Il nostro segreto - La vera storia di Durza e Arya

di _Lalli
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La cattura ***
Capitolo 2: *** Durza ***
Capitolo 3: *** Vediamo di essere saggi ***
Capitolo 4: *** Paura ***
Capitolo 5: *** Lord Barst ***
Capitolo 6: *** Mi stai corteggiando, Durza? ***
Capitolo 7: *** Carsaib ***
Capitolo 8: *** La Ragazza ***
Capitolo 9: *** Verità e Bugiardi ***
Capitolo 10: *** Gli Spettri non baciano! ***
Capitolo 11: *** Nella tana del lupo ***
Capitolo 12: *** Follie ***
Capitolo 13: *** Aria di partenza ***
Capitolo 14: *** Piani folli ed alleanze inaccettabili ***
Capitolo 15: *** Sotterfugi, insulti e orrende visioni ***
Capitolo 16: *** Giornate di pace e pomeriggi di sangue ***
Capitolo 17: *** Dras-Leona ***
Capitolo 18: *** Spie e spionaggio ***
Capitolo 19: *** Grazie per il tuo sacrificio ***
Capitolo 20: *** Scoperte e confessioni ***
Capitolo 21: *** Disgelo ***
Capitolo 22: *** Sono pazzi ***
Capitolo 23: *** Attenzioni indesiderate ***
Capitolo 24: *** Giù le maschere ***
Capitolo 25: *** Fughe ***
Capitolo 26: *** Una sventura tira l'altra ***
Capitolo 27: *** Fidati di me ***
Capitolo 28: *** Decisioni ***
Capitolo 29: *** Addio, mio signore ***
Capitolo 30: *** Climax ***
Capitolo 31: *** Tutto precipita ***
Capitolo 32: *** Morte delle Ombre ***
Capitolo 33: *** Morte e Vita ***
Capitolo 34: *** Fantasmi ***
Capitolo 35: *** Arya Ammazzaspettri ***
Capitolo 36: *** Ritorno alla Cattedrale ***
Capitolo 37: *** Figlia del mattino ***
Capitolo 38: *** Orfana di madre, madre di un'orfana ***
Capitolo 39: *** La Regina e l'Elfa Nera ***
Capitolo 40: *** Casa ***
Capitolo 41: *** Appendice 1: Studio dei nomi e fine del culto dell'Helgrind ***



Capitolo 1
*** La cattura ***


La narrazione è in mano ad Arya, che racconta in prima persona le sue vicende a partire dal rapimento da parte di Durza. Siamo già dopo la fine di Inheritance e tutta la storia è un gigantesco flashback.
Gli eventi dei quattro libri verranno manipolati fantasiosamente a favore della trama che ho immaginato, cercando tuttavia di non alterarli. Mi limiterò a costruire delle trame sotterrane e a riempire i "buchi" che Paolini ci ha lasciato alla fine di Inheritance.
Coppia: Crack Pairing. Durza x Arya.
Rating: Arancione.
ATTENZIONE! Ampio spoiler dei quattro libri!

Buona lettura! ^_^


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1. La cattura


Cara Nasuada,
Se tutto andrà bene come spero, quando leggerai questa mia lettera io sarò molto lontana.
Il mio popolo ti avrà già sicuramente informata delle mie malefatte e della mia fuga. Voglio che tu sappia che non sono pentita di nulla di ciò che ho fatto. Sono solo dispiaciuta di essere stata, indirettamente o meno, causa di così tante morti e sofferenze.
A questa mia lettera allego un flusso delle mie memorie degli ultimi mesi, tutto ciò che mi ha portato alle scelte che ho compiuto. Le confidenze che ho sempre rifiutato di farti.
Scriverti tutto questo potrebbe essere pericoloso, ma voglio che almeno tu sia cosciente delle ombre che questa terra ha nascosto a tutti, e quelle che probabilmente ancora cela. Tu sei regina in un tempo in cui tutto è in precario equilibrio, ancora più che durante il regno di Galbatorix. Ti prego sii prudente, amica mia.
Non rivelare a nessuno l’esistenza di queste parole e distruggile non appena puoi. Le informazioni che contengono trattano anche di persone che sono ancora in vita, alcune anche intorno a te. Se qualcuno venisse a sapere che sono in mano tua, potrebbe decidere di ucciderti.
Che le stelle ti proteggano,
Arya.


Mi strinsi forte alla coperta imbottita, avvicinandomi ancora un po’ al fuoco. Dannazione al freddo!
Lo odiavo da sempre, e non mi risparmiai di odiarlo neanche quella notte. L’inverno si stava avvicinando, e io dovevo arrivare alla mia città, Ellesméra, prima della caduta della prima neve, e portarvi al sicuro la bisaccia che avvinghiavo a me anche mentre dormivo. Ero la custode dell’ultimo e unico uovo di drago in possesso alla resistenza, l’uovo di zaffiro.
Da quindici anni ormai la mia vita era un continuo ritmo cadenzato. Ellesméra-Tronjheim. Tronjheim-Ellesméra. Restavo un anno in ciascuna delle due città, nella speranza che l’uovo si schiudesse per qualcuno, o umano o elfo che fosse. Ma ormai si stavano perdendo le speranze, il drago non dava il minimo cenno di collaborazione, e io continuavo ad attraversare Alagaësia a vuoto.
Non che mi dispiacesse, ovvio. Per avere quell’incarico avevo rinunciato a tutto e tutti. Persino a mia madre, colei che più di tutti si era accanita contro di me e la mia decisione, la donna che mi aveva dato la vita e che si era poi affrettata a ripudiarmi non appena avevo deluso le sue aspettative.
Scacciai in fretta quel pensiero velenoso, mi gelava le ossa, e non ne avevo certo bisogno in quel momento.
Mi accoccolai ancora più stretta al tesoro che giaceva tra le mie braccia, alla ricerca di una maniera decente per addormentarmi, invano. Ero troppo agitata quella notte e non seppi spiegarmi il perché.
Mi alzai a sedere di scatto, sospirando scocciata capendo che sarebbe stata una notte insonne. I miei occhi si andarono a scontrare contro una figura scura, accucciata di fronte a me.
«Scusami» sussurrò Fäolin, «ti ho svegliata».
Sorrisi appena. «Figurati».
Fäolin ed io eravamo amici fin da quando io ero bambina. Di trent’anni più vecchio di me, lui era stato l’unica luce della mia triste e desolata infanzia, stipata di impegni, lezioni, etichetta. L’unico, oltre alla mia nutrice, ad avere provato sincero affetto per me, mentre tutti i cortigiani non facevano altro che elargire consigli e sollecitazioni al solo scopo di prepararmi al mio futuro di regnante. L’unico ad avermi offerto un sorriso o una parola gentile, quando mia madre passava per i corridoi salutandomi appena, troppo impegnata a soffrire per la morte del mio valoroso padre Evandar. Padre che non avevo nemmeno mai conosciuto.
Quando avevo ottenuto l’incarico di ambasciatrice degli Elfi, lui mi aveva seguito nei miei viaggi, non prima di avermi confessato di amarmi profondamente.
Allora lo avevo ferito. Imbarazzata e completamente ignorante della situazione, avevo iniziato a trattarlo con più freddezza, allontanandolo da me. Con il passare degli anni e dei viaggi attraverso il paese, sempre insieme, il nostro legame era diventato più forte che mai, e io avevo capito la portata del profondo affetto che sentivo per lui. Tanto che quella notte potevo benissimo definirmi innamorata di lui.
E lui lo sapeva, glielo avevo confessato un mesetto prima, mentre aspettavamo novità sulla schiusa dell’uovo, che poi non era avvenuta. Non che da allora fosse cambiato molto tra di noi, eravamo sempre in missione, sempre all’erta, sempre con Glenwing a guardarci le spalle. E a toglierci ogni possibilità di restarcene un po’ per i fatti nostri per più di cinque minuti. Ma ogni tanto, come quella notte ad esempio, riuscivamo a ritagliarci un angolino di solitudine.
«Non dormi?» mi chiese, interrompendo il flusso dei miei pensieri.
«No» borbottai distratta, «è freddo».
Mi sorrise premuroso. «Vuoi che aumenti il fuoco, Arya?»
Scossi il capo. «Vado a fare una passeggiata».
Mi alzai in piedi di scatto, uscendo dal cerchio luminoso creato dalle fiamme.
«Aspetta». La sua mano si serrò sicura sul mio braccio. «Non possiamo abbandonare il nostro compare». Annuì in direzione di Glenwing, che russava rumorosamente.
Ecco perché non dormo. Mi ritrovai a pensare, piccata.
«Resta con lui» dissi tranquilla.
Scosse la testa. «Non puoi certo andare in giro da sola con il tesoro più prezioso che abbiamo attaccato al collo».
«Giusto» mi arresi, tornando a sedermi accanto alle fiamme.
Mi raggiunse silenziosamente, sedendosi accanto a me.
«Senti Arya» cominciò incerto, «stavo pensando.. una volta finita questa missione che ne sarà di noi?»
Quella era una domanda che mi ponevo anche io da tanto, tanto tempo, ma che confinavo rapidamente ai margini del mio cervello, per non poterla prendere in considerazione in alcun modo. Cosa avrei mai fatto dopo che la mia vocazione si fosse estinta? Forse per allora mia madre avrebbe perdonato le mie scelte, che riteneva tanto sbagliate? L’idea della schiusa dell’uovo e della sconfitta del re era troppo lontana perché io potessi prendere in considerazione il mio futuro.
«Non saprei» risposi vaga. «Troveremo qualcos’altro da fare.. potremmo continuare a combattere per l’esercito o..»
«Non intendevo quello» mi interruppe con dolcezza.
«Cosa allora?» Gli domandai, increspando la fronte.
«Intendo cosa accadrà tra noi due» specificò.
Sorrisi. «Hai qualche idea?» mi informai curiosa.
«Beh io vorrei chiederti ufficialmente come mia fidanzata» disse convinto, prendendomi una mano.
«E io credo che allora accetterò» lo rassicurai.
Sgranò gli occhi. «Davvero?»
Risi. «Sì!» Sembrava un bambino.
«Quando finisce tutto, allora sarai la mia fidanzata?»
«Quello dipende».
«Da cosa?»
«Da te».
Lo vidi farsi pensieroso. «Io chiederei la tua mano in questo stesso istante, Arya, sappilo, ma non so se tua madre sarebbe d’accordo».
«Io non ho mai avuto una madre» lo informai con amarezza.
«Non dire così».
«Sii realista» ribattei risoluta. «Meno mi vede, meglio sta. Ed è reciproco».
«Ma non è vero..»
«Basta!» lo zittii piuttosto freddamente.
Glenwing grugnì disturbato nel sonno.
«Scusami». Tornai a parlare in un bisbiglio, per non svegliarlo. «Ma devi capire che lei non ha alcuna influenza nella mia vita. Se devi chiedere qualcosa, chiedilo direttamente a me».
«Tu vorresti essere la mia fidanzata?»
Accennai un sorriso «Magari prova a domandarmelo quando saremo ad Ellesméra, potrei anche dirti di sì».
«Non sai quanto mi rendi felice» mormorò al mio orecchio.
Si ritrasse lentamente da me, sfiorando le mie labbra con le sue, a tradimento, per un brevissimo istante. Sobbalzai. Non mi aveva mai baciata, mai.
«Dovresti scioglierti un po’» mi informò ridacchiando.
«Che dici?»
«Sul serio Arya». Avvicinò di nuovo il viso al mio. «Non puoi essere nervosa come una ragazzetta al primo bacio». Mi strinse la nuca e premette ancora le sue labbra sulle mie.
Mi irrigidii ma poi finii per arrendermi alle sue labbra morbide. Socchiusi gli occhi, restituendo quel bacio leggero.
Fäolin si staccò da me e rise. «Arya la donna di ghiaccio, non mi sarei mai aspettato una simile reazione da una come».
«Fäolin!» esclamai ammonitrice.
«Come non detto» alzò le mani in segno di resa. «Arrivati ad Ellesméra annunceremo il nostro fidanzamento. Tua madre e gli altri membri del Consiglio lo accetteranno prima o poi. Del resto il tempo non sarà un problema per me, né per te». Mi sorrise. «Abbiamo un’eternità.»
«Sempre che non finiamo ammazzati prima» ironizzai macabramente.
«Sciocchezze..!» ribatté con sicurezza, scatenando un ennesimo grugnito del povero Glenwing.
Mi affrettai a sigillargli la bocca con una mano, bloccando il flusso delle sue parole e impedendogli di svegliare il nostro amico e segnalare la nostra posizione all’intero esercito imperiale.
«Controllati» sibilai.
Sorrise con aria innocente. «Perdonami, mia signora».
«Ci devo pensare» sbottai.
Sospirò. «Attendo con impazienza il giorno in cui uscirai dal tuo guscio, mia cara, perché quello sarà la volta buona che il cielo ci cadrà in testa».
«Buonanotte Fäolin» mi congedai.
Rise di nuovo «Buonanotte Arya Dröttningu».
Non potei trattenere un sorriso.
Non riuscii a dormire.
Nonostante quella chiacchierata che mi aveva scaldato la coscienza, nonostante la certezza che Fäolin era di guardia, nonostante la sicurezza datami dal cerchio magico che ci proteggeva, mi sentivo inquieta.
E quell’inquietudine mi tormentò, impedendomi di scivolare nell’incoscienza. Quando il mio uomo mi scosse, all’alba, non avevo chiuso occhio.
Riprendemmo il nostro viaggio a cavallo. Il mio battito cardiaco era accelerato, senza alcun motivo valido, e non riuscii in alcun modo a placarlo.

Il viaggio continuò con una tranquillità quasi inquietante, nonostante la mia irrazionale paura, che i miei compagni si divertivano a beffeggiare con affettuosa ironia.
Il paesaggio scorreva fluido sotto gli zoccoli dei nostri veloci cavalli elfici e io non potevo fare a meno di provare un certo sollievo ad ogni lega bruciata, ad ogni passo più vicino alla mia foresta.
Fäolin continuava a baciarmi, di nascosto, di sfuggita, la mattina quando mi alzavo, mentre accendevo il fuoco, non appena avevo finito di mangiare, prima che mi addormentassi.
E io sorridevo come un’ebete quando lo vedevo avvicinarsi con quello sguardo complice e adorante che tanto mi piaceva. La situazione mi imbarazzava un po’, specie se Glenwing era troppo vicino e c’era il rischio che ci vedesse. Ma ogni bacio valeva abbastanza da rischiare di farsi scoprire e stuzzicare da lui.
Quando ci avvicinammo a Daret decisi di viaggiare solo di notte, non era il caso che qualche popolano ci vedesse e riferisse al suo re, rivelandogli il nostro tracciato per trasportare l’uovo. I miei compagni protestarono sonoramente. Gli elfi amano la luce e loro erano fermamente convinti che non avremmo incontrato difficoltà di alcun tipo in quel viaggio, come sempre, ma io fui irremovibile.
Non era certamente la prima volta che passavo per quelle strade, ma il mio istinto mi diceva che c’era qualcosa che non andava.
Ci accampammo a mezza giornata dalla Du Weldenvarden, al sorgere del sole. L’ultimo giorno fuori casa. Sospirai sollevata, sedendomi pesantemente a terra.
«Sei nervosa come un gatto prima del temporale» mi informò una voce canzonatoria alle mie spalle.
L’alba nascente incorniciava la figura longilinea di Fäolin, esaltando il suo incarnato color del miele, illuminando i suoi lunghi capelli biondissimi della luce delle stelle e schiarendo il blu profondo dei suoi occhi.
Era bello, Fäolin. Probabilmente rappresentava l’uomo che ogni fanciulla elfica avrebbe mai voluto al suo fianco come compagno. Era di poco più alto di me, con un fisico esile e magro; la pelle era piuttosto chiara per la media elfica, aristocratica, così come i lineamenti, che comprendevano un naso dritto e regolare, le labbra morbide e piene, gli occhi grandi e a mandorla del blu scuro di un lago a mezzanotte. Aveva in sé le caratteristiche della perfezione elfica: era cortese, gentile e attento, amava perdersi a guardare le stelle, suonava il flauto benissimo, alle canzoni che intonava rispondevano i cinguettii degli uccelli, inoltre era un abilissimo mago delle piante. Sapevo di essere l’unica ad aver mai avuto l’onore di ricevere in dono un fiore creato da lui e la cosa mi faceva piacere più di quanto fosse lecito ammettere.
Ma non era solo il suo essere impeccabile che lo rendeva particolarmente piacevole. Rispetto agli altri elfi maschi che avevo conosciuto, Fäolin aveva un atteggiamento più rilassato, talvolta quasi giocoso.
Si legava i capelli sotto la nuca in tre-quattro sottili treccine, tenute ferme da perline di legno azzurre e aveva tre orecchini, due nel lobo destro e uno sulla punta di quello sinistro, da cui di solito pendevano piume o pietre colorate. E quelle sue piccole libertà lo scostavano un po’ dal suo essere terribilmente perfetto, dandogli un’aria quasi malandrina, caratteristica che in fondo ogni elfa sognava nel proprio uomo.
«Pronta a tornare a casa Arya Dröttningu?»
Le sue parole mi riportarono bruscamente alla realtà.
«Uhm» borbottai incerta.
Rise piano, cercando di non svegliare il nostro compare che, come al solito, ronfava della grossa. Ma che razza di Elfo era?
«Hai paura?» domandò serio, stringendomi il mento tra le dita.
Tentai un sorriso, ma ottenni solo una smorfia stirata malamente sulle labbra. «C’è qualcosa che non mi convince in questo viaggio».
«È per il fidanzamento vero? Hai cambiato idea?»
«No» risposi sicura.
Mi fissò dubbioso, come stesse riflettendo se potessi essere capace di mentirgli o meno.
«Io sono felice per noi». Lo fissai negli occhi, sfidandolo a contraddirmi.
Annuì. «Ti credo» mormorò.
«E se ci stessero seguendo?»
Mi scoccò uno sguardo obliquo. «Ci avrebbero già attaccati e ce ne saremmo già accorti. Questo compito ti sta stressando Arya. Dovresti prenderti una pausa, lasciare a qualcun altro il peso di tutto questo e ritirarti, per un annetto o due magari».
«Che dici!» sbottai.
«Uniamo i nostri cuori, Arya».
Sobbalzai. Mi affrettai a cercare il viso del mio interlocutore e lo fissai, alla ricerca dell’ironia che sicuramente ci sarebbe stata nella piega delle sue labbra. Ma Fäolin era serio, come non l’avevo mai visto.
Ispirai forte. «Ti rendi conto di quello che hai appena detto?»
«Sì» rispose fermo.
Unire i nostri cuori? «Non è un po’ presto?» Azzardai.
Ero abbastanza convinta di amare il mio eterno compagno di avventure, ma il mio era un sentimento giovane, appena scoperto. Non ero pronta ad un passo importante come l'unione dei cuori. Mi sentivo totalmente inadeguata a quella situazione, ero come una bambina che si affacciava su un mondo sconosciuto. E quella proposta mi aveva fatta precipitare. C’erano troppe cose che all’improvviso mi assalirono il cervello, troppe novità, troppi cambiamenti.
Tra gli elfi il rito dell'unione dei cuori corrispondeva vagamente al matrimonio tra gli uomini, ma aveva un significato diverso. Prevedeva lo scambio di promesse di amore e devozione e aveva come conseguenza l'istallazione della coppia in una casa tutta loro, in previsione di un futuro e ambitissimo figlio. L'unica differenza con il matrimonio umano stava nel fatto che non aveva valenza a vita, anche se si supponeva che restasse valido almeno un secolo dal giorno in cui le promesse venivano scambiate. In effetti a quel punto i veri nomi dei due interessati erano probabilmente cambiati e le promesse non erano più valide, anche se non era escluso che la relazione proseguisse anche per millenni.
Però tutto quello supponeva una certezza totale dei sentimenti che provavo per Fäolin.
«Non sei obbligata» mi informò lui piattamente, ma nei suoi occhi vidi l’ombra viscida della tristezza.
«Io..» mi interruppi, alla ricerca delle parole che mi avrebbero permesso di esprimere le mie idee senza ferirlo troppo, «..non credo di essere pronta.»
Fäolin sospirò rumorosamente. «È il tuo carattere così freddo e rigido che te lo impedisce?»
«No» risposi secca.
Non amavo che mi si rinfacciasse il mio modo di fare, e lui lo sapeva. La mia freddezza era venuta da sé, dopo l’indifferenza di mia madre, dopo le assillanti attenzioni della sua corte riguardo la mia educazione come principessa, dopo le mille critiche di ogni persona che mi circondava riguardo alle mie convinzioni sul mio ruolo di ambasciatrice, prima, e custode, poi. Non poteva e non doveva osare rimproverare il mio carattere, dato che lui stesso conosceva i fatti che mi avevano temprata.
«Scusami» sussurrò sedendosi di fronte a me.
«Non fa niente» mentii.
«Possiamo unire i nostri cuori anche tra mille anni». Sorrise. «Io non vado da nessuna parte».
Alzai le sopracciglia. «Pensi di poter sopportare questa missione ancora a lungo? Mi sembri un po’ stressato..» lo citai con palese ironia.
Scoppiò a ridere fragorosamente, facendo rivoltare Glenwing nel sonno.
«Contieniti dannazione» sibilai.
Si portò una mano alla bocca, soffocando l’ennesimo attacco di risa.
Inaspettatamente, mi prese entrambe le mani tra le sue e il blu dei suoi occhi incontrò i miei.
«Voglio che tu sappia che per te sopporterei tutto questo per la vita intera. Potrai sempre contare su di me, Arya, perché io ti amo e sarà così sempre. Non mi importa nulla se tu oggi mi rifiuti la mia proposta, riproverò tra dieci, cento, mille anni. Io voglio che tu sia nella mia eternità, perché altrimenti non varrebbe la pena di essere vissuta».
Rimasi attonita di fronte a quelle parole, che mai mi sarei aspettata di sentirmi rivolgere. Non seppi cosa rispondere, perché quello che sentivo dentro, semplicemente, non aveva parole che potessero esprimerlo. Mi chinai lievemente in avanti e lo baciai sulle labbra, sorridendo.
Mi rasserenai, perché lui era una sicurezza nel mio futuro. Io, che mai avevo avuto certezze.
Il suo amore per me era confortevole come niente al mondo.
«Ti proteggerò da tutto. Siamo insieme da quando siamo piccoli, e lo saremo per sempre» mormorò stringendomi tra le sue braccia.
E io mi abbandonai a quelle parole, che nonostante sembrassero rivolte ad una bambina, mi facevano sentire bene e terribilmente al sicuro. La strana tensione accumulata nei giorni precedenti si sciolse all’improvviso, liberando quel senso di oppressione che mi aveva invaso il corpo e la mente.
Vicino a lui, il mondo aveva nuovi colori.

Stavamo attraversando una piccola valle, verde di alberi. Eravamo ormai vicini alla foresta e il fatto che i tronchi fossero fitti e il sentiero così stretto da costringerci a proseguire in fila indiana, ne erano una chiara dimostrazione.
Fäolin cavalcava davanti a me, i capelli biondi persi nel vento.
Fissavo la sua schiena da quando eravamo partiti, non appena il sole era sceso, e non riuscivo proprio a togliermi dalla testa le parole che mi aveva rivolto quella mattina.
Sorrisi lievemente quando si voltò a guardarmi, come per assicurarsi che io fossi ancora lì.
Neanche la terra potesse inghiottirmi. E poi c’era sempre Glenwing dietro di me, riservato e silenzioso, ma attento ad ogni singolo rumore.
Entro l’alba saremmo arrivati alla foresta, e di lì il viaggio sarebbe proseguito con la massima calma.
Le mie dita si spostarono istintivamente all’anonima bisaccia di cuoio che portavo a tracolla. Sospirai soddisfatta sentendo la superficie liscia e fredda dell’uovo di zaffiro sotto i polpastrelli.
Andava tutto al meglio. Ero viva, stavo per diventare la compagna di Fäolin e la missione proseguiva senza il minimo intoppo.
Mi ritrovai a sorridere di nuovo, dopo tanti problemi e sofferenze, la mia vita sembrava finalmente aver preso la piega giusta. Dovevo essere l’elfa più fortunata al mondo, non c’era nulla che avrei potuto desiderare, che io non avessi già.
Fäolin si girò di nuovo. «Possiamo invertirci i posti di guardia, mia signora?» mi domandò, con rispetto farcito di ironia.
Adoravo quello sguardo complice e velato di tenerezza che mi rivolgeva di sottecchi.
«Scambiatevi» ordinai con voce atona e un tono imperioso, stando al suo gioco.
Fäolin scivolò alle mie spalle.
Sentii i suoi occhi bruciare in maniera strana sulla mia nuca, alzai il mento e mi guardai intorno altezzosa, fingendo indifferenza al suo sguardo che in realtà mi provocò un lieve brivido lungo la colonna vertebrale. Repressi un ennesimo sorriso.
Superammo in silenzio un gruppo di cespugli nascosti dalle tenebre. Continuai a cavalcare tranquilla, il vento che mi sferzava il viso. Un brusco cambiamento della sua direzione mi fece scivolare i capelli sugli occhi, oscurandomi la vista. Li spostai stizzita passandomi una mano sul volto. Il mio braccio si bloccò a mezz’aria. C’era uno strano odore animale nell’aria. I cavalli nitrirono agitati.
«Fäolin» sussurrai implorante, voltandomi all’indietro.
Ti prego ridimi in faccia e dimmi che era una sciocca e infondata sensazione, ti prego guardami negli occhi e dimmi che il pericolo non c’è, ti prego parlami e dimmi che arriveremo presto sani e salvi ad Ellesméra.
Lo guardai in viso e le mie speranze si infransero come cristallo di fronte all’espressione stravolta di lui. Le sue iridi, illuminate di ferma determinazione, mi scrutarono con disperata urgenza, quasi a voler memorizzare ogni mio singolo particolare.
«Vai Arya, vai!» gridò schiaffeggiando poderosamente il fianco del mio cavallo.
L’animale si allontanò rapidamente dai compagni.
La terribile realtà mi cadde addosso come una cascata gelata.
Un agguato.
Ero stata una stupida. Come avevo potuto abbassare la guardia! Come avevo potuto lasciarmi accecare dalla sicurezza che tutto sarebbe andato bene!
Cercai di non pensare all’ultimo sguardo di Fäolin. Perché in fondo agli occhi blu di lui avevo letto una parola che mi faceva male anche solo a pensarla. Una parola che mi lacerava.
Addio.
Battei velocemente le palpebre, dissipando le lacrime che mi offuscavano la vista.
La missione veniva prima di tutto e tutti e io mi ero impegnata a portarla a termine, ma un forte magnetismo mi tentava in continuazione di girarmi e raggiungere Fäolin, e morire con lui.
Scossi la testa, cacciando, per quanto possibile, quella possibilità.
Lui se la sarebbe cavata.
Spronai il mio cavallo ad andare ancora più veloce, anche se il mio cuore sanguinante mi ordinava tutt’altro.
Una voce riempì improvvisamente l’aria, fredda e carezzevole come un velo di seta che nasconde un pugnale tra le sue pieghe.
«Garjzla».
Una sfera di luce colpì il mio cavallo, che stramazzò a terra. Riuscii a saltare dal suo dorso evitando ogni danno. Maledizione! Avevano uno stregone con loro! Quello avrebbe complicato le cose, avrei dovuto darmi una mossa per sfuggirgli.
La stessa voce di prima risuonò tra gli alberi. «Prendetela! È lei che voglio!»
Si trattava del capo, sicuramente.
Ma perché i miei compagni tardavano tanto?
Mi sfuggì un gemito e una morsa di ghiaccio mi strinse il cuore quando i miei occhi corsero nella loro direzione.
Fäolin giaceva a terra, il collo delicato trapassato da una freccia nera, gli occhi chiusi e il torace immobile.
Per un attimo mi sembrò che tempo e spazio fossero scomparsi, smisi di essere la principessa Arya e rimasi semplicemente una donna di fronte al corpo senza vita di una persona che amava. Mossi istintivamente un passo nella sua direzione. Non poteva essere vero, era solo uno dei suoi scherzi, sicuramente. In un attimo si sarebbe alzato di scatto, ridendo, e saremmo scappati insieme da quell’incubo. Ma lui rimase ostinatamente immobile.
Ingoiai le lacrime. Non poteva lasciarmi così. Lui mi aveva promesso..
Qualcosa nella mia testa aveva già accettato l’orribile realtà. Due parole mi rimbombarono nel cranio.
Mai più.
Delle figure nere si avvicinarono al mio campo visivo: Urgali.
Urgali?
Che ci facevano gli Urgali insieme ad uno stregone del re?
Beh, non avevo il tempo di rifletterci troppo.
Imprecai sonoramente nella loro direzione e corsi nel fitto della foresta con tutta la velocità che il peso della pietra al mio fianco mi consentiva. Sfilai la bisaccia da tracolla, tenendola con una mano sola per liberarmi del suo intralcio.
Mai più.
Colsi un bagliore lontano, la foresta stava andando a fuoco. Mi bastò fare due più due per capire che non erano sicuramente fiamme naturali.
Solo un mago molto potente avrebbe potuto fare una cosa simile, anzi, a giudicare dalla portata dell’incantesimo poteva trattarsi del re in persona.
Spalancai gli occhi, atterrita da quel pensiero, che mi affrettai a respingere con tutte le mie forze.
Ben presto sentii il fiato puzzolente dei mostri cornuti soffiarmi sul collo. Mi voltai di scatto, snudando la spada con una mossa fulminea, e la conficcai fino all’elsa nel torace dell’Urgali appena dietro di me. Solo nell’atto dello sfilarla mi resi conto che i miei inseguitori erano così vicini che ne avevo uccisi due in un colpo solo. Tagliai la gola al terzo ancor prima che potesse riprendersi dalla sorpresa.
La loro vista scatenò in me rabbia e il desiderio di distruggerli, pezzo per pezzo.
Una delle loro maledette frecce aveva ucciso Fäolin.
Una delle loro maledette frecce mi aveva privata di metà del mio cuore.
Sputai sui cadaveri e mi affrettai a proseguire la mia fuga
Notai uno sperone di granito dominare sul bosco e mi ci indirizzai alla ricerca di un posto in cui nascondermi e portare in salvo ciò per cui i miei compagni avevano dato la vita.
Ero quasi arrivata quando una figura nera atterrò agilmente davanti a me, come piovuta dal cielo. Riuscii a capire che non si trattava di un Urgali -la corporatura e i capelli rossi che gli coprivano il viso lo identificavano come un essere umano- prima di voltarmi e dirigermi nuovamente sul sentiero.
Forse quello era il capo della spedizione. Ma com’era possibile che gli Urgali lavorassero per gli uomini del re? Era lui che aveva dato ordine di tirare sui miei compagni? Per colpa sua Fäolin era..
Il filo dei miei pensieri venne interrotto all’improvviso. La mia fuga verso lo sperone era stata la mia trappola. I mostri mi avevano raggiunta. Mi guardai intorno un’ultima volta, cercando disperatamente una via di fuga che non c’era. Maledissi tutti gli dei umani e del popolo dei nani che mi venivano in mente ma poi realizzai che non avrebbe aiutato a rimediare alla mia stupidità.
Ispirai profondamente e tornai a concentrarmi sull’uomo, le membra distese in una calma che non era mia.
Volevo vedere in viso l’assassino del mio amato.
Seguii il profilo di un corpo snello ma muscoloso, un guerriero probabilmente, fino alle ampie spalle dell’uomo, per poi giungere infine al suo volto.
Non riuscii ad impedire ad un fremito di orrore di squassarmi il corpo.
Di fronte a me, un ghigno compiaciuto a scoprire i denti aguzzi, c’era uno Spettro. Gli Spettri erano i flagelli di Alagaësia, lo sapevo, me lo avevano sempre detto. Insieme al fatto che, se mi fosse mai capitato di incontrarne uno, difficilmente sarei andata a raccontarlo in giro
Mi sentii piccola e indifesa sotto lo sguardo di sufficienza dei suoi occhi cremisi.
«Prendetela» ordinò con un tono quasi annoiato.
Non c’era più tempo. Fäolin era morto per quella missione e se fosse successo anche a me, beh sarei stata ben lieta di seguirlo.
Brom.. era nascosto in un paese su quelle montagne!
Estrassi rapidamente la pietra dalla bisaccia e, alzatala sopra la testa, bisbigliai frenetica le parole che l’avrebbero portata lontano da lì, al sicuro. Probabilmente lo sforzo della magia mi avrebbe uccisa, ma ormai non era più importante. Fissai spavalda le pozze di sangue che lo Spettro nascondeva tra le ciglia.
Se io dovevo fallire, allora lo avrebbe fatto anche lui.
I suoi lineamenti si deformarono in una maschera di stupore e disperazione quando capì le mie intenzioni.
«Garjzla!» gridò precipitosamente.
Sentii il peso dell’uovo sparire dalle mie dita mentre un globo di fuoco mi raggiungeva fulmineo e mi colpiva al petto. Il terreno mi venne incontro e caddi sull’erba bruciacchiata dalle fiamme fatue dello Spettro.
Forse ora ti rivedrò Fäolin. Ma non volevo morire.
I miei occhi rimasero incatenati un ultima volta ai tizzoni ardenti della creatura maligna che mi aveva colpita.
Lessi l’Ira danzargli nelle iridi.
Un ultimo, beffardo, sorriso di sfida mi increspò le labbra.
Chi aveva vinto alla fine!?
Poi le palpebre mi si chiusero e persi coscienza di me.


Arya e Faolin

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NdA: Il rito dell'unione dei cuori è una mia invenzione. Nei libri Paolini specifica che gli elfi non hanno un vero e proprio matrimonio perché effettivamente avrebbe un valore assurdo nella vita di un immortale, così mi sono permessa di aggiungere questa via di mezzo.

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Capitolo 2
*** Durza ***


2. Durza

Mi sembrava di galleggiare, tutto intorno a me era privo di consistenza e pensieri confusi facevano a pugni nella mia testa, tanto da darmi l’emicrania.
Dove diamine sono finita?
D’un tratto la sensazione di qualcosa di duro, umido e freddo sotto la mia schiena mi catapultò nella realtà.
Aprii gli occhi, lentamente, per poi tornarli a chiudere subito dopo, feriti da una luce alla quale non ero pronta. Quando finalmente il bagliore non mi diede più fastidio, cominciai a prendere coscienza di me.
Ero distesa sul terreno nudo e semi ghiacciato di un bosco, sopra di me un cielo che prometteva neve si stagliava oscuro e opprimente, come solo una notte invernale poteva renderlo. Voltai appena la testa a sinistra, per individuare il fuoco che qualche istante prima mi aveva accecata.
Nonostante il tepore che emanava, avevo freddo. E continuavo a sentirmi confusa, come se una nebbia densa e vischiosa avesse avvolto la mia coscienza.
Piano, piano presi consapevolezza del mio corpo, ma quando feci per tirarmi a sedere mi bloccai. Non potevo aiutarmi con le mani, legate dietro la schiena da una corda grossa e ruvida.
E questo spiega il male a spalle e braccia. Pensai.
Rotolai su un fianco e riuscii ad alzarmi. Ero tutta indolenzita.
Ero in una minuscola radura, circondata da un bosco che non era nemmeno lontanamente simile alla mia foresta.
Annaspai alla disperata ricerca delle mie facoltà mentali, ma venni interrotta dalla vista di un uomo che sedeva di fronte a me sul tronco di un albero caduto, dall’altra parte del fuoco.
«Finalmente ti sei svegliata», mormorò con voce vellutata.
Strinsi gli occhi, mettendo a fuoco la sua figura, senza riuscire a capire chi fosse e perché fosse lì.
Io ero in viaggio con Fäolin e Glenwing. Perché in quel momento mi trovavo in compagnia di un perfetto sconosciuto, legata e con la sensazione che qualcosa non andasse?
Mi gettai un’occhiata addosso: la bisaccia di cuoio in cui custodivo la pietra era scomparsa, insieme alle mie armi. Un attacco di panico mi si riversò addosso.
«Ti ho trovata a terra nel bosco». La voce melliflua dell’uomo mi riscosse nuovamente. «Sei un’Elfa» specificò, come se quello potesse spiegare perché mi avesse legata.
Analizzai con attenzione lo sconosciuto davanti a me. Non doveva avere più di venticinque primavere, secondo il tempo degli uomini e il suo viso non recava la minima traccia di barba, doveva essersi rasato al più tardi qualche ora prima.
I suoi piccoli occhi avevano un taglio leggermente allungato ed erano dello stesso colore marrone scuro delle castagne nella stagione dei venti. Mi scrutavano senza la minima vergogna, registrando ogni singola variazione della mia espressione, quasi scavandomi dentro, mettendomi a disagio e scatenandomi allo stesso tempo un brivido di inquietudine sul cuoio capelluto.
Le sopracciglia folte e arcuate gli davano un’aria ancora più inquisitoria, di un rosso appena più scuro dei capelli corti che gli ricadevano sulla fronte, resi brillanti dalle fiamme del fuoco, ma sporchi di terriccio, ad indicare che sicuramente non era la prima notte che dormiva all’addiaccio.
Le labbra pallide e troppo sottili erano sollevate leggermente da un lato in un sorrisetto che di rassicurante non aveva nulla e si sposavano alla perfezione con il viso ovale, con un naso aquilino ad evidenziare ulteriormente il suo taglio da rapace.
La pelle resa giallastra dal riflesso del fuoco aveva qualcosa di profondamente inquietante, quasi si trattasse di un morto ritornato dalle ombre.
Nel complesso aveva un’aria pericolosa e sfuggente, tanto che non ero ancora riuscita a decidere se fosse un semplice umano o no, nonostante parlasse la loro lingua senza inflessioni e le orecchie che i capelli lasciavano scoperte fossero inequivocabilmente rotonde.
«Non voglio farti alcun male, voglio solo che tu te ne vada senza uccidermi» disse ancora.
Tirai un impercettibile sospiro di sollievo. Era un umano, senza dubbio, solo loro avevano la stupidità di credere gli elfi creature malvagie che traevano piacere nell’uccidere intere popolazioni avvelenando le fonti, spalmando unguenti infetti sulle porte delle loro case e rapendo i bambini in fasce per sostituirli con sosia che non erano altro che incarnazioni dei demoni. Sciocche superstizioni.
«Che cosa mi è successo?» mi informai cautamente.
Le labbra sottili si schiusero in un sorriso, scoprendo denti dritti e bianchi, segno che il loro proprietario se ne prendeva cura almeno una volta al giorno con impasti di erbe e foglie di salvia.
«Eri stesa a terra in un bosco poco distante da qui, intorno a te c’erano delle impronte di zoccoli di cavalli e di Urgali. Devi essere stata attaccata da loro».
Come se le mie memorie venissero da un sogno, ricordai l’improvviso fetore di carne rancida che mi era giunto alle narici e il nugolo di frecce nere che aveva riempito l’aria.
«Non c’era nessuno con me?» Dov’erano finiti i miei compagni?
Scosse la testa lentamente. «Eri sola. E stringevi questa tra le dita». Sollevò da accanto a sé la mia bisaccia di cuoio, visibilmente vuota.
Il mio cuore fece una capriola, mentre una corazza di lucida logica prendeva il posto del panico che mi aveva stretta fino a quel momento.
Probabilmente una banda di Urgali aveva attaccato me e la mia scorta, costringendo Fäolin e Glenwing ad abbandonarmi nel bosco dopo essere stata disarcionata. E i miei compari dovevano aver preso la pietra con loro.
C’erano solo un paio di cose che non tornavano.
Perché gli Urgali si trovavano così in profondità nel territorio dell’impero? Perché erano riusciti a coglierci alla sprovvista e addirittura batterci? Perché non mi avevano uccisa per conquistare gloria presso la loro tribù? Perché Fäolin non era tornato indietro a cercarmi, come mi aspettavo avrebbe fatto? Perché se cercavo di fare chiarezza nella mia mente vedevo solo.. fiamme? Una foresta in fiamme.
E rosso, un colore che mi avvolgeva fino a soffocarmi.
Cielo rosso. Alberi rossi. Occhi rossi. Capelli rossi.
Annusai con discrezione i miei vestiti, constatando che erano impregnati dell’odore acre del fumo. L’uomo non mi stava dicendo tutta la verità.
Feci per usare i miei poteri e liberarmi della corda, ma mi accorsi con un certo orrore che non ricordavo la mia lingua madre. Più cercavo di arraffare una semplice parola che potesse formare un incantesimo, più quella pareva fuggire.
«Perché non mi liberi?» domandai candidamente, accennando un sorriso melenso. Avevo bisogno di guadagnarmi la fiducia di quello sconosciuto, prima che capisse quale fosse lo stato di confusione che albergava nella mia mente e ne approfittasse per vendermi a qualcuno degli uomini imperiali.
Abbassò la mano che stringeva la bisaccia. «Avevi una pietra con te o sbaglio?»
Mi irrigidii immediatamente.
«Vedi, mi basta sapere dove hai mandato quella pietra e ti lascerò andare per la tua strada, non ho alcun interesse a trattenerti qui».
«Non so di cosa tu stia parlando» replicai tranquillamente, sopprimendo la mia ansia sotto una fredda maschera di indifferenza.
«Oh io credo di sì invece» rispose senza esitazione.
Tormentai le corde che mi legavano i polsi, ma mi resi conto di essere troppo debole per poter anche solo sperare di scioglierle. E che l’uomo di fronte a me non era certamente uno sprovveduto, e tanto meno un amico. Doveva avermi drogata.
«Non ci riuscirai» mi informò, notando i miei movimenti. «La pietra, Elfa. Voglio solo quella stramaledettissima pietra e poi potrai tornartene nella tua foresta».
Gli occhi castani furono oscurati da un lampo di impazienza e seppi con assoluta certezza che si trattava di un fedele all’impero.
Di fronte al mio mutismo, parve perdere l’atteggiamento rilassato che lo aveva accompagnato fino a quel momento. Si alzò agilmente in piedi e girò intorno al fuoco, estraendo un pugnale lungo quanto il mio avambraccio dal mantello nero e avvicinandosi a me.
Dovetti fare uno sforzo per rimanere immobile e impassibile mentre si inginocchiava di fronte a me, portando il viso a una spanna dal mio, puntandomi nuovamente addosso i suoi occhi penetranti. La parte del viso che non era illuminata dalle fiamme pareva così pallida da essere trasparente. Sentii che c’era qualcosa di sbagliato in lui, di oscuro.
«Parla».
Un forte odore, acuto e pungente mi soffiò addosso. Sembrava menta selvatica.
Quell’odore ebbe il potere di spazzare via la nebbia che mi oscurava il cervello e i ricordi dell’imboscata tornarono, con vivida e dolorosa chiarezza.
Lui era uno Spettro. Gli Urgali avevano attaccato perché lui lo aveva ordinato. Ero a terra perché lui mi aveva colpita non appena avevo tentato di mettere in salvo la pietra di zaffiro. Fäolin e Glenwing non erano con me perché lui aveva stregato le frecce nere affinché potessero superare con tranquillità le nostre protezioni. E li aveva uccisi. I miei compagni di viaggio non esistevano più.
Una bestia feroce si scatenò dentro di me, donandomi una scarica di energia incredibile. Con un movimento brusco, mi sporsi in avanti per dargli una testata nello stomaco, ma lo Spettro mi afferrò prontamente per le spalle.
«Peccato» disse, ghignando, «temo che l’armistizio finisca qui».
Sotto i miei occhi, vidi le sue iridi diventare dello stesso colore rosso e denso del sangue, le pupille si fecero leggermente verticali, come quelle di un felino, ed erano da felino i denti appuntiti che fecero capolino dalle labbra sottili e crudeli.
Uno Spettro. Ero nelle mani di uno Spettro.
Un lieve tremore tradì l’orrore che si era impossessato di me.
Ero stata ampiamente istruita sulle creature malefiche -sia quelle estinte, sia quelle esistenti- dalle quali avrei dovuto starmene ben lontana se tenevo alla mia vita. E sapevo con esattezza che, in tutta la storia di Alagaësia, solo Laetri l’elfo e Irnstad il cavaliere erano riusciti a sconfiggere uno Spettro, accompagnati ovviamente da una buona dose di fortuna, oltre che di indiscussa abilità. Erano creature malefiche e potenti, abili maghi e combattenti capaci. Fino a che uno Spettro calpestava il suolo di quel regno, non poteva esservi pace, dato che era risaputo che praticassero le forme più sacrileghe e oscure della magia, aiutati dagli Spiriti che abitavano nei loro corpi.
Una risatina fredda e secca riempì la radura deserta. Mi si accapponò la pelle.
«Non devi avere paura di me» sillabò lo Spettro con il suo ghigno raccapricciante. «Non ti farò nulla, se sarai disposta a collaborare».
Il mio pensiero scivolò a Glenwing e Fäolin e per un attimo mi parve di poter precipitare nel vuoto di dolore che riempiva la loro memoria. Non dovevo pensarci. Non ancora. Non fino a che avrei dovuto tentare di tenere testa a quel mostro. Dopo ci sarebbe stato il tempo di strapparsi i capelli e rigarsi il viso di lacrime, forse.
«Non mi fai paura» ringhiai orgogliosa.
Sbuffò. «L’arroganza non ti sarà amica. Voglio solo sapere dove hai mandato quella pietra». Accennò un sorrisetto di chi la sa lunga. «E tu vuoi solo tornartene a casa. Dimmi quello che voglio sapere e io ti lascerò andare. Ora. Senza altri indugi. Potrai tornare in pace nel tuo regno. Hai la mia parola che non ti ostacolerò in nessun modo».
Detta così sembrava tutto così semplice. Forse credeva che fossi una stupida sprovveduta.
Beh, non lo ero.
Sapevo perfettamente fino a quanto potesse valere la parola di una creatura del male. E per essere precisi era zero. Non ero così folle da credergli, non così smarrita da mettergli tra le mani tutto ciò per cui avevo sempre combattuto. Dirgli ciò che voleva sapere significava condannare a morte il mio popolo e tutta l’organizzazione ribelle dei Varden, significava sputare in faccia al sacrificio di Fäolin e Glenwing. Loro avevano dato la vita per prolungare la mia, per permettermi di portare a termine la missione.
E se lo Spettro chiedeva con tale insistenza dove avessi mandato la pietra significava che non aveva la minima idea di dove potessi averla materializzata e che il mio incantesimo era riuscito alla perfezione, nonostante la foga del momento. Probabilmente in quel momento l’uovo era al sicuro nelle mani di Brom e l’unica cosa che mi rimaneva da fare era tenere il silenzio fino a che lo Spettro non mi avesse uccisa.
E a giudicare dall’espressione furente che gli deformò i lineamenti non appena alzai il mento, non mi avrebbe fatta attendere a lungo.
Sussultai quando la parte piatta della lama gelida del pugnale mi sfiorò il collo.
«Rilassati» sussurrò lo Spettro con voce suadente e pericolosa, che ebbe l’effetto di inquietarmi ancora di più. «Ti sei appena guadagnata un soggiorno a Gil’ead. Sarai mia ospite per..» interruppe la frase, schioccando la lingua contro i denti «..diciamo a tempo indeterminato» concluse maligno.
Mi fissò ancora, osservando ogni mia mossa, ogni mia espressione, probabilmente alla ricerca di una crepa nella maschera di granito che sapevo di poter impostare al mio volto. Nonostante tutto fui colta da un’incalzante inquietudine e mi affrettai a controllare che le mie barriere mentali fossero ben salde al loro posto.
«Qual è il tuo nome?» c’era una sorta di velata minaccia nella sua domanda.
Serrai le labbra, sfuggendo al suo sguardo cremisi.
Il suo fiato caldo sulla fronte mi annunciò che si era ulteriormente chinato su di me. La sua vicinanza mi mise a disagio in maniera indicibile, ma rimasi impassibile.
Accennò un sorriso. «Avremo modo di fare lunghe chiacchierate una volta giunti nella mia città. E ti assicuro che parlerai, Elfa. Oh se parlerai».
Tese una mano verso di me e io dovetti fare uno sforzo immane per non ritrarmi e rimanere immobile come una statua di sale. Le sue dita bianche mi sfiorarono una guancia, lasciando una scia fredda lungo la mia pelle già gelata, scivolando poi sul collo e accarezzando lievi il profilo del petto.
Fremetti violentemente, incapace di controllarmi.
«Io sono Durza» disse carezzevole.
Il suo tocco mi stava gelando le ossa, e non per la temperatura della sua pelle.
«Ricorda questo nome, avrai paura sentendolo pronunciare».
A quel punto mi ritrassi. Lo Spettro sorrise. «Slytha» mormorò.
Ed io caddi in un sonno profondo.

