Virus

di Gwen Chan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il costruttore di bambole ***
Capitolo 3: *** Ancora di salvezza ***
Capitolo 4: *** Il gioco delle scelte ***
Capitolo 5: *** Il confine più labile ***
Capitolo 6: *** La dimensione dell'umano ***
Capitolo 7: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


VIRUS
Prologo

Tokyo, 2042
Le lacrime offuscano la vista e la rabbia brucia nella pancia. Cry stringe i pugni, prende a calci una lattina nel vicolo e maledice suo padre.
Suo padre, che è il capo di una ricchissima multinazionale, e non ha mai tempo per giocare con lei. Non più, almeno. Da piccola la prendeva sotto le ascelle, la sollevava e la faceva volare.
Impreca, sfiorando i begli orecchini di pietra dura, con inserti di silicio, anche contro gli altri membri della sua numerosa famiglia. Sono tutti troppo occupati per prestare attenzione a lei.
“Vattene, stai disturbando!” dicono. Be’, che sparissero loro per una volta!
La lattina emette un sordo suono metallico, quasi malinconico, a ogni colpo contro l’asfalto. Tra le dita sudate un biglietto del treno si scolorisce. Vorrebbero mandarla dai nonni, in campagna, per qualche tempo. Certo, come se lei avesse intenzione di obbedire! Dannazione.
Strappa il pezzo di carta e ne getta i frammenti in un tombino. In lontananza spiccano i grattacieli della GC Incorporated, dove lavorano gli scienziati più celebri di tutto il Giappone. Di tutto il mondo.
Dove lavora suo padre.
Le pareti di vetro catturano i raggi del sole pomeridiano e li riflettono in un’aura di mistero. Il metallo degli ascensori ferisce gli occhi mentre questi salgono su e giù a una velocità allucinante. Spesso Cry vi s’intrufola, correndo tra le gambe degli scienziati, e si diverte a usarli come giostra.
Gli edifici brillano di una luce improvvisa. Violenta, spaventosa e magnifica.
La terra trema
 
Tokyo, 2045-2046
Il bianco pare l’unico colore ammesso nelle asettiche stanze dell’ospedale, tanto che Zafkiel, fissando il proprio distintivo, non può evitare di chiedersi perché l’ambiente per eccellenza adibito alle cure debba essere tanto ostile.
Quasi si volesse che i pazienti, stanchi del candore accecante, si sbrigassero a guarire. O a morire. Poco importa, basta che si levino dai piedi.
Oppure si cerca di riprodurre un Paradiso coltivato in secoli di fantasia e che ormai solo pochi si possono permettere.
Che brutto ambiente in cui essere accolti per la prima volta, in cui aprire gli occhi o chiuderli per sempre.
Seduto in mezzo a una fila di lettini identici e anonimi, se non fosse per i malati che ospitano e gonfiano le lenzuola inamidate, odorose di disinfettante, stringe le mani fragili di sua moglie. Vorrebbe impedirle di volare via.
Ha venticinque anni, una promozione a tenente fresca in tasca, una moglie bellissima ed è appena diventato padre. Ha una bella vita, non può lamentarsi. Non quando il mondo sta crollando in pezzi.
La sua Anael sta morendo.
Poco distante un’infermiera culla un neonato che urla, disperato.
“Non ha gli occhi rossi, vero?” sussurra Anael, le palpebre serrate e il fiato corto di chi si aggrappa a ogni secondo di vita.
“Blu! Sono blu!” la rassicura il marito. Poi si fa passare il piccino e lo mostra alla madre, per la prima volta. Per l’ultima volta.
“Vedi, blu!”
“Grazie.”
Sanno entrambi che il loro sollievo è temporaneo. Che qualcosa di storto può sempre succedere. Se solo i momenti di gioia non fossero tanto rari.
La presa sulle dita callose si fa più leggera, le labbra madide di sudore si rilassano in un debole sorriso di gratitudine, il petto cessa di sollevarsi.
Il bambino, ancora adagiato tra le braccia paterne, continua a singhiozzare. Ha fame. Vuole la sua mamma.
Non ha le iridi cremisi di chi è nato con una malformazione genetica, ma dopo anni di depliant e messaggi governativi, Zafkiel è ben conscio che fino al compimento del quarto anno, Rasiel non è fuori pericolo.
Zafkiel lo sa. Lo sa ogni volta che porta il suo piccolo al nido, una stanza spoglia della caserma di polizia attrezzata per ospitare i figli dei dipendenti. I bambini diminuiscono a vista d’occhio.
Lo sa quando il piccino gli tira i capelli corvini e gorgheggia cercando di trattenerlo.
Ne è visceralmente consapevole nella corsa affannosa a fine turno, pregando di trovare ancora suo figlio. Che non venga portato via dagli uomini della GC Incorporated. Che non diventi solo un bit nell’immensità del God Computer.
Se solo ci fosse un Dio ad ascoltare le sue notti insonni.
Il volto contrito della tirocinante che per arrotondare il misero stipendi si occupa dei bambini non fa che aumentare il dolore.
Rasiel non c’è. Non sta giocando con i cubi. Non si nasconde dietro le gambe della ragazza. Non appoggia le manine al vetro sporco fissando le macerie sottostanti.
“Dov’è?”
“Aveva gli occhi rossi. Ho dovuto avvertirli, mi dispiace.”
Tokyo, 2046
Il corpo della sorellina gettato sulla schiena è talmente leggero che Setsuna teme possa diventare un fantasma ed è grato quando la presa di lei sul collo gli impedisce di respirare. Dimostra che Sara è ancora viva. Abbastanza da aggrapparsi a lui.
Corre tra i resti di un quartiere distrutto e abbandonato, uno dei tanti che la luce ha inghiottito cinque anni prima. Quartieri fantasma popolati da ombre che rifuggono il sole.
Corre senza curarsi delle fitte lancinanti al fianco o delle proteste del suo cuore malato. Da quando ha cessato di battere per quasi un minuto pochi anni prima, quel muscolo potrebbe fermarsi di nuovo. Questa volta per sempre.
Eppure Setsuna continua a correre. Corre nell’intenzione di fuggire alla nuvola che alleggia sulla città, quella che ha fatto ammalare Sara, le ha distrutto le cellule epiteliali fino a farle cadere le membra a pezzi.
È ancora più leggera, Sara, cullata ora contro il suo petto. Il respiro freddo gli solletica la gola affannata.
“Salvatela!” grida al vuoto, nella vastità di una vecchia fabbrica. I passi segnano il tempo sul pavimento umido di condensa velenosa.
Sono loro a decidere se aiutarti o meno.
Sono loro a decidere il prezzo.
“In cambio?”
“Me.”
Il trapianto mentale è l’unico modo per salvare una persona il cui corpo sia destinato a morire, a patto che ci si possa permettere le costosissime operazioni delle cliniche governative. Per i comuni mortali c’è solo il mercato nero, le attrezzature di fortuna, i ricatti e le scelte senza via d’uscita.
Il rischio di perdere la propria identità, soffocata dai ricordi di un’altra vita: impulsi elettrici e pixel, di questo è composta la mente.
“Non potrai più vederla.”
Il prezzo della vita è alto.
 
Tokyo, 2052
Piccola, discreta, elegante.
La pillola adagiata sul suo palmo appare del tutto anonima.
“Ehi, non provare a fregarmi! Davvero questa roba qui è quella droga di cui parlano tutti?”
Come se valesse tutti i soldi che il pusher esige. Tanti. E già si parla di un prezzo di favore.
Il giovane, sospettoso, la porta alle labbra, ne annusa l’odore tipico della capsula in plastica, quell’odore che solo chi vive di pasticche sa riconoscere. È l’ultima moda, il trend in voga tra i politici corrotti e i ricchi adolescenti, figli di papà che il mondo vero lo hanno visto solo sugli schermi olografici. Quelli che vivono protetti dalle radiazioni nelle loro lussuosissime sale sotterranee, con la realtà virtuale in cui tuffarsi.
“Facciamo che questa volta è un omaggio” propone lo straniero. La sua voce è più suadente del miele artificiale.
“Solo per questa volta.”
Sotto la visiera abbassata di uno sgualcito cappellino da baseball, solo il ghigno è visibile. Una fila di perfetti denti bianchi scintilla, probabilmente frutto di costose operazioni dentistiche.
Kato ha inghiottito tante pastiglie che i gesti sono ormai automatici. La pillola diffonde il suo sapore amaro contro il palato, il gusto che ammorba la lingua dopo una notte di sonno agitato.
La vista si offusca, le tempie bruciano, la gola si chiude.
Il corpo agonizza, lacerato dall’interno da una sostanza che distrugge i tessuti e manipola le sinapsi cerebrali.
“Tu non sei umano” gorgoglia il diciassettenne, cortorcendosi sull’asfalto. No, quei capelli di vetro violaceo non sono normali. Né lo è la sua risata.
Lo spacciatore ride.
“Allora, com’è essere collegato alla Rete?”
Non muove un muscolo, ma la sua voce rimbomba contro la fronte. Invade la mente.
Kato artiglia il cemento fino a distruggersi le unghie, il corpo scosso dagli spasimi di un possibile rigetto. Voci insistenti e sconosciute lo assordano.
Grida e strisce di sangue segnano la morte del suo Io separato dagli altri.
Questa è la Rete.


Note dell’autore:
Quello che voleva essere un grandioso progetto degno del manga si è purtroppo trasformato in un qualcosa di poco coeso e di poco coerente.
Ho cercato di riprendere gli elementi dal manga, senza però non copiare pari passo da ogni singola scena, perciò molti degli aspetti originali sono o interpretati o rimescolati. Ci sono numerosi sottintesi che, ammetto, possono essere colti solo con una buona conoscenza dell’opera originale.
Passando alla parte tecnica, la sigla GC, spesso usata, sta per God Computer.
Se i demoni (Evils) sono i ribelli, gli angeli sono scienziati o legati all’ambiente dell’informatica.
Infine l’elemento portante dell’intera storia è la possibilità di trasferire la propria coscienza da un corpo all’altro o da un corpo a una macchina. Essa è stata la mia reinterpretazione in chiave fantascientifica del concetto di reincarnazione e di condivisione dei corpi, soprattutto per i binomi Alexiel/Setsuna e Sara/Jibril.
Il prologo e l’epilogo sono volutamente in presente per aumentare il senso di immediatezza. Per i capitoli “normali”, invece ho usato il passato remoto per la narrazione e il presente per i flashback.
 
 

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Capitolo 2
*** Il costruttore di bambole ***


1
Tokyo, 2053
Poteva fingere. Nessuno lo vietava. Poteva fingere ogni mattina quando priva gli occhi. poteva ripetere la solita nenia, seduto sul bordo della propria brandina.
Non avrebbe cambiato la realtà dei fatti.
“Io mi chiamo Setsuna Mudo. Ho sedici anni. Sono nato maschio. Mia madre mi odiava.”
Il freddo invernale gli artigliò i polpacci non appena si liberò della coperta che permetteva al corpo di trattenere un minimo di calore.
Inverni gelidi, durante i quali la temperatura precipitava fino a venti gradi sotto lo zero, e estati roventi erano l’offerta di un clima impazzito. Questo e altro avevano provocato l’esplosione.
Posò i piedi sul cemento, trattenendo un brivido di fastidio che comunque gli fece inarcare la schiena, e si affrettò a vestirsi con il solito giubbotto in nylon e pantaloni in similpelle.
Poteva anche continuare a fissare un punto imprecisato di fronte al suo naso o ostinarsi a non accendere la luce, ma ciò non avrebbe cambiato nulla.
“Alexiel!”
Quel nome con cui Kira lo salutava ogni mattina fungeva da memento. L’immagine riflessa dalla lucida superficie di una portiera d’automobile che ora serviva da specchio non lasciavo adito a dubbi.
Setsuna si stirò, portando le braccia tese sopra le tesa, e dall’altra parte una donna sui vent’anni imitò i suoi movimenti. Fluenti capelli corvini –Kira gli aveva proibito di tagliarli e, be’, era meglio non contraddire Kira- e un seno prosperoso lo intrappolavano.
Distolse lo sguardo dall’apparenza, legò la chioma in una coda vaporosa – solo per non inciampare nei suoi stessi ricci- e infilò un coltello a scatto nella cintura. Girare disarmati nei bassifondi equivaleva a disegnarsi addosso un bersaglio per le psico-freccette, gridando “colpitemi!”.
Poi afferrò saldamente i pioli arrugginiti di una scaletta, fece forza sulle braccia e a fatica riemerse alla luce. A pochi metri dai suoi piedi si trovava un cubicolo umido e buio, situato qualche metro sotto la vecchia metropolitana e ridotto alle minime necessità al punto che il letto e lo specchio erano rimasti l’unico mobilio.
Lo spettacolo, una volta emerso dalla botola, - sempre sottoterra, ma a uno sputo dal cielo- non era meno deprimente.
Vecchi vagoni ferroviari giacevano ribaltati su un fianco, sventrati e abbandonati nella posizione in cui i rispettivi incidenti li avevano cristallizzati. Alcuni erano stati trasformati in abitazioni di fortuna, almeno quelli in cui l’odore di sangue non aveva impregnato le poltrone oltre umana sopportazione. Gli scarafaggi zampettavano sui pilastri coperti di graffiti, salivano sulle scarpe e si infilavano a tradimento sotto i vestiti. Dopotutto si conosceva l’incredibile resistenza di quegli insetti. O quanto riempissero lo stomaco.
Setsuna ne schiacciò un paio nella sua passeggiata mattutina, più per noia che altro.
“Oh, sei sveglio. Ti stavo cercando.”
Per fortuna Kira manteneva la decenza di usare i pronomi maschili quando parlava con lui.
 
