mondo, morto...

Don riuscì appena a sopprimere un conato di vomito, e non tentò nemmeno di trattenere le lacrime che premevano nei suoi occhi. Charlie... Che cosa sarebbe successo se l’avesse davvero perso? Sarebbe stato davvero come alcuni mesi prima, quando l’avevano creduto morto...

Don deglutì e ad un tratto si sentì debole. Non l'avrebbe sopportato. Non avrebbe potuto sopportare quella cosa una seconda volta. Charlie doveva essere vivo; era l'unica possibilità. Perché la fine di suo fratello avrebbe significato la sua stessa fine.

 

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Capitolo 37
*** La volontà per sperare ***


Sì, sono ancora là :)
Grazie mille a BlackCobra ed ewan91 e grazie a tutti che seguono ancora la storia. Divertitevi!

 




37. La volontà per sperare

Claim your right to science.
Claim your right to see the truth.
Though my pangs of conscience
will drill a hole in you.
(Aqua, Turn Back Time)
 

Il cervello di Charlie era ancora una sigma-algebra di caos quando venne accompagnato nella sua cella. Lavorava ancora febbrilmente, sempre confrontando le possibilità, analizzando le conseguenze, per capire se non avesse fatto un errore dopotutto.

Si accorse appena che la porta si bloccò dietro di lui, e non fece neanche attenzione al come i suoi sequestratori avessero reagito al suo rifiuto. Ricordava vagamente il lungo silenzio che era seguito alla sua risposta e alla voce calma di Rosenthal. Deplorevole. Davvero, deplorevole, aveva detto, adesso Charlie ricordava, e solo allora le parole riuscirono a far correre brividi lungo la sua schiena. Aveva fatto un errore quindi...?

Non aveva veramente avuto una scelta. Certo, non aveva letto il contratto che Rosenthal gli aveva dato – non aveva avuto i nervi per farlo –, ma non aveva nessun dubbio che la sua firma sotto quel contratto avrebbe significato la sua totale distruzione. Si sarebbe consegnato nelle loro mani, sarebbe caduto una volta per tutte nelle loro grinfie senza speranza di esser liberato e nel farlo loro non avrebbero nemmeno commesso un crimine. No, no, no, era fuori questione; non doveva firmare questo contratto.

E inoltre... Se avesse acconsentito a collaborare con loro, prima o poi sarebbe probabilmente di nuovo stato costretto a fare calcoli che avrebbero significato la morte di numerose persone innocenti. E non poteva portare altri omicidi sulla coscienza. Non poteva. Perché questa volta l'avrebbe fatto consapevolmente... Stette male al pensiero.

Dunque la cooperazione con i terroristi non era un'alternativa. Eppure... Aveva riconosciuto la macchina di Larry, riconosciuto con certezza, e i numeri della targa che aveva potuto leggere erano davvero quelli della vecchia volpe di Larry. Ma non poteva essere, giusto? Larry.... non poteva –

Charlie credette di essere sul punto di vomitare, ma invece gli vennero solo le lacrime agli occhi. Tentò di trattenerle con il palmo della mano, ma questo rinforzò solo la nausea e il mal di testa. Gli sembrava come se il suo cranio stesse per scoppiare. Non poteva più sopportarlo, era talmente tanto...

Era proprio come tempo prima, con Don.

Charlie si costrinse a respirare profondamente. Anche durante l’interrogatorio, questo aveva funzionato molto bene. L'unica possibilità di spiegare le cose successe era che i suoi sequestratori gli avevano, di nuovo, mentito. Non ci doveva essere un'altra possibilità. Allora, avevano affermato che Don era morto, ma non era stata la verità, era stata una bugia, e anche questo doveva essere una bugia...

Forse era solo un fotomontaggio? Oppure avevano solo rubato la macchina di Larry e l'avevano lasciata andare contro un albero senza che Larry fosse stato dentro? Perché semplicemente non poteva credere, non voleva credere che quegli uomini sarebbero arrivato al punto da fare una cosa del genere, di avere Larry sulla coscienza... No, l'avevano già imbrogliato una volta ed erano pronti a farlo di nuovo in ogni momento, tutte le loro azioni erano un gioco crudele di menzogne e intrighi con cui volevano confonderlo fino al punto che non sarebbe più riuscito a distinguere il vero dal falso. Ma non si sarebbe dato per vinto, non avrebbe considerato ancora la partita persa, perché era talmente sicuro che tutto questo era solo show...

Ma poteva essere del tutto sicuro?

Avevano minacciato di fare qualcosa ad Amita. E con questo, non era più solo un gioco di menzogne e intrighi, ma un gioco tra la vita e la morte. Certo, era relativamente sicuro che tutto era solo una messinscena – ma cosa sarebbe successo se si sbagliava? Cosa se i terroristi avessero davvero realizzato la loro minaccia – cosa? Certo, con il suo rifiuto a collaborare, Charlie aveva usato un asso dalla manica che non si aspettavano; aveva ancora delle buone carte. Ma adesso capiva che aveva puntato troppo alto. La posta della vita di Amita era troppo alta, anche con una certezza di vincere del 99 per cento.

A Charlie cominciò a scorrere sudore freddo. Non importava se i terroristi della CIA l'avevano imbrogliato o meno – in ogni caso aveva fatto un errore, un errore gigantesco, e poteva solo sperare che non fosse ancora troppo tardi per revocarlo.

Saltò alla porta della sua cella e martellò contro il metallo duro come se la sua vita ne dipendesse – e in un certo senso era così, perché senza Amita, Charlie non avrebbe avuto più alcuna possibilità di riavere la vita che aveva avuto prima.

«Aspettate!» gridò. «Aprite! Aprite la porta! Acconsento! ACCONSENTO!»

Quando finalmente aprirono la porta, i rovesci dei pugni di Charlie erano già colorati in modo brutto, ma non sentiva nemmeno il dolore. Sentiva solo la paura, quella paura tremenda dentro.

Respirando forte, Charlie si trovò davanti un uomo biondo che era, almeno secondo il suo gusto del momento, un po' troppo allenato e un po' troppo duro nelle fattezze. Era relativamente sicuro che si chiamasse Cedric, ma siccome nelle loro "conversazioni" era stato la persona di fronte a lui a fare le domande, questo era tutto che sapeva di lui.

«Vuoi aiutarci?» La voce era fredda e asciutta, senza la più minima indicazione di sentimenti.

Il cuore di Charlie batté in gola. «Sì» la parola sembrò affannarsi all’altezza della laringe, e la voce che uscì non sembrò essere la sua. Stava facendo un errore?

«Ehì, Dan!» chiamò Cedric, e all'altra fine del corridoio apparve Rosenthal con un viso interrogativo. Cedric sogghignò. «Il professore ha cambiato idea».

Charlie vide un brillio quasi diabolico negli occhi di Rosenthal. E forse lo immaginò soltanto – attualmente non poteva far affidamento sui suoi sensi –, ma la voce di quell’uomo sembrò quella folle di un scienziato impazzito. «Guidalo nel suo ufficio».

- - -

Quasi un’ora dopo Don e Megan, insieme a David e Colby arrivarono alla centrale provvisoria della squadra investigativa. Si trattava di un rifugio di legno al confine nord-ovest del parco nazionale, in Montana. I due nuovi arrivati vennero, come Megan e Don prima di loro, aggiornati in poco tempo: non sapevano esattamente con quanti criminali avessero a che fare nel parco; la squadra investigativa sapeva solo che Wellman si era incontrato con altri due uomini lì, e che questi probabilmente erano anche membri del gruppo di sequestratori. In ogni caso si trattava di due agenti della CIA che – e questo era ciò che aveva trovato la squadra di Don, era perché si trovavano lì – erano in comunicazione con John Doe. Avevano tentato di contattare i due agenti, ma o la CIA non sapeva dove si trovassero o non voleva dirlo. I due agenti, un uomo di 38 anni di nome Daniel Rosenthal e uno di 36 anni di nome Wayne Taccone, erano irreperibili. Ciò che dava nell'occhio però era il fatto che – almeno questo l'altra squadra era stata in grado di trovarlo, in una specie di guerra burocratica – stavano lavorando insieme da nove mesi.

«Da nove mesi... vuol dire che potrebbe essere lo stesso gruppo che ha tenuto Charlie sei mesi fa» rifletté David.

