Ricomincio da qui di mikchan (/viewuser.php?uid=199117)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1-L'inizio dopo la fine ***
Capitolo 3: *** 2-Galeotta fu una macchinetta ***
Capitolo 4: *** 3-Nel mezzo di due vite ***
Capitolo 5: *** 4- Sapore di miele ***
Capitolo 6: *** 5-Incontri ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
PROLOGO
"Lorenzo!".
"Gne
gne gne".
"Lorenzo! Ridammi la mia bambola".
"Gne
gne gne".
"Piantala. Rivoglio la mia bambola".
"E
allora vieni a prenderla".
"Lo sai che la mia mamma non
vuole che salgo sugli alberi".
"La tua mamma non c'è".
"Sì, ma rovino le scarpette nuove".
"Toglile".
"E poi come faccio a salire?".
"Ti aiuto io.
Forza".
"Ma poi me la ridai la bambola?".
"Solo
se sali fino a qui".
"Se cado mi prendi?".
"Non
cadi, fidati."
"Ma se cado?".
"Va bene,
stai tranquilla. Ora sali però".
Chiara si tolse le nuove
scarpette di ginnastica che aveva comprato e che aveva voluto subito
provare e le appoggiò accanto al tronco dell'albero. Fece un
saltello per aggrapparsi al ramo più basso e, issandosi con
le
braccia e aiutandosi con i piedi, si mise a sedere.
"E
ora?", chiese all'amico.
"Alzati in piedi e continua a
salire. Ci sono i rami che ti aiutano".
"Ma sei troppo
in alto. Puoi scendere un po'?".
"Non dirmi che hai
paura!".
Chiara si morse un labbro, guardando l'amico e poi
il prato sotto i suoi piedi. "No...".
"E allora
sali. Ce la puoi fare".
"Davvero?".
"Certo.
Ti ho vista l'altro giorno mentre eri in palestra e facevi quelle
cose su quella cosa con due bastoni".
Chiara si accigliò,
alzandosi in piedi e appoggiandosi contro il tronco. "Si
chiamano parallele, stupido".
"Sì, sì, come vuoi. In
ogni caso hai fatto quella capriola fantastica lassù, quindi
puoi
anche arrampicarti su un albero".
"Non era una
capriola, ma... oh, tanto non mi capiresti comunque",
borbottò
tra sè. Si guardò intorno. "Lori, dove devo
aggrapparmi?".
"Il ramo di là", rispose il bambino indicando con il
dito la destra di Chiara, che annuì.
La bambina si allungò un
poco e afferrò anche quel ramo. Come poco prima, si
issò con
l'aiuto delle braccia e rimase ferma per un attimo. Effettivamente
era come dondolarsi sulle parallele che c'erano in palestra e,
d'istinto, si piegò in avanti, svolgendo una capovolta. Si
mise poi
a sedere sul ramo e si alzò subito, aggrappandosi ad un
altro per
salire ancora di più. In poco tempo aveva raggiunto
l'amichetto e
gli sedeva a fianco, con il fiatone, ma con un enorme sorriso sulle
labbra.
"Visto che ce l'hai fatta?", le disse Lorenzo
porgendole la bambola.
Chiara l'afferrò contenta. "Grazie",
rispose abbracciandola.
"Chiara", la chiamò l'amico.
"Mi insegni a fare quella cosa che hai fatto prima?".
Lei
lo guardò e annuì. "È facilissimo", si
pavoneggiò.
Lorenzo si alzò in piedi e, afferrando il ramo sopra le loro
teste, cercò di imitare i gesti dell'amica.
"Non lasciare
mai la presa", lo avvertì Chiara quando lo vide issarsi
sulle
braccia.
L'amico annuì e, piegandosi in avanti, girò
intorno al
tronco per poi tornare alla posizione di partenza. "Urca, è
bellissimo!", esclamò con un enorme sorriso, ripetendo
quella
capovolta ancora un paio di volte.
"Sì, ora scendi e vieni
qui", lo richiamò Chiara, sbuffando. "Non sono salita fino
a qui per vederti fare capriole".
Lorenzo appoggiò di nuovo
i piedi sul tronco e si sedette accanto a Chiara. "Mi è
venuta
fame", disse poi prendendo lo zainetto e aprendolo. "Vuoi
dividerla con me?", chiese a Chiara, mostrandole una merendina.
La bambina annuì e mangiarono in silenzio, dondolando le
gambe
in sincronia.
"È proprio proprio bello quassù", disse
Chiara all'improvviso, guardando davanti a sé.
"Lo so, ci
vengo spessissimo, sai?"
"Perché?".
Lorenzo
scosse le spalle. "Quando mamma e papà urlano non mi va di
ascoltarli. Quindi vengo fino a qui e mi porto qualche gioco".
"Posso venire anch'io quando mamma e papà urlano?",
gli chiese Chiara.
Il bambinò annuì. "Certo. Magari
possiamo costruirci anche una casetta. Come quella dei Simpson".
"Tu sei capace?".
Lorenzo fece per parlare, poi
chiuse la bocca, scuotendo il capo. "Però possiamo chiedere
al
mio papà", affermò sicuro.
"E ci aiuterà?".
"Lo spero", disse Lorenzo, infilandosi lo zaino sulle
spalle. "Forza", disse poi. "Dobbiamo scendere".
"Lori, posso tornare domani?", gli chiese la bambina.
Lui
si mise seduto, dondolando le gambe verso il tronco più
basso. "Solo
se porti tu la merenda", propose con un sorriso birichino.
Chiara annuì con forza. "Promesso".
Entrambi
scescero dall'albero aiutandosi a vicenda e, quando finalmente
toccarono il prato, sorrisero.
"Grazie albero", disse
Chiara, accarezzando la corteccia come aveva visto fare in un cartone
animato e chinandosi per prendere le scarpette.
"Chiara",
la richiamò Lorenzo. "Ma noi saremo amici per sempre?".
"Certo. Che domande fai?".
"Anche se io non
potrò più salire sull'albero con te?".
"E perché non
puoi? Sei in castigo?".
"No, non sono in castigo. Ma
devo cambiare casa", ammise.
"E perché?", ripeté
Chiara. "La tua non ti piace più?".
Il bambino scosse
la testa. "A me piace un sacco, ma mamma e papà vogliono
andare
via".
"E dove?".
"Non lo so", ammise
Lorenzo.
"E io con chi salirò sull'albero?", mormorò
mogia Chiara, stringendosi la bambola al petto.
"Saremo
sempre amici?" chiese invece Lorenzo con tono apprensivo e
urgente.
Chiara lo guardò e poi annuì. "Nel posto in cui
vai trova un albero come questo. Quando tornerai faremo a gara di chi
fa più capriole".
"Me lo prometti?".
"Promesso",
disse la bambina, allungando la mano con il mignolo teso. Lorenzo la
imitò e strinsero quella promessa guardandosi negli occhi.
Poi,
senza dire più niente, si incamminarono verso casa, uno
accanto
all'altro, senza sapere che per entrambi il tempo di dondolarsi sugli
alberi sarebbe finito molto presto.
Finalmente
ho trovato il tempo, la voglia e lo spirito giusto per iniziare a
pubblicare questa storia!
Sono
mesi che l'ho iniziata, ma tra una cosa e l'altra, soprattutto con la
maturità quest'anno, ho sempre rimandato questo momento. Ma
ora ce
l'ho fatta, ho sistemato gli ultimi dettagli ed ecco il primo
capitolo della mia nuova storia.
Voglio avvisarvi subito che non
sono proprio un'esperta in ginnastica artistica: quello che so, lo
devo alle lezioni che ho preso quando ero piccola, alla mia adorata
prof di ginnastica che ha creduto fin troppo in noi e l'ha messa nel
programma e, soprattutto, a Ginnaste Vite Parallele (ebbene
sì, ho
perso un sacco di pomeriggi a guardare quel programma. Una cosa molto
triste, ora che ci ripenso). Quindi, come al solito, se dico
castronerie non esistate a correggermi e lo stesso vale per errori
vari ed eventuali.
Pubblicherò
presto il primo capitolo, anche perché questo prologo
è davvero
corto e poi ci sarà una scadenza settimanale, scuola
permettendo.
Ah,
mi
piacerebbe avere un banner anche per questa storia, ma quando ho
chiesto sul forum di EFP nessuna mi ha cagata perché
evidentemente
non sono abbastanza VIP per loro, quindi chiedo a voi, che siete
umili mortali come me. QUALCHE
ANIMA PIA, BRAVA
CON I PROGRAMMI CHE NON SIANO PAINT (ovvero il massimo che
io
so usare) POTREBBE CREARMI UNA
COPERTINA PER
QUESTA STORIA?
Aspetto vostre notizie in massa
a
presto
mikchan
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** 1-L'inizio dopo la fine ***
Grazie di cuore a Witchligh per
la bellissima copertina!
1- L'INIZIO DOPO LA
FINE
"Io
vado".
Mi infilai velocemente le scarpe, sistemandomi poi la
tracolla sulla spalla. Non feci un tempo a fare un passo verso la
porta che mia madre comparve dalla cucina.
"Mi raccomando",
disse sorridendo emozionata.
Alzai gli occhi al cielo. "Mamma,
non vado in guerra", risposi scherzando.
"Lo so,
però...".
"Va tutto bene, mamma. È solo il primo
giorno di scuola".
"Lo so", ripeté mentre il
labbro inferiore le tremava e gli occhi le si inumidivano. "Era
da tanto che non ti vedevo così bella".
Il sorriso mi morì
sulle labbra, capendo all'istante cosa volesse dire. "Sono come
sempre", ribattei.
Lei prese un respiro profondo, cercando
di trattenere le lacrime. "Lo dai un abbraccio alla tua mamma
prima di andare?".
Non potei fare a meno di sorridere e
annuire, avvicinandomi e lasciandomi stringere dalle sue braccia
calde e profumate. Solo lì mi sentivo a casa e al sicuro,
coccolata
da quell'aroma che mi aveva accompagnata per tutta la vita e che mi
tranquillizzava ogni volta. Mia madre era un po' svampita,
decisamente emotiva e a volte rompiscatole, ma sapeva meglio di me
quando avevo bisogno di uno dei suoi abbracci, così come
quel
giorno.
Potevo capirla, in fondo. Era dalle medie che non avevo
un vero e proprio "primo giorno di scuola". Negli ultimi
anni avevo sempre studiato da privatista e tornare in mezzo agli
altri ragazzi, frequentare le lezioni, studiare, fare i compiti era
qualcosa che, forse, scoinvolgeva più lei che me stessa. Io,
in
fondo, me ne ero fatta una ragione, ma sapevo che mia madre stava
ancora soffrendo per quello che era successo la primavera prima e
faceva sempre fatica ad accettare novità così
grosse.
Ma, in
fondo, era per quello che le volevo così bene.
Mi staccai
dall'abbraccio, dandole un bacio sulla guancia. "Ci vediamo
pomeriggio", le dissi con un sorriso.
Lei annuì,
accarezzandomi i capelli. "Fai a vedere a tutti quanto vali,
Chiara".
"Come sempre", affermai sicura, uscendo
poi di casa dopo averla salutata con un gesto.
Fuori dalla porta
mi fermai un attimo per prendere un grosso respiro.
Alzai gli
occhi verso il cielo di inizio settembre, leggermente illuminato dal
primo sole che stava sorgendo.
In quel momento iniziava una nuova
parte della mia vita e dovevo farmene una ragione. Sarebbe stato
difficile, avrei sofferto, ma non avrei mollato. E se un giorno
avessi perso la speranza, mi sarei ricordata di mia madre, quella
donna stupenda che aveva sempre assecondato ogni mia passione e che
mi aveva supportato fino alla fine, forse anche oltre.
Sorrisi di
nuovo e uscii dal vialetto di casa, chiudendomi il cancelletto alle
spalle. Mi incamminai verso la fermata dell'autobus che distava meno
di cinque minuti di cammino.