Una sensazione di gelo al viso mi costrinse ad aprire gli occhi. Vidi una figura indistinta china su di me.
«Fäolin» sussurrai.
Impiegai meno di un istante prima di comprendere il mio errore.
I lineamenti affilati dello Spettro presero contorno, ricordandomi in quale terribile guaio mi fossi cacciata.
Mi fissò annoiato. «Uno dei tuoi compari? Sono morti entrambi, Elfa» mi informò seccamente. «E le mie fiamme avranno bruciato i loro corpi».
Mi sedetti, lanciandogli un’occhiata di puro odio.
Stava nevicando, e i fiocchi ghiacciati lambivano la mia pelle, facendomi rabbrividire dal freddo.
«Alzati» ordinò, «voglio raggiungere Gil’ead prima che la neve ci blocchi il passo».
Raccolsi rapidamente le mie idee, ricordando in un lampo i fatti dell’imboscata e cacciando conseguentemente il dolore che mi legava a quei ricordi, per passare poi alla conversazione della sera precedente. Sbirciai lo Spettro da sotto le ciglia.
Sapevo chi era. Chi, tra ribelli non era a conoscenza dell’identità di Durza lo Spettro, luogotenente del re Galbatorix in persona, fautore di incredibili massacri e sofferenze, spietato ai limiti del possibile. E anche se per caso non lo si avesse mai sentito nominare era impossibile stare per più di un quarto di clessidra in compagnia di Ajihad senza che nominasse il suo famoso duello con Durza, dal quale era uscito non propriamente incolume, ma vivo. E già quello era un evento straordinario.
Con un’altra occhiata constatai che il fodero nero di una spada lunga e sottile pendeva dal fianco dello Spettro, seminascosto dal mantello nero, sotto il quale si intravedevano pantaloni neri, una giubba nera e stivali neri.
Durza aveva detto che mi avrebbe portata con sé a Gil’ead. Voleva forse consegnarmi al suo re? Se quello era il mio destino tanto valeva ammazzarmi subito ed evitare almeno che Galbatorix riuscisse a carpire da me informazioni che sarebbero state disastrose nelle mani sbagliate.
Ma forse lo Spettro aveva solo intenzione di torturarmi per qualche giorno, fino ad arrendersi all’evidenza che non avrei parlato e mi avrebbe poi spedita nelle ombre.
«Sappi che non amo ripetermi». Una voce ben più gelida della neve che cadeva mi riscosse.
Il mio rapitore era in piedi a pochi passi da me, e teneva per le redini un cavallo grigio nebbia, striato di nero.
Mi alzai, nonostante le mani legate, con una certa agilità.
«Sali» comandò con un ghigno.
Guardai l’immenso cavallo. Mi sarei dovuta letteralmente arrampicare su quell’animale gigantesco, e ovviamente non potevo neppure pensare lontanamente di farlo con le mani impegnate. E lui lo sapeva. Quella messa in scena aveva il solo scopo di umiliarmi.
«Dovrò aiutarti».
Le sue mani si strinsero sicure sulla mia vita, le sentii fredde attraverso i vestiti. Mi issò in sella con una facilità incredibile, quasi non fossi altro che una bambola di pezza.
Montò rapido dietro di me e strinse le redini, passando le braccia intorno al mio corpo.
La sua vicinanza e il fatto di non poterlo vedere in viso mi provocavano una certa inquietudine. Non si danno le spalle al nemico, mai. Ero rigida come un manico di scopa, e lui parve notarlo.
«Come avrai intuito, mi servi viva, Elfa» disse ridacchiando in maniera snervante. «Quindi non ti ucciderò nell’immediato futuro, e di questo puoi esserne certa».
Spronò il cavallo e l’animale partì al trotto, la mia spada e il mio arco che penzolavano dalle bisacce legate alla sella. Mi dispiacqui nuovamente di non riuscire ad usare la mia magia.
Mentre il paesaggio scorreva rapido di fianco a me, mi permisi di dedicare i miei pensieri a un modo alternativo per sfuggire a quella situazione, conscia che sarebbe stato difficile, ai limiti del possibile.
Ma non dovevo farmi prendere dal panico. Dovevo rimanere il più lucida e fredda possibile.
Ad Ellesméra ero stata per anni allieva di Oromis e Glaedr. Non che avessi ricevuto una vera e propria formazione da cavaliere -dato che il mio compito mi imponeva di viaggiare spesso e i cavalieri avevano segreti che nessuno al di fuori dell’ordine sapeva, la cosa non era possibile- ma i due si erano impegnati ad insegnarmi qualche trucchetto dietro insistenza di mia madre. Del resto ero la prima Elfa che si sarebbe avventurata fuori dalla foresta da anni. E con il re in circolazione non si era mai troppo sicuri. Se avevo imparato una cosa da loro, era che ogni situazione andava analizzata da ogni punto di vista per poter trovare una soluzione.
Sapevo che ad Osilon si aspettavano di vedere arrivare me e i miei compagni la sera stessa in cui eravamo caduti nell’imboscata. Quanto era passato da allora? Non lo sapevo, potevo essere rimasta incosciente per ore, come per giorni.
C’era una sottile, lontana possibilità che la guarnigione fissa della città decidesse di mandare qualcuno a cercarci, magari preoccupati per il nostro eccessivo ritardo. Se avessero trovato i resti dell’incendio e.. Deglutii. E i corpi di Fäolin e Glenwing, avrebbero capito che c’era qualcosa che non andava e, notando la mia assenza e quella della pietra, mi avrebbero cercata in lungo e in largo.
Dovevo trovare un modo per rallentare Durza.
La mano destra dello Spettro in questione si staccò dalle briglie, per insinuarsi tra i mie capelli e afferrare la punta del mio orecchio. Le sue dita erano gelate, avrei voluto suggerirgli dei guanti contro il freddo.
«Mi sembra corretto offrirti un’ultima possibilità» disse con voce alta e chiara, che sentii distintamente sopra lo scalpiccio degli zoccoli e il fruscio dell’aria che stavamo tagliando. «Decidi ora se ti senti più disposta a collaborare. La pietra per la tua vita, mi pare uno scambio equo».
Scrollai rabbiosamente il capo, togliendo la presa delle sue dita.
«No, non lo è» replicai ostentando calma.
Con un movimento brusco, lo Spettro mi artigliò la spalla. «Non prenderti gioco di me, piccola Elfa. Perché io non sto affatto scherzando».
Rimasi immobile e impassibile come una statua di granito. Ma in cuor mio pensai che Durza aveva l’aria di uno che non parla a vanvera.
«Sai a Gil’ead c’è una magnifica prigione, ti piacerà» sibilò lo Spettro. «E questa pelle di velluto..» sfiorò appena il mio collo con l’indice «..ha mai sentito che sensazione da un ferro rovente addosso?»
Serrai le labbra e mi scostai di lato, sfuggendo al fastidio del suo tocco. Mi sembrava che se mi avesse sfiorata per un altro istante, una parte di me sarebbe inesorabilmente marcita.
«Sei proprio una stupida» decretò, tornando a posare la mano sulle briglie.
Lo ignorai, cercando nuovamente di richiamare alla mente le parole nell’antica lingua, invano.
Bene. La magia era fuori gioco.
Rimanevo solo io.
Agii senza nemmeno riflettere troppo su dove mi avrebbero portato le mie azioni.
Sciolsi le membra e mi afflosciai sulla sella, cogliendo Durza di sorpresa, tanto che non poté impedirmi di scivolare sotto le sue braccia e cadere dal cavallo. Rotolai sul terreno reso fangoso dagli acquosi fiocchi di neve che ancora cadevano, rannicchiandomi su me stessa per evitare danni.
Gli zoccoli dell’animale rasparono nel terreno e il tonfo di un paio di stivali mi annunciò che lo Spettro mi avrebbe raggiunta in pochi istanti.
Chiusi gli occhi e mi concentrai, rilassando il respiro e le membra, fingendomi svenuta.
«Come sei ingenua, piccola Elfa» sussurrò Durza nel silenzio ovattato. «Con me ogni finzione è inutile. Non ti hanno mai insegnato le regole di un bravo guerriero? Quando la situazione è inesorabilmente fuori controllo, bisogna arrendersi».
I suoi passi frusciarono lenti e decisi nella mia direzione. Rimanere immobile mi costò uno sforzo che non credevo possibile.
«Anche adesso» continuò lui con la sua voce melliflua, «sento che hai paura».
Controllai le mie barriere mentali. Salde e intaccate al loro posto. Come riusciva a capire che la mia fosse solo finzione e addirittura ad intuire i miei sentimenti?
Il suono del suo respiro mi fece capire che era praticamente accanto a me.
Aprii gli occhi e mi alzai di scatto, assestandogli una gomitata alla tempia e rendendomi conto solo in quel momento di quanto incredibilmente alto fosse, anche per i canoni elfici.
Lo Spettro ringhiò qualcosa, ma non volevo restare lì ad informarmi se si fosse offeso o meno. Schizzai immediatamente in direzione del cavallo che Durza aveva abbandonato poco più avanti sul sentiero, scapolando con le braccia e portandomi le mani legate davanti a me.
Avevo appena allungato le mani verso la spada che pendeva dalla bisaccia legata alla sella, quando un braccio forte mi cinse la vita, spingendomi a terra.
Rotolai nel fango avvinghiata allo Spettro, dando e ricevendo pugni e calci in egual misura. Uno scricchiolio agghiacciante e un dolore sordo al viso mi annunciarono che probabilmente mi aveva slogato la mascella. Un istante dopo offrii la schiena al suolo gelido, le mani di Durza premute con forza sulle mie spalle, a tenermi ferma. Notai con una certa soddisfazione che gli sanguinava il naso. Era abbastanza umano da avere sangue nelle vene, almeno.
In un impeto di coraggio gli sputai in faccia.
Lo Spettro sollevò un sopracciglio. «Non provarci mai più». La sua voce risuonava di un sottile sibilo.
Alzai gli occhi sul suo viso e la sua espressione irata mi fece tremare. Ma più di tutto furono i suoi occhi a sconvolgermi. Così rossi, così profondamente intrisi di odio. Mi fecero desiderare di non essere mai nata, di poter morire. Subito. Di non dover passare un solo istante in più a fissarli.
Mi divincolai nell’inutile tentativo di liberarmi dalla sua presa.
Ero debole.
Ero impotente come una formica nelle mani di un bambino.
«Mi troveranno» ringhiai. «Ti taglieranno la strada Spettro. Portami pure a Gil’ead. Non ci arriveremo mai, altre guardie elfiche ti attendono su quella strada e non potrai coglierle con l’inganno come hai già fatto. Dovrai combattere. E sarai sconfitto».
Mentivo, mentivo spudoratamente. Speravo solo che mi avrebbe creduta e che per prudenza avrebbe deciso di aspettare nel bosco un altro giorno o due, giusto il tempo necessario alla vera guarnigione per arrivare.
Se la cosa lo impressionò o lo spaventò come avrei voluto facesse, non lo diede a vedere.
«Credo che sia la frase più lunga che un elfo abbia mai detto dalla nascita di Alagaësia» si limitò a dire, con palese sarcasmo.
Furiosa, tornai a divincolarmi con tutte le mie forze.
«Buona» sussurrò minacciosamente. «Stai buona».
Mi addormentò nuovamente.
            La testa mi pulsava dolorosamente e, quando aprii gli occhi, vidi per un attimo tutto nero.
La mascella scricchiolò sinistramente quando aprii la bocca, ma non sembrava rotta. Si era trattato di un innocuo pestaggio.
«Vi facevo più temprati voi Elfi, e più intelligenti».
La voce dello Spettro vibrava d’ira. Mi alzai a sedere e lo vidi seduto a poche iarde di distanza da me, un fuocherello brillava alla sua sinistra.
Solo allora mi accorsi che non ci eravamo mossi. Non sapevo quanto tempo fosse passato da quando mi aveva addormentata, ma doveva trattarsi di ore dato che la luce stava rapidamente scemando nel tramonto.
Mi concessi un istante per lanciare un interiore grido di vittoria.
C’ero riuscita! Ero riuscita a rallentare la marcia. Dovevo solo sperare che i soccorsi in cui avevo riposto tutte le mie speranze arrivassero il prima possibile.
Lo Spettro corrugò la fronte, scrutandomi con intensità, al punto di farmi rabbrividire. Sembrava che mi stesse leggendo dentro. Istintivamente, rafforzai le barriere della mia mente.
«Come mai tanto trionfo Elfa?»
Rimasi sconvolta alla sua domanda, posta con aria quasi noncurante, quasi avesse domandato perché avevo messo un abito giallo invece di uno verde.
Ero convinta di essere rimasta impassibile, a quanto pare mi era sfuggita un’espressione.
Non può riuscire a leggermi la mente nonostante le mie difese, o a questo punto avrebbe già tra le mani tutte le informazioni che gli servono.
Rassicurata dal pensiero sciolsi la tensione dei muscoli.
Un sordo brontolio ruppe il silenzio della notte.
Era il mio stomaco. Non ricordavo quale fosse stata l’ultima volta che avevo mangiato.
Durza scoppiò in una risata stridula che mi fece quasi sobbalzare.
«Se non mi avessi rallentato a quest’ora saremmo già arrivati a Gil’ead» mi informò beffardo, «e tu avresti potuto mangiare qualcosa».
Non reagii in alcun modo.
«Comincio a chiedermi se tu non sia diventata muta».
Ancora non risposi.
«Vedrai che presto parlerai». Suonò molto come una minaccia.
Lo Spettro sussurrò alcune parole nell'antica lingua, che faticai a capire ma non riuscii a memorizzare, e subito dopo un evanescente cerchio di nebbia nera si avvolse intorno a noi.
«Prova a superarlo Elfa» mi lanciò uno sguardo di sfida, «e spererai di non essere mai nata».
Detto quello si avvolse in una coperta, me ne lanciò un’altra e si stese accanto al fuoco. Pochi minuti dopo il suo respiro era regolare. Dormiva.
Imprudente, molto imprudente. Con un ghigno che avrebbe fatto strappare i capelli ad ogni elfo ben educato che c’era alla corte di mia madre, strisciai lentamente verso di lui.
Mi aveva sottovalutata. Peccato, non si sarebbe più svegliato.
Mi acquattai a terra a una spanna di distanza dallo Spettro e osservai con attenzione il suo viso. Ingannevolmente giovane e liscio come quello di un elfo, solcato da occhiaie scure sotto gli occhi, chiaro segno di quanto a lungo si fosse negato il riposo. I lineamenti da falco erano contratti in un’espressione seria, che gli conferiva un’aria malvagia anche mentre dormiva.
E a proposito di dormire. Restai una buona mezzora immobile accanto a lui, per accertarmi che non stesse fingendo e non ebbi motivo di pensare il contrario.
Non pensavo che avesse un lato così umano da ridursi ad addormentarsi. Avevo sempre visto gli Spettri come creature demoniache nate per la morte e la distruzione, sostenute dalla sola forza degli spiriti che li comandavano; non mi era mai venuto in mente che anche loro avessero delle esigenze così banali quali il dormire e il mangiare.
Gettai un ultimo sguardo all’inquietante barriera nera che circondava il piccolo bivacco e sospirai piano. Ero convinta che Durza non mi avesse minacciata a vuoto, e quindi cercare di scappare attraverso la cupola nerastra era da escludere.
Cercai nuovamente di usare i miei poteri, ma mi rispose il nulla. Probabilmente mi aveva drogata ancora, dopo avermi addormentata.
Le mie armi erano assicurate alle bisacce del cavallo, che sfortunatamente era placidamente legato ad un albero fuori dal cerchio magico.
Per l’ennesima volta, mi dissi che sarei bastata io.
Con movimenti estremamente lenti e misurati, mi spostai dietro la testa dello Spettro. Quando allungai le mani davanti a me notai con una smorfia che la grossa corda ruvida, strettamente serrata sui polsi, mi aveva procurato delle piaghe sulla pelle. Ma per il freddo o per altro, non sentivo dolore.
Tornai a concentrarmi sul mio nemico.
Poteva morire solo se colpito al cuore, ma io non avevo nulla che potesse aiutarmi in una simile impresa.
Lo avrei soffocato a mani nude. Non sarebbe morto definitivamente, ma sarebbe scomparso per qualche tempo e almeno io sarei stata libera, confidavo che la barriera nera sarebbe scomparsa con lui.
Senza ulteriori esitazioni calai sulla sua gola scoperta..
..e mi sentii afferrare la mani da delle lunghe e forti dita gelide.
«Non dormi Elfa?» domandò schiudendo gli occhi cremisi con un sorriso di scherno.
Mi dibattei dalla sua presa, scalciando nel tentativo di colpirlo alla testa.
Si alzò in piedi con rapidità inumana, tirandomi su con lui e girandomi di spalle. Mi incrociò le mani sul petto, continuando a stringermi contro di sé, con una forza tale che faticai a riempire i polmoni d’aria.
Sentii il suo fiato all’orecchio. «Non sono nato ieri» mormorò.
Mi lasciò andare di scatto. Impreparata, scivolai a terra.
Durza si chinò lievemente su di me con un’espressione affabile. «Credevo di essermi divertito abbastanza a giocare con te, per oggi. Ma mi pare che tu non sia dello stesso avviso».
Farfugliò qualche parola nell'antica lingua e i capelli mi si rizzarono sulla nuca.
Un’improvvisa scarica elettrica mi attraversò il corpo. Era come se qualcosa mi stesse strappando la carne a morsi, distorcendo i legamenti, maciullando le ossa. Era un dolore indicibile, che mai in vita mia avevo provato. Serrai con forza le palpebre cercando di ritrovare un minimo di lucidità in quella marea di sofferenza.
Il male sparì, rapido così com’era venuto.
Sentii in bocca uno strano sapore ferroso. Mi toccai il labbro e ritrassi le dita sporche di un liquido caldo. Mi ero morsa le labbra a sangue, per non urlare.
«Questo era solo un ennesimo avvertimento» ringhiò lo Spettro. Aprì la bocca per aggiungere qualcos’altro ma poi la sigillò un istante dopo.
Socchiuse gli occhi e inclinò appena il capo.
Stava ascoltando qualcosa.
Mi concentrai a mia volta sui suoni che mi circondavano e non potei non trarre un respiro di sollievo. Il rumore di zoccoli sul terreno schioccava in lontananza, mischiato a voci argentine di indubbia provenienza. Elfi.
Stavano venendo a prendermi. Ero salva.
Mi resi conto che lo Spettro mi aveva sollevata da terra solo quando mi ritrovai adagiata sulla sua spalla come un sacco di patate.
Strillai come un’ossessa, contorcendomi per liberarmi dalla presa.
«Bastarda di un’Elfa!» imprecò il mio rapitore. «Sei stata furba, ma non ti salveranno stanne certa».
Mosse la mano di fronte al mio viso e la voce mi si serrò in gola, secondo l’effetto della sua magia. Non aveva pronunciato alcuna parola di potere, ma forse era più facile usare direttamente le proprie abilità magiche senza doverle legare a delle frasi quando si aveva uno, o forse più di uno, spirito dentro di sé. Quelle creature erano fatte di pura magia.
Una sensazione di disgusto mi serrò lo stomaco, che unita a quella di panico, non mi aiutò certamente a riprendere il controllo della situazione.
Durza correva rapidamente tra gli alberi spogli, tirandosi dietro il cavallo e tenendomi saldamente stretta sulla sua spalla. Nel buio totale e avvolgente della notte, io vedevo a malapena i contorni degli alberi e del terreno, mentre lui avanzava con sicurezza. Mi chiesi se gli occhi da gatto non avessero un altro scopo altre a quello di rendere uno Spettro spaventoso.
Durza si allontanò dal sentiero, inoltrandosi sempre di più nel sottobosco, fino a giungere ad una piccola grotta, spingerci dentro il cavallo e sbattermi con violenza contro la parete.
Per un attimo vidi tutto rosso.
Poi avvertii la pressione di qualcosa di duro e gelido contro la mia gola. Lo Spettro mi cingeva la vita con un braccio e con una mano reggeva un pugnale, che mi teneva puntato contro. Notai una strana incisione lungo la guardia, ma non riuscii a decifrare la lingua in cui era scritta e non potevo chiedere delucidazioni. Che in ogni caso sarebbero state fuori luogo.
«Stai tranquilla Elfa» disse lo Spettro con voce bassa, «o giuro che non me ne importa nulla delle informazioni che potrei spremerti e ti ammazzo. E non provare ad aprire la mente ai tuoi amici» mi prevenne, «perché allora dovrai abbassare le tue difese e io riuscirò a penetrare i tuoi segreti».
Deglutii faticosamente, dato il nodo che si era serrato alla mia gola. Purtroppo la situazione era tutta a suo favore e se anche avessi avuto la mia voce, non avrei mai potuto usarla.
Ma ero speranzosa. Lo Spettro non sarebbe riuscito a farla franca, c’era un dettaglio di cui non era a conoscenza.
Io ero pur sempre Arya Dröttningu, la figlia della regina.
Il mio popolo non avrebbe condotto la ricerca tanto superficialmente, avrebbero battuto ogni centimetro di Alagaësia, guardato sotto ogni albero, vicino ad ogni ruscello, in ogni singola casa o catapecchia.
In quel momento gli elfi erano esattamente davanti a noi, riuscivo a vedere le figure candide dei loro destrieri attraverso gli alberi scheletrici.
Fui tentata di divincolarmi e scappare. Ma la lama dello Spettro premette più forte, al punto da provocarmi un lieve taglio sul collo. Un minimo movimento e mi sarei uccisa da sola.
I cavalli si fermarono e gli elfi si chiusero in cerchio, confabulando tra di loro.
«Dividiamoci» propose uno di loro. «Il suo corpo non era con gli altri, forse è stata rapita dagli uomini del re».
«Abbiamo trovato i cadaveri di dodici Urgali, ma di uomini nessuna traccia. Sono stati attaccati dai mostri, non dai servi del re».
Dodici? Ruotai gli occhi in direzione dello Spettro, che ostentava un sorrisetto lieve sulle labbra sottili. Io avevo ucciso tre Urgali, non mi ero mai chiesta che fine avessero fatto gli altri.
«Ormai erano inutili» bisbigliò al mio orecchio, allentando lievemente la pressione della lama.
Il battito del mio cuore accelerò per la tensione.
Tornai a concentrarmi sugli elfi, che stavano ancora discutendo. «I custodi se la sarebbero cavata benissimo contro una banda di Urgali. No, probabilmente si trattava di un’imboscata ad opera di un gruppo di stregoni del re. Solo un fuoco magico poteva provocare tutti quei danni alla foresta». Una sfumatura di dolore incrinò la voce dell’elfo. «Devono essersi presi la pietra e anche la nostra ambasciatrice».
«Ambasciatrice eh?» sottolineò Durza, facendo scivolare la parte piatta della lama sul mio collo e mantenendo salda la stretta del suo braccio intorno alla mia vita.
Ci mancava solo che quei soldati dicessero che ero la figlia della regina e per me era la fine..
Gli elfi pattugliarono con attenzione la zona, pronunciando un incantesimo luminoso dopo l’altro; uno di loro si affacciò addirittura nella grotta, ma non vi si inoltrò e non ci vide. Probabilmente perché lo Spettro continuava a bisbigliare complicati incantesimi per riflettere la luce e renderci invisibili e per creare una barriera che insonorizzasse l’area intorno a noi alle orecchie degli elfi, così che non sentissero i nostri respiri.
Le parole nell’antica lingua che pronunciava mi entravano da un orecchio e uscivano letteralmente dall’altro. Le capivo, ma erano inafferrabili.
Continuai a sperare fino all’ultimo secondo che qualcuno decidesse di sondare la grotta, ma era ormai ovvio che non lo avrebbero fatto.
Più di mezzora dopo ero tutta irrigidita per il freddo e la posizione scomoda, con la schiena premuta contro il petto dello Spettro, le mani ancora legate dalla corda e la lama del suo pugnale che continuava a scivolare minacciosa sulla mia pelle, pronta ad affondare nella mia carne al mio minimo tentativo di fuga.
Gli elfi si riunirono nuovamente in cerchio.
Quello che pareva il capitano parlò. «Qui non c’è nulla. È inutile inoltrarci ulteriormente nel territorio dell’impero, sarebbe rischioso. Recuperiamo i cadaveri di Fäolin e Glendwing, meritano una vera cerimonia funebre e una tumulazione decorosa».
«Dovremo riferire alla regina che lei è morta?»
«Sì, in effetti probabilmente è così».
«Ne soffrirà».
«Non ne sono così sicuro». Tirò le briglie del cavallo e lo voltò. «Torniamo a casa soldati!»
Poi se ne andarono nella direzione da dov’erano venuti, spronando gli animali a tutta velocità.
Un macigno mi scese sul petto. Ero perduta, abbandonata, sola.
Lo Spettro, alle mie spalle, rise sommessamente.
Lo odiai con tutta me stessa. Gli lanciai silenziosamente contro tutte le maledizioni che mi venivano in mente, a raffica, e se avessero funzionato, sarebbe morto sul colpo, senza bisogno di nessun coltello piantato nel cuore.
E subito dopo la rabbia, seguì la stanchezza, e poi l’impotenza.
Il pugnale si allontanò dalla mia pelle, lo Spettro sciolse la presa d’intorno a me.
Era la mia ultima possibilità.
Gli sferrai un calcio agli stinchi, ma lo schivò con assurda rapidità. Allora tentai di colpirlo in viso con entrambe le mani ancora legate, ma me le bloccò a mezz’aria. Provai a colpirlo con la testa, ma piegò fluidamente il collo di lato e si scansò.
Ero debole. Non mangiavo da giorni, il suo colpo nella radura e la scarica di energia di pochi minuti prima contribuivano alla mia stanchezza.
«Arrenditi» proferì trionfale.
Non ero fisicamente in grado di oppormi a lui, e non potei impedirgli di caricarmi sul suo cavallo e riprendere la corsa a Gil’ead.
Persistetti nel mio mutismo anche per tutto il viaggio fino alla città, nonostante la pressione della magia sulla mia gola fosse sciolta da un pezzo.
Avevo più vivida che mai l’immagine del corpo di Fäolin steso a terra, una freccia piantata nella carne, il petto immobile privo di respiro e le parole del capitano del manipolo mi rimbalzavano in testa.
«Dovremo riferire alla regina che lei è morta?»
«Sì, in effetti probabilmente è così».
«Ne soffrirà».
«Non ne sono così sicuro».

Era risaputo che io e mia madre non fossimo in buoni rapporti, anzi. Lei si aspettava che io mi dedicassi anima e corpo alla mia educazione e mi preparassi per diventare un’impeccabile regina. Io volevo agire.
Forse Islanzadi si sarebbe dispiaciuta di aver perso l’ultima esponente della sua famiglia. O forse no. Forse si sarebbe accontentata di adottare un successore a lei gradito e mi avrebbe dimenticata in fretta, sorseggiando infusi di erbe con il perfetto sovrano di cui tanto aveva bisogno come garanzia per il futuro.
A quel punto cosa mi rimaneva da fare? E cosa mi aspettava? L’espressione imperturbabile dello Spettro non tradì nulla delle sue precise future intenzioni.
Vittima degli eventi, lasciai che mi trascinasse a Gil’ead, senza tentare altre fughe disperate.


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Piccola parentesi..
So che tutti, nessuno escluso, immaginate Durza come lo hanno rappresentato nel film. Purtroppo io ho avuto la sfortuna di averlo visto solo dopo diversi anni dalla lettura di “Eragon” e ormai mi ero creata un’immagine dello Spettro tutta mia, che sono molto restia ad abbandonare a favore di quella del film.
Nel caso potesse aiutarvi, Durza l’ho immaginato molto simile al principe Nuada nel film “Hellboy II- the golden army”, Film che peraltro prende qualche spunto dall’originale leggenda irlandese in cui il Principe Nuada perse una mano in battaglia e se ne fece fare una nuova, d’argento. Da qui poi il nome di Airgetlám, cioè braccio o mano d’argento (Gli Spunti di Paolini vengono fuori).
Dunque Durza sarebbe fisicamente identico al principe Nuada (alto, muscoloso, pallidissimo, viso affilato) tranne per gli occhi e il colore e la lunghezza dei capelli.
C’è un disegno magnifico su Deviantart, chiamato “Faces of Alagaesia” di Trouble Train. Ha disegnato i principali personaggi del ciclo dell’eredità e il mio Durza è identico a come l’ha fatto lei.
Lo trovate qui -----> Faces of Alagaesia
Saluti a tutti! :)

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Capitolo 3
*** Vediamo di essere saggi ***


3. Vediamo di essere saggi

Gil’ead somigliava più ad una fortezza che a una città. Sorgeva su una zona rocciosa e aspra che si affacciava sul lago Isentar, era lontana dall’umidità del lago e facilmente difendibile, ma ciò non le impediva di essere ulteriormente protetta. Le mura di pietra erano alte, grigie e spesse, l’unico portone che dava accesso alla città era chiuso a quell’ora della notte e diverse guardie si aggiravano per i camminamenti, trascinando con loro grandi torce che creavano un curioso gioco di puntini luminosi in mezzo a tutta quell’oscurità.
L’ambiente era decisamente diverso da quello boschivo che ci aveva circondati fino al giorno prima. Il terreno era aspro e brullo e non riuscivo a capire di che cosa potessero mai vivere gli abitanti della zona, se non della pesca sul lago.
Lo Spettro emise un gemito di sollievo quando arrivammo in vista alle mura. Dopo che la guarnigione di elfi ci aveva raggiunti avevamo proceduto con calma, viaggiando solo di notte, senza nessun tentativo da parte sua di estorcermi altre informazioni.
L’unica parola che aveva pronunciato era stato un risicato: «Mangia», che aveva borbottato porgendomi un pezzo di pane rinsecchito. Non aveva nemmeno osato avventurarsi in una fattoria a comprare o rubare provviste e nemmeno ad accendere un fuoco per mangiare della selvaggina.
Durza non lo avrebbe mai ammesso, ma avevo capito che quell’interferenza da parte del mio popolo lo aveva inquietato. Non ci voleva un genio per capire che nemmeno uno Spettro avrebbe potuto fare molto contro venti-trenta elfi.
Ci fu un certo movimento quando ci avvicinammo al portone e qualcuno ci intimò il chi va là. A giudicare dall’oscurità totale che ci avvolgeva, era impossibile che ci avessero visti; dovevano avere uno stregone di ronda con i soldati che controllava il territorio circostante. Erano preparati a tutto.
«Brisingr» bisbigliò Durza e una fiammella comparve sul suo palmo, illuminandogli il viso cadaverico. «Sono Durza lo Spettro» disse poi.
Pochi istanti dopo il portone e la grata di ferro erano già spalancati.
Prima di varcarli Durza si assicurò che i capelli mi coprissero le orecchie. Da quello capii che la mia presenza non doveva diventare di dominio pubblico.
Un uomo piuttosto anziano con una lunga veste elegante si avvicinò al cavallo e si inchinò profondamente. «Bentornato mio signore. Desideri che qualcuno ti scorti fino alla fortezza?» I suoi occhi scivolarono su di me. «Devo incaricare qualcuno di occuparsi della prigioniera?»
Mi irrigidii contro il busto dello Spettro.
«Torna al tuo posto di guardia» si limitò a dire Durza, facendo frusciare le redini e spingendo il cavallo a proseguire al passo per le strettissime vie della città, circondate da case di pietra ammucchiate l’una sull’altra in maniera caotica.
Le strade erano lastricate e sul ciglio erano ammucchiati strati di spazzatura e anche qualche vagabondo a giudicare dai respiri che percepii. Incontrammo solo un altro gruppo di soldati di pattuglia che svanirono nel silenzio innaturale dopo un rapido, profondo inchino in direzione dello Spettro. Probabilmente c’era un coprifuoco che gli abitanti dovevano rispettare e quei soldati si impegnavano a mantenere l’ordine; non sapevo come spiegare altrimenti l’assoluta mancanza di rumori, se non quelli lievi dei respiri dei dormienti.
Era un ambiente ostile. E squallido.
Al centro della città di ergeva un secondo muro e dopo che Durza fu identificato venne aperto un secondo portone. Entrammo in un cortile ampio sul quale si affacciava una struttura in stile decisamente militare. Dopo una rapida occhiata dedussi che si trattasse di una caserma munita di dormitori e armeria, mentre la zona dall’altra parte del cortile doveva essere consacrata alle prigioni.
Rabbrividii. La neve non era ancora caduta in quella zona, ma la temperatura era bassa e le mie prospettive per il futuro lo erano ancora di più.
L’improvviso gelo alla schiena mi informò che Durza era smontato dal cavallo, privandomi del calore del suo corpo, che mi aveva suo malgrado fornito durante tutto il viaggio. Un istante dopo le sue mani mi afferrarono e mi trascinarono giù.
Uno stalliere si avvicinò e prese il cavallo in custodia, non prima che lo Spettro avesse slegato dalla sella le bisacce e le mie armi.
«Fai venire Hillr, subito» comandò freddamente. «Lo aspetto nelle prigioni sotterranee».
Durza si mosse con decisione in direzione della parte di edificio opposta all’ingresso da cui eravamo appena passati, trascinandomi con sé per il polsi, legati davanti a me ancora da quando avevo cercato di fuggire. Arrancai faticosamente dietro di lui. Negli ultimi giorni ero stata drogata e il mio ultimo pasto era stato un pezzo di pane duro come un sasso, ero parecchio debole in quel momento.
Lo Spettro bussò ad una porta robusta. Un uomo aprì lo spioncino e Durza si illuminò il viso con una sfera luminosa che era improvvisamente apparsa sul suo palmo. La porta venne immediatamente schiusa. Un lungo corridoio si aprì davanti a noi, ma Durza proseguì per una stretta e ripidissima rampa di scale che portavano nella più completa oscurità. Schioccando le dita tra di loro, accese una torcia sulla parete, illuminando un altro corridoio, solo più corto del precedente. Una quindicina di porte facevano capolino dalle fredde e umide pareti ricoperte da un sottile strato di muschio.
«Benvenuta nella tua nuova casa, Elfa».
Mi spinse dentro alla penultima porta del corridoio e mi liberò le mani, rivelando la pelle dei miei polsi rossa e scorticata dalla corda ruvida.
Strinsi gli occhi per abituarli all’oscurità e intravidi la sagoma di una branda di legno appesa al muro. Provai il fortissimo desiderio di stendermi e sprofondare nel sonno.
«Tieni». Durza mi lanciò in faccia la coperta di lana che avevo usato durante tutto il viaggio. «Verrò presto a farti visita, piccola Elfa». Sorrise, facendo brillare i denti aguzzi nell’oscurità e poi chiuse il pesante e massiccio portone di legno e ferro.
Le mie speranze si sgretolarono con il tonfo della porta. Volevo trovare un modo per uscire di lì, ma ero così stanca.. mi abbandonai sull’asse di legno e mi avvolsi nella coperta. Il mondo svanì nelle ombre dei miei sogni.

