Claretta e il soldato

di Adeia Di Elferas
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lungo la via del Mare ***
Capitolo 2: *** Palazzo Venezia ***
Capitolo 3: *** Diamoci del tu ***
Capitolo 4: *** Littoria ***



Capitolo 1
*** Lungo la via del Mare ***


 “Non dico che sia sbagliato, dico solo che...” prese a dire Riccardo, con la sua solita insofferenza, mentre imboccavano la via del Mare.

“Appunto, non c'è nulla di sbagliato se mia sorella scrive al Duce!” lo zittì Myriam, accarezzando protettiva il braccio della sorella.

Clarice, detta in famiglia Clara o Claretta, ringraziò mutamente la sorella con uno sguardo. Anche se Myriam aveva appena nove anni, a volte aveva la stessa irruenza di una donna matura.

Nemmeno Clarice, che di anni ne aveva già venti, sarebbe riuscita a far tacere Riccardo così in fretta.

“Suvvia ragazze!” le richiamò la madre, più per riguardo all'autista che non perchè fosse davvero contraria alle loro rimostranze verso il suo futuro genero.

Riccardo Federici, promesso sposo di Clarice, incrociò le braccia, conscio che non avrebbe mai vinto contro quel gineceo e si mise a guardare fuori dal finestrino.

Stavano andando al Lido di Ostia, approfittando della bella gionata. Era solo il 24 prile eppure c'era già un sapore estivo nell'aria. Malgrado il libeccio, che soffiava continuamente e il sole, che si vedeva solo a sprazzi, il profumo era proprio quello delle giornate di luglio.

Clarice e Myriam avevano insistito tanto, finchè avevano convinto la madre e anche Riccardo ad andare con loro. Una volta là si sarebbero divisi, la bambina sarebbe rimasta con la madre e i due futuri sposi avrebbero potuto starsene un poco tranquilli in riva al mare.

Così erano saliti tutti a bordo della Lancia Astura vaticana e avevano chiesto all'autista di portarli il prima possibile al lido.

Eppure la mente di Clarice era completamente immersa in pensieri diversi dal mare o dal fidanzato. L'unica cosa a cui riusciva a pensare era quell'uomo straordinario che andava sotto il nome di Benito Mussolini, ma che tutti chiamavano Duce.

Ogni volta che lo vedeva, ogni volta che sentiva la sua voce, era come se qualcosa dentro di lei le dicesse chiaramente che erano destinati a passare insieme il resto della loro vita.

Da un lato sapeva che era una cosa impossibile, ma dall'altro, la sua convinzione era tale, che non riusciva a smettere di immaginarsi la sua vita accanto a quell'uomo.

Quando provava a fare un confronto, anche vago, con il suo fidanzato, le pareva di essere in carcere. Riccardo Federici era un buon partito, era gentile, quando voleva era simpatico, più vecchio di lei, sì, e pure soldato, ma in confronto a Mussolini, era solo un ragazzino. E Clarice voleva un uomo.

Aveva perso il conto di quante lettere aveva spedito al Duce, eppure continuava a scriverne e spedirne. Gli chiedeva di potersi incontrare, altre volte lo lodava e basta per questa o quella cosa, ma sempre gli ribadiva la sua ammirazione più profonda, nella speranza di smuoverlo, prima o poi, a fare un passo verso di lei.

Sull'automobile c'era un silenzio tombale, rotto solo dal rombo del motore, spinto quasi al massimo dal diligente autista.

Clarice si guardava le mani, continuando ad arrovellarsi sulla sua situazione di innamorata infelice, Riccardo si ostinava a osservare il panorama che conosceva a memoria, Myriam sbuffava ogni tre secondi, contrariata dal rimprovero della madre, madre che guardava placidamente l'orizzonte, persa in chissà quali ricordi.

Improvvisamente un rombo ben più potente e arrogante di quello della loro Lancia Astura arrivò loro alle spalle.

Clarice guardò subito in direzione del rumore assordante e vide distintamente l'Alfa Gran Turismo Zagato rossa che li stava sorpassando.

Il suo cuore perse un colpo dall'eccitazione. Quella fiamma di motore e velocità era guidata da un uomo il quale profilo Clarice conosceva fin troppo bene. Sì, ci aveva perso le notti a immaginarselo, quel profilo.

“Inseguite quell'automobile!” esclamò subito Clarice, scuotendo la spalla dell'autista. Questi si voltò un momento a chiedere il consendo anche della signora Petacci, che, non capendo bene quel che stava accadendo, ma fidandosi come sempre della figlia, gli fece segno di eseguire l'ordine.