Cercai di non fare vagare i pensieri
e mi concentrai su quello che mi trovavo davanti. Nonostante abitassi
in un piccolo paesino e nonostante fossero appena le sette del
mattino, le strade erano più trafficate di quanto mi
aspettassi e,
lungo la via, incontrai anche altri ragazzi che conoscevo solo di
vista. In fondo, non avevo mai interagito molto con loro, non tanto
perché fossi timida, ma perché negli ultimi
cinque anni avevo
passato praticamente tutta la mia vita in palestra.
Passai di
fianco al parchetto dove andavo sempre da bambina e, d'istinto,
lanciai un'occhiata al grosso albero sul quale avevo imparato a fare
le capovolte. Avevo tanti ricordi legati a quel posto e troppi,
purtroppo, erano qualcosa che ormai non possedevo più.
Scossi la
testa per scacciare quei pensieri. Non potevo farmi contagiare dalla
tristezza di prima mattina, soprattutto in una giornata così
speciale.
In pochi minuti arrivai alla fermata e, preso il
biglietto dal portafoglio, mi guardai intorno, incontrando lo sguardo
curioso di alcune ragazze. Abbozzai un sorriso di saluto nella loro
direzione, ma non dissi nulla. Sapevo benissimo cosa stavano pensando
e, dopotutto, quello era il brutto di abitare in un piccolo paese.
Tutti sapevano del mio incidente e, soprattutto, tutti sapevano della
mia passione. Non me ne ero mai curata molto, ma sentire gli sguardi
della gente addosso era davvero fastidioso. L'ultima cosa che volevo
era essere compatita ed era esattamente ciò che quelle due
ragazze
stavano facendo.
"Ehi Chiara!". Mi voltai di scatto e
sorrisi.
Greta era l'unica ragazza del mio paese con la quale
avevo mantenuto un buon rapporto. L'avevo conosciuta in prima media
e, nonostante l'anno dopo avessi lasciato la scuola, avevamo
continuato a tenerci in contatto e potevo benissimo considerarla la
mia migliore amica.
"Ciao", la salutai.
"Come
va? Sei nervosa? Immagino di sì, in fondo non conosci
nessuno a
parte me".
Trattenni a stento una risata di fronte alla sua
solita parlantina. Quello era un tratto caratteristico di Greta e
adoravo la sua schiettezza, anche se a volte rasentava addirittura la
maleducazione. Ma lei era fatta così: sincera fino al
midollo,
sempre, ed era l'unica che mi diceva le cose in faccia senza paura di
offendermi. Quell'estate era stata proprio la sua presenza che mi
aveva aiutata a risollevarmi e per quello le ero estremamente grata.
"Sono un po' nervosa, ma se non mi abbandoni andrà tutto
bene".
"Tranquilla", disse lei facendomi
l'occhiolino. "Ti starò attaccata come una sanguisuga".
Risi, mentre vedevo il pulman girare la curva e avvicinarsi a
noi. Salimmo e seguii Greta verso il fondo. Si sedette accanto a due
ragazzi, nei posti a quattro, e mi fece segno di imitarla.
"Ragazzi,
lei è Chiara. Chiara, loro sono Filippo ed Elisa. Sono in
classe con
noi".
Li salutai con un sorriso, appoggiandomi la tracolla
sulle gambe. Il pullman era piuttosto affollato e c'erano parecchie
persone in piedi, quindi ringraziai mentalmente gli amici di Greta
per aver lasciato liberi quei due posti.
"Hai sentito
Lorenzo quest'estate?", chiese Elisa a Greta mentre il mezzo
ripartiva. Lorenzo era il ragazzo di Greta, quello con cui faceva
tira e molla da più di due anni e che io non avevo mai
incontrato.
La mia amica annuì. "Sì, ma diciamo che avevo
di meglio da fare", rispose, lanciandomi un'occhiata complice e
un mezzo sorriso. Mi sentii un po' in colpa per quelle parole: Greta
aveva passato l'estate con me e aveva trascurato il suo ragazzo per
non farmi sentire sola.
"Tornerete di nuovo insieme?".
Greta fece spallucce. "Probabilmente", disse solo.
"Ma
ti piace?", le chiesi io d'impulso. Nonostante la sua
parlantina, Greta era molto riservata quando si trattava della sua
vita privata e non mi aveva mi parlato molto della sua relazione con
Lorenzo e quindi sapevo poco, sicuramente di meno di Elisa, che mi
guardò sorpresa.
"Se le piace?" esclamò. "Dio, è
completamente cotta".
Ridacchiai, mentre Greta arrossiva.
"Non sono cotta di nessuno, io".
"Certo, certo",
la zittì l'amica. "Però ogni volta che lo vedi
gli fai gli
occhi dolci come un pesce lesso".
"Non è vero",
ribatté. "Chiara non crederle. Io non sono un pesce lesso".
"Oh, invece sì", continuò Elisa, facendomi
l'occhiolino. "Lo vedrai tu stessa quando lo conoscerai".
Greta borbottò qualcosa, imbarazzata, mentre io ed Elisa
ridevamo delle sue espressioni.
La mezz'ora di viaggio passò in
fretta e, quando scesi dal pullman che si era fermato davanti al
piazzale della scuola, mi trovai a pensare che non era stato per
niente difficile fare amicizia e sperai che fosse così anche
per il
resto della classe.
Filippo ci salutò con uno sbadiglio e si
incamminò a passo dondolante verso l'istituto; Greta ed
Elisa,
invece, si fermarono poco davanti il cancello e si accesero una
sigaretta. Come ogni volta, lanciai un'occhiataccia alla mia amica,
che si limitò ad abbozzare un sorriso. Certo, quella era una
scelta
sua e io forse ero troppo fissata su quelle cose, ma non mi piaceva
proprio vederla fumare.
In ogni caso non dissi nulla, limitandomi
a seguire il discorso delle due su qualche professore che non
vedevano l'ora di incontrare. Ironicamente, presumevo.
Appena
entrammo nell'istituto mi fermai davanti all'ingresso, sorpresa. La
quantità di persone che vagavano nei corridoi era immensa,
chi con
aria assonnata e un caffé in mano, chi già pieno
di energie, ma
tutti sembravano piuttosto contenti di trovarsi lì, se non
tanto per
la scuola in se, proprio per le persone che avevano incontrato di
nuovo dopo tre mesi.
Elisa e Greta andarono a controllare il
numero della classe per quell'anno e, tornate da me, mi fecero fare
l'intero giro della scuola prima di raggiungerla. Ovviamente ci avrei
messo un po' ad ambientarmi, ma almeno avevo scoperto dov'erano i
bagni, la segreteria e altri posti essenziali.
Quando arrivammo
alla classe successe l'inevitabile: tutti si voltarono a guardarmi,
sorpresi, e arrossii. "Ciao", mormorai, stringendo le dita
attorno alla spallina della tracolla.
"Ragazzi, lei è
Chiara, la mia migliore amica". Mi sorrise rassicurante.
"Chiara, loro sono Alice, Claudia, Caterina, Filippo che hai
già
conosciuto, Luca, un'altra Chiara...".
Dopo i primi nomi mi
ero già persa e li avevo scordati subito tutti. Avevo
davvero una
pessima memoria e sapevo già che avrei impiegato parecchie
settimane
a ricordarmeli tutti.
"Ehi, aspetta!", mi richiamò una
ragazza.
Mi voltai verso quella voce e mi immobilizzai sul posto.
Conoscevo quello sguardo e quel tono e, forse, sarebbe stato peggio
di quanto mi ero mai immaginata.
"Ti riconosco, tu sei
Chiara Fumagalli, quella in Nazionale Italiana di ginnastica
artistica".
Strinsi le labbra, percependo addosso gli occhi
di tutti. Sì, era decisamente peggio del previsto.
Greta mi si
avvicinò, dispiaciuta e mi abbracciò mentre io
rimanevo lì,
immobile, incapace di agire. Cosa avrei dovuto rispondere?
Sì, sono
io?
No, io non ero più in Nazionale. Quindi no, io non ero
"Chiara Fumagalli, quella in Nazionale Italiana", io ero
semplicemente Chiara e avrei dovuto imparare ad accettarlo.
Però...
però in fondo Chiara era anche la "Chiara Fumagalli, quella
in
Nazionale Italiana" o, almeno, lo ero stata e non c'era alcun
bisogno di nasconderlo.
Per questo sciolsi l'abbraccio e annuii.
"Sì, sono io".
Era l'inizio di una nuova vita e non mi
sarei fatta sconfiggere di nuovo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** 2-Galeotta fu una macchinetta ***
2-
GALEOTTA
FU UNA MACCHINETTA
Le ore
di ginnastica erano quelle che più avevo sempre apprezzato
di tutto
l'orario scolastico.
Non capivo proprio come le mie coetanee
potessero lamentarsi di quei sessanta minuti in cui ci si poteva
alzare dalla sedia e sgranchirsi gambe e schiena. Io faticavo a stare
seduta per sei ore al giorno e, nonostante la pessima decisione di
buttarle subito all'inizio del lunedì mattina, quelle due
ore erano
l'unico svago che mi potessi permettere.
Entrare in una palestra
dopo così tanti mesi era stato meno traumatico di quello che
mi
sarei aspettata. Di fianco al nervosismo e ad un pizzico di paura,
c'era anche l'emozione che aveva caratterizzato ogni mio allenamento
passato, e forse fu grazie a quello che non mi misi a piangere quando
vidi i vari attrezzi appoggiati ai muri. Prendendola come una sfida
con me stessa, lasciai vagare lo sguardo prima di entrare nello
spogliatoio. Nel lato più lontano c'erano le pertiche e le
corde,
dove fin da bambina avevo allenato i muscoli delle braccia; in un
angolo avevo visto le parallele, da sempre il mio attrezzo preferito
e, vicino alle spalliere, nascosta da un tappetone azzurro, non avevo
potuto non notare la trave alta. Dentro di me c'era un desiderio
contrastante: da un lato ne ero spaventata, soprattutto se ripensavo
al mio incidente, ma dall'altro agognavo potermi avvicinare e toccare
la superfice dura e rigida, salirci sopra e sentire quel brivido dato
dall'altezza e dal poco spazio di appoggio, ma anche dalla
consapevolezza di dover essere padrona del mio corpo, se volevo
eseguire un esercizio perfetto. Con un brivido pensai che quello era
esattamente ciò che non era accaduto più di sette
mesi prima: ero
stata una sciocca, troppo presa dall'eccitazione e il mio futuro era
stato deciso da un errore stupido, ma fatale.
Scossi la testa,
raggiungendo le mie compagne all'interno dello spogliatoio e
incontrando subito lo sguardo comprensivo di Greta, che mi sorrise.
"Tutto bene?", mi chiese mentre si infilava una maglietta
piuttosto larga e lunga.
Io annuii, sedendomi al suo fianco e
sfilandomi la felpa dalle spalle. "Pensavo peggio", ammisi.
"Beh, alla fine è quello il tuo mondo", disse
appoggiandomi una mano sulla spalla.
"Lo era",
precisai, sfilandomi i jeans per poi cambiarmi con un paio di leggins
e una canottiera.
Greta non commentò le mie parole, limitandosi
a guardarmi triste e stringermi la mano mentre uscivamo dallo
spogliatoio. In fondo, lei non sapeva che non erano del tutto vere e
un po' mi dispiaceva aver tenuto quel segreto con tutti, anche con i
miei genitori. Ma era troppo doloroso pensare a quell'alternativa e
sapere che non avrei mai avuto il coraggio di metterla in pratica,
quindi preferivo fare finta di nulla.