Poteva essere l’alba, come mezzogiorno. La mia cella era affacciata al livello del terreno del cortile con una piccola finestrella sbarrata, unica fonte di luce di tutta la stanza, ed era impossibile riuscire a giudicare quale fosse il momento del giorno basandosi solamente sulla luminosità che filtrava da essa.
La cella era piccola, buia, fredda, umida e puzzava di marcio e di chiuso.
L’unico arredamento consisteva nella branda di legno, la mia coperta di lana, un catino di acqua pulita e gelida posato a terra accanto alla porta e la latrina che occupava l’angolo opposto.
Il respiro di dieci uomini al di là del massiccio portone mi informava che lo Spettro aveva preso provvedimenti contro ogni mia possibile fuga. Le guardie erano immobili, si scambiavano solo qualche rara battuta e svolgevano con attenzione il loro compito: ogni tanto lo spioncino rettangolare dell’uscio veniva scostato e qualcuno controllava che non mi fossi mossa.
La porta era resistentissima e le sbarre della finestra pure. Ero gelata fino all’osso, ma mi girava anche la testa per la fame atroce che mi attanagliava le viscere.
Una manciata di ore dopo il mio risveglio dei passi delicati si avvicinarono alla mia porta, ci furono un paio di apprezzamenti da parte dei soldati per quella che doveva essere una cameriera, che rise civettuola, poi un vassoio di legno scivolò dalla bassa apertura sotto il portone e le mie narici si dilatarono sentendo l’inconfondibile odore del cibo. Sopraffatta dal mio istinto di sopravvivenza, mi gettai letteralmente sul piatto di zuppa di cipolla e il pezzo di pane che la accompagnava.
Solo quando ebbi finito di divorare tutto mi ricordai che io odiavo la cipolla, l’avevo sempre odiata. Ma la fame mi aveva accecata e niente aveva avuto più importanza.
Ed era stato un errore. Le parole nell’antica lingua continuavano a sfuggirmi e non mi ero neppure premurata di controllare che il cibo non contenesse droghe. Dovevo stare molto più attenta in futuro se avevo intenzione di sopravvivere il più a lungo possibile.
E a proposito di sopravvivere.. lo Spettro mi aveva promesso delle torture. Restai in allerta, in attesa di sentire il brivido che mi avrebbe attraversata con l’avvicinarsi di Durza e delle presenze oscure che lo accompagnavano.
Ma tre giorni dopo lo Spettro non si era ancora fatto vedere.
Avevo inciso nella parete delle linee bianche con un sasso chiaro ad indicare lo scorrere approssimativo del tempo, o altrimenti temevo che sarei impazzita.
I soldati si davano il cambio verso mezzogiorno e la sera, lasciandomi sola per poco più di una decina di minuti. Minuti che impiegavo per prendere inutilmente a spallate la porta.
La cucina non era variata di una virgola e io avevo cominciato ad apprezzare la cipolla. Non capivo come potesse lo Spettro bloccare la mia magia senza drogare il cibo; avevo controllato attentamente, ma non avevo percepito nessun odore traditore. Una notte provai anche a restare sveglia a fingere di dormire per controllare se qualcuno entrasse nella cella durante la notte per farmi ingerire qualcosa nel sonno, ma l’unico suono era quello dello spioncino aperto ogni tanto e il chiacchiericcio pigro degli uomini.
Le altre notti dormii. E ricordi di Fäolin popolarono le mie visioni, smuovendo in continuazioni le braci ancora ben calde del dolore e del vuoto atroce che la sua morte avevano lasciato in me. Potevo fingere di essere abbastanza forte da poter avere già superato la sua dipartita, ma sapevo che prima o poi gli argini della mia sofferenza avrebbero ceduto. E io non sarei stata pronta a nuotare contro la tristezza che si sarebbe riversata in me.
Mi sentivo terribilmente sola e impotente, tagliata fuori dal mondo e dai suoi eventi, ignorante di tutto ciò che stava succedendo fuori dalla tana del lupo. Lo Spettro poteva benissimo avere individuato Brom nel frattempo e essersi impossessato dell’uovo senza che io non ne sapessi niente. Senza contare che c’era anche la possibilità che quella a Gil’ead fosse solo una tappa, e che la meta finale fosse Uru’baen.
La sensazione di attesa e ansia si fece così pesante da parere quasi palpabile.
            Ma proprio quando mi ero ormai rassegnata a quella situazione, ci fu una svolta.
Probabilmente era sera, ma non avrei mai saputo dirlo con certezza assoluta.
L’improvviso rumore di ferraglia fuori dalla porta mi fece intendere che stava per succedere qualcosa. Mi alzai di scatto dalla branda, piantandomi saldamente sui piedi in mezzo alla stanza.
Una chiave girò rumorosamente nella toppa e la porta si aprì cigolante su cardini mai oliati.
Il fascio di luce che entrò mi accecò totalmente e impiegai qualche secondo prima di identificare le figure che avanzavano.
Fu come se la mia mente riprendesse improvvisamente a funzionare dopo un lungo periodo di letargo.
Tre uomini grandi e grossi erano entrati nella stanza, le fiamme dorate ricamate sulle casacche rosse ad identificarli come soldati dell’impero. Esibivano espressioni di sufficienza, quasi tranquille. Dedussi che non sapevano cosa veramente io fossi e non ritenevano che io potessi essere in grado di nuocere a nessuno di loro. Potevo benissimo apparire una donna umana dai lineamenti molto particolari.
Stupido da parte tua non informare i tuoi uomini, Spettro.
Mi piegai sulle ginocchia e spiccai un balzo fulmineo, assestando un calcio deciso al viso dell’uomo più vicino. Il malcapitato cadde a terra stringendosi il naso fratturato, mentre i suoi compagni si aprivano in esclamazioni di sorpresa.
Fu fin troppo semplice. Prima che riuscisse a fare una qualsiasi mossa, piantai una gomitata nello stomaco del secondo uomo, gli sfilai la spada dalla fodera che portava a cintura e colpii l’altro al petto.
Con la lama che lasciava una macabra scia di sangue, mi affrettai all’uscio, varcandolo senza esitazioni.
Mi guardai rapidamente intorno. Su un piccolo tavolino vicino alla scaletta dalla quale mi aveva trascinato Durza -la notte del nostro arrivo- giacevano la mia spada e il mio arco. Corsi verso le scale.
Nello stesso istante un soldato alto scese rapidamente i gradini. Mi slanciai impulsivamente verso di lui, ben intenzionata a colpirlo, riprendere la mia roba e darmela rapidamente a gambe.
Solo quando fui veramente vicina notai un paio di particolari.
L’aria intorno a lui sembrava essere più gelida e pesante. Non indossava nessuna casacca con la fiamma, ma solo pantaloni neri, lucidi stivali neri e un pesante mantello nero. E aveva i capelli rossi.
«Letta».
Una forza invisibile mi bloccò a mezz’aria e, per quanto tentassi di muovermi, non un solo muscolo obbedì ai miei comandi.
Durza alzò gli occhi su di me, lentamente.
«A quanto pare io e te non ci capiamo, Elfa» ringhiò, scoprendo i denti aguzzi.
I suoi occhi cremisi parevano mandare lampi. Li vidi impregnati di un odio e una rabbia arcani, che mi fecero pentire immediatamente di aver tentato la fuga.
Fu quello il momento scelto dai soldati per uscire dalla mia cella e gettarsi al mio improbabile inseguimento.
Si fermarono non appena notarono la scena, sbigottiti.
Erano solo in due.
«Incapaci!» li riprese Durza.
I due chinarono il capo, come due bambini sorpresi a rubare le croste di miele dalla dispensa.
«Bastof?» domandò poi seccamente.
Parlava dell’altro uomo, quello che avevo colpito al petto.
I due si lanciarono un’occhiata incerta. «È morto, mio signore» sussurrò uno.
Lo Spettro annuì lentamente. «Deya» disse poi.
I soldati caddero a terra senza un grido, i battiti dei loro cuori arrestati.
Se all’inizio avevo provato una sorta di gioia perversa nel sapere che almeno uno di quei maledetti era passato a miglior vita, in quel momento ero semplicemente sconcertata.
Aveva freddato i suoi uomini. Senza alcun valido motivo.
Un terrore gelido si insinuò dentro di me. Ero nelle mani di un pazzo assetato di sangue.
Con una brusca torsione del polso, lo Spettro interruppe l’incantesimo che mi fermava a mezz’aria. Caddi a terra, atterrando come un gatto e la lama fu sbalzata dalla mia presa un istante dopo.
Le altre guardie uscirono da una porta in fondo al corridoio e, alla vista dei compagni morti, si bloccarono sul posto come statue di pietra.
«Andiamo a fare due chiacchiere» sibilò lo Spettro nella mia direzione.
Mi strinse per il colletto della giubba, strattonandomi nel corridoio. Superò impassibile gli uomini che facevano ala intorno alla porta nera e mi ci spinse dentro.
«Fate sparire quei tre» ordinò seccamente. «E quando esco di qui non voglio nemmeno vedere l’ombra di sangue».
Si sbatté l’uscio alle spalle.
Gettai un’occhiata alla stanza con pareti e pavimento di pietra grigia, come la mia cella. Un grande tavolo di pietra ne occupava il centro, affiancato da un braciere spento. In un angolo giacevano fruste di vario genere e catene di ogni sorta facevano capolino dal muro e dal soffitto. Un armadio malandato, di legno scuro e marcio, giaceva contro la parete. Chiuso. Non volevo nemmeno pensare a cosa avrei potuto trovare lì dentro.
Incrociai le braccia sul petto, quasi a difendermi. Quella era una tipica stanza delle torture. Ne avevo vista una simile a Tronjheim, anche se non avevo mai voluto assistere a torture di alcun genere. Non mi era mai piaciuto fare soffrire gli altri, semplicemente a volte era necessario.
Una grande mano fredda si strinse sul mio mento. Durza mi scrutò a lungo, mentre io trovai improvvisamente difficile staccare lo sguardo dalle sue iridi rosse, magnetiche e spaventose insieme, sembravano fuoco liquido. O una pozza di sangue.
«Non sei stata molto gentile, piccola Elfa» disse.
Stritolandogli il polso, mi staccai dalla sua presa.
Alzò un sopracciglio. «Ti aspetta di molto peggio, Elfa. Intanto..», con un gesto fulmineo estrasse il pugnale dalla cintura e recise i lacci della mia giubba, «..questa la prendo io».
Rabbrividii per il freddo quando l’indumento scivolò dalle mie spalle.
«Sei una donna» ovviò. «La tua razza è solita mandare giovani fanciulle in missioni di cruciale importanza come la tua?»
Non risposi.
Lo schiaffo che schioccò sulla mia guancia fu talmente inaspettato e violento che quasi caddi a terra.
«Rispondimi» sillabò Durza.
Resistetti alla tentazione di portarmi una mano al viso, dove la carne pulsava e persistetti nel mio mutismo.
Lo Spettro ringhiò come un animale feroce, per poi afferrarmi per i capelli e tirarmi nella stanza insieme a lui. Mi divincolai furiosamente mulinando braccia e gambe per rendergli il più difficile possibile l’intento, qualunque esso fosse. Le mie unghie indecentemente mangiucchiate scivolarono sulle sue guance senza riuscire a procurargli alcun dolore e, forse per la prima volta in tutta la mia vita, mi pentii di non avere mai dato retta a mia madre, quando mi faceva ungere le dita con un olio dal sapore amaro affinché non le mangiassi e mi ricordava che le unghie così ridotte erano ineleganti per una fanciulla. Le avevo sempre ritenute frivolezze. In quel momento capii che mi sarebbero state utili.
Morsi con forza la mano che mi ritrovai sul viso e un’imprecazione oscena riempì la stanza.
Una gomitata alla nuca mi stordì. Prima di riuscire a rendermi conto di cosa fosse successo mi ritrovai distesa supina sulla gelida lastra di marmo, i piedi incatenati in fondo al tavolo. Lo Spettro mi incatenò a forza anche le mani, sopra la testa.
Durza sorrise sinistramente. «Vediamo di essere saggi, piccola Elfa» disse dolcemente.
Poi parlò. Parlò per quelle che mi parvero ore. E forse furono veramente tali. Parlò con voce fredda e insieme suadente e melliflua. Pericolosamente seducente.
Mi fece promesse e mi diede garanzie, se solo in cambio gli avessi offerto la posizione della pietra.
Non volevo nemmeno ascoltarlo, cercai con tutta me stessa di pensare a qualunque altra cosa per ignorare le sue parole. Ma la voce che la natura gli aveva donato non poteva essere ignorata, era profondamente convincente, così come le argomentazioni che mosse a suo favore.
Dovetti concentrarmi con tutta me stessa sull’immagine di Fäolin e Glenwing stesi a terra nel loro sangue per ricordarmi che l’uomo che camminava con disinvoltura intorno a me, elencandomi tutti quelli che parevano ottimi motivi per cedere alle sue richieste, era lo stesso mostro che li aveva brutalmente strappati alla vita. E che avrebbe fatto lo stesso con me non appena avesse ottenuto ciò che desiderava.
Mi focalizzai sui miei principi e i miei obbiettivi per resistere alla tentazione di credere a ciò che prometteva e mettere fine a quella prigionia che già mi tormentava all’inverosimile, e per non iniziare le torture che certamente mi sarebbero spettate.
E ci riuscii. Mantenni un perfetto controllo di me stessa e delle mie emozioni.
Quando Durza si fermò al mio fianco ed estrasse nuovamente il pugnale fui certa che il tempo delle parole fosse finito.
«Ora facciamo sul serio» sussurrò. La sua voce riprese una nota minacciosa. «Puoi decidere se risparmiarti qualche sofferenza e parlare subito, oppure dare il via ad una lunga, dolorosa catena di torture, che non verrà interrotta finché non otterrò le informazioni che mi servono o fino a che tu morirai».
Gli regalai l’ombra di un sorriso beffardo.
Non avrei mai parlato. A costo di morire in quello stesso istante, non sarei stata a meno dei miei compagni, che avevano offerto la vita senza esitazione di fronte al pericolo. Ero stata scelta come custode tra tutti gli elfi candidati per il valore e la fermezza che avevo dimostrato. Dopo quindici anni, era giunto il momento di sfruttare quelle mie capacità.
Il braciere era spento, ma a Durza non serviva il fuoco per arroventare il pugnale. «Brisingr» soffiò.
Il metallo rosseggiò e io chiusi gli occhi.
            Mi analizzai i palmi, nella luce incerta proiettata dalle torce del corridoio.
Una sensazione di nausea mi chiuse lo stomaco. I miei polsi erano ancora segnati dalle piaghe delle corde e le mie mani erano coperte di ustioni. Un lieve sentore di carne bruciata aleggiava intorno a me.
Povera me!
Lo Spettro mi stava scortando nuovamente fino alla mia cella. Aveva appena terminato la prima sessione di torture della mia vita, che si era però conclusa invano.
Non avevo aperto bocca, nemmeno per gridare, ma le mie labbra erano scorticate a sangue per ogni istante che avevo passato a morderle per non emettere suono e le mie membra erano scosse dalla tensione dei muscoli, che avevo tirato nel disperato tentativo di arginare il dolore che la tortura mi provocava.
Durza non si era dimostrato particolarmente soddisfatto del mio comportamento.
«Ho intenzione di cancellare dai tuoi occhietti verdi quel luccichio di sfida che porti. E stai certa che ci riuscirò. Non ho alcuna fretta, Elfa, non è il mio il corpo che verrà massacrato» aveva detto.
E non mi sembrava un uomo dalle vane promesse.
Una volta nella mia cella, constatai che era sera e che si stava facendo sempre più freddo di giorno in giorno. E che la mia giubba mi sarebbe stata veramente utile. Afferrai cautamente la coperta adagiata sull’asse di legno che fungeva da letto, troppo vicino alla finestra e al gelo notturno perché io potessi pensare di dormirci. Ma la stoffa era troppo sottile perché riuscisse a ripararmi dal freddo e il pavimento di pietra troppo gelido perché io potessi resistere per delle ore lì distesa. Però se premevo le mani sulla pietra, le ustioni facevano meno male.
Avvolgendomi stretta nella coperta e rannicchiandomi su me stessa per salvare un po’ di calore, mi abbandonai al mio breve sonno vigile.
Faölin mi guardava con gli occhi sgranati e vuoti di chi non è più cosciente. Ma le labbra mortalmente pallide di lui si muovevano comunque, in mute parole che non riuscivo a capire.
«Cosa c’è?» domandavo.
Ma lui pareva non volermi ascoltare, continuava a parlare febbrilmente, agitato, nonostante io fossi sempre sorda alla sua voce.
I miei occhi si spalancarono nel buio, il suono affannato del battito del mio cuore rimbombò cupamente per la stanza spoglia. Un sogno. Era solo un sogno.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Quel sogno mi aveva sconvolta.
E Fäolin.. oh Fäolin!
Ingoiai l’inquietudine insieme alle lacrime. Non era il momento di essere debole, non potevo proprio permettermelo.
Mossi lentamente le mie membra intorpidite dal gelo e presi a passeggiare su e giù per la mia cella, per scaldarmi. Fuori dalla robusta porta, quattro guardie chiacchieravano pigramente tra di loro, a bassa voce. Lo Spettro doveva aver ritenuto inutili altre misure di sicurezza.
«Deve essere stata lei per forza».
«Ti dico di no. Li ha uccisi il padrone, l’ho visto io, ha bisbigliato qualcosa e loro zac! Stesi a terra stecchiti!»
«Bastof lo ha ucciso lei, aveva una spada insanguinata in mano e lui era stato colpito al cuore».
«Come avrà fatto ad avere la meglio su tre uomini come loro?»
«Non lo sapremo mai».
«Non è che..» la voce si fece esitante. «E se sa usare la magia? E se è una di quelli? Gli elfi».
Due persone sussultarono, la terza rimase senza fiato.
«Può anche essere che hai ragione».
«Un’elfa! Sono delle cose pericolose gli elfi. Scambiano i bambini alla nascita, avvelenano le fonti, portano le malattie. Sono oscuri».
«Come il padrone?»
«No, il padrone lo è molto di più. Non ha cuore quello, ha ucciso tanta di quella gente che non si ricorda nemmeno lui».
«Non parlare così forte! Potrebbe sentirti! Lo sai che lui sente tutto».
Tacquero.
Sciocchi superstiziosi. Il paragone tra spettri ed elfi non era nemmeno proponibile! Erano diversi come il giorno e la notte.
Tentai di usare la magia, invano. Battei una mano contro la parete per l’ira. Mi si rovesciarono gli occhi. Dannazione, i miei palmi erano ricoperti di ustioni!
Finii per accasciarmi sulla branda, concentrandomi sul lento pulsare delle mie mani ferite.

A circa metà giornata la solita cameriera che camminava con leggerezza, portò il vassoio di legno con la zuppa di cipolla, un pezzo di pane e un bicchiere d’acqua. Non sembrava che ci fossero droghe di alcun genere, ma per esserne certa, non mangiai. Ero stanca di sentirmi così incapace. E non ricordare la mia lingua madre mi faceva sentire vulnerabile; era il momento di dubitare di tutto.
A fine giornata venne lo Spettro.
«Come vanno le mani?» domandò con palese sprezzo.
Ritenni inopportuno controllare la situazione della mia pelle ustionata di fronte a lui, ma non doveva essere certamente in condizioni ottimali.
«Lasciami andare».
La mia voce fu un soffio flebile, come se in quei giorni avessi disimparato a parlare.
Gli occhi cremisi dello Spettro si sgranarono lievemente. «Parli» constatò.
Gli scoccai uno sguardo di sufficienza.
Durza rise freddamente, avvicinandosi di qualche passo. «Quando mi dirai ciò che voglio sapere».
«Faresti prima ad uccidermi ora» lo informai.
Piegò le labbra crudeli in un sorriso di scherno. «Troppo facile».
«Da me non uscirà una parola» sibilai.
«Quello di ieri era un assaggio, Elfa. La portata delle torture è piuttosto varia e io non ne disprezzo nessuna».
Aprii e chiusi spasmodicamente i pugni, nervosa.
«Privarti di acqua e cibo è una mossa poco intelligente» aggiunse Durza, lentamente.
Mi feci attenta. Avevo rovesciato la zuppa e l’acqua nel canaletto di scolo della latrina della mia cella, lui che ne sapeva?
«Fossi in te mangerei, diventerai debole già di tuo con quello a cui ti sottoporrai con la tua stoltezza. E non preoccuparti, il tuo cibo non è drogato. È ovvio che un elfo capirebbe subito se una zuppa contiene qualche ingrediente in più.. No, ho semplicemente incaricato qualcuno di gettare un pugno di polvere dalla tua porta. Inodore e pressoché invisibile, comprensibile che ti sia sfuggito» concluse con maligna condiscendenza.
Certamente non potevo smettere di respirare. Ma possibile che non mi fossi accorta di niente?
«Tuttavia», riprese lui, «la prudenza non è mai troppa dico bene?»
«Hai intenzione di incatenarmi alla parete?» la mia voce assunse il giusto tono di sarcasmo. «Non avrai paura di me Spettro..»
Assottigliò gli occhi. «Nemmeno Galbatorix conosce a fondo la magia degli elfi, o almeno non ancora. Non ho intenzione di lasciarti fuggire tanto facilmente. Avrai l’onore di sostenere con le tue stesse energie un trucchetto che elaborai diversi anni fa».
Mi ritrassi.
«Abbi almeno la compiacenza di accettare il mio dono» protestò il mio nemico, tendendomi una mano.
Avrei voluto scappare in direzione opposta alla sua, ma il fatto che all’improvviso le membra non mi rispondessero non fu particolarmente d’aiuto.
Tenendomi bloccata sul posto con l’incantesimo immobilizzante, Durza mi si avvicinò e mi afferrò la mano sinistra, facendo scivolare un cerchietto di metallo nel mio dito indice. Restò qualche minuto immobile in quella posizione, pronunciando un lungo incantesimo nell’antica lingua, il cui significato mi sfuggì mano a mano che continuava a pronunciarlo.
«Non ti donano le ametiste» disse poi, lasciandomi andare.
Retrocedetti rapidamente di qualche passo, prima di studiare il monile che si era stretto intorno al mio dito. Era una semplice fascia d’argento, con piccole ametiste quarate incastonate nel metallo. Un lieve, minaccioso bagliore violetto scintillò con prepotenza nel buio della mia cella.
La mano mi tremò. Cercai disperatamente di sfilarmi l’anello, ma non riuscii a muoverlo di un soffio.
«Non si toglierà» mi informò Durza, lapidario.
«Cos’è?» domandai con voce rauca.
«Un anello, mi pare» rispose prontamente.
«Cos’è?» ripetei, a voce più alta.
«Diciamo solo che le pietre hanno una particolare funzione che ti lascerò scoprire da sola». Sorrise, scoprendo i suoi agghiaccianti denti da felino. «A tue spese».
Mi sforzai di mantenere la calma fisica e mentale. Che quell’anello servisse per confondere la mia conoscenza dell’antica lingua come avevano fatto le droghe?
«Allora Elfa» la voce gelida dello Spettro mi distrasse. Durza estrasse un pugnale dalla cintura e, dopo averlo fatto volteggiare in aria un paio di volte, lo alzò al livello del mio naso. «Hai intenzione di cambiare idea?»
Alzai il mento e avanzai di un paio di passi. La lama mi sfiorò la guancia in una piccola ferita superficiale.
Un’ombra di stupore deformò il viso dello Spettro, ma si affrettò a farla sparire.
«Sei coraggiosa» abbassò l’arma. «Bene, vedremo per quanto».
Con le mani incatenate sopra la testa e il gelo del tavolo di marmo contro la schiena, non potei fare nulla mente Durza arrotolava con calma le maniche larghe della mia camicia fino quasi alle spalle.
Restai impassibile mentre lo Spettro incideva profondi, regolari tagli sulla pelle. Sfuggii faticosamente alla realtà che mi circondava, rifugiandomi nei meandri della mia mente, tra i piacevoli ricordi delle giornate passate nei giardini di Tialdarí con Fäolin.
Mi era ovviamente capitato di essere ferita in altre occasioni della mia vita, ma era sempre stato un dolore breve, che mi ero sempre affrettata a fare sparire con un paio di parole di magia.
Arginare tutta quella sofferenza fu più difficile del previsto e mi lasciò sfiancata.
Quando Durza ripulì la sua arma dal sangue, sfregandola sui miei pantaloni di pelle, le mie braccia erano una selva di tagli paralleli, come le branchie di uno strano pesce e nutriti rivoletti di sangue scivolavano su di me fino a sporcare il marmo su cui ero distesa.
La mia vista era appannata per l’ingente perdita di sangue e, quando lo Spettro lasciò andare il braccio per il quale mi aveva trascinato fino alla mia cella, per poco non caddi a terra.
Riuscii a barcollare fino alla branda di legno e ad accasciarmi inerte, mentre un'improvvisa sensazione di bollore mi invadeva, accompagnata dalla nausea. Rimasi lì distesa per ore, senza la forza né per stare in piedi, né per ripulire i tagli con l’acqua gelida della tinozza che giaceva accanto alla porta.
Ringraziai il freddo che affievoliva le mie sensazioni e rendeva più sopportabile tutto.
Dovevo resistere. Per la mia Alagaësia, per Glenwing, per Fäolin, per tutti i morti che Galbatorix aveva provocato, per le troppe ingiustizie che ancora tutte le razze subivano sotto il suo regno..
Mi resi conto di essermi addormentata solo quando mi risvegliai, aprendo gli occhi sul soffitto grigio e macchiato di umidità.
Il sangue che imbrattava le maniche della mia camicia nera era secco e la stoffa leggermente appiccicata alla pelle.
Mi affrettai a sollevare le maniche prima che le ferite si saldassero con l’indumento.
E nello stesso preciso istante ricordai la formula che mi avrebbe permesso di guarirmi. Improvvisamente eccitata per la scoperta, attinsi alle mie energie e feci per pronunciare l’incantesimo.
E ci riuscii.
Eccome se ci riuscii.
Peccato che non appena finii di parlare, un dolore bruciante si diffuse in tutto il mio corpo, recidendo ogni mia capacità di concentrazione e lasciandomi a contorcermi a terra.
Maledissi Durza con una passione e un trasporto non indifferenti.



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Piccola nota:
Le ametiste sono lo stesso tipo di pietre stregate che Eragon incontrerà a Dras-Leona in Inheritance, quando lui e Arya verranno imprigionati dai Sacerdoti dell'Helgrind. In quel caso un cerchio di ametiste bloccherà i loro poteri, l'anello è una variante elaborata da Durza per sopprimere i poteri di Arya.

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Capitolo 4
*** Paura ***


4. Paura

I giorni si susseguirono con lenta e macabra monotonia.
Persi la concezione del tempo in maniera totale. Le tacche che avevo iniziato ad incidere sul muro erano ormai abbandonate da un pezzo, l’unica mia fonte di scansione del passare delle ore era il cambio della guardia, alla sera e verso il mezzogiorno.
La neve era giunta anche a Gil’ead e il cortile sul quale si affacciava la mia cella ne era rimasto velato per una notte intera. Ma poi il marciare dei soldati sul terreno aveva ridotto il manto candido ad un lago di fango.
Tolta la poesia del biancore della neve, mi restarono solo le sue conseguenze. Quindi il freddo che filtrava dalla piccola finestrina era aumentato, anche se non ero più tanto sicura che fosse più caldo dentro che fuori.
Ogni istante della mia vita era accompagnato da un eterno, totale e soverchiante senso di terrore.
Sapevo che quando passi lenti e leggeri scendevano le scale, il mio tormento stava per iniziare.
E quando lui si affacciava alla porta della cella, il panico si faceva così forte da rischiare di sottomettermi alla sua follia.
Durza mi trascinava con malagrazia fino alla porta nera della stanza delle torture, mi portava dentro e mi bloccava sul tavolo.
E poi parlava. A lungo.
Il tono carezzevole e mellifluo della sua voce era letale e pericoloso. E di giorno in giorno sempre più pericolosamente attraente.
«Si tratta di poche parole, piccola Elfa. Dimmi dov’è e finirà tutto. Non vuoi tornare a casa tua? Tra gli alberi, i canti, la pace? Non farai del male a nessuno, vedrai. Non darò al re nessuna informazione che possa nuocere ai Varden o alla tua specie, te lo prometto. Nessuno potrà biasimarti per le tue azioni, sei stata brava, sei stata coraggiosa. Ma adesso arrenditi, la tua resistenza non porterà a nulla se non a farti del male. Aiutami e saprò come ricompensarti».
Resistere a tutto quello era sempre più difficile, specialmente se avevo la piena consapevolezza che alle maniere gentili sarebbe subito seguita la violenza.
Quando Durza smetteva di camminare intorno a me, stanco di parole, ero sempre totalmente fradicia di sudore gelido. La prova concreta della mia paura. Era un sentimento che era ormai fuggito al mio controllo, spinto fuori dagli angoli più reconditi della mia coscienza, giorno dopo giorno, ferita dopo ferita.
Lo Spettro si era premurato di raggiungere con il ferro rovente e con la lama dei suoi pugnali, la maggior quantità possibile di pelle.
E mi aveva spogliata.
Era stata una delle esperienze più umilianti della mia vita. Durza aveva tirato i lacci della mia camicia nera con lentezza, guardandomi con freddo disinteresse, come se per lui non fossi altro che un ennesimo animale da mandare al macello.
«Spettro c-cosa..?» avevo balbettato, spaesata dalla sua azione, e muovendo le braccia incatenate nel vano tentativo di fermare l’opera delle sue dita agili.
Il mio nemico era scoppiato a ridere, una risata forte e piena, di gola. Non pensavo che gli Spettri avessero la capacità di ridere in quel modo.
«Non vedo il motivo della tua vergogna», aveva poi detto, sollevandomi la camicia, «il tuo è il corpo di un guerriero, ti fa onore». Le sue dita gelide avevano percorso l’orlo della fascia di stoffa che mi copriva il seno. «Questa potrei concederti di tenerla».
Avevo girato il capo di lato, con gli occhi lucidi per l’umiliazione e la vergogna di essere così esposta sotto lo sguardo indagatore di un mostro.
Le mie labbra erano spaccate per tutte le volte in cui ci avevo affondato i denti, nel faticoso tentativo di trattenere un qualsiasi lamento, le palme delle mie mani non erano graffiate solo perché le mie unghie erano troppo corte per riuscire ad affondare nella mia carne. Al termine di ogni tortura il mio corpo tremava violentemente per la tensione dei muscoli, che mantenevo per arginare il dolore.
Quando nella parte superiore del mio corpo non ci fu letteralmente più spazio per altre ferite, i pantaloni di pelle fecero la stessa fine della camicia e anche in quel caso Durza mostrò la decenza di lasciarmi almeno addosso le corte brache che portavo sotto.
A quel punto ogni singolo pollice della mia pelle era devastato da graffi, ustioni e ferite che avevano a malapena il tempo di smettere di sanguinare, che già ero nuovamente nelle mani assassine di Durza, per ricominciare daccapo. Talvolta doveva guarirne alcune per impedirmi di morirne o per potere procurarmele di nuovo.
Quanto tempo passava tra una sessione di tortura e un’altra? A me non parevano altro che pochi minuti.
Quanto tempo passava mentre ero distesa sul tavolo di pietra? Ore. Giorni. Settimane. Mesi. L’eternità.
Il malefico anello di ametiste violette era ancora attaccato al mio indice con un’ostinazione incredibile, sicuramente dovuta alla magia dello Spettro. Il bagliore violetto che emanava anche nella totale oscurità era un perenne monito. Era come avere sempre una parte di Durza con me. E non era piacevole.
Avevo provato di tutto, compreso sbattere la mano contro il muro, avevo cercato di farlo scivolare via con l’acqua, avevo cercato di rompermi l’osso. Ma con il solo risultato di scatenare l’ilarità del mio carceriere quando se n’era accorto.
«Credo che cominciare a credere alle mie parole sarebbe più.. salutare per la tua persona» aveva detto, spostandomi il dito rotto.
E poi me lo aveva aggiustato con un incantesimo.
«Non lo farò una seconda volta» mi ammonì.
Lo odiavo.
Non avevo mai odiato nessuno così tanto quanto odiavo lui.
Durza era spaventoso. Sembrava che la natura avesse voluto scherzare con lui.
Non mi piacevano i suoi capelli rossi.
Non mi piaceva il modo in cui i suoi occhi da gatto apparivano sempre divertiti da ogni mio comportamento e pronti a cogliere ogni mia reazione non appena me ne fossi lasciata sfuggire una.
Non mi piaceva la smorfia divertita che avevano sempre le sue labbra crudeli e pallide, come se farmi del male fosse qualcosa da cui trarre divertimento.
Non mi piaceva il suo naso aquilino, che gli dava l’aria di un rapace pronto ad attaccare.
Non mi piaceva il tono pericolosamente gelido della sua voce.
Mi venne la tosse per il gelo. E poi la febbre per gli sforzi a cui il mio fisico era sottoposto.
Ogni movimento minimo scatenava dolori in ogni terminazione delle mie membra.
E intanto i giorni passavano e le torture continuavano..

«Dove hai mandato la pietra?»
«Come ti chiami?»
«Dove si trovano gli elfi?»

La voce era quella morbida e modulata di Fäolin, ma le domande erano le stesse che mi rivolgeva lo Spettro ogni giorno.
E dopo una lunga insistenza Fäolin sussurrò: «Resisti. Verrò a prenderti».
Per poi sparire.

Mi svegliai, sudata fradicia.
Oltre la porta, il respiro regolare e tranquillo dei quattro uomini appostati davanti alla mia cella, parve quasi innaturale.
Mi alzai a sedere e rabbrividii. Poi tossii. Ripetutamente. Fino a che una lancia non batté sulla mia porta per intimarmi il silenzio.
Nonostante le sofferenze delle torture fossero per me nuove e molto sentite, quasi la stessa sofferenza era data dalla noia e dall’inerzia. Gli elfi erano famosi per la loro infinita pazienza, caratteristica che condividevano con i draghi, ma io ero la famosa eccezione alla regola.
Gli uomini avevano una vita molto breve e quindi tendevano a sfruttarne al massimo ogni singolo istante, gli elfi invece, incorruttibili nella carne, avevano a loro disposizione una vita lunghissima e quindi non conoscevano l’affanno e l’impazienza.
Forse io, dopo tutti quegli anni passati tra gli uomini, mi ero lasciata condizionare dal loro modo di vivere, o forse era semplicemente il fatto che la mia vita fosse pericolosamente in bilico. Non sapevo per quanto lo Spettro avrebbe sopportato la mia insistenza, ma di sicuro non per sempre. E quando si sarebbe rassegnato mi avrebbe uccisa.
E, nonostante fosse ovvio che quello era il mio destino, non riuscivo ad accettarlo.
Ma del resto, se non ce l’aveva fatta Fäolin perché avrei dovuto farcela io? Era sempre stato così, se falliva uno, falliva l’altro. Sempre. Da quando ero bambina. Perché quella volta sarebbe dovuto essere diverso?
La mia solitudine fu interrotta da voci sommesse, provenienti dalla ripida scaletta che portava alle prigioni. Una la riconobbi immediatamente come quella di Durza, l’altra era così bassa che non riuscii nemmeno a distinguere se si trattasse di una donna o di un uomo.
Durza congedò il suo interlocutore con evidente irritazione: «Non ti voglio vedere mai più girare qui intorno, sono stato chiaro? Sparisci» ordinò gelido.
Poco dopo i soldati aprirono la porta della mia prigione, lasciando filtrare un cono di luce emesso dal braciere che usavano per scaldarsi, e che mi accecò.
Senza nemmeno intimarmi di uscire o di arrischiarsi a mandare uno dei suoi soldati a prendermi, lo Spettro entrò, mi afferrò per i polsi, e mi trascinò per il corridoio, fino alla porta della stanza delle torture. Mantenne uno sguardo assorto, assente e rabbioso per tutta la durata del breve tragitto. Sembrava preoccupato.
Ma quello non gli impedì di tenermi saldamente mentre mi divincolavo disperatamente nel vano tentativo di fuggire al mio supplizio giornaliero.
Durza mi trascinò in un angolo della stanza delle torture, lontano dal solito tavolo di marmo e tirò i lacci della mia camicia bruscamente, senza troppe cerimonie.
Praticamente nuda sotto i suoi occhi, incassai le spalle e feci scivolare i miei capelli lunghi fino quasi alla vita in avanti, a coprirmi. Ero terrorizzata e dovetti fare uno sforzo immane per non tremare.
Cosa aveva intenzione di fare?
Lo seppi quando lo Spettro mi annodò i capelli sporchi sulla testa con un laccio di cuoio e mi incatenò con il viso rivolto alla parete.
Uno schiocco sordo riempì l’aria.
Una frusta.
Chiusi gli occhi e digrignai i denti così forte da farmi male alla mascella.
Contai fino a cinquanta frustate, sentendo il sangue caldo che mi scorreva sulle gambe, poi la vista mi si annebbiò, ma lo Spettro non pareva intenzionato a fermarsi. Non ebbe la minima pietà, pareva semplicemente aspettare che io mi arrendessi. Cercai rifugio nelle profondità della mia mente, ma il dolore era così forte che mi trascinava sempre brutalmente alla realtà.
Quella fu la prima volta che gridai fino a sputare sangue.
Poi svenni.