Così la Lancia Astura si buttò all'inseguimento dell'Alfa, correndo sotto il cielo a chiazze, sfidando il vento in velocità, mentre il cuore di Clarice sembrava volerle esplodere nel petto.

La giovane era talmente protesa che riuscì a vedere Mussolini nel momento in cui si rendeva conto di essere seguito. Era certa che un uomo come lui avrebbe voluto sapere il motivo di un simile gesto da parte di un veicolo vaticano.

Infatti, dopo qualche metro, l'uomo sterzò e frenò. Così fece anche l'autista delle Petacci, mentre Riccardo si massaggiava la fronte, un po' contrariato, chiedendosi cosa mai stesse accadendo.

Mussolini scese dall'automobile con un movimento fluido e repentino. Nella Lancia nessuno sapeva cosa fare, tranne Clarice, che lasciò subito il suo posto in macchina, per andare incontro all'uomo che tanto aveva voluto conoscere di persona.

Mentre si avvicinava a quell'uomo che aveva in sé tutta la minaccia e la tentazione di una grande passione, il vento si alzò con tutta la sua forza.

I capelli di Clarice sembravano danzare come fiammelle, così come il suo vestito. Mussolini, invece, stava statuario di fronte a lei, con un'espressione dura e inquisitoria, che la mise, inizialmente in forte soggezione.

Era molto più giovane di lui, si sentiva quasi una bambina al confronto, eppure una sorta di forza silenziosa e invisibile la portò a farsi più vicina, sempre più vicina, fino ad assere a portata d'orecchio.

“Dovete scusarci...” disse, indicando la Lancia vaticana: “Vi avevamo scambiato per qualcun altro.”

Mussolini non parlò subito. Studiò ancora per qualche secondo il volto della ragazza e poi chiese: “E quelli che stanno con voi non scendono?” chiese, brusco.

Claretta sorrise: “Loro...” si sentiva tremare, eppure non aveva freddo, anzi: “Ecco, ho preferito scendere io, perchè volevo parlarvi da sola.”

Mussolini strinse gli occhi: “Chi siete?”

“Mi chiamo Claretta, sono la figlia del dottor Peta---” Mussolini agitò una mano, per farla stare zitta.

Clarice si zittì, temendo di aver sbagliato qualcosa, ma quasi si sciolse, quando lui disse: “Claretta mi basta.”

“Vi ho scritto molte lettere.” riprese lei, vittima di un impulso irresistibile a cogliere l'attimo: “Non mi avete mai risposto, ma immagino che siate sempre molto impegnato.”

Mussolini sporse un po' in fuori il mento, poi annuì: “Di fatti è così. Gli affari di stato mi impediscono di onorare come vorrei la corrispondenza.”

“Mi piacerebbe potervi parlare, noi due da soli.” si lasciò sfuggire Clarice, quasi pentendosene subito.

“Mi pare che lo stiamo già facendo.” ribattè Mussolini, un po' irrigidito, mentre i suoi occhi continuavano a correre alla Lancia Astura e ai suoi occupanti: “Però vedo che vi stanno attendendo. Potremmo vederci in un luogo e in un momento più tranquillo.”

Clarice non voleva credere alle sue orecchie. Annuì con forza e sussurrò: “Sarebbe un onore immenso”

Mussolini si lasciò scappare un fugace sorriso, proprio mentre su di loro si apriva un'occhiata di sole: “Spero non solo un onore, ma anche un piacere...” disse e per un momento a Clarice parve imbarazzato, anche se di certo non poteva essere altro che una sua impressione.

Quello che le disse dopo le si scolpì nella mente. Erano una data, un orario e un luogo. Tutto quello che serviva per accordarsi su un incontro.

Si salutarono come si doveva fare tra fascisti e poi Mussolini tornò alla sua Alfa, mandandole un ultimo saluto più casalingo, a mano aperta.

Clarice tornò alla Lancia, fece segno all'autista di ripartire e non riuscì più a dire nulla, malgrado le insistenti domande della sorellina Myriam, fino a quando non arrivarono alla spiaggia del Lido di Ostia.