Si sente perso senza il peso familiare di Sara sulle spalle. Da quando le gambe della bambina sono diventate troppo deboli per sorreggerla, è sempre stato lui a trasportarla. E ora gliel’hanno portata via.
Avanzando cautamente per via degli occhi bendati, inspira gli odori dell’ambiente, zolfo e disinfettante, muffa e acciaio, per riuscire almeno ad immaginare cosa ci sia attorno a lui. in lontananza qualcosa gocciola. Le apparecchiature laser frusciano e crepitano. L’elettricità statica gli fa drizzare i capelli.
Gli restituiscono la vista una volta arrivati in una saletta minuscola attrezzata con un paio di sedie, forse un ripostiglio per le scope, prima che la luce ribaltasse ogni regola.
“Allora, sei sicuro?”
Setsuna annuisce. L’uomo –Kira- che gli fa da accompagnatore pare soddisfatto. Le labbra sottili si piegano in un ghigno impercettibile, nelle iridi grigie ricompare la vita. È un istante. Quindi di nuovo il nulla.
“Decideremo noi quale nuovo corpo avrà tua sorella. Dove vivrà. Quale sarà il suo destino. Questi sono i patti.”
Setsuna annuisce, di nuovo. Nei pugni serrati le unghie stanno segano la carne. Sui palmi scorrono lacrime di sangue. Sangue.
Rosso. Sangue. Ha un odore così penetrante che potrebbe impazzire. Sangue. Gli annebbia i sensi. Di nuovo. Come quella volta all’asilo. Le suppliche non lo fermano, vuole più sangue, sempre di più. Morde e si agita.
Il sangue aizza una belva rintanata nel suo intimo, che graffia e ringhia. Vuole cibo. Vuole carne fresca. Mostra le fauci e si avventa sulla persona più vicina. Affonderà i denti nella pelle chiara, mangerà il cuore.
Non ha preso in considerazione la forza di Kira.
“Devi imparare a controllarti, moccioso!”
La stretta sul collo gli impedisce di respirare. Kira lo fissa serio e non accenna a lasciarlo andare.
“Sei troppo impulsivo e ti cacci sempre nei guai, vero?”
Aria. Gli serve aria. Kira continua a premere. Lo chiama stupido. questo non faceva parte di patti! Oppure è stato davvero troppo ingenuo. Magari il loro piano prevedeva la sua morte sin dall’inizio. 
“La mia ragazza era impulsiva come te. Proprio come te.” Aggiunge Kira prima di allentare la presa. Setsuna si porta le mani alla gola. Tossisce. Sibila. Sputa.
“La prossima volta che stai per perdere il controllo ricordati di questo dolore e pensa! Ora possiamo continuare, ok?”
Non attende alcuna risposta. Lo solleva di peso – le dita attorno al braccio impediscono ogni possibilità di fuga- e lo trascina fino a una forma di parallelepipedo coperta da un telo. Una cassa. O una bara. Kira la scopre.
“Alexiel era selvaggia, fiera e incontrollabile. Finché non ha trovato qualcuno più forte di lei.”
Sotto la superficie in plexiglas giace una ragazza sui sedici anni, attaccata a un groviglio di tubicini che la nutrono e spirano le scorie corporee. Solo la piccola macchia di nebbia sopra la bocca carnosa o i capelli che continuano a crescere anche nel coma rimangono quali grottesche imitazioni della vita.
“I medici dicono che non si risveglierà. È solo un involucro. A meno che non abbia una nuova mente” spiega Kira. Per un secondo la voce trema. Nostalgia? Impossibile dirlo. Setsuna non può più tirarsi indietro. Loro non amano essere disturbati senza un motivo valido.
Non ha altra scelta.
 
Rispose con un mezzo grugnito a Kira. Non che lo odiasse. Dopo quasi sei anni di convivenza forzata aveva persino cominciato a considerarlo come un amico. O un mentore, senza esagerare.
“Luna storta?”
Setsuna sbuffò, spalancò le ante di quella che doveva essere una vetrinetta per dolci di un vecchio bar e ne ripescò una mascherina.
“Io esco. Il diavoletto vuole parlarmi. Non lo sopporto! Non sopporto quando mi chiama Alexiel!” imprecò, prima di posizionare la maschera sulla bocca.
La pura di svegliarsi una mattina e non ricordare chi era lo faceva impazzire. Del resto nessun trapianto poteva essere al 100% sicuro e le probabilità di rischio aumentavano con le operazioni clandestine.
“Vedo immagini e non so se siano dejà vu o ricordi di un’altra vita!”
Kira gli afferrò il polso, senza proferire parola, lo attirò a sé. Gli presi il viso fra le mani e, sebbene ci fosse la maschera antigas a dividere le loro bocche, Setsuna si sentiva comunque a disagio. “Ti infervori come lei” commentò invece con noncuranza. “La mia principessa guerriera”. A volte faceva venire i brividi.
“Lucifer!”
Salvato in corner. Setsuna gioì del nome in codice di Kira approfittò del fatto che qualcuno lo avesse distratto per svicolare vero le scale di servizio più vicine. Il corpo in cui era imprigionato si faceva ogni giorno più pesante.
Chiuse gli occhi, protetti da un paio di occhiali da sole a specchio, poco prima di emergere all’aria aperta. Sopra di lui l’argento e il giallo malaticcio da anni coloravano il cielo malato. Grattacieli sventrati mostravano il loro scheletro di tubi color ruggine, animaletti deformi correvano a nascondersi. Tripolini con due code venivano uccisi da piccioni innaturalmente aggressivi. Fin dove l’occhio poteva spingersi regnava la desolazione. Solo cemento e scorie e polvere e non un filo di verde. Non una pianta né un fiore. In periferia le mura di quarantena si alzavano minacciose. Oltre di esse, i ricchi trascorrevano le loro vita agiate, illudendosi che il semplice cemento potesse fermare le radiazioni e che i loro figli non sarebbero mai nati con qualche strana malformazione. Rinchiusi nelle loro gabbie di vetro e acciaio si divertivano ad assistere alla morte del volgo perché ciò faceva dimenticare loro come l’intero Giappone da una decade si trascinasse isolato da mondo, marchiato ed evitato.
Setsuna camminava tra i resti di un quartiere che un tempo doveva essere stato importate, sede di giganteschi negozi, mecche del consumismo, e lussuosi ristoranti alla moda. Prima che diventasse il dominio incontrastato della piccola criminalità organizzata. Prima che fosse il regno degli Evils.
“Alexiel!”
Al solito non fu abbastanza veloce da scansare la stretta del suo interlocutore. Una piccoletta dalla pelle abbronzata si avvinghiò stretta ai suoi fianchi.
“Mi chiamo Setsuna!” ribatté piccato.  Quando quel diavoletto avrebbe imparato il suo nome?
“Sei cresciuta, Cry?” aggiunse, addolcendosi. La diretta interessata sbuffò dietro gli occhiali da aviatore che le coprivano la faccia e sulla schiena ondeggiò una lunga e sottile treccia color platino. Sebbene la ragazza cercasse di nascondere in tutti i modi il proprio sesso, Sersuna aveva intuito la verità dal loro primo incontro.
“Sai benissimo che non posso più crescere. Comunque, Voice continua a non fidarti di te. Dice che avere tuo fratello come capo dei nostri peggiori nemici può essere un pericolo.” spiegò, guidandolo con agilità tra le collinette di rifiuti. Senza guanti, il giovane badava bene a non toccare nulla.
“Mi sono stancato di ripetergli che non ho fratelli. Avevo una sorella e non ho sue notizie da sei anni!”
Cry non rispose, concentrata in ogni sua fibra muscolare per muoversi in un ambiente malato e ostile.
“Ma Alexiel sì e sai bene quanto le persone amino fermarsi alle apparenze.”
“Sono delle scuse?”
“Una specie…è solo che…”
“Alexiel ti ha salvato da morte certa, lo so. So anche che soffri a vedermi usare il suo corpo. Doveva essere una persona splendida e tutto, ma io non sono lei.” Setsuna completò la frase al posto della giovanissima leader degli Evils. Almeno giovane in apparenza. Le loro voci uscivano distorte attraverso le maschere. Distorte come le percezioni reciproche. Come se ci fosse uno schermo informatico a separarli. In fondo di fronte a un PC nessuno si preoccupava mai di scoprire se la mente dietro l’avatar corrispondesse all’apparenza virtuale. Altrimenti fingere non sarebbe stato così divertente.
Improvvisamente una figura sconosciuta entrò nel campo visivo del sedicenne. Si palesò per un istante, poi scomparve.
Il ragazzo si fermò di scatto. Si guardò intorno alla febbrile ricerca di qualunque cosa avesse catturato la sua attenzione. Cry si allontanava, ignara.
Andiamo, dov’era? Non credeva nei presagi né ai fantasmi, ma in quella presenza c’era qualcosa di strano. Setacciò i cumuli di ciarpame concentrandosi su ogni possibile movimento.
Eccola! Esultò intimamente. Nascosta tra un televisore a schermo piatto e un frigorifero, rovistava nella spazzatura. Non portava guanti. Chi poteva essere così pazzo?
“Oh, oh. Sono così maldestra! Il padrone non sarà contento!” la udì lamentarsi. Aveva una voce stranamente metallica. Forse un robot. Oppure si trattava di qualcuno con un impianto vocale. Ancora inginocchiata alzò il viso e parve fissarlo. Per quanto fossero lontani, Setsuna ebbe la netta sensazione che fosse interessata proprio a lui. Il suo aspetto era stranamente familiare. Di nuovo quel senso di dejà vu.
“Sbrigati!” lo richiamò Cry. Agitava le braccia dalla sezione dei rifiuti in plastica.
“Un attimo…”
La sconosciuta doveva aver trovato quello che cerava o essersi arresa perché si era rimessa in piedi e a passo svelto si stava allontanando. Setsuna parlò senza riflettere, come d’abitudine.
“Sara!”
“Cosa?” urlò di rimando la sua guida, allargando le braccia in un chiaro segno di esasperazione. Impossibile dire se non avesse davvero sentito o se fosse stanca dell’ossessione che animava il ragazzo.
“Non importa. Di’ a Voice che lo vedrò dopo.”
“Come?”
“Devo fare una cosa!” replicò Setsuna e prima che potesse seguire i ragionamenti del suo inconscio, le sue gambe già correvano. Le paranoie di Vice avrebbero dovuto attendere, al pari dei rimproveri di Cry.
Correva per quanto la goffaggine di una mente maschile in un corpo femminile glielo permettesse.
Inseguiva la sconosciuta.
Cacciava un miraggio.
Nei suoi lineamenti aveva riconosciuto quelli di Sara. Non della Sara bambina, ma della Sara adolescente. Quelli che avrebbe avuto a quindici anni senza trapianto. Cry gli avrebbe schiacciato i piedi e avrebbe detto che si era appena tuffato in un’illusione. Tutto sommato era vero.
La sconosciuta si muoveva con sicurezza per vicoli, ma più passava il tempo più i suoi movimenti si facevano meno fluidi. E Setsuna a ogni passo si convinceva che non fosse umana. Altrimenti senza la maschera antigas sarebbe già svenuta nel migliore dei casi.
Continuò a seguirla. Se solo avesse rallentato un poco!
La ragazza svoltò leggera in una via sulla sinistra, si infilò in un sottopassaggio e in un’uscita laterale.
“Oh, no!” esclamò, fermandosi di fronte a un bivio. Se si era dimenticata la strada di casa, per Setsuna poteva essere l’occasione per fermarla. Approfittando della sua distrazione, le afferrò l’avambraccio.
“Chi sei? Lasciami! Padron Uriel” gridò la ragazza. Per essere un robot- perché doveva per forza esserlo- aveva una pelle sorprendentemente calda.
“Sara? Sei Sara? Ti ricordi di me? Perché hai il suo viso?” la incalzò il ragazzo. Non si sarebbe fatto sfuggire il primo indizio dopo anni di vuota attesa. L’androide ruotò la testa di mezzo grado, abbastanza per guardarlo negli occhi.
“Io mi chiamo Doll. Signor Uriel!”
Setsuna non ebbe il tempo di interrogarsi sull’identità del salvatore che Doll invocava a gran voce perché Uriel stesso, un uomo avvolto in un lungo mantello nero, comparve dalle ombre direttamente dietro il suo ostaggio. Allentò la presa.
“Chi è il temerario che disturba la quiete del mio laboratorio? Chi osa attaccare la mia aiutante?” esclamò il padrone di Doll, la quale corse a nascondersi dietro la sua imponente figura. Il cappuccio calato impediva di riconoscere i lineamenti di Uriel. La sua presenza riempiva l’ambiente circostante.
“Mostra il tuo volto” ordinò ed estrasse dal mantello un aggeggio simile a un bastone di acciaio munito di un interruttore rosso grande quanto un’unghia. Lo premette e una lama curva scattò fuori, dritta sotto la gola di Setsuna. Pericolosamente vicina.
A malincuore il ragazzo sciolse le cinghie della maschera e privò gli occhi della protezione fornita dagli occhiali a specchio. Dopo un istante di esitazione, la falce si allontanò dal collo.
“Alexiel?” sussurrò Uriel. Il cappuccio scivolò a mostrare i lineamenti sinceramente stupidi. La fronte si aggrottava come chi incontra una vecchi amante creduta morta. Setsuna scosse la testa. “Non più.”
“Oh… un trapianto. Immaginavo che un giorno qualcuno che conosceva lo stampo di Doll sarebbe giunto al mio laboratorio. Se vuoi, potrei avere delle informazioni sulla persona che cerchi” propose. Setsuna non accennò a seguirlo.
“Stavi per uccidermi!”
“Avevi turbato la mia quiete. Senza protezioni è pericoloso rimanere fuori troppo a lungo, vieni?”
Il giovane si soffermò prima su Doll, poi su Uriel, di nuovo su Doll. Doveva esserci un motivo se il robot somigliava tanto alla sua cara sorellina. Senza considerare che l’uomo che lo invitava conosceva il suo nome. Quello di Alexiel, almeno.
“D’accordo” acconsentì.
 