«A che cosa stanno lavorando?» volle sapere Megan.

«Questo la CIA non ha voluto dircelo» rispose Jeffrey Blake, il capo della squadra incaricata della ricerca di Clifford Wellman. «E non ci hanno voluto dire neanche chi altro collabora al progetto. Hanno detto che non ha niente a che fare con il nostro caso».

«Forse adesso sì» osservò Colby. «Non so che ne pensate voi, ma io trovo che non sia improbabile che questi tizi – non importa a che cosa stanno lavorando – abbiano usato Charlie perché li aiutasse».

Megan scosse la testa. «Questo è più che improbabile, Colby. Non importa a quale progetto stanno lavorando, ma stanno lavorando per ordine della loro agenzia».

«Sì, e quest'agenzia è la CIA» disse David che ovviamente aveva deciso di difendere la teoria del suo partner.

«E allora? Per un momento tenete le vostre teorie cospiratorie per voi e pensate in modo un po' più ragionevole: la CIA non l'avrebbe mai rischiato di sequestrare un professore rispettabile».

«A meno che –»

«Questo non ci aiuta» interruppe Don Colby, conciso. Aveva ascoltato la conversazione dei suoi colleghi solo distrattamente e invece aveva diretto la sua attenzione sulla carta davanti ai suoi occhi. Questa mostrava una descrizione più o meno dettagliata del Parco Nazionale del Yellowstone. E se erano sulla pista giusta – e Don si rifiutava di dubitarne – Charlie si trovava da qualche parte in quell’area gigantesca. Dovevano solo trovarlo.

«Okay» disse David dopo un momento. «Cosa sappiamo?»

«Giusto» venne in mente a Megan, «Come avete saputo che Wellman e gli altri si trovano qui nel parco?»

«Non l'abbiamo saputo noi» osservò Mitchell O'Hara. Era un agente abbastanza giovane che insieme a due donne sul finire dei trenta, Karen Teeger e Juliet Disher, formava la squadra di Blake. «L'ha trovato lui».

Mitchell indicò un punto – oppure, come videro poi, una persona – dietro alla squadra di Don. I quattro si voltarono, e per un momento perplesso non furono sicuri di poter credere ai loro occhi.

Non si sarebbero mai aspettati di vedere Ian Edgerton lì.

- - -

Il sudore imperlava la fronte di Charlie. Non a causa di un lavoro molto faticoso. Piuttosto a causa della paura che a momenti avrebbero scoperto che non stava lavorando affatto.

Certo, stava dando l’impressione di essere intenzionato a dare davvero ai terroristi della CIA i dati che volevano. Gli avevano dato lo stesso incarico dell’ultima volta con le stesse menzogne, benché Charlie non sapesse perché si scomodassero ancora a fare tanto. Poi realizzò che loro non potevano sapere che cosa lui ricordasse malgrado la sua amnesia. Perché erano aumentati davvero di molto riguardo il numero e la chiarezza negli ultimi giorni. Se Charlie non sbagliava, la sua memoria era completamente - o almeno quasi completamente - ristabilita. Anche se avrebbe fatto a meno di alcuni ricordi. E anche se la cosa non l'aiutava nella sua attuale situazione.

Per esempio, ricordava piuttosto bene quali passi aveva seguito allora per giungere al risultato che gli era stato chiesto. Però sapeva che non poteva ripetere quelle azioni, non con la consapevolezza che tramite i suoi calcoli, persone innocenti sarebbero morte.

Dall'altro lato, non poteva neanche fare marcia indietro e esporre Amita e tutti gli altri al pericolo di un attentato. Il pensiero di quello che sarebbe potuto succedere a tutti loro – soprattutto a Larry – lo faceva quasi impazzire. Doveva sapere come stesse Larry, doveva, ma nessuno intendeva dargli una risposta, anche se lui adesso si era mostrato collaborativo.

O almeno quasi collaborativo. Perché naturalmente, non aveva ancora dato loro dei risultati; questo avrebbe avuto quasi sicuramente come conseguenza altri attentati e morti. Per questo, Charlie tentava di guadagnare tempo. Finora era andato bene. Ma sapeva che non avrebbe potuto continuare per sempre. Doveva succedere qualcosa, il più presto possibile, doveva uscire da quella situazione. Da solo sembrava impossibile, anche se i suoi sequestratori avevano a quanto pareva allentato le loro misure di sicurezza da quando aveva acconsentito a collaborare; almeno non credeva di essere sorvegliato lì, nel suo "ufficio". Eppure non riusciva ad immaginare una possibilità di uscire senza un aiuto esterno. Poteva solo sperare, e si aggrappò fortemente a quel pensiero, che Don lo trovasse, che tutto finisse finalmente e che avrebbe potuto sapere come stava Larry...

Charlie sapeva che era irrazionale. Nessuno sarebbe potuto sopravvivere ad un tale incidente. Eppure sperava talmente tanto che fosse tutto solo un trucco, che i suoi sequestratori avessero in qualche modo falsificato tutto, che Larry fosse ancora vivo. Si forzò di credere fermamente alla sua speranza. Non doveva di nuovo venir meno a causa del suo senso di colpa. Questa volta doveva essere forte, non importava quanto difficile gli sembrasse, doveva mantenere la calma.

Sperando che Don l'avrebbe trovato.

- - -

Disinvolto, come sempre, Ian si avviccinò al piccolo gruppo. «L'agente Eppes e seguito!» esclamò da lontano. «Dove avete lasciato il vostro piccolo genio questa volta?»

I quattro lo fissarono come se venisse da un altro pianeta. In effetti, anche Ian era un po' sorpreso di vederli lì (anche se, naturalmente, non l'avrebbe mai dato a vedere). Era andato a fare un altro giro esplorativo e sinceramente non aveva idea che cosa stesse facendo la squadra di Don nel parco. Beh', non avevano fatto grandi progressi nella ricerca di Clifford Wellman, ma anche se il loro capo avesse voluto mandare loro come rinforzi – cosa che probabilmente avrebbe prima comunicato – non sarebbero andati a chiamare i rinforzi da Los Angeles, giusto?

Dunque doveva esserci sotto qualcosa, e pian piano un sospetto cominciò a formarsi nella mente di Ian. Perché non gli era affatto sfuggita l’espressione di Don alla sua domanda, che voleva essere un modo come un altro di salutarli.

Oh oh, pensò e il suo sospetto si manifestò, sembra esser stata una domanda stupida. «Cos'è successo?» chiese allarmato, ma sempre controllato.

Don lo fissò ancora con uno sguardo vuoto. E quando rispose, Ian capì perché. «Charlie è scomparso. Supponiamo che è stato rapito dalle stesse persone che state cercando voi».

Non succedeva spesso, ma quello era uno dei momenti in cui Ian Edgerton non sapeva che cosa dire. Certo, all'inizio lui ed il matematico avevano avuto problemi sostanziali nel far andare d’accordo le loro opinioni contrastanti, ma alla fine ce l'avevano fatta a giungere ad un compromesso. Rispettavano l'uno l'altro, e Ian era anzi incline a considerare Charlie un amico. E non c’erano tante persone che rientrassero in quella categoria.

Rimaneva solo da sperare che durante i giorni passati la lista non si fosse ridotta di uno.

«Okay». Bene. Almeno riusciva sostenere una facciata calma all'esterno. «Dettagli?» domandò.

Colby cominciò a spiegare. Si accorse troppo tardi che non sapeva dove cominciare. «Okay... Hai saputo che lo scorso ottobre Charlie non era morto?».

Ian annuì. «Certo». Essere corrente faceva parte del suo lavoro, e i progressi nel caso del decesso di Eppes li aveva seguiti con interesse particolare. Quel particolare progresso, poi, lo aveva reso davvero molto contento.

«Però non sembri aver saputo» continuò Colby, «che il lunedì della settimana scorsa è stato di nuovo rapito, presumibilmente dalle stesse persone che l'hanno preso allora. Almeno è ciò che supponiamo. Crediamo che si tratti del stesso gruppo a cui appartengono anche i vostri tre sospetti, Wellman, Taccone e Rosenthal. Dal suo incarico in autunno, Charlie è stato sorvegliato da un'infermiera. E' stata uccisa, probabilmente dallo stesso gruppo e probabilmente perché sapeva troppo. Era in contatto con uno dei sequestratori, che a quanto pare le si era presentato solo come John Doe e che, d'altra parte, è in contatto con Wellman. Abbiamo saputo che voi lo state cercando insieme ad altri due, anche erano in contatto con John Doe, Rosenthal e Taccone. E se siamo fortunati, tengono Charlie prigioniero da qualche parte in questo parco».