 

 

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Capitolo 2
*** Palazzo Venezia ***


~~ Clarice si guardò una volta di più allo specchio, sistemandosi l'ultima ciocca di capelli che continuava a scapparle sulla fronte.
 Si guardò a lungo negli occhi, cercando di vederci qualcosa.
 Dopo tano tempo, il momento era arrivato e ancora non le pareva possibile. Un appuntamento ufficiale con Benito Mussolini, a Palazzo Venezia. Come se lei fosse una persona di spicco, importante...
 “Clara sei pronta?” chiese sua madre, dal corridoio, con una vena di impazienza.
 Clarice deglutì, fece per uscire, ma prima si lanciò un ultimissimo sguardo, e, accidenti, ancora quel ricciolo ribelle!
 Sistemandoselo, uscì dal bagno e sorrise alla madre: “Come sto?” domandò, in apprensione, sempre attenta all'opinione materna.
 La donna la guardò a lungo, come soppesando ogni minimo dettaglio del vestito – forse troppo leggero per la stagione – scelto dalla figlia.
 “Meglio di così, non si potrebbe fare.” concluse, con la solita espressione che si dipingeva addosso quando voleva mascherare il proprio orgoglio nei confronti della bellezza della figlia.
 “Francesco, cosa ne pensi?” chiese la donna, mentre il marito arrivava dal solotto, sfogliando una delle sue riviste mediche.
 Francesco Petacci diede una veloce guardata alla figlia, notandone distrattamente la gonna troppo corta, la scollatura troppo generosa e il trucco – troppo 'da donna', secondo lui – ma disse solo: “Ah, esci?” e salutando con la mano, proseguì la sua peregrinazione verso l'altra sala.
 La moglie lanciò gli occhi al cielo e si diresse verso la figlia: “Mi raccomando, Clara. Fai la brava e cerca di risultare simpatica al Duce. Lo sai che anche tuo fratello Marcello ci tiene tanto.”
 Clarice annuì e salutò la madre con un leggero bacio sulla guancia: “Vado mamma, la macchina mi starà aspettando.”
 Mentre lasciava la casa, stringendo al petto le mani, sentiva il cuore impazzirle di gioia e aspettativa, per quell'incontro che finalmente le avrebbe permesso di parlare da sola con l'uomo dei suoi sogni.
 Ancora conservava nell'anima quel loro primo avvicinarsi, immersi nel vento, sulla via del Mare, colpiti a sprazzi da un sole capriccioso e volubile... Era bastato così poco a farle capire che quello sarebbe stato il loro destino... E ora correva verso il loro futuro, senza paura, perchè era certa che qualunque cosa sarebbe successa, bella o brutta, loro sarebbero stati assieme, e tanto le bastava.

 Palazzo Venezia quel giorno era illuminato da una luce strana. Quando Clara venne lasciata lì davanti dall'autista, un bagliore improvviso le fece guardare a destra.
 Là si stagliava l'Altare della Patria, quasi perfetto, quasi ultimato, immacolato simbolo del sangue versato dal popolo italiano in guerra.
 Ancora una volta, il suo cuore sussultò come se in quegli scorci improvvisi di sole ci fosse qualche messaggio nascosto, qualcosa che dovesse metterla in guardia.
 Ma siccome non c'è peggior cieco di chi non vuole vedere, Clarice si strinse nelle spalle e si fece riconoscere, all'ingresso.
 Varcò la porta di Palazzo Venezia con la stessa predisposizione d'animo di una sposa che sta per salire all'altare. Ogni dipinto le pareva incantevole, ogni mobile prezioso, ogni angolo di quel posto era per lei di valore inestimabile.
 Non riuscì a prestare troppa attenzione alla girandola di persone che se la passarono come un pacco fragile, rimbalzandola da un luogo all'altro. I suoi occhi si riempivano di meraviglia, e lei stessa si rendeva conto che non era tanto il palazzo a stupirla, quanto la sua eccitazione a rendere ogni cosa indimenticabile.
 Quando finalmente arrivarono all'ufficio di Mussolini, chi l'accompagnava bussò piano alla porta e la voce – oh, quella voce che conosceva già così bene! – rispose subito, con fermezza: “Entrate.”
 Nel momento in cui Clarice mise piede nello studio di Mussolini, l'uomo alzò gli occhi dalle carte che stava leggendo e fece un breve, fugace sorriso.
 Congedò l'accompagnatore della ragazza e le fece segno di avvicinarsi.
 Una volta soli, Benito si aprì in un sorriso vero e disse: “Finalmente.”
 Clarice ricambiò il sorriso, sentendosi avvampare come una scolaretta. Non sapeva cosa rispondere e così restarono in silenzio a lungo entrambi, limitandosi a guardarsi a tratti, imbarazzati, indecisi su come muoversi, come due ragazzini e non come un uomo sposato e una donna in procinto di diventare moglie.
 