Un tavolino rotondo apparecchiato con tazze sbeccare come nelle illustrazioni di quei libri di fiabe tanto amati da Sara posto nel mezzo di una fabbrica di bambole era quanto di più grottesco Setsuna avesse mai visto. Davanti a lui fumava una tazza di un misterioso liquido ambrato.
“È tè sintetico. La versione più simile all’originale. Non è avvelenato.” Lo rassicurò Uriel, servendo un sorso della propria bevanda. Setsuna, pur dubbioso, lo imitò a ruota.
“Perché Doll somiglia a mia sorella?” chiese, sbirciando il suo ospite da sopra la tazza.
“Immagino tu sappia che fine fanno i corpi originali dopo i trapianti.”
“Vengono congelati se sani oppure lasciati a morire.”
Questa era la voce maggiormente accreditata nei bassifondi, la versione che di bocca in bocca più si avvicinava alla verità sotto la cupola di bugie costruita dagli schiavi del GC al governo.
La conoscenza era un lusso per pochi, i poveri potevano solo speculare.
“Alcuni sì. Altri vengono però tenuti come cavie.” lo corresse Uriel “Come la tua Sara.”
Tra i due interlocutori calò il silenzio, interrotto solo dal rumore sordo di un vecchio palmare che doveva aver portato Doll. Sul piccolo schermo si susseguivano immagini sgranate.
Un corpo immerso in un liquido nutritivo. Una fila di campioni di tessuti. Un paio di vacue iridi color nocciola.
“Sara!”
Non aveva dubbi. Per quanto la qualità delle foto fosse pessima, quella era sua sorella. Non la Sara bambina, ma la Sara adolescente. Addormentata chissà dove.
Gli mancò il fiato.
“Dove hai avuto queste foto?”
“Ho un amico nella polizia.”
 
“Principessa! Principessa!”
Cry non aveva ancora compreso perché tutti si ostinassero a riferirsi a lei con quel titolo altisonante. Istintivamente sfiorò gli orecchini che portava dal giorno dell’esplosione. L’unico ricordo di suo padre.
Nella Tana, dove si era diretta dopo che quell’impulsivo di Setsuna era corso via accecato dal testosterone, perché poteva anche avere il corpo di una donna, ma rimaneva un adolescente in preda agli ormoni, il caos dominava. I pochi computer artigianali lampeggiavano e gemevano nello sforzo si sottrarsi al controllo dello Stato con i loro firewall. Gli uomini correvano sui vecchi binari della metropolitana e chi era ormai spacciato persino per un trapianto mentale riceveva la sua iniezione letale.
“Avete visto mia cugina?” interrogò un paio di hacker di passaggio.
“È andata al settore H per recuperare i caduti e fare rapporto.”
“La situazione?”
“Stando alle ultime voci, lo abbiamo perso.”
Cry strinse il labbro inferiore tra i denti. Il peso di essere un capo gravava solo sulle sue spalle. Ultimamente gli attacchi dei seguaci di Rosiel ai loro quartieri si erano fatti sempre più aggressivi, al punto che le tregue stipulate nelle precedenti settimane avevano lo stesso valore di una manciata di glitches.
Senza contare la loro vulnerabilità sul piano informatico.
“Se torna, dille di aspettarmi fuori dalla mia camera. Nessuno mi disturbi. Vado a contattare i tre draghi.”
 
 

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Capitolo 3
*** Ancora di salvezza ***


2
 
 
Curioso come la vita potesse andare in crash in un istante, come nella precisa sequenza di numeri che costituiva il sistema binario su cui si basavano tutti i computer, la mancanza di un'unica cifra potesse distruggere l'intero sistema. Dolorosa, poi, la sensazione di perdita che permeava i giorni successivi al disastro. In fondo la realtà, quella concreta, distrutta, non presentava il lusso del tasto reset. I colori si opacizzavano e una pellicola acquea impediva di udire i suoni in tutto il loro vigore.
Zafkiel aveva conosciuto il primo strappo durante l'esplosione, come tutti del resto. Il secondo era giunto alla morte di Anael, la persona che era riuscita a cambiarlo quando la crudeltà pareva l'unico sentimento a muovere i suoi passi. Il colpo di grazia a una struttura già fragile era stato dato il giorno in cui, per la prima volta, i gorgheggi del suo piccolo non avevano allietato la sera. Quando la culla era rimasta vuota.
Prima di compiere trent'anni, Zafkiel aveva perso la scintilla vitale. Sorrideva, scherzava, alternava momenti di profonda serietà ad altri del tutto dediti al gioco, spesso era fonte di preoccupazione per i colleghi. Capitava che si alzasse all'improvviso e proponesse una visita a un vecchio Lunapark abbandonato.
Eppure un vuoto, simile a un buco nero, scavava il suo animo. Un tarlo lo rodeva. Fingeva una continua spensieratezza, quasi al limite della stupidità, che il più delle volte gli aveva permesso di evitare contrasti con il governo, ma quando s’immergeva nel proprio lavoro di poliziotto nei suoi occhi ciechi brillava solo il freddo desiderio della caccia.
L'uomo era stato sfiorato dalla vocazione durante la prima adolescenza, ma dopo pochi anni in seminario si era accorto che non valeva la pena consacrare la propria vita a un sussurro. Si volse allora verso un'attività che potesse nutrire meglio i suoi impulsi violenti, trovandola infine con il suo ingresso nella polizia. Considerava il proprio distintivo come uno scudo dietro il quale nascondere ogni responsabilità, era visceralmente temuto da chiunque infestasse i bassifondi, persino i suoi compagni ne avevano paura. Tutto questo prima di conoscere Anael.
La donna lo fissava ancora dal freddo schermo di una fotografia virtuale incastonata nella scrivania, stringendo al petto una cartella clinica e sorridendo appena, come una persona seria che scopra improvvisamente un lato meno rigido. Zafkiel ricordava ogni particolare di quell'immagine e amava tracciarne i contorni con le dita, sebbene i suoi occhi non potessero più vederla. La cecità era giunta lenta, ma inesorabile, in parte per l'affaticamento, le lunghe ore passate davanti al PC, i gas venefici, in parte per cause più psicosomatiche che fisiche. L'handicap, aggravato dal tentativo di suicidio, non gli aveva però impedito di entrare alla narcotici, come promesso alla moglie, né di ottenere il grado di capitano, posizione che poteva offrire qualche vantaggio, specialmente quando sottobanco si confondevano i progetti del GC.
"Signore, è arrivato un messaggio"
Davanti a lui, stando alla provenienza del suono -seduta alla scrivania a un metro sulla sinistra- una donna batteva freneticamente sulla tastiera. Le giornate pigre potevano essere interrotte da una soffiata nel momento più impensato e tutti dovevano essere pronti ad accogliere la sfida. Zafkiel posò la tazza di tè sintetico.
"Cosa dice?"
"Ho visto bambini, ma non giocattoli"
"L'indirizzo IP?"
"Sconosciuto. È impossibile risalire alla provenienza del messaggio."
Negli ultimi tempi episodi simili si erano verificati troppe volte perché potessero essere attribuiti a un caso. No, qualcuno o qualcosa voleva trasmettere preziose informazioni, a costo della propria vita, perché le indagini fossero indirizzate nel caos cittadino. Già una settimana precedente era stato scoperto un traffico clandestino di cloni esauriti, eseguito dietro la copertura di una scuola elementare da poco riattivata, e tra gli uomini visti nella sala molti corrispondevano alle foto di politici sugli olo-giornali. Troppi perché potesse essere solo una coincidenza. Piuttosto costituiva l'ulteriore prova della corruzione dello Stato.
"Potrebbe provenire dall'area dei dati corrotti, l'Hades."
Zafkiel intrecciò le dita sotto il mento in profonda riflessione. L'Hades esisteva prima della catastrofe, sebbene all'epoca fosse conosciuto con un nome differente, nato come discarica per i glitch o punto cieco tra i differenti mondo virtuali. In breve tempo gli hacker, soprattutto quelli che ormai vivevano esclusivamente nel loro status di avatar, lo avevano eletto come loro rifugio. E non amavano gli intrusi. Alcuni erano giunti ad auto eleggersi nuovi guardiani, assumendo la maschera collettiva di una mostruosa creatura mitologia: Enrao.
"Ci ha mandato un'immagine... una mappa."
"Conosci la zona?"
"Sì. Area residenziale. L'unico edificio pubblico è una clinica per l'infanzia."
Pochi minuti dopo una squadra di quattro uomini si preparava a giungere sul luogo incriminato, pur non sapendo quale motivo avesse spinto il capitano a ordinare una perquisizione nella sonnolenta tranquillità di quel pomeriggio. Nessuno riusciva ad afferrare le sfuggevoli ragioni di Zafkiel, eppure tutti si fidavano ciecamente dei suoi comandi.
 
Anael rantola. È fredda, terribilmente fredda. Il ventre gonfio di vita rende difficoltoso trasportarla, ma Zafkiel sa che non può permettersi il lusso di alcuna pausa. Non quando la sua donna è stata messa in pericolo per causa sua. Proprio ora che per lei era entrato nell'anti droga, intenzionato a diventare un uomo migliore. Per lei. Solo per lei.
"Come posso fare capire a chi non vuole comprendere?" ripeteva sconsolata, stringendosi a lui per cercare di trattenerlo qualche istante nel calore del letto matrimoniale. Perché non tornasse al lavoro.
No. Lui è cambiato. Ha smesso di uccidere per piacere. Ha cessato di terrorizzare chiunque. Lo ha promesso.
"Salvatela" supplica i medici. "Salvate mia moglie. Salvate mio figlio".
Poi, per la prima volta dopo decenni, prega. Ricorda i giorni del seminario, le lezioni di catechismo, i rimproveri del prete. All'epoca era tormentato da una sensazione di estraneità e più si sentiva escluso dall'ambiente più la sua fede si affievoliva. Le orazioni erano diventate solo frasi vuote da ripetere a memoria senza che per lui avessero un particolare significato. Suoni senza sostanza. infine aveva scelto di far cessare quella farsa. Le preghiere erano state dimenticate.
Ora prega con la fatica di un bambino piccolo cui sia stato appena insegnato, con il fervore di chi conosce solo la disperazione. Prega dimenticando una cosa importante: Dio ama dormire, non ascoltare.
 
Bambini senza giocattoli. Il collegamento con la clinica per l'infanzia fu immediato. Ne aveva udito parlare negli ultimi tempi, forse al telegiornale o in Rete, tendendo un orecchio attento e dubbioso a chi si prodigava in complimenti per la bontà di due signore che avevano deciso di accogliere i numerosi orfani nella sicurezza della loro struttura. L'edificio spiccava per il candore nel grigiume degli agglomerati sviluppatisi a ridosso delle pareti esterne delle mura di contenimento, simbolo di chi era abbastanza fortunato da aver evitato la quarantena, ma non sufficientemente ricco da superare la Lakia-belt.
Senza giocattoli.
Quella precisazione, quella mancanza stonò subito, un accordo che sarebbe apparso errato anche a chi di musica non s’intendeva. Grazie alla cecità Zafkiel era sempre il primo a cogliere tali imperfezioni.
"Capitano, non sarebbe dovuto venire!"
"Andiamo, volevo divertirmi. Mi trattate tutti come un vecchietto!"
Non considerava la mancanza della vista come uno svantaggio, semplicemente si era abituato a fare affidamento sugli altri sensi. Non necessitava degli occhi per conoscere quali strade percorreva l'automobile, non quando ogni rumore si mutava nei punti di riferimento della sua mappa mentale. Dall'odore acre comprese quanto gli altri membri della squadra fossero nervosi. Chef più di tutti.
Il silenzio che lo investì quando fu di fronte alla clinica, vuoto e ostile, alimentò i suoi sospetti.
"Cosa vedi?" chiese non appena ebbero fatto irruzione.
La cecità gli permetteva di superare la barriera dei disinfettanti che permeava l'ingresso.
"Un corridoio. Vuoto. Pulito."
"Perquisite le stanze. Descrivete ogni cosa!"
"Sissignore!"
Presto se ne sarebbero accorti anche loro. Presto il puzzo della malattia, di decine di corpi malati e trascurati, lasciati a marcire, avrebbe investito le loro narici. Il detersivo serviva a poco, dopotutto, contro l'odore dolciastro della decomposizione.
Chef lo informò di una sala gonfia di aghi, provette e pillole, nessuna delle quali era un medicinale approvato. Almeno non ancora.
"Quali migliori cavie dei bambini che nessuno vuole."
"Signor Zafkiel, è orribile."
Avrebbe visto file e file di capsule di plastica, abbastanza grandi da accogliere ragazzi dai quattro ai dodici anni, colme per metà di una sorta di liquido di cultura. Aghi perforavano la pelle malaticcia in un intrico di tubicini che si annodavano sopra le loro teste. Molti pazienti indossavano ancora gli occhiali speciali per la realtà virtuale che erano serviti a evitare ogni ribellione, sebbene da tempo tutti avessero cessato di respirare. Erano morti abbracciati da un sogno. In molti le bende nascondevano gli interventi invasivi che avevano dovuto subire. Zafkiel percorse la prima sala in tutta la sua lunghezza. I suoi uomini lo seguirono. Nella successiva si presentò lo stesso scenario. Così pure in quella dopo. Delle due signore apparse al telegiornale non c'era nessuna traccia, al punto da dubitare che fossero mai esistite. Tanto quanto era difficile distinguere ciò che era veramente clandestino da ciò che seguiva le fredde direttive del GC, unico vero signore del Paese.
"Questo qua! Questa qua è ... vivo! Sì, respira ancora. Portiamolo via!"
Zafkiel fece un cenno di diniego.
"Ferma!"
"Ma signore... "
"È la legge. Non possiamo fare nulla. Non abbiamo prove. Chi gestisce la clinica potrebbe anche inventarsi che i bambini erano già malati e che si è solo tentato di curarli. Molti ci crederebbero."
"Ha intenzione di lasciarlo morire?"
L'uomo non rispose. Almeno non si rivolse a lei, ma la sua successiva domanda fu posta verso il punto in cui ipotizzava si trovasse il ragazzo in questione. Udiva un rantolo.
"Mi senti? Posso salvarti da qui, ma senza un tuo consenso ho le mani legate. Pensa che questa potrebbe essere la tua unica occasione. Tu vuoi vivere?"
Seguì il silenzio, profondo, gravido, denso. Nel buio dei propri occhi, Zafkiel sapeva quanto l'assenza di suoni potesse indicare sia rifiuto sia lotta interiore e quanto i due silenzi fossero differenti.
Perciò attese. Attese per quasi un'ora prima che una risposta, tanto flebile poter essere udita solo da lui, gli permise di agire.
"Voglio... vivere".
 