Ian inarcò le sopracciglia guardando uno dopo l'altro i presenti. «Questo vi ritenete fortunati?» chiese nella sua maniera secca «Sapete che questo parco è gigantesco, sì?»

Colby davvero riuscì a fare qualcosa simile ad un sorriso. «Per questo abbiamo il migliore segugio del Nord America nella squadra».

«Solo del Nord America? Mi stai offendendo, Granger». Ian non poteva nemmeno convincere se stesso della genuinità della sua calma. Era profondamente inquietato. Ma il panico non li avrebbe aiutati.

«Allora hai trovato qualcosa o no?» L'impazienza di Don si manifestò attraverso l’irritazione.

«Non proprio, direi» disse Ian, lapidario, prima di vedere l'espressione di Don. «Scusa, Don». Si voltò di nuovo al gruppo intero. «Siamo qui da solo tre giorni. Ci abbiamo messo tempo per rintracciare tutte le loro mosse, e non abbiamo saputo di questo posto fino a lunedì. C'è anzi una bella prova video di uno dei supermercati della zona dove si può vedere Taccone. E sappiamo che Wellman voleva incontrare lui e Rosenthal qui nel parco. Da allora stiamo setacciando l'area il più vastamente possibile – niente, nessuna traccia. Sembra abbiano intenzione di starsene nel loro nascondiglio finché non si sentiranno sicuri di poter uscire».

«Okay...» disse Colby. «Ma hanno bisogno di rifornimenti, no? È per questo che vanno nei supermercati se ho capito bene, giusto? Allora non possiamo semplicemente sorvegliarlo?»

«Non funziona» interruppe Blake. «Abbiamo dato un'occhiata ai nastri dalle due settimane passate e abbiamo trovato Taccone solo una volta, nessun'altro. Supponiamo che cambino posto ogni volta».

«E se li sorvegliassimo tutti quanti?» chiese David.

«Scordatelo, Sinclair» disse Blake. «L'area è troppo vasta. Si tratta di un territorio di forse 1500 chilometri quadrati quello in possono essersi nascosti».

David corrugò la fronte. «E perché proprio 1500?»

«Un calcolo semplice, abbiamo preso numeri tendenzialmente abbastanza grande da essere sicuri: supponendo una velocità media di sei o sette chilometri orari, una persona in dieci ore può percorrere da sessanta a settanta chilometri, diciamo trenta da un lato, trenta dall’altro; questo è il raggio. Questo significa che, partendo dal supermercato, dobbiamo cercare la nostra talpa lungo un semicerchio di quasi 1500 chilometri quadrati».

Quando Ian vide le espressioni dolorose sulle fattezze dei suoi amici, non era sicuro che avessero quest'aspetto a causa della spiegazione di Blake oppure a causa del modo in cui l’aveva data e l'ovvio ricordo a Charlie. Eppure c'era una differenza notevole in confronto al vudù di Charlie: la spiegazione di Blake era comprensibile.

«Ma potremmo anche essere sfortunati» continuò Blake, «e sbagliarci: magari hanno il loro nascondiglio da qualche altra parte nel parco, perché tutto sommato, lo Yellowstone si estende per un'area di 9000 chilometri quadrati. Ma se partiamo dalla supposizione che possono andare dal nascondiglio a questo supermercato e indietro in un girono, dobbiamo essere comunque vicini».

«Ma non dovrete prendere la parola "vicini" troppo sul serio» li avvertì Ian. «A ciò si aggiunge che il territorio è per la maggior parte impervio. Questa non è la parte del parco che preferiscono i turisti pseudo-avventurieri; qui ci sono appena dei sentieri e i dintorni sono terribilmente confusionari».

«Okay» disse Don con tono di chi aveva avuto sufficienti notizie brutte per il momento, «e allora che cosa facciamo?»

Ian alzò le spalle. «Continuiamo a cercare».

- - -

Pian piano, una stanchezza di piombo calò su Charlie. L'orologio nel computer mostrava che era davanti allo schermo già da 18 ore facendo finta di essere attivo. E benché in realtà non stesse facendo alcun calcolo matematico complesso, comunque il suo corpo bramava il sonno...

Di nuovo si lasciò andare all'immaginazione: il computer doveva essere allacciato a una rete, una qualsiasi rete. Beh', non si aspettava che i suoi sequestratori fossero stati così stupidi da usare internet e così mettersi in pericolo tramite localizzazioni o hackeraggi, ma se solo avesse potuto hackerare un'altra rete da qui, qualsiasi... Ma il suo computer non era allacciato a niente, nemmeno ad un sistema interno. Sapeva perché. Quell’errore l'avevano già fatto lo scorso autunno. Anche allora erano stati isolati dal mondo esterno e Charlie non aveva nemmeno saputo dove si trovasse. Gli orologi segnalavano l'ora di Washington, ma Rosenthal gli aveva detto dall'inizio che non avrebbe dovuto farci attenzione; dopotutto non si trattava di orologi radiocontrollati e così potevano essere regolati in modo semplice. Però era riuscito ad entrare nel sistema interno allora, con qualche trucco da hacker che aveva copiato da Amita. E così aveva trovato la prova del suo terribile sospetto.

Adesso gli avevano chiuso anche quella strada. Davvero non aveva più altra speranza se non Don.

 

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Capitolo 38
*** Costrizione e libertà ***


Ciao! Mi dispiace tanto per il ritardo, ma ecco finalmente il nuovo capitolo!
Spero che vi piaccia :)
 
 

38. Costrizione e libertà

What's worth the prize is always worth the fight.
Every second counts 'cause there's no second try,
So live it like you'll never live it twice.
Don't take the free ride in your own life.
(Nickelback, If Today Was Your Last Day)

Per un attimo, Amita esitò, il dito appena sospeso sul tasto di chiamata. Avrebbe davvero dovuto avvisare Larry in quel momento? Era stato dimesso dall'ospedale solo quella mattina e su sua richiesta. Aveva aiutato a portarlo a casa di Charlie – Alan aveva insistito. E per Amita andava bene che Alan lo tenesse d'occhio. Larry aveva ancora un aspetto provato.

No, non l'avrebbe chiamato. C'era tempo. Per il momento ne sarebbe venuta a capo da sola – nonostante si sentisse sempre molto insicura.

Dopo il terzo trillo qualcuno rispose. «Sì? Eppes»

La comunicazione era disturbata; c'era un fruscio, poi migliorò, ma ad un tratto vi furono nuove interferenze. «Ehì, Don» disse Amita con tono di voce un po’ più alto del normale perché la sentisse.

«Amita? Sei tu? Hai trovato qualcosa?»

«Penso di sì. Abbiamo –»

«Aspetta», la interruppe Don. C'era ancora un fruscio, ma quando parlò di nuovo, la comunicazione sembrava un po' più chiara. «Così dovrebbe funzionare. Scusami, ma stiamo cercando il nascondiglio dei sequestratori e la linea è terribile. Cosa avete trovato?»

«Penso che adesso abbiamo abbastanza punti per riconoscere il viso e possiamo tentare un confronto con la vostra banca-dati. A proposito, l'uomo dalla videoregistrazione della CalSci e quello dalla concessionaria di automobili sono identici».

«Bene... Aspetta, dici "noi"? Come sta Larry?»

«È a casa vostra, sta riposando. E' stato dimesso dall'ospedale oggi».

Ci fu una breve pausa all'altro capo della linea e Amita poté quasi sentire Don lasciarsi scappare un sospiro di sollievo. «Bene. Salutalo da parte mia. E prova il confronto di cui mi dicevi. Quanto più sappiamo dei sequestratori, tanto meglio sarà».

«Bene, lo farò. E... Don?»

«Sì?»

Il suo cuore batteva ferocemente e non sapeva come dirlo. «Voi... voi troverete Charlie?»

Di nuovo, Don non rispose subito, ma quando parlò la sua voce suonava speranzosa ed era rilassata. «Sono fiducioso». Di nuovo esitò. Poi parve deciso ad esporsi. «Il problema è che è stato rapito quasi due settimane fa e... Dobbiamo trovarlo il più presto possibile».