Riaprii gli occhi con la sensazione che qualcosa mi avesse strappato la carne della schiena a morsi. E forse era veramente così. Con un gemito, mi tastai il dorso. Ero nella mia cella, distesa sulla pancia sull’asse di legno che era il mio letto. Le mie dita toccarono profonde scanalature nella mia carne, ma mi affrettai a ritrarle perché erano dolorose in maniera indicibile.
Con fatica, mi alzai in piedi. Barcollai.
Davanti a me c’erano la mia camicia e i miei pantaloni, gettati con noncuranza a terra. Li raccolsi, rendendomi conto di stare tremando convulsamente. C’era qualcosa che non andava.
Mi bruciava la nuca e i miei sensi erano in massima all’erta. I miei occhi guizzarono lungo le pareti della cella e poi verso la porta.
Dalla finestra dello spioncino, un grande occhio dall’iride bianca mi scrutava nel buio.
Gridai e caddi nuovamente a sedere sul letto, terrorizzata da quella visione agghiacciante.
L’uomo proprietario dell’occhio non si scompose, sempre che si trattasse di un uomo in effetti. Aguzzando le orecchie, scoprii con orrore che non percepivo il respiro di quella cosa, e tanto meno il battito del cuore. Quell’occhio pareva essere sospeso nel vuoto, avrebbe potuto essere finto se solo la palpebra, ornata di lunghe ciglia, non si stesse abbassando a ritmo regolare.
Cercai la mia voce, ma quello che mi uscì fu solo un rantolo nervoso. «Chi sei?»
La situazione non si smosse, tanto che mi rassegnai a rimanere immobile come una statua di pietra e lasciarmi scrutare dall’occhio indagatore, che si muoveva in tutte le direzioni, osservandomi interamente, quasi a volersi accertare che fossi proprio io.
I miei muscoli si tesero e rilassarono ritmicamente, scatenando fitte di dolore lungo la schiena. Cercai istintivamente le parole nell’antica lingua che mi avrebbero potuta salvare, ma il bagliore violetto al mio dito mi informò che non ne sarebbe valsa la pena.
Mi diedi uno schiaffo per accertarmi di essere sveglia, ma effettivamente il dolore diffuso in tutto il corpo era sufficiente come garanzia.
Dov’erano le guardie? Non percepii i loro respiri. Semplicemente non c’erano, ero sola con quella strana apparizione. Una morsa di tensione mi strinse lo stomaco.
L’essere al di là della porta parve riscuotersi dopo un lungo sonno. Sentii d’improvviso una voce sottile, quasi sicuramente contraffatta con la magia, scivolare nell’aria. Non capii nulla di quello che stava dicendo ma ebbi l’improvvisa intuizione che si trattasse di un incantesimo.
«VATTENE!» gridai, alzandomi di scatto dalla branda, ignorando la protesta delle ferite della mia schiena, e correndo a sbattere i pugni contro lo spesso portone di legno e metallo.
Ma quando guardai attraverso la finestrina quadrata che costituiva lo spioncino, non vidi nessuno.
Il fatto mi sconvolse. Attonita, rimasi immobile, capendo che doveva per forza essersi trattato di uno scherzo della mia mente.
Sto diventando pazza? O era una visione provocata da qualcuno?
Scossi la testa. La mia mente era sempre stata talmente salda che riuscire a procurarmi visioni doveva essere escluso. Questo prima che il mio corpo venisse sottoposto a sforzi indicibili, però.
In quello stato di riflessione e profonda inquietudine, non udii i veloci e leggeri passi che si avvicinavano.
E quando un viso pallido, labbra crudeli e occhi rossi come braci riempirono il vuoto del corridoio fuori dallo spioncino, sussultai.
«Ho sentito la tua voce» proferì Durza con espressione seria e indagatrice.
Scossi lentamente la testa. «Non io Spettro» mentii.
Con poca convinzione, socchiuse gli occhi da gatto, gettando un rapido ma accurato sguardo intorno a sé.
La tensione che mi soffocava raggiunse un livello insostenibile, se anche uno Spettro mostrava palese ansia, doveva essere successo veramente qualcosa.
A confermare la mia teoria venne la domanda di Durza.
«Hai visto per caso qualcuno di insolito passare di qui da ieri notte, Elfa?» chiese con un tono di voce così morbido che ebbi la tentazione di scoppiare a piangere e confessargli tutto.
Analizzai rapidamente la faccenda dell’occhio. Non poteva essere successo veramente, doveva essere stato uno scherzo della mia mente stanca, e io non volevo assolutamente dare soddisfazioni di alcun tipo all’uomo davanti a me.
«No» dissi. E subito mi staccai dalla finestrella e retrocedetti nella mia cella, non riuscendo a sostenere un istante in più gli occhi penetranti di Durza. Mi inquietavano, sembravano leggermi dentro, facevano sembrare vano ogni mio tentativo di nascondergli la verità, di qualunque natura essa fosse.
La pelle d’oca sulle braccia mi informò che non avevo ancora indossato i miei vestiti e che mi stavo letteralmente congelando.
«Non disturbarti a metterla» mi fermò lo Spettro, ancora affacciato dallo spioncino, quando presi in mano la camicia. «È ora di rinnovare quei graffietti, da ieri sera sono già migliorati parecchio» aggiunse da dietro alla porta.
Da ieri sera? «Ho dormito un giorno intero?»
Per quello le guardie non c'erano: era l'ora del cambio serale.
«Sei svenuta» specificò. «Quello delle frustate non è un dolore dal quale ci si riprende così in fretta. Temo che tuttavia dovrai farci l'abitudine».
Distolsi lo sguardo, umiliata.
Lo vidi scostarsi da davanti alla porta quando sopraggiunsero i soldati con la chiave della mia cella ed entrarono per tirarmi fuori.
Il dolore alla schiena mi rese cosciente del fatto che non volevo farmi torturare di nuovo, non volevo che altre frustate si sovrapponessero a quelle. Avrebbe fatto male, un male indicibile. E io non volevo, non ero pronta, non mi ero ancora ripresa dal dolore della sessione precedente e nemmeno dal terrore causato dall’occhio bianco.
Un tremito di paura mi scosse le membra e, quando i quattro soldati si avvicinavano a me sospettosi, le lance alla mano, capii che sarei stata disposta a tutto pur di non subire ancora le torture di Durza.
E fu quello che mi spinse a correre incontro alle guardie, sfilare la spada dal fodero di uno, scivolare tra di loro e raggiungere in un attimo lo Spettro sulla soglia.
Ebbi il tempo di registrare l’espressione sorpresa di Durza prima che la lama si abbattesse su di lui..
..sfiorandogli a malapena la spalla sinistra.
Lo Spettro si era spostato con una prontezza e una velocità ammirevoli persino per un elfo e in quel momento mi fronteggiava con un’espressione piuttosto irata e un fiore di sangue che andava formandosi dove l’avevo a malapena ferito.
Con il solito ritardo di riflessi, gli uomini mi corsero dietro gridando. Alzai la spada, ma un colpo violento me la fece volare via di mano.
Durza stringeva tra le mani una spada pallida, con un sottile graffio sulla lama e mi stava letteralmente uccidendo con gli occhi. Deglutendo, fissai la sua arma, quella che Ajihad aveva scalfito durante il suo famoso duello con Durza, duello che il capo dei Varden non si faceva riserve di raccontare a destra e manca.
Del resto era forse l’unico umano in tutta la storia di Alagaësia ad essere sopravvissuto ad un combattimento contro uno Spettro. Peccato che lui in quel momento fosse al sicuro nella sua inaccessibile montagna, incurante della mia situazione, mentre io ero in balia di un mostro alleato del re che pareva avere esaurito la sua debole riserva di pazienza.
«Questa me la pagherai» sibilò lo Spettro, con un tono che mi fece balzare il cuore in gola.
Mi avvolse il braccio con le sue lunghe dita, stringendo la presa al punto di farmi perdere la sensibilità dal gomito alla mano.
Mi dibattei disperata, come un animale in gabbia. Non volevo tornare in quella stanza, non volevo sentire ancora dolore. Non ne potevo più. E lui era troppo, terribilmente spaventoso, temevo quello che mi sarebbe aspettato una volta varcata la soglia di quella camera maledetta.
Mentre puntavo i piedi per fare resistenza alla forza di Durza, non notai il giovane soldato con i capelli e gli occhi castani, passarmi accanto e andare a posizionarsi davanti allo Spettro, costringendolo a fermarsi.
«Cosa vuoi Rohat?» ringhiò Durza, con un tono che prometteva guai.
Il soldato si inchinò e poi rimase a fissarsi la punta dei piedi, pallido come un cencio. «Mio signore non dovresti torturarla oggi» disse.
Gli uomini dietro di me sussultarono, io sgranai gli occhi per la sorpresa e lo Spettro emise una risatina spaventosa.
«Perché non dovrei ragazzino? Non ti impicciare in faccende che non ti riguardano, non ho proprio tempo da perdere con te. Togliti prima che mi venga voglia di punirti per la tua sfacciataggine».
Rohat si dimenò, decisamente spaventato, ma non si allontanò. Scrutandolo con attenzione, realizzai che non doveva avere più di diciassette-diciotto primavere e che era molto più giovane rispetto ai suoi compagni, tutti uomini fatti.
«V-vedi padrone le ferite che ha sulla schiena sono gravi, se oggi gliele rifai, lei muore. E non penso che lei deve morire no?»
Con poche parole borbottate, Durza lo mandò a schiantarsi contro la parete.
«D’ora in poi ti occuperai di fare la guardia nel castello» disse, riprendendo a strattonarmi verso la porta nera della stanza delle torture. «Non ho bisogno di soldati che hanno pietà dei prigionieri qui. E sono stato fin troppo magnanimo con te, non farmene pentire».
Prima che la porta si richiudesse alle mie spalle, ebbi il modo di incontrare lo sguardo atterrito del ragazzo, con le sopracciglia sollevate, quasi mi stesse chiedendo scusa per non essere riuscito a fare di più per me.
Mi si inumidirono gli occhi per la commozione, era il primo e probabilmente ultimo esempio di pietà umana che avevo incontrato da quando ero imprigionata a Gil’ead. Sperai con tutto il cuore che il suo signore non meditasse alcuna punizione nei suoi confronti per il comportamento che aveva mostrato, non lo meritava.
L’unico che avrebbe dovuto essere punito era l’uomo dai capelli rossi che mi stava incatenando con malagrazia alla parete, con gli spaventosi occhi cremisi assottigliati per la rabbia e l’irritazione e una scura macchia di sangue che si espandeva sul tessuto altrimenti blu notte della sua giubba. Almeno potevo tenermi la soddisfazione di averlo ferito.
Una mano fredda mi sfiorò la spalla, facendomi tremare.
«Cos’è questo?» chiese Durza seccamente.
Lo Yawë, probabilmente stava parlando dello Yawë.
Le sue dita percorsero crudelmente le ferite ancora profonde della sera precedente, mandandomi fitte di dolore in tutto il corpo e facendomi singhiozzare.
«Parla Elfa e tutto questo finirà» mormorò lui con voce suadente.
Ne fui tentata, davvero. E nello stesso istante mi maledissi per la mia debolezza. Non l’avrei fatto, non l’avrei mai e poi mai fatto. Il mondo meritava ancora di essere salvato. Me lo aveva dimostrato il soldato che pochi minuti prima aveva messo a repentaglio la propria vita per quella di una sconosciuta. Finché persone come lui calpestavano il suolo di Alagaësia, si poteva ancora sperare in un futuro che non fosse di morte e distruzione, e per quel futuro io avrei combattuto, fino a che avessi avuto vita.
«Mai Spettro» dissi, la voce spezzata per il dolore. «Da me non saprai mai nulla».
Decretata la mia condanna, subii il prezzo che i miei ideali richiedevano.
Persi i sensi così tante volte che ne persi il conto, ma Durza mi risvegliò ogni volta con un incantesimo. La mia pelle fu dilaniata da ferri roventi, uncini, pugnali, frustate.
Urlai fino a perdere la voce.
Il dolore era così intollerabile che desiderai morire. Raggiungere il nulla, la pace, il silenzio. Fäolin.
Probabilmente passarono delle ore.
Alla fine lo Spettro mi sciolse dalle catene e mi spinse verso il centro della stanza. Le gambe mi cedettero e caddi a terra senza riuscire in alcun modo ad attutire la caduta.
Durza mi si inginocchiò accanto e mi schiaffeggiò con furia. Non ebbi nemmeno la forza di difendermi e crollai come morta tra le sue mani quando mi afferrò le spalle.
«Perché non puoi essere come una qualsiasi donna sana di mente, Elfa?» latrò lo Spettro con voce stridula e gli occhi incupiti per la frustrazione. «Diamine, non capisci che ho bisogno di quelle maledette informazioni! Cosa devo fare per farti parlare? Cosa? COSA?» Mi scosse violentemente.
Un gemito di dolore scivolò tra le mie labbra, ma quello fu l’unico suono che la mia gola arida riuscì ad emettere. Ero un grumo di carne maciullata, ero distrutta. Non avrei retto ad un solo altro istante in quella condizione, ne ero certa. Eppure lo feci. Perché le ferite che mi erano state inflitte erano troppo precise per permettermi di morire.
Mi accasciai su un fianco e vomitai bile.
Con la vista appannata, riuscii ad individuare la mano bianca di Durza che si avvicinava al mio volto, che era forse la parte più integra che era rimasta nel mio corpo, a parte un paio di lividi dovuti agli schiaffi.
Mi scostò una ciocca di capelli dagli occhi e seguì con le dita il profilo del mio viso.
Deglutii. «Cosa stai facendo?» riuscii a gracchiare.
«Sto pensando a quanto falliti siamo entrambi» rispose lentamente.
Gli diedi mentalmente ragione. Ma, mentre per il momento ero stata di un paio di passi avanti a lui, ero certa che prima o poi mi avrebbe spezzata. Avrebbe vinto.
«Dovresti uccidermi» e le mie parole parvero quasi una supplica.
Finse di non avermi sentito e mi sollevò da terra, per poi depositarmi distesa sul tavolo di pietra.
Cominciò a pronunciare incantesimi di guarigione, sfiorando con le dita le parti del mio corpo che stava lentamente, parzialmente rimettendo in sesto.
La vista mi tornò più limpida e respirare non fu più così faticoso.
Durza si puntellò con le mani sul bordo della lastra di pietra e mi fissò negli occhi. «Non perdevo la pazienza da decenni» disse.
Trovai la sua affermazione vagamente stupida, ma gli risposi: «Abbiamo appena cominciato, giusto?»
Ridacchiò sinistramente, snudando la punta dei suoi denti aguzzi. «Chi te lo fa fare, piccola Elfa? Ti stai lasciando massacrare. E per cosa? Pensi che i Varden riusciranno mai a sconfiggere il re? Non basterebbero dieci nuovi cavalieri dei draghi per contrastarlo. Ha dalla sua parte le creature più pericolose di Alagaësia, oltre che un regolare esercito imperiale. E poi lui stesso è invincibile, potrebbe spazzarvi via tutti senza troppo sforzo. Perché lo fai?»
«Se il mio popolo scendesse in battaglia non se la caverebbe tanto bene» ribattei.
«Hai detto “se”. Il tuo popolo è rintanato chissà dove da ormai un secolo. Il re non vi teme, e ne ha tutte le ragioni. Non uscirete mai allo scoperto contro di lui e se anche lo faceste.. non sarebbe sufficiente».
Chiusi gli occhi. «Non mi importa».
«Morirai se continui così».
«Non mi importa».
«Bugiarda».
«Non pretendo che un servo di Galbatorix capisca».
Rise. «Allora può darsi che con il tempo riuscirò a capire».
Riaprii gli occhi e lo guardai con sospetto, ma il mio carceriere si limitò a farmi alzare in silenzio e a ricondurmi nella mia cella.
Non ebbi il coraggio di indossare camicia e pantaloni perché nonostante mi avesse guarita dalle piaghe più gravi, molte ferite erano ancora profonde e sanguinanti.
Non riuscii a mangiare perché il mio stomaco rigettò tutto.
Non riuscii a dormire perché ero troppo agitata e stordita dal dolore.
Non riuscii a smettere di pensare alle ultime parole di Durza perché non le avevo capite.

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Capitolo 5
*** Lord Barst ***


5. Lord Barst

Dei giorni che seguirono mi restano solo ricordi confusi e sbiaditi. Stavo male.
La febbre andava e veniva senza un’apparente logica. Per un paio di ore mi divorava ferocemente e poi spariva. Quelle piccole incursioni di malattia mi indebolirono ulteriormente e il mio stomaco pareva essere diventato improvvisamente intollerante al cibo, perché ormai vomitavo almeno un pasto al giorno. E i pasti erano due. Così cominciai ad avere anche fame e a fiaccarmi ulteriormente.
Le torture di Durza si erano intensificate e si erano fatte ancor più fantasiose. Lo Spettro pareva utilizzare ogni istante di tempo che aveva a disposizione per martoriare il mio corpo, al punto che alcuni giorni fui legata alla lastra di pietra della stanza delle torture all’alba e vi rimasi fino a che non fece buio.
Se avevo creduto che le frustate fossero la cosa peggiore che poteva capitarmi, capii di essermi sbagliata quando Durza iniziò ad immergere la mia testa in un secchio d'acqua e a trattenermi fino a che non cominciavo a vedere nero e sentivo la morte soffiarmi sul collo.
A quel nuovo tormento seguirono incubi di inondazioni e cominciai a provare una sorta di avversione per la bacinella d'acqua gelida che giaceva vicina alla porta, tanto che anche lavami il viso divenne una sorta di sottile tortura.
La mia mente stava vacillando. Un giorno mi alzai dal letto di scatto, credendo di avere visto Fäolin nell’angolo opposto della cella, per poi cadere a terra un istante dopo, vista l’incapacità delle mie gambe di sorreggermi. E ovviamente Fäolin non c’era mai stato.
Un altro paio di volte vidi l’occhio bianco, sempre quando le guardie mi lasciavano per il cambio serale. Si affacciava dallo spioncino, grande e spaventoso, le sue palpebre si abbassavano due o tre volte e poi svaniva. Cominciai a considerarlo una semplice allucinazione della mia mente instabile.
Venne a trovarmi Rohat, il giovane soldato che aveva quasi rischiato la pelle per impedire a Durza di torturarmi. Mi parlò -dalla fessura dello spioncino- per quel breve arco di tempo che concedevano le guardie quando si davano il cambio. Mi parlò della sua infanzia, di sua madre che viveva sola in una casa ai confini di Gil’ead, fuori dalle mura. Del suo lavoro come soldato, che odiava ma che era costretto a svolgere se voleva procurare un minimo di dote alla sua sorellina e fare in modo che un giorno potesse sposarsi con dignità. Disse anche che ero bella, e che il suo padrone era senza cuore.
Prima di andarsene fece scivolare una rosa bianca sotto la porta e io la contemplai da lontano, attraverso le lacrime che mi appannavano gli occhi ma che rifiutavo di fare scendere.
Dallo stelo privo di spine partì un intero ramo, che si diffuse in tutta la stanza. La rosa crebbe, i suoi rami verdi privi di spine si insinuarono tra le fessure delle pietre, rompendole, risalendo ancora, distruggendo tutte quelle pareti grigie e raggiungendo il cielo, la luna, attorcigliandosi su se stessi come a formare una gigantesca torre. Potevo fuggire.
Sì, bastava solo alzarmi. Se mi fossi alzata sarei andata via di lì per sempre, Durza sarebbe rimasto un ricordo, il dolore anche e avrei ritrovato i canti dolci della mia gente. Sarei andata nei giardini del palazzo di

Tialdarí ad Ellesméra con Fäolin e lui, sorridendo, avrebbe colto per me una campanula nera, chiusa, dicendo dolcemente che io ero come quel fiore e che dentro di me di nascondeva una bellezza infinita.
Dovevo solo alzarmi.. ma non ce la facevo. Ordinai ai miei muscoli il movimento, più e più volte, invano.
Quando la porta si aprì bruscamente, spazzando via la rosa e gli occhi cremisi di Durza si puntarono su di me, mi resi conto di essere rimasta confinata in quel pensiero utopistico per delle ore. E che purtroppo la realtà era di natura totalmente diversa.
La rosa bianca mi parve all'improvviso un maligno monito alla mia morte imminente.
Durza dovette sollevarmi di peso dalla branda perché io non ero in grado di farlo. E anche quando poggiai i piedi sul pavimento mi sarei afflosciata a terra se lo Spettro non mi avesse tenuta saldamente in piedi, quasi sollevandomi. Da un lato ne fui felice, perché da quando il mio nemico mi aveva tolto gli stivali per ustionarmi la pianta dei piedi, se ne era definitivamente appropriato, ed erano gelidi al contatto con il pavimento umido.
«Ti stai distruggendo con le tue mani» mi informò.
«Tu mi stai distruggendo» la mia lingua era pesante e quelle parole scivolarono fuori dalla mia bocca come macigni spinti faticosamente a rotolare.
Da quando aveva perso la pazienza, lo Spettro aveva smesso di parlare. Ormai si limitava a torturarmi, torturarmi e torturarmi.
«Non sei nemmeno in grado di stare in piedi, piccola Elfa».
Ebbi comunque la forza di squadrarlo severamente e -mi augurai- con un pizzico di sfida.
Oromis, quando mi aveva istruita tra un mio viaggio e un altro come ambasciatrice affinché potessi difendermi meglio dal mondo, mi aveva detto che a volte dalla rabbia e dall’irritazione possono scaturire energie insospettabili. Bene. Non mi era mai piaciuto farmi chiamare “Piccola” -era lo stesso nomignolo che mi davano i cortigiani di Ellesméra quando ero bambina, “Piccola Arya”- e odiavo Durza.
«So camminare» ribattei risoluta.
Ma non appena le sue mani si scostarono nuovamente, traballai pericolosamente.
Durza sorrise a fior di labbra «Non male».
Puntò l’indice al centro del mio torace e mi diede una lieve spinta all’indietro, che bastò a farmi perdere l’equilibrio. Gli schiaffeggiai furiosamente la mano, ma lo Spettro si affrettò ad afferrarmi e, incurante delle mie proteste, mi sollevò da terra e mi portò nella stanza delle torture come un corpo morto.
La tavola di pietra della sala delle torture era ancora più gelida, ma in maniera quasi piacevole. Probabilmente avevo un altro attacco di febbre.
Guarì alcune delle mie ferite più gravi prima di afferrare il ferro arroventato e accingersi a procurarmele nuovamente.
Il fuoco mi stava dilaniando lo sterno quando un ticchettio insistente scosse la porta, passando sopra ai miei lamenti.
Qualcuno aveva bussato. Nessuno aveva mai bussato prima di allora, ma lo benedissi, chiunque fosse.
«Hillr devo ricordarti quali sono le mie disposizioni mentre mi sto occupando dei prigionieri?» chiese Durza con voce pericolosamente calma.
«Perdonami mio signore ma si tratta di una cosa urgente. Posso entrare?»
«Mi auguro per te che sia veramente così».
Arricciando pigramente un dito, lo Spettro fece scattare la serratura e la porta si aprì.
Un uomo con i capelli ingrigiti sulle tempie e gli occhi tondi come quelli di un pesce entrò rapidamente e si inchinò in direzione di Durza.
«Lascia perdere i convenevoli e parla».
«Signore, Lord Barst è sulla strada per Gil’ead con il suo seguito. Arriverà in città tra un paio d’ore».
«Cosa viene a fare a Gil’ead?»
L’uomo si tormentò la barba. «Non lo sappiamo signore. Uno dei nostri uomini è appena tornato dal suo giro di ricognizione ed è sicurissimo che si tratti di lui. Ed è il migliore della squadra, non si sbaglia mai».
L’espressione del mio nemico divenne una maschera di irritazione. «Di’ a tutti gli uomini di dare una mezza ripulita a quelle topaie che chiamano dormitori; se tra un’ora trovo anche solo l’ombra di una bottiglia di idromele me la pagheranno cara. E poi date una scrollata alle vostre casacche -sono più grigie che rosse ormai- schiera tutte le forze in giro per la città e il castello e informa la popolazione».
Seguii l’intera conversazione come se le voci venissero da un altro mondo, desiderosa solo di ritornare ai miei sogni di rose e giardini. Non potei però impedirmi di notare che lo Spettro era preoccupato e capii che quel Lord Barst doveva essere un uomo di una certa importanza a giudicare dall’impressione che voleva fare Durza su di lui.
Hillr uscì e Durza ringhiò, frustrato. Fece un rapido giro della stanza, andando a raccogliere la mia camicia e i miei pantaloni da terra, che mi aveva sfilato per potermi torturare.
«Mi spiace informarti che dovremo rimandare il nostro incontro a domani, Elfa».
Fece sparire una mano in una piccola bisaccia di velluto che portava in vita e ne estrasse qualcosa che si affrettò a fare sparire tra le labbra e a masticare nervosamente.
«Saprò contenere l’impazienza» replicai asciutta.
Durza sogghignò e sciolse le catene, porgendomi i miei vestiti. Dall’odore che mi arrivò alle narici quando si chinò su di me capii che probabilmente stava mangiando delle foglie di menta. E che per farlo aveva trasformato i suoi denti da quelli di un felino a quelli dritti e regolari di un essere umano. Purtroppo il suo aspetto non perse nulla dello spaventoso che gli apparteneva.
Mi prese nuovamente in braccio come una malata per condurmi nei miei alloggi, come li chiamava lui.
Quando se ne andò portò le quattro guardie, che erano ormai fisse da tempo davanti alla mia porta, con sé.
A quel punto avrei tanto voluto sapere chi fosse quel Lord Barst.
Tossii sputando sangue.
Mi afflosciai sul mio giaciglio e scivolai nelle immagini confuse del mio sonno.
Ero ad Ellesméra e gli Athalvard cantavano magnificamente sul sentiero che si snodava sotto l’albero su cui ero seduta io. Era tutto caldo, luminoso, sereno, così bello che faceva quasi male.
Poi arrivò Durza, parlottando qualcosa di incomprensibile riguardo ad un certo Lord Barst. E tutto divenne freddo e gelo.

Il rumore di ferraglia era molto vicino. Aprii gli occhi nello stesso istante in cui la chiave della mia cella fece l’ultimo giro nella serratura e l’uscio si aprì.
Mi puntellai sui gomiti e mi tirai a sedere. Due soldati mi si avvicinarono e mi misero in piedi senza troppi complimenti, trascinandomi con loro. Mi dibattei debolmente ma bastò uno schiaffo ben assestato per confondermi. Non riuscivo più a contrastare nemmeno degli umani.
I due mi portarono fino alla stanza delle torture e mi incatenarono al tavolo.
C’era qualcosa che non andava. Dov’era Durza? Di solito non lasciava nemmeno che i soldati varcassero la soglia della porta nera di quella stanza.
Un uomo basso e tarchiato entrò e diede ordine di chiudere bene a chiave la porta. Allungava curiosamente il suono della “R” tanto da pronunciarla moscia. Tra il mio popolo nessuno aveva mai quei problemi nel parlare, invece qualcuno tra gli uomini a volte pronunciava le lettere in modo strano o balbettava senza la minima capacità di controllarsi. In quel caso bastava mettersi un pugno di sassi in bocca ed allenarsi a dire l’alfabeto tutto di fila, magari anche al contrario. Peccato che gli uomini non riuscissero proprio ad arrivarci da soli.
L’uomo in questione mi si avvicinò e mi scrutò con evidente curiosità, gli occhi da cerbiatto sgranati e attenti. Mi scostò i capelli sudici dalle orecchie.
«Non avevo mai visto una della tua razza» disse. «Siete veramente belle come si dice».
Restai impassibile, in attesa che mi spiegasse il perché fosse lì. Ma non pareva avere alcuna fretta. Si sfilò con calma i guanti bianchi candidi e li porse ad uno dei suoi soldati. Dalla stazza e dalla muscolatura si poteva dedurre facilmente che fosse un guerriero, eppure le sue mani erano morbide e lisce, indice del fatto che non si togliesse i guanti quasi mai mentre maneggiava una spada. Al contrario di Durza, le cui mani erano grandi, con dita lunghe, agili e inquiete, che sembravano nate per impugnare un’arma ed erano rovinate, scorticate, irruvidite dai calli tipici di un combattente.
Dove era finito Durza? Per un assurdo istante mi ritrovai a desiderare che fosse lì con me, a tenere d’occhio quell’uomo che non conoscevo e dal quale non sapevo cosa aspettarmi. Mi disprezzai profondamente per la mia debolezza.
«Sono il conte Barst, figlio di Berengar» si presentò, confermando i miei sospetti. «Sono uno dei secondi di sua maestà il re Galbatorix e sono qui in missione per conto suo. Da quando la sua pietra è stata rubata da quei villani dei Varden il mio signore non dorme più sogni tranquilli. E se non gli è ancora stata restituita è solo perché ha fatto affidamento sul servo sbagliato. È evidente che lo Spettro non ha saputo essere abbastanza convincente con te». Mi mossi lievemente sul tavolo, inquieta. «Quindi io sono qui per riuscire dove lui ha fallito. Vorrei proporti una soluzione diplomatica: se tu mi indicherai il luogo dove si è schiuso l’uovo allora saprò ricompensarti con la libertà e con la garanzia che il re lascerà il tuo popolo fuori dalla guerra imminente. Galbatorix stima e ammira gli elfi più di ogni altra creatura al mondo e non vorrebbe mai arrecarvi danno».
Non era affatto uno stupido, Lord Barst. Ma l’arte oratoria dello Spettro era di gran lunga superiore, e non era bastata. Il conte sembrava più un uomo dalle maniere rozze, che un diplomatico.
Sbattei le palpebre e lo guardai in silenzio.
L’uomo sospirò, scuotendo lentamente la testa. «Non vorrei mai dovere usare delle maniere forti su una fanciulla».
La sua affermazione era ridicola considerando che il mio corpo era ridotto a un grumo di carne sanguinolento. Che fossi una fanciulla o meno, le maniere forti non mi erano state risparmiate.
«Rispondimi».
Illuso.
«Oh e va bene!» esclamò affabilmente. «Accendete quel braciere e arroventatemi un ferro».
I soldati eseguirono, mentre lui continuò ad insistere per un altro paio di minuti, prima di arrendersi all’evidenza che non avrei parlato e aspettare che il ferro fosse pronto.
Lo aveva appena impugnato quando la serratura scattò e la porta si aprì, senza che nessuno da fuori avesse usato la chiave, dato che in effetti era incastrata nella parte interna.
Durza entrò nella stanza come un tornado, i capelli rossi scomposti. «Mi pareva di averti chiesto di farlo solo in mia presenza, Barst» osservò gelidamente.
Il mio carceriere indossava un lungo ed inquietante mantello di pelli di serpente che lo faceva sembrare ancora più alto e minaccioso, accanto a lui il conte sembrò improvvisamente piccolo. E ovviamente i denti aguzzi erano tornati al loro posto.
Barst iniziò a parlare con aria di sufficienza, ma la sua espressione appassì mano a mano che continuava a guardare gli occhi cremisi dello Spettro.
«Sono un funzionario mandato direttamente da sua maestà il re in persona. E come tale devo rispondere direttamente e solo a lui, senza interferenze intermedie. Io ritengo che tu abbia trattato l’elfa con troppa grazia e quindi voglio accertarmi che tu abbia provato ogni tipo di torture possibili per estorcerle la verità».
Durza sollevò un angolo della bocca in un sorriso beffardo. «Perché non lo chiedi direttamente a lei?» annuì nella mia direzione.
«Si rifiuta di parlarmi» dovette ammettere l’uomo.
Mi divertì il trionfo che deformò i lineamenti dello Spettro. «E sono già un passo avanti a te, caro Barst. Ma prego». Si poggiò con la schiena contro la parete in fondo alla stanza, le braccia conserte. «Rimarrò qui a supervisionare e ad accertarmi che tu non la uccida»
Dal modo in cui il funzionario del re serrò la mascella dedussi. che fosse molto arrabbiato, ma che la paura di Durza superasse l’ira. L’espressione che assunse il suo viso largo era grottesca, assomigliava vagamente ad un Urgali imbronciato.
Barst giocherellò con il ferro su di me fino a che quello non diventò freddo, senza ottenere nulla se non i miei muscoli irrigiditi dal dolore, che però mi parve più lieve del solito, come se mi ci fossi abituata.
Poi posò l’attrezzo e si deterse la fronte con la manica della veste.
La mia lucidità non era normale, considerata la condizione in cui versavo fino a poche ore prima. Capii il perché quando Durza, dal suo angolo avvolto nella semioscurità, mi strizzò un occhio con aria complice e la situazione mi parve così ridicola che per poco non scoppiai a ridere. Mi ritrovavo coinvolta in una faida tra due servi del re ed entrambi volevano dimostrare all’altro di essere migliore. Lo Spettro mi stava probabilmente regalando delle energie e proteggendo dal dolore perché io riuscissi a resistere e a non rivelare nulla al Lord. Era stupido e maledettamente infantile.
«Desideri risolvere il tuo dubbio con altri esperimenti, Barst?» chiese Durza con un tono così ossequioso da parere offensivo.
La mascella quadrata dell’uomo si contrasse nuovamente. «Non ho bisogno che tu mi aiuti a svolgere il mio compito Spettro. Questa cagna di un’elfa parlerà, in una maniera o nell’altra».
Durza sollevò un sopracciglio, squadrando i due soldati che erano con noi nella stanza. «La presenza di lei qui era un’informazione riservata. Quindi o i tuoi uomini tengono la bocca cucita o mi premurerò di cucirgliela io. O di tagliargli la lingua, se preferiscono».
I due impallidirono ma riuscirono coraggiosamente ad annuire.
Barst si concentrò nuovamente su di me. «È molto graziosa» disse, rivolto allo Spettro.
Lui si strinse nelle spalle. «Forse».
«Non sai proprio come goderti le cose belle della vita tu, eh?» La sua mano liscia sfiorò la pelle scoperta del mio collo.
Mi irrigidii immediatamente.
«Dovresti farle un bagno» disse Barst.
«Sono il suo carceriere, non la sua balia».
I denti storti del funzionario del re si scoprirono in un sorriso. «Deduco quindi che tu non abbia avuto modo di.. divertirti con lei».
«No» fu la secca replica.
«Peccato. Forse non sai che la tortura psicologica e il totale annientamento fisico può spingere anche il più tenace a cedere. Ma forse ad uno Spettro non vengono in mente idee di un certo tipo».
«Semplicemente perché ho altri modi per sfogare le mie frustrazioni, non mi è necessario farlo sulle prigioniere».
Le dita di Barst scivolarono sul mio petto. «Che razza di uomo sei?»
Gli sputai in faccia, costringendolo a togliermi le mani di dosso per asciugarsi la fronte.
«Non sono un uomo. E forse non ti ho avvertito» ridacchiò Durza, «che questa è una gatta feroce. Non si lascerà domare tanto facilmente».
Il sorriso osceno sul viso del funzionario del re mi fece inorridire. «Sarà solo più divertente».
Tirai furiosamente le catene che mi bloccavano sul tavolo, ma non riuscii ovviamente a smuoverle di un pollice. Disperata, cercai istintivamente il viso di Durza e gli scoccai uno sguardo implorante.
«Non credo che la fanciulla ne sarebbe molto felice» disse lo Spettro, restituendomi uno sguardo indecifrabile.
Barst agitò una mano. «Ha importanza? Non è nemmeno umana, non merita la mia pietà. E se non sbaglio tu non l’hai mai avuta la pietà, giusto?»
Le sue parole mi indignarono profondamente. Capii che il potere aveva eccitato il carattere di quell’uomo al punto di fargli credere di poter fare tutto secondo le sue regole e la sua volontà, con il pieno diritto di calpestare gli altri senza farsi scrupoli. Era sprofondato nel pozzo nero della depravazione, trasformandosi in un animale.
Le sue dita giocarono con l’orlo della fascia di stoffa che mi copriva il seno. Chiusi gli occhi, sul punto di vomitare.
«Barst scopri un altro pollice della sua pelle e non sarò più padrone delle mie azioni» lo informò lo Spettro affabilmente.
L’uomo parve infastidito dall’insistenza di Durza. «Il mio signore, il nostro signore, mi ha dato la più ampia libertà di azione. Posso fare ciò che voglio, senza alcun limite. E se è ciò che desideri, potrai farlo anche tu una volta che avrò finito con lei».
«Una cosa è fare di tutto per strapparle informazioni, un’altra è costringerla nel tuo letto per poterti vantare dell’impresa. Se vuoi una donna vattela a cercare, in questo castello ci sono certamente un paio di belle servette che sarebbero ben liete di concederti i loro favori».
Con un movimento agile delle dita, Durza aprì le mie catene e io mi alzai a sedere così velocemente che il mondo mi vorticò intorno.
«Per oggi direi che hai verificato abbastanza, Barst. Continuerai domani».
Mi afferrò per il gomito e mi sostenne fino all’uscita.
«Resterò a Gil’ead solo tre giorni, poi tornerò a fare rapporto al mio re» lo richiamò l’uomo, «e userò tutti i mezzi possibili per ottenere ciò che lui mi ha ordinato, non sarai certo tu ad impedirmelo».
Durza lo guardò beffardo da sopra la spalla. «Prova a sfidarmi se ne hai il coraggio. Sappi solo che te ne pentirai amaramente».
«Non puoi uccidermi Spettro. Il re lo verrebbe a sapere e ti punirebbe».
«Allora diciamo che non vorrei proprio che ti capitasse uno
sfortunatissimo incidente, sono stato abbastanza chiaro?»
«Trasparente» dovette abbozzare Barst, la voce ridotta ad un sibilo rabbioso. «Ma guardati le spalle».
Mi accorsi di stare tremando violentemente solo quando Durza dovette sollevarmi da terra per permettermi di proseguire nel corridoio fino alla mia cella.
«Avrei dovuto darmi da fare a sfigurare anche il tuo bel faccino, piccola Elfa».
Annuii distrattamente, nascondendo automaticamente il viso contro il suo collo, fuggendo al mondo. La sua pelle era calda e lo trovai strano. Avevo sempre pensato che fosse gelida come lo erano le sue mani, e magari anche viscida come quella di un serpente. Invece no, era.. umano. E sapeva di un qualche olio da bagno. Non seppi perché ma lo trovai tremendamente rassicurante.
Mi scostai immediatamente non appena sentii il suo corpo irrigidirsi contro di me.
Il fatto che proprio lui mi avesse difesa da un uomo del re, stonava incredibilmente. E il fatto che io gli fossi così profondamente grata per la sua azione, stonava ancora di più.
«Perché lo hai fatto?» chiesi quando lo Spettro mi depositò a sedere sulla mia branda.
Gli occhi seri di Durza si assottigliarono. «Me lo hai chiesto tu».
«Magari il suo metodo avrebbe funzionato».
Fece un gesto spazientito. «Se era ciò che volevi posso sempre scortarti da lui. Non credo che il caro Barst ti respingerebbe».
«Non ho detto questo!»
Sospirò rumorosamente. «Lo so. Devo almeno riconoscere a quel maiale che in pochi minuti è riuscito a spaventarti quasi quanto ho fatto io in più di due mesi».
Mi tormentai nervosamente le unghie. «Che ne sai tu?»
L’angolo sinistro della sua bocca si sollevò leggermente. «Lo so Elfa». Si avviò alla porta. «Non credere che d’ora in poi cambi qualcosa. Ho impedito ad un uomo che odiavo di compiere un’azione indegna solo per mio personale interesse. Quando finalmente leverà le tende tornerà tutto come prima».
«Non c’era bisogno di puntualizzarlo».
Esitò sulla soglia. «Meglio di sì, invece».
«Non ho mai pensato che sarebbe cambiato qualcosa» lo informai.
«Lo hai sperato» disse, prima di chiudere la porta.
Continuavo a rifiutare fermamente una verità che però premeva sul mio cervello da troppo tempo. Il fatto che Durza sapesse sempre con esattezza che sentimenti provassi non poteva essere casuale. Le barriere della mia mente erano pressoché inattaccabili ed era impossibile che le mie espressioni fossero così rivelatrici, sapevo perfettamente come fare per rimanere impassibile e mi riusciva piuttosto bene, ne ero sicura.
A quel punto l’unica soluzione possibile era che Durza fosse capace di creare un contatto con la parte più profonda delle persone e riuscire a carpirne gli stati d’animo. Probabilmente era un potere che derivava dal fatto di essere uno Spettro ed avere legami così profondi con degli spiriti.
Mi chiesi fino a che punto lui potesse leggermi e all’improvviso mi sentii vulnerabile. Avevo passato tutta la vita a nascondere i miei sentimenti alle persone che mi circondavano -era il fulcro su cui ruotava tutta la mia forza- e il fatto che qualcuno riuscisse a portare alla luce con una tale facilità i segreti della mia anima mi faceva sentire in qualche modo violata.
Debole.



__________________________________________________________________________________________
Lord Barst! Perché? Perché era una figura che mi interessava approfondire, dato che Paolini lo ha presentato in modo molto superficiale.
Per quanto riguarda la possbile capacità di Durza di leggere i sentimenti, la cosa mi è sembrata plausibile da come si comportava con Eragon mentre era prigioniero a Gil'ead, nessuno lo ha mai fatto presente, ma nemmeno negato, giusto?