Il periodo di riabilitazione del bambino richiese un minimo di due settimane, solo perché fosse in grado di tenere gli occhi aperti e parlare senza svenire.  Una peluria bionda iniziava a ricoprire il cranio magro, segnando lo scorrere del tempo. Nuovi tubi avevano sostituito i precedenti, ma questa volta il loro scopo era benefico, mentre fuori dalla stanza due poliziotti armati sorvegliavano l'ingresso ventiquattro ore su ventiquattro.
Zafkiel aveva anche imposto che le pareti fossero dipinte a colori vivaci, con fiori, alberi, animali - ricordi di com'era la Terra- o solo forme geometriche. Tutto purché si coprisse il bianco. Un ospedale non avrebbe dovuto essere bianco come un sudario. Nessuno sarebbe dovuto morire nel bianco.
Spesso l'uomo, non appena si ritagliava un minuto di tempo libero, si recava al capezzale del giovane paziente, in attesa che fosse abbastanza in forze da raccontare quanto aveva subito. Dopotutto una testimonianza era necessaria perché le indagini potessero proseguire, evitando i numerosi tentativi di ostacolo che già iniziavano a sollevarsi. Poco spazio era concesso a chi si opponeva al GC.
"Come ti senti?"
"Meglio, signore" rispose debolmente. Mentiva. Zafkiel sapeva riconoscere una menzogna. Eppure una profonda resistenza animava quel bambino.
"Come ti chiami? Quanti anni hai?"
"Rasiel... dieci, signore."
Lo stesso nome del figlio perduto. Curioso come la vita offrisse bonus imprevisti nel bel mezzo del boss level.
"Hai un posto dove tornare?"
"No, signore."
"Allora per il momento starai da me."
Stava invecchiando, sì. Se si abbandonava ai sentimentalisti, era arrivato il momento di arrendersi alla realtà e andare in pensione. Si sfregò la fronte.
"Sono un uomo così stupido."
 
Cry era riuscita a salvare pochi oggetti dalla propria casa e dall'ufficio di suo padre prima che la zona fosse dichiarata inagibile. Tra questi un laptop e un hard disk, contenenti tutto il materiale delle ricerche paterne. Dove normalmente avrebbe dovuto esserci lo scomparto per il CD Rom si trovavano invece due fessure che combaciavano perfettamente con i suoi orecchini. Non erano semplici gioielli, ma ciascuno di loro conteneva la chiave per accedere a uno speciale programma nascosto tra i numerosi file del PC. Il sinistro portava i codici di immagini e suono, il destro quelli delle parole. Insieme permettevano di connettersi alla Rete, in una zona protetta da un potente firewall, là dove abitavano i tre draghi.
Cry indossò le cuffie e gli occhialini appositi, infilò gli orecchini negli scomparti  loro destinati e si immerse nel flusso di dati. Si muoveva seguendo un'intima capacità di cogliere l'essenza delle cose, prevedevo la forma che i byte avrebbero acquisito prima che ciò avvenisse.
"Giada! Ambra! Agata!" chiamò con forza "Venite!"
Dall'oscurità del limbo virtuale si fecero avanti tre figure femminili, tre sorelle come amava immaginare, che si accomodarono su altrettanti troni. Ancora non si era riusciti a scoprire chi si nascondesse dietro di loro. Forse un hacker. Forse qualcuno che aveva preso la decisione estrema di trapiantare la propria coscienza in un software. Forse si trattava solo di un programma estremamente sofisticato.
L'unica certezza era il prezioso aiuto che negli anni erano state in grado di offrire a tutti gli Evils.
"Giada! Cosa dobbiamo fare? Esiste un modo per sconfiggere il GC? E Rosiel?"
A parlare fu la donna vestita di verde, umana se non per le protuberanze simili a pinne che aveva sulle guance. Era bendata.
"Alexiel, principessa. La figlia di chi progettò il GC e suo fratello possiedono le chiavi per entrare nel sistema centrale."
Cry si morse violentemente le labbra, sorpresa se non incredula a tale risposta. Allora davvero non esistevano speranze.
"Alexiel é morta tempo fa." ribatté.
"No. La sua vera coscienza non è stata annientata dal trapianto. È solo sopita. Presto si sveglierà."
"E Setsuna?"
"È destinato a morire. Il suo Io sarà cancellato. La coscienza del corpo ospitante prevale su quella intrusa. Il processo è già iniziato."
Quando Cry effettuò il log out, le mani che posarono le apparecchiature sul tavolo di fronte a lei erano madide di sudore. La scoperta che Alexiel, la ragazza che l'aveva raccolta quando vagava tra le macerie di Tokyo, l'aveva difesa dagli sciacalli e accudita, potesse essere ancora viva avrebbe dovuto suscitare solo un sentimento di gioia. Eppure un nodo allo stomaco le impediva di pensare.
"Principessa, quel ragazzo, Setsuna è tornato."
Spense il PC, si alzò. Il peso di tutte le decisioni prese gravava sulle sue spalle.
"Arrivo."
Si ripeté di nuovo quanto poco le interessasse il destino di quel ragazzo. O che il sacrificio di una pedina fosse necessario per la vittoria finale.
Non era mai stata brava a mentire.
 
Era da tempo che Zafkiel non indossava un supporto per la realtà virtuale, impossibilitato ad usarlo a causa della cecità, ma se si voleva parlare con qualcuno intrufolarsi in un qualche dominio abbandonato era il modo migliore per evitare interferenze. Ad alta voce recitò al vuoto l'indirizzo IP della persona che desiderava contattare.
"Password prego" ordinò un suono pre-registrato.
"Terra."
"Password accettata."
In quel momento un computer o qualsiasi appendice elettronica di cui il suo interlocutore si servisse avrebbe iniziato a suonare. Qualche minuto sarebbe servito perché effettuasse anche lui le manovre di sicurezza. Infine l'avatar prescelto sarebbe apparso: Uriel, il costruttore di bambole, lo scienziato maledetto.  Zafkiel aveva collaborato con lui prima che un incidente, qualcosa che riguardava una ragazza e un amore non ricambiato, sebbene l'intera faccenda non fosse mai stata chiarita, causassero il suo licenziamento e la conseguente scomparsa. Da giovane Uriel era stato membro di un gruppo di quattro ricercatori, uniti da un legame ben più forte di quello professionale su cui in molti riponevano la propria fiducia. Erano amici, quasi fratelli. La notizia della loro separazione aveva sconvolto il mondo accademico.
"Ne è passato di tempo" lo accolse. "Ho bisogno di un favore."

 

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Capitolo 4
*** Il gioco delle scelte ***


3
 
Era il suo ricordo più vivido, sebbene all'epoca avesse solo quattro anni.
 
Passeggia tra le bancarelle tenendo stretta la mano di Setsuna. È calda e un poco appiccicosa. Sono da soli in mezzo alla folla e per quanto sia strano che la mamma abbia acconsentito, Sara è troppo felice o troppo piccola per preoccuparsene.
Che fiera è? Questo unico particolare rimane nebbioso. Probabilmente qualcosa per la Tanabata, come dimostrano i bigliettini colorati appesi ai rami. Ciascuno dei cartoncini contiene un desiderio, ciascuno ondeggia nella brezza, carico di speranze.
 
Era stata l'ultima fiera estiva cui aveva partecipato. L'ultima, prima che la bambina si ammalasse a causa della bomba, esplosa di lì a poco.
Sua madre, da cristiana fervente qual era, le aveva messo una croce al collo e l'aveva trascinata in chiesa, quasi credesse che il semplice fatto di rimanere seduta per ore su una delle panche di legno potesse guarirla.
Fu inutile.
Non si poteva nemmeno attribuire a un qualche miracolo che, dopo anni di malattia, fosse ancora viva, non quando a divorarla era la lebbra. La lebbra uccideva lentamente.
A nove anni, prima che Setsuna se la caricasse sulle spalle ossute, non aveva altre prospettive se non quelle di sfaldarsi sino a scomparire.
Ricordava anche la promessa sussurrata all'orecchio del fratello con labbra tanto arse da far male.
"Signorina, Jibril!"
Il gridolino infantile e ansioso, indice di una corsa, la strappò alle proprie riflessioni. Si accorse di essersi appisolata seduta sul pavimento, con la guancia posata sul palmo della mano. Attorno ai polsi, al collo e alla vita speciali anelli monitoravano le sue funzioni vitali, impedendole allo stesso tempo di deviare dal percorso che nella casa era stato progettato per lei. I capelli nascondevano un impianto artificiale alla base del collo. Sara ipotizzava fosse stato inserito durante il trapianto. Era in grado di accogliere una chiave USB. Negli anni la ragazza era giunta alla conclusione che il suo corpo, il corpo che al momento la ospitava, avesse subito una serie di operazioni tali da renderlo più vicino a una macchina che a qualcosa di organico. Tastando la pelle immaginava fili elettrici attorcigliati ai nervi. Addirittura sostitutivi di questi ultimi. A volte le pareva di ospitare un oggetto estraneo a ridosso del proprio cervello. Altrimenti non avrebbe saputo spiegare perché, ogni volta che la chiave veniva inserita nella fessura, la paralisi colpiva suoi arti.
Finora erano solo congetture.
Guardò Ril, la sua domestica, avviarsi a passi incerti verso il tavolo e posarvi un vassoio.
"Sara. Mi chiamo Sa-ra" precisò, scandendo per bene il nome. Ril parve non comprendere.
"Sa-ra?" ripeté a pappagallo. Sara annuì. Si chinò poi per essere all'altezza della sua piccola dama da compagnia.
"Ril, vuoi giocare?"
Il ghigno allegro comparso sul quel musetto e i pugnetti alzati in segno di vittoria furono interpretati come una risposta affermativa.
Sara conosceva Ril da alcuni mesi ormai. La bambina - sebbene nel suo caso stabilire un'età sarebbe stato azzardato - trascorreva le sue giornate seguendola a stretta distanza o imitando i suoi movimenti. Non sapeva perché l'avessero assegnata a lei. Semplicemente una mattina, al suo risveglio, Sara aveva trovato il viso curioso della piccola domestica a pochi centimetri dal suo. Col tempo notò che Ril tornava sempre più affannata ogni volta che le sue mansioni la portavano in altre aree del palazzo. Il suo livello di intelligenza era molto basso.
Nel palazzo, Sara era prigioniera. Certo, era una prigione speciale, di cui ritenersi fortunati, nella protetta area del Briah, ma pur sempre una prigione. Per questo fu grata che qualcuno rompesse la solitudine in cui era vissuta per lungo tempo. Una mente infantile e un corpo adulto cozzavano l'uno contro l'altro. I gesti, i comportamenti, le distanze, tutto risultava estraneo.
Dopo l'operazione, fu portata in un ospedale fatiscente in evidente stato confusionale. Dicevano di averla trovata per strada. Probabilmente era stata drogata.
I trapianti ufficiali, costosi, venivano gestiti con cura predisponendo corpi di sesso ed età compatibili con le menti che avrebbero dovuto accogliere. I pazienti più ricchi acquistavano cloni per l'evenienza o speciali androidi. Senza contare chi abbandonava ogni fisicità per cercare l'immortalità in un computer. Con le operazioni clandestine ci di doveva accontentare.
L'intero periodo trascorso lì dentro era avvolto nel fumo - la nebbia causata dai medicinali - dal quale a tratti comparivano ora una capigliatura bionda ora una rossa.
Eppure Sara non era stupida, solo molto frastornata per il trapianto subito. Perciò nell'essere sballottata da una stanza all'altra, intuì che avrebbe vissuto segregata finché la sua età mentale non fosse stata compatibile con quella fisica. Si vergognavano di lei.
"Me ne occuperò io. Sappiamo che era in combutta con i ribelli e lo stato in cui si trova renderà più semplice il compito di controllata" disse una donna, con voce roca.
 