Amita tacque. Ma il suo cuore continuava a battere ardentemente. Era come se volesse spingerla ad essere utile, a fare qualcosa. «Posso aiutare?»

Di nuovo la risposta venne con un secondo di ritardo. «Sì... intendo, non lo so. E' possibile delimitare l'area in qualche modo? Individuando magari dei luoghi con maggiore probabilità di trovarlo rispetto ad altri?»

«Beh, dovrebbe essere possibile con un po' di teoria dei giochi» rispose quella, riflettendo. «Ma non so quanto questo vi sarà d’aiuto».

«Ci andrà bene qualunque informazione. Ti manderemo i dati necessari, va bene?»

«Va bene».

Don mandò un sospiro di sollievo. «Va bene. Grazie, Amita».

Amita si morse il labbro prima di decidersi ad aggiungere: «Don? Ti prego, trovatelo».

E di nuovo l'aveva fatto esitare. «Lo faremo» disse infine. «Ciao».

«Ciao».

Amita riattaccò e deglutì. Più parlava con Don, tanto più le diventava ovvio che tutta la faccenda era più seria e disperata di quanto pensasse.

- - -

Le ricerche non erano servite a niente. Avevano camminato per chilometri, ma non avevano fatto un solo passo avanti. E se non volevano perdersi anche loro nel buio, dovevano interrompere le ricerche per quel giorno.

Gradualmente, mentre ritornava con Ian alla centrale nella capanna di legno, Don si accorse che cosa il suo collega intendesse quando aveva parlato di una "zona troppo grande". Certo, sapeva anche prima che il parco nazionale era grandissimo, gigantesco. Ma non avrebbe pensato che la loro impresa sarebbe stata a tal punto senza speranze.

Don stimò che quel giorno non avevano nemmeno spulciato l’un percento dell'area delimitata. Charlie probabilmente l'avrebbe chiamata "zona calda". E se avessero scoperto poi che per una qualche ragione i sequestratori si trovavano in una zona del parco diversa da quella supposta, avrebbero fatto prima a tornare a casa subito.

Però Don non sarebbe mai tornato senza suo fratello.

Di nuovo le sue viscere sembravano sciogliersi. Cosa sarebbe successo se non avesse trovato Charlie? Avevano fatto così tanti passi avanti fino a quel punto, erano talmente vicini alla soluzione – eppure si trovavano lì, in un parco gigantesco, senza la più piccola pista.

La più grande speranza di Don si attaccava in quel momento al pensiero che Amita – forse con l'aiuto di Larry – ce l'avrebbe davvero fatta a trovare un modo per ottimizzare la loro ricerca. Ma anche se qualche volta sembrava così, i due scienziati non potevano produrre un simile risultato semplicemente per magia. E anche se Don sapeva che ci avrebbero lavorato senza sosta, sarebbe resistito ancora per poco prima di ricevere quei risultati. E poi magari avrebbero avuto comunque una zona enorme da setacciare mentre Charlie faceva affidamento su di loro.

Don non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che non stessero più facendo passi avanti. Certo, stavano facendo tutto quello che potevano – ma era sufficiente? Don aveva già richiesto dei rinforzi, ma avevano troppo poche indicazioni che si trovavano sulla buona pista per giustificare l’impiego di più di due squadre.

E se stavano sbagliando?

Don deglutì. Si accorse che aveva preso a tremare. Cosa sarebbe successo se tutta questa ricerca si fosse rivelata completamente inutile, se Charlie non fosse stato lì? Che cosa avrebbero fatto? Se fosse stato davvero così, stavano sperperando del tempo, tempo che avrebbero potuto usare per trovare Charlie. Ma questa pista era talmente promettente...

«Ehì Don, tutto bene?»

Don voltò la testa. Ian si era avvicinato da dietro e l'aveva sorpreso con una pacca amichevole sulla spalla. Don non sapeva se dover essere grato a Ian dei suoi modi leggeri oppure infuriato. Certo, rimproverarsi non li aiutava. Ma come poteva Ian fingere che tutto andasse bene?

«Beh', un tempo eri più loquace» disse Ian nella sua maniera sobria.

Don tentò di mantenere la calma, ma per riuscirci doveva sopprimere la sua furia. «Forse non te ne sei accorto, ma l'uomo che stiamo cercando è mio fratello».

Ian si finse sorpreso. «Clifford Wellman è tuo fratello? Non lo sapevo».

Don tacque, amareggiato. Perché Ian non poteva semplicemente lasciarlo in pace? Ma le probabilità che Ian parlasse con qualcun altro erano pari a zero: si erano divisi in tre squadre da due mentre i tre che rimanevano mantenevano la posizione nella loro centrale provvisoria. Come se potessero raggiungere più punti così.

Ian fece una pausa ben misurata prima di continuare: «Sai che innanzitutto stiamo cercando i sequestratori di Charlie e non lui stesso, vero?»

Don si fermò repentinamente fissando Ian. «Non stai dicendo sul serio».

«Niente di personale, ma devi fare attenzione a non fissarti troppo. Lo sai, un agente deve rimanere neutro e tutto quanto».

C'era un fulmine negli occhi di Don. «Che cosa stai tentando di dirmi?»

E ad un tratto, Ian fu completamente serio. «Ascolta un buon consiglio: non lasciarti coinvolgere in questo caso, Don».

Don scosse la testa. Ian doveva esser impazzito. «Ian – si tratta di Charlie, questo è chiaro per te? Beh', probabilmente non ti interessa, ma è mio fratello. Non lo capisci?»

«Meglio di te, a quanto pare. Don, so che sei un buon agente. Ma Charlie è semplicemente il tuo punto debole. E per questo dovresti fare attenzione. Devi prendere in considerazione l'ipotesi che forse non lo troveremo».

Per qualche momento Don si sentì soffocare. La franchezza di Ian chiedeva troppo a volte. «E che cosa proponi tu?» chiese infine quando si era accorto di come Ian lo smascherasse.

«Smettila di rimproverarti» disse Ian in modo lapidario, come se fosse la cosa più semplice del mondo.

Di nuovo Don scosse la testa. «Veramente non lo capisci. Non vedi che tutto questo è colpa mia?»

Ian sgranò gli occhi. «E' ciò che sto dicendo, non–»

«No, adesso tu mi lasci finire di parlare» lo interruppe Don. Non era sicuro da dove venisse la sua irritazione, sapeva solo che non poteva fermarla. «Sembra che Charlie sia stato sequestrato dagli stessi tizi di sei mesi fa. Già allora tutta la faccenda mi puzzava, ma cosa ho fatto? Niente. Niente, Ian, ti è chiaro? Se all'epoca avessi investigato riguardo la presunta morte di Charlie più attentamente, forse avrei trovato cosa c'era dietro tutta la faccenda. Ma non l'ho fatto. Ho piantato Charlie in asso, capisci cosa significa? Se all'epoca non l'avessi abbandonato subito–»

A Don mancò la voce. Dovette fare alcuni respiri profondi prima di poter continuare. «Se all'epoca non l'avessi abbandonato subito, tutto questo probabilmente non sarebbe mai successo».

Don respirava fortemente. Non era stato facile esprimere questa accusa verso sé stesso ad alta voce, ma la rabbia verso Ian e sé stesso era stata un forte catalizzatore. E non dubitava per un momento della verità terribile delle sue parole. Aveva abbandonato Charlie all'epoca. Aveva accettato troppo velocemente la notizia della sua morte benché le contraddizioni e i contrasti fossero stati tanto ovvi. Aveva piantato suo fratello in asso.

Ian non sembrava ancora convinto. Anche lui sembrava preferire ignorare l'ovvio. «Beh'» disse, «dopotutto lo credevi morto».

Come se quella fosse una scusa. «Però non era morto» disse Don con una voce ancora tremante, e una voce molto più calma dentro di lui aggiunse: “Cosa che non significa che non potrebbe essere morto adesso”.

Don dovette deglutire, ma non sapeva ancora per quanto avrebbe potuto continuare a stare lì, tranquillo. Insomma, aveva finito da tempo di star tranquillo. Tremava in tutto il corpo di sentimenti repressi.