 Dopo il primo momento di studio reciproco, Benito e Clarice avevano cominciato a parlare del più e del meno, partendo dal tempo – ricordando lo strano clima che permeava l'aria il giorno in cui si erano conosciuti – e finendo, chissà come, a parlare dalla loro infanzia.
 “Dovia...” stava spiegando Mussolini, seduto accanto a Clarice: “Si tratta di una frazione di Predappio.”
 Avevano messo le due sedie accanto alla finestra, per godere del profumo che quella giornata primaverile offriva loro.
 “Ho frequentato lì i primi due anni di scuola, sì.” disse lui, mentre lo sguardo si perdeva nei ricordi: “Scuola di campagna, ma molto solida, devo ammetterlo.”
 “E poi?” chiese Clarice, incredula nel potersi permettere di fare domande al Duce e di ottenere anche risposte pacate, sincere, come quelle che darebbe un ragazzo innamorato alla giovane per cui sospira.
 “Poi sono andato a Predappio. Però ero un discolo...” aggiunse, ridendo sommessamente: “Ho dato tanti grattacapi alla mia famiglia!”
 L'uomo battè le mani e ricordò, con una nostalgia che contagiò anche Clarice: “Mia madre decise di mandarmi in collegio. Non lo sopportavo. Alla fine mi hanno cacciato!”
 “Davvero? Per quale motivo?” chiese Clarice, sempre più bramosa di saperne di più, di conoscerlo davvero, quell'uomo così importante eppure così normale.
 “Una rissa, una cosa da niente... Ero stato provocato e mi ero difeso. Purtroppo mi ero trovato tra le mani un coltello e questo mi è costato una punizione esemplare.” sospirò: “Ma forse ve ne parlerò meglio un'altra volta... So che se comincio a parlare di me stesso non finisco più. Ditemi qualcosa della vostra esperienza alle scuole, sono curioso.”
 Clarice sorrise, di nuovo il rossore che le prendeva le guance, al ricordo di come, fin dai primi tempi in cui si sentiva parlare di questo strano 'Benito Mussolini', lei ne fosse stata talmente infatuata da non lasciare spazio ad altro, seppure fosse ancora una bambina.
 Si sforzò di richiamare memorie infantili che non avessero a che fare con lui e alla fine disse solo: “Ero come tante... Mi piaceva già l'arte, quello sì. Credo che le vostre siano memorie molto più avvincenti.” concluse.
 Mussolini fece un sorriso quasi timido e bisbigliò: “Non sono affascinante come sembro. Se mi conosceste meglio...”
 “Non desidero altro che conoscervi meglio.” si lasciò scappare Clarice, senza ragionarci.
 Fece volare le mani sulla bocca e spalancò gli occhi, assumendo un'espressione talmente buffa che tutta l'atmosfera che si era più o meno volontariamente creata andò a farsi benedire e Benito scoppiò in una sonora risata.
 Clarice fece del suo meglio per accodarsi al riso, ma si sentì infinitamente stupida e bambina, di fronte a quell'uomo potente e vissuto.
 “Sentite...” concluse alla fine Mussolini, alzandosi e piantando i pugni sui fianchi, come quando parlava in pubblico: “Si è fatto davvero tardi, e ora ho impegni di stato da cui non posso scappare in alcun modo. Se davvero ci tenete a conoscermi meglio, possiamo incontrarci di nuovo.”
 Clarice aveva la bocca secca e la gola non era messa meglio, per cui faticava a parlare: “Io...” disse piano.
 “Dunque è deciso. Io vi tedierò ancora con le mie memorie di gioventù e a voi, magari, verrà in mente qualche aneddoto degno di nota che farà sembrare i miei bazzecole insulse.”
 Clarice si alzò a sua volta e chinò appena il capo: “Ne sarei onorata.”
 “Sempre onorata, voi, eh?” chiese Benito, ricordando il congedo con cui si erano lasciati il giorno del loro primo incontro.
 “Vi comunicherò quando presentarvi qui, se per voi va bene.” aggiunse, a mo' di saluto.
 Clarice annuì silenziosamente, mentre nel petto le si agitava una gioia nuova, diversa da quella che l'aveva accompagnata nella strada che da casa l'aveva portata a Palazzo Venezia.
 La prima era stata una gioia dettata dall'aspettativa e dalle previsioni rosee e abbellite dal sentimento che lei provava da anni. Questa, invece, era una gioia più solida, dovuta al fatto che ora ne aveva la prova: Benito Mussolini esisteva, era in carne e ossa, era un uomo come altri e sì, le piaceva ancora, anzi, le piaceva anche di più.
 Benito accompagnò la ragazza verso la porta e quando fu davvero il momento di separarsi, lui le strinse la mano, in modo confidenziale, tenendola vicina, quasi come si trattasse di un abbraccio lasciato a metà: “A rivedervi presto, signorina Petacci.”
 “A presto, signor Mussolini.” ricambiò lei.
 I loro occhi si incontrarono e per qualche istante non esistette altro che quello che le parole non sarebbero riuscite a dire.
 Con un'ultima forte stretta, come se non volesse davvero permetterle di andarsene, Benito la lasciò.
 Clarice uscì da Palazzo Venezia più leggera, diversa, con una sicurezza in più che le dava la forza di non lasciarsi scoraggiare da tutti gli ostacoli che pur vedeva.
 La moglie e i figli di lui, Riccardo, il suo fidanzato, lo stato, la politica, l'opinione pubblica...
 Era tutto niente, di fronte al fuoco che le stava divorando il cuore.
 