Seguii Greta in silenzio e
mi sedetti per terra al suo fianco, mentre aspettavamo che tutti
uscissero. Guardai per un attimo quella che sarebbe stata la mia
insegnante: era una donna sulla cinquantina, con i capelli grigi e lo
sguardo simpatico. Speravo che non mi chiedesse di esibirmi o robe
simili, perché oltre che imbarazzante sarebbe stato un vero
colpo al
cuore. Ma ogni dubbio scomparve quando facemmo l'appello e, alla
vista del mio nome, lei si limitò a lanciarmi un'occhiata
curiosa,
per poi tornare al registro.
"Allora, ragazzi", disse
poi alzandosi e sorridendo. "Spero che quest'estate vi siate
tenuti in forma perché iniziamo subito con il test
d'ingresso: fuori
a correre", esclamò tra le lamentele comuni.
Un po'
spaesata da quelle novità, in fondo quella era solo la mia
prima
normale lezione di ginnastica dopo anni, seguii i miei compagni in
cortile e non mi sorpresi quando la prof mi fermò per
parlare.
"Avevo sentito che ti eri iscritta al nostro istituto",
disse sorridendomi gentile mentre cammiavamo. "Ma non avevo
realizzato che saresti stata nella mia classe", ammise
divertita. "Sono contenta di conoscerti".
Io abbassai
lo sguardo, imbarazzata. "Sì, beh, non sono niente di che",
borbottai.
"Tranquilla, non avrai favoritismi", disse
facendomi l'occhiolino. "A proposito, sei sicura di poter fare
tutto o hai qualche esonero particolare. Sai, ho sentito del tuo
inci...".
"Nessun esonero", la interruppi. "Per
quel che serve, il mio ginocchio sta bene", le spiegai. "Quindi
posso fare tutto".
In realtà quella era una piccola bugia,
perché la mia riabilitazione non era ancora finita e, se lo
sforzavo
troppo, il ginocchio finiva per farmi male, ma io ero una dannata
testarda e non volevo davvero nessun favoritismo. Non ero speciale,
in nessun modo, non perché ero stata in Nazionale Italiana e
neppure
perché ora non ci ero più. Volevo solo essere
trattata come
qualunque altra studentessa ed ero contenta che almeno l'insegnante
di ginnastica lo avesse capito.
Quel giorno facemmo un breve
allenamento per il test d'ingresso dei millecinquecento metri e poi
rientrammo in palestra, dove ci aspettò l'allenamento anche
per
l'agilità e la forza.
Insomma, nonostante fossi abituata a
sforzi ben peggiori, alla fine di quelle due ore ero senza fiato e
sudatissima e mi resi conto di come il blocco improvviso di ogni
attività fisica mi avesse resa tremendamente pigra. Mentre
mi
cambiavo, decisi che sarei andata a correre ogni giorno, per non
vanificare gli sforzi di tutti quegli anni.
"Sapete cosa
faremo durante l'anno?", stava chiedendo Anna, una delle mie
compagne, mentre tornavamo in classe.
"La solita roba",
rispose Emma sbuffando. "Pallavolo, forse basket, ginnastica
artistica come l'anno scorso e atletica".
"No!",
commentarono alcune. "Di nuovo ginnastica artistica. Ma io sono
negata!".
Io, invece, mi ritrovai a guardare confusa Greta,
che si limitò a scrollare le spalle. "Non chiedermi nulla.
Per
qualche strano motivo i prof credono in noi più di quanto
non
facciamo noi stessi e hanno deciso di inserire la ginnastica
artistica come sport, per cambiare".
"Ah", mi
limitai a rispondere. Quella davvero non me la sarei mai aspettata e
per un attimo mi chiesi se il destino ce l'avesse con me: che senso
aveva farmi abbandonare il mio sport, se poi dovevo replicarlo anche
a scuola? Non sapevo come avrei reagito quando sarebbe arrivato il
momento e ne ero un po' spaventata, ma decisi di non angustiarmi con
quei pensieri: avrei affrontato giorno per giorno quello che sarebbe
successo, come mi ero ripromessa. Era l'unico modo per tirare avanti.
"Vado a comprarmi una bottiglietta d'acqua", dissi
rivolta a Greta quando entrammo in classe.
"Ti ricordi la
strada?", mi chiese divertita.
"Ho una buona memoria",
la rassicurai. Era passata una settimana dall'inizio della scuola ma
avevo imparato in fretta ad orientarmi, anche se dovevo ammettere
che, a volte, rimanevo disorientata davanti all'immensità di
persone
che riempivano i corridoi all'intervallo.
Pescai cinquanta
centesimi dal portafoglio e mi diressi verso la macchinetta, che
fortunatamente era vuota. Infilai la moneta e digitai il numero
dell'acqua, aspettando pazientemente che la molla ruotasse. Notai
distrattamente qualcuno alle mie spalle, ma la mia attenzione fu
catturata dall'inquietante lucina rossa che si accese quando la
bottiglia si incastrò, in qualche strano modo, tra il vetro
e la
molla.
"Ehi, dai", esclamai nervosa, schiaciando di
nuovo il numero ma sbuffando quando quell'aggeggio infernale mi
avvisò che non c'era credito.
"Vuoi una mano?", mi
chiese il ragazzo dietro di me.
"Si è bloccata",
borbottai indicando la bottiglietta.
"Lo fa sempre quel
numero", disse lui sorridendo e avvicinando al fianco della
macchinetta. Mi guardò un attimo e poi le tirò
una spallata. "È
scesa?", mi chiese.
Scossi la testa. "Non c'è bisogno
che ti faccia male, ne posso comprare un'altra", mi affrettai a
dire.
Lui ridacchiò. "Normale amministrazione",
borborrò prima di tirare un'altra spallata, così
potente da alzare
da un lato la macchinetta. L'acqua si sbilanciò e finalmente
scese,
atterrando con un tonfo.
"Grazie", gli dissi
prendendola.
"Di nulla", rispose con un sorriso.
"Ricordati di non prendere più nulla da quel numero,
però",
aggiunse.
Io annuii, chiedendomi poi cosa si dovesse fare in
quelle occasioni. Ero davvero una frana nelle relazioni sociali.
"Io
sono Carlo", disse divertito, infilando una monetina nella
macchinetta e schiacciando due numeri.
"Chiara", risposi
osservandolo. Era un ragazzo carino, decisamente normale. Era
abbastanza alto, con i capelli piuttosto lunghi e ricci, di un
castano chiaro e gli occhi più scuri che avessi mai visto.
Sembravano liquirizia.
"Sei nuova?", mi chiese mentre
prendeva il suo Kinder Bueno.
"Sì", mi limitai a
rispondere.
Lui annuì, sempre sorridendo. "In che classe
sei?", continuò mentre apriva la merendina.
"Quarta
C", dissi, chiedendomi perché non me ne fossi ancora tornata
in
classe. Forse erano i suoi occhi.
"Aula ventitre?
Fantastico, io sono nella venti", esclamò. "Possiamo fare
la strada insieme", aggiunse come se fosse la cosa migliore che
gli fosse capitata quel giorno.
Io non sapevo davvero cosa
rispondere e mi limitai, di nuovo, a sorridere incerta. Come ci si
comportava in quelle situazioni? Cosa dovevo fare? Cosa dovevo
dire?
Carlo iniziò a camminare e lo seguii, sempre in silenzio.
Di sicuro stava pensando che ero un po' strana, chiusa nel mio
mutismo e l'ultima cosa che volevo era offendere qualcuno, ma davvero
non avevo idea di come relazionarmi con lui. Mi stavo comportando
come una bambina, accidenti!
"Guarda che non ti mangio
mica", disse lui all'improvviso.
Io arrossii, accorgendomi
di stargli alle spalle di un paio di passi con le braccia intorno al
petto. "Io... io, mi dispiace", ammisi, rendendomi conto di
quanto sembrassi ridicola. Insomma, avevo diciassette anni suonati e
mi imbarazzavo a parlare con un ragazzo! Che fine aveva fatto la
Chiara che non aveva paura a salire su una parallela o che cercava
sempre di fare il volteggio più alto possibile? Presi un
respiro
profondo, abbozzando un'altro sorriso. "Rincominciamo
dall'inizio, ti va?", proposi.
Lui rise, annuendo. "Io
sono Carlo", disse allungando la mano verso di me.
"Chiara",
risposi stringendola con la mia e sentendo un brivido risalirmi la
schiena.
"Vuoi un pezzo?", mi offrì.
"Certo",
dissi, cercando di apparire più normale possibile. Insomma,
stavamo
solo parlando!
"Allora, Chiara della Quarta C a cui piace il
Kinder Bueno, mi dai il tuo numero di telefono?".
Quasi mi
soffocai con il pezzo di cioccolato che avevo in bocca ma non potei
fare a meno di scoppiare a ridere davanti alla sua faccia da
ragazzino biricchino. Senza una reale motivazione logica, mi ritrovai
ad annuire. "Perché no?", risposi.
Lui allargò quel
sorriso perenne che aveva in volto e tirò fuori il telefono
dalla
tasca. Gli dettai il mio numero e aspettai che mi facesse uno squillo
per salvare il suo.
"Ci si vede in giro", mi salutò
quando arrivammo alla sua classe.
"Magari all'intervallo",
dissi io.
"Magari", rispose sorridendomi un'ultima
volta ed entrando.
Io rimasi qualche secondo a fissare la porta e
a chiedermi cosa mi stesse succedendo. Prima mi comportavo da
ragazzina timida, poi accettavo il suo numero di telefono senza
sapere nulla più che il suo nome. Era un comportamento
assurdo, lo
sapevo e mi stupivo della mia stessa idiozia.
Ritornai il classe
velocemente e mi scusai con il prof di scienze che era già
dentro,
affrettandomi a sedermi accanto a Greta, che mi guardava sospettosa.
"Che c'è?", borbottai prendendo il libro dallo zaino.
"Sei tutta rossa", disse solo, alzando un sopracciglio.
"Abbiamo appena fatto ginnastica", provai a
giustificarmi, capendo dal suo sguardo che non mi credeva. Sbuffando,
mi lasciai scappare un sorriso. "Ho conosciuto un ragazzo",
risposi a bassa voce. "Chi?", esclamò lei, forse a voce un
po' troppo alta perché l'insegnante le lanciò
un'occhiataccia.
"Si
chiama Carlo ed è nell'aula numero venti".
Lei mi guardò
delusa. "Un po' poco", borbottò.
"Beh, io...",
la vibrazione del telefono nella tasca dei jeans interruppe la mia
frase e, stando attenta a non farmi vedere, lo misi dietro
l'astuccio, accorgendomi subito di un nuovo messaggio su Whatsapp.
Sbloccai il telefono e mi sfuggì un sorriso quando riconobbi
la foto
della chat.
"Lui", dissi a Greta, mostrandole il
telefono.
Lei annuì. "Ho capito chi è. È in
Quinta A,
scientifico, bocciato in seconda".
"Conosci tutta la
scuola?", le chiesi divertita, rispondedo intanto al saluto di
Carlo.
Lei alzò le spalle. "Di vista. E poi a Emma piace
spettegolare. Lei sa davvero tutto di tutti".
Scossi la
testa, incredula.
"Cosa ti dice?", mi chiese curiosa.
"Non ha ancora risposto. Ora stai attenta", le dissi
dandole una gomitata.
Lei ridacchiò. "Come sei noiosa",
borbottò aprendo il libro alla pagina giusta.
Io la imitai,
fingendo di ascoltare fino a quando il telefono non si
illuminò e
sorrisi.
Parlai con Carlo tutta l'ora e anche per le tre
successive. All'intervallo non ci incontrammo, anche perché
c'era
davvero troppa gente in giro per i corridoi, ma lo vidi all'uscita e
mi salutò da lontano mentre parlava con i suoi amici.
Non sapevo
cosa sarebbe successo o se sarebbe successo qualcosa, e in fondo non
sarebbe servito a nulla fare previsioni sul futuro. Ma Carlo mi
piaceva: era simpatico e solare e anche se solo attraverso i messaggi
sembrava davvero un bravo ragazzo. Ma la cosa più
importante, era
che in quelle ore in cui avevo parlato con lui, non avevo pensato
alla ginnastica o al mio incidente nemmeno una volta ed era una cosa
che non mi era mai successa.