«Okay» disse Ian e suonò conclusivo. «Okay. Allora forse hai fatto uno sbaglio all'epoca. Che ne pensi se lasciamo perdere tutto questo e ne non appena avremo trovato Charlie insieme ai sequestratori?»

- - -

Charlie sobbalzò quando, come attraverso una nebbia, sentì rumori alla sua porta. Un attimo prima si sarebbe quasi potuto addormentare e ci mise un momento per rendersi conto che non si trovava nella sua cella, ma nel suo ufficio, ed avevano già aperto la porta. Il quarantenne con i capelli scuri era entrato, Dexter Johnson, se Charlie non sbagliava, e non aveva un aspetto entusiasta.

«Seguimi!» ordinò brevemente a Charlie.

Charlie sentì la nausea salirgli, e insieme alle sue ginocchia molli e al caldo che gli saliva alla testa si sentiva un po' come se avesse della febbre. Forse era la febbre della ribalta di ciò che l'attendeva. Perché se i suoi timori erano fondati, era il momento di illudere i suoi avversari.

Appena Charlie arrivò alla porta, venne afferrato nella parte superiore delle braccia dall'uomo con i capelli scuri; continuavano a stringerlo talmente forte e talmente spesso che era certo gli sarebbero rimasti i lividi per sempre.

Veniva di nuovo condotto nella sala dell'interrogatorio e poi lasciato da solo con Rosenthal. Non prima di vedere le solite gentilezze sul tavolo – una bottiglia di acqua, un bicchiere, un po’ di pane, del salume, formaggio, un coltello – si accorse subito di quanta fame avesse. Una bottiglia di acqua gliel'avevano data anche nel suo ufficio, però non aveva mangiato niente da più di un giorno. Il suo stomaco brontolava. Ma questo, pensò, poteva anche essere a causa della sua paura.

«Si sieda!» ordinò Rosenthal con la stessa concisione del sua collega pochi secondi prima. Non sembrava tanto contento.

Charlie ubbidì. Senza poterlo impedire, la sua mano sussultò già verso la cena, ma la voce di Rosenthal interruppe il movimento subito: «Fermo! Non mangerà finchè non ci avrà dato dei risultati».

Charlie deglutì. «Ci sto lavorando» mentì. La sua voce tremava un po' e non sembrò neanche tanto convincente quanto doveva essere.

«Non menta!» gridò Rosentha, battendo le sue mani sul tavolo. Charlie sobbalzò. In quel momento, per un attimo, un ricordo di Don sorse dentro lui, il modo in cui stava di fronte ad un sospettato qualunque, come batteva le mani sul tavolo, gridando con una voce autoritaria...

«Non può più prenderci in giro, Eppes». Rosenthal interruppe bruscamente il ricordo. «Oppure crede che non abbiamo capito che cosa intende fare? Vuole guadagnare tempo! Ma non funzionerà, Eppes. O ci consegnerà la prima località entro stasera o può dire addio alla sua ragazza. L'abbiamo avvertito, non stiamo scherzando».

Charlie tremava. Più acceso diventava il clamore di Rosenthal, più freddo aveva.

«Ho... ho bisogno di più di tempo» balbettò.

Lo sfogo era atteso eppure Charlie trasalì violentemente. «Però non abbiamo tempo! Cominci a lavorare, Eppes! Ha già cominciato quest'algoritmo lo scorso autunno, lo termini!»

«Non... non posso, non... non so di che cosa sta parlando». Un po' tardi Charlie si era ricordato che, badandosi sulle informazioni che avevano su di lui, non poteva ancora ricordare quasi niente. «Non posso darvi l'algoritmo così presto».

«Ah sì?! E perché, se posso chiedere?»

«Non...» E ad un tratto, Charlie non dovette più mentire. «Non posso più sopportarlo!» gridò. «Sono... sono esausto, devo dormire, ho fame...» Stava per ricordare a quel bastardo di Rosenthal ancora una volta che era il suo prigioniero già da giorni, ma non trovava le parole. Forse era anche il suo buon senso ad impedirglielo.

Rosenthal fissò Charlie con un sguardo fisso negli occhi e se Charlie non fosse stato altrettanto pervaso di una furia disperata, avrebbe sicuramente distolto lo sguardo. Gli occhi di Rosenthal erano diretti arguti e ostili su di lui, e Charlie fu sollevato del fatto che non si potesse ammazzare con uno sguardo.

Finalmente, Rosenthal si allontanò da Charlie camminando avanti ed indietro davanti al suo tavolo. «Okay» disse infine il terrorista quando sembrava essersi calmato un po'. «Okay. Puoi dormire». Charlie sentì il "ma" ancora prima che Rosenthal lo pronunciasse: «Ma devi darci risultati».

Charlie rifletté febbrilmente su come sfuggire da quel guaio quando fu salvato in modo inatteso: fuori, all'altro lato della porta di acciaio, poté sentire dei passi, passi veloci che si avvicinarono.

La porta si aprì di scatto e apparve l'uomo, il più giovane della squadra – o almeno il più giovane di quelli che Charlie aveva già visto. Sembrava eccitato. Charlie, i cui nervi erano comunque ipersensibili nella sua attuale situazione, tese le orecchie ancora di più. Qualcosa doveva essere successo. La domanda era solo: era bene o male per lui?

«Che c'è, Mike?» gridò Rosenthal al suo complice con irritazione.

Charlie prese nota nella sua mente. Dunque quello era Mike. L'hacker. Durante i giorni passati, soprattutto durante le investigazioni, aveva saputo abbastanza cose da farsi un'immagine approssimativa dai suoi sequestratori. Però non sembrava servirgli a tanto. Al contrario. Se si comportavano in modo talmente libera riguardo il lasciar trapelare quelle informazioni, era probabilmente solo perché non credevano che il loro prigioniero avrebbe mai potuto trasmetterle...

«Sono qui» sbottò Mike, e il treno dei pensieri non molto ottimistici di Charlie si fermò subito. «Ci stanno cercando, qui nel parco».

Per la prima volta, Charlie credette di poter distinguere qualcosa come paura negli occhi di Rosenthal. «Cosa?» chiamò. «Chi? Chi ci sta cercando?»

«Suo fratello». Mike fece un breve cenno col capo verso Charlie senza guardarlo. Altrimenti non gli sarebbe mai sfuggito il barlume impetuoso di speranza nei suoi occhi. «Dexter l’ha saputo da uno dei suoi contatti. Eppes e la sua squadra sono qui. Si sono uniti all'altra squadra e siccome Wayne e Dexter erano stati in California, il fratello e la sua squadra probabilmente sanno più degli altri cosa sta succedendo, hanno adesso prospettive migliori–»

«Zitto!» lo interroppe Rosenthal impaziente. «Devo riflettere».

Non solo Mike, ma anche Charlie aspettavano tesi che cosa sarebbe uscito da questa breve meditazione. «Dì agli altri di andare a prendere delle provviste per noi, ma ad alcuni chilometri di distanza dal parco così da non farsi notare. Dobbiamo essere ancora un po' più invisibili del solito. E devono dividersi» ordinò Rosenthal alla fine a Mike e quello sparì.

Charlie tentò di comportarsi in modo il più calmo possibile per non attirare l'attenzione di Rosenthal su di lui, mentre il suo cuore saltellava per nervosismo e gioia cauta. Erano arrivati! Don era lì! Poteva solo essere una questione di tempo finché non l'avrebbero finalmente trovato!

Eppure... Cosa sarebbe successo se non l'avrebbero trovato? Se Charlie aveva capito bene, c'era anche una squadra che cercava i sequestratori da più tempo. E finora non erano stati fortunati. Il nascondiglio dei suoi avversari doveva esser abbastanza buono. Cosa sarebbe successo se fosse troppo buono anche per Don...?

Il cuore di Charlie batteva ancora con una velocità dolorosa quando capì che doveva fare qualcosa. Non poteva semplicemente aspettare sperando che Don lo trovasse, non doveva correre il rischio di un insuccesso, non adesso che la salvezza era talmente vicina. Doveva in qualche modo attivarsi anche lui, contribuire alla propria liberazione...

Fu un lampo di genio. Charlie vide il coltello pericolosamente grande davanti a lui sul tavolo e gli sembrò come se il suo piano fosse sempre stato lì, finito, come se avesse semplicemente aspettato quell'occasione. Il nascondiglio era abbandonato. Solo Rosenthal e quel Mike si trovavano ancora lì. Due avversari con cui, se necessario, poteva competere non senza prospettive. Doveva osare.