 
 

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Capitolo 3
*** Diamoci del tu ***


~~ “Avevo ben fatto molte domande. A Predappio, prima di tutto, ma anche ad Ancona e perfino a Castelnuovo Scrivia.” stava raccontanto Benito: “Ma non c'era modo di farmi saltar fuori una cattedra.”
 Era un pomeriggio d'ottobre e Roma era immersa in quel clima particolarissimo che si sperimenta solo durante, per l'appunto, le ottobrate romane.
 Il vento arrivava leggero, entrando dalla finestra che Clarice aveva voluto lasciare socchiusa, per sentire il lontano profumo del mare che sembrava essere sempre lì, a ricordare come il loro primo incontro fosse avvenuto sulla via per il Lido di Ostia.
 Erano mesi, ormai, che lei e Mussolini si incontravano a Palazzo Venezia e ogni volta parlavano di qualche cosa di nuovo, aneddoti e memorie di cui nessuno dei due parlava mai con altri.
 Erano momenti così lievi e tranquilli che, ogni volta, a Clarice parevano irreali.
 Benito la invitava sempre più assiduamente, eppure, a differenza di quello che molti – famiglia Petacci compresa – pensavano, fino a quel momento il loro rapporto era rimasto del tutto platonico.
 Clarice aveva sentito parlare spesso della girandola di donne che il Duca portava nelle sue sale, e sapeva pure delle amanti storiche, come la Sarfatti... Senza contare che Mussolini aveva anche una moglie che, seppur in modo scostante e burrascoso, amava ancora molto.
 Quindi le piaceva sapere che la loro storia era diversa da tutte le altre. Lei non si sentiva una delle tante, per Benito. Lei era diversa, unica, qualcosa di puro e profondo in un mondo di decisioni difficili e compromessi infelici.
 “Sono riuscito solo a fare qualche mese alle scuole elementari a Pieve Saliceto, una frazioncina di Gualtieri...” continuò Benito, con uno sbuffo divertito.
 “Eravate un buon maestro?” chiese Clarice, cercando di immaginarselo seduto in cattedra davanti a un branco di bambini irrequieti.
 Benito sporse in fuori le labbra e si fece serio, come se si meravigliasse che lei ptesse mettere in dubbio la sua validità come insegnante. Alla fine si aprì in un largo sorriso: “Ero un disastro. Un disastro vero. Non riuscivo minimamente a farmi obbedire e c'era sempre una tal confusione...!”
 Clarice rise: “Voi che non vi fate obbedire! Non riesco proprio a figurarmelo!”
 Benito alzò le mani, come ad arrendersi: “Invece è così, lo confesso! Non avevo la stoffa, per fare il maestro. Meno male che me ne sono accorto in tempo!”
 Risero entrambi per qualche secondo, assaporando quell'istante fuori dal mondo. Per Mussolini era un sollievo avere Clarice al suo fianco. Era come uscire dal personaggio, un permesso straordinario, il poter essere se stesso senza paura di giudizi...
 “Vi piacciono i bambini?” chiese infine l'uomo, massaggiandosi il mento.
 “Non saprei...” disse Clarice, arrossendo: “Mia sorella è molto più giovane di me, quindi è come avere in casa una bambina, ma non credo sia un esempio calzante.”
 Mussolini continuava a tormentarsi il mento e a fissarla, evidentemente non pago della risposta vaga fornita dalla ragazza.
 “A voi? A voi piacciono, i bambini?” chiese Clarice, per togliersi d'impaccio.
 “Sono il nostro futuro.” rispose quasi in automatico il Duce, cambiando tono: “E poi ho avuto la gioia di avere cinque figli da mia moglie, per cui ho avuto modo di crescerli e...”
 “Dimentico spesso che avete figli...” sussurrò piano Clarice, cupa, come ogni volta che la realtà della loro situazione le si parava davanti.
 “Ve li farò conoscere, un giorno.” fece Benito, però con scarsa convinzione.
 “Li ho visti da lontano, delle volte. Come vostra moglie.” disse Clarice, quasi a dispensarlo dalla mezza promessa appena fatta.
 “Vittorio ormai è quasi un uomo. E Bruno – cominciò ad elencare Benito – è un poco più giovane, ma ha lo spirito giusto, sì, è un ottimo figlio. Romano e Anna Maria sono ancora troppo piccoli per capire come saranno da grandi, ma ho buone speranze anche per loro.”
 Clarice aveva contato mentalmente i figli che Mussolini aveva nominato e sapeva che ne mancava uno, anzi, una.
 “E vostra figlia Edda?” si permise di chiedere Clarice.
 “Mia figlia Edda ormai è una donna sposata.” rispose secco Mussolini: “Con un uomo che spero non la deluderà mai.”