Il profumo dell'acqua fresca è quello che ama di più. Il prezioso liquido è diventato un bene raro per cui tutti sono costretti ad idratarsi per via endovenosa, per evitare che il sapore dell'acqua causi insostenibili sprechi. Fuori dalle finestre fiocchi di neve sporca ricoprono i palazzi circostanti. Con la cartella sulla schiena, Ruri le viene incontro. È la sua impostazione di PNG. Tutto nello scenario è programmato, eppure per Sara costituisce quanto di più simile esista della vita rubatale.
Un giorno in un vecchio filmato ha visto se stessa. Ha ascoltato la legittima padrona del suo corpo parlare in modo elegante e forbito, delicato ed energico al tempo stesso. Lei, una biologa marina, intelligente, pacata, coraggiosa: Jibril.
 
Nel PNG, abbastanza sofisticato da non annoiare con il suo numero limitati di azioni pre- impostate, Sara individuò un'amica. Le stringeva le mani illudendosi che le sensazioni fossero reali.
L'ultimo bit di Ruri si corruppe quando ebbe quindici anni. Poche settimane dopo arrivò Ril.
"Giochiamo a nascondino?" propose la bambina. Con il velo scivolato sopra il simbolo dei cloni pareva un essere umano normale.
Il proprio assenso venne inghiottito dal fischio penetrante delle sirene.
"Fratello... " pensò, spaventata.
Lui era distante, distante chilometri, e la loro separazione forzata era qualcosa che feriva Setsuna ogni giorno.
Il ragazzo si era abituato a vivere sottoterra, a rinunciare per lunghi periodi alla luce del sole, si era persino adeguato a convivere con un corpo femminile, in una simbiosi di compromesso.
Eppure non sopportava la mancanza di Sara, così come tratteneva a stento una smorfia ogni volta che doveva parlare con i gemelli. Maschio e femmina condividevano un unico corpo dalla cintola in su. Sapevano comprendersi a vicenda senza l'uso della parola tanto a lungo la vita li aveva costretti insieme. Era Noise, la ragazza, a occuparsi delle questioni mentali, mentre Voice, semplice e impulsivo, bramava il momento della lotta. Più volte Setsuna li aveva visti litigare e tirarsi i capelli. Eppure si intuiva quanto il legame fra loro fosse forte, ben oltre la semplice causa fisica.
"Dobbiamo fare qualcosa."
Fu Voice a parlare. "Non mi fido di te" aggiunse. "Non quando un pazzo continua ad attaccarci e tu abbandoni la nostra principessa in mezzo al nulla."
"Kira ha sempre garantito per me" replicò Setsuna. Sapeva che Voice non si fidava totalmente nemmeno di Kira, come non si fidava di chiunque non fosse nato o cresciuto nell'area controllata dagli Evils, la Tana, ma l'uomo possedeva sufficiente autorità da garantirgli un lasciapassare.
"Resta il fatto che qualcuno passa informazioni a Rosiel" intervenne Noise. "Una spia. Insomma, qualcuno che fa parte della Rete."
L'ultima frase fu pronunciata all'unisono dai due gemelli. Loro non avevano bisogno di alcuna droga per unire le menti.
A differenza di Kato.
In un vicolo umido, il ragazzo era percorso da spasmi intervallati da sprazzi di quiete che contribuivano ad aumentare dolore.
Anche all'inizio era stato doloroso. Persino per lui, abituato a ingerire ogni genere di sostanza stupefacente, la Rete superava le massime capacità di sopportazione. L'azione e il pensiero venivano inghiottite da una cacofonia di voci sconosciute, tutte prive di logica, che non tacevano mai. Al contrario, aumentavano di ora in ora.
Kato poteva solo aggrapparsi all'illusione del silenzio o, al massimo, sperare che una delle voci fosse più forte delle altre. Sarebbe servita come punto di riferimento.
Si portò le mani sopra le orecchie. Gli dolevano fino a sanguinare. Le unghie graffiavano la pelle emaciata e malaticcia degli zigomi. Aveva perso il controllo di se stesso. Era troppo debole per resistere, per lottare contro chi a tradimento si intrufolava nella sua mente; lo faceva con prepotenza, superando le barriere fisiche, e lo tormentava fino alla totale obbedienza. Ogni tentativo di resistenza fu vano.
Kato si svegliava nel proprio letto con indosso i vestiti di due giorni prima, senza sapere come o quando ci fosse arrivato. Era a bere in un bar clandestino... poi il buio. Sotto le unghie restavano tracce di sangue rappreso, che Dio solo sapeva di chi fosse. Allora fissava il soffitto sporco abbandonandosi all'alveare di sinapsi e pensieri perché in fondo era il gesto più semplice. Si lasciava trasportare dalla corrente.
Kato fu scosso da uno spasimo, uno violento. Vomitò acido a causa dello stomaco vuoto - la Rete e il cibo non andavano d'accordo- e si scorticò le nocche contro la parete ruvida per non cadere. Altrimenti non sarebbe più riuscito a rialzarsi. Nel vicolo - come ci era arrivato, poi- si muovevano ombre ingigantite dall'immaginazione. Gocce di acqua sporca esplodevano sull'asfalto e lo assordavano. A fatica mosse un altro passo, poi un altro ancora. Ormai strisciava nel sudiciume.
Puntò i piedi per avanzare di altri centimetri. I muscoli delle gambe gridarono, si rifiutarono di obbedire. Perché lottare? Bastava chiudere gli occhi e divenire un punto nell'Universo dei dati. La vita, dopotutto, non aveva alcuna importanza, perciò non capiva proprio perché una parte di lui continuasse ad avanzare.
"Combatti!"
Già, combattere. Se almeno una delle voci lo avesse incitato, ma erano tutte focalizzare su faccende amene. Altro che mente alveare!
La Rete distruggeva il cervello, potenziando le sue percezioni sino a sovraccaricarlo, così che nessuno sopravviveva più di poche settimane. Scomparivano i ricordi, diventavano difficili i movimenti, si chiudeva la gola e, infine, il cuore smetteva di battere.
Bruciava!
Gli bruciava la testa!
"Aiuto... " rantolò. Davanti a lui avanzava una figura nera.
 
La porta scorrevole della camera di Sara si spalancò. Qualcosa doveva aver mandato in tilt il sistema di sicurezza, la stessa causa che aveva azionato le sirene. Sara guardò prima il corridoio esterno poi Ril. La bambina tremava, paralizzata da un terrore imposto artificialmente.
"Ril" la chiamò stringendole le mani sudate "ora ce ne andiamo di qui".
La possibilità di uscire, la prima possibilità dopo anni, era troppo allettante da essere ignorata. Potevano scappare approfittando della confusione, scappare in un posto qualsiasi, lontano da lì.
"Facciamo un gioco, Ril. Ci sono degli uomini cattivi che ci vogliono catturare, ma noi non dobbiamo farci prendere."
"Sembra divertente... signorina Sara!"
Ril aveva smesso di tremare e ascoltava Sara con gli occhioni spalancati e colmi di interesse.
 
Il mondo di Ril è piccolo. La sua stanza è bianca, anzi no... è color panna. È spoglia, ma a lei piace. Ci sono un letto per dormire e strani quadri alle pareti. I quadri si muovono. In fondo al letto giace un peluche nel cui pelo sintetico Ril ama affondare la faccia.
Ril non ricorda di essere nata. É sempre stata in quella stanzetta. Forse la sua memoria è difettosa come il suo cervello. Ril tenta di afferrare i concetti, ma più si sforza più questi scivolano via.
Dormire, mangiare, il suono prodotto dai piedi nudi sull'acciaio, la solitudine che le prende lo stomaco, queste cose Ril le capisce. Però, quando i dottori la tormentano con le loro domande, Ril non sa più come rispondere. Chiacchiera allegra, eppure quegli uomini non sono mai soddisfatti.
Sa anche che il più bel momento della giornata è la visita della signorina Jibril. La signorina Jibril ha lunghi capelli azzurrini ed è sempre molto gentile con lei. Non la tormenta con strani quesiti, anzi la ascolta pazientemente. È stata lei a regalarle il peluche. Altre volte porta una strana scatola piena di polveri dai colori vivaci e gliele mette sulle gote o sulle palpebre. Ril si diverte. Un'altra sé le sorride da dentro lo specchio e Ril si trova carina.
La bambina non sa di essere uno di quei cloni difettosi nati con un'intelligenza limitata a causa di un qualche errore umano. Non sa di essere destinata a una vita di servitù non appena qualcuno l'avrà acquistata. Non conosce altro orizzonte se non l'obbedienza - ultimamente la portano fuori e Ril è sempre completamente docile - così come la sua piccola mente non riesce a concepire un mondo più vasto del laboratorio.
Solo la signorina Jibril la tratta con dignità.
 
Ril sorrise. Era felice che la signorina Jibril fosse di nuovo con lei. Sara le sistemò il velo sopra la testa in modo che non le scivolasse sugli occhi, mentre già fuori dalla stava percorrevano a passo svelto i corridoi dell'edificio. Le sirene non suonavano più. Le due ragazze procedevano tenendo la testa bassa per non farsi notare, per quanto la chioma di Sara tendesse difficile il compito.
Numerosi cloni pattugliavano i corridoi con le loro pistole appese alla cintura e i loro sguardi vuoti. Sara si tolse le scarpe per non fare rumore e invitò Ril a imitarla. Sotto i piedi il pavimento era incredibilmente freddo.
"Ril, tu conosci questo piano. Dov’é l'ascensore?"
"In fondo al corridoio" rispose Ril. Non era eccessivamente distante, perciò con un po' di fortuna lo avrebbero raggiunto in breve tempo. Sarà affrettò il passo.
Nel frattempo in un'altra ala del palazzo un bambino si aggrappava alla veste della padrona di casa.
"Sevi! Canta per me!" supplicò, sull'orlo del pianto. Le mani paffute trattenevano un lembo del velo che ricopriva il viso della donna.
Il suo vero nome era Laila - pallida, timida Laila- ma per qualche strano motivo quel piccolo androide la chiamava Sevi. Gli scostò un ciuffo di capelli dalla fronte in un quieto gesto di tenerezza nei confronti della sua ultima creazione. L'aveva progettato con cura, trascorrendo ore nel programma di disegno virtuale del laboratorio, perché potesse sostituire il figlio che non aveva mai avuto. Chiamò “Sandalphon”  il software che conteneva tutte le informazioni riguardanti la personalità e iniziò addirittura a dormire stringendo al petto il dischetto che conteneva la copia originale dei dati. Nel suo progetto infuse la propria anima.
Se solo non ci fosse stato quell’incidente.
"Sevi!" protestò Metatron in maniera capricciosa. Laila si limitò a stringergli forte le mani. Quindi la bocca si contrasse in un tic nervoso, rapido. Di scatto si staccò dal bambino. No, non doveva affezionarsi a lui, non doveva stargli così vicino. Era pericoloso!
 
Dopo l'incontro con Voice, Setsuna si era ritirato in un luogo isolato per pensare.
Uriel gli aveva fornito preziose informazioni su Sara e sul destino dei loro corpi originari. Setsuna infilò le dita nei riccioli corvini per sfogare parte del proprio stress. Sapere dove si trovava Sara senza la possibilità di raggiungerla, almeno da solo, gli faceva formicolare fastidiosamente le membra. A ciò si aggiungeva il clima di sospetto che gli attacchi di Rosiel diffondevano come un potente virus. Setsuna si sentiva soffocare.
"Setsuna, Kira ti sta cercando" lo chiamò Cry affacciandosi nel vagone ferroviario dove Setsuna si era rifugiato per godere di un poco di solitudine.
"Ho parlato con i gemelli" la informò il ragazzo mentre le passava accanto. Notò che la giovane pareva più tesa del solito, rughe premature segnavano gli occhi dietro la maschera protettiva. Cry annuì distrattamente.
"Cry, stai bene?"
"Sì!"
"Sicura?"
"Sì. Ti ho detto di sì!"
Alzò la voce e, prima che Setsuna potesse replicare, corse via con la treccia argentea che ondeggiava ritmicamente sulla schiena come un serpente rabbioso.
Al ragazzo non rimase altro da fare se non trascinarsi nella metropolitana per cercare Kira.
"Eccoti"
Fu il diretto interessato a trovare lui. Parlava attraverso la maschera nera che portava abitualmente sopra naso e bocca quando usciva in superficie. Conosceva molto bene la zona, meglio degli Evils, che pure avevano accettato di ospitarli solo da pochi anni. La maschera cadde e Kira si chinò a raccoglierla. Il lungo cappotto di pelle si scostò mostrando la pelle pallida e, sull'addome, un segno imprevisto. Sanguigno, inconfondibile: il marchio dei cloni.
 
Nel Briah, nel White Palace, Sara fuggiva.
Accadde tutto in fretta: la discesa precipitosa in ascensore, la corsa frenetica nei corridoi miracolosamente deserti, l'uscita all'aria aperta. I calcoli si rivelano esatti: qualcosa aveva fatto impazzire i sistemi di controllo che ostacolavano la sua libertà. Finalmente poteva muoversi senza che quegli anelli addosso a lei cominciassero a vibrare. Non ne conosceva la spiegazione tecnica, ma ogni volta uno speciale ronzio aumentava sino a farla contorcere di dolore.
Era libera.
Ril l'aveva guidata attraverso una serie di passaggi sotterranei che univano le due ale principali della costruzione. Infine erano uscite nel cortile per mezzo di una botola. A Sara parve che il giovane clone avesse già usato quell'espediente.
L'aria, sebbene meno inquinata delle zone centrali, era densa, fumosa e difficile da respirare. Feriva le narici. Soprattutto Ril si aggrappava al suo braccio e ansimava, con il viso cereo.
"Ril, stai bene?" chiese, preoccupata. Un attimo dopo la bambina fu scossa da un paio di violente convulsioni e si accasciò. Strisce di schiuma segnavano il mento.