Charlie cominciò a sentire caldo mentre controllava il piano nella sua testa. Si sentiva tremulo. Adrenalina, disse fra di sé, è solo l'adrenalina...

Mike ritornò da loro.

«Se ne sono andati» informò Rosenthal, e nello sguardo confuso di Charlie aveva un po' l'aspetto di un agitato punto interrogativo, di un fascio nervoso e confuso, che aspettava nuovi ordini.

«Bene» disse Rosenthal che sembrava tanto calmo quanto il suo complice agitato. «Portalo nella sua cella» lo incaricò poi con un cenno della testa in direzione di Charlie. «Ci occuperemo di lui più tardi».

Charlie non era sicuro che cosa significasse, ma non se ne importò tanto. Tutto ciò che aveva importanza il quel momento era il giusto tempismo. Charlie non era mai stato tanto teso in vita sua, eppure cercava di non darlo a vedere mentre osservava come Mike si avvicinava a lui. Adesso era accanto a lui, l'afferrava sotto la spalla sinistra e stava per tirarlo in alto. Era il momento. Prima che i terroristi sapessero che cosa stesse succedendo, Charlie aveva già preso il coltello, stretto il suo braccio sinistro attorno alla gola di Mike e puntato l’arma alla gola.

La respirazione di Charlie era rapida. Anche quella di Mike. Rosenthal non sembrava respirare affatto. Era ovvio che non s’aspettasse un tale cambiamento della distribuzione del potere. Ed era abituato che tutto succedesse secondo le sue regole.

Charlie era un po' spaventato da sé stesso. Non aveva creduto veramente di farcela. Adesso, però, vedendo e sentendo la reazione dei suoi avversari, si sentì più sicuro. Aveva il colpo di scena definitivamente dalla sua parte.

La sua respirazione era ancora accelerata e avrebbe voluto che il suo cuore smettesse di battere tanto dolorosamente mentre si accorgeva che non doveva perdere il vantaggio tratto dal colpo di scena.

«Al muro» comandò a Rosenthal perché era la prima cosa che gli venne in mente. Doveva far attenzione. Non aveva una buona posizione: stava un po' in bilico fra il tavolo, la sedia e il suo ostaggio, e se l’hacker avesse fatto un movimento repentino, sarebbero probabilmente tutti e due andati per terra. E questo non doveva succedere.

Un po' calmato, Charlie osservò come Rosenthal eseguiva il suo ordine ritirandosi verso il muro di fronte alla porta. Adesso era assai lontano e Mike era ancora spaventato cosicché Charlie poté osare dare un calcio alla sedia e toglierla da davanti – naturalmente senza levar gli occhi da nessuno dei due.

Adesso non c'erano più ostacoli e Charlie tirò Mike con sé verso la porta d'acciaio che andava nella sala degli interrogatori. Il suo ricordo fu confermato: aveva una serratura di sicurezza. E la chiave non c'era.

«Dov'è la chiave?»

Nessuno rispose. Negli occhi di Rosenthal Charlie vedeva passare un odio che lo faceva inorridire. Ma doveva agire adesso. Ogni altra cosa sarebbe stata un suicidio.

«Dov'è la chiave?! Rispondi, oppure gli taglio la gola!»

Trascorsero momenti tesi. Charlie sperava ardentemente che Rosenthal rispondesse, perché non aveva idea che cosa avrebbe fatto altrimenti. Uccidere l'uomo in suo potere non era definitivamente un'opzione.

Finalmente, Rosenthal passò la mano nelle tasche del suo pantalone.

«Nessun movimento falso!» l'avvertì Charlie.

Ma Rosenthal gli diede solo uno sguardo pieno d'odio prima di tirare lentamente dalla sua tasca un mazzo di chiavi sottile, togliere una delle chiavi dall'anello con mani ammirabilmente tranquille e tenerla in alto dimostrativamente.

«Mettila sul tavolo!» ordinò Charlie. Rosenthal ubbidì.

Charlie aspettò finché l’uomo non tornasse nuovamente all'angolo prima di spingersi con Mike lentamente verso tavolo. «Prendila». Mike fece come ordinato. Lentamente si ritirarono verso la porta. Charlie rifletteva febbrilmente. Niente poteva andare male, doveva riuscire...

Erano accanto alla porta ma ancora nella stanza. «Controlla che funzioni e se la porta si chiude» ordinò Charlie al suo ostaggio. Quella era una parte problematica. Mentre Mike faceva girare la chiave nella serratura della porta aperta, Charlie doveva tenere d'occhio sia lui sia Rosenthal. Ma funzionava. E la chiave era giusta.

Charlie stava già per mandare un sospiro di sollievo, ma sapeva che era troppo presto. «Girala indietro e lasciala nella serratura» ordinò a Mike e quello ce la fece davvero – malgrado le sue mani tremolanti – a girare indietro il perno della serratura cosicché adesso si poteva di nuovo chiudere la porta.

Charlie si avvicinò di più con Mike finché finalmente si trovarono sulla soglia. Rosenthal era ad alcuni metri di distanza da loro, ma doveva bastare. Charlie fece un altro respiro profondo, costringendosi di non far attenzione sul suo tremolio, e poi tolse il più velocemente possibile il coltello dalla gola di Mike mentre, quasi nello stesso momento, lo spinse il più forte possibile via da sé. Mike barcollò avanti, ma Charlie non ci fece quasi più attenzione. Tirò la porta ferma e girò la chiave. I suoi sequestratori erano imprigionati.

Per un attimo si fermò respirando profondamente, ma sapeva che non doveva concedersi tempo. Certo, sapeva che gli altri terroristi della CIA erano andati via, ma non aveva idea quando sarebbero tornati.

Corse in fretta per i corridoi sotterranei aprendo ogni porta che passava. Il bagno, un ufficio, un altro ufficio, un specie di camera di tortura, un ufficio con schermi con un sistema GPS...

Charlie si fermò repentinamente. Credette che il suo cuore avrebbe smesso di battere. Segnali GPS. Da lì sorvegliavano segnali GPS. E anche lui trasmetteva uno di quei segnali, l'aveva quasi dimenticato! Quel dannato segnale gli era già stato fatale al suo primo tentativo di evasione, in autunno, e non ci doveva essere una seconda volta. Doveva impedire in qualche modo che lo seguissero di nuovo, doveva...

Ad un tratto Charlie si accorse che aveva ancora il coltello nelle mani. Il coltello tremava. Ma Charlie non doveva andare panico in quel momento. Doveva mantenere la calma. Vide solo una singola possibilità e non esitò più, ma fece un taglio lungo il braccio sinistro. Poteva ricordare come gli avevano messo dentro il chip, doveva trovarsi vicino al suo polso. Non lo trovò subito, ma dopo alcuni secondi, le sue dita palparono un qualcosa di duro e sintetico che sicuramente non apparteneva al suo corpo. E malgrado le dita tremassero ci mise solo alcuni attimi per toglierlo. Lo lasciò cadere a terra e lo schiacciò con i piedi.

Rifletté brevemente se c'erano altre possibilità per i suoi sequestratori di localizzarlo, ma siccome non portava niente con sé, pensò di essere al sicuro. Solo quando lasciò cadere il suo sguardo verso il basso, lungo il suo corpo e il braccio sanguinante entrò nel suo campo visivo, temette che forse potessero seguire le tracce sangue. Doveva trovare qualcosa per fasciarlo, qualsiasi cosa...

Un momento dopo era nel piccolo bagno sotterraneo ed avvolgeva alcuni strappi di carta igienica attorno al suo polso. Doveva bastare. Ora non aveva più alcuna ragione per esitare.

In pochi minuti aveva trovato l'uscita: una porta d'acciaio, come le altre, però quella non dava in un ufficio o una sala interrogatorio, ma nella notte fresca che gli ridava la vita.

Era libero.