Mentre tornavo a casa in pullman
rilessi i messaggi che mi aveva inviato e non riuscii a non
sorridere, pensando che dovevo ringraziare una macchinetta difettosa
e una bottiglietta d'acqua per quell'improvvisa felicità.
E
finalmente riesco a postare il secondo capitolo.
È stata una
settimana infernale e me ne aspettano altre due prima della fine
della scuola, quindi non prometto niente sulla mia
regolarità.
Insomma,
con questo capitolo si inizziano a tracciare i fili della storia.
Credo si sia capito ormai come è fatta Chiara: è
una persona
orgogliosa e testarda, ma al contempo molto sensibile, anche se non
lo vuole mostrare. L'incontro con Carlo è stato molto da
film, ne
sono consapevole, ma spero che un po' vi sia piaciuto, come spero che
vi affezionerete come me a questo personaggio. Non dimenticate
Lorenzo, però, che tornerà, prima o poi!
Ne approfitto per
ringraziare Witchligt e Amahy per le loro recensioni e tutti quelli
che hanno iniziato a seguirmi.
A presto (scuola e tesina
permettendo, aggiungerei)
Mikchan
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** 3-Nel mezzo di due vite ***
3- NEL
MEZZO DI DUE VITE
Parlare
con Carlo era diventata una routine.
Una tenera e pericolosa
routine. Tenera perché Carlo era una persona fantastica:
sempre
allegro ed esuberante, con la battuta pronta sulla punta della lingua
ogni volta che ci punzecchiavamo come due ragazzini. Mi faceva
sentire bene la sua presenza, anche se la maggior parte delle volte
era solo virtuale. Carlo rappresentava il mio nuovo mondo,
così come
Greta e Vera, la mia migliore amica della palesta, rappresentavano
quello vecchio, e mi serviva sapere che, dopotutto, questa vita in
cui ero stata catapultata non era così male. Tuttavia era
anche
pericolosa, soprattutto per due motivi: il primo, forse un po'
stupido, era che quando messaggiavamo a scuola dovevamo stare attenti
a non farci beccare con i telefoni, rischio che avevo già
corso più
di una volta; il secondo era che temevo di affezionarmi troppo e
troppo in fretta. Forse, anzi probabilmente, era tutto solo nella mia
mente, ma ero convinta che se fossi stata troppo precipitosa e troppo
assillante, presto Carlo si sarebbe stancato di me e perdere il mio
contatto diretto con la realtà, quel contatto che mi faceva
sentire
così viva e nuova, non avrebbe di certo giovato alla mia
salute
mentale.
Se mi piaceva Carlo?
Beh, mi ero posta questa
domanda svariate volte nell'ultimo mese, ma non sapevo giungere a una
risposta. Insomma, quanto tempo doveva passare per capire che
l'amicizia si era trasformata? E cosa si provava quando ciò
succedeva? Come potevo capirlo? Ma, soprattutto, perché
continuavo a
tormentarmi di domande? Tutto ciò mi vorticava nella mente
come un
uragano, mentre ripensavo alla risata contagiosa di Carlo, alle sue
barzellette stupide, alla sua gentilezza, ma anche alla sua
permalosità e alla sua testardaggine. Nel poco tempo che
l'avevo
conosciuto avevo imparato ad apprezzarlo, ma non sapevo se questo
significava che ne ero innamorata. Forse il semplice fatto che
continuassi a chiedermelo corrispondeva a un sì, o almeno
Greta era
di questo parere.
Ecco, parlarne a Greta non era stata
esattamente un'idea geniale. Ad essere sinceri non avevo dovuto dire
molto, le era bastato rubarmi il telefono dall'astuccio durante la
mia interrogazione di storia e curiosare tra i messaggi per capire
che la mia qualsiasi-cosa-fosse con Carlo stava andando più
che
bene. Lei era convinta che io mi fossi presa una poderosa cotta e
aveva fatto comunella con Vera, un pomeriggio a casa mia, nel
convincermi che anche a Carlo non ero indifferente.
Alla fine,
stanca dei loro consigli non richiesti e del mio cervello confuso,
avevo deciso che era decisamente troppo presto per decidere. Insomma,
ci conoscevamo da appena un paio di mesi e già le mie due
comare
stavano organizzando il nostro matrimonio e il battesimo dei
figli!
Alla fine, però, ero sicura che Carlo fosse un grande
amico, e lo dimostrava il fatto che, in quel momento, ci trovavamo
nella mia cucina intenti a capire qualcosa sulla pressione per
recuperare il mio primo votaccio di fisica. Non era stato molto
inaspettato, in effetti, considerato che avevo davvero faticato a
capirci qualcosa, mentre la prof spiegava. Ma avevo voluto provare a
cavarmela da sola e mi ero ritrovata a piagnucolare davanti alla mia
prima vera grave insufficienza. Carlo, mosso da compassione, prima
aveva riso della mia disgrazia e poi si era offerto di aiutarmi per
la prossima verifica che sarebbe stata sul calore e qualcosa che
c'entrava con i liquidi e il volume (sì, lo spazio nel mio
cervello
non era molto ampio), vantandosi della sua testa da scienziato.
Quindi ecco come ero arrivata a quel punto, mentre sbattevo
confusa la testa sul tavolo e pasticciavo con la matita l'esercizio
che non voleva uscirmi.
"Frena la tua mania suicida",
mi prese in giro, sfilandomi la penna dalle mani e il foglio da sotto
il naso.
L'obiettivo era riuscire a risolvere qualcosa da sola,
dopo essere riuscita a infilare qualche regola in testa, ma
continuavo a mischiare le formule e i concetti e, in qualche strano
modo, ero riuscita a far dilatare un solido abbassandone la
temperatura. Avrebbero dovuto darmi un nobel per la fantasia,
comunque.
"Guarda qui", mi riprese colpendomi con la
matita sulla testa e richiamando la mia attenzione. "Hai
aggiunto un meno dove non ci andava e hai usato la formula della
dilatazione dei liquidi invece che quella volumica".
"Ma
sono uguali", mugugnai.
"No, invece. I gas si dilatano
tutti allo stesso modo, quindi la costante è 3L(*),
mentre per i
liquidi il coefficiente a
cambia a
seconda del materiale. Quindi
le formule sono di conseguenza diversa. A te cosa serve, qui?".
"Ehm, quella volumica?", dissi, ripetendo le sue parole
di poco prima.
"Ovvero?".
"Ehm",
borbottai di nuovo, stringendo gli occhi come se potessero darmi
un'informazione in più. Rinvangai nel mio cervello, poi
sospirai.
"Volume finale", iniziai, guardandolo annuire. "uguale
a 3L
per volume iniziale per temperatura(**)", concusi, fissandolo
speranzosa.
"Più?", disse lui, invitandomi a
continuare.
"C'è un più?", esclamai.
Carlo
sospirò. "Okay, ripartiamo dall'inizio".
"No, ti
prego, basta!", esalai congiungendo le mani e pregandolo di
risparmiarmi.
"Non puoi andare avanti se non sai cosa c'è
prima", mi ripeté per almeno la millesima volta da quando
avevamo iniziato.
"Lo so, ho capito", dissi sbuffando.
"Ma ti propongo solo una pausa. Ci rilassiamo un attimo e poi
continuiamo".
Lui sorrise, scuotendo la testa. "Se
speri di tentarmi con del cibo...".
"Tu che ne sai che
voglio tentarti con del cibo?", ribattei.
Carlo alzò un
sopracciglio. "Vuoi tentarmi con qualcos'altro?" disse
malizioso.
Lo guardai confusa, per poi spalancare gli occhi
quando mi resi conto di quello che avevo detto. Arrossii e mi alzai
in piedi. "E cibo sia", mugugnai sentendolo ridere.
"Cosa
mi offri?", mi chiese alzandosi e raggiungendomi davanti alla
dispensa.
Quelle parole nascondevano molti più significati di
quelli che volevo scoprire e cercai di limitarmi a quelli culinari.
"Nutella?", proposi prendendo il barattolino aperto.
"Questa sì che è una tentazione", disse felice,
rubandomi il barattolo dalle mani.
Io scoppiai a ridere davanti
alla sua faccia da bambino esaltato e scossi la testa, mentre
prendevo due fette di pane e un cucchiaino.
"Dopo di te",
dissi una volta arrivata al tavolo, porgendogli il cucchiaio e il
pane.
Lui iniziò a spalmarsi una generosa quantità di
Nutella
mentre borbottava qualcosa sulla genialità dell'individuo
che aveva
inventato tale angelico cibo.
Mentre mangiavamo la nostra
meritatissima merenda iniziò a squillarmi il telefono e
iniziai a
frugare sotto i fogli sparsi sul tavolo, cercando di mantenere in
equilibrio sulle dita la fetta di pane. Ovviamente non fui molto
fortunata, perché appena trovai il telefono e risposi alla
chiamata,
il pane mi cadde dalla mano, finendo inesorabilmente a faccia in
giù.
"Merda", borbottai sottovoce, recuperandolo in fretta e
osservando rattristata tutta la Nutella sul tavolo.
"Ehi,
Chiara?", mi
sentii chiamare.
Riavvicinai il telefono all'orecchio mentre Carlo scoppiava a
ridere. "Sì?", mormorai.
"Ho
una notizia grandiosa",
esclamò la
voce dall'altra parte, che riconobbi come quella di Greta.
"Ovvero?", chiesi, pensando che nessuna grandiosa
notizia poteva riportare in vita la mia amata Nutella.
"Sabato
sera sei mia perché devi conoscere Lorenzo".
"Ah,
il famoso Lorenzo", dissi improvvisamente curiosa. "Finalmente
si fa vedere".
"Sì",
esclamò
lei felice. "È
tornato ieri dalla vacanza studio in Inghilterra e ha detto che vuole
conoscerti anche lui".
"Mica
non stavate insieme?", la presi in giro, ridacchiando.
"Beh,
quello era il passato. Ora è qui con me. Ci vuoi parlare?", mi
chiese esaltata.
Non feci in tempo a rispondere che la sentii
urare il suo nome dall'altro capo della cornetta. Mentre aspettavo
che il fantomatico Lorenzo arrivasse lanciai un'occhiata di scuse a
Carlo, che scosse la testa, affondando il cucchiaino nel barattolo ed
estraendo un'enorme quantità di Nutella, che poi si
infilò in bocca
tutto insieme, guardandomi soddisfatto.
Ridacchiai, mentre
sentivo un borbottio strano nel telefono e poi la voce di un ragazzo
che mi salutava.
"Ora so che non sei un'invenzione di
Greta", dissi dopo aver ricambiato il saluto.
La mia amica
borbottò un "Ehi!"
offeso
e Lorenzo scoppiò a ridere. "Sono
vero, tranquilla. Ma devo dire che anche io avevo iniziato a credere
che fossi un'invenzione. Greta mi ha parlato molto di te".
"Allora è stata molto
ripetitiva perché non c'è nulla da dire".
"Forse",
disse telegrafico, facendomi alzare un sopracciglio. "Allora
ci vediamo sabato, famosa Chiara".
"Certo,
a sabato, famoso Lorenzo".
Salutai velocemente anche Greta e
chiusi la chiamata, abbozzando un sorriso. Finalmente avrei
conosciuto l'eterno ragazzo della mia migliore amica, colui che aveva
sempre nominato, ma che non mi aveva mai presentato.
"Scusa",
dissi a Carlo, appoggiando il telefono sul tavolo. "Greta è
sempre molto puntuale nel disturbare".
Lui ridacchiò.
"Tranquilla, ero in buona compagnia", disse mostrandomi il
barattolo di Nutella e il cucchiaino.