 Negli occhi del Duce, Clarice lesse qualcosa di inquieto che non le piaceva affatto. Aveva parlato di sua figlia quasi controvoglia, eppure per gli altri la sua voce si era fatta morbida e colma d'amore.
 “Tutto bene? Avete dei problemi con...?” provò a domandare la ragazza, non sapendo fino a che punto poteva spingersi su un argomento tanto delicato come i figli.
 Benito la guardò con un velo di tristezza che gli appannava lo sguardo e le prese lentamente una mano tra le sue: “Edda è la mia prima figlia. Quando è nata io e Rachele non eravamo sposati. Edda è sempre stata una bambina vivace, piena di voglia di fare, di scoprire... Ah, sapete una cosa?”
 Clarice scosse il capo e fece spallucce alla domanda retorica che aveva portato un sorrisetto maliconcino sul viso di Benito.
 “A volte lo dico, anche con mia moglie: sono riuscito a sottomettere l'Italia, ma non riuscirò mai a sottomettere mia figlia!” e in quella frase c'era più orgoglio, che disappunto.
 “Fuma, mette quel costume succinto, gioca d'azzardo...” proseguì Mussolini, stringendo appena di più la mani di Clarice: “Fa tutte cose che non dovrebbe, una donna nella sua posizione...”
 “Però a voi piace, vero?” commentò Clarice, che finalmente sentiva l'amore assoluto che quell'uomo doveva provare per la sua ribelle primogenita.
 “Molto. Molto...” annuì Benito: “Di tutti è quella che assomiglia di più a me, quando ero ragazzo.”
 Clarice ebbe un momento di smarrimento, nel pensare a come invece suo padre poco si interessava a lei e sua sorella, concentrando i propri sforzi paterni nei confronti del figlio maschio, Marcello.
 Oltre a essere un uomo eccezionale, era anche un padre appassionato dei propri figli... Il trasporto del Duce per sua figlia era qualcosa di commovente, tanto che Clarice ritirò la mano che l'uomo teneva tra le sue e si voltò appena, per non permettergli di vedere la lieve patina che le si stava creando sugli occhi.
 Mussolini, per quanto non ne capisse a fondo il motivo, forse intuì ciò che Clarice non voleva mostrargli, perciò la lasciò fare e attese pazientemente che fosse la donna a parlare di nuovo.
 “Una cosa non mi spiego.” prese parola Clarice, dopo qualche minuto: “Perchè prima ne avete parlato con tanta... tristezza?”
 Mussolini si accigliò. Aveva sperato di non dare troppo a vedere la sua malinconia.
 Mentre le campane di Roma risuonavano nell'aria, ricordando a entrambi che il loro tempo, per quel giorno, stava finendo, i due si alzarono e si avvicinarono alla porta.
 “Ero un po' preda di quella strana sensazione d'animo – iniziò Benito – perchè riflettevo sul fatto che voi siete più giovane della mia Edda...”
 Clarice restò immobile là dov'era, folgorata da quella rivelazione. Ovviamente lo sapeva, ma non ci aveva mai pensato davvero. Era qualcosa di veramente strano.
 “Allora dovreste darmi del tu.” disse, sorprendendo se stessa per prima: “Se sono più giovane di vostra figlia, è assurdo che seguitiate a darmi del voi.”
 Benito la osservò un attimo, squadrandola da capo a piedi, come faceva ogni volta che dovevano salutarsi.
 Alla fine le prese la mano e se la portò alle labbra: “E sia.” disse, dopo il rapido bacio: “Diamoci del tu. Da oggi ti darò del tu, a patto che tu faccia altrettanto con me.”
 Fuori dalla porta si sentivano i passi del prossimo appuntamento di Mussolini e Clarice li avvertiva come una minaccia, un presagio del tempo che stringeva, che scivolava via... Doveva cogliere ogni occasione...
 Aggrappandosi alle braccia del Duce, Clarice gli si avvicinò e lo baciò sulle labbra, per un furtivo e impalpabile istante.
 “Va bene, Benito, ti darò del tu.” bisbigliò Clarice, mentre le sue mani restavano chiuse attorno a quelle braccia forti e sicure.
 Benito non riusciva a parlare, stordito come un pugile dopo un incontro difficile. Non era da lui non sapere cosa fare in situazioni del genere. Con un'altra donna, una qualsiasi, ne avrebbe approfittato, rubando subito un secondo bacio. Ma che andava a pensare... Con un'altra donna, non avrebbe passato mesi a chiacchierare e spulciare memorie... Con un'altra donna, il suo cuore non si sarebbe messo a battere tanto forte da assordarlo...
 Prima che il Duce riuscisse a spiccicare mezza parola, Clarice alzò la mano e l'agitò, in segno di saluto.
 L'ultima immagine che Mussolini ebbe di lei quel giorno, fu il suo sorriso trionfante e le sue guance, tanto rosse da far sembrare il suo vestito vermiglio di un rosa opaco.
 