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Capitolo 39
*** Battaglie esistenziali ***


39. Battaglie esistenziali

All the leaves are brown and the sky is grey.
I’ve been for a walk on a winter’s day.
I’d be save and warm if I was in L.A –
California dreaming on such a winter’s day.
(Mamas and Papas, California Dreaming)


Il tasso di adrenalina che scorreva nelle vene di Charlie era ad altezze vertiginose mentre era davanti al nascondiglio e tentava di acquistare una visione completa tanto della sua situazione quanto della sua posizione. Si trovava in un territorio scoperto, c'erano alberi intorno a lui, ma quel posto sembrava essere una piccola radura naturale. Soltanto il bunker dei terroristi era tutto tranne naturale. Sembrava esistere da qualche tempo, perché era coperto di fronde e rampicanti e in fondo invisibile. Almeno di notte.

Charlie si chiese dove potessero essere gli altri sequestratori. In ogni caso considerava consigliabile dirigersi nella direzione opposta. Ma non aveva idea di dove potesse essere la direzione opposta.

In ogni caso devo andare via da qui, si incitò finalmente. Perché più si allontanava dal nascondiglio, più si estendeva l'area e meno probabile diventava la possibilità di imbattersi in uno dei sequestratori.

Si mise dunque in cammino seguendo una direzione in cui la sterpaglia non era troppo fitta. Non aveva visto dei sentieri e se ce ne fossero stati, li avrebbe definitivamente evitati. Nella sterpaglia, però, la sua traiettoria sarebbe stata più facile da seguire.

Più camminava nel buio della notte, lontano dai sequestratori nel nascondiglio, più l’adrenalina svaniva, e presto, il suo avambraccio sinistro si fece sentire in modo spiacevole. Il taglio al suo polso bruciava e pulsava, ma in confronto al problema del vagare senza una precisa direzione Charlie lo considerava solo fastidioso. Comunque non era arrivato alle vene, il taglio era solo sgradevole, non pericoloso, almeno finché non fosse arrivata la setticemia.

Andava peggio con l'orientamento. Purtroppo, Charlie non aveva mai imparato ad orientarsi in base alle stelle, ma anche se avesse avuto questa facoltà, probabilmente non gli sarebbe stata d’aiuto nella sua situazione attuale. Perché forse avrebbe saputo esattamente dove si trovavano i punti cardinali – certo, poteva anche stabilirlo approssimativamente con l'aiuto della stella polare – ma non l'aiutava finché non aveva idea dove si trovasse.

Charlie ripensò alla conversazione che aveva sentito nel rifugio. “Sono qui. Ci stanno cercando, qui nel parco”. Nel parco... probabilmente Mike si stava riferendo ad un "parco nazionale", perché quell’area a Charlie non sembrava essere un parco urbano. Ed era perfetto. Lì, nessuno avrebbe mai trovato un nascondiglio sotterraneo.

Allora lo stavano cercando. Però, purtroppo, da due lati opposti. Da una parte c'erano i suoi salvatori che non sembravano aver altra indicazione tranne il parco gigantesco, dall'altra c'erano i suoi inseguitori che sapevano esattamente da dove cominciare la ricerca, cioè dal luogo in cui era evaso. Dunque era necessario far perdere le tracce ai secondi e sbarazzarsi di loro mentre allo stesso tempo doveva dirigere l'attenzione dell'FBI su di sé. Come?

Prima doveva mettersi ad un massimo di distanza dal suo carceriere. Poi avrebbe potuto preoccuparsi del resto. Perché una cosa era chiara: aveva bisogno dell'aiuto di Don e della squadra, perché se davvero si trovava in un parco nazionale, non poteva sperare di trovare la via d’uscita prima che gli altri avessero trovato lui. Ma come comunicare a Don e gli altri dove si trovava e quale direzione imboccava senza che queste informazioni fossero arrivate nelle mani sbagliate?

Rifletté intensamente. Probabilmente l'FBI avrebbe cercato sia via terra sia dall'alto con un elicottero dato che non avevano ancora nessuna indicazione. Almeno Charlie sperava ardentemente in una ricerca aerea. Perché se fosse stato così, aveva già un'idea.

Ad un tratto, il terreno esplose davanti a Charlie e il ragazzo saltò indietro spaventato. Qualcosa fischiò nelle sue orecchie. Sentiva qualcosa come punture d’ago dappertutto sulla pelle. Ma da dove potevano arrivare degli agi – lì? Acqua, il pensiero venne a Charlie come un fulmine, era acqua! E infine, non ebbe più dubbi: davanti a lui, solo ad una dozzina di passi di distanza, acqua schizzava dal terreno.

Per alcuni secondi, Charlie fu talmente perplesso da non distinguere che cosa aveva davanti: un geyser. Almeno i nervi tesi fino allo stremo sotto la sua pelle gli dicevano che l'acqua di questa fontana a getto naturale era calda. E se c'erano dei geyser lì, uno solo per quanto sapeva era il luogo dove poteva trovarsi: il Parco nazionale di Yellowstone. Almeno che non si trovasse in Islanda, e Charlie osava dubitarne.

Ma ovunque si trovasse sarebbe stato saggio lasciare la sua attuale posizione e girare estesamente intorno a quell’area. Non era granché intelligente, nel buio, camminare attraverso un campo minato di gargolle bollenti. Perché non se la sentiva proprio di stare alla prossima eruzione direttamente sopra di uno di quelli minuscoli vulcani.

- - -

Quando Amita si rese conto di aver rotto la sua tazza da caffè avrebbe voluto piangere. Non le importava della tazza. Le importava di tutto il resto e la pressione che gravava su lei era appena sopportabile. Era stanca, aveva i nervi a pezzi, niente voleva più funzionare, faceva un errore dopo l'altro, diventava sbadata, non ce la faceva più a fare niente – e non avevano ancora trovato Charlie.

Amita deglutì, cacciando indietro le lacrime, ma la furia e la disperazione rimanevano. Semplicemente non lo voleva più, era tutto senza senso...

«Non vuoi raccogliere quei cocci?»

Amita si voltò rapidamente ed fu un po' sorpresa che con quel gesto non avesse fatto cadere il laptop. Non si aspettava Larry a quell’ora della sera, tanto più perché pensava che fosse ancora a riposo. Ciò nondimeno era contenta che fosse lì perché malgrado la sua aura spesso confusa, a modo suo emanava una certa calma.

«Sì, certo» disse quando realizzò che cosa le aveva detto. Prese la paletta accanto alla porta e mentre raccoglieva i cocci si calmò di nuovo un po'. In fondo, era solo una tazza. Poteva succedere a chiunque.

Larry si avvicinò con cautela al suo laptop guardando il suo lavoro. Da terra, Amita gli diede uno sguardo. Larry sembrava ancora pallido e riusciva appena a stare dritto, talmente dolorose dovevano essere le sue ferite, ma era lì ed Amita si sentiva già un po' meglio solo grazie alla sua presenza. Aveva imparato durante i giorni passati quale peso incredibile fosse lavorare da sola ad un tale progetto. Soprattutto quando si trattava con l'uomo che amava.

«Ma questa non è più l'analisi per riconoscere i visi» constatò Larry con uno sguardo al programma corrente.

Amita scosse la testa. «Quella l'ho già finita questo pomeriggio» lo informò. «Comunque non ho potuto raggiungere Don, ma mi aveva dato i numeri degli agenti dell’altra squadra e loro mi hanno detto di mandare le informazioni. Penso che abbiano già cominciato le indagini sugli uomini».

«Vuoi dire che le nostre immagini hanno veramente ottenuto un risultato positivo?»

Amita annuì. «Sì. Gli uomini che hanno preso Charlie si chiamano Dexter Johnson e Wayne Taccone; lavorano veramente tutti e due per la CIA».

Larry aggrottò la fronte. «Ma quello non è stato un arresto...»

«No» affermò Amita. «E' stato un rapimento».

Si voltò di nuovo, lontano da lui. Non avrebbe pensato di essere capace di tali emozioni, ma da quando i sequestratori di Charlie avevano finalmente dei nomi e una storia, sentiva un tale odio verso di loro che le faceva quasi male. E il fatto che non potevano far niente contro loro perché erano scomparsi serviva solo ad alimentare questi sentimenti.

«Amita...» Levò gli occhi e si accorse che il suo collega doveva averla osservata. «Dovresti andare a casa adesso e riposarti».

Scosse il capo con forza. «Non posso» gli ricordò e poteva quasi credere che un tale proposto veniva da lui. Erano finalmente così vicini alla loro meta! Charlie doveva essere da qualche parte in quell'area, non c'era quasi un'altra possibilità! E dovevano trovarlo adesso; non poteva abbandonarlo così vicino a destinazione.