"Non finirmela",
lo sgridai, rubandogli il barattolo dalle mani e chiudendolo
velocemente.
"Cos'è tutta questa fretta di tornare alla
fisica?", mi chiese divertito mentre mettevo a posto i rimasugli
della nostra merenda.
"Hai capito proprio male, mio caro. In
realtà stavo per chiederti di finirla qua. Non ne posso
già più",
dissi tornando a sedermi al suo fianco.
"Oh, no! Non ti
permetto di arrenderti così. Imparerai quelle formule, a
costo di
legarti alla sedia".
Alzai un sopracciglio, divertita. "Non
la stai prendendo un po' troppo sul personale?", ridacchiai.
"Forse", rispose alzando le spalle. "E comunque
non sei davvero capace di sviare il discorso. Ora mettiamoci
all'opera".
Finimmo di studiare quasi due ore dopo, quando
mia madre tornò dal lavoro e ci trovò intenti a
risolvere un
esercizio. Carlo se ne andò poco dopo, salutandomi con un
bacio
sulla guancia e lo guardai allontanarsi a bordo della sua macchina
dalla finestra del soggiorno con un sorriso idiota stampato sulle
labbra.
"Un amico?", mi chiese mia madre maliziosa.
"Mi ha aiutato con fisica", dissi semplicemente,
sviando sulla questione delle definizioni.
"È stato molto
carino", continuò lei, seguendomi mentre tornavo in cucina
per
prendere un bicchiere d'acqua. "Ed è molto carino",
aggiunse.
"Mamma!", la ripresi con un'occhiataccia.
Lei scoppiò a ridere. "Che c'è di male?",
esclamò.
"Niente, ma sarebbe carino", dissi, sottolineando
l'ultima parola. "Se evitassi di farti viaggi mentali
eccessivamente costosi".
"Chi si fa viaggi mentali?",
chiese una voce dal soggiorno.
Alzai gli occhi al cielo.
Fantastico, con mio padre come alleato mia madre avrebbe dato il
meglio di sé.
"Oh, Riccardo", pigolò raggiungendolo
con un sorriso a trentadue denti. "La nostra bambina è
innamorata".
"Mamma", esclamai di nuovo,
arrossendo.
"Chi è innamorata?", chiese invece papà,
alzando un sopracciglio. "No, aspetta. Cosa vuol dire che è
innamorata?".
"Non fare il papà geloso, ora",
borbottai incrociando le braccia al petto. "E non sono
innamorata!".
"Chi è?", ribatté invece lui.
"Non è nessuno perché non sono innamorata",
ripetei
al limite dell'imbarazzo. Mai mi sarei immaginata di affrontare una
discussione simile, figurarsi con mio padre, che mi aveva sempre
vista come la sua bambolina da proteggere da tutto e tutti.
"Ah,
sì?", mi sfidò la mamma, mettendosi in posa da
combattimento,
con le mani sui fianchi e lo sguardo tagliente. "E chi era quel
ragazzo molto carino che era in casa nostra poco prima?".
"Smettila con questo interrogatorio", sbottai. "Era
un amico, che mi ha aiutata a studiare fisica. Punto".
"Cosa
significa che era in casa nostra?", mormorò invece
papà,
sempre più confuso.
Sospirai. "Lascia stare le fantasie
della mamma, ti prego".
"Maria non è che stai
esagerando?", le chiese guardandola stranito, mentre finalmente
si sfilava la giacca e la appoggiava sul divano.
"Che
guastafeste che siete", borbottò lei. "Sono solo felice".
Ridacchiai, scuotendo la testa. Adoravo mia madre anche per
quello. Era un'impicciona di prima categoria, ma era sempre molto, a
volte troppo, interessata alla mia vita e voleva essere messa a
corrente di ogni mia scelta, non per controllarmi, ma per gioirne o
piangerne al mio fianco. E anche se quella volta aveva decisamente
preso un'abbaglio, ero contenta di vederla così allegra dopo
tutti
quei mesi di lacrime e sofferenza. Il mio incidente aveva messo a
dura prova la mia famiglia e i miei genitori avevano rischiato di
separarsi davvero per sempre, ma fortunatamente tutto si era
sistemato per il meglio e se per avere tutto ciò dovevo
sopportare
un poco la sua pazzia, allora l'avrei fatto ben volentieri cento e
mille volte.
"Non farti mille storie, mamma", le
ripetei, questa volta con il sorriso sulle labbra. "Io e Carlo
siamo amici, davvero".
"Solo amici?", insistette
lei.
E non seppi mentire davanti ai suoi occhi. "Non lo so",
ammisi. "Ma vorrei scoprirlo".
Lei mi interruppe con un
gridolino di gioia e corse ad abbracciarmi. Mentre la stringevo vidi
papà sorridere e sospirare.
"Ora che abbiamo finito di
ficcare il naso nella mia vita, che ne dici di preparare la cena?",
le dissi sciogliendo l'abbraccio.
"Certo!", esclamò.
"Stasera spaghetti con il mio sugo speciale, i tuoi preferiti".
"Perfetto, allora vado a farmi una doccia intanto", la
avvisai mentre saltellava allegra in cucina.
Scambiai un'occhiata
complice con mio padre e poi salii le scale e mi chiusi in camera.
Decisamente non ero pronta per affrontare un argomento simile con
mia madre, ma in fondo ero contenta di averle rivelato che, forse, mi
stavo prendendo una cotta per il mio insegnante di fisica preferito.
Insegnante di fisica che mi aveva scritto due messaggi quasi
dieci minuti prima, che lessi con il sorriso sulle labbra.
"Mi
sono divertito molto oggi.
L'ultima domenica di novembre ti va di
venire a vedere la mia partita di calcetto? Giochiamo in casa, quindi
non devi nemmeno trovare paesi improponibili. Fammi sapere".
Era un
appuntamento, quello? No,
decisamente no. Ci sarebbero stati i suoi amici e avrei di sicuro
chiesto a Greta o a Vera di accompagnarmi. Ma ero contenta che mi
avesse invitato, anche solo per guardare una partita di calcio tra
ragazzi.
"Vengo di certo",
risposi subito. "E
anche io mi sono
divertita molto oggi, nonostante la fisica".
Attesi
impaziente che accanto ai miei messaggi apparisse il simbolo della
visualizzazione e continuai così per tutta sera. Mi
dimenticai
addirittura della doccia, ma parlare con Carlo mi portava sempre su
un'altro universo.
Tornai alla realtà solo quando dopo cena diedi
un'occhiata veloce al calendario e mi accorsi di una nota segnata sul
giorno seguente.
Il mondo mi cadde addosso e realizzai che
cercare di separare le mie due vite, quella che stavo vivendo in quel
momento, con Carlo e la scuola, e quella che avevo vissuto fino a
pochi mesi prima, con la palestra e la ginnastica, era inutile e
deleterio. Una non avrebbe cancellato l'altra e seppellire il passato
non lo avrebbe di certo eliminato.
Non seppi dire in quel momento
se quell'esatto pensiero mi intristisse o meno. Fino a nemmeno un
anno prima ero certa che la mia vita sarebbe sempre girata intorno
alla ginnastica, ma il brusco cambiamento che mi aveva travolta mi
aveva fatto scoprire un mondo intero al di fuori della palestra.
Eppure non riuscivo ancora a cancellare quella parte di me che
agognava di poter allenarsi di nuovo e gareggiare, quella parte che
voleva sentire l'adrenalina nelle vene e il sudore sulla fronte, ma
non ero nemmeno certa che volessi fare finta che non fosse mai
esistita.
La proposta che mi aveva fatto il mio allenatore mi
rimbombò pesante nel cervello, più insistente che
mai, e per la
prima volta da mesi mi chiesi se davvero stessi facendo la scelta
giusta, cercando di ignorare quell'opportunità.
(*)
Allora, prendete molto con le pinze quello che dico qua,
perché ho
raggiunto la sufficienza in fisica per un miracolo divino, ma
proverò
a dare un senso a ciò che ho scritto sopra, giusto per non
piantare
qualcosa in giro senza poi raccoglierlo. Fondamentalmente, Carlo e
Chiara stanno parlando di termologia e calorimetria e, in
particolare, delle leggi di dilatazione. In breve, fornendo calore a
un oggetto (ad esempio di ferro), questo si dilata nelle tre
dimensioni. Quella più semplice è quella lineare,
in cui un oggetto
si dilata in lunghezza, mentre esiste anche quella volumica, in cui
un oggetto, o meglio un materiale, si espande in modo diverso e a
temperature diverse. Per i gas, però, questo coefficente di
dilatazione (3L)
è lo stesso.
(**) La formula di dilatazione volumica deriva da
quella lineare e, come Chiara dice, anche se con un errore,
è:
Vfinale=Viniziale+3L*Viniziale*temperatura.
Ora, io non so quanto voi abbiate capito. Io stessa credo di
avere fatto un po' un pastrocchio, ma in linea generale è
questo ciò
di cui parlano. Poi magari non ve ne può fregare di meno (e
vi do
ragione), ma considerato che ne ho parlato nel capitolo, mi sembrava
brutto non dare nemmeno un minimo di spiegazione. Indi, se qualcuna
trova un errore o qualche stronzata in ciò che ho scritto,
me lo
dica subito!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** 4- Sapore di miele ***
4- SAPORE DI MIELE
"Ehi,
Chiara! Pomeriggio ti va di andare a fare un giro?".
Mi
voltai verso Carlo, sorridendo mentre prendevo la mia merenda dalla
macchinetta. "Mi dispiace, ma non posso".
"Dai",
insistette lui, "È bel tempo oggi e non ho voglia di tornare
a
casa subito", mi pregò, esibendo una discutibile faccia da
cucciolo bastonato.
"Ho già un impegno, davvero. Ho il
treno alle due e mezza, subito dopo scuola", gli spiegai, mentre
ci incamminavamo verso le nostre classi.
"Perfetto, ti
accompagno in macchina!", esclamò lui e, senza lasciarmi
nemmeno il tempo di rispondere, mi salutò e raggiunse alcuni
suoi
amici.
Sospirando, tornai in classe e mi sedetti al mio posto.
"Il paradiso non è più così rosa?", mi
prese in giro
Greta, seduta al mio fianco.
Le lanciai un'occhiataccia. "Scema",
sbottai. "È che Carlo...".
"Oh, Carlo!",
esclamò lei, ridendo.
"State davvero bene, insieme",
aggiunse Elisa sorridendomi dolce.
"Non stiamo insieme",
borbottai ricordandomi la discussione del giorno precedente con i
miei genitori. Ma perché cavolo tutti vedevano cose che non
c'erano?
Io e Carlo eravamo amici e ci comportavamo da tali, non capivo
davvero perché la gente continuasse a ricamarci sopra.
"Sì,
certo, per ora", mi zittì Greta. "Quindi che fate oggi?
Altra sessione intensiva di studio?", mi chiese maliziosa.
Ignorai la sua battutaccia e sbuffai. "No, ho appuntamento
dal fisioterapista", risposi lanciandole un'occhiata eloquente.
"Oh", si limitò a rispondere lei.
"Già, oh.
Ma Carlo ha deciso che vuole andare a fare un giro con me senza
nemmeno ascoltarmi. Lo picchierei quando si comporta così".
"Un appuntamento?", esclamò Elisa spalancando gli
occhi luccicanti.
Sbuffai. "Non è un appuntamento perché
non stiamo insieme. E soprattutto perché non usciremo
insieme".
"Vai a parlargli", mi disse ovvia Greta.
"Sì,
come se non ci avessi provato. Dopo lo tartasserò anche di
messaggi,
ma se ho capito qualcosa di Carlo è che ama decidere al
posto degli
altri. Imbecille", borbottai incrociando le braccia al petto.
Greta ed Elisa ridacchiarono, non convinte delle mie parole o,
più precisamente, della faccenda dell'appuntamento. Avrei
preso a
sberle anche loro, se solo non fossimo state a scuola e se non fosse
stato un gesto tremendamente infantile.