Ciao a tutti! (:

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Capitolo 6
*** Mi stai corteggiando, Durza? ***


6. Mi stai corteggiando, Durza?

Barst rimase altri due giorni, giorni che spese totalmente sul mio corpo con uncini, lame, ferri, fruste e mezzi del genere.
Durza non mancò mai a nessuna delle sessioni, anche se si limitava a stare nell’ombra come una minaccia silenziosa. Mi diede comunque un senso di sicurezza saperlo pronto ad intervenire in mio favore, accompagnato da scrupoli che Barst sembrava non avere e che in effetti non mi sarei mai aspettata nemmeno da lui.
A tratti lo sentivo sussurrare incantesimi di guarigione che impedissero al funzionario del re di uccidermi. Perché in effetti mentre nelle torture lo Spettro era metodico e preciso, esperto, Lord Barst era rabbioso e violento. Durza si premurava di farmi sfiorare la morte, ma trattenendomi, lui colpiva a casaccio, sperando di procurarmi più dolore possibile e spingermi a parlare.
I due bisticciavano in continuazione, ma dato che quelle liti parevano avere come scopo quello di stabilire chi fosse il migliore, non mi toccavano e mi limitavo a godermi la scena.
L’ultimo giorno, poco prima di partire, Barst discese nella mia cella e mi fece legare al tavolo delle torture. Durza arrivò poco dopo e si ritirò silenziosamente in un angolo.
Sentii a malapena le mani dell’uomo che mi afferravano un piede -da quando non avevo più gli stivali il gelo mi faceva spesso perdere la sensibilità in quel punto del corpo- ma sentii chiaramente il dolore acuto che mi procurò quando mi strappò l’unghia dell’alluce con una pinza. Alluce, illice, trillice, pondolo e minolo. Poi passò all’altro piede. Il sangue che mi colò sulla pelle mi parve bollente.
«Consideralo un regalo d’addio» mi sibilò rabbiosamente. «Il tuo comportamento verrà riferito al re, Spettro» aggiunse ad alta voce.
Durza avanzò nel cono di luce creato dal braciere. «E allora mi auguro che farai presente la mia indiscussa abilità, Barst. Come avrai avuto modo di notare ho fatto tutto il necessario, ma senza risultati».
«Ti sei rifiutato di lasciarmi agire come volevo, com’era ordine del re e questo basterà a renderti colpevole di insubordinazione».
Lo Spettro inarcò un sopracciglio, per niente turbato. «Notevole».
«Fossi in te non riderei più di tanto. Galbatorix odia perdere tempo. Non esce mai dal suo castello perché deve concludere la sua ricerca, quindi lascia ai suoi luogotenenti il compito di fare il suo volere in Alagaësia. E tu ti sei dimostrato incapace anche di questo piccolo incarico. Ultimamente stai perdendo colpi, a lui non piacerà».
«Non sono il leccapiedi del mio re quanto te, questo è sicuro. Ma non osare svalutare i miei meriti, ti giuro che la mia natura potrebbe rivelarsi piuttosto spiacevole in questi casi».
«Non penserai veramente di spaventarmi così».
«Io non penso, so» ribatté Durza, aggiungendo un’ulteriore conferma alla mia ipotesi sulle sue capacità di lettore di anime.
Barst divenne paonazzo. «Non sei altro che uno schiavo delle ombre! Cosa si prova ad avere degli spiriti che ti comandano a bacchetta? Non so nemmeno se sto parlando con un essere solo o con altri cento adesso!»
Gli occhi di Durza divennero di ghiaccio. «Vattene» disse, parlando così lentamente da parere sul punto di scoppiare. «Vattene prima che ti dimostri quanto sono padrone della mia volontà e ricacci il consiglio dei miei spiriti, che mi suggeriscono di non inimicarmi il re».
L’uomo spinse orgogliosamente il mento in fuori. «Non finisce qui. Rivedrai presto la mia faccia, Durza».
Lo guardai andarsene impassibile. Io certamente non avrei dovuto rivederlo, probabilmente non avrei nemmeno mai più sentito parlare di lui.
Ancora non potevo sapere quanto mi stessi sbagliando e quanto il nome del conte avrebbe avuto effetto nella mia vita futura.
«Finalmente soli, Elfa».
Feci una smorfia. «Mi stai corteggiando, Durza?»
«Vedo che sentire altri offendermi ti rinvigorisce». Mi guardò maliziosamente. «Ma si possono fare cose interessanti rimanendo soli, Elfa, te lo assicuro».
«Taci» riuscii solo a dire, aspramente.
Annuì in direzione dei miei piedi. «Barst mi ha tolto il progetto che avevo intenzione di realizzare durante la prossima settimana».
Gettai un’occhiata alle mie dita grondanti di sangue e feci una smorfia disgustata. «Mi restano le mani».
Durza fece un sorrisetto. «Da quando mi dai suggerimenti? E poi non c’è nulla da strappare dalle tue unghie, ci pensi già abbastanza da sola, quando sei nervosa».
Accolsi con fastidio quell’osservazione. «Non pretendere di conoscermi».
Lo Spettro mi sciolse dalle catene sorridendo sinistramente. «Non so nemmeno il tuo nome, tanto per cominciare».
«E non lo saprai mai, tanto per concludere».
Appoggiai la punta del piede destro a terra, ma non appena ci feci pressione delle stilettate di dolore si diffusero per tutto l’arto.
Durza mi guardò con una luce giocosa negli occhi di sangue, le pupille assottigliate dalla luce del braciere «Potrei ridarti le unghie in cambio del tuo nome. Tanto cosa vuoi che ne sappia della vostra società elfica?»
«Perché mai vuoi saperlo con tanto interesse?»
«Conosco i nomi di tutti gli uomini e le donne che lavorano al mio servizio. Odio rivolgermi alla gente chiamandola “Tu”, “Soldato”, “Cameriera”, “Stalliere”, “Elfa..”»
Mi alzai in piedi con decisione, ignorando il dolore. «Tanto me le strapperesti di nuovo, le unghie».
Lo Spettro tormentò una catenella d’argento che teneva intorno al collo. «Vero. Ma sappi che verrò a sapere tutto prima o poi, che tu collabori o meno. Ho i miei mezzi. Intanto so cos’è il tatuaggio che hai sulla spalla. Si chiama Yawë ed è un simbolo di riconoscenza presso i vostri reali. Quanto bene hai fatto per meritare un simile onore da parte del vostro sovrano, piccola Elfa?»
L’ironia della situazione mi costrinse a ricacciare un sorriso. Se solo avesse saputo che ero la figlia della regina.. «Non sono piccola. E la nostra inutile conversazione si conclude qui».
Ridacchiò, afferrandomi per un polso mentre mi conduceva all’uscita. «Se voi Elfi siete tutti così algidi e noiosi non mi stupisce che Galbatorix abbia intenzione di sterminarvi».
«Barst pareva pronto a giurare che il re ammirasse profondamente il mio popolo».
A quel punto Durza scoppiò a ridere rovesciando il capo leggermente all’indietro, gonfiando i tendini del collo e spalancando la bocca irta di denti aguzzi. Uno spettacolo spaventoso, nonostante la risata fosse palesemente sincera, calda. Potevano gli Spettri ridere così?
«Potrei sentirmi ferito nei sentimenti. Hai creduto a lui e non a tutte le mie promesse di libertà!»
Bloccai i miei muscoli facciali prima che si distendessero in un sorriso. La sua allegria era stravagante. «Non gli ho creduto nemmeno un istante». Entrai nella mia cella e lo Spettro mi lasciò il polso. «Ma perché hai voluto che tacessi tutto a Barst?» chiesi, recuperando tutta la mia serietà. «Me ne sono accorta sai. Tu non volevi che io mi lasciassi sfuggire nemmeno una più piccola informazione di fronte a lui, eppure il vostro padrone è lo stesso. È così importante per te essere la persona che dirà a Galbatorix ciò che vuole sapere? Riceverai una ricompensa o cosa..?»
Durza mi posò un indice sulle labbra, bloccando le mie parole. «Vorrei tanto prolungare questa chiacchierata Elfa, ma ho da fare. Ti dico solo questo: non è detto che io riferirei direttamente al mio re come un cagnolino obbediente chiaro?»
Se ne andò, lasciandomi piuttosto basita. Misi insieme le sue ultime parole e quelle che mi aveva rivolto la settimana precedente.
«Non pretendo che un servo di Galbatorix capisca».
«Allora può darsi che con il tempo riuscirò a capire».
Mi sedetti sul mio giaciglio. Durza non pareva molto entusiasta di dichiararsi servitore di Galbatorix. Ma allora perché era al suo servizio? Quali erano le sue vere intenzioni?
Scossi la testa. Non l’avrei mai saputo e probabilmente non dovevo nemmeno interessarmene.
Lo Spettro parve voler dedicare il resto della giornata al risposo perché non si fece più vedere. Così sfruttai quella piccola tregua per immergere i piedi nell’acqua gelida del catino, che mi diede sollievo immediato. In effetti era così fredda che quasi non sentivo più i piedi.
Il comportamento del mio nemico degli ultimi giorni mi aveva colpita e non poco, anche se una parte di me rifiutava di ammetterlo. Non avrei mai creduto che potesse avere la decenza di muoversi in mio soccorso, che fosse solo per ripicca verso Barst o per impedirgli di racimolare informazioni che a quanto pareva non voleva che arrivassero al sovrano.
Grazie alla sgradevole visita del conte, ero io ad avevo raccattato informazioni interessanti: I sostenitori del re erano divisi tra loro e quindi vulnerabili; Galbatorix restava veramente chiuso nel suo castello a compiere chissà quali sacrileghi studi come si mormorava tra la mia gente; Durza sapeva leggere i sentimenti, a quel punto non c’erano più dubbi.
Riguardo all’ultimo punto potevo solo azzardare qualche ipotesi. Gli Spettri e gli Spiriti erano le creature più misteriose di Alagaësia insieme ai Draghi. Non si era mai sentito di uno Spettro che si fosse lasciato studiare. I loro segreti nascevano e morivano con loro, cose che avvenivano difficilmente entrambe; la maggior parte degli Spettri creati avveniva per errore, da maghi inesperti o troppo ambiziosi e gli spiriti prendevano il sopravvento sulla loro coscienza. Ucciderli era ancora più difficile, anche se Ajihad vantava la discendenza diretta da un uomo delle tribù desertiche che era riuscito a sterminare l’intera famiglia di uno Spettro e a sconfiggere e fare sparire lo Spettro stesso. Ma nei suoi racconti leggenda e realtà si intrecciavano con evidente trasporto, al punto che era impossibile distinguere quanto di ciò che narrava fosse vero.
Mi resi conto di essere probabilmente la creatura con più conoscenze sugli Spettri in tutta Alagaësia.
Chissà come aveva fatto a diventare uno Spettro. In effetti prima di diventare il Durza che conoscevo io doveva essere stato un comunissimo mago umano..
Mi concessi di gioire per tutte le informazioni che erano finite in mio possesso.
Sarei sopravvissuta a tutto quello e le avrei riferite ai miei alleati. Se solo avessi trovato un punto debole in Durza avrei potuto dare suggerimenti per come riuscire ad ucciderlo. Non sapevo da quanto la sua presenza inquinasse la terra di Alagaësia, ma doveva essere da parecchio dato che si diceva che fosse già un mago esperto quando aveva sostenuto il re nella sua ascesa al trono.
Ce l’avrei fatta! Qualcuno sarebbe venuto a salvarmi. Ero comunque un anello abbastanza importante nella catena delle forze della resistenza, non potevano essersi semplicemente rassegnati alla mia morte.
Poi un pensiero viscido e triste si insinuò nella mia mente e la mia flebile felicità si incrinò all’improvviso, come una casa dalle deboli fondamenta.
Non sapevo esattamente cosa stesse succedendo fuori da quelle mura ammuffite, ma la verità era che vita in Alagaësia stava sicuramente proseguendo a ritmi vertiginosi anche senza di me.
Anche senza la gentilezza di Glenwing. Anche senza il sorriso di Fäolin.
La vita era profondamente ingiusta.
Un male che non aveva nulla a che fare con i dolori delle torture mi dilaniò il petto.
Fäolin.
Fäolin..
Oh no! Non dovevo, non dovevo davvero. Eppure gli argini che ero riuscita a impormi per tutto quel tempo, si ruppero. Prima una lieve crepa e poi cedettero, di botto.
Fäolin.
Chiusi gli occhi e mi lasciai travolgere dal suo ricordo. I suoi capelli così biondi da sembrare d’argento, lisci e lunghi fino alle spalle, raccolti sempre in una coda bassa; la sua pelle delicata; i lineamenti aristocratici; i grandi occhi blu, profondi come solo l’oceano doveva essere; le labbra morbide come petali di rosa, capaci di dare vita a stupende melodie; le mani gentili e lisce, che riuscivano ad intrecciare una ghirlanda di fiori nello spazio di tempo di pochi battiti di cuore. Fäolin che mi baciava, Fäolin che mi abbracciava, Fäolin che mi ascoltava, che mi capiva, che mi accettava, che mi voleva bene.
Poi rividi il suo corpo disteso a terra, le palpebre serrate, la bocca aperta in una muta richiesta di aiuto, la freccia nera stregata dalla magia dello Spettro conficcata nella sua gola.
La morte se l’era portato via e io non lo avrei rivisto mai più. Mi aveva promesso che ci sarebbe stato. Sempre.
Ma non aveva potuto mantenere la parola e la sua assenza mi bruciava come un continuo ed eterno groppo alla gola. Ispirai profondamente per trattenere le lacrime e i singhiozzi.
Forse era così che si era sentita mia madre alla morte del re Evandar. Era un dolore così profondo da cancellare ogni pensiero ed ogni speranza.
Io stavo cercando di combattere, era vero. Ma per cosa? Per un futuro? Come potevo pensare ad un futuro se anche solo l’idea di viverlo senza Fäolin mi pareva insostenibile? Come potevo guardare avanti e continuare a sperare, quando il mio più forte pilastro si trovava nel passato?
Così smisi di pensare, semplicemente. Mi abbandonai al dolore e mi lasciai cullare dalla sua forza distruttiva. Lo avevo rifiutato e ricacciato per troppo tempo e mi ero illusa di poterlo sconfiggere semplicemente spingendolo nell’angolo più recondito della mia mente. Ma come il fiume che restituisce sempre le sue vittime prima o poi, così aveva fatto il mio cervello. E il dolore non si era placato, no. Era marcito e si era accumulato. Dolore su dolore, cataste su cataste di materiale in putrefazione. Non ero in grado di contrastarlo, ero troppo, troppo debole.
Mi arresi.
Affondai il viso nella coperta di lana del mio giaciglio e cercai disperatamente il sonno. Quello era l’unico luogo dove i pensieri sbiadivano, fuori dal mio controllo, e i morti vivevano.
Fuggii da me stessa, debole e vulnerabile come mai in vita mia ero stata.
Mi venne la febbre. Un attacco feroce dal quale non seppi difendermi e che mi confuse la mente al punto che, nei miei vaneggiamenti e confuse visioni, mi parve di vedere per l’ennesima volta l’occhio bianco dallo spioncino della porta.
Biascicai una serie di parole, inutili minacce ed esortazioni a sparire.
Alla fine cedetti e mi addormentai.
Sognai mille morti. Volti di uomini che avevo ucciso, che ritornavano dalle ombre per sussurrare minacciosamente il mio nome, invitandomi a raggiungerli, minacciando di venire loro stessi a prendermi.
Mi svegliai più volte, fradicia di sudore e tremante.


[Durza]
Il sole non aveva ancora sfiorato lo Zenit e Durza avrebbe avuto ancora un bel po’ di questioni da sbrigare prima di potersi concedere un po’ di pace.
Lord Barst se n’era finalmente andato, doveva smettere di preoccuparsi. Ma la minaccia che gli aveva lanciato quel maledetto prima di partire continuava a tormentarlo.
Se avesse riferito al re che le sue torture non erano sufficienti, Galbatorix avrebbe potuto pretendere che l’Elfa fosse portata al suo cospetto per occuparsene lui stesso. E quello avrebbe rovinato tutti i suoi piani.
Si sedette stancamente alla massiccia scrivania di legno, afferrando di malavoglia il pacco di pergamene, che conteneva i rapporti dei propri uomini sul territorio intorno a Gil’ead, che lui governava e gestiva per conto di Galbatorix.
Era stato quello il premio che il sovrano gli aveva riservato per averlo aiutato ad assumere il potere. Durza pensava di meritarsi come minimo di regnare su una buona metà di Alagaësia, visto che senza di lui Galbatorix sarebbe rimasto solo un pazzo senza speranza. Lui lo aveva guidato nel sottomettere il suo nuovo drago nero, senza di lui non sarebbe mai riuscito a piegare al suo volere nemmeno uno dei cuori dei cuori di drago che erano in suo possesso. Lui ci sapeva fare con le anime degli esseri, era un potere che gli avevano dato gli Spiriti che avevano fuso la loro coscienza con la sua, lo stesso potere che gli permetteva di controllare il volere degli Urgali.
Già, anche senza i suoi Urgali il re si sarebbe trovato parecchio in difficoltà.
Meritava decisamente più della metà di Alagaësia.
Unì le mani davanti al volto e tornò col pensiero al giorno in cui il re era riuscito a strappargli il giuramento che ancora lo teneva vincolato a lui.
«Io so che stai cercando disperatamente qualcuno che odi e che il tuo cuore gronda vendetta. Una volta diventato re di queste terre, io potrò offrirti ciò che desideri su un piatto d’argento».
«E perché non subito?» aveva chiesto lui, impaziente.
«Dovrai fidarti di me» era stata la risposta. «Però ho bisogno di un paio di garanzie..»

Le garanzie si erano rivelate essere dei giuramenti di obbedienza che lui, accecato dalla prospettiva di poter avere immediatamente la propria vendetta, aveva impulsivamente accettato e pronunciato.
Ovviamente il re non aveva tra le mani l’uomo che lui stava cercando, aveva semplicemente sfruttato la sua debolezza, lasciandogli la garanzia futura che, finita la guerra, lo avrebbe certamente catturato.
Aveva trovato lui stesso l’uomo che gli interessava, diversi decenni più tardi. Ma purtroppo si era reso conto della sua vera identità quando quello gli era ormai sfuggito. Lo aveva inseguito ed era riuscito solo ad ottenere una delle più cocenti sconfitte della sua vita, oltre che un graffio sulla sua spada. Non aveva fatto nulla per eliminarlo dalla lama, lo teneva lì, in bella mostra, come monito alle sue azioni passate.
L’uomo in questione non ce l’avrebbe mai fatta da solo, e in effetti era stata una donna misteriosa a favorirgli la fuga con la magia, tenendo impegnato Durza. Aveva impiegato decenni per scoprire infine l’identità di quella maga maledetta. Ma nel frattempo il suo uomo era riuscito a riparare presso i Varden e lì ancora viveva, addirittura in vece di loro capo.
Durza pensò con disgusto che il mondo non era nemmeno in grado di distinguere i cattivi, quando quelli si nascondevano tra loro. E Ajihad e la sua famiglia erano colpevoli di crimini orrendi, almeno quanto i suoi.
Sapeva di essere spietato, ma tutto era sacrificabile per lui. La sua vendetta veniva prima della sua stessa vita, lo doveva a se stesso. E a tante altre persone.
I muscoli delle spalle e del collo furono percorsi da uno spasmo. Quanto? Quanto avrebbe dovuto aspettare ancora?
Se all’inizio aveva accettato il comando del re nella speranza di poter raggiungere con facilità i propri obiettivi, ormai aveva perduto totalmente fiducia nelle sue vuote promesse.
Doveva essere cauto. Prima di tutto avrebbe dovuto assicurarsi la fedeltà del cavaliere dei draghi che sarebbe nato dall’uovo azzurro che purtroppo non era riuscito ad intercettare. Complottava da anni per riuscire a prendere il potere che era in possesso di Galbatorix e non appena avesse trovato il modo di svincolare dal suo giuramento, cambiando il suo vero nome, avrebbe rovesciato il suo regno e si sarebbe lui stesso impadronito del trono.
Era stanco di essere sempre secondo ed inferiore a qualcuno. Il gusto dolce-amaro del potere era troppo allettante per potervi rinunciare.
E se pensava che era stato lui stesso a rendere il sovrano così forte rischiava di impazzire per la frustrazione!
Hillr bussò alla porta e lo Spettro fu riscosso brutalmente dai suoi pensieri.
«Entra» comandò brusco.
L’uomo era uno dei pochi bifolchi che lo circondavano capace di leggere e scrivere, era lui che raccoglieva i rapporti su pergamena, lui che lo sostituiva durante i periodi di assenza. Era intelligente, capace e silenzioso, caratteristiche che Durza stimava parecchio nei suoi servitori.
«Mio signore, ho qui un altro rapporto».
«Di chi?»
Hillr gli porse un foglio di carta piegato in quattro. «Dell’unica persona che utilizza la carta invece della pergamena, signore».
Lo Spettro fece un mezzo sorriso. «Grazie».
L’uomo fece un rapido inchino e se ne andò.
Durza si dedicò alla lettura di quell’ultimo rapporto, decifrando agilmente la grafia graziosa e minuta, scritta in un codice noto solo a lui e al mandante, che avevano inventato tempo addietro per potersi scambiare messaggi con la certezza che nessun altro nel palazzo li avrebbe intercettati.
Durza,
Come mi avevi chiesto ho interpellato il nostro ospite. Ho fatto più fatica del previsto a riuscire a farmi dire ciò che volevo, è più astuto di quanto credessi. Devo confermare i tuoi timori, il tuo amico fraterno ha proprio intenzione di cercare di privarti di tutto il potere che hai e di sminuirti di fronte al suo re.

Lo Spettro sorrise del modo che utilizzava la sua spia per indicare Lord Barst, che certamente suo amico fraterno non era, dato che si odiavano cordialmente da quando si erano conosciuti. Aveva chiesto alla sua spia di trovare un modo per estorcergli più informazioni possibili sulle sue future intenzioni, e lei c’era riuscita benissimo. Era un’esperta in quello.
Non ti sopporta proprio e ha intenzione di fare ricadere tutte le colpe su di te, affermando che sei di polso troppo leggero e che non ti sei impegnato a sufficienza nel trattamento dell’altra tua ospite. Sta’ attento a ciò che fai.
Beh, l’avvertimento era giunto un po’ tardi dato che Lord Barst aveva appena abbandonato Gil’ead furioso come un calabrone stuzzicato. E riguardo “l’altra tua ospite”, cioè l’Elfa, stava cominciando a rassegnarsi. Era testarda, terribilmente testarda. E non avrebbe ceduto mai, ne era certo.
Se il re lo avesse ordinato, avrebbe dovuto portarla al suo cospetto e lasciare che se ne occupasse lui, con la forza infinita che i suoi Eldunarí gli fornivano e la sua indiscussa abilità nell’impossessarsi delle menti altrui.
No, l’Elfa doveva dare a lui le informazioni che custodiva come un’amante gelosa.
Gli era venuto un mezzo accidente quando Barst si era dimostrato disponibile ad approfittarsi di lei pur di riuscire a convincerla a parlare. Non era certo che la volontà di lei avrebbe retto fino a quel punto, e se le informazioni fossero passate al conte, era come se fossero già nelle mani del re.
Per quello si era affrettato ad intervenire. Per quello e perché non riusciva a tollerare un’azione simile. Poteva anche essere la creatura più spietata e priva di scrupoli di Alagaësia, ma le urla di sua madre quando i predoni li avevano catturati le ricordava benissimo. E non si era mai sentito in grado di poter compiere la stessa azione su una donna. Sapeva però che, se si fosse abbandonato alle voci grondanti di odio dei suoi spiriti, sarebbe stato capace di fare qualsiasi cosa.
Durza serrò la mascella, cercando di dominare la rabbia e l’impotenza.
Perché i suoi piani parevano sempre destinati a fallire?
Doveva assolutamente riuscire a muovere dei passi avanti dalla sua situazione. E il primo e necessario era convincere l’Elfa a vuotare il sacco. E dato che né le parole melliflue né la tortura erano serviti a granché, avrebbe cercato di conquistarsi la sua fiducia.
Rise piano di se stesso. Non sarebbe stato facile per niente, lei lo odiava con tutte le sue forze e non sarebbe mai stata disposta a cambiare la sua posizione. Doveva essere l’uomo che le aveva fatto più male al mondo.
Quella non era l’unica soluzione. Avrebbe sempre potuto cercare di entrare nella sua mente, ma era restio a farlo perché le sue difese gli sembravano molto forti e perché lui, nonostante l’assistenza delle coscienze dei tre spiriti che abitavano in lui, non era molto abile in quei giochetti. La sua coscienza era piuttosto controversa: una continua lotta tra lui e i suoi ospiti, che al momento sbagliato potevano cedere per capriccio e eludere il suo controllo. Era diventato molto abile a dominarli, ma talvolta sfuggivano ancora al suo dominio, anche se lo avevano aiutato parecchio ai tempi in cui aveva piegato le menti degli Eldunarí per il suo re.
Non voleva rischiare di attaccare la mente dell'elfa.
Eppure fu proprio ciò che si ritrovò a fare. Ma non subito e neppure quello stesso giorno.
Prima si perse a ricordare i rari e brevi momenti in cui il viso di granito della sua prigioniera assumeva qualche espressione, ricordandogli che in fondo era una donna, viva, reale.
E poi pensò al momento in cui lei aveva appoggiato il viso contro di lui -il naso freddo contro il suo collo- subito dopo averla salvata dall’intento di Barst, solo pochi giorni prima, come se lui potesse nasconderla da tutti i mali del mondo, lui che era la causa dei suoi. L’aveva sentita tremare tra le sue braccia, fragile come una foglia al vento. Per un assurdo istante aveva desiderato veramente proteggerla da tutti i mali del mondo. Più tardi aveva riso di se stesso e dei suoi stupidi sentimentalismi. Lui e l’Elfa non potevano fare altro che odiarsi e lui sarebbe stato costretto ad ucciderla se lei si fosse rifiutata di parlare. Anzi, per essere specifici avrebbe dovuto ucciderla anche dopo che avesse parlato.
Ma in fondo a lui non importava nulla. Non gli piaceva quella donna. Era l’esatta antitesi di ciò che era lui, rappresentava gli ideali che lui non avrebbe mai seguito, l’altruismo che lui non avrebbe mai avuto.
Tutto ciò da cui si era allontanato da lungo tempo.
Forse era per quello che non riusciva a non provare una certa curiosità nei suoi confronti.
Non andò a torturarla quel giorno, non se la sentiva. I suoi spiriti invocavano sangue e dolore, ma Durza si chiuse in se stesso, allontanando il fastidioso vociare delle creature.
Pensò che sia lui che l’Elfa avessero diritto ad una pausa dopo la liberazione della funesta presenza di Lord Barst.
Tornò nella sua cella la mattina dopo.
E la condizione in cui trovò la sua prigioniera ebbe il potere di mandarlo nel panico più totale.


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Ciao a tutti e bentornati! :D
Allora, vi è piaciuta la narrazione con un po’ di pensieri di Durza? Spero di non aver fatto troppa confusione in quel punto, vi ho imbottiti di nuove informazioni.
Se c’è qualcosa di poco chiaro fatemelo presente, grazie ;)
Baci,
Lalli

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Capitolo 7
*** Carsaib ***


7. Carsaib

Quando riaprii gli occhi il mio sguardo era annebbiato e sentivo gli occhi gonfi.
Il mio corpo era un qualcosa quasi staccato dalla mia coscienza, estraneo alla mia volontà. Non riuscivo a dare alcun ordine di movimento nemmeno alle gambe, ero totalmente irrigidita.
E in effetti avevo freddo. Ero stretta convulsamente alla coperta di lana ma riuscivo a vedere la neve che cadeva fuori e sentivo il gelo penetrare dalla finestra come mille aghi che mi pungevano la pelle.
Dovevo alzarmi e allontanarmi dall’apertura.
Ma ne valeva veramente la pena?
In quegli ultimi mesi non mi ero mai resa conto di quanto la mia vita fosse pericolosamente in bilico. Mi ero limitata a stringere i denti e a concentrarmi su tutto fuorché la mia condizione. Avevo indirizzato ogni mio singolo pensiero all’uovo, al drago, al cavaliere, al futuro di Alagaësia, come avevo sempre fatto nella mia vita. E tutto quello senza rendermi mai conto che quasi sicuramente io non avrei mai fatto parte di quel futuro. La mia condizione mi impose di essere egoista, per una volta, ed ebbi paura.
Fu in quel momento che capii con orrore di stare morendo. Un velo di lacrime appannò ancora di più la mia già confusa vista.
Anni di sacrifici e sofferenze e me ne sarei andata così. Sola, abbandonata a me stessa, strappata alla vita da una stupida e banalissima febbre che non potevo curare.
Non sentii Durza entrare, lo vidi quando era già chino su di me, ma non riuscivo a distinguere bene i suoi lineamenti. L’unica cosa che riuscii a percepire fu il rosso dei suoi capelli. E il suo odore di menta, ovvio.
Conobbi d’un tratto una strana leggerezza. Almeno non ero più sola, non volevo andarmene da sola.
Cercai di muovere le labbra in quella che sicuramente sarebbe stata una supplica, ma mi sentivo la gola arida e la voce impastata.
Poi d’improvviso qualcosa di fresco si posò con sicurezza sulla pelle sudata e bollente di febbre della mia fronte.
Mi diede un sollievo immediato, anche se non diminuì il freddo che sentivo addosso. Capii che era la mano di Durza. In un attimo di lucidità, sentii le parole dello Spettro riecheggiare quasi dolorosamente nella mia testa, mentre la sua mano mi sfiorava con leggerezza il viso.
«Sei una stupida, Elfa» gracchiò. E nella sua voce percepii il panico.
Poi la mano si scostò, e fu di nuovo il buio.
Disperata, smarrita, al limite della sopportazione fisica, afflosciai il capo sul legno del giaciglio.
E mi abbandonai alla morte.

Un silenzio pacifico mi avvolgeva in maniera totale ed ero al caldo, finalmente. Il mio corpo non bruciava più per la febbre, non mi era più difficile respirare.
Ero morta?
Beh se era così bello morire, avrei dovuto farlo prima.
Ma fui presto smentita. Sentivo dolore in ogni parte del corpo, ed era così presente da dover essere vero per forza.
Cercai di aprire gli occhi, ma c’era troppa luce, non ci riuscii.
Crollai in un sonno nero e privo di qualsiasi percezione.

Il cigolio di una porta che si apriva, il fruscio di passi leggeri, il respiro di un’altra persona in piedi accanto a me.
«Ebbene?» domandò una voce.
Il suono mi giunse lontanissimo, come se venisse da un’altra dimensione.
Una mano piccola, morbida e calda, si posò sul mio viso e lo sfiorò delicatamente, per poi ritrarsi.
Un’altra voce, probabilmente del proprietario della mano si librò nell’aria. Era dolce, soave, incredibilmente argentina e musicale.
Ma le parole che pronunciò mi turbarono.
«Complimenti, mio signore. Hai tra le mani nientemeno che la.. » un sottile fischio di approvazione precedette il resto della frase «la principessa degli Elfi, Arya di Ellesméra, figlia della regina Islanzadi e del re..»
«Puoi andare».
Una voce incolore e fredda. Durza.
I passi leggeri frusciarono nuovamente via.
Il respiro calmo accanto a me persisteva.
Volevo alzarmi, ma la stanchezza ebbe la meglio su tutto e piombai nuovamente nell’oblio, cullata da quel suono ripetitivo e regolare.
Non avrei ricordato quella breve conversazione. Se non molto tempo dopo, quando sarebbe stato troppo tardi.

Quando aprii finalmente gli occhi, pensai di stare ancora sognando. La luce rossastra di una candela posata accanto a me ingentiliva le pareti di pietra grigia della stanza sconosciuta in cui mi trovavo.
Lasciai correre pigramente gli occhi intorno a me. Era un ambiente spoglio, arredato con il solo letto in cui ero distesa -un vero letto! Con un vero materasso di paglia- e privo di finestre. Capii di essere ancora nelle prigioni sotterranee perché l’aria sapeva di marcio ed umidità.
A quel punto mi concentrai su me stessa. Ero decisamente viva. Respiravo ed ero piuttosto indolenzita.
Stirai le braccia e le gambe e mi lasciai sfuggire una smorfia. Le croste delle ustioni, dei graffi e delle frustate, tiravano dolorosamente.
Scostai la coperta pesante sotto cui ero accoccolata e mi alzai cautamente in piedi.
Niente febbre, niente tosse, niente mal di gola ed equilibrio stabile. Perfetto. Rispetto alle mie ultime condizioni, ero decisamente in forma. Avevo solo una fame terribile.
Indossavo anche abiti puliti, che non mi appartenevano. Una pesante camicia bianca e troppo grande, che mi raggiungeva quasi le ginocchia, con le maniche arrotolate sui polsi e un paio di pantaloni di lana grigia, da contadino. In compenso ero ancora scalza e c’era una conca rossastra per ogni unghia dei piedi che mancava.
Qualcuno mi doveva anche avere fatto un bagno perché la mia pelle era pulita e i capelli non erano più sudici. Mi strinsi una ciocca tra le mani e la portai alle narici. Muschio. E salvia, forse. Chiunque mi avesse lavato i capelli lo aveva fatto con degli oli profumati.
Ma chi..?
Durza?
Oh. Speravo vivamente di no! Teoricamente avevo ancora una dignità. Sentii le orecchie andarmi in fiamme.
In ogni caso mi aveva guarita. Perché lo aveva fatto?
Dei passi riecheggiarono fuori dalla porta e riconobbi immediatamente la camminata rapida del mio nemico.
Lo Spettro aprì la porta distrattamente, sovrappensiero, e sussultò quando mi vide alzata.
«Oh bentornata tra noi Elfa!» esclamò con aria sorpresa. «Non mi aspettavo di trovarti in piedi».
«Mi hai curata» decretai, con una tale sicurezza che parve un’accusa.
Durza si ricompose e mi gettò un’occhiata vacua. «Te l’ho già detto: morta non mi servi, non ancora».
In condizioni normali mi sarei dovuta inchinare a baciargli le mani per ringraziarlo della sua cortesia. Ma insomma.. non ero propriamente di fronte ad un qualsiasi uomo di quella terra.
Ma la mia buona educazione ebbe comunque un minimo di sopravvento.
«Grazie» dissi coincisa.
Esibì un ghigno. «Non sforzarti di ringraziarmi. Fidati quando ti dico che non l’ho fatto certo perché tenevo alla tua salute».
I suoi denti erano regolari e stava masticando una foglia di menta. Doveva essere un vizio, come quello di Brom di fumare la pipa e quello di Oromis di fissare il vuoto.
Sollevai una ciocca dei miei capelli. «Muschio e salvia?»
Si strinse nelle spalle. «Mi pare meglio di niente».
Lasciai ricadere il braccio e lo fissai arrabbiata ed imbarazzata. «Hai criticato con tanta asprezza Lord Barst per il suo comportamento svergognato e poi ti sei anche permesso di farmi un bagno?»
«Non mi permetterei mai» ribatté lui posandosi la mano sul cuore in un ironico giuramento. «Il bagno te lo ha fatto una mia serva, ma se lo desideri me ne occuperò personalmente da oggi in poi».
Gli tirai un debole pugno sulla spalla e solo in quel momento mi resi conto di quanto le mie forze fossero ancora fiaccate. «Non osare».
«Come preferisci» si chinò fino a sfiorarmi l’orecchio con la bocca, «Principessa».
Sobbalzai. E Durza rise.
Come..? Ricordai all’improvviso quello che mi aveva detto quando mi aveva rivelato di sapere cos’era lo Yawë.
Sappi che verrò a sapere tutto prima o poi, che tu collabori o meno. Ho i miei mezzi.
Deglutii. A quanto pareva ci stava riuscendo perfettamente.
Lo Spettro mi girò intorno con calma inquietante. «Principessa Arya dunque? E guardiana della pietra.. E ambasciatrice, anche. Notevole. La vostra specie è stupida al punto di mandare i reali in missioni pericolose quale la tua, oppure siete veramente a corto di guerrieri capaci?»
Non risposi alla provocazione e rimasi immobile.
Ma mentre mi era alle spalle, sentivo una morsa di inquietudine serrarmi lo stomaco. Non sapevo cosa aspettarmi da lui. Mi aveva guarita, ma mi aveva anche fatto capire che il suo non era stato un gesto di pietà.
Si fermò accanto a me. «Potrei chiedere un riscatto per una merce di tale valore, che dici?»
Con le labbra serrate per la rabbia mi voltai nella sua direzione. «Credi davvero che gli Elfi siano disposti a cedere qualcosa per riavermi indietro?» sibilai. «Ti sbagli di grosso».
L’espressione di Durza si accigliò e si indurì. «Non farmi ridere, sei la loro principessa».
«Ti ho già detto di non pretendere di conoscermi, Spettro. Io ricopro tutti questi ruoli perché così ho voluto. E non dare per scontato che il mio popolo sia così debole da cedere ad un ricatto. Gli Elfi sono pronti a sacrificare senza esitazione se stessi e gli altri per il bene superiore. E in questo momento il bene superiore è liberare Alagaësia dal dominio del tuo re assassino».
«Quello lo avevo capito. Ma la solidarietà che avete tra di voi è scarsina».
Alzai il mento. «Lo scopo finale è più importante della mia vita».
Mi afferrò una mano. «Quindi mi stai suggerendo di tenerti con me ancora qualche mese».
Lo guardai sospettosa mentre osservava la mia mano con interesse. «Se non avessi voluto tenermi qui mi avresti lasciata morire» osservai.
«Forse». Accarezzò il dorso della mia mano.
La ritrassi rapidamente. Durza alzò gli occhi sui miei e vi lessi uno strano turbamento.
«Mi hai costretto, Elfa. Non mi lasci altra scelta».
«Cosa?» soffiai confusa.
Mi afferrò gli avambracci e chiuse gli occhi. Un istante dopo la mia mente subiva un attacco talmente violento che non riuscii a fare nient’altro se non concentrare tutte le mie energie per difendermi e ritirarmi in me stessa.
L’assalto non aveva un fronte solo, ma veniva da almeno quattro punti e la sua forza circondava la mia coscienza in maniera totale.
Controllai rapidamente tutte le mie barriere e svuotai la mente. La situazione rimase di stallo così a lungo che le gambe cominciarono a tremarmi, così come tremavano le labbra sottili e crudeli dello Spettro.
Dovevo trovare un modo per distrarlo e liberarmi dal suo assalto. Qualsiasi cosa.
Finii per afflosciarmi a terra e l’idea fu talmente azzardata che funzionò. Durza fece un’espressione sorpresa mentre gli cadevo inerte tra le braccia e una piccola breccia si aprì nella sua mente. Ne approfittai e lo assalii.
Lo Spettro urlò e battito di cuore dopo un fiume di immagini e ricordi non miei si riversò nella mia mente.
Carsaib si era allontanato parecchio dal suo maestro, lo sapeva. Ma lui si divertiva così e Haeg lo lasciava fare perché sapeva di poterlo ritrovare con facilità e perché sapeva che ogni tanto aveva bisogno di stare da solo per non impazzire dal dolore per il ricordo della sua famiglia massacrata. Ma ormai erano passati tanti anni e il ragazzo aveva imparato a convivere con la sofferenza.
In quel momento avvistò lo stesso Haeg, l’uomo che lo aveva preso con sé come se fosse un figlio, che si stava avvicinando tra la distesa di sabbia e arbusti, ridendo come un matto.
«Carsaib!» gridò. «Aspettami ragazzo!»
Ma lui non aveva intenzione di muoversi di un pollice e aveva già posato le bisacce a terra. Gli sorrise, malandrino. «Ho trovato una sorgente! Ma se non ti sbrighi si prosciugherà!»
Senza abbandonare il sorriso si voltò in direzione dello specchio d’acqua. Una folata di vento gli scostò il cappuccio del mantello dal viso e lui intravide nell’acqua il riflesso di un giovane uomo alto, dal viso ovale, gli occhi castani così brillanti da sembrare fatti di luce pura e una cascata di capelli scarlatti lunghi fino alle spalle.
Guardò con attenzione e capì di essere lui stesso. Era da tempo che non guardava la sua immagine. Erano cambiate molte cose da quando sua madre possedeva ancora uno specchio d’argento.. Il ricordo gli procurò una lancinante fitta di dolore al petto.
«NO!»
L’urlo che mi trapassò dolorosamente le orecchie era reale.
Misi a fuoco il viso di Durza e non cercai nemmeno di trattenere lo stupore quando riconobbi i tratti del ragazzo che avevo visto un istante prima. La pelle era decisamente molto più pallida e le iridi rossicce, i capelli tagliati corti, la mascella più pronunciata e i lineamenti più maturi. Ma per il resto..
Lo Spettro stava sudando copiosamente e aveva gli occhi fuori dalle orbite mentre cercava di riprendere il controllo della sua mente.
Il controllo della sua mente. Che avevo avuto io.
Mi lanciai nuovamente all’attacco. Era la mia occasione. Era la mia prima, unica occasione da mesi. Ma non riuscii a respingere l’ennesima ondata di immagini
Carsaib era distrutto. Fisicamente e spiritualmente. Il suo maestro, il suo secondo ed ultimo padre era morto. Anche Haeg era sparito tra le ombre, anche lui lo aveva abbandonato. Era solo.
Le gambe gli tremavano per lo sforzo di contrastare la tempesta di sabbia che si stava scatenando da quelle che sembravano ore. Aveva un braccio ripiegato sugli occhi per proteggerli e tuttavia nemmeno quello riusciva a frenare le lacrime che gli stavano inondando le guance, inumidendo le labbra aride e spaccate.
Inciampò e cadde. Gridò quando una pietra gli urtò le costole, mozzandogli il respiro.
Rimase disteso a terra, senza le forze necessarie per rialzarsi.
Haeg era morto perché lui non era stato abbastanza forte da difenderlo. Era rimasto con il suo maestro per degli anni, eppure non era riuscito a diventare abbastanza potente per riuscire a fermare i predoni che li avevano assaltati. E Haeg era corso incontro alla sua morte per salvarlo. Un’ennesima volta.
Uno straziante grido di rabbia e sofferenza scivolò tra le sue labbra.
Lo avrebbe vendicato, sì. Avrebbe chiesto aiuto agli Spiriti più potenti che conoscesse. Conosceva i rischi, li conosceva benissimo, ma non gliene importava più nulla.
Comportarsi in maniera irreprensibile non era servito a salvare il suo maestro e neppure la sua famiglia.
Si sarebbe spontaneamente consegnato alle ombre se quello gli avesse permesso di mettere fine al dolore dilaniante che sentiva dentro. E sapeva che l’immagine di Haeg sanguinante non l’avrebbe mai abbandonato se non lo avesse vendicato.
Si alzò in piedi con nuova determinazione. Se la vendetta era la soluzione, era pronto a diventare qualsiasi cosa pur di realizzarla. Anche uno Spettro.
«ELFA ESCI DALLA MIA TESTA!» sbraitò Durza.
Con una rapidissima azione mi respinse, riunendo la sua mente alle altre tre e ricostruì le sue barriere. Boccheggiai per l’improvvisa violenza e indietreggiai fino a cadere a sedere sul materasso. Mi afferrai la testa cercando disperatamente di mettere ordine tra i miei pensieri e i ricordi dello Spettro.
Uno schiaffo fortissimo mi rivoltò il viso dall’altra parte. Prima che avessi il tempo di reagire Durza mi afferrò per la gola e mi sollevò da terra.
«Brutta sgualdrina!» imprecò ansimando, le iridi da gatto a scavarmi la coscienza. Non mancai però di notare che i suoi occhi erano lucidi e folli, ardenti di una rabbia che raramente gli avevo visto.
Gli artigliai le mani che mi serravano il collo scalciando con i piedi.
Non riuscivo a respirare.
Lo Spettro parve finalmente rendersi conto che se avesse continuato in quella maniera mi avrebbe uccisa e allentò la presa, permettendomi di poggiare i piedi a terra. Tossii.
Un altro schiaffo mi raggiunse in viso. «Non farlo mai più!» sputò.
«Hai.. hai cominciato tu» balbettai, cercando di riprendermi.
«Non prenderti gioco di me, Principessina».
«Durza lasciami» ordinai, riuscendo persino ad apparire calma.
Con evidente riluttanza, lo fece. Poi si volse in direzione della porta. «Dimentica» disse solo.
Mi massaggiai il collo. «Chi era quell’uomo?»
Mi fulminò con un’occhiataccia stizzita. Va bene, me l’ero cercata. «Mi sembra di averti detto di dimenticare».
Presa da un improvviso assalto di spavalderia, spinsi il mento in fuori. «Costringimi».
Lo Spettro si precipitò nella mia direzione ringhiando rabbiosamente. «Ho tutti i mezzi che mi servono per farlo».
«Finora non ti è andata molto bene, no?»
Evidentemente avevo trovato Durza in un momento di debolezza. E la tentazione di approfittarne per fare a lui anche solo un millesimo di tutto il male che avevo subito io era troppo allettante.
«È dunque questa la grandezza degli Elfi? Tu non sai niente» scandì, «eppure ti permetti di giudicare».
Alzai il mento. «So di te più di quanto tu sappia di me».
Rise, una risata aspra che non gli si trasmise agli occhi. «E da quali fonti di grazia?»
«Ajihad» dissi semplicemente.
La reazione dello Spettro fu spropositata. Il pallore cadaverico del suo viso assunse un minimo di colore, un nervo del collo si tese pericolosamente e un paio di capillari uscirono in rilievo sulla sua fronte.
«Non nominare il suo nome di fronte a me».
«Deve essere difficile accettare di esserti lasciato fuggire un umano, un umano che è anche riuscito a rovinarti l’arma».
«Non credere che mi irriti così tanto il graffietto sulla mia spada. Quello è stato frutto di un incantesimo bastardo, perché nessun materiale al mondo potrebbe scalfire la mia lama. E ti posso assicurare che non è stato lui a farlo. Se non fosse intervenuta.. una persona in suo aiuto, non ce l’avrebbe mai fatta a sfuggirmi». Scosse rabbiosamente la testa. «Ma quell’uomo.. merita la morte più di quanto la meriti io». Distolse lo sguardo e ispirò profondamente, cercando di recuperare un minimo di controllo.
«Faresti meglio a tacere» lo informai freddamente. «Ajihad sta combattendo per la libertà da decenni, e lo fa egregiamente. Difende i deboli e gli oppressi dal tuo re con un’energia non indifferente. È il miglior capo che i Varden potessero desiderare e non puoi nemmeno osare a paragonare la tua vita alla sua».
«I Varden seguono un assassino» disse. La sua rabbia era sfumata in qualcos’altro. Un dolore ed un rimpianto antichi e profondi come solo il mare poteva essere.
Scacciai il turbamento che mi sovvenne in seguito alle sue parole. Stava mentendo sicuramente, probabilmente stava solo cercando di screditare Ajihad ai miei occhi. E io sapevo benissimo di chi fidarmi dovendo scegliere tra lui e il capo dei Varden.
Durza mi guardò con serietà. «Anche tu credi alle favole che ti racconta? Sei ingenua, piccola Elfa. Ma del resto è sempre così, solo coloro che non temono di mostrare gli orrori di cui ci siamo macchiati vengono additati come male, mentre chi li cela riesce a nascondersi dietro una maschera e mischiarsi al gregge, come un lupo tra gli agnelli».
«La tua è invidia» decretai, recuperando parte della mia freddezza.
Il sorriso diabolico che gli deformò le labbra parve una conferma. «Dovrei punirti in maniera diversa» disse lentamente, afferrandomi per le spalle e facendomi indietreggiare fino a che la mia schiena non venne in contatto con la parete di pietra gelida della stanza.
Presi a dibattermi, ma Durza mi bloccò, appiccicandosi a me al punto che sentii addosso ogni pollice del suo corpo granitico, i suoi capelli sul viso, le sue gambe mischiate alle mie.
Il respiro mi si mozzò in gola. Restai a fissare il suo volto niveo, atterrita, senza capire bene cosa volesse fare. I suoi occhi avevano di nuovo quella strana luce, di odio, di dolore, di rabbia e di follia.
Chinò lievemente il capo di lato. Sentii il suo fiato freddo accarezzarmi il collo.
Un tremito involontario mi salì tra le vertebre e mi squassò le membra.
«Togliti» ordinai, con la voce strozzata per la paura.
Durza rise piano. «Quando imparerai a rispettarmi, forse».
Soffiò delicatamente sulla mia pelle, facendomi venire i brividi.
«Finiscila» protestai cercando uno spazio tra di noi per poter puntellare le mani su di lui e allontanarlo da me, «mi fai freddo».
Mi afferrò le mani e me le bloccò lungo i fianchi. «Ah, dunque hai freddo..»
A quel punto furono le sue labbra a toccare la mia pelle.
Rimasi immobile e rigida come un pezzo di legno mentre Durza chiudeva la bocca sulla mia gola, con forza. Un bacio caldo, poi un altro, un altro e un altro. Scese fino alla clavicola.
«D-Durza smettila» lo ripresi flebilmente, sconvolta dal suo comportamento, perdendo ogni ferreo autocontrollo sull’espressione del mio viso, che rifletté i miei sentimenti.
Ed era così vicino che sentii il suo petto scuotersi alla risata crudele che gli arrivò alle labbra.
Sollevò la testa e si staccò lievemente da me, giusto lo spazio necessario per portare il viso all’altezza del mio. I nostri nasi quasi si toccavano.
Sgranai gli occhi. «Hai finito?» chiesi con voce stridula.
«No» fu la secca risposta, accompagnata da un’espressione maligna.
Mi divincolai nervosamente. «Non vorrai ridurti ad approfittarti di me Spettro..»
Voleva essere un’osservazione ironica, ma mi resi conto di temere che quella possibilità non fosse poi così assurda. Avrebbe benissimo potuto farlo, non ero in grado di contrastarlo, anche se dopo l’episodio con Barst mi ero sentita al sicuro sotto quel punto di vista.
«Non sono ridotto male a tal punto» mi informò scrutandomi il viso e sollevando le sopracciglia quasi con stupore. Cercai di recuperare il mio contegno e la mia maschera di impassibilità, ma quella svanì non appena Durza tornò a respirare sul mio collo.
Mi morse, tanto che sobbalzai sentendo i suoi denti appuntiti graffiarmi appena, ma poi prese a succhiare delicatamente la mia pelle. Poi con forza sempre maggiore.
Ero indignata, inorridita, schifata. Ma non potei fare nulla per impedirgli di fare ciò che voleva.
Quando lo Spettro si staccò da me e mi lasciò andare, riuscii finalmente a respirare in maniera più tranquilla. Con qualche spanna di distanza tra di noi, mi sentivo più padrona della mia situazione.
«Perché?» chiesi sfiorandomi il punto in cui mi aveva toccata.
«Per punirti» ringhiò. «Hai ragione tu, le torture su di te non funzionano come dovrebbero. Ma questo..» rise gelidamente, disegnando un piccolo cerchio sulla mia gola «..forse questo ti resterà più impresso»
Mi voltò bruscamente le spalle e sbatté la porta.
«Domani si balla bellezza» sussurrò dolcemente, dallo spioncino.
Era la minaccia più spaventosa che mi avessero mai rivolto ed ebbe il potere di rievocare in un solo istante una serie infinita di immagini e sensazioni spiacevoli.
Poi mi ricordai che lo Spettro mi aveva baciato il collo. Con una smorfia schifata mi diressi al catino e mi affrettai a gettarmi dell’acqua gelida sulla pelle.
Nella penombra della mia cella impiegai diversi istanti prima di notare una macchia appena più scura all’altezza della gola.
Solo in quell’istante capii in maniera totale cosa aveva voluto dire lo Spettro.
Sulla giugulare, nonostante la mia pelle scura, spiccava un livido violetto, risultato dei suoi baci non richiesti.
Marchiata.
Era una delle cose più umilianti che avessi mai subito in vita mia. O per lo meno rientrava tra le prime dieci. Molte, guarda a caso, dovute a Durza.
Colpii rabbiosamente l’acqua, cancellando la mia immagine.