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Capitolo 5
*** Il confine più labile ***


4
Setsuna indietreggiò sorpreso e inorridito, inciampando nei suoi stessi piedi per l'improvvisa rivelazione. Un clone! La persona davanti a lui era un essere artificiale, un guscio vuoto creato a scopo medico in cui spesso veniva impiantata una personalità creata ad arte per testare fin dove ci si poteva spingere senza oltrepassare il confine tra ciò che era lecito e ciò che invece non lo era.
Tre barre nere lievemente inclinate. Il marchio era inconfondibile. Sakuya Kira - nome in codice Lucifer - era un clone.
Setsuna strinse i pugni pervaso dalla rabbia che sempre si accendeva in lui quando si convinceva di essere stato tradito. Non importava la verità, per infiammarlo era sufficiente il pensiero. Aveva almeno sperato che, pur nella ambigua situazione in cui entrambi si trovavano, sei anni di convivenza forzata fossero sufficienti a costruire un minimo rapporto di fiducia. Ricordava i momenti in cui Kira era stato quasi gentile. Gli aveva persino regalato dei libriccini, sicuramente di dubbia moralità, ma utili per un bambino di undici anni a comprendere il corpo femminile in cui era imprigionato.
"Un clone!"
La voce uscì strozzata. Kira continuava a essere impassibile. In silenzio attendeva che il più giovane ritrovasse la calma necessaria per ascoltare. Con le braccia mollemente incrociate sul petto, attendeva. Il ragazzo non ricordava un'unica volta in cui avesse dato in escandescenze.
"Di' qualcosa!" lo incalzò "Chi sei? Che fine ha fatto il Sakuya Kira originale?”
"È tecnicamente morto."

Non sa più quale sia stata la sua precedente identità. Non sa chi era prima che il tribunale lo condannasse a una condanna tanto sperimentale quanto grottesca. La sua coscienza è stata forzatamente trapiantata in un computer dello Stato, uno dei tanti collegati al God Computer, all'epoca ancora a livello di prototipo.
Ogni cosa è nulla e solitudine e sete atavica di vendetta.
Sempre che il passato sia reale e non una fantasia impiantata ad arte nel suo codice.
Allora vaga nel limbo della Rete, prigioniero di una macchina perché, come si sono premuniti di specificare prima di procedere con la sentenza, un eventuale blackout causerebbe il decesso definitivo. In fondo si tratta solo di una condanna a morte posticipata.
A volte deve lavorare come PNG in un videogioco simil-fantasy. Funge da accompagnatore al giocatore di turno. Pochi si presentano.
Solo una bambina si collega sempre alla stessa ora. Predilige un avatar dai capelli scuri e, sebbene lui non possa saperlo con certezza, ipotizza sia molto più giovane. Giorno dopo giorno si immagina il suo aspetto. Si convince che sia uguale all'avatar. Alexiel -che sia questo il suo vero nome?- è un’ottima giocatrice. Ha scelto l'arma più complicata da maneggiare ed è riuscita subito a padroneggiarla. Possiede un modo quasi etereo di combattere. La immagina seduta sul pavimento con il controller in mano, gli occhiali per la realtà virtuale indosso e le agili dita che premono sui pulsanti. Deve avere dita forti. In certi momenti di solitudine, una strana malinconia lo assale. Sono mesi che Alexiel è assente.
Ora che si trova di nuovo perso, si domanda quale destino sia toccato a quella bambina.
Ha promesso a se stesso di ritrovarla. Né può fare molto nella sua prigione. Non ha occhi né mani né gambe, non ha alcun contatto col mondo esterno. Sempre che esista ancora un mondo esterno.
Brama di avere un corpo.
E un corpo gli viene offerto. Che sia inganno o slancio di generosità gli offrono un corpo. Quasi senza preavviso la sua coscienza viene trapiantata, trascinata violentemente in un ulteriore involucro di carne. Che sia quella l'immortalità a lungo bramata dagli uomini? Allo specchio si riflette un ragazzino di sette anni. Anzi il suo clone.
I medici dicono che i tentativi di trapiantare la coscienza del bambino dal corpo originale a quello clonato non hanno avuto l'esito sperato. L'encefalo del piccolo era già avviato alla morte, però il padre, unico sopravvissuto all'incidente stradale, è parso troppo disperato per accettare il decesso del figlio dopo quello della moglie.
Lo inganneranno. Vogliono che inganni quello sconosciuto. È il prezzo da scontare.
Kira nel profondo della sua nuova memoria ascolta una voce, illusoria o meno non ha importanza. Forse è quanto resta di Sakuya, forse è solo la sua immaginazione. Gli fa una richiesta precisa.

"Successe qualche anno prima del disastro. A tredici anni scappai di casa. Ritrovai Alexiel. La riconobbi subito, in fondo era identica al suo avatar" continuò Kira.
Setsuna ascoltava. Bloccato sul posto da una forza sconosciuta, si dibatteva tra il dubbio e la umana necessità di credere. Poteva immaginare come sarebbe finita la storia... aveva visto lui stesso il corpo privo di conoscenza della ragazza.
Come pochi anni prima era venuto a conoscenza di Rosiel, il fratello mentalmente instabile della giovane.
"Quale richiesta ti fece quel bambino?" domandò. Kira non rispose. In silenzio si dileguò nell'oscurità.

"Ril! Ril! Svegliati!"
Sara si precipitò vicino al corpo svenuto di Ril, abbandonata in una posa contorta sull'asfalto bruciato dal sole. Sulla pelle del viso, delle mani e delle gambe comparivano aloni quasi violacei. "Ril!" chiamò di nuovo. Si trovava sull'orlo di una crisi di panico. Pochi secondi prima Ril appariva se non in perfetta salute -nessuno lo era- almeno in condizione normale. Ora un debolissimo filo d'aria saliva dalle labbra coperte di una schiuma biancastra. Sara le asciugò premurosamente con un lembo del proprio vestito. Poi premette due dita sulla giugulare della bambina e ne saggiò il fievole battito. Sempre più flebile. Sapeva che Ril sarebbe morta senza cure immediate, ma se fosse più saggio portarla a braccia o lasciarla sull'asfalto e chiamare aiuto, questo non riusciva a deciderlo.
"Ril, mi dispiace." mormorò, scostando i capelli rosei dalla fronte madida. Di nuovo sondò l'area circostante. Presto qualche guardia sarebbe apparsa per il suo solito giro di ronda e avrebbe posto fine alla loro breve fuga. Se solo Ril si fosse ripresa! Avrebbe potuto abbandonarla. Il pensiero s’insinuò nella sua mente. Qualcuno l'avrebbe trovata e curata. Le avrebbe permesso di guadagnare tempo. Presto le avrebbero catturate... forse separandosi le loro probabilità di salvezza aumentavano. Per Sara non si sarebbe ripresentata un'altra occasione. Se non scappava ora, non avrebbe più rivisto Setsuna. Eppure il proprio corpo ancora esitava, trattenuto dalla coscienza e dal fantasma di Ril che, muto, già l'accusava. Non poteva abbandonare quella piccola serva. Non dopo averla coinvolta nei propri piani. Aveva appena raggiunto il cancello d'uscita. Oltre le pesanti sbarre si profilava parte di Tokyo, si alzavano frammenti di edifici per Sara dolorosamente familiari. Infilò le mani fra le sbarre, afferrò l'aria, sospirò. Jibril non si sarebbe comportata così. Lei non era Jibril, ma ciò non poteva essere una scusa plausibile.
"Perdonami, Setsuna."
Girò su se stessa, abbandonò la presa sul cancello, si diresse verso la sua prigione. Nello stomaco avvertiva una sensazione di deja-vu, quasi avessero inserito un episodio simile nella sua memoria. O era successo in un'altra vita.
Oh, ora ricordava. Si morse le labbra inginocchiandosi vicino a Ril. Le tastò il polso e lacrime silenziose scesero a bagnare i capelli finiti sul viso quando sentì solo il silenzio.
Prese in braccio il corpo senza vita. Era successo di nuovo.

È solo un gioco. Non dovrebbe preoccuparsi di nulla. Dopotutto è sufficiente premere il tasto reset per ricominciare da capo il livello. Ruri potrà rivivere.
Questa volta la chiesa non esploderà.
Eppure non riesce a controllare il tremito delle proprie mani.

"Jibril?"
Sara sobbalzò. Dunque era già arrivato il momento. Strinse i pugni, pronta a combattere. Cosa che fece, per quanto glielo permettesse il peso morto di Ril che ancora reggeva, colpendo lo sconosciuto che si era avvicinato. Iniziò a strillare non appena le sfiorò il braccio.
"Aiuto! Lasciami!"
"Jibril? Sei Jibril? Non ti ricordi di me? Sono Raphael. Andavamo all'università insieme. Ti sei fatta ancora più carina."
Dubbiosa, Sara sbirciò da sotto in su, oltre la frangetta. Si affrettò a spiegare l'equivoco. Per sicurezza scivolò a qualche metro di distanza.
"Aiutami, per favore!"
Raphael fece una smorfia, le dita macchiate di nicotina strette attorno a una sigaretta. "In cambio?" "Come puoi chiedere qualcosa in cambio? Sei un egoista!"
Sara conosceva quell'uomo da pochi secondi e già credeva di detestarlo nel profondo. Attraverso una superficie increspata dall'acqua le scorrevano nella memoria flash improvvisi. Quattro ragazzi seduti a bere un caffè, quattro giovani in camice attorno a una vasca di coltura, le volte in cui Raphael si portava appresso una delle sue amichette.
"Non più egoista di te che hai portato fuori questa creatura senza pensare alle conseguenze. Gli esseri creati artificialmente come lei, destinati a servire, sono stati progettati per non poter sopravvivere a contatto con la pesante aria del mondo esterno." Con gesti esperti Raphael arrotolò la manica dell'uniforme di Ril oltre il gomito e nell'incavo del braccio, dove si intrecciavano le vane, inserì un ago. "Per fortuna avevo la medicina con me. Sei in debito, Jibril."
Ignara del motivo di quel gesto, di nuovo Sara lo corresse, prima di ringraziarlo e controllare il battito cardiaco di Ril, constatando con sollievo che si era stabilizzato. La bambina, tuttavia, non accennava a svegliarsi.
"Noi dobbiamo andarcene!"
Raphael soffiò fuori una nuvola di fumo, in un gesto di profonda noncuranza per la propria salute. Laureato in medicina né le fotografie di polmoni distrutti né gli attacchi di tosse cui era soggetto gli avevano fatto perdere la passione per il tabacco. Tra sé e sé pregustava l'appuntamento con una clone carina ma stupida progettata apposta per servire un uomo.
"Ti porterò fino alle Mura. Di più non posso fare. Lavoro per Laila e non voglio perdere il posto. A proposito se incontriamo Michael lungo la strada, nasconditi!"

Sono passati tanti anni.
Giocano insieme nel cortile centrale su cui si affacciano i loro rispettivi palazzi. Michael non vuole avere tra i piedi una femmina, al contrario di Raphy che è sempre ben felice di poter corteggiare una bella fanciulla. Sono sempre loro quattro. Già, Uriel rimane in disparte, in silenzio, circondato dai suoi adorati animali.
Insieme frequentano la scuola, insieme si laureano, insieme vengono assunti in uno dei laboratori legati al GC.
Uriel è il primo ad andarsene, ancor prima del disastro, dopo aver distrutto mesi di lavoro in un unico e violento attacco d'ira.
Brucia di rabbia per il rifiuto di una ragazza.
E se loro tre si illudono di poter ancora rimanere legati sono sufficienti le decisioni del GC, di una macchina ormai divenuta pensante e autosufficiente a rivelare loro quanto i piani umani siano futili.

Le grida non cessavano. Quei vagoni della metropolitana che potevano ancora essere utilizzati erano trasformati in centri medici di fortuna, sebbene la morte fosse sempre l'unica soluzione possibile.
Il virus - misterioso e letale- si era diffuso pochi giorni prima, a una velocità inquietante, e manifestava i medesimi sintomi della Rete. Tutti conoscevano la droga distribuita da Rosiel, la sua capacità di ampliare le percezioni sensoriali fino alla telepatia e, soprattutto, quanto fosse letale. Inevitabilmente l'organismo la rigettava nel giro di qualche settimana. Spesso la malattia covava sotto la pelle nella sua forma più blanda per esplodere quando ormai lo stadio terminale era stato raggiunto. Un’implosione cerebrale uccideva sul colpo i più fortunati. Alla velocità con cui il virus si diffondeva, con una metodologia di contagi per nulla chiara, gli Evils sarebbero stati presto annientati.
Quando Setsuna, a qualche giorno dal suo ultimo colloquio con Kira, fu scosso da un dolore tanto forte da accecarlo, pensò di essere stato contagiato a sua volta. Infilò le dita fra i ricci delle tempie. Erano unti. Non li lavava da giorni.
La vista gli si offuscò. Un'improvvisa sonnolenza lo colse, mentre il mal di testa mutava d'aspetto, una sensazione di pesantezza che gli impediva di tenere le palpebre sollevate.
Oh, dunque era quella la morte? Quel piacevole scivolare nel sonno?
Non era troppo male, dopotutto.
Prima di scivolare nell'oblio ripensò all'incontro con Uriel, al suo racconto circa gli esperimenti che venivano condotti dallo Stato sotto l'egida del GC. Zafkiel, un capitano di polizia conosciuto in gioventù, trasmetteva informazioni importantissime per ogni movimento di resistenza che si muoveva nei vicoli. Per Setsuna ciò significava solo che il suo corpo giaceva da qualche parte e che presto sarebbe stato oggetto di crudeli esperimenti. Il tempo correva.