Sbuffai nuovamente,
nervosa, mentre la campanella che segnava la fine dell'intervallo
suonava. Sicuramente tutta quella tensione era dovuta al mio
appuntamento per quel pomeriggio, ma decisamente anche alla sindrome
premestruale che mi avvisava che in un paio di giorni mi sarei
ritrovata a volermi strappare le ovaie a morsi. Di bene in meglio,
insomma.
Come avevo detto alle mie amiche, che non avevano smesso
un attimo di fare stupide allusioni e battutine, riempii Carlo di
messaggi, ma alle due, quando suonò la fine delle lezioni,
lui non
ne aveva visualizzato nemmeno uno.
Mentre uscivamo dalla scuola
lo vidi appoggiato al cancello, come tutti i giorni, con alcuni
amici. Mi fece segno di raggiungerlo ma lo ignorai volutamente,
decisa a non rivolgergli più la parola, o i messaggi, fino a
quando
non mi avesse chiesto scusa. Per cosa, esattamente, non avrei saputo
dirlo: mi ero arrabbiata perché mi aveva incluso nei suoi
piani
senza nemmeno chiedermelo e, per giunta, aveva ignorato le mie
richieste di una spiegazione. Forse era un po' stupido reagire in
quel modo, ma non avevo alcuna intenzione di farmi comandare a
bacchetta da nessuno, e nemmeno di farmi dare ordini da un cretino
patentato.
Il cretino patentato in questione stava letteralmente
strillando il mio nome per tutto il piazzale della scuola e,
considerata la discreta fama che la ginnastica mi aveva attribuito e
il fatto che ormai tutti sapessero chi fossi, ogni persona al mio
fianco si voltò verso di me, guardandomi divertita.
Io continuai
imperterrita a camminare, con lo sguardo alto davanti a me e le gote
in fiamme. Stupido cretino patentato.
Non riuscii a fare però un
altro passo verso la salvezza, ovvero il mio pulman, che mi sentii
afferrare per la spalla e girare come se fossi una trottola senza
volontà. Mi trovai davanti gli occhi neri di Carlo e il suo
volto
corrucciato, ma non mi lasciai ingannare.
"Devo andare",
dissi tagliente.
"Ti avevo detto che ti avrei accompagnato
io", ribatté lui, prendendo un grosso respiro. Era ancora
più
carino così, mi ritrovai a pensare, con gli occhi lucidi e i
capelli
scopigliati dalla corsa. Mi lasciai incantare per un attimo e lui
continuò a parlare. "È successo qualcosa?", mi
chiese
quindi.
Alzai un sopracciglio. "Se non avessi ignorato i
miei messaggi lo sapresti", sbottai.
"Mi è morto il
telefono", disse semplicemente, tirandolo fuori dalla tasca e
mostrandomelo spento. "Non l'ho messo in carica stanotte",
commentò alzando le spalle.
"Devo comunque andare",
ripetei. "Ho un treno da prendere".
"Ti porto io",
ribatté lui, sicuro.
Incrociai le braccia al petto. "Potresti
almeno chiedermelo, ti pare?", sbottai.
Lui rimase un attimo
spiazzato. "Sì, beh, io ho dato...".
"Hai dato
per scontato che avrei accettato", continuai per lui,
interrompendolo. "Già", dissi solo, guarandolo ovvio.
"Merda", borbottò tra se, passandosi una mano tra i
capelli. "Sono uno scemo".
"Stupido idiota
patentato".
"Ehi", esclamò lui, sorpreso.
Lo
guardai un attimo poi scoppiai a ridere. Carlo mi seguì a
ruota,
scuotendo poi la testa. "Scusa, Chiara. Accetti un mio
passaggio?".
"In realtà", mormorai abbassando lo
sguardo. Non mi vergognavo a dire che avevo bisogno di un
fisioterapista, anche perché non ce ne era affatto motivo,
ma ero
restia a confessarlo a Carlo, principalmente per quella stupida
convinzione che lui rappresentasse il mio nuovo mondo e non volevo
mischiarlo con quello vecchio. Mi bastò però
alzare gli occhi nei
suoi per capire che era stupido pensarla in quel modo,
perché la mia
vita era una sola e la ginnastica ne avrebbe sempre fatto parte. "Ho
un appuntamento con il fisioterapista", ammisi. "Per il
ginocchio".
Lui si limitò ad annuire, senza guardarmi con
quella pietà o quella compassione che riempiva lo sguardo di
tutti
quelli a cui accennavo quell'argomento. "Okay. Allora ti
accompagno e poi ti aspetto, così andiamo a prenderci una
cioccolata", mi propose, allungando la mano.
Io lo guardai
incerta. Le mie sedute non erano sempre semplici e mi era spesso
capitato di tornare a casa con il cuore pesante e gli occhi gonfi di
lacrime e non volevo che Carlo mi vedesse così. Poi, sempre
per
un'illuminazione divina, mi resi conto che Carlo era proprio
ciò di
cui avevo bisogno per non cadere in quel baratro. Mi serviva sapere
che la mia esistenza si stava allargando anche ad altri orizzonti ed
era bello accorgersi quanto potessi rendere felice qualcuno anche
solo con poche parole. Fino a poco tempo prima mi ero convinta che
non sapevo fare molto altro, esclusa la ginnastica, ma riuscire a
condurre una vita normale era diventato quel traguardo che forse mi
avrebbe aiutata ad andare avanti e iniziare a vivere di nuovo.
Per
questo accettai la sua mano con un sorriso, seguendolo poi verso la
sua macchina. Per la prima volta, mi lasciai trasportare dalle mie
sensazioni e mi resi conto di quanto fosse bello tenere stretta una
mano così, semplicemente. Carlo aveva le dita lunghe e forti
e
avvolgevano le mie completamente, infondendomi una sensazione di
calore e benessere. Sentii una scarica attraversarmi la schiena
quando pensai ad altri usi che avrebbero reso giustizia a quelle dita
ed avvampai, sorpresa da me stessa. Da quando facevo pensieri simili?
Decisamente era l'influenza di Greta e delle sue confessioni e decisi
che non le avrei più permesso di raccontarmi in quel modo le
sue
avventure con Lorenzo.
La maggior parte del viaggio in macchina
fu silenzioso, ma non era quel silenzio pesante dato dall'imbarazzo.
Eravamo semplicemente consci entrambi che le parole erano inutili e
che significava molto di più la mia mano, ancora stretta
nella sua,
fissa sulla leva del cambio. Gli diedi le indicazioni per raggiungere
l'ambulatorio e poi continuammo a fluttuare in quell'atmosfera
tranquilla e pacifica.
Quando Carlo fermò la macchina nel
parcheggio, istintivamente, lo invitai a salire con me, soprattutto
per non lasciarlo da solo in macchina. Almeno, quello era
ciò di cui
mi convinsi.
Salutai Enrica, la donna all'accettazione e, sempre
con le dita strette nelle sue, gli feci strada fino alla sala
d'aspetto, dove mi sedetti, in attesa del mio turno. Carlo
iniziò a
muovere lentamente il pollice e, mentre lo guardavo ipnotizzata
disegnare immagini senza senso sulla mia pelle, pensai che avrei
voluto stringere quella mano per sempre.
"Quanto dobbiamo
aspettare?", mi chiese.
Alzai le spalle. "In teoria
sono la prossima, quindi non molto".
Lui annuì, pensieroso.
"Mi aiuti con i compiti di inglese, allora?", mi propose.
"Certo!", acconsentii allegra.
Lui estrasse il
libro dalla cartella e sentii come un senso di mancanza quando
sciolse le nostre dita per prendere l'astuccio e la matita. Ma non
dovetti aspettare molto, perché appoggiò il libro
sulle sue gambe
e, dopo averlo aperto alla pagina giusta, mi riafferrò la
mano,
lanciandomi un piccolo sorriso.
Io avevo il cuore che batteva
all'impazzata e faticai a concentrarmi sulle sue frasi da completare,
completamente persa nella sua stretta calda e rassicurante.
Poco
dopo il dottor Calvani uscì dal suo studio e, di nuovo,
dovetti
lasciare la mano di Carlo. Lui mi guardò, sempre con quel
sorriso
dolce dipinto sulle labbra, ed entrai in quella piccola stanzina con
la testa tra le nuvole e il cuore leggero. Mi sentivo come se potessi
volare.
Il dottor Calvani, Giorgio per gli amici o per i pazienti
di lunga data come me, mi guardò divertito, ma non disse
nulla. Mi
chiese del mio ginocchio e di altre cose che feci fatica a capire,
con tutte quelle nuvole rosa intorno al mio cervello. Mancava solo
l'unicorno bianco che cavalcava su un arcobaleno e sarei stata
completamente fregata.
Come avevo immaginato, la presenza di
Carlo nella stanza accanto e l'effetto che aveva su di me, mi
aiutarono ad affrontare la visita in modo più tranquillo.
Non ero
spaventata, soprattutto perché sapevo che ormai ero quasi
del tutto
guarita, ma non potei fare a meno di irrigidirmi quando mi
accennò a
quella maledetta proposta.
"Non l'ho detto a nessuno",
gli rivelai a voce bassa, mentre mi rivestivo.
Lui mi guardò
comprensivo. "Capisco cosa provi, Chiara, ma dovresti provare a
darti una possibilità".
"Io non ho più possibilità",
dissi veloce e dura. Ed era vero, alla fine. La ginnastica
professionale era ormai un mondo a porte chiuse, per me. Che senso
aveva continuare a sperare di poterci entrare?
"Invece sì, e
lo sai", ribatté lui, sospirando. "Ma è una
scelta tua,
ovviamente. Potresti parlarne con qualcuno di esterno a tutta questa
faccenda. Quel ragazzo la fuori, ad esempio", aggiunse con un
piccolo sorriso.
"Non sono pronta", mormorai,
chiedendomi per un attimo se fosse vero o se stessi solo cercando di
convincermene.
Lo guardai annuire, seriamente, mentre scriveva
qualcosa a computer. Poi sentii la stampante accendersi. "Metti
questa pomata quando ti fa male, ma cerca di non abusarne. Devi
riabituare il ginocchio agli sforzi ed è normale che se fai
qualcosa
di eccessivo all'improvviso diventi un po' dolorante. L'importante,
Chiara, è non pretendere troppo, lo sai".
"Sì",
risposi solo, prendendo la ricetta dalle sue mani. "Grazie mille
dottore", lo salutai poi.
"A presto, Chiara. E
pensaci", mi ripeté prima che uscissi dalla porta.
Già,
pensarci. Come se non avessi fatto altro negli ultimi mesi.
Continuavo a ripetermi che forse era troppo presto, ma in
realtà
avevo solo paura. Una fottutissima, tremenda paura.
Ogni brutto
pensiero, però, scomparve quando incontrai la figura di
Carlo. Aveva
riposto il manuale di inglese e ora teneva in mano un libro, in cui
sembrava completamente immerso. Lo raggiunsi lentamente, memorizzando
ogni dettaglio del suo volto così concentrato. Le
sopracciglia
arcuate sopra gli occhi scuri, i denti bianchi che mordicchiavano il
labbro e i capelli che gli ricadevano sulla fronte. Perché
all'improvviso mi sembrava di essere di fronte ad un angelo?
Mi
tornarono in mente le parole del dottore ma scossi in fretta la testa
per cancellarle. Ora volevo solo sorridere. Per questo mi sedetti di
nuovo vicino a Carlo, che alzò una mano per avvertirmi di
non
interrompere subito la sua lettura. Finì probabilmente un
paragrafo
e poi alzò la testa, sorridendomi. "Finito?", mi chiese.
Annuii. "Cosa stai leggendo?", gli chiesi curiosa.
"Oh, una stupidata. Adoro i fantasy", si giustificò,
mostrandomi la copertina.