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Capitolo 8
*** La Ragazza ***


8. La Ragazza

Durza quel giorno pareva seriamente intenzionato ad uccidermi.
Ero incatenata alla lastra di pietra da tantissime ore e il mio corpo era nuovamente allo stremo delle forze, nonostante fino alla sera precedente mi fossi sentita quasi in forma.
I suoi occhi gelidi e impenetrabili non lasciavano presagire nulla di buono.
Forse la mia stanchezza era dovuta al fatto che quella notte non avevo avuto il coraggio di chiudere occhio, troppo spaventata dall’opportunità che la mia mente giocasse troppo con le parole che mi aveva rivolto lo Spettro e i ricordi che erano scivolati inavvertitamente fuori da lui.
Ma in effetti non avevo fatto altro che pensare a quello fino a che Durza non era venuto a prendermi per torturarmi.
Dalle sue parole e dalle immagini delle sue memorie avevo dedotto che lui, come molti altri in Alagaësia, doveva aver sofferto parecchio nella vita. Era una terra crudele, Alagaësia, era raro incontrare qualcuno che non avesse perso un amico o un lontano parente in qualche scaramuccia, il governo del re Galbatorix era troppo debole e decisamente disinteressato alle sorti dei propri sudditi, violenze senza giustizia avvenivano ovunque.
Per questo la mia pietà nei suoi confronti non era durata a lungo.
Le sue sofferenze non giustificavano il suo comportamento. Non potevo ignorare nemmeno per un attimo tutto il male che mi aveva fatto. Aveva ucciso Fäolin e Glenwing e distrutto completamente il mio corpo, rendendomi nient’altro che una debole donna indifesa nelle sue mani. Senza contare tutte le altre di cui sicuramente non ero al corrente.
E io lo odiavo.
Lo odiavo come non avevo mai odiato nessuno.
Ma poi avevo capito che il mio doveva essere lo stesso odio che provava ogni donna a cui veniva dato l’annuncio che il proprio uomo era caduto in battaglia. L’odio profondo, radicato e implacabile nei confronti del suo assassino.
E in quello stesso istante ero diventata cosciente della mia ipocrisia. Io osavo fare la parte della vittima quando avevo ormai perso da tempo il conto degli uomini che io stessa avevo ucciso. Di tutte le donne che avevo lasciato vedove, di tutti i bambini che avevo lasciato orfani.
Sotto quell’aspetto, io e Durza non eravamo poi così diversi.
Ma in tutta sincerità i miei nobili pensieri tendevano a sparire quando mi trovavo sotto i ferri e il mio odio nei confronti del mio boia ritornava con tutta la sua potenza.
Insieme alla paura annientante che lui riusciva a scatenare in me.
Quando avevo sentito i suoi passi scendere le scalette di pietra avevo sussultato e avevo finito per tremare senza ritegno. Avevo uno zigomo tumefatto per i suoi schiaffi violenti e due sottili ma scuri lividi sul collo, dove le sue mani si erano strette per la rabbia. Senza contare quello sulla gola. La sensazione di impotenza e umiliazione non si era ancora estinta.
Quando la tortura si concluse non avevo più un pollice di pelle esposta che si fosse salvato all’azione dei pugnali dello Spettro, delle fruste e dei ferri roventi. Durza mi porse i miei vestiti senza guardarmi e senza proferire parola e io fui ben felice di assecondare quel silenzio. La mia nuova camicia bianca si tinse di un macabro rosso cupo quando la feci scivolare sulle mie membra tremanti.
Arrancai dietro lo Spettro per il corridoio -la mia nuova cella era proprio accanto alle ripide scale di pietra- non riuscendo a pensare ad altro che al letto che mi aspettava e alla nuova coperta imbottita, calda.
Ma il turbamento non sembrava intenzionato a rimanere fuori dalla mia vita.
Proprio quando la porta della mia cella si stava chiudendo alle mie spalle, qualcuno si precipitò giù dalle scale, finendo praticamente a sbattere contro Durza, che imprecò a mezza voce.
L’uomo si scusò e riconobbi la voce di Hillr, il servo che gli aveva riferito dell’arrivo di Barst, qualche giorno prima.
Durza sbatté la porta e la chiuse a chiave, ma io rimasi in ascolto.
«Mio signore ho notizie interessanti» fu l’annuncio entusiasta.
«Ho notato» ribatté lo Spettro. «Un messaggero del re? Di Lord Barst?» la sua voce assunse un tono irritato.
«Niente del genere. Solo una consegna dei nostri esploratori».
Ci fu qualche istante di totale silenzio, sufficiente a farmi contorcere le viscere per l’attesa. Le gambe improvvisamente parvero incapaci di sorreggermi e la testa mi girò. Avevo perso troppo sangue. Strinsi i denti per riuscire a mantenermi salda nella mia posizione.
«Che genere di consegna?» chiese Durza titubante.
«Hanno catturato due omini sospetti» si lanciò Hillr. «Pensano che..»
«Basta così!» lo interruppe il mio boia «Proseguiremo questa conversazione nel mio studio. Anche se la gente ben educata dovrebbe sapere che origliare è considerata una delle azioni più scortesi di questa terra».
Incassai la frecciatina con rabbia. Ovviamente sapeva che ero in ascolto, aveva permesso a Hillr di continuare fino a quel punto solo per potermi privare immediatamente della notizia che avevo già sentito mia. Sapeva perfettamente che ero avida di sapere cosa stesse succedendo fuori e si era affrettato a creare piccole speranze che aveva annientato con sorprendente rapidità.
Se fossi stata un uomo o un nano avrei bestemmiato gli dei.
Però prima avrei dovuto inventarmeli.
Entrambe le cose andavano altre le mie capacità, quindi mi limitai ad ignorare la risatina gelida che emise Durza prima di allontanarsi con Hillr e mi buttai letteralmente distesa sul letto di legno, che gemette appena sotto il mio peso. Nessuna delle mie ferite era stata guarita e sanguinavo come un sacerdote dell’Helgrind.
Non potevo farci niente. Era da mesi che non potevo più usare la mia magia e non mi ero mai veramente resa conto di quanto affidamento facessi su di essa prima di ritrovarmi senza. Era proprio vero che il valore delle piccole cose si apprezza solo dopo averle perdute.
Per esempio in quel momento avrei tanto voluto avere una focaccia dolce con le noci, quelle che i cuochi reali mi procuravano tutte le mattine per colazione, in un tempo che mi pareva lontanissimo, mentre risaliva a poco più di un anno prima. L’ultima volta che ero stata ad Ellesméra.
Dovevo essere prigioniera da circa due mesi, forse quasi tre, così aveva detto Durza quando mi aveva salvata dagli intenti lascivi del conte Barst.
La mia vita mi mancava atrocemente. Avevo trascorso infinite notti di veglia, nella speranza di sentir suonare un flauto in lontananza. Ma sapevo perfettamente che l’esercito elfico non si sarebbe messo in moto solo per me, non era prudente. E probabilmente mi credevano morta nell’incendio che aveva divorato la foresta.
Chiusi gli occhi. Avrei tanto voluto dormire in pace, sogni tranquilli, senza incubi, senza immagini o sensazioni. Il vuoto. Avevo bisogno di oblio.
Durza mi stava lentamente conducendo sulla strada della follia.
Mi bastava serrare le palpebre che subito mi balenava in mente l’immagine dei suoi occhi felini, orrendamente rossi. Repressi un tremito.
            Quando i soldati fuori dalla porta si allontanarono capii che doveva essere il cambio serale.
Mi stirai faticosamente le membra. Una decina di minuti di pace e silenzio.
Il rumore di passi nel corridoio mi smentì immediatamente.
La finestrella dello spioncino fu scostata e un occhio ceruleo fece capolino nella penombra.
Mi si rizzarono i capelli sulla nuca.
Io avevo già visto quell’occhio.
Grande e ornato di lunghe ciglia. E bianco.
Però quello che avevo davanti era azzurro. E percepivo un cuore che batteva e un respiro tranquillo.
Quello era indubbiamente reale.
Mi alzai a sedere, sulla difensiva.
L’occhio si assottigliò e poi si levò una voce dall’altra parte della porta. «Allora è vero che c’è una donna in queste prigioni».
La voce era delicata e soave, striata di una sorta di ingenuo stupore. Era una ragazza, poco più che una bambina.
«Cosa vuoi?» domandai, più bruscamente di quanto avessi voluto. La presenza di una ragazza lì era una cosa piuttosto strana, ma mi diede quasi sicurezza. Era l’unica ad avermi rivolto delle parole civili, oltre a Rohat, il soldato che aveva tentato di risparmiarmi una sessione di torture. Ed era da un pezzo che non lo vedevo più.
«Il padrone viene sempre qui, ero curiosa» rispose candidamente.
Il padrone. Doveva riferirsi a Durza.
«Chi sei?» domandai più per cortesia che per vero interesse. Avevo solo voglia di dormire.
«Una cameriera signora» mormorò spostandosi lievemente dalla fessura dello spioncino, tanto che intravidi una ciocca di capelli chiari fare capolino dalla fessura. «Sono io che ti porto i pasti».
Annuii. Non sapevo chi fosse a portarmi i pasti, non lo vedevo mai in volto. Però in effetti ricordavo una risata femminile che rispondeva agli apprezzamenti dei soldati di guardia.
Cercai di ricacciare un’ondata di disprezzo per la frivolezza della mia interlocutrice.
Però il fatto che fosse lei a portarmi da mangiare poteva spiegare la faccenda dell’occhio. Forse, a causa della mia stanchezza, la mia mente mi aveva giocato brutti scherzi, impedendomi di percepire il corpo a cui l’occhio apparteneva e facendomelo apparire bianco anziché azzurro.
Sì, era tutto molto logico e plausibile.
«E cosa sei venuta a fare?» chiesi.
«Voglio aiutarti».
Feci una smorfia amareggiata. «Non vedo come».
«Ho sentito il mio padrone parlare con il suo siniscalco. Ha detto che tra pochi giorni partirà per Uru’bean e si presenterà al cospetto del re. Pare che voglia portarti personalmente a lui, perché possa interrogarti».
Oh! Non avevo contemplato l’imminenza di quella possibilità. Che probabilità avevo contro Galbatorix? Meno di zero. Tento valeva strangolarmi da sola.
Eppure qualcosa in quella faccenda non quadrava. Mi era parso che Durza non fosse in buoni rapporti con il suo re. Quando gli avevo chiesto perché avesse cercato di impedirmi di cedere alle torture di Barst lui mi aveva dato una risposta vaga, ma che suggeriva un certo distacco dal suo signore.
Ti dico solo questo: non è detto che io riferirei direttamente al mio re come un cagnolino obbediente chiaro?
Fissai con decisione l’iride della ragazza, che resse il mio sguardo con tranquillità. Come potevo sapere se potevo fidarmi di lei? E perché mi diceva quelle cose? Se Durza l’avesse scoperta avrebbe passato brutti guai.
Decisi di stare sul vago. «Perché sei qui?» chiesi di nuovo.
«Te l’ho detto, voglio aiutarti ad uscire».
«Perché mai dovresti? Sarebbero guai seri se il tuo padrone ti scoprisse» osservai.
Emise un sbuffo giocoso. «Se mai mi scoprirà..»
«Tra poco torneranno le guardie» la informai.
«Ci vorrà ancora un po’ perché arrivino. Si stanno intrattenendo con alcuni boccali di idromele».
La cosa non mi era troppo chiara. Non si erano mai ubriacati, che cominciassero in quel momento era un poco strano.
«Cosa ci fai nella fortezza di Gil’ead, nonché palazzo privato di Durza e prigione di stato per traditori e ribelli?» L’occhio azzurro si socchiuse. «Sei una traditrice o una ribelle?»
Non le risposi. «Dici di volermi aiutare..»
Va bene, non sapevo nulla di quella ragazza comparsa dal nulla, e non ero convinta affatto poter fare affidamento alle sue promesse.
Ma mi stava offrendo una via di fuga! Era un’occasione troppo allettante perché la facessi cadere nel vuoto con i miei sospetti. Tanto che avevo da perdere? Se di lì a poche settimane fossi finita nelle grinfie di Galbatorix mi sarei dovuta uccidere perché non prendesse con la sua forza misteriosa i segreti che custodivo.
E io non volevo morire senza nemmeno cercare un’alternativa.
«Sì» rispose la giovane prontamente. «Ho le chiavi della tua cella con me e ti farò uscire di qui. Solo.. potresti dirmi come ti chiami?»
Mi alzai in piedi. «Non vedo perché dovrebbe interessarti». Perché tutti in quella fortezza -a partire da Durza- parevano avere un’ossessione per i nomi?
«Non c’è un motivo preciso. Diciamo curiosità, voglio avere un nome quando mi ricorderò di te».
Riflettei un istante. Se ormai anche Durza possedeva quell’informazione, passarla ad una delle sue cameriere non doveva essere così pericoloso, però.. «Aryna» storpiai.
Vidi che annuiva. Poi aprì la porta. «La tua spada e il tuo arco sono nell’armeria, ma fossi in te non andrei a riprenderli. La struttura di questo posto è particolare. Tu ti trovi nell’area militare, nonché la più sorvegliata. Per avere qualche speranza di scappare di qui dovresti intrufolarti nel palazzo, c’è un’entrata dalle prigioni. Sali quelle scale» indicò le ripide rampe di pietra «e percorri tutto il corridoio a destra. Troverai una porta che ti condurrà direttamente nel giardino del palazzo. Tieni»
Mi porse un abbozzo di mappa stilizzata su un pezzo di carta.
Spostai lo sguardo su di lei. Era molto giovane, con la pelle del viso luminosa e leggermente tinta di rosa sulle gote. Gli occhi erano grandi e dello stesso colore azzurro intenso del cielo sereno in estate. I capelli color del grano erano stretti sulla testa in una crocchia, ma un paio di ciocche ribelli erano scivolate dalla pettinatura e le incorniciavano il volto innocente. Era esile e almeno di una spanna più bassa di me, ma con delle curve che un uomo avrebbe decisamente definito sensuali, e che il semplice abito aderente risaltava. Per essere un’umana era molto graziosa, di una bellezza eterea e delicata. Anomala.
E per di più era anche pulita, cosa piuttosto rara per un umano. Persino i capelli non erano divisi in ciocche untuose, doveva aver fatto un bagno al più tardi qualche giorno prima.
Ancora non mi fidavo di lei. Per niente.
Sorrise. «Aspetta che mi allontani prima di salire le scale. Se Durza lo venisse a sapere..» la sua espressione si incupì.
«Perché lo fai?» chiesi.
Gli occhi azzurri persero la loro luminosità. «Troppo sangue innocente ha imbrattato questa città. Il re ha ucciso la mia famiglia, l’unica cosa che mi sento in grado di fare per contrastarlo è fargli sparire i suoi prigionieri».
Oh. Strinsi le labbra e annuii bruscamente. «Grazie». E il mio ringraziamento fu sincero.
Mi salutò con la mano, recuperando il buon umore. «Non accennare mai a me. Una volta raggiunto il giardino sali al secondo piano e cerca una stanza con la porta di legno di quercia. A quella stanza si affaccia un rampicante robusto che ti permetterà di calarti fuori dal muro. Una volta fuori non fermarti in città. Mascherati in qualche modo e corri fuori prima che si faccia buio del tutto, perché in quel momento chiudono il portone e ti individueranno subito. Buona fortuna. E addio».
Corse su per le ripide scalette, senza neppure darmi il tempo di ringraziarla nuovamente e come si conveniva.
Guardai le scale.
Le ripide scalette di pietra.
Quelle per cui mi aveva trascinata Durza dopo la mia cattura.
Più di due mesi prima.
Mi colse un capogiro: ero fuori! Libera! Finalmente avevo una possibilità di fuga, di tornare tra la mia gente. Il mio cuore si allargò di una speranza feroce. Mi parve che un fiotto di nuova energia fosse fluito nel mio corpo e all’improvviso l’ambiente non vorticava più intorno a me, i miei sensi erano relativamente vigili.
Sgomberai la mente e mi concentrai sui suoni. Non avrei sprecato quell’occasione.
Salii le scale senza riuscire a trattenere un tremito di emozione. Bastarono quei pochi scalini per rendere più aspro il mio respiro. Non ero più l’elfa guerriera e forte che era stata portata in quel luogo di morte.
Avvertii il respiro di un uomo nel corridoio superiore e mi ricordai dell’uomo che aveva aperto la porta a Durza, la notte che eravamo arrivati a Gil’ead. Doveva essere il custode delle prigioni.
Strisciai nel corridoio malamente illuminato dalle poche torce appese al muro, non vista.
L’uomo che mi dava le spalle era robusto e barbuto e stava canticchiando una volgare canzone popolare, che mai al mondo vorrei rievocare. E puzzava come solo gli uomini potevano puzzare. Sospirai di sollievo.
Durza aveva l’abitudine di lavarsi ed era pericoloso, gli uomini non si lavavano e non lo erano. La ragazza bionda si lavava e poteva essere pericolosa anche lei. Gli Elfi si lavavano ed erano pericolosi.
Mi venne da ridere di fronte alle mie sciocche congetture.
Poi mi feci seria non appena mi resi conto si ciò che avrei dovuto fare di lì a poco e mi avvicinai all’uomo; gli sgusciai alle spalle, gli afferrai la testa tra le mani e con una brusca torsione gli spezzai l’osso del collo. Si afflosciò a terra con un rumore di ferraglia.
Ricacciai un groppo alla gola e mi chinai su di lui per chiudergli gli occhi. Non ero una debole. Il mio cuore era troppo indurito per riuscire a provare ancora pietà per i morti.
Non indossava l’armatura, ma aveva una spada a cintura.
Gli sfilai lo spadone largo e pesante dalla cintura, di buona lega, ma scadente rispetto alla mia spada elfica. Ebbi una fitta di nostalgia per la mia spada, leggera e appena più larga di una spada a striscia, estremamente maneggevole. Purtroppo avrei dovuto abbandonarla chissà dove nella fortezza. Era nata per me, fabbricata da un fabbro di Ellesméra, ma non dalla famosa maestra Rhunön. Lei non forgiava più spade dalla caduta dell’ordine dei cavalieri.
Scacciai il pensiero. Ero veramente troppo distratta.
Seguendo le istruzioni della ragazza -non le avevo nemmeno chiesto il suo nome- percorsi il corridoio sulla destra, ignorando tutte le porte di ferro delle prigioni e puntando con sicurezza alla porticina di legno di fronte a me. Passando davanti ad una torcia, vi appoggiai sopra il pezzo di carta su cui era disegnata la mappa semplificata della fortezza e la lasciai bruciare, era meglio se non me la trovavano addosso o avrei anche dovuto trovare una scusa intelligente per giustificare il perché ce l’avessi. Ma a dire la verità non avevo la minima intenzione di farmi catturare.
Quando l’aria gelida all’esterno mi colpì, il respiro mi si mozzò. Rimasi qualche istante immobile nell’angolo del giardino, mangiando con gli occhi tutto quello che mi capitava allo sguardo. Gli alberi spogli, il pozzo di mattoni rossi coperto da un velo di neve, il cielo plumbeo e scuro della sera. Il grande giardino era circondato da un edificio che aveva una struttura a metà strada tra una caserma, un edificio pubblico ed una residenza. Intravidi da lontano l’ombra scura di una torretta di guardia, ma era buio e l’uomo che si trovava lassù in cima con una torcia in mano non poteva sicuramente vedermi.
Respirai avidamente l’aria gelida, che mi seccò la gola. Non vedevo uno spazio aperto da settimane.
Non c’era nemmeno la luce incerta della luna.
Rabbrividii per il gelo.
Nonostante il cattivo tempo era una notte perfetta per una fuga silenziosa.
Sorrisi.

[Hillr]
Hillr lavorava al servizio di Durza lo Spettro da più di vent’anni e conosceva l’umore del proprio padrone come conosceva le sue tasche.
Per quel motivo temeva l’espressione rannuvolata del suo signore mentre avanzava a passi veloci per il palazzo, imboccando con sicurezza lo scalone in pietra rivestito da un pesante tappeto rosso cupo. Lo scalone portava ai piani alti, dove stavano le stanze padronali e degli ospiti e la libreria e le camere dei servi più importanti. Come lui.
Hillr non poteva lamentarsi di nulla. Ormai vicino alla quarantina, aveva avuto una vita piuttosto serena, anche se passata al servizio di uno Spettro.
A dire il vero le premesse non erano state tra le migliori. Era figlio di una donnaccia, sua madre faceva la pescivendola al porto di Teirm e lui avrebbe potuto scegliere suo padre tra una decina di marinai, date le discutibili abitudini disinibite di sua madre, che a quanto pareva era solita trascinarsi nei magazzini portuali con uomini ogni notte diversi. Si era chiamata Moira, un nome insulso, appioppatole dai genitori che, dopo cinque figli, dovevano aver avuto altro da fare che cercare un nome poetico per lei. E così lei si era chiamata Moira, perché quell’anno c’era stata una gran moria di polli in città e tutti quelli della sua famiglia erano morti stecchiti, riducendoli alla fame.
Quando era rimasta in cinta -aveva sì e no quindici primavere- i genitori l’avevano ovviamente cacciata di casa. Non avevano certamente bisogno di un’altra bocca da sfamare!
Sua madre se l’era cavata piuttosto bene anche da sola. Era stata assunta da un uomo che possedeva gran parte del mercato di pesce a Teirm e aveva iniziato a vendere il pesce per conto di lui, perché certamente da sola non sarebbe riuscita a gestire un peschereccio. Aveva una paga misera, ma bastava per lei e il figlioletto.
Hillr ricordava perfettamente il giorno in cui avevano lasciato quella città. Lui sarebbe diventato uomo nel giro di un anno, aveva già qualche accenno di barba! Sua madre voleva allontanarsi dalla città che l’aveva disprezzata e lui era stato felice di seguirla. Avrebbe potuto renderle il favore che gli aveva fatto quando non lo aveva annegato appena nato, aiutandola nel suo futuro lavoro, e poi non amava farsi chiamare “bastardo” da tutti quelli che incontrava per strada, era felice di andarsene. Era un tipo pacifico lui e non voleva scatenare alcuna rissa.
Si spostarono di parecchie miglia e finirono a Gil’ead. Lì una vecchia signora che faceva l’erborista assunse Moira come sua apprendista e lei ne ereditò la bottega quando la vecchina morì, un paio di anni dopo.
Sua madre lo aveva costretto ad imparare a leggere e scrivere dalla vecchia, sostenendo che un giorno avrebbe potuto cambiargli la vita avere delle capacità simili. Lui odiava entrambe le attività, ma si costrinse a seguirle per amore della genitrice.
Sua madre si dedicava alla cura degli abitanti con solerzia e passione. Adorava quell’impiego, anche se Hillr ne era vagamente disgustato. Non era bello assistere a deliri di uomini febbricitanti, tirare indietro i capelli alle donne incinte perché potessero vomitare senza imbrattarli e ascoltare le ultime parole degli anziani sul loro letto di morte, tra la puzza di sudore e urina.
Lui non era come tutti gli altri ragazzi della sua età, non ambiva a diventare un cavaliere o un potente signore, avrebbe tanto voluto fare il contadino. Voleva un piccolo pezzo di terra da coltivare e magari qualche oca e qualche gallina. E una donna, una moglie che gli restasse accanto per tutta la vita, facendolo sentire accettato, come solo sua madre sapeva fare.
Erano desideri semplicissimi. E la moglie l’aveva quasi trovata. Era una ragazza che viveva vicino al lago, ma che saliva in città per comprare il pane. Aveva sempre un vestito color zafferano e un sorriso gentile per tutti. Si erano parlati spesso e quando lui aveva proposto di recarsi dal padre di lei per chiedere la sua mano lei si era dimostrata entusiasta.
Ma poi tutto era crollato.
Sua madre non era riuscita a curare ben tre persone di seguito! Era una brutta malattia e lei non aveva potuto fare nulla contro tutto quello, e i poveri disgraziati erano morti sputando sangue. Non li aveva curati, ma non perché non volesse, ma proprio non sapeva come fare, era oltre le sue capacità.
Ma nessuno le aveva creduto. L’avevano chiamata strega, figlia di Elfi, accusata di aver avvelenato le sorgenti affinché tutte quelle persone si ammalassero.
Lui l’aveva difesa, ovviamente. Sua madre non aveva fatto nulla! Era una donna buona nonostante tutto!
Non era bastato.
Si era radunata in fretta e furia una catasta di legna, legata sua madre ad un palo e appiccato il fuoco.
Lo avevano tenuto fermo e costretto a guardare mentre Moira la Strega bruciava viva, urlando atrocemente per il dolore e imprecando contro gli dei.
La ragazza che amava era stata la prima a sputare sulle sue ceneri. Anche suo padre era morto sotto le magie oscure che sua madre aveva imparato dagli Elfi.
Non contenti, gli abitanti vollero uccidere anche lui, perché il sangue maligno della Strega si esaurisse. Qualcuno si procurò una scure, non avrebbero sprecato del legno per una pira, la sua anima non aveva bisogno di bruciare dato che le streghe erano solo le femmine.
Ma quando la lama stava per calare sul suo collo tutto si era fermato.
Il padrone era tornato. Il governatore di Gil’ead stava rientrando in città a spron battuto sul suo gigantesco cavallo da guerra e tutti si affrettarono a fargli ala, lasciandolo passare.
Hillr non aveva mai visto il governatore, sapeva solo che era una creatura non umana, ma neppure un Elfo. Qualcuno diceva che fosse un demone. Ed in effetti pareva proprio un demone l’uomo che sorrise malignamente alla folla, snudando dei terribili denti aguzzi. La sua pelle era dello stesso colore di un osso sbiancato, sembrava un cadavere, e il contrasto con i capelli rossi la rendeva ancora più bianca. E non aveva ancora visto i suoi occhi! Quando per sbaglio aveva incrociato il suo sguardo mentre gli passava accanto e quasi aveva gridato. Quegli occhi. Non avevano nulla di umano. Rossi come sangue, da animale, eppure così penetranti, vigili, scrutatori. Quell’essere aveva qualcosa di profondamente inquietante e non era solo per il suo aspetto esteriore. Era una sensazione che colpiva l’anima di tutti i presenti, c’era qualcosa in lui, nel suo modo di camminare e di guardarsi intorno, qualcosa che rendeva indubbio il suo potere, di qualunque natura fosse.
Qualcosa che faceva paura.
Il mostro aveva scrutato attentamente il mucchio di legna annerita e ancora fumante che sorgeva in mezzo alla piazza del mercato, dove di solito si montava la gogna. C’era ancora odore di carne bruciata nell’aria.
Il governatore era scoppiato a ridere in un modo che aveva terrorizzato tutti.
«Avete bruciato una strega, dunque» aveva detto, con un tono così sprezzante che tutti nella piazza si erano sentiti stupidi. Tremendamente stupidi.
«Deduco che a nessuno di voi piaccia la stregoneria».
Tutti in città sapevano che quell’uomo -se tale poteva definirsi- praticava della magia nella sua forma più oscura. Erano voci che erano filtrate anche alle orecchie di Hillr. Una madre sussurrò alla figlia che quello che aveva davanti era Durza lo Spettro, il governatore della città.
Il giovane Hillr non sapeva esattamente cosa fosse uno Spettro, ma non lo avrebbe capito neppure più avanti. Gli Spettri erano creature misteriose che nessuno conosceva e lui non si sarebbe mai azzardato a fare domande al diretto interessato.
«E tu eri il rampollo suppongo» aveva proseguito la creatura dagli occhi felini, guardandolo da testa a piedi.
Hillr si era sentito snudato, come se quegli occhi animaleschi lo stessero rivoltando.
«Sai leggere?» gli aveva chiesto.
Allora Hillr aveva creduto che fosse una domanda stupida, posta in quel contesto. «Sì» aveva risposto, prontamente.
«Se hai bisogno di un lavoro, vieni più tardi al palazzo. Di’ che ti manda Durza lo Spettro».
Dette quelle poche parole aveva spronato il cavallo verso il palazzo di pietra grigia che troneggiava al centro di Gil’ead, sussurrando un paio di parole in una lingua sconosciuta, che spaventarono ancora di più gli abitanti.
Ma non era ancora finita.
Finite le parole, sette persone nella piazza caddero a terra. Morte.
Hillr li guardò uno ad uno. Erano i capi. Quelli che avevano esortato tutti a bruciare sua madre. C’era anche la ragazza che stava per sposare.
Aveva sorriso, mentre grida di panico rimbalzavano ovunque.
La morte ingiusta era già stata vendicata, ma a quel punto temeva per il cavaliere dai capelli rossi. Erano molti, gli abitanti di Gil’ead. E lui era solo. Se gli si fossero avvicinati lo avrebbero potuto disarcionare facilmente e uccidere a forza di pedate.
Ma nessuno lo fece. E Hillr credette di capire il perché. Quell’uomo era inavvicinabile, pareva avere il potere di piegare gli elementi al suo volere e incuteva un senso di timore che era pressoché insuperabile.
Nessuno gli torse un capello, nessuno fece un segno scaramantico contro la cattiva sorte, nessuno innalzò una preghiera agli dei, e nessuno fermò lui quando seguì l’uomo che gli aveva appena salvato la vita.
Da allora erano passati vent’anni. Hillr era entrato al servizio di Durza e si era subito trovato bene tra pile di carte da scrivere e trascrivere. Non amava il suo padrone, era impossibile amarlo, faceva troppa paura. Però lo rispettava e gli era profondamente grato per aver vendicato sua madre quel giorno di tanti anni prima. Adesso era il suo siniscalco, il suo consigliere, il vice governatore, il coordinatore della vita del castello, colui a cui tutti facevano riferimento per riferire i messaggi allo Spettro.
Era un ruolo degno di nota e Hillr ne andava fiero.
Sua madre aveva avuto ragione ad insistere nell’insegnargli a leggere e scrivere. Era stata la sua salvezza.
            L’uomo annaspò dietro alla camminata troppo rapida del suo padrone. Era invecchiato, non era più quello di un tempo e presto sarebbe stato troppo rincitrullito per continuare nel suo mestiere. Sarebbe stata una vecchiaia triste la sua. Niente moglie, né figli. La sua unica compagnia fuori dal castello erano le donne del bordello, ma non avevano alcun valore affettivo.
Respirò dalla bocca, praticamente correndo dietro alla chioma rossa che pareva sfrecciare davanti a lui. Una cosa inquietante del suo padrone era che non era invecchiato di un giorno da quando lo aveva visto per la prima volta, vent’anni prima. Era contro natura!
Come se il tempo gli scivolasse addosso senza scalfirlo. Sapeva che quella era una prerogativa degli Elfi, ma sapeva anche che il suo padrone non era un lurido Elfo!
Però sembrava comunque che la sua età si fosse cristallizzata intorno alle venticinque, forse trenta primavere. E a quanto pareva aveva anche le stesse energie di un uomo di quell’età.
«Gradirei che non venissi a cercarmi nelle prigioni per farmi annunci di questo tipo, Hillr» disse con voce monocorde dopo che si fu seduto oltre alla massiccia scrivania di legno, senza invitarlo a fare altrettanto. Del resto non aveva mai provveduto a sistemare un'altra sedia nella stanza.
«Si tratta di una notizia importante, Signore» ribatté, recuperando fiato ed entusiasmo.
«Appunto per questo» occhi rossi lo fulminarono, facendolo quasi indietreggiare. «La prigioniera non deve venire a sapere nulla. È una dei ribelli, te l’ho detto. Non credo che potrà mai sfuggirmi, ma nel caso ci riuscisse non deve avere in mano informazioni utili».
«Lei è molto bella» disse Hillr di punto in bianco.
Il suo padrone fece un gesto spazientito. «Lo dite tutti. Cosa ci troviate in una donna piatta come un tavolo ancora non lo capisco.»
Hillr era convinto che il suo padrone capisse benissimo. Era vero, forse la ragazza non aveva un corpo molto attraente: era veramente troppo alta e con curve pressoché inesistenti. Insomma aveva un fisico troppo androgino, ma il viso era estremamente esotico e ammaliante. Nulla deturpava la perfezione della sua pelle se non la sporcizia e le ferite, aveva occhi di una forma particolare e di un verde sorprendente. Innaturale. Hillr aveva molto sentito parlare degli elfi e aveva sentito qualche chiacchiera dei soldati. Qualcuno diceva che fosse stata lei ad aver ucciso Bastof, qualche mese prima. E lui ci credeva.
Quella ragazza era troppo strana per essere una semplice umana e un volto così affilato non l’aveva mai visto in vita sua, con il naso sottile e il mento aguzzo sembrava quasi un rapace.
Forse non era poi così tanto bella.
«Non è umana vero?» chiese, e subito fu certo di essersi spinto troppo in là.
Lo Spettro lo scrutò in silenzio, con circospezione. «Non ucciderai un’Elfa per vendicarti delle tue sofferenze» disse poi. «Non è colpa sua se i tuoi compaesani hanno accusato tua madre di discendere dalla sua razza».
«Ma la dovrai uccidere» replicò Hillr. «Sarà molto importante per te farlo di persona? Potrei occuparmene io al posto tuo» aggiunse speranzoso. Lui odiava gli elfi. Se non fossero mai esistiti sua madre non sarebbe morta, uccidere uno di loro era come dimostrare di aver avuto ragione.
«Se le succederà qualcosa sarai il primo a pagarne le conseguenze» disse tranquillamente lo Spettro, guardandosi distrattamente le unghie. Poi fece una smorfia «Anzi, forse il secondo».
«Credo di essere l’unico a sapere con esattezza chi sia la ragazza» lo rassicurò.
Il suo signore scosse la testa. «No Hillr. Anche lei lo sa, molto meglio di te».
Hillr spostò il peso da un piede all’altro a disagio. Lei. La spia del suo padrone. Anche lei era troppo sinistra.
Scosse la testa per scacciare tutti i pensieri funesti. «Devo ancora riferirti la notizia».
Durza annuì. «Ti ascolto».
«Ieri due dei tuoi soldati si trovavano in ricognizione quando si sono imbattuti in un viandante solitario» cominciò Hillr. «Ha evitato accuratamente Gil’ead e ha puntato verso Daret. Capirai che un viandante solo, a piedi, nella stagione del gelo e con l’aria schiva li ha immediatamente insospettiti». Durza annuì lentamente, serio e concentrato. «Lo hanno fermato e lo hanno interrogato, chiedendogli dove andasse e perché viaggiasse solo. Quello ha risposto dicendo che stava andando alla tomba della sorella morta qualche settimana prima e che veniva da Dras-Leona. La sua meta era proprio Daret e abbiamo avuto la fortuna sfacciata di avere un abitante di Daret tra i due soldati. Gli ha detto quasi per scherzare se conoscesse una determinata taverna dove il vino era buonissimo e il viandante ha risposto affermativamente, con entusiasmo».
«L’unico problema è che questa taverna non esisteva affatto, giusto?» lo interruppe Durza sorridendo malignamente.
Dei passi risuonarono fuori dalla stanza e poi scomparvero. Probabilmente qualcuno era venuto a portare la cena al padrone, ma aveva rinunciato trovandolo impegnato.
Hillr fece un cenno affermativo. «Esattamente. I soldati hanno proseguito con le domande ma hanno ricevuto solo risposte vaghe, quindi hanno deciso di portare l’uomo con loro. Lui ha opposto resistenza, aveva una corta spada sotto la tunica e la sua copertura di innocuo viandante è saltata. Non ha voluto rivelare nient’altro nonostante i metodi di persuasione, ma ora si trova qui a Gil’ead, nelle prigioni del piano terra ed è pronto a subire il tuo interrogatorio, quando più lo desideri».
Durza assunse un’espressione soddisfatta e incuriosita. «Sarà uno dei ribelli?»
«Non lo sappiamo signore».
«Lo scopriremo».
Hillr stava per replicare, quando il trillo stridulo della campana della torre lo interruppe.
Il siniscalco sbiancò in volto. Quella campana suonava solo segnali di allarme.