Alexiel non era morta. La sua coscienza era viva, lo era sempre stata. In silenzio si ritirò osservando il mondo attraverso gli occhi di Setsuna, felice di avere trovato un ragazzo che davvero aveva le potenzialità per sconfiggere il GC.
Pazientemente, attese che il giovane fosse sufficientemente maturo. La scomparsa di Sara, il trapianto di coscienze, l'alleanza con gli Evils e lo stretto controllo di Kira, tutto faceva parte di un piano ottimamente congegnato. Gli scritti di suo padre si erano rivelati una risorsa preziosa. Occorreva trovare qualcuno dal talento acerbo qual era Setsuna, fare in modo che Alexiel potesse studiarla e metterlo sotto l'ala protettrice di una persona fidata. La donna credette a un ragazzo la cui esistenza era affidata al caso, quando ingerì le pillole per indurre il coma.
Alexiel parlava nella sua testa. Inviava flash e ricordi frammentati, suoni e sentimenti che non bisognava comprendere, solo accettare. Le visite al fratello in ospedale, il suo primo bacio, la stretta amicizia con Cry, a poco a poco trasmetteva tutte le informazioni, riprendeva possesso della propria mente, lo uccideva.
Alexiel aveva approfittato delle ore in cui era stata sveglia per correre da Kira, ridendo con discrezione del suo stupore. Le dita si intrecciarono, le labbra si incontrarono, fecero l'amore in maniera violenta e affamata.
Setsuna batté i pugni contro la porta metallica del laboratorio di Uriel. Il ferro rimbombava.
"Uriel devi aiutarmi! Subito!" lo investì con la sua richiesta.
Dietro alla sagoma imponente di Uriel scorse il vestito di Doll. "Trapianta la mia coscienza in uno dei tuoi robot."
"Non è possibile. Non ho alcun contenitore pronto, ora."
Nessuno? La testa gli doleva per lo sforzo di mantenere intatto il proprio ego scontratosi con quello di Alexiel. Le unghie lasciavano mezzelune sanguinanti nella carne in un gesto inconsulto.
Non poteva morire, non prima di avere trovato e liberato Sara.
"Aiutami!"
Un sospiro, un cenno in direzione di Doll, il fruscio di una chiavetta USB che veniva estratta da una tasca.
"Ci sarebbe l'Hades. Ho il controllo di uno dei terminali che permettono di accedervi, ma è un rischio. Non avrai più nulla che possa contenere la tua coscienza. Non sarà come entrare in una realtà virtuale. Tutta la tua mente, i tuoi ricordi, le tue emozioni saranno scaricate in uno dei tanti luoghi oscuri della Rete. I tuoi dati potrebbero mescolarsi ad altri e perdersi. Dipende solo da te e dalla tua forza mantenere il tuo Io separato dagli altri. Sei disposta a farlo, Alex?"
Setsuna annuì. "Mi chiamo Setsuna, Uriel. Non dimenticarlo. Lo farò. Diventerò parte dell'Hades!"

Le mura si stagliavano minacciose e imponenti ormai dietro le sue spalle. Sara si voltò, un poco curva per lo sforzo di dovere sostenere il peso di Ril. In alto rombava l'elicottero privato di Raphael.
"Grazie!" urlò forte. Il vento le scompigliava i fastidiosi capelli lunghi. In risposta fu investita da una nuova folata che la spinse in avanti.
"Andiamo Ril!"
La ragazzina rafforzò debolmente la presa sulla sua spalla, sbattendo stupita le palpebre. Entrambe le bocche rimanevano protette dalle maschere date loro da Raphael e il respiro appannava la plastica. "Sono stata brava, vero, signorina Sara?" si assicurò con un timido sorriso speranzoso, appena accennato, lo stesso che si trasformò in una smorfia interrogativa davanti alle lacrime di sollievo Sara.



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Capitolo 6
*** La dimensione dell'umano ***


5
Le apparecchiature necessarie al processo erano complicate al punto che Setsuna poteva solo affidarsi alle conoscenze di Uriel. Si fidava ciecamente perché, in fondo, se anche gli avessero spiegato il loro funzionamento, non avrebbe compreso. In fondo, il suo animo semplice faticava a concepire un'esistenza di diffidenza continua, in un'ingenuità che sfiorava la stupidità. Una stupidità pericolosa.
"Se sei fortunato potresti trovare una guida ad attenderti" lo avvisò l'uomo, mentre sistemava gli ultimi fili e aghi e Dio solo sapeva cos'altro. Setsuna annuì. Era pervaso da un'ansia quasi fisica che gli faceva formicolare le braccia e sudare i palmi delle mani. Ricordava la smania che da bambino gli provocavano la vista e l'odore del sangue.
"Pronto?"
"Sì" confermò. Chiuse gli occhi e prima che uno strappo violento per quanto virtuale risucchiasse la sua coscienza, mentre la sua identità veniva affidata al caso, dietro le palpebre scorse il volto sorridente di Alexiel. Le labbra di lei mormorarono una parola muta.
Quando Uriel spense i macchinari che tacquero con un debole cigolio, una nuova anima lo guardava da dentro il corpo che aveva davanti. Alexiel.
La donna fletté le dita, poi alzò le braccia a togliersi il casco e gli elettrodi ancora attaccati a ogni suo centimetro di pelle. Era bella. Bella, forte e per nulla stupita.
"Chi sei? Mi ricordo di te?" domandò, posando su di lui i grandi occhi scuri. Il suo interrogativo era quasi un'affermazione. Uriel fece un paio di passi indietro. L'odore umano, prepotente che emanava dalla nuca della ragazza, sotto i ricci spessi, aveva una violenza che riportava alla mente ricordi dolorosi.
Lei non lo avrebbe mai accettato. Non era abbastanza forte o bello. Né aiutava il divario d'età.
Quando lei, adolescente, con fredda altezzosità lo rifiutò, per la rabbia di essere stato ridicolizzato a tale modo distrusse parte del laboratorio in cui lavorava. Con furia spazzò via il frutto di mesi e anni di lavoro.
"Lavoravi con mio padre. Ora ricordo. Uriel, giusto? Ti ringrazio per avere aiutato Setsuna."
Alexiel si alzò con un'elegante e fluido movimento, dirigendosi a passi sicuri attraverso la stanza verso l'uscita.
"Mio padre aveva intuito che il GC avrebbe sviluppato un'intelligenza umana fino a ottenere una coscienza. Sapeva che controllare elettronicamente le operazioni militari era un rischio folle. Allora non solo ha inserito i codici per violare il sistema di sicurezza nei ricordi miei e di Rosiel. No, girando di nascosto per gli ospedali ha impiantato un microchip in numerosi neonati. Tanti anni fa. Setsuna era uno di quei bambini. Ha preparato la strada per la rivolta."
Uriel si sfregò la gola distrutta dall'acido. Aveva usato l'immagine di Sara per creare Doll su richiesta di Zafkiel e sempre per l'amico si era incaricato di vegliare sul ragazzo. Tuttavia neppure lui immaginava quanto il disegno generale potesse essere complesso. Alexiel se ne era andata di nuovo.
"Signor Uriel!"
Si voltò, sorpreso. Di fianco a lui Doll attendeva con pazienza. Un robot. Un robot creato ad arte e molto simile a un essere umano, ma pur sempre una creatura artificiale. Non era vivo. Era inferiore persino a un clone.
"Signore?"
Eppure era un robot tanto gentile e dolce.
"Vieni, Doll. Ho ancora una confezione di tè da preparare."
Doll sorrise con calore.
 
Alexiel da bambina non possedeva un luogo chiamato casa. Casa sua era forse solo il laboratorio di suo padre.
 
Suo padre è molto gentile e affettuoso ma lavora sempre. Profonde occhiaie gli segnano gli occhi quando la sera le accarezza la testa fino a farla addormentare.
Ogni sabato si recano in ospedale a trovare Rosiel che da anni dorme in una vasca di coltura in attesa che di essere pronto al trapianto. Perché Rosiel è nato morto.
Più passa il tempo più suo padre appare preoccupato. Si mormora di quanto gli studi sul GC siano sfuggiti al controllo umano. Perciò un giorno, prima che lei accetti di vivere rinchiusa, Adam la prende da parte e le sussurra una parola molto importante. Alexiel all'epoca ha solo sei anni, ma promette che non la dimenticherà.
 
Una stampa virtuale le era rimasta impressa sebbene dalla memoria si fossero cancellati il tempo e il luogo nei quali ciò successe. Una donna nuda si appoggiava al vetro scuro di una finestra sul nulla. Sull'addome misteriose scritte assumevano un valore sacrale. Da bambina le sostituì con la parola affidatale. Ora Setsuna a sua volta avrebbe dovuto conservarla.
Lei era quella donna, prigioniera in eterno di un castello di vetro e aria. Prigioniera della propria bellezza e della propria forza.
Nei vicoli soffocanti di fumo di quelle aree soprannominate non a caso Gehenna, si mormorava dell'arrivo di un uomo in grado di sconfiggere la macchina. Da un decennio il GC teneva in scacco il Giappone, controllando tutto, dai PC militari al timer del tostapane.
Sarebbe giunto un Salvatore.
Attorno a lei si estendevano solo macerie corrose dagli acidi, frammenti di case crollate e mai ricostruite perché in poche settimane - il tempo che le mutazioni cominciassero a diffondersi - la popolazione rimasta bloccata nella zona aveva disperatamente cercato rifugio sotto terra. Un gruppo di uomini, hacker di strada, ma anche scienziati affermati, costituirono un gruppo di Resistenza le cui cellule dapprima sbandate finirono col gravitare attorno a una ragazza dai misteriosi orecchini. Alexiel, ancora adolescente, l'aveva accolta sotto la sua ala protettrice. Cry sarebbe stata felice di rivederla.
L'ipotesi non si rivelò errata. Cry la riconobbe subito, quando Alexiel percorse gli scalini scivolosi che conducevano al primo livello della metropolitana, guidata da quella memoria che Setsuna le aveva trasmesso attraverso i sensi. Alexiel era tornata. La principessa corse a cingerle i fianchi in una stretta di affetto sincero. I vestiti dell'amica puzzavano di fumo, ma non importava. Alexiel era ormai sulla ventina, la stessa età che avrebbe avuto anche Cry se l'esplosione non avesse bloccato la sua crescita ad un'eterna infanzia.
Eppure non riusciva ad abbandonarsi completamente al sollievo. Alzò gli occhi.
"E Setsuna? È... "
"È vivo. È forte."
Alexiel posò le mani -mani ruvide- sulle spalle ossute dell'amica. "Cry, tu devi aiutare Setsuna. Io ho un compito da portare a termine, lo capisci? Presto dovrò partire" spiegò. Cry sorrise, sebbene le guance olivastre fossero segnate di lacrime.
"Tornerai. Tornerà Setsuna. E saremo felici. Me lo ha detto Setsuna. Ho cominciato a crederci anche io."
 
Lontano, oltre Gehenna, oltre le mura, al confine con la cintura del Briah, in due edifici il rumore delle dita che battevano sulle tastiere o sugli schermi olografici era assordante. Se gli uomini di Zafkiel tentavano disperatamente di proteggere i propri dati, frutto di innumerevoli sacrifici, dagli spider del GC, quelli di Laila cercavano qualsiasi indizio che potesse condurli a Jibril. I quattro grandi arcangeli non dovevano riunirsi. Con il viso celato dal velo, Laila si mordeva le labbra tanto da farle sanguinare.
Il GC le aveva offerto una nuova vita, aveva reso tutti uguali sotto un unico e imparziale dominio, aveva spazzato via il marciume. Se solo... se solo...
"Zafkiel. Tu morirai." sibilò fra i denti. La voce era roca.
Gli eletti si sarebbero salvati e insieme avrebbero creato un mondo unito da una sola Rete, controllato da un'unica mente. Pulito, perfetto e sicuro.
"Continuate!" ordinò prima di ritirarsi nelle proprie stanze. Trovò la porta aperta, sebbene avesse esplicitamente chiarito quanto una simile negligenza non potesse venire accettata. Avrebbe eliminato il clone responsabile.
"Sevi! Sevi!"
Il giovane Metatron, l'unico replicante per il quale avesse mai provato affetto, le cingeva le gambe, fermamente intenzionato a non lasciarla fuggire. Il visetto si contrasse in una smorfia di rimprovero.
"Dove sei stata? Sevi!"
Laila si liberò delicatamente dalla stretta, mentre un brivido le scuoteva le membra. Il contatto fisico le faceva orrore, eppure prese in braccio il bambino così da avere il suo viso all'altezza del proprio. Sfiorò quelle guance pallide e lisce, così diverse dalle proprie, deturpate dalle ustioni.
"Ho dovuto lavorare. Ti hanno dato la medicina?"
"Non la voglio prendere!" protestò Metatron. "Mai!" aggiunse.
Laila lo guardò, improvvisamente spaventata. Quando, però, cercò di rimetterlo a terra, egli aveva già serrato la presa sugli avambracci. Le piccole unghie si conficcavano nella carne.
"Credevi di esserti liberata di me, vero... Laila?" sussurrò Metatron, piegando le labbra in un ghigno grottesco. La vivace scintilla infantile era scomparsa dai suoi occhi. Era stato sufficiente che la luce mutasse lievemente inclinazione perché i lineamenti venissero stravolti fino a quel punto.
"Sandalphon!"
"Credevi che le tue medicine avrebbero soffocato la seconda personalità di Metatron. Ma ai bambini non piace prendere le medicine."
Layla urlò. Urlò più forte del crepitio delle fiamme, più forte delle risa degli uomini che l'avevano violentata.
Urlò quando le mani di Sandalphon si serrarono attorno alla sua gola.
 