Larry sospirò e tacque. «E che cos'è questo?» chiese infine indicando il laptop di Amita.

«Ho tentato di ottimizzare la ricerca. Ma ho troppo poche indicazioni».

Larry guardò il programma. «Parti dai punti dove i sequestratori sono stati visti?»

«Esatto. Comunque non sono tanti. E anche se potessimo dire con sicurezza che tutti i punti sono corretti, non sappiamo ancora a quale distanza dal nascondiglio si trovino. Possono essere cinque miglia come cinquanta».

Larry annuì. «La conformazione del terreno l'hai considerata?»

«Sì, ma non ci aiuta molto. La maggior parte nell'area in considerazione è selva e i posti sembrano tutti ugualmente probabili».

Larry annuì gravemente. Anche lui non aveva alcuna idea.

«Cosa ne dici se ci dormissimo sopra?» propose infine. «Forse ci verrà qualcosa in mente domani».

Amita non sembrava molto convinta. «E se non succedesse?»

«Se non succedesse, saremmo allo stesso punto di stasera».

Amita scosse la testa. «Come puoi rimanere così calmo?» mormorò, e Larry ebbe qualche difficoltà a comprendere le parole.

Non rispose subito. Non che non avesse paura. Ma sapeva che il suo cervello non poteva funzionare sotto l'influsso del panico e così non avrebbe potuto aiutare Charlie. Dovevano mantenere il problema ad una certa distanza da loro, osservarlo da una soglia di sicurezza se volevano risolverlo e trovare Charlie. Certo, non gli riusciva facile. Ma era necessario e avrebbe fatto tutto quanto fosse in suo potere.

Sempre sperando che questo sarebbe bastato.

- - -

Charlie aveva freddo. Per essere aprile o maggio - dopo i giorni chiuso lì dentro non poteva più dirlo con certezza - la notte gli sembrava terribilmente fresca e piuttosto simile a quelle di dicembre o gennaio. E la sua giacca leggera non aiutava molto a proteggerlo dal freddo. Forse, almeno parzialmente, anche perché non era abituato alle notte primaverili lì a nord, diverse da quelle nella California australe. In ogni caso tremava quasi tanto forte quanto il fogliame degli alberi attorno a lui mentre si apriva, un po' troppo velocemente considerando le condizioni di luce, un cammino attraverso la notte.

Il desiderio di ritornare a casa diventava insopportabilmente forte dentro di lui, soprattutto perché aveva la sensazione di non essere tornato veramente a casa dall’incarico di ottobre. Perché i giorni prima del suo arresto erano stati talmente offuscati dalla sua amnesia e dalla sua insicurezza nei rapporti con le persone care che la sensazione di essere finalmente a casa e al sicuro non erano mai apparse. E benché fosse pressato molto dalla paura che i suoi sequestratori potessero raggiungerlo, la sua velocità era anche causata dal fatto che voleva finalmente vederli tutti di nuovo e sapere che erano vicini a lui. Tutti, compreso Larry...

Durante i successivi metri, la paura gli fece salire un nodo alla gola e dovette veramente fermarsi per un attimo per riprendere fiato. Cosa avrebbe fatto se era davvero successo qualcosa a Larry...? Se i suoi sequestratori non avevano mentito, se l'immagine del giornale era vera...

Con nuova determinazione continuò il suo cammino, un po' più velocemente di prima. Non doveva solo fuggire dai suoi sequestratori, ma anche dall'incertezza. Doveva finalmente sapere come stava Larry.

Ad un tratto sentì un gorgoglio. Si voltò un po' a destra. Sì, lì diventava più forte. Dopo alcuni metri Charlie era sicuro che da qualche parte lì intorno ci fosse un torrente, ma non poteva vedere niente. Era notte, e inoltre il bosco sopra di lui formava un tetto abbastanza fitto.

Charlie rallentò i suoi passi continuando ad ascoltare. Era più vicino, più vicino –

«Ah!»

Non aveva potuto trattenere un piccolo grido spaventato quando il suo piede era scivolato giù nell’acqua gelida. Charlie tentò, con l'aiuto dell'altra gamba che stava ancora sulla riva, di tirarsi via, ma non riuscì al suo primo tentativo – il fiume era troppo profondo – e al secondo tentativo si fermò: l'acqua, che inizialmente aveva creduto venire direttamente dal mare polare, in verità era calda, quasi bollente, così calda che all'inizio aveva ingannato i suoi nervi.

Quando Charlie si fu abituato abbastanza da non sentire più il bisogno di uscire, si accorse di due cose: l'acqua non era tanto bollente quanto aveva temuto, una volta abituatosi, e il torrente gli dava una possibilità straordinaria di lasciare tracce false a possibili inseguitori.

Per un momento Charlie stette lì abituandosi all'acqua e riflettendo cosa fare. Finalmente si girò a monte, contro corrente, perché sarebbe stato più facile proseguire verso valle e sperava che i suoi inseguitori avrebbero pensato che aveva preso quella direzione arrivando così a conclusioni false.

Già dopo pochi passi sul sottosuolo sassoso Charlie si accorse che le sue scarpe lo disturbavano. Si trattava di scarpe da tennis più o meno logore che già dopo pochi metri si erano riempite completamente di acqua, pesando ai piedi come blocchi di piombo. Inoltre, doveva averle strappate in qualche punto durante la fuga perché la suola della scarpa sinistra era attaccata solo per metà alla stoffa.

Senza esitare se le tolse continuando il suo cammino a piedi nudi, ma già dopo pochi metri si fermò di nuovo. Non perché fosse troppo doloroso - non era molto più scomodo che con le scarpe bucherellate. Ma aveva avuto un'idea. Le sue scarpe potevano aiutarlo a velare la sua direzione agli inseguitori. Perché da una parte non avrebbe lasciato tracce nel suolo e le impronte del suo piede probabilmente sarebbero state più difficili da scoprire, e dall'altra poteva tentare d'ingannarli: siccome credevano che lui stesse andando verso valle, le avrebbe lasciate a monte, nella direzione in cui si voltava - e le lanciò invece di depositarle semplicemente sulla riva; comunque tutto doveva sembrare autentico. Gli agenti dalla CIA avrebbero concluso, così sperava, che si era voltato a valle.

Guadare il torrente sassoso non era una passeggiata e Charlie in poco tempo decise di continuare il suo cammino non presso la riva, dove l’acqua arrivava solo fino alle ginocchia, ma nel mezzo del torrente che presto risultò essere un fiumiciattolo, dove si trovava fino al torace nell'acqua. Certo, avanzava un po' più lentamente, ma così l'acqua avrebbe portato la maggior parte del peso del suo corpo e i suoi piedi non sarebbero più stati tanto sensibilmente ai ciottoli. Eppure Charlie era abbastanza sicuro che fossero già feriti; in ogni caso le piante dei suoi piedi bruciavano, ma non si fermò per verificare. Doveva andare avanti. Non dovevano trovarlo. Non doveva di nuovo capitare nelle loro mani. Doveva andare avanti...

Charlie rimase a lungo nell'acqua. Non voleva illudersi dal fatto che sembrava avesse percorso una grande distanza solo perché ci aveva messo tanto. Sapeva che i suoi inseguitori non ci avrebbero messo tanto se stavano a terra a cercare lungo la riva il posto dove si sarebbe arrampicato fuori dal torrente. Adesso si chiedeva se non sarebbe stato meglio andare a valle, perché avrebbe seguito la corrente invece di lottarci contro. Ma sperava che sarebbe stato proprio quello che i suoi sequestratori si aspettavano.

Dopo alcune ore uscì finalmente dal torrente, lungo un punto roccioso cosicché loro non avrebbero trovato le impronte dei suoi piedi nella terra molle. Dopo esser stato nell'acqua piacevolmente calda, l'aria notturna era pungentemente fresca, nonostante dovesse essere già maggio - la primavera lì al nord e in alto era davvero qualcos'altro rispetto a quella in California.

Per un secondo, si fermò. Il pensiero di casa gli aveva dato un pugno doloroso. Pensò a Los Angeles, a Pasadena, a casa sua, ai dintorni, il mare, le zone e gli edifici famigliari...

E alle persone famigliari.

Con nuova determinazione, Charlie continuò il suo cammino a piedi nudi attraverso il selvaggio del Parco nazionale di Yellowstone.

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