 
 

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Capitolo 4
*** Littoria ***


~~ “Com'è esltante, non pensate anche voi?” stava chiedendo Marcello, il fratello di Clarice, al loro ospite.
 “Molto, molto.” convenne quello: “L'Agro Pontino libero dalla malaria, e ora questa nuova splendente città... Molto, molto esaltante.”
 Clarice non si era nemmeno presa il disturbo di informarsi su chi fosse quell'uomo che stava seduto nel loro salotto a bere lentamente un bicchierino di marsala.
 Sapeva solo che era rubizzo, pelato e caciarone come pochi e la irritava come non mai.
 “E voi cosa ne pensate, dell'opera del nostro amato Duce?” chiese l'uomo, forse senza secondi fini.
 “Che il Duce sa sempre cosa fare. Non sbaglia mai.” rispose, quasi in automatica Clarice.
 L'ospite sorrise benevolo, benché il tono della giovane l'avesse un po' spiazzato, così sbrigativo e nervoso...!
 In breve il pelato tornò a parlare con Marcello e con il dottor Petacci, evitando di parlare ancora con quella ragazza dai capelli scuri che pure gli era parsa tanto affabile, a un primo sguardo...
 Quel giorno Clarice era intrattabile e lei stessa riconosceva quanto quel suo atteggiamento non avesse senso.
 Mussolini era andato all'inaugurazione della città di Littoria, una città creata dal nulla, in pieno stile fascista, ordinata, perfetta e ancora tutta da popolare.
 A causa di quell'impegno di stato così importante, lui e Clarice non erano riusciti a vedersi per giorni e questa lontananza le pesava come non mai. Proprio adesso che cominciavano ad avvicinarsi ogni volta di più, lui veniva allontanato dai suoi obblighi...
 “Il clima è molto mite, quest'anno, non trovate?” chiese la signora Petacci, arrivando nel salone assieme a un alone di profumo costoso e dolciastro.
 L'ospite annuì, i pomelli che si arrossavano a ogni minuto di più a causa del marsala.
 “Scusate, ho mal di testa...” disse piano Clarice, alzandosi. Non avrebbe sopportato anche le chiacchiere sul tempo, quello no.
 Tutti si mostrarono comprensivi – soprattutto la madre, che si affrettò a dire che la figlia soffriva spesso di queste terribili auree emicraniche – e la lasciarono andare subito.
 Una volta nella sua stanza, Clarice si lasciò cadere sul letto. Mai come in quel momento si era sentita sopraffatta dagli eventi.
 Aveva accanto un uomo che non amava più – che forse non aveva amato mai. Quelli che conoscevano la sua famiglia, però, si aspettavano di vederla sempre al fianco di quel Riccardo Federici che tanto veniva decantato dal dottor Petacci. Lei non ci voleva stare, accanto a Riccardo. Lo trovava noioso e inutile, solo una faccia pulita e una divisa immacolata. Non aveva irruenza, non aveva lo spirito guerresco che doveva avere un vero uomo...
 Si tolse le scarpe e si infilò sotto le coperte, immaginandosi come doveva essere in quel momento Littoria e a come Benito, forse, era su un palco a declamare frasi studiate nel dettaglio, a incantare le folle e prendersi gli applausi della sua gente.
 Le sarebbe piaciuto, poter essere al suo fianco, accanto a lui, come una fidanzata o una moglie. Invece doveva accontentarsi delle briciole e dei momenti rubati e doveva anche far fronte ai pettegolezzi infondati che già si spargevano a destra e a sinistra.
 Possibile che la gente dovesse subito pensar male? Possibile che nessuno trovasse uno spazio nella propria anima per credere che l'amore puro, quello assoluto e che non chiede nulla, esistesse ancora?
 Affondò il viso nel cuscino e prese una decisione che la fece tremare di paura e aspettativa allo stesso tempo.
 La prossima volta che fosse riuscita a stare sola con Benito, avrebbe dato una svolta alla loro storia. Avrebbe avuto coraggio, sarebbe stata una donna in grado di sorprenderlo, come quella volta in cui l'aveva baciato all'improvviso.
 E allora sì che, finalmente, i pettegolezzi su di lei sarebbero stati fondati.