A chilometri di distanza, nel palazzo cadente dove Zafkiel aveva stabilito il proprio quartiere generale, l'energia statica faceva crepitare i capelli. Nella stanza accanto, i suoi uomini più fedeli lottavano una battaglia informatica e impari contro il GC. C'erano sfortunati che crollavano sulla tastiera per eccesso di lavoro e disidratazione. Ad altri senza preavviso scoppiava il cervello. Eppure nessuno si ritraeva dal proprio compito.
"Sei pronto, Rasiel?"
"Sì!"
Sebbene fossero passati solo poche settimane da quando il ragazzo era stato salvato, Zafkiel aveva urgenza di scoprire quale forza si celasse in lui. L'empatia verso le macchine, dimostrata nella distruzione di tutte le apparecchiature ospedaliere in un impeto di rabbia e paura, rendeva Rasiel estremamente utile.
Gli strinse le mani, già rovinate a quella giovane età, e gli ripeté che il suo potere era un dono. Ora bisognava testarlo.
Rasiel si sedette di fronte all'unico PC nella camera. Il mento riluceva di riflessi azzurrognoli. Allungò una mano quasi a sfiorare lo schermo. Poteva sentire il flusso dei dati, cogliere le sfumature, scoprire i suoi segreti. Per lui il computer reagiva come un essere vivente, parlava e ascoltava. I circuiti reagivano alla sua ansia, crepitando.
Il fischio della risonanza, dapprima debole, salì fino a un'intensità dolorosa nel momento in cui Rasiel sfiorò l'hardware. Allora il flusso delle informazioni lo investì e gli occhi, spalancati, divennero ciechi. I dati scorrevano in lui a una velocità incontrollabile. La realtà si scomponeva in byte.
"Basta così!" intervenne Zafkiel, allontanandolo a forza dal computer. "Sei stato bravo" si complimentò in seguito. Gli avrebbe domandato più tardi quanto avesse imparato da tale esperienza, consapevole che per il momento il ragazzo necessitava solo di tranquillità e riposo. Quando chiamò qualcuno perché lo portasse a letto, Rasiel si era già addormentato.
“Sei stato coraggioso” si complimentò con il bambino immerso nel mondo dei sogni, uno dei pochi luoghi sicuri ancora esistenti. Per soddisfare un egoismo personale stava spingendo un ragazzino, convalescente da un’esperienza che avrebbe spezzato anche un adulto, a testare quegli stessi poteri per cui era stato rinchiuso. Rasiel, educato e coraggioso, non si era opposto, ma Zafkiel la notte lo udiva piangere.
S’illudeva che potesse sostituire il figlio perduto, giungeva addirittura a convincersi che fosse proprio lui e la crudele omonimia contribuiva solo ad accrescere il dolore.
Suo figlio era stato portato via e nessuno tornava mai indietro.
 
È felice quando posa le orecchie sul ventre gonfio di Anael e, sotto la pelle, il battito di un minuscolo cuore risponde alle sue attenzioni. Una vita sta crescendo, coccolata e protetta dalle brutture del mondo.
Gioisce se Anael intreccia le gambe con le sue sotto le coperte e gli alita sul collo. Il respiro caldo di lei gli fa il solletico prima di scivolare nel sonno.
In quei momenti non esistono né bombe né mutazioni. Solo loro due e il loro bambino. Il loro bambino inaspettato, insperato considerando che il livello di sterilità in entrambi i sessi cresceva vertiginosamente.
"Ti porterò via da qui. Troverò un modo per uscire dal Paese. Nostro figlio crescerà in un posto migliore" assicura alla giovane moglie, ogni mattina prima di recarsi al lavoro.
"La farò fuggire" ripete contando il denaro che nei mesi sta accumulando. Suo figlio nascerà lontano da lì.
"Andremo via insieme" promette a se stesso durante l'ultimo giorno di lavoro.
Durante i primi mesi teme un aborto spontaneo, ma verso gli ultimi ormai la sua speranza si è trasformata in certezza. Suo figlio nascerà.
 
Setsuna camminava insieme alla guida trovata nell'Hades. Anzi, era stato quello sconosciuto a trovare lui. Non che l'accoglienza fosse stata particolarmente calorosa, tra fredde frecciatine e un'indifferenza che era quasi preferibile al resto.
"Secchan! Stai scomparendo!" lo canzonava a intervalli regolari, indicando dove i dati personali cominciavano a fondersi con l'ambiente circostante. Almeno lo avvertiva.
"Perché con te non succede?"
"Io sono diverso!"
Troncava puntualmente il discorso con la medesima frase.
Né Setsuna possedeva concentrazione sufficiente a sostenere un interrogatorio mantenendo contemporaneamente la propria individualità.
L’unico metodo che aveva per conservare una forma definita, per continuare ad essere “Setsuna Mudo” era affidarsi alle proprie memorie. Per sei anni aveva lottato in un corpo estraneo, affrontando l’adolescenza e le sue complicazioni in un ambiente per nulla adeguato, ma in quel momento i giorni trascorsi con Kira, prima, e con gli Evils poi, in confronto, parevano estremamente felici.
Curioso come, per vivere, dovesse cercare un passato che a lungo aveva desiderato dimenticare.
 
Ha da poco compiuto un anno e la mamma, sempre nervosa, per una volta sorride. Presto arriverà un fratellino o una sorellina. Lo dice carezzandosi la pancia già tonda.
Ha tre anni e prende per mano Sara. Insieme imparano a camminare. A volte cadono, ma Setsuna è sempre pronto, pur con i suoi modi rudi di bambino, a consolare la sorella prima che scoppi in un pianto dirotto. Eppure, quando per la prima volta riescono ad attraversare da soli le lande del salotto, trova solo rimproveri ad attendere il suo sforzo.
Non si fidano di lui.
Ha quattro anni, sua madre urla, si sente il rumore delle stoviglie infrante e lui sotto le coperte si tappa le orecchie. Sara dorme già nel proprio lettino. Setsuna ha quattro anni quando suo padre li abbandona.
Ha cinque anni e la nausea gli impedisce di ragionare. Macchie di sangue sconosciuto gli sporcano il grembiulino. Non ricorda nulla, solo di aver litigato con un compagno, all’asilo. Nemmeno sa quale sia stato il motivo. Gli gira la testa. Ipotizza che la maestra stia telefonando a casa, spera di non aver causato nessun danno irreparabile, ma l'esplosione giunge a interrompere ogni azione.
L'esplosione spazza via i rimasugli della sua infanzia. Sgretola ogni edificio per chilometri attorno a sé, inquina l'aria e deforma i corpi. Nelle case impazziscono gli elettrodomestici, si spaccano i computer; le orecchie dei ragazzi si fondono con gli auricolari, i pace-maker cessano di battere, i respiratori si spengono.
S’interrompe la vita di un'intera città.

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Capitolo 7
*** Epilogo ***


Epilogo
 
Sara stringe la mano di Ril mentre avanza nella città fantasma. Qualcosa bruciante nel petto la chiama e la guida, indicandole la via da percorrere. Al suo fianco, Ril si guarda attorno, indecisa se essere curiosa o spaesata.
"E' uno strano gioco, ma mi piace."
Sara annuisce, però la pancia fa ancora male per il senso di colpa e gli occhi pizzicano di lacrime. Che esse siano di dolore o gratitudine, la ragazza le asciuga furtivamente col dorso della mano.
Di fronte a lei una porta semi-aperta, che di certo deve aver conosciuto momenti migliori, lascia intravedere un pavimento coperto di cavi elettrici e pezzi cibernetici di ricambio. L'aria densa di elettricità statica le fa drizzare i capelli quando muove i primi passi nella stanza. In un angolo lo schermo acceso di un vecchio computer diffonde la propria malata luce azzurrognola. Ril alla sua vista emette un gridolino eccitato.
Sara invece è rapita da quel chiarore digitale, che la chiama e la attira a sé. L'impianto sul suo collo freme dolorosamente, però lei non si ferma, avanza fino a spostare le mani sul monitor, quasi a volerlo usare come sostegno. Lo afferra prima di sbirciare al suo interno.
"Fratello" sussurra, premendo i polpastrelli sporchi contro lo schermo, sulla minuscola figura che vaga sullo sfondo.
"E' molto tempo che non ci vediamo Jibril. O forse dovrei dire Sara."
La ragazza non si volta per non perdere il contatto visivo con Setsuna, eppure la memoria di Jibril riconosce quella voce.
 
Rosiel è un bambino che non sarebbe dovuto nascere, è un adolescente che nasconde il proprio odio dietro a una maschera di perfezione, è un uomo ridotto a un rottame.
Si conficca le unghie violacee nelle tempie, tanto rabbiosamente da farle sanguinare. Sanguinerebbe se il suo corpo non fosse completamente artificiale, perfetto sostituto per quello che la Natura non ha voluto concedergli.
Perché Rosiel non ha mai dimenticato le lamentele apatiche delle infermiere quando lo accudivano, sebbene tutti credessero che anche la sua mente fosse morta. Non ha mai scordato i sospiri della sua gemella, sospiri di noia senza dubbio.
Non sa creare, Rosiel. Siccome la vita lo ha rifiutato, solo morte può uscire dalla sue mani. Perciò distribuisce pillole sperimentali affinché tutti lo ascoltino, tutti lo celebrino, tutti lo amino. Essere il punto focale della Rete lo appaga.
Eppure ormai non è più sufficiente, non gli basta che i suoi seguaci stiano spazzando via la feccia, senza nemmeno sapere il perché, né che scelgano la morte piuttosto che il tradimento.
Dopotutto sono solo degli automi e lui, lui che è solo sporcizia, in fondo si è stancato delle loro lodi senza anima.
Chino in un angolo, con la testa nascosta fra le braccia incrociate, brama un po’ di silenzio. Invece il rumore s'intensifica, il suono fastidioso di una vita artificiale, perché Rosiel è un bambino nato morto, è un adulto capriccioso che si muove sulla Terra come un virus.
Come un virus collega la propria coscienza al Net, decidendo che se non può creare, tutto distruggerà.
 
Sara non conosce quasi nulla della vita di Jibril, eppure Uriel le è subito familiare. Lo rivede chino su un manuale di geologia, i capelli lunghi che cadono oltre la spalla e un cagnolino accoccolato ai suoi piedi.
Sara non sa perché, ma comincia a ricordare. Sa che Raphael si è laureato in medicina e che Michael si è buttato sulla facoltà di chimica e sulle esplosioni che lo hanno distratto dal fascino della guerra.
"Perché Setsuna è lì dentro?"
Allunga di nuovo le mani verso lo schermo, le preme con violenza contro di esso, desidera romperlo, entrarci. Vuole recuperare quanto ha perduto.
Ascolta con un orecchio solo le spiegazioni del costruttore di bambole, concentrata solo su suo fratello che ora è così vicino, ed è suo, solo suo. E' suo da quando le ha comprato un anello da quattro soldi, che ora giace in fondo a un cassetto, insieme a un segreto inconfessabile e a un amore di bambina.
Setsuna è suo, si avvicina e la chiama. L'ha riconosciuta, nonostante tutto.
Vorrebbe rimanere a fissarlo per sempre, immobile di fronte a un vecchio PC, invece si volta versi Ril e si accorge di quanto la ragazza sia pallia. Sta male, è evidente
"Sara!"
"Mi dispiace, ma non posso restare. Non posso usare la vita altrui. Ci rivedremo, ne sono certa."
Sara non si volta, non si ferma, andrà da Raphael, lo ha già deciso. Tiene le mani premute sulla bocca per frenare i singhiozzi, costringendosi a muovere un piede dietro l'altro.
Le ultime parole che sente sono le più dolorose.
 
Sandalphon si è stancato presto di giocare con Layla, l'ha abbandonata e ora brama un nuovo trastullo.
Vaga per i corridoi del palazzo, felice per il corpo che Metatron gli sta concedendo, pur contro la sua volontà. Gioisce dell'aria sulla pelle e della propria forza pronta ad esplodere.
Corre Sandalphon, distruggendo ogni cosa al suo passaggio. Le sue dita stringono, strappano, torcono, i denti mordono e tirano.
Avidamente allunga le mani verso una pillola che brilla fra l'erba del giardino, con un guizzo la mette in bocca, la mastica con violenza.
E' dolce ed esplode sulla lingua prima che egli ne sia risucchiato.
 
Setsuna continua ad afferrare l'aria. Non riesce a pensare e in fondo non gli importa. Gli è indifferente che un vecchio, anni prima, lo abbia designato come il s Salvatore dell'umanità, all'interno di un piano opportunamente congeniato. Non vuole essere il Salvatore di nessuno.
Semplicemente desidera avere indietro l'unica persona che per lui sia mai stata davvero importante.
Non gli interessa il destino del mondo se in esso non sono contemplate le persone a lui care. Solo per loro ascolta il cricchettio di un registratore che si appella a lui come ultima speranza e solo per loro accetta l'ennesima condanna a morte.
Uriel ha trovato tra le sue cianfrusaglie un robot sperimentale in cui impiantare nuovamente la sua coscienza per permettergli di recuperare il suo vero corpo, ovunque esso sia, a patto che l'operazione venga portata a termine entro sette giorni.
Setsuna ha solo una settimana di tempo e nessun dubbio.
"Non sono così intelligente da arrendermi alla prima difficoltà. Dovessi cambiare cento corpi, mostrerò a questa macchina quanto possano essere pericolosi gli uomini."
 
Game over or continue?
 
 

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