"Hyperversum", lessi. "È
bello?".
"Dipende. Ti piacciono i videogiochi e la
storia?".
"I videogiochi non molto, lo ammetto; la
storia sì".
"E allora potrebbe interessarti",
disse chiudendolo e infilandolo nello zaino. "Te lo
presterò",
aggiunse.
"Credo che dovrà mettersi in lista con tutti gli
altri libri che ho sempre voluto leggere ma che non ho mai avuto il
tempo di aprire. Ora di tempo ne ho un sacco in più, quindi
credo
che ne approfitterò", dissi ridacchiando.
"Allora ti
consiglio un paio di titoli", disse alzandosi e porgendomi la
mano. "Cioccolata?", mi chiese poi.
Il mio sorriso si
allargò e mi affrettai ad alzarmi, stringendo poi la mano
nella sua.
Il mio cuore perse un battito, poi continuò a battere
tranquillo. Mi
piaceva la sensazione che il suo tocco mi infondeva, forse
perché
era stranamente e terribilmente simile a quella che avevo provato la
prima volta che avevo toccato le parallele quando ero bambina.
Carlo
guidò verso il centro e questa volta riempimmo il silenzio
parlando
di libri. Ero contenta di aver trovato una passione in comune e
soprattutto che Carlo non fosse uno di quei ragazzi che avevano paura
di prendere fuoco soltanto a leggere qualche parola. Lo guardai
incantata mentre mi raccontava la trama del libro che stava leggendo
e, mentre parlava di videogiochi e viaggi nel medioevo, mi accorsi di
quanto le sue labbra sottili e rosa fossero belle.
Avrei voluto
baciarle.
Trasalii a quel pensiero, arrossendo. Cavolo, ma cosa
mi stava succedendo? Mi sentivo una ragazzina stupida, ma non potevo
fare a meno di sorridere davanti all'evidenza che mi stavo davvero
prendendo una bella cotta per Carlo. E, decisamente, non era una cosa
che mi dispiaceva.
Carlo parcheggiò vicino al bar e camminammo
fianco a fianco, con le mani strette l'una nell'altra, continuando a
parlare. Entrammo e ci sedemmo ad un tavolino appartato, ordinando
subito due cioccolate calde con panna, il rimedio perfetto per il
freddo di inizio novembre.
La nostra discussione si spostò sui
film, sugli attori, sui posti nel mondo che avremmo voluto visitare.
Eravamo immersi in una bolla, completamente isolati dal mondo, ma
incapaci di smettere di sorridere. Era, almeno per me, una sensazione
nuova e bellissima.
Non mi ero mai sentita così a mio agio con
una persona che non fosse Greta o Vera e mi batteva forte il cuore al
pensiero che anche Carlo apprezzava la mia presenza. Insomma, non ero
mai stata eccessivamente bella, ero ordinaria, normale, una qualunque
ragazza italiana. Ma davanti agli occhi di Carlo mi sentivo
improvvisamente nuova e stupenda, a posto con me stessa e con il
mondo.
Quasi non ci accorgemmo del tempo che era passato e fu il
telefono che all'improvviso mi suonò in tasca che fece
scoppiare la
nostra bolla. Scoppiammo a ridere, mentre rispondevo velocemente a
mia madre. Erano quasi le sette di sera e non mi ero fatta sentire
per tutto il pomeriggio. Conoscevo abbastanza mia madre per sapere
che dopo la ramanzina, avrebbe preteso di conoscere ogni dettaglio
della mia uscita con Carlo e non volevo tornare a casa.
Ma
proprio Carlo mi costrinse ad alzarmi, ricordandomi che la cena era
l'unico momento in cui una famiglia si poteva riunire e parlare della
giornata appena trascorsa. Mi stupii del tono con cui
pronunciò
quelle parole, così sincero e profondo, e pensai che dovesse
avere
una famiglia davvero fantastica
per anelare in quel modo il momento
della cena.
Carlo mi accompagnò a casa e si fermò davanti al
mio cancello, sorridendomi. "Ci vediamo domani", mi salutò,
mentre frugava nella tasca della giacca e ne estraeva un paio di
caramelle. "Vuoi una?", mi chiese prima che scendessi.
Io
scossi la testa e mi incantai a guardarlo mentre la scartava e se la
infilava in bocca.
"Carlo", lo chiamai, schiarendomi la
voce. "Senti, ma quello di oggi è stato un...".
"Appuntamento?", concluse lui, ponendo la domanda che
mi era ronzata in testa tutto il pomeriggio. Lui alzò le
spalle.
"Per me sì", ammise.
"Anche per me",
mormorai, non riuscendo a trattenere un sorriso.Carlo strinse la
mia mano, che aveva passato tutto il viaggio sotto la sua, sulla leva
del cambio, e si avvicinò al mio volto. Avevo capito cosa
volesse
fare, ma smisi di farmi domande quando incontrai i suoi occhi. Chiusi
i miei e spensi il cervello, facendo incontrare le nostre labbra.
Fu
un bacio delicato e dolce e quando incontrai la sua lingua con la mia
sentii il sapore del miele esplodermi in testa.
Se mi avessero
chiesto una parola con cui descrivere quel bacio, credo che sarebbe
stata quella. Miele. Come la caramella che aveva mangiato poco prima.
Non lo avevo mai adorato particolarmente, ma da quel momento
divenne ciò che caratterizzava Carlo.
Dolce e deciso.
Un
bacio al sapore del miele.
Salve
a tutti, popolo di
EFP.
Mi
scuso enormemente per
il ritardo, ma queste ultime settimane sono state un inferno con la
maturità e non sono riuscita a riprendere in mano seriamente
la storia.
Ora
sono finalmente
tornata con il quarto capitolo e da oggi spero di essere più
puntuale negli aggiornamenti.
Vorrei
fare qui una
precisazione sulla base della recensione di Amahy: mi rendo conto che
molte scene sembrano banali e noiose, viste e riviste e che forse il
personaggio di Carlo può apparire come il solito ragazzo
trito e ritrito delle storie d'amore. La verità è
che il mio intento non è raccontare una storia
straordinaria, ma una normale e quotidiana storia d'amore, quindi gli
avvenimenti, così come Carlo, sono ordinari, qualcosa che
esiste nella vita reale che è, a conti fatti, la storia
più rivista di questo mondo.
Insomma,
vi prego di dare
una possibilità a Carlo, che nella sua normalità
ha molto da offrire o, almeno, spero di farvi percepire tutto il suo
potenziale.
Spero
che il capitolo vi
sia piaciuto e ci rivediamo settimana prossima, speriamo!
A
presto e grazie a tutti
mikchan
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** 5-Incontri ***
5-
INCONTRI
Risata.
"Fammi capire: vi ha visti?".
Uno sbuffo da parte
mia e un'altra risata da parte di Greta. "Smettila, non fa
ridere", borbottai.
Lei mi ignorò, continuando a
ridacchiare e a darmi della stupida. Insomma, cosa potevo farci io se
mia madre era un'impicciona di prima categoria e amava spiarmi dalla
finestra del soggiorno? Come potevo immaginare, soprattutto, che lei
era nascosta lì, se avevo la testa completamente impegnata
in
qualcosa di più importante?
Un bacio
al sapore del miele.
Arrossii al
ricordo e non riuscii a trattenere un sorriso, che ovviamente non
sfuggì a Greta.
"Ah, lo sapevo! Continui a pensarci. Che
romanticona", esclamò guardandomi con gli occhi dolci.
Le
guance mi si infiammarono ancora di più dall'imbarazzo.
Non
avevo resistito e avevo raccontato tutto a Greta e, purtroppo, non me
ne pentivo. Era la mia migliore amica ed erano anni che sognavo di
potermi confidare con lei come vedevo nei film o nei libri, ma mi
sarei dovuta aspettare una reazione del genere da parte sua. Quando
le avevo rivelato che mia madre si era appostata dietro le tende era
scoppiata a ridere e aveva continuato per minuti interi. Per fortuna
eravamo a casa da sole e nessuno l'aveva sentita, altrimenti sarebbe
stato doppiamente imbarazzante, considerato il terzo grado a cui ero
stata sottoposta una volta entrata in casa.
Anche in quel
momento, dopo una cena all'insegna di battutine con mia madre e
riferimenti velati verso mio padre che non sapeva niente e non doveva
assolutamente sapere, Greta continuava a rivangare l'argomento e
l'avrei presa volentieri a padellate in faccia, se solo non avessimo
dovuto incontrare il suo ragazzo da lì a quindici minuti.
Sdraiate
sul mio letto, chiuse in camera come quando eravamo alle medie, le
avevo confermato che mi ero davvero presa una cotta per Carlo e,
fortunatamente, dopo qualche gridolino di gioia, si era limitata ad
abbracciarmi e a dichiarare di essere immensamente contenta per me.
Proprio Carlo stavamo aspettando, mentre la playlist del mio
computer continuava a scorrere, ed io ero tremendamente nervosa. Un
po' perché avrei finalmente conosciuto Lorenzo, un po'
perché mi
erano finalmente arrivate le mie cose, ma soprattutto perché
il mio
ragazzo -ed era veramente strano poterlo definire così- era
in
ritardo di ben venticinque minuti.
"Tranquilla, Chiara.
Tanto anche Lorenzo è sempre in ritardo", mi
rassicurò Greta
dopo l'ennesimo insulto.
Sbuffai. "Non vuol dire niente,
abbiamo un appuntamento e odio arrivare fuori orario".
"Cosa
dice Carlo?", mi chiese quindi.
Sbuffai di nuovo, per almeno
la centesima volta durante quel sabato. "Arriva tra cinque
minuti. E l'ha detto anche prima", le feci notare.
"Non
preoccuparti", mi ripeté. "Arriveremo in tempo".
"Non dovevo chiedere a lui di passarci a prendere",
borbottai stizzita.
"Lorenzo ha una moto e non ci saremmo
state entrambe", mi spiegò tranquilla. "E nessuna delle
due ha ancora la patente".
"Non vedo l'ora di compiere
i diciotto anni", mi lamentai, mentre il telefono mi vibrava tra
le dita. Lessi velocemente il messaggio e sospirai. "Andiamo,
finalmente è arrivato", le dissi, alzandomi dal letto.
Ci
infilammo le giacche e le scarpe e, salutati i miei genitori, uscimmo
di casa. Davanti al mio vialetto c'era la macchina di Carlo, dove lui
ci aspettava con un sorriso di scuse.
"Perdonatemi, ragazze,
ho avuto un'enorme contrattempo", disse quando entrammo.
"Cos'è
successo?", gli chiesi preoccupata, dimenticandomi di essere
arrabbiata con lui.
Carlo si sbilanciò verso di me e mi diede un
veloce bacio a stampo. Sentii un brivido attraversarmi la schiena a
quel gesto tanto intimo quanto naturale e dovetti sforzarmi per
trattenere un sorriso smagliante. "Questo pomeriggio mia sorella
si è fatta male e ho dovuto accompagnarla al pronto
soccorso. Siamo
stati lì un'eternità e mi è morto
anche il telefono nel
frattempo", spiegò, mentre metteva in moto la macchina.
"Cavolo, sta bene?", esclamai preoccupata.
"Sì",
annuì lui. "Solo una distorsione alla caviglia".
Rabbrividii, ricordando per un secondo quando era capitato a me,
anni prima.
"Ma ora è a casa, tranquilla. Le è dispiaciuto
non poter finire la partita, oggi", disse con un tono talmente
tenero che mi fece sorridere.
"A cosa gioca?", gli
chiese Greta, seduta sui sedili posteriori.
"Pallavolo. Non
chiedetemi niente perché non saprei dirvi in che serie o
roba del
genere gioca", scherzò.
"L'importante è che non sia
nulla di grave", dissi con un sospiro di sollievo.