[Arya]
Ispirai ancora una volta l’aria fresca e poi decisi di mettere da parte i sentimentalismi. Sgusciai nel porticato che si affacciava sul cortile e poi all’interno di una piccola porticina di legno. Mi affacciai e uscii immediatamente quando capii che si trattava delle cucine, affollate di servitori intenti a lavare pentole.
Fortunatamente non c’era troppo movimento a quell’ora, probabilmente buona parte dei soldati stava cenando e i servitori erano impegnati a servirli.
Dovevo raggiungere il primo piano e cercare una porta di legno di quercia. Potevo farcela.
Entrai da un portone più grande e mi trovai di fronte ad un ampio scalone di pietra rivestito da un folto tappeto rosso scuro.
Usai la massima cautela, ma per salire lo scalone dovetti espormi alla luce delle torce e una serva che lo stava scendendo con un vassoio di cibo in mano mi vide e gridò.
In effetti non dovevo essere un bello spettacolo. La camicia bianca mi si era appiccicata alle ferite fresche della giornata, tingendosi di un macabro color cremisi, stringevo in mano uno spadone dei soldati e i miei piedi scalzi erano rossi, gonfi per il gelo e scorticati a sangue, i miei capelli scarmigliati.
Il grido della cameriera non si era ancora spento, quando una campana suonò. Fu un suono vicino e acuto, probabilmente veniva dalla torretta che avevo visto dal giardino. Aveva un ritmo allarmante. Era un segnale di allarme!
Schizzai su per i gradini, scostando bruscamente la cameriera impalata sul posto e facendola cadere a terra. Imboccai a casaccio la parte sinistra del corridoio che mi si apriva davanti, guardandomi febbrilmente intorno alla ricerca di una porta di quercia.
Andai a sbattere contro un muro solido. Riconobbi Durza dal rosso dei suoi capelli. Mi ero appena scontrata con lo Spettro, si poteva essere più sfortunati?
Un paio di mani forti si serrarono sulle mie spalle e Durza mi guardò con occhi severi. «Dovevi proprio fare sciocchezze durante l’ora di cena?»
In risposta alzai la mano che stringeva la spada, cercando di colpirlo al petto. Si scostò agilmente ed estrasse la spada che teneva sempre a cintura. Era uno scontro impari ed io ero così debole che finii subito disarmata. La lama quasi trasparente di Durza emise un trillo argentino quando si scontrò contro la mia, che scivolò dalla mia presa malferma.
Un’ondata di rabbia e frustrazione mi travolse.
Gli tirai qualche rabbioso pugno allo sterno, ma non potei continuare quando lui mi afferrò i gomiti.
Fece un lieve sorriso. «Smettila piccola Elfa o mi vedrò costretto a tirare fuori il metodo dell’ultima volta».
Avevo ancora il risultato del “metodo dell’ultima volta” sulla gola e non ci tenevo a ripetere l’esperienza.
«Ti odio» sputai.
«Prevedibile. Come hai fatto ad uscire?»
Serrai le labbra e alzai orgogliosamente il mento.
«HILLR!» gridò, così forte da farmi male alle orecchie.
L’uomo di mezza età annaspò nella nostra direzione qualche istante dopo e mi gettò uno sguardo sconcertato, che in un istante si fece ostile.
«Vai a vedere cosa è successo nelle prigioni e fammi rapporto. Due minuti» ordinò seccamente Durza.
L’uomo fece un inchino profondo. «Devo riportare la prigioniera nella sua cella?»
«No, vai. Io e la prigioniera dobbiamo scambiare due chiacchiere».
«E così mi porterai dal re!» dissi, non appena fummo di nuovo soli.
Inarcò un sopracciglio. «Perché dovrei?»
Scossi la testa. Non volevo tradire la ragazza, probabilmente avevo già detto qualcosa di troppo.
«Elfa» mi ammonì minaccioso.
Mi strappai un’unghia.
Mi afferrò i polsi. «Smettila». Annuì in direzione delle mie dita. «Odio quando lo fai»
«Lasciami» ordinai.
«Non credo che lo farò, non finché non avrai parlato. Come sei uscita dalla tua cella?»
Mi divincolai, ma le sue dita si strinsero saldamente. «Mi stai fermando la circolazione del sangue» lo informai.
Sospirò. «Cosa devo fare con te, Arya?»
Doveva essere la prima volta che pronunciava il mio nome. E non mi piacque il suono che aveva sulle sue labbra. Ogni parola detta da lui pareva essere insieme miele e veleno.
«Uccidimi» sibilai. «Avresti dovuto farlo subito. Uccidimi e i miei e i tuoi problemi saranno risolti».
Parve soppesare la mia proposta, estraendo con disinvoltura un pugnale dalla cintura.
«Ti semplificherei la vita, troppo». Mi fissò beffardo. «Hai sbagliato i tuoi calcoli, Elfa. È il mio signore che ama sentire i prigionieri implorare la morte, non io». Il suo sguardo si concentrò in un punto indefinito nella parte bassa del mio volto, intorno al mento. «Ci sono diverse altre cose che amerei fare, invece» bisbigliò suadente.
Non capii le sue parole, ma cercai in ogni modo di celargli la mia confusione.
Mi si avvicinò ancora, fino a farmi sentire l’odore di menta emanato da lui. C’era una strana luce nelle sue iridi rossicce, una luce che fui incapace di comprendere e che per questo mi atterrì ancora di più.
«Che vuoi fare?» cercai di assumere un tono spavaldo, ma la voce mi tremava.
Si mosse con la rapidità di un serpente, ebbi solo modo di vedere la lama lucente venirmi incontro e chiudere gli occhi.
Niente.
Non sentivo niente. Era così semplice morire?
Schiusi le palpebre, con cautela. Il pugnale era conficcato fino all’elsa nel portone alle mie spalle, ad una distanza millimetrica dalla mia tempia sinistra.
E respiravo ancora. E l’odore di menta selvatica era troppo.. vivo.
La mia attenzione saettò in un attimo al mio carceriere, che mi fissava con un insopportabile ghigno sfottente dipinto in viso. «Tu hai paura di morire.»
«Che ne sai?»
«Lo so» rispose asciutto, estraendo il pugnale senza sforzo.
«Sono pronta a sacrificarmi per il mio popolo» ribattei fiera.
Mi fissò con aria di compatimento. «Queste sono solo parole, e io ne ho abbastanza delle tue parole. Precedimi nella tua cella, Elfa» ordinò poi, puntandomi con noncuranza la lama all’altezza della gola, «vedrò di rendertela ancora più cara, così che tu non senta il bisogno di lasciarla mai più».
Fu quello il momento scelto da Hillr per tornare a fare rapporto. «Devo passare dopo signore?» chiese, lanciandomi nuovamente un’occhiata sospettosa. Capii di non piacergli.
«No parla pure, non credo che ci sia qualcosa che la nostra graziosa prigioniera non sappia già» fece un sorrisino feroce nella mia direzione.
L’uomo si schiarì la gola. «Non c’è segno di scasso nella porta della cella, chiunque l’abbia aperta deve averlo fatto con le chiavi, che però erano ancora appese alla cintura del custode. Che a dirla tutta, signore, è morto; aveva il collo spezzato. Gli uomini hanno poi notato l’assenza della prigioniera e hanno dato l’allarme».
Durza annuì con calma. «Le altre guardie dov’erano nel frattempo?»
«Erano state trattenute signore..»
«Cosa le ha trattenute?» ringhiò, perdendo pericolosamente il controllo.
Hillr aprì la bocca, poi la richiuse, poi parlò. «Alba, signore.»
Durza si spalmò una mano sul viso. «Quante volte vi ho detto di non ascoltarla?! EH?»
L’uomo si ritrasse.
Alba.
La ragazza. Aveva il nome della luce del mattino, nome che in effetti sembrava nato per il suo incarnato delicato e i capelli color dell’oro.
L’avevano scoperta. Un’altra innocente che sarebbe morta a causa mia.
«Con quegli idioti faccio i conti dopo, adesso» mi scoccò un’occhiata fiammeggiante, «tu ed io andiamo a decidere chi è che comanda qui dentro».
Mi afferrò per i capelli e mi fece rifare a ritroso la strada che avevo compiuto io qualche minuto prima per fuggire. L’ebbrezza della fuga si spense lentamente dentro di me, lasciandomi una sensazione di spiacevole vuoto.
«Ti ha fatto uscire una ragazza?» chiese Durza cupamente.
«So aprirla anche da sola una porta, Spettro, basta darsi da fare».
«Stai mentendo» sussurrò al mio orecchio.
Mi si accapponò la pelle. Era la prima volta che dava chiara dimostrazione del suo dono di leggere i sentimenti. E io ero troppo agitata, mi ero tradita da sola.
Il vento freddo sparì, le luci delle torce mi ferirono gli occhi, la puzza di chiuso e di muschio mi invase la gola mentre la porta nera della stanza delle torture si avvicinava inesorabilmente.
Quando Durza mi spinse dentro e chiuse la porta appoggiandocisi con la schiena, vidi nei suoi occhi una cupa soddisfazione che mi inquietò. Il suo umore pareva essere notevolmente migliorato da quel mattino, e non poteva essere dovuto a niente di buono.
«Forse dovremmo rimandare a domani mattina, piccola Elfa» disse.
«Non credo che andrò da qualche parte stanotte» ribattei seccamente, ma il mio tono mancò della durezza che avrei voluto imprimervi. La delusione per la libertà sfiorata mi bruciava ancora.
Durza scoprì i denti aguzzi in un sorriso raccapricciante. «Ma la tua mente viaggerà parecchio, te lo posso assicurare. Domani assisterai ad un bello spettacolo. I miei uomini hanno trovato un uccellino e domani vedremo di farlo cantare.. potrebbe rivelarsi parecchio interessante..»
Come potevo dormire sonni sereni con quelle parole che rimbalzavano nella mia mente?
Ero confusa.
Durza mi aveva fatto capire di non nutrire alcuna simpatia per Galbatorix.
La ragazza bionda, Alba, mi aveva assicurato di averlo sentito parlare con il suo siniscalco, e che aveva affermato di volermi portare dal re.
Il servo di Durza, Hillr, mi aveva guardata con l’aria di uno che mi avrebbe uccisa volentieri nel sonno.
Alba. Come aveva trattenuto i soldati? Perché Durza si era arrabbiato a tal punto nel sentirla nominare? Perché nel ricordare la sua immagine l’istinto mi suggeriva che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato in lei?
E Durza.. Sapevo cose significasse nel gergo militare “un uccellino da fare cantare”. Era un prigioniero, qualcuno a cui strappare confessioni. Chi altri era finito nelle abili mani dello Spettro? Intendeva forse farmi assistere a delle torture il giorno dopo? Quanto avrebbe resistito il prigioniero prima di implorare pietà?
La cella mi sembrava soffocante dopo quella breve sortita all’aria aperta.
Mi rannicchiai sul letto.
Gli uomini raccontavano spesso ai loro bambini che se non fossero andati a letto senza discutere o non si fossero comportati bene, l’uomo nero sarebbe uscito dalle ombre e li avrebbe portati via con sé. Ovviamente l’uomo nero non esisteva, era solo una fantasia che aveva come scopo quello di spaventare i bambini.
Ma in ogni caso, prima di nascondersi nell’ombra, avrebbe fatto meglio a controllare che non ci fosse Durza già acquattato nell’oscurità.

[Durza]
«Alba!»
Non le diede nemmeno il tempo di voltarsi che la schiaffeggiò con furia, lasciando un’impronta sulla sua pelle candida.
La ragazza emise uno strillo di dolore e si posò entrambe le mani sul viso.
«Cosa pensavi di ottenere, stupida!» la rimproverò aspramente.
Durza aveva fatto lui stesso domande agli uomini che sarebbero dovuti essere in servizio davanti alla cella dell’Elfa quando quella aveva tentato la fuga e tutti avevano confermato che Alba aveva fornito loro boccali di idromele, convincendoli a temporeggiare e assicurando loro di avere ancora parecchio tempo prima dell’inizio del turno di guardia.
Lo Spettro tolse bruscamente le mani dal bel viso della sua interlocutrice. «Perché?» chiese lapidario.
«I-io ero solo curiosa» balbettò la ragazza con un pizzico di indignazione. «Volevo solo controllare se lei fosse davvero..»
«Questo non ti riguarda più» la interruppe. «E perché l’hai fatta uscire?»
Gli occhi celesti si sgranarono. «Io non l’ho fatta uscire, le ho solo parlato per qualche minuto».
Lo Spettro la lasciò andare sospirando. «E chi se non tu? Sei l’ultima ad averla vista. Poi me la sono ritrovata davanti alla mia camera da letto».
«Non avrei avuto motivo di farla scappare» ribatté lei con sicurezza.
Durza la guardò con sospetto, per nulla convinto. Ma c’era una semplice maniera per conoscere la verità. Quella ragazza gli aveva giurato fedeltà e non poteva che dire la verità se lui l’avesse incastrata con la domanda giusta.
«Non mentirmi. Hai aperto la porta all’Elfa? L’hai aiutata a fuggire?»
«Non avevo la minima intenzione di farla fuggire».
Quelle parole furono la conferma che Durza aspettava. «Va bene» disse, più inquieto di prima.
Chi era stato allora? Possibile che l’Elfa fosse veramente riuscita ad aprire la porta con un qualche metodo a lui sconosciuto? Eppure la magia era totalmente fuori dalla sua portata..
«Portami la cena in camera» ordinò, prima di dirigersi un’ultima volta verso le prigioni.
Cominciava ad odiare quel luogo, era diventato un monumento alla sua sconfitta. Poteva almeno sperare che il nuovo prigioniero non sarebbe stato algido e insofferente come Arya.
Si affacciò alla cella del nuovo arrivato. Dormiva profondamente, avvolto nel suo mantello. Un taglio rossastro gli deturpava la fronte e aveva qualche livido sparso per tutto il viso. Tremava dal freddo e sembrava sofferente.
Durza pensò con un accenno di ottimismo che probabilmente sarebbe stato molto più facile con un comune essere umano, meno resistente sul piano fisico e mentale rispetto ad un elfo. E se quell’uomo era uno dei Varden, come lui sospettava, avrebbe potuto scoprire cose interessanti. Forse l’Elfa non gli sarebbe servita più e avrebbe potuto liberarsene. Aveva come la sensazione che la sua vita sarebbe stata molto più tranquilla senza di lei.
Forse avrebbe potuto soddisfare le richieste di Hillr e lasciare che la uccidesse.
O forse quelle di lei, anche se Durza non sapeva con esattezza cosa ne avrebbe fatto.
O forse avrebbe potuto tenere l’Elfa e piegarla al suo volere. Ci sarebbe riuscito prima o poi, ne era certo. Avrebbe impiegato mesi, forse un intero anno, ma alla fine l’avrebbe spezzata. Per piegare la volontà dei draghi anziani si impiegavano decenni, per quella di un’Elfa sarebbe certamente bastato meno.
Lo Spettro prese a tenere in considerazione l’idea con più serietà. Se voleva veramente prendere il potere al posto di Galbatorix aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile. E avere un’Elfa vincolata a sé da un giuramento di fedeltà avrebbe potuto rivelarsi molto utile.
Ci avrebbe pensato.
Passò anche dalla sua cella e sussurrò un incantesimo per bloccare ulteriormente la porta. Più di così non avrebbe potuto fare.
Gli occhi verdi di Arya incontrarono i suoi nel buio. Era turbata.
Durza sorrise. Quella era una delle poche vittorie che aveva avuto su di lei.
Poi se ne andò dalle prigioni e camminò verso la parte del palazzo riservata a lui.
Alba e la cena lo aspettavano nelle sue stanze.

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Capitolo 9
*** Verità e Bugiardi ***


9. Verità e Bugiardi

Avevo sentito i rumori fuori dalla mia cella. Qualcuno aveva trascinato un corpo inerte dalle scale e lo aveva portato fino in fondo al corridoio, nella stanza delle torture. Doveva essere l’uccellino da fare cantare.
Nessuno poteva aprire la mia cella perché Durza era venuto a sigillarla con la magia, durante la notte. I soldati avevano girato la chiave, ma dovettero attendere lo Spettro per poterla aprire.
Doveva essere già mattino inoltrato e Durza era di ottimo umore. Sorrideva e, nonostante il freddo, non portava neppure il mantello, ma solo camicia e casacca. Rigorosamente neri.
Si poggiò sullo stipite della porta e mi fece cenno di uscire, con ironica galanteria.
Lo precedetti nel corridoio. Ero tesa come una corda d’arco e un velo di sudore mi imperlava la fronte. Non sapevo proprio cosa aspettarmi da quella giornata, ma la prospettiva di dover semplicemente assistere a delle torture, e non subirle, mi rinfrancava un poco. Ero consapevole che i miei pensieri fossero piuttosto meschini, ma non potei evitarli.
Le ferite delle torture che avevo subito il giorno prima erano pressoché rimarginate e mi sentivo abbastanza in forma. Gettai un’occhiata sospettosa a Durza da sopra la spalla. Non mi ero resa conto che mi avesse guarita, se non quella mattina, non appena mi ero ridestata. Perché lo aveva fatto? Che progetti aveva per me?
Spinsi la porta nera ed entrai. Un uomo con il viso sporco di sangue e fango , disteso ed incatenato sulla lastra di pietra, mi gettò uno sguardo atterrito e poi si illuminò. I suoi occhi si sgranarono lievemente e un’ombra di sollievo spianò le rughe sulla sua fronte. Non lo riconobbi, ma dalla sua reazione dedussi che lui conosceva me. Quindi doveva avermi vista un paio di volte a Tronjheim, quando ero lì come ambasciatrice e custode, gli elfi non passavano certamente inosservati in mezzo agli uomini.
Quindi doveva per forza essere un membro dei Varden.
E quindi tutta l’organizzazione ribelle era in pericolo mortale.
Durza sapeva come spillare informazioni. E gli umani era così fragili..
C’era una sola cosa che potevo fare per impedire a quell’uomo di rivelare tutto ciò che sapeva.
Dita forti circondarono i miei polsi non appena diedi ai miei muscoli l’impulso del movimento e riuscii a malapena a fare un passo avanti prima di ritrovarmi bloccata dalla presa dello Spettro.
«Oh andiamo, Arya» sussurrò Durza dolcemente, «sei crudele. Quest’uomo non ti ha fatto nulla di male, credo».
Sentii l’uomo in questione deglutire rumorosamente non appena vide lo Spettro alle mie spalle. Chiusi gli occhi per nascondere le lacrime di rabbia e di impotenza.
Fui incatenata alla parete, in modo che mi fosse impossibile intervenire in alcun modo.
Mentre guardavo quell’uomo non riuscivo a togliermi dalla testa l’idea che uccidendolo gli avrei solo fatto un favore.
E la mia teoria non fu smentita.
«Ti porgo i miei omaggi, Gal di Dras-Leona giusto?» chiese lo Spettro in tono affabile. Ebbi un moto di disgusto per la sua doppiezza.
L’uomo annuì in silenzio, lanciandomi un’occhiata spaventata. Probabilmente si stava chiedendo cosa fare. Se qualcuno era riuscito a rendere impotente un elfo -che agli occhi degli umani erano creature invincibili- che possibilità poteva avere lui?
Feci un impercettibile cenno di diniego col capo. Doveva perlomeno fingere di non conoscermi se voleva sperare di cavarsela, anche se sinceramente non credevo che avesse qualche possibilità.
Colse il messaggio, era un tipo sveglio. Del resto Ajihad non avrebbe mai mandato un idiota in giro per conto suo. Era forse una spia? O stava portando un messaggio? In entrambi i casi le informazioni che aveva con sé potevano essere di mortale pericolo.
«Ti dispiace ripetermi chi sei e come mai stavi attraversando le mie terre? Con i miei soldati non ti sei dimostrato molto collaborativo» lo esortò Durza, quasi gentilmente.
«Mi chiamo Gal e vengo da Dras-Leona» cominciò l’uomo, parlando con lentezza e con un tono quasi fermo. «Circa un mese fa mia sorella è morta. Viveva a Daret e la notizia mi è giunta appena una settimana fa, quando i tuoi soldati mi hanno incontrato stavo andando a visitare la sua tomba. Mi hanno fermato e hanno cominciato a farmi delle domande, mi sono spaventato ed ero di fretta, quindi ho risposto sbrigativamente, finendo per dire una falsità. Loro si sono insospettiti e mi hanno portato qui, ma non ho fatto nulla di male».
Durza estrasse un pugnale e se lo picchiettò leggermente sulle labbra pallide. L’uomo sbiancò.
«Sai chi sono i Varden?» chiese poi, con apparente noncuranza.
«Sì signore» fu la pronta risposta. «Dei banditi che si nascondono ai confini del regno e che hanno delle pretese sul trono del re Galbatorix».
«Sai chi è lei?» domandò Durza puntando il pugnale nella mia direzione. Poi fece una smorfia di sufficienza non appena l’uomo rivolse lo sguardo a me.
«Un’Elfa, signore». Era spaventato, glielo si leggeva in viso.
«Volevo dire.. conosci il suo nome?»
«No signore».
«Non chiamarmi signore».
«Sì signore. Cioè.. va b-bene».
Durza sorrise e l’uomo sussultò alla vista dei suoi denti.
«Basta giocare» fece poi lo Spettro, indurendo la voce. «Stai mentendo, Gal di Dras-Leona. E il fatto che tu conosca Arya, ambasciatrice degli Elfi presso i Varden e custode dell’uovo di drago zaffiro, mi porta a pensare che tu sia un ribelle».
«Ti sbagli, non conosco costei» fu la debole protesta. Ma sarebbe bastato un attento osservatore umano per capire che mi conosceva, si era notato subito, non appena mi aveva vista entrare.
«Io non sbaglio mai. E per restituirti il favore mi presento: sono Durza lo Spettro, governatore di Gil’ead e figlio delle ombre. Ma mi pare di capire che tu mi conosca già».
Tutti tra i Varden conoscevano Durza. Ajihad ne parlava spesso, dispensando consigli su come ucciderlo.
«In molti ti conoscono» disse Gal.
Lo Spettro sorrise di nuovo. «Mi fa piacere. Ma ora ti prego di non farmi perdere tempo e di risparmiarti inutili sofferenze. Sai benissimo che se voglio ottenere da te delle informazioni le otterrò, ti rimane se scegliere di darmele adesso e tornare dalla tua gente con ancora tutte le dita delle mani o fartele estorcere con la forza. E morire».
«Ti stai sbagliando, non sono quello che credi!»
«Se parli subito entro stasera sarai sulla strada di casa senza un pelo della barba fuori posto» insistette Durza.
«Ti dico che ti stai sbagliando!»
«Quand’è così..»
Durza afferrò le tenaglie dal braciere spento e le arroventò con la parola di potere. Chiusi gli occhi fino a farmi dolere la testa, ma udii comunque con chiarezza le urla strazianti di Gal, mentre il mio nemico lo torturava. La sua voce si placò solo quando svenne, parecchi minuti dopo, senza però aver rivelato una sola parola compromettente.
Lo Spettro rise sommessamente e depose la tenaglia. «Siete bravi, voi ribelli. Forti e convinti fino alla fine».
«Sei spregevole» sputai.
«È il mio lavoro, Elfa».
Mi si avvicinò.
«Cosa ne farai di lui?» domandai annuendo in direzione del corpo inerte di Gal.
«Me ne occuperò più tardi. È umano ed è debole, non resisterà ad un attacco mentale ben fatto, specialmente in una condizione fisica così degradante. Non resisterà, non è un Elfo» concluse, con una punta di sollievo.
«Dunque ora tocca a me» osservai, con una morsa di panico al petto.
«Come da manuale» confermò lo Spettro, annuendo.
Chiamò i soldati fuori dalla porta ed ordinò loro di portare Gal nella sua cella. I militari lo liberarono dalle catene con la chiave che Durza lanciò loro e se ne andarono rapidamente, chiudendosi la porta alle spalle.
«Questa la togliamo?» domandò lo Spettro sarcasticamente, tirando lievemente il collo della mia camicia e iniziando a sbottonarla.
Mi liberò le mani dalle catene per potermela sfilare dalle braccia e poi si fermò a guardarmi in silenzio totale, alla luce incerta delle torce appese alle pareti. Il suo sguardo era così insistente che provai un moto di imbarazzo e seguì i suoi occhi per capire cosa non andasse. Quando mi guardai fu tutto chiaro.
Le ferite che già quella mattina erano nettamente migliorate, erano scomparse.
Mi sollevai un braccio davanti agli occhi, incredula. Non vi era alcun segno di ferite recenti, solo la traccia rossastra dei tormenti passati.
Durza mi strinse il braccio con forza. «Come hai fatto?»
Reclinai il capo di lato, confusa. «Credevo mi avessi guarita tu».
«Come hai fatto?» ripeté con calma glaciale. «Prima esci dalla tua cella con facilità, ora ti risani le ferite». I suoi occhi rossastri furono incupiti da un lampo di spavento.
Durza aveva paura.. di me. La situazione era comica.
Mi strinse il mento e me lo sollevò, costringendomi ad esporre la gola.
«Anche quello è scomparso!» esclamò.
Capii che si stava riferendo al livido violaceo che mi aveva procurato con i suoi baci insistenti e un lampo di trionfò illuminò la mia confusione. Poi tornò tutto all’origine. Perché se non era stato Durza a guarirmi non avevo la minima idea di chi potesse essere stato. Forse c’era qualcuno intenzionato ad aiutarmi a Gil’ead. Forse.. Alba? Era una maga? In effetti quando era comparsa lei avevo avvertito una forza improvvisa invadermi, ma avevo imputato tutto all’eccitazione del momento.
Con un’occhiata constatai che il mio carceriere era allibito e disorientato, ma si stava dando un gran daffare per riuscire a riprendere il controllo della situazione.
«Fa’ un incantesimo» ordinò.
Scossi la testa. «Per farmi quasi ammazzare da una scarica di energia? No grazie, Spettro».
Non si scompose. «Se lo fai potrei evitarti le torture per oggi, se non lo fai ti assicuro che riempirò ogni pollice della tua pelle di lividi. Con lo stesso metodo che ho usato per quello che avevi sul collo».
Tentennai. Era un bel ricatto. Il buon senso mi suggeriva di accettarlo, l’orgoglio di resistervi.
Durza mi afferrò una mano e si portò il polso alla bocca. Le sue labbra ruvide sfiorarono la mia pelle.
Il mio istinto di conservazione prevalse su buon senso ed orgoglio.
«Va bene, va bene». Allontanai il suo viso da me.
Lo Spettro si lasciò sfuggire un sorrisetto irriverente. «Devo proprio disgustarti parecchio».
Lo ignorai. Pensai ad una parola di morte. Se dovevo tentare un incantesimo che magari poteva funzionare tanto valeva farlo in grande. Pronunciai la parola e feci per attingere alle mie energie, ma le ametiste si attivarono e io mi ritrovai a contorcermi, agonizzante per il dolore.
Quando il sangue cessò di rombarmi nelle orecchie, mi resi conto che Durza mi aveva trattenuta, afferrandomi per i fianchi affinché non cadessi a terra.
Lo udii imprecare oscenamente, come solo un nano ubriaco poteva fare.
«Se credessi agli dei, direi che ce n’è qualcuno che ti vuole mantenere in salute, Principessa» ringhiò poi tra i denti.
A quel punto non vi erano più spiegazioni sensate. Lui non mi aveva guarita. Io non potevo essermi guarita. Doveva averlo fatto qualcun altro.
«Ti riporto nei tuoi alloggi» disse, lasciandomi andare.
Raccattai la mia camicia da terra e la indossai, poi lo seguii per il corridoio, con la mente ancora annebbiata e il corpo intorpidito per il dolore. Guardai con ostilità l’anello che mi cingeva l’indice sinistro.
Durza entrò con me nella mia cella e iniziò a pronunciare diversi incantesimi, che riconobbi con facilità, nonostante la mia lingua madre cominciasse a suonarmi strana dopo mesi che non la parlavo. Mi ero spesso sorpresa a pensare nella lingua degli uomini, che era ormai l’unica che usavo. E praticamente solo per parlare con Durza.
Lo Spettro sigillò tutti i muri della stanza e piazzò incantesimi che gli avrebbero segnalato se qualcuno avesse agito sulle sue barriere o se qualcuno avesse usato la magia su di me o nel raggio di tre iarde intorno a me.
Non sapevo se sentirmi protetta o ancora più reclusa di prima.
Non sapevo se la forza che mi aveva guarita aveva agito solo per il mio bene o per secondi fini.
Non sapevo nemmeno cosa avesse intenzione di fare il mio carceriere al riguardo.
Mi sedetti sul letto e mi pettinai distrattamente i capelli annodati, ripensando agli ultimi avvenimenti.
«Vado a fare una chiacchierata con Gal» disse Durza con voce incolore. «Non sparire, per favore».
Mi sfuggì un sorriso amaro. «No di certo».
Passai il resto del giorno a domandarmi quanto a lungo Gal avesse resistito prima di parlare. Durza non lo aveva portato nella stanza delle torture, quindi probabilmente stava subendo un attacco mentale a cui non era pronto e, incapace di resistere, stava lasciando che lo Spettro si aggirasse tra i suoi pensieri e ricordi.
Il pensiero che il mio doloroso silenzio, in cui persistevo da più di due mesi, fosse stato vano, mi avvelenava la mente e metteva a dura prova la mia pazienza. Inoltre un terrore viscido iniziò a farsi largo nella mia mente: se Durza avesse saputo da quell’uomo qualcosa riguardo all’uovo, se Brom non fosse ancora riuscito a portarlo al sicuro da qualche parte.. Io non ero in grado di avvertire nessuno. Non sapevo nemmeno come si stava svolgendo la situazione militare e politica al di fuori della fortezza di Gil’ead. Gli umani avevano vite veloci, come il passaggio di una cometa, e in pochi mesi potevano compiere ciò che gli elfi ponderavano attentamente per decenni.
Non ero nemmeno sicura di sapere cosa volesse farne Durza dell’uovo. Se non era veramente fedele a Galbatorix come ormai ben sapevo, a quale scopo gli sarebbe servito? Lo Spettro voleva forse rovesciare il suo re e prendere il suo posto?
Mi raggelai. Con Durza al potere la situazione non sarebbe certamente migliorata. Anzi..
Poi mi sovvenne un’altra possibilità: forse la mia vita non gli sarebbe stata più tanto necessaria come lo era fino a quel momento. Forse avrebbe voluto liberarsi della mia ingombrante presenza, specialmente dopo gli ultimi avvenimenti. La mia unica speranza era che volesse cercare in ogni modo di sapere qualcosa di più sul mio popolo.
Durza tornò solo per sollevare le barriere per quei pochi istanti necessari a far scivolare un vassoio di cibo sotto la porta, e così non ebbi neppure modo di controllare se era Alba quella che respirava accanto a lui oltre la porta o no. Il mio stomaco non riuscì a reggere il pasto di quella sera e vomitai tutto quello che avevo ingerito nello scarico della latrina.
Mi sentivo terribilmente stanca e fiacca quando mi distesi a letto per dormire qualche ora. Chiunque mi avesse aiutata fino a quel momento doveva aver cambiato idea, spaventato dagli incantesimi di Durza.

[Durza]
Avrebbe dovuto prendere la mente di Gal -che non era di Dras-Leona- molte ore prima! A quel punto sarebbe già stato parecchio più avanti con il suo piano. Aveva voluto torturarlo di fronte ad Arya per scatenare qualche sua reazione di pietà. L’Elfa aveva sì chiuso gli occhi per la pena, ma non aveva detto nulla per evitare al suo alleato qualche sofferenza. Avrebbe dovuto saperlo ormai, quella donna faceva tutto quello che era necessario per perseguire i suoi obiettivi, anche se era doloroso.
Ma un semplice umano non aveva potuto nulla contro di lui. Gal veniva direttamente da Tronjheim, la città ribelle nel Farthen Dûr ed era diretto nella valle Palancar. Durza si chiese perché quelle viscide spie che il re aveva laggiù, meglio noti come i Gemelli, fossero incapaci di fornire informazioni utili, mentre i viandanti sì. Galbatorix doveva avere imposto loro un giuramento di fedeltà, perché nemmeno il più stolto tra gli uomini si sarebbe fidato di quei due.
Insomma le conoscenze di Gal si erano rivelate piuttosto deludenti all’inizio, conosceva bene il covo dei ribelli, ma era quel tipo di informazione che sia il re che lui avevano già da un pezzo, e nei minimi dettagli. Quando il re avesse voluto, avrebbe potuto attaccare la base dei Varden con assoluta tranquillità, passando per le gallerie sotterranee dei nani. Anche se a dire il vero i Gemelli non avevano fornito una mappatura precisa di quelle, avrebbero dovuto rimediare prima o poi.
Lo Spettro andò nel suo studio e srotolò con cautela una mappa di Alagaësia sul grande tavolo. Cercò Carvahall con lo sguardo. Era un’insulsa cittadina a nord della valle Palancar, un luogo che non aveva nemmeno mai visitato, nonostante avesse girato quasi tutte le terre di Alagaësia. Sapeva che vi vivevano un pugno di contadini e che il villaggio viveva praticamente di auto sussistenza, forse l’unico modo che avevano per commerciare era fare scambi con le carovane di nomadi che ogni anno percorrevano il paese da nord a sud.
Durza non riusciva proprio a capire perché un membro dei Varden dovesse vivere in quel luogo dimenticato dagli dei. Gal era incaricato proprio di questo: riferire ad un uomo che viveva a Carvahall che l’uovo di zaffiro era andato smarrito e che gli elfi avevano tolto il loro appoggio ai ribelli. E l’uomo destinatario del messaggio era Brom.
Non aveva una buona fama presso gli affiliati all’impero, l’ex cavaliere aveva dato parecchio filo da torcere a Galbatorix. Durza in parte lo stimava e in parte lo temeva, perché lo avrebbe certamente ostacolato nella sua scalata al potere. Ma a quel punto l’unica cosa da fare era andare a Carvahall ed interrogare Brom. Forse era a lui che Arya aveva mandato l’uovo, era molto probabile vista la ridotta distanza di spazio in cui il suo incantesimo avrebbe potuto agire. Ma se Brom aveva ricevuto l’uovo perché non aveva avvisato gli altri ribelli? C’era qualcosa che non tornava. Doveva partire subito.
Un improvviso calore sul cuore lo costrinse a cambiare in un attimo tutti i suoi piani. Insinuò una mano sotto mantello e camicia ed estrasse il ciondolo a forma di sole a sei raggi che impediva a chiunque di divinarlo senza il suo consenso. Ma a dire il vero l’unico che mai provava a divinarlo era Galbatorix in persona. Esitante, lo Spettro si diresse verso lo specchio che giaceva in un angolo e si sfilò l’amuleto.
Il viso volitivo del sovrano apparve sulla superficie liscia.
«Ho appena ascoltato il rapporto di Barst. Mi aspettavo un servizio migliore da te, Durza».
Il conte era già arrivato a Uru’baen? Aveva viaggiato molto velocemente. O forse il re gli aveva parlato con la mente, a leghe di distanza.
«Qualunque cosa ti abbia detto Barst, temo che abbia mentito, mio signore».
«Mi ha detto che avete avuto una disputa subito prima che lasciasse Gil’ead».
«Riguardo a quello non mentiva».
«Pazienza per Barst, che è un semplice umano, ma da parte tua mi aspettavo più maturità. Sei persino più vecchio di me, Durza, eppure ti comporti ancora come un ragazzino». Restò muto qualche istante, affinché assorbisse il rimprovero. «E poi Barst ha aggiunto che l’Elfa che è in tua custodia non ha ancora parlato».
«Vero anche questo» dovette ammettere lo Spettro.
«Dimmi la verità, non hai veramente nulla da dirmi? Se hai delle informazioni ti ordino di darmele immediatamente».
Durza ebbe il tempo di maledirsi per aver giurato obbedienza a quel verme, che fu costretto a sottostare al suo volere. «L’Elfa non ha veramente detto nulla, mio signore. È molto ostinata. L’ho torturata fino a quasi ucciderla e poi sono stato costretto a curarla affinché non morisse, ma ancora non mi è stata di nessuna utilità. Ma i miei uomini hanno catturato un uomo, un paio di giorni fa..»
«Un dei Varden?»
«Sì, mio re. L’ho interrogato e torturato, ma ha negato tutto. Quindi ho penetrato la sua mente e scoperto la verità. È un messaggero dei Varden, mandato da Ajihad in persona». Contrasse la mascella al solo pensare quel nome. «Era diretto a Carvahall».
«Non c’è nulla a Carvahall» osservò Galbatorix, «è solo un pugno di case, campi e contadini scorbutici».
«A quanto pare là è rintanato un membro dei Varden. Qualcuno che credevamo morto da tempo. Ricordi Brom?»
L’impassibilità del sovrano si incrinò «Ne sei sicuro?»
«I pensieri di un uomo non possono mentire».
«E cosa doveva riferire quest’uomo a Brom?»
«Che l’uovo azzurro che ti rubarono diversi anni fa è disperso insieme ai suoi custodi. E che gli elfi hanno tolto il sostegno ai ribelli».
«Dunque nemmeno i Varden hanno più il mio uovo? Dove lo avrà mandato l’Elfa?»
«Non ho nessuna ipotesi certa».
«Che gli elfi si siano ritirati dalla lotta è una buona notizia. E dal prigioniero non hai saputo nient’altro?»
«È morto. Ha recuperato per un istante il controllo del suo corpo e si è ucciso. Si è morso la lingua fino ad annegare nel suo sangue».
Galbatorix tacque così a lungo da fare sperare a Durza che la conversazione fosse finita, poi purtroppo tornò a parlare.
«Ti convoco a Uru’baen, mio fedele braccio».
«Adesso?» chiese lo Spettro con stupore. Era l’ultima cosa che si aspettava ed era un contrattempo piuttosto importante.
«Parti il prima possibile! E vieni a piedi o a cavallo, da solo. Entro una settimana ti voglio sotto le mura. Per tornare a Gil’ead chiederò ai Ra’zac di portarti sulle loro cavalcature, poi loro proseguiranno fino a Carvahall. È ora di ricordare a Brom che non può sperare di fuggire al signore di Alagaësia».
Durza maledisse silenziosamente il signore di Alagaësia. Perché mai aveva una tale urgenza di vederlo di persona?
«Mentre sarò lontano non potrò torturare l’Elfa» cercò di ribattere.
«Sei un illuso se credi ancora di potere ottenere qualcosa da lei con questo metodo. Ma del suo destino parleremo quando sarai inginocchiato di fronte a me nella sala del trono».
Ingoiò la rabbia. «Sì, sire».
«Tra una settimana ad Uru’baen. Vedi di non farmi aspettare».
Il contatto svanì e Durza provò l’improvviso desiderio di rompere qualcosa. Diede un pugno all’angolo della massiccia scrivania del suo studio e un pezzo del legno si ruppe e rotolò a terra.
Dannazione!
Ora il re sapeva tutto e ormai la situazione era totalmente volta a suo vantaggio.
E come se non bastasse sarebbe anche dovuto andare a Uru’baen! Per fare cosa poi, non era dato a sapere. Aveva come la sensazione che il re avesse qualcosa da lamentare se lo convocava di persona.
La sua situazione era molto complessa e delicata. Se il re avesse letto la sua mente avrebbe capito immediatamente che, per quanto il suo giuramento di obbedienza lo permetteva, stava cercando di spodestarlo.
Era da molti anni che agiva nell’ombra ed era abilissimo ad ordire intrighi e complotti. Non favoriva né il re, né i Varden. Entrambi gli schieramenti si sarebbero fermamente opposti alla sua ascesa, senza contare che il capo dei Varden era Ajihad in persona..
Ma nessuno dei suoi piani era mai andato a segno, nonostante la precisa organizzazione.
Ricordava ancora quando era riuscito ad inserirsi nel furto dell’uovo di zaffiro, più di quindici anni prima. Hefring, spia dei Varden a Furnost, era assetato di denaro, poco importava se fosse Galbatorix o i Varden ad avere il potere. Durza lo aveva incontrato per puro caso, ubriaco fradicio nei vicoli di Furnost, mentre era lì per spiare di persona l’attività dei Varden in quella regione. L’uomo aveva biascicato qualcosa di incoerente riguardo al furto di un uovo gigante. Lo Spettro era stato abbastanza intelligente da prendere l’uomo con sé, renderlo sobrio con un incantesimo, e farsi dire tutto con una borsa di monete d’oro. Con la promessa di ricchezze ben maggiori, era riuscito a far giurare a Hefring di portare a lui l’uovo, una volta che l’avesse rubato. Lui lo avrebbe aspettato tre mesi dopo che il furto fosse avvenuto, quando le acque si fossero calmate, sotto la gogna in piazza a Gil’ead, a mezzanotte.
Hefring doveva avere avuto qualche problema, perché si era presentato solo ben sette mesi dopo il furto, farneticando a proposito di strane voci che gli erano esplose in testa dopo il furto. Braccato sia dall’impero che dai Varden, era stato costretto a compiere una lunga deviazione, e quando l’uovo era finalmente arrivato a Gil’ead, se l’era fatto soffiare da Morzan, che a sua volta se l’era fatto soffiare da Brom.
Quando Hefring era venuto da lui a chiedere comunque la sua ricompensa per gli sforzi compiuti, l’aveva ucciso. Era un testimone troppo scomodo per lasciarlo in vita, era viscido e non aveva più amici o famiglia, nessuno si sarebbe preoccupato troppo della sua scomparsa, dato che l’uovo era ormai definitivamente in mano ai ribelli.
Quella era stata la prima volta che Durza aveva sfiorato il successo, la seconda era stata rovinata da Arya.
Arya. Che ne sarebbe stato di lei mentre lui sarebbe andato a Uru’baen? Più pensava alla convocazione del re più sentiva che c’era qualcosa che non andava. Forse il sovrano aveva scoperto qualcosa, forse aveva intenzione di ucciderlo.
Durza non temeva la morte, sapeva che se ci fosse stata quella non ci sarebbe stato lui, quindi non avrebbe avuto tempo di averne paura. Però non voleva rinunciare così facilmente alla vita, aveva ancora molti progetti da realizzare..
Sarebbe andato ad Uru’baen ovviamente. Non poteva fare altrimenti.
E avrebbe lasciato l’Elfa a languire in prigione. Sempre che qualche forza misteriosa non accorresse in suo aiuto. Si era sinceramente spaventato quando aveva visto le sue ferite risanate. Lei non aveva mentito, quindi non si era guarita da sola, ma lui non aveva la minima idea di chi potesse essere stato. C’era una sola persona che sapeva usare la magia e che avrebbe potuto avvicinarsi indisturbata, ma Durza era sicuro che certamente non avrebbe cercato di guarirla. Lei sembrava provare un odio infondato nei confronti di Arya, quindi semmai avrebbe provato ad ucciderla.
E poi c’era Hillr..
Durza non sarebbe mai riuscito a mantenere gli incantesimi di protezione da Uru’baen, a meno che non li affidasse alle forze della sua prigioniera, ma se qualche essere superiore avesse provato ad intromettersi, lei ne sarebbe morta.
E lui aveva ancora bisogno di lei. L’idea di fare di Arya una specie di serva non l’aveva totalmente abbandonato. Lei lo odiava e lo disprezzava profondamente, lo sapeva, ma se fosse riuscito a piegare la sua mente e l’avesse costretta a giurare, lei non avrebbe potuto fare altrimenti.
Però in un certo senso gli sarebbe dispiaciuto annientare il suo carattere indomito, era ciò che la rendeva interessante. Pochi erano riusciti a tenergli testa come lei.
Si disse che era ora di rivedere le sue priorità.
Afferrò la catena d’argento con il sole, la indossò e si trascinò fino alla sua stanza da letto. Era stanco di tutte le delusioni che la vita gli aveva riservato. Per una volta avrebbe voluto che qualcosa andasse per il verso giusto, ma pareva che ci fosse qualcosa perennemente contro di lui.
Durza sparì sotto le lenzuola di seta e le coperte imbottite. Quel letto era troppo grande per lui solo, ma in quel momento non aveva alcuna voglia di compagnia.
Sognò Arya. Era vestita riccamente, con i capelli corvini intrecciati di perle e fili d’argento e lo fissava con la sua solita espressione altezzosa, gli occhi verdi impenetrabili come un freddo, cupo smeraldo.
«Non mi avrai mai» diceva. «Mai».
E il tono era così gelido da farlo rabbrividire.
Poi vennero i soliti sogni, quelli che da più di un secolo si ripetevano, notte dopo notte.
Le urla del padre mentre i banditi lo picchiavano e lo facevano a pezzi, inebriati dalla violenza; le urla della madre mentre la stupravano, i singhiozzi della sorella mentre subiva la stessa infelice sorte. E poi il cuore che gli rimbombava nel petto mentre rimaneva nascosto tra le rocce, a distanza di sicurezza dalle tende, sperando di non essere notato.
Vigliacco.
Ma allora cosa avrebbe potuto fare? Allora era solo Carsaib.
Codardo e debole Carsaib.

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Capitolo 10
*** Gli Spettri non baciano! ***


10. Gli spettri non baciano!

Ero ansiosa. Avevo dormito male, avevo fame, eppure il mio stomaco era chiuso.
Volevo sapere quanto lo Spettro avesse estorto da Gal, volevo sapere se avesse capito chi o cosa era intervenuto su di me.
Scattai in direzione della porta non appena riconobbi i passi di Durza per le scale e attesi che aprisse la porta con la chiave e con la magia.
Le occhiaie che solcavano il suo viso pallido mi informarono che non ero l’unica ad aver passato una brutta nottata. Lo Spettro sembrava stranamente stanco e rassegnato.
Non pensavo che l’avrei mai visto ridotto così male.
«Ebbene?» chiesi, impaziente.
«Gal è morto» disse Durza chiudendosi la porta alle spalle e picchiettandola leggermente con le nocche affinché i soldati fuori girassero la chiave. «Era uno dei Varden e stava portando un messaggio. Sono entrato nella sua mente e ho trovato diverse cose interessanti, ma lui ha resistito bene. Si è morso la lingua ed è affogato nel suo sangue pur di impedirmi di accedere ulteriormente alle sue memorie».
Un’ondata di orgoglio per quell’eroe mi investì, seguita a ruota da una di panico e sofferenza.
«So che Brom è a Carvahall» disse Durza. «Immagino che tu conosca Brom».
Respirai profondamente, ma tacqui. Ovvio che lo sapevo, avevo mandato l’uovo proprio a lui. Ma lo Spettro aveva fatto quel collegamento?
«Avrei voluto andare personalmente a controllare la situazione laggiù» continuò, «ma non posso».
«E cosa ti trattiene?» domandai aspramente. L’unica cosa importante che stava facendo era torturare me, o almeno così credevo.
Durza compì i pochi passi che lo separavano dal mio letto e si sedette.
«Tra qualche ora parto».
Ah. Era l’ultima cosa che mi aspettavo.
«E dove..?»
«Non ti interessa veramente dove andrò» commentò sarcasticamente, fissando un punto indefinito all’altezza dei suoi piedi. «Sappi che rivedrai la mia brutta faccia tra una settimana. Forse».
Non ero pronta al panico che mi assalì. «E mi lascerai qui da sola? Con forze misteriose che agiscono intorno a me? Non hai paura che qualcuno mi faccia fuggire, o che mi uccida?»
I suoi occhi cremisi si spostarono su di me. «Forse».
Mi imposi di assumere un minimo di indifferenza, ma non ci riuscii. Certo, avere Durza lontano significava non essere torturata per un’intera settimana! Era una prospettiva positiva, ma in verità avevo paura. Gli ultimi avvenimenti erano rimasti inspiegati. Se Durza fosse andato via sarei rimasta totalmente abbandonata a quel delirio.
Era assurdo. Avevo desiderato così tanto che sparisse, che la terra lo inghiottisse, che un fulmine lo colpisse..
«Se ti andrà veramente bene» proseguì lentamente, «potresti avere la fortuna di non rivedermi mai più».
«Non capisco» ammisi. «E non mandi nessuno a Carvahall? Hai trovato l’uovo altrove e stai andando a cercarlo? Cosa..?» affondai le mani tra i capelli, respirando affannosamente. Mi sembrava che tutti gli eventi stessero precipitando.
Durza mi fissò con interesse. «Non mi dirai che stai avendo un attacco di panico, Elfa».
«N-non respiro» boccheggiai e tremai, stringendomi le mani alla gola.
L’aria non riusciva a riempirmi i polmoni. Mi piegai sulle ginocchia e mi imposi di ispirare lentamente, ma non ci riuscivo, più cercavo di calmarmi più sembrava aumentare la mia agitazione. Lo Spettro disse qualcosa, ma la sua voce svanì nel rombo che mi riempiva le orecchie. Dovevo respirare. Lentamente, lentamente.. Funzionò. Mi asciugai il sudore dalla fronte e mi alzai con cautela.
Quando tornai a guardare Durza non sapevo più cosa dire o fare.
Anche lui era a corto di parole, però sembrava sapere esattamente cosa fare.
Ero in piedi esattamente davanti a lui. Una mano pallida si allungò nella mia direzione e mi afferrò con decisione per il colletto della camicia.
Durza mi tirò a sé -dovetti appoggiarmi con le mani sulle sue ginocchia per non cadergli addosso- e mi depositò un brusco e frettoloso bacio sulle labbra, lasciandomi poi andare immediatamente.
L’intera azione non era durata più di una frazione di secondo, tanto che dubitai che fosse accaduto veramente. E non ebbi modo di protestare, perché lo Spettro si era già alzato.
Mi passò accanto. «Addio Elfa».
Fui io ad occupare il letto a quel punto. Mi sfiorai le labbra. Non poteva avermi veramente baciata.
Doveva essere per forza la mia immaginazione. Gli Spettri non baciavano! Gli Spettri odiavano e basta.
O almeno, era quello che avevo sempre creduto prima di incontrare Durza.
Prima di incontrare Durza ero sempre stata convinta che gli Spettri non potessero avere sentimenti.
Ricordavo che da bambina mi erano state narrate tutte le leggende della lunga letteratura elfica. Si parlava spesso di creature oscure come demoni -ormai estinti- e Spettri, erano le figure negative all’interno delle ballate, com’era ovvio. Erano quel tipo di creature che si distruggevano solo con l’eroica e combinata forza di almeno una decina di elfi.
Ma il mio popolo possedeva anche una cronaca seria, scritta da Laetri l’elfo dopo aver sconfitto Nadua, lo Spettro che infestava le terre di Alagaësia ai suoi tempi.
“Vidi io stesso quell’essere fatto di ombre uccidere di suo pugno uomini, donne e bambini innocenti, che imploravano pietà. Seppi in quell’istante che le creature prostrate dalla sete di sangue degli spiriti non possono che compiere del male. Lo Spettro non provava alcun sentimento che non fosse odio verso il mondo intero e disprezzo per la vita e la morte. Fu in quel momento che decisi che non avrei permesso che simili sofferenze continuassero..”
Poi c’era una lunga ed inutile parentesi su una profezia che narrava di qualcosa come una figlia dell’aurora che in periodo di disperazione, avrebbe tirato fuori le razze di Alagaësia dalle ombre e dal dolore.
Ma non era importante.
A dire il vero nulla di tutto quel mio pensare era importante.
Pensai ai baci delicati di Fäolin.
La solita profonda tristezza mi assalì. La sua morte sembrava risalire a qualche ora prima, tanto era nitido il ricordo del suo corpo inerte.
Fortunatamente l’arrivo del pranzo mi salvò dai miei pensieri cupi. Mi alzai dal letto non appena sentii i passi leggeri e mi accostai allo spioncino, sperando di vedere Alba. E la vidi. Le torce facevano risplendere i capelli sfuggiti alla morbida crocchia come oro liquido, sarebbe stata facilmente riconoscibile anche da molto più lontano. La ragazza fece scivolare il pasto oltre la porta e mi rivolse un piccolo sorriso, accompagnato da un’occhiata rammaricata.
Un soldato fece un’osservazione volgare sul vestito azzurro troppo generosamente scollato e lei ne rise, arrossendo. Poi se ne andò, guardandomi con un’espressione radiosa e soddisfatta.
Recuperai una parte del mio ottimismo. Forse Alba avrebbe potuto tentare di farmi nuovamente uscire. E forse ci sarebbe riuscita, senza Durza ad ostacolarla. Forse avrei potuto tornare a casa mia, a rifare la mia vita.
Anche se dopo un’esperienza del genere ero certa che nulla sarebbe rimasto come prima.
Il pasto mi parve ancora più insapore del solito, mentre lo divoravo con ben poca dignità. Avevo fame.
E nonostante tutto vomitai l’intero contenuto del mio stomaco pochi minuti dopo.
Gettai un’occhiata sospettosa al bicchiere e al piatto di legno ormai vuoti. Se qualcuno avesse messo qualche veleno me ne sarei accorta immediatamente, conoscevo bene l’odore della noce vomica.
Che fosse qualche altra strana malattia?

Quella sera non venne nessuno. E nemmeno la mattina dopo, nemmeno il pomeriggio e nemmeno la sera. A parte Alba. Non riuscii mai a parlare con lei, si limitava a portarmi il cibo, che ormai rigettavo regolarmente, e non si imbucava nei sotterranei tra un cambio di guardia ed un altro. Mi rassegnai tristemente, forse non aveva più alcuna intenzione di aiutarmi, forse Durza l’aveva minacciata. Cosa poteva fare una povera umana contro uno Spettro?
Dopo quelli che dovevano essere tre giorni dalla partenza di Durza un uomo si affacciò allo spioncino.
Impiegai un paio di minuti prima di capire chi fosse. Era Hillr, il siniscalco di Durza.
Sussurrò alle guardie, forse credendo che non potessi sentirlo.
«Il padrone vi ha lasciato qualche disposizione?»
«Solo di non fare entrare nessuno nella sua cella».
«Quindi non mi lascerete entrare nemmeno se vi corrompessi, giusto?»
«Giusto. Amico, quello viene sempre a sapere tutto. Chi ci assicura che se noi ti lasciamo fare quello che vuoi poi non ci ammazza con una stregoneria?»
«Legittima obiezione».
Hillr restò a guardarmi ancora per qualche istante, con un astio e un rigetto che non avevo mai visto nel volto di un essere umano.
«Quelli come te impestano questo mondo» sibilò sputando oltre la porta.
Dal mio letto, aderente alla parete opposta, gli rivolsi un sorriso volutamente gelido.
Il suo viso si contrasse per la rabbia. Quando se ne andò fui certa di essermi creata un altro accanito nemico. E senza alcun motivo logico apparente.
Dopo cinque giorni stavo morendo di fame. Il mio stomaco non era più riuscito a trattenere nulla. Non mi sembrava che ci fosse alcun veleno nel cibo, ma allora perché? I primi giorni passeggiai nervosamente per la mia cella, frustrata e furiosa per la mia sorte. Poi caddi in uno stato di cupo deperimento.
Ero completamente sola, in balia di chissà chi che mi stava riducendo alla fame.
Durza era lontano e chissà se e quando sarebbe tornato, Alba mi ignorava.
Caddi nuovamente in preda a brevi deliri.
Una notte mi svegliai di soprassalto, sentendo qualcosa di sbagliato intorno a me.
Guardai verso la porta, temendo che Hillr fosse venuto a tentare di assassinarmi nel sonno.
Il respiro mi si strozzò in gola.
L’occhio bianco era lì.
Immobile.
Pareva brillare nel buio.
Fui incapace di riprendere a respirare.
Cercai di imporre un po’ di razionalità sopra il mio terrore. Mi sembrava di avere stabilito che fosse solo un’illusione. Sì, solo un’illusione della mia mente malata.
Doveva essere un’illusione.
Chiusi gli occhi, ordinandomi di ignorarlo. A quel punto sentii una risata dal suono stridente come metallo contro le unghie, che mi fece accapponare la pelle dal gelo, seppure fossi sotto le coperte imbottite.
L’odore di noce vomica mi aggredì le narici ed ebbi in un istante l’acuta e totale sicurezza che quell’occhio fosse la causa di ogni mio male.
Urlai. E fui costretta a smettere quando sentii le imprecazioni sonore degli armigeri fuori dalla porta. Tornai a guardare lo spioncino. L’occhio affacciato era il comunissimo occhio castano di un essere umano.
Mi tappai con forza le orecchie per non dover sentire le parole canzonatorie dei soldati, ma i suoni filtravano sin troppo bene oltre i miei palmi. Qualcuno di loro mi chiamò “Elfetta”, segno che il segreto sulla mia identità non era poi così controllato come credeva Durza.
Rimasi a fissare il soffitto con gli occhi spalancati, per quelli che mi parvero mesi ed anni, ignorando il cibo che scivolava sotto la mia porta. L’odore della noce vomica sembrava essersi insinuato in ogni pollice delle mie membra, continuavo a sentirlo sempre e anche solo l’odore di generi alimentarmi mi dava la nausea.
Mi distolsi dal mio stato quando, sotto il respiro regolare degli uomini di guardia e il loro chiacchiericcio, percepii il fruscio di qualcosa che scivolava sotto l’uscio.
Gettai un’occhiata intorno a me. Per terra, accanto al mio letto, c’era un pezzetto di carta, ripiegato più e più volte su se stesso. Allungai faticosamente un braccio, lo raccolsi e lo aprii.
“Morirai”.
Lo accartocciai nel palmo. Probabilmente si era trattato di un semplice scherzetto degli uomini lì fuori. Poi capii che sicuramente la metà di loro non sapeva né leggere né scrivere.
Mi morsi le labbra e serrai la carta nel pugno. Non volevo piangere.
La mattina seguente il pezzo di carta era scomparso e non lo trovai, nonostante le accurate ricerche nella mia angusta cella.

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Capitolo 11
*** Nella tana del lupo ***


Ciao
11. Nella tana del lupo

Durza si stirò come un gatto non appena sorse il pallido sole invernale. Aveva impiegato sei giorni esatti per compiere il tragitto fino a quel punto e secondo i suoi calcoli avrebbe raggiunto la grande collina, alla cui base sorgeva Uru’baen, prima che il sole giungesse allo Zenit. Viaggiava a piedi, orientandosi in principio con il corso del fiume Ramr -ingrossato per lo scioglimento delle nevi- e poi con le stelle, che sapeva essere fisse in cielo.
Galbatorix lo aveva informato che per il ritorno avrebbe dovuto cavalcare un Lethrblaka con i Ra’zac e quindi aveva preferito viaggiare solo con se stesso, così da non dovere abbandonare il suo cavallo, Nebbia, ad Urû’baen. Almeno il suo magnifico animale voleva lasciarlo al sicuro nelle stalle di Gil’ead.
Sapeva che per un uomo del suo rango e della sua importanza sarebbe stato consono presentarsi a corte a cavallo, con le bisacce appese al fianco dell’animale. Ma a lui non gliene importava un beato niente di quello che avrebbero detto, pensato, o sussurrato i cortigiani nel vederlo conciato in quella maniera. Aveva indossato i vecchi e ormai logori stivali marroni, ammorbiditi dalle leghe che avevano percorso e quindi più comodi per la corsa, portava un semplice zaino con i viveri e le coperte in spalla e aveva inevitabilmente bisogno di un bagno dopo tutti quei giorni di marcia e di dormite all’addiaccio.
Stava ormai camminando lungo il sentiero che solcava le colline, coperte interamente da filari spogli che con la stagione della fioritura si sarebbero riempiti di foglie e con la stagione dei venti avrebbero dato grossi grappoli d’uva nera e bianca, da cui si ricavava il raffinato vino che si consumava alla corte. Anche lui ne aveva alcune botti nel suo palazzo, ma era una bevanda riservata ai più abbienti e che non tutti potevano permettersi.
Come aveva previsto, raggiunse la capitale quando il sole sfiorò lo Zenit. Il frenetico movimento di bestie e persone lo infastidì immediatamente. La città era cresciuta parecchio quando era stata in mano ai Broddring, in particolare sotto l’ultimo sovrano di quella stirpe, Angrenost, e le vecchie mura erano state ampliate fino a cingere l’intera cittadina, ma da allora erano state nuovamente rinforzate e ristrutturate ed erano larghe e alte il doppio rispetto ad ottant’anni prima.
Durza prese coscienza di aver passato almeno un secolo al servizio di Galbatorix. Essendo nato umano, il tempo continuava ad avere uno strano valore per lui, sapeva di poterne avere per altri millenni, ma quando si guardava indietro gli sembrava di aver già vissuto centinaia di vite. E non doveva avere più di centocinquant’anni. Forse. Nella tribù dov’era nato in pochi sapevano contare, e suo padre era tra quei pochi, ma non si era mai interessato del conto delle primavere che passavano i suoi figli. Ricordava solo che sua sorella aveva quattro primavere in meno di lui..
Scosse infastidito la testa. Non era certamente il momento giusto per lasciarsi trascinare da quei pensieri inerti. Al cospetto di Galbatorix bisognava sempre stare in guardia. Era un pazzo, sì, ma un pazzo geniale.
Impiegò un tempo ridicolmente lungo a percorrere le vie affollate della città, tanto che finì per deviare per i vicoli più oscuri e malfamati, dove donne con i vestiti abbassati sul seno e le labbra dipinte di rosso offrivano i loro servigi alla luce del sole. Ma purtroppo aveva altro da fare e tirò dritto, calandosi ancora di più il cappuccio del mantello nero sul viso.
La struttura di Urû’baen era logica, era ben divisa tra i quartieri dei commercianti, dei conciatori, dei lavoratori della lana e del tessile, degli artigiani, dei fabbri, dei costruttori, dei muratori, degli speziali ed erboristi. Le taverne erano sparse qua e là agli angoli delle strade e un’ampia fascia accanto al palazzo era occupata dalle caserme.
E il palazzo. Era enorme, a misura di drago in tutti i sensi. Il portone di ingresso era della larghezza esatta di
Shruikan e l’intero edificio era in grado di ospitare appena il mastodontico animale. Ecco, quel drago era una delle poche creature che Durza temeva.
Quando arrivò sotto l’ombra dello sperone roccioso che proteggeva il castello sotto le sue ali lugubri, raddrizzò le spalle e sospirò. Due guardie incrociarono le lance per impedirgli il passaggio e gli domandarono chi fosse e cosa volesse. Sì, forse apparire su un maestoso cavallo da guerra avrebbe fatto tutto un altro effetto.
Si scrollò il cappuccio del mantello. «Sono Durza lo Spettro». E sorrise perché il concetto fosse chiaro. «Sono atteso dal sovrano».
Lo lasciarono passare, chiamarono a gran voce un compare dal cortile, e lo fecero scortare per il palazzo. I passi suoi e del soldato davanti a lui risuonarono per i corridoi alti e cupi, illuminati talvolta da torce, talvolta da fuochi fatui. Nel passare per il piano terra incontrarono diversi servi indaffarati nella preparazione del pranzo, che si muovevano con piatti ricolmi di pietanze.
Poi salirono lo scalone e tutto si fece più ricco, caldo, luminoso e sfarzoso. Lunghi e precisi arazzi raffiguranti varie zone di Alagaësia ingentilivano le pareti cupe. Le finestre, che al piano terra erano molto strette per preservare il calore, divennero le quattro volte più grandi, coperte da vetri finissimi e tende di velluto pesante. Diversi bracieri scaldavano l’aria.
Il massiccio portone del salone da pranzo fu spalancato con fatica con la forza coordinata di quattro uomini. Sulle due ante, le formelle di legno di ciliegio raffiguravano il sovrano, anche se spesso girato di spalle, mentre compiva l’oneroso compito di sterminare il corrotto ordine dei draghi e dei loro cavalieri, ristabilendo la pace nel territorio di Alagaësia.
Galbatorix non aveva nemmeno avuto il buon gusto di dare un nome al suo regno. Dopo il
Regno di Broddring era seguito semplicemente l’Impero.
Lo Spettro avanzò con passi decisi nella stanza.
Seppe di aver infranto ogni regola di decenza per i canoni dei nobili presenti quando quelli lo occhieggiarono con velato disgusto, senza però interrompere le loro conversazioni. Qualcuno bisbigliò un commento sarcastico o astioso e lo Spettro si affrettò a fulminare con un’occhiata raccapricciante chiunque osasse dire qualcosa alle sue spalle. Possibile che nessuno avesse ancora capito che lui poteva sentire molto meglio di un qualunque normale umano?
Disprezzò ogni uomo o donna che respirava in quella stanza, ed erano più di una cinquantina. Quei conti e quelle contesse avevano ricche residenze in città e ricevevano con regolarità una rendita da un appezzamento di terreno che possedevano in giro per Alagaësia. La maggior parte di loro non aveva nemmeno mai visto la terra che procurava loro il denaro necessario per permettersi abiti lussuosi, gioielli pregiati, stuoli di servitori e case fornite di ogni comodità. Erano tutti così visceralmente immersi ed invischiati negli intrighi di corte da aver perso il contatto con il mondo esterno.
Erano stupidi. E Galbatorix si stava prendendo apertamente gioco di loro senza che lo notassero. Il re amava quell’ambiente che lo circondava, trovava divertente vedere ora uno ora l’altro nobile parteggiare per ottenere le sue attenzioni, che spesso si limitavano ad un semplice cenno di saluto e, solo con le compagnie preferite, ad una cena nel suo salone privato. Senza parlare del numero quasi vergognoso di concubine che il sovrano aveva radunato intorno a sé. Era ovvio che qualunque cortigiana sarebbe stata ben disposta nei suoi confronti, era il re! Ma le povere ragazze venivano elette a preferite e gettate in un angolo con la rapidità con cui passano le stagioni, non appena una più giovane, bella o provocante veniva adocchiata da Galbatorix. Del resto era ciò che si meritavano! Gli arrivisti non erano destinati a fare strada nel mondo, e con Galbatorix meno che mai.
Durza si ripeté per l’ennesima volta che il re non era affatto stupido. Nel vincolare a sé tutti quei nobiliastri, rendendo il loro potere più simbolico che effettivo, era riuscito ad affidare la gestione delle proprie città a governatori o ad altri aristocratici minori, legati a lui da un giuramento di fedeltà o di ubbidienza e che gli permettevano di avere un contatto diretto e prioritario con il territorio amministrato e soprattutto con le tasse che riusciva a spremervi. Il denaro era il solo scopo del sovrano, ma del resto una guerra bisogna pagarla, le confische forzate non sono sempre sufficienti, e quella guerra contro i ribelli andava avanti da decenni. Spesso erano solo scaramucce di poca rilevanza, talvolta vere e proprie battaglie, ma era necessario mantenere costantemente armato un esercito regolare per non farsi cogliere di sorpresa.
Non che Galbatorix avesse bisogno di un esercito per sbaragliare i Varden, il suo potere era così grande e il suo drago così potente che avrebbe potuto spazzare via i suoi avversari con una moderata fatica.
Il vero problema era la sua ricerca, che perseguiva fino alla follia. Lo Spettro sapeva che se non fosse stato per gli incantesimi, il re sarebbe diventato cieco già da parecchi anni a causa delle ore e delle giornate passate sui libri polverosi, alla luce tremula delle candele.
Il sovrano cercava il nome, la parola o la frase che poteva controllare l’antica lingua e piegare l’intera magia al suo volere. Dal canto suo, Durza non era neppure sicuro che esistesse una parola con un simile potere, ma se il re insisteva non poteva significare altro che una possibilità c’era.
Forse non era ancora sicuro di avere capito se fosse pazzo o geniale.
Quando arrivò al cospetto del proprio signore, che sedeva in fondo alla sala circondato da amabile compagnia, si inchinò e rimase in ginocchio, in attesa che gli fosse permesso di rialzarsi.
E dovette aspettare per quella che gli parve un’eternità prima che il sovrano lo degnasse della minima attenzione, ma alla fine parlò.
«Durza! Con tutta quella polvere addosso non ti avevo riconosciuto».
Lo Spettro considerò quelle parole come un permesso e si rialzò. «L’urgenza della tua convocazione non mi ha permesso di indugiare prima di venire qui».
Galbatorix sorrise bonariamente. Il tempo aveva lasciato qualche segno sul suo viso scarno e sottili rughe gli solcavano la pelle intorno agli occhi scuri, ma nonostante quei segni il re poteva essere ancora considerato un uomo affascinante.
«Certamente, certamente. Ma venire qui conciato come un messaggero mi pare eccessivo». Delle risatine risuonarono nella stanza improvvisamente muta. «E riguardo a ciò che devo dirti, ne discuteremo in privato più tardi. Se ora vuoi unirti al pranzo insieme a tutti noi..» disse il sovrano.
Durza gettò un’occhiata di sufficienza alla marmaglia di gente vestita di sete e velluti che lo circondava e scosse il capo. «Con il tuo permesso, mi ritirerò nella mia stanza».
Pochi minuti dopo una cameriera gli aprì la porta che conduceva alla sua camera da letto. Anche lui, come quasi tutti i nobili presenti, aveva una piccola stanza tutta sua a palazzo, nel caso in cui si fosse dovuto trattenere, come in quel momento. Si fece portare il pranzo in camera e si fece preparare un bagno perché effettivamente ne aveva bisogno. Quando gli odori sono più forti alle narici, ci si preoccupa di più della propria igiene, era una cosa che aveva capito dopo essere diventato uno Spettro.
Galbatorix si fece attendere. Era ormai scesa la sera quando fu convocato nella biblioteca reale, il servo che lo precedeva reggeva una fiaccola e faticava comunque a vedere, tanto che ad un certo punto lo congedò, informandolo di essere in grado di proseguire da solo. Non aveva certamente bisogno di una balia per orientarsi nel castello, vi si aggirava da decenni.
Il sovrano era in piedi di fronte ad un alto specchio, in un angolo dell’immensa e labirintica biblioteca. Passava lì molto del suo tempo, la stanza era ben protetta perché nessuno potesse varcare la soglia senza il suo permesso. Il re sussurrò alcune parole di congedo e poi si voltò nella sua direzione. Durza percepì la sua forza e il suo sconfinato potere e il suo corpo si mise automaticamente in allerta.
«Vedo con piacere che hai rispettato i tempi che ti ho imposto».
«Sì, mio signore».
«E l’Elfa?»
«Chiusa nella sua cella, c’è qualcuno che la sta sorvegliando per conto mio».
Lo Spettro aveva cercato di tenere quell’argomento fuori dai suoi pensieri, ma era ovvio che Galbatorix lo avrebbe tirato fuori. Arya rappresentava il suo più grande fallimento da quando era al servizio del sovrano. Dovette fare uno sforzo per ricacciare un sorriso. Almeno era riuscito a lasciare su di lei un ricordo permanente prima di andarsene. Non sapeva esattamente cosa lo avesse spinto a baciarla, ne aveva avuto voglia, e l’aveva fatto. E non era stato così male, o perlomeno, lei non aveva avuto tempo di ribellarsi, o allora sì che avrebbe fatto male.
«Sei sicuro che gli umani saranno sufficienti per impedirle di fuggire?» chiese il re con noncuranza, occupando con calma una poltrona imbottita.
«La porta è sigillata con un incantesimo. E non ho mai detto di averla lasciata in custodia ai soli uomini, mio re».
«Oh, vedo che la nostra trovatella comincia ad essere di qualche utilità!» disse Galbatorix con improvviso ottimismo. «E dimmi:
Lei ha ricordato qualcosa o qualcuno? Ogni più piccola informazione ci sarebbe preziosa, lo sai».
Durza annuì. «Lo so bene. Ma no,
lei non ricorda nulla, non ancora. Ma odia gli Elfi. Ed ho il sospetto che odi anche la prigioniera». l’inquietudine che lo aveva accompagnato da quando il re lo aveva convocato tornò a farsi sentire e lo Spettro tese i muscoli delle gambe, impaziente di andarsene. «Ora posso sapere il motivo per cui la mia presenza ti è necessaria? Ho lasciato una questione in sospeso a Gil’ead».
Il re lo fissò con calma negli occhi. «Una questione che non mi sembri in grado di risolvere», disse con gentilezza, «ma di questo parleremo dopo. Ora ti devo mettere al corrente delle mie ultime decisioni».
«Ti ascolto» fu la risposta monocorde di Durza.
«Si sono verificate diverse cose interessanti negli ultimi tempi. Primo: una spia mi ha riferito di aver visto il figlio di Morzan, o qualcuno di molto simile a lui, nei pressi di Belatona. Ho il timore che sia riuscito a farsi accettare dai Varden e lavori per loro come sicario. Secondo: c’è qualcosa di strano, lo sento nell’aria, nella terra, è come se la natura stesse urlando qualcosa, ma non riesco a capire cosa. E questa faccenda va avanti da quasi tre mesi, che se non sbaglio coincide con il tempo passato dal tuo fiasco sulla Grande Dorsale e dall’ultima volta che ho avuto notizie dell’uovo. Terzo: l’uomo che hai catturato ha portato notizie importanti e credo ormai fermamente che Brom sia ancora vivo e chissà, forse anche in possesso dell’uovo». Durza fu interrotto con un gesto secco quando fece per intervenire. «Quarto: entro domani all’alba i Ra’zac e i loro genitori saranno qui, li ho incaricati di andare a perlustrare Carvahall in cerca di Brom e di qualsiasi notizia sull’uovo. Quinto: le mie spie dai Varden mi hanno informato che si stanno smuovendo le acque. I ribelli continuano a ricevere approvvigionamenti dagli Elfi, armi dai Nani e la promessa di una sostegno militare dal Surda, anche in campo aperto. È questione di pochi mesi prima che si decidano a dichiarare aperta una nuova stagione di guerra. Per ora sono impreparati e la neve è ancora presente sui passi, quindi non si muoveranno. Ma sono stanco di questa eterna minaccia alla pace e all’integrità del mio regno. Una volta finito il tuo compito con l’Elfa, manderò un esercito, e per essere precisi, un esercito di Urgali. Riesci ancora a mantenere il controllo su di loro?»
«Certamente» rispose Durza, trattenendo a stento l’emozione. Il re stava forse dicendo che..?
«Bene allora tu sarai comandante della spedizione, le spie ci forniranno ulteriori dettagli per una vittoria rapida e pulita. Non voglio prigionieri, nemmeno un bambino cencioso. Devono sparire dalla faccia della terra. In quanto ad Ajihad», il cuore dello Spettro accelerò, «fa’ di lui e della sua famiglia ciò che ritieni opportuno. Nemmeno loro mi servono vivi. Dopo questa vittoria i Nani e il Surda si ritireranno per sempre. Per gli Elfi sarà più complicato, ma presto cederanno anche loro».
«Quando?» fu la sola parola che Durza riuscì ad articolare.
Galbatorix lo guardò con una punta di dispiacere. «Quando avrai spremuto ogni informazione possibile alla prigioniera. Una volta eri molto abile in questo, hai perso anche questa capacità?»
«È ostinata».
«Tutti hanno un punto debole. Voglio che trovi il suo. Portala sull’orlo della morte e poi cambia improvvisamente. Fingiti gentile e comprensivo, seducila, cerca di convincerla che lei è dalla parte del torto e tu del giusto. Anche in questo eri molto abile un tempo».
«Credo di esserlo ancora».
La mente di Durza era stipata di pensieri chiassosi e dovette sforzarsi enormemente per celarli e contenerli. Avrebbe pensato a tutto. Ma dopo essersi allontanato dal re.
«C’è un’ultima questione che devo risolvere con te» aggiunse il sovrano con un tono paterno.
«Sì, mio re?» disse, mentre la sensazione di inquietudine aumentava dentro di lui.
«Negli ultimi mesi sei distratto, scostante, superficiale, irrispettoso nei confronti dei miei ordini e dei miei altri servitori. Sono fermamente convinto che tutto ciò troverà presto un rimedio».
Durza si disprezzò profondamente quando si sentì come un bambino rimproverato. Perché il re riusciva ad avere un simile effetto sulle persone?
«Sì» soffiò, scostando gli occhi da quelli di Galbatorix.
«Capirai che il mio rimprovero esige una prova concreta delle mie intenzioni. Io ti amo come si ama un figlio, Durza. Io amerei allo stesso modo tutti gli abitanti di queste terre se solo non si opponessero a me. Vorrei poter proteggere il mondo dalla stupidità e dalla superficialità umana, ma non sono in grado di farlo da solo. E i miei emissari devono essere in grado di agire come se fossero una mia emanazione. Sarai punito per il tuo comportamento. Ti prego di ricordare che è solo per il tuo bene. Non farei mai del male a nessuno, se non fosse necessario, lo sai».
Durza serrò la mascella. Era pazzo, decisamente. E il bello era che era quasi riuscito a convincerlo che tutto fosse veramente per il suo bene. E ora? Cosa aveva intenzione di fare? Un rivoletto di sudore gelido gli accarezzò la schiena. Non poteva nulla contro Galbatorix. E ne fu certo nel momento in cui il suo corpo fu bloccato da un incantesimo che nessun vivente avrebbe mai potuto contrastare. Lo Spettro sentì i sussurri pigri e piangenti delle coscienze dei draghi, che lui stesso aveva contribuito a spezzare.
Il re gli sorrise con gentilezza. «Solo per il tuo bene».
Con un gesto estrasse i suoi stessi pugnali dalla fodera che portava in vita e da quella nascosta nello stivale. Durza guardò con rimpianto le sue armi, con la certezza che non sarebbe mai più stato capace di tenerle in mano senza risvegliare brutti ricordi.
Il sovrano spalmò le lame di un liquido che lo Spettro riconobbe subito e, se avesse potuto, avrebbe tremato.
«Domattina verranno i Ra’zac. Ti riporteranno a Gil’ead in volo. D’ora in poi non deludermi mai più Durza. Ti concedo tre mesi di tempo, se per allora non sarai stato capace di far cantare l’Elfa, la porterai qui e discuteremo nuovamente».
Durza registrò a malapena le parole, perché un istante dopo una lama gli si conficcò all’altezza dello stomaco. Lo Spettro emise un gemito strozzato di dolore e una pozza di sangue si allargò ai suoi piedi. Poi non poté fare altro che guardare l’uomo a cui aveva concesso la sua ubbidienza mentre lo pugnalava con attenzione, evitando accuratamente il cuore e anche ferite che avrebbero potuto condurlo ad una rapida. L’olio che Galbatorix aveva spalmato sulle lame bruciava sulla sua carne come fuoco vivo. Non poté nemmeno gridare, perché la sua bocca era immobilizzata.
Prima di perdere i sensi sentì l’incantesimo del re sciogliersi, e lui si accasciò sul suo sangue.
Prima di perdere i sensi vide il re sorridergli come un padre affettuoso.



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I miei omaggi a tutti voi :)
Spero di essere stata abbastanza coerente con le scarne descrizioni di Paolini, in caso contrario siete invitati a farmelo presente.
Per la corte di Galbatorix e la situazione dei nobili mi sono ispirata alla corte di Versailles sotto Luigi XIV e XV.
Se avete altre domande, vedrò di rispondere con puntualità :D
Baci e grazie a tutti ;)

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Capitolo 12
*** Follie ***


12. Follie

Giacevo supina sul letto con le palpebre così serrate da farmi male agli occhi, avevo paura di vedere ancora quell’occhio o qualsiasi altra oscena visione. Mi imponevo di non lasciare correre i pensieri, perché si sarebbero addentrati ad esplorare antri della mia mente che avrei tanto voluto far sprofondare nel nulla, ma quelli sfuggivano inesorabilmente al mio controllo. Sembrava che la testa potesse scoppiarmi da un momento all’altro. Ero così concentrata nel cercare di non provare o sentire nulla, che effettivamente non percepii i passi nel corridoio fino a che non si arrestarono pesantemente davanti alla mia porta.
Gli uomini fuori proruppero in esclamazioni di sorpresa.
«Apritemi» ordinò un voce, imperiosa ma affaticata.
Durza?
Durza!
Mi trascinai faticosamente giù dal letto, traballando per mantenermi in piedi e appoggiandomi pesantemente al muro quando le gambe minacciarono di lasciarmi.
«Mio signore..» tentò di protestare un soldato.
«Aprite ho detto!» ribadì lo Spettro. «Poi chiudete».
Gli ordini vennero frettolosamente eseguiti. Lo Spettro entrò nella mia stanza barcollando, il mantello calato sul volto, e si sbatté con violenza la porta alle spalle.
L’azione parve svuotarlo di ogni vigore, perché si accasciò a terra con un gemito.
Istintivamente mi precipitai su di lui e gli caddi accanto. «Durza?» lo chiamai incerta, con voce resa flebile dalla stanchezza.
Nella confusione e nella stanchezza che albergava nella mia mente riuscii ad avere solo qualche pensiero confuso. Durza era tornato. Era vivo. Forse avrebbe impedito all’occhio di farmi del male.
Ma perché sembrava stesse così male?
Posai una mano sulla sua spalla e lo scossi delicatamente, facendogli scivolare il cappuccio dal viso. Alla sua vista sussultai.
Lo Spettro era -se possibile- ancora più pallido del solito, gli occhi cremisi erano socchiusi in un’espressione sofferente e un profondo graffio ancora sanguinante gli deturpava la guancia sinistra. I capelli rossi erano sudati e appiccicati alla fronte.
«Cosa ti è successo?» pigolai, piuttosto sconvolta.
Durza deglutì con fatica. «Aiutami Elfa» soffiò.
Aggrottai la fronte. «Perché dovrei?» sbottai.
Il suo sguardo si fece vacuo. «Lui è un pazzo.. Trova lei, Arya, è l’unica che.. Non ce la faccio più. Il dolore mi..» Ansimò.
«Chi devo trovare?» Mi pulsavano le tempie per lo sforzo di concentrarmi.
Mi afferrò bruscamente per la camicia, tanto che per poco non me la strappò di dosso. «Trovala!»
Sussultai e scrollai le sue mani. «Va bene, ci proverò» dissi, con il solo scopo di calmarlo.
Durza emise un rantolo spezzato e si lasciò andare sul pavimento. Il suo mantello nero gli si scostò di dosso, rivelando una camicia altrettanto nera e zuppa di un liquido indefinito.
Lo toccai. Era sangue.
Mi inginocchiai accanto a lui e con gesti secchi e febbrili, gli slacciai il mantello e la camicia. Il corpo pallido dello Spettro era coperto di una selva di tagli verticali, più o meno profondi, di un’inquietante regolarità, chiaro segno che non erano dovuti ad un incidente. La sua pelle era interamente ricoperta di sangue e le ferite parevano perderne ancora.
«Barzul!» imprecai istintivamente. «Cosa ti sei fatto?»
Durza cercò i miei occhi e mi fissò con un’espressione disperata che non gli avevo mai visto. «Devi aiutarmi» ripeté, reclinando il mento