 Benito osservava la folla davanti a sé, soddisfatto dell'effetto che il suo discorso aveva avuto.
 Quella città era un simbolo, se ne rendeva conto ora che l'aveva davanti. Case nuove, strade pulite, gente volenterosa e l'immagine di un'Italia capace di espandersi anche all'interno dei propri confini.
 Mentre la grande festa continuava, lui si era messo in un angolo in disparte, in attesa di fare l'ultimo piccolo discorso di saluto, e così aveva avuto il tempo di riflettere meglio sulle potenzialità di una città come Littoria.
 Era nata in fretta... Ricordava ancora il giorno della prima pietra, i progetti che si erano susseguiti, fino alla decisione finale di farla così, proprio come era stata fatta.
 Ricordava anche quanto era stato cieco, all'inizio. Lui quella città non la voleva. Non voleva nemmeno che si sapesse che, alla fine, era stato convinto a lasciarla costruire.
 Aveva vietato ai giornali di parlarne, ma ovviamente la stampa estera aveva subito scoperto la cosa e ne aveva diramato ogni dettaglio...
 Solo quando aveva avuto il sentore di quanto quella straordiaria città sarebbe stata utile al Fascismo, aveva deciso di metterci più impegno. In pochi mesi aveva costruito una città, era bene che la gente lo sapesse, che associasse quel segno di potere e solidità a lui.
 Certo che... Ah, faceva abbastanza freddo, quel giorno.
 Diciotto dicembre, in fondo. Quasi Natale. Quasi Capodanno... Lentamente il tempo passava, un giorno dopo l'altro...
 Nella sua mente si affolarono i pensieri, i ricordi e le preoccupazioni per il futuro.
 Non gli piacevano troppo le agitazioni tedesche, quel politico che chiamavano Führer... Gli faceva comodo, che ci fossero altri con idee simili alla sua, ma quello lì... Ah, difficile dire cosa, ma aveva qualcosa che non lo convinceva.
 Si aspettava di poter incontrare a breve il suo ministro della propaganda, per farsi un'idea più precisa di quale fosse davvero la situazione tedesca. Sentiva, nel profondo, che stava per arrivare il momento delle decisioni irrevocabili e questo agitava le sue notti più di quanto chiunque potesse pensare.
 L'unica che sapeva, almeno in parte, quali fossero i suoi fantasmi, era sua moglie Rachele. Per tutti gli altri, lui doveva rimanere una guida forte e presente, capace di affrontare qualsiasi sfida della sorte.
 E poi c'era... Fece un breve sorriso, che si tolse subito dalle labbra, sostituendolo col solito grugno marziale che, secondo lui, era l'ideale per l'inaugurazione della città di Littoria.
 Ormai, però, la sua mente era occupata solo dall'immagine di Claretta. Quella ragazza che tanto poco gli chiedeva e che così tanto gli stava dando...
 Parlare con lei, starsene soli anche in silenzio, mano nella mano o semplicemente guardandosi negli occhi... Era come rinascere, ogni volta.
 Non era come tutte le altre donne che aveva e che aveva avuto.
 Non riusciva nemmeno lui a spiegare cosa ci fosse di diverso, in lei. Sapeva solo che, in altri tempi, se lui fosse non fosse stato più vecchio di lei, se lui non fosse stato sposato, se lui non fosse stato Benito Mussolini, forse...
 Scosse piano il capo. Lui era più vecchio di lei. Ed era sposato. E, mondo boia, era Benito Mussolini. E tutte queste cose non si sarebbero cancellate con un sospiro sognante esalato in un tramonto silenzioso.
 Mentre lo avvisavano che era il momento di salutare la nuva città con una breve frase di incoraggiamento e ottimismo, Mussolini si chiese cosa ne sarebbe stato di Claretta, se fossero diventati più che semplici conoscenti.
 Salendo sul palco cercò di tornare lucido, per non straparlare davanti a tutti quegli italiani che in lui ci credevano, perchè lui era il Duce e non perchè era un uomo innamorato.
 Fece il suo discorso e prese i suoi applausi, ma sulla via del ritorno, nella sua mente non c'era Littoria, ma il bacio che Claretta gli aveva dato in quel tranquillo pomeriggio di ottobre...

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