Carlo
annuì, voltandosi poi verso Greta. "Sai la strada?", le
chiese. "Ho capito più o meno dove si trova, ma sarebbe
meglio
non perderci, considerato che siamo già in ritardo".
"Vai
verso la scuola", disse lei. "Poi da lì ti guido io".
Carlo accelerò e mi ritrovai appiccicata al sedile. Non gli
dissi niente, soprattutto perché gli avevo già
fatto notare che non
era molto sicuro giudare a quelle velocità in paesini
piccoli come
il mio, ma lui si era limitato a rassicurarmi che sapeva cosa stava
facendo. Ero comunque contenta che, rispetto alle prime volte, aveva
diminuito notevolmente la velocità.
"Sono così contenta
che conoscerai Lorenzo!", esclamò poi Greta.
"Il tuo
ragazzo?", le chiese Carlo, curioso.
"Finalmente",
dissi io mentre lei annuiva. "Stavo iniziando a pensare che non
esistesse nemmeno".
"Esagerata", rise lei. "È
che non abbiamo mai avuto l'occasione di uscire tutti insieme. Poi
lui quest'anno ha iniziato l'università ed è
sempre
impegnatissimo".
"Come si chiama di cognome?", si
intromise Carlo. "Forse lo conosco".
"Fabbri.
Veniva nella nostra scuola".
"Sì, ho capito chi è",
rispose lui, mentre io rimuginavo su quel cognome. Aveva qualcosa di
familiare, ma non riuscivo a ricollegarlo a nessun volto nella mia
memoria.
"Ah, ora gira a destra", esclamò Greta,
accorgendosi all'improvviso della strada.
Carlo eseguì e per il
resto del viaggio si sentirono solo sue indicazioni per arrivare al
piccolo bar dove avevamo deciso di incontrarci quella sera. Ci
sarebbe stato Lorenzo con alcuni suoi amici, e avevo invitato anche
Vera con il suo ragazzo, Alessandro.
Quando entrammo nel
parcheggio riconobbi subito la mia amica e, appena scesa dalla
macchina, corsi ad abbracciarla. Non la vedevo da settimane: lei era
sempre impegnata in palestra, mentre io non avevo un mezzo di
trasporto per poterla andare a trovare al suo paese, che distava
quasi venti minuti dal mio.
"Sono felice di vederti",
esclamò lei. "Pensavo non arrivassi più".
"Sì,
Carlò è arrivato in ritardo", dissi indicando il
ragazzo che
intanto mi aveva raggiunto, accompagnato da Greta che continuava a
guardarsi intorno.
"Ah, il famoso Carlo!", disse lei
ridendo e allungando una mano per presentarsi. "Sono Vera".
"Il Famoso Carlo", si presentò invece lui, facendoci
ridere tutti.
Vera presentò anche il suo ragazzo, ma fummo
distratti da un urletto di Greta, che corse incontro a una macchina
che era appena arrivata, per poi saltare letteralmente addosso a uno
dei ragazzi che scese dalle portiere posteriori.
Quello, invece,
doveva essere il famoso Lorenzo. Da lontano non riuscivo a vederlo
bene in volto, ma era molto alto, forse anche più di Carlo,
con due
spalle enormi e le braccia muscolose. Dentro di me continuavo a
ripetermi il suo cognome, ma fu solo quando si avvicinò e
incrociai
i suoi occhi che capii dove l'avessi già sentito.
All'improvviso
mi sentii catapultata all'indietro nel tempo, mentre nella mia testa
partivano immagini del mio passato in compagnia di un ragazzino che
abitava vicino a me.
"Saremo
sempre amici?".
"Finalmente
ti conosco!", esclamò lui, allungando una mano verso di me e
riportandomi alla realtà.
La strinsi,
incerta, e cercai di
sorridere. Mi aveva riconosciuta? Dal suo sguardo era chiaro che non
aveva la minima idea di chi fossi e, per un attimo, mi chiesi cosa
dovessi fare.
Prima che
potessi decidere, tutti si incamminarono
verso l'entrata del bar e mi ritrovai a seguirli automaticamente.
Carlo mi prese per mano e mi lanciò un'occhiata
interrogativa, alla
quale risposi scuotendo la testa. Non era quello il luogo e il
momento per rivelargli i miei trascorsi con Lorenzo.
Mi lasciai
per un attimo distrarre dal posto: era un locale abbastanza piccolo e
rustico, ma accogliente e informale, perfetto per una serata senza
pretese tra amici. All'improvviso mi accorsi di non aver nemmeno
sentito i nomi degli amici di Lorenzo e mi diedi della stupida e
della maleducata. Erano due ragazzi e una ragazza, che camminavano
con la sicurezza di chi conosce il posto, e ridevano tra loro come se
si conoscessero da sempre.
"Ehi",
richiamai Carlo,
tirandolo per la mano. "Come si chiamano?", gli chiesi a
bassa voce, mentre un cameriere ci portava a un tavolo.
Carlo
abbozzò un sorriso. "La tipa si chiama Marta, i due ragazzi
Giulio e Alberto", mi rispose. "Pensavo li conoscessi".
Scossi la
testa. "Non esco spesso con Greta", gli
rivelai, evitando di dire che recentemente non ero uscita spesso e
basta.
Ci sedemmo a
un tavolo rotondo ai lati della sala, vicino
alle finestre. Mi trovai tra Carlo e Vera e, mentre scambiavo qualche
parola con la mia amica, sentii Lorenzo rivolgersi al mio ragazzo.
Evidentemente si conoscevano entrambi di vista, come aveva ipotizzato
Carlo poco prima in macchina e, essendo seduti vicini, si trovarono a
conversare per un po' sulla scuola e i vecchi professori.
Mi
ritrovai a sorridere al pensiero che, forse, avrei potuto
riallacciare la profonda amicizia che mi aveva legato a Lorenzo da
bambini. Certo, eravamo entrambi cambiati molto, ma all'epoca gli
avevo voluto bene e, anche se in quel momento Carlo ricopriva ormai
quel ruolo, ero certa di provare ancora dell'affetto nei suoi
confronti.
Ordinammo da
bere e passammo la serata a chiaccherare
tranquillamente. Scoprii che Marta e Alberto stavano insieme da anni
e che i due ragazzi erano gemelli. La ragazza, inoltre, era
simpaticissima con le sue battute spigliate e gli insulti verso i
ragazzi, che trattava come se fossero la sua famiglia. Parlai anche
un po' con Lorenzo, cercando di tenermi su un territorio neutro per
capire se si ricordasse di me o meno, ma non riuscii a intuire cosa
si nascondesse dietro i suoi occhi verdi. Quell'incertezza mi
stordì
al punto che Carlo mi trascinò fuori dal locale con la scusa
di una
sigaretta. "Si può sapere che ti prende?", mi chiese
quando fummo fuori all'aria aperta.
Presi un
grosso respiro per
calmarmi. "Lo conosco", dissi. "Lorenzo, intendo".
Carlo
agrottò le sopracciglia, mentre si accendeva la sigaretta.
Poi si sedette su uno dei gradini e mi fece segno di imitarlo.
"Da
bambini abitavamo vicini ed eravamo inseparabili, ma poi lui si
è
trasferito e non ci siamo più sentiti", gli spiegai.
"Sei
sicura che sia lui?".
"Praticamente
certa. Ha lo stesso
cognome e gli stessi occhi. Non potrei mai dimenticare il suo
sguardo", mormorai nostalgica.
"Devo essere
geloso?",
mi chiese Carlo ridacchiando e stringendomi le spalle con un braccio.
Sorrisi e
scossi la testa. "No. Lorenzo era il mio migliore
amico e non riuscirei mai a pensare a lui come a qualcosa di diverso
di un fratello".
"Bene,
perché stavo iniziando a
preoccuparmi che mi avresti mollato per quel tipo".
Alzai un
sopracciglio, guardandolo sorpresa dal basso. "Che stai
dicendo?".
Lui
buttò fuori il fumo e spense la sigaretta
sotto la scarpa. "Sei strana da quando l'hai visto. Che ne
potevo sapere, magari ti aveva fatto qualche incantesimo e ti eri
innamorata di lui".
Scoppiai a
ridere davanti a quella
prospettiva che trovai inaspettatamente dolce e tremendamente tenera.
"Sei carino quando sei geloso", sussurrai appoggiando di
nuovo la testa sulla sua spalla.
Lui mi strinse
di più a sé.
"Sì, beh, però vedi di non innamorarti davvero",
borbottò
imbarazzato.
Io risi di
nuovo, per poi allungarmi e dargli un
piccolo bacio ad occhi aperti. "Sto con te, no?", gli
chiesi retorica.
Lui
annuì e mi rapì le labbra in un nuovo
bacio, questa volta più profondo. Adoravo baciare Carlo:
ogni volta
mi perdevo tra le sue braccia e nel suo profumo, che si trasormava
sempre in quello del miele del nostro primo bacio.
"Dovresti
smettere di fumare", gli dissi quando ci staccammo, sentendo
sulla lingua il sapore del tabacco.
Lui
sospirò. "Sono anni
che ci provo", mi rivelò. "Ma rinizio sempre quando sono
nervoso".
"Io non ti
vieto di fumare perché non sono
tua madre e nemmeno te stesso. Però preferirei baciare una
bocca che
sa di miele, piuttosto di una che sa di fumo".
Lui
annuì,
comprensivo. "Hai ragione", disse, frugando nella tasca e
estraendo una caramella al miele. Se la mise in bocca e poi mi
guardò
con un sorriso. "Ora posso?".
"Non dovresti
nemmeno chiederlo", dissi piano, avvicinandomi di nuovo a lui.
Quella sera
non dissi niente a Lorenzo, anche perché la passai
tutta tra le nuvole al sapore di miele, ma decisi che avrei chiesto
il suo numero a Greta e che lo avrei chiamato. Volevo riallacciare i
rapporti con lui e il fatto che fosse il ragazzo della mia migliore
amica semplificava enormemente le cose.
Non sapevo
quanto fosse
cambiato e cosa gli fosse successo in tutti quegli anni, ma ero certa
che averlo di nuovo al mio fianco sarebbe stata la scelta giusta.
Dopo mesi infiniti ecco che
finalmente riesco ad aggiornare.
Vorrei scusarmi con le poche persone che mi hanno seguito e aspettato,
ma tra l'ansia della maturità, l'eccitazione dell'estate e
di nuovo l'ansia per l'università questa storia è
passata in secondo piano. La finirò, prima o poi, ma non
garantisco aggiornamenti puntuali. Anzi, molto probabilmente passeranno
settimane tra un aggiornamento e l'altro e di questo vorrei scusarmi in
anticipo.
E ci terrei anche a fare una precisazione, facendo riferimento a un
messaggio privato che mi è arrivato e che mi ha dato
parecchio fastidio. Ho risposto lì alla diretta interessata,
ma vorrei che questo fosse chiaro a tutti. Il fatto che lo scorso
capitolo non abbia avuto molto successo mi ha fatto capire che la
svolta presa dalla storia è diversa da quella immaginata da
voi lettori, ma, e mi scuso se sembro cattiva, acida, mestruata o
quello che volete, ma questa è la mia storia e decido io
cosa fare succedere. E no, se c'è altra gente che se lo sta
chiedendo, non ho intenzione di lasciare carta bianca ai lettori. Non
è così che funziona, almeno secondo me. Quindi mi
fa piacere se leggete la mia storia e mi fa ancor più
piacere se lasciate un commento, ma, per favore, non venite a dirmi
cosa dovrebbe succedere "per aumentare le recensioni". Non è
per questo che scrivo, mi dispiace. E se la storia non è di
vostro gradimento, potete sempre smettere di leggerla.
Spero di avere chiarito ogni dubbio e mi dispiace per questo sfogo, ma
davvero non riesco a tollerare queste cose.
Nella speranza di risentirci presto, auguro buon inizio di scuola a
tutti
Mikchan
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3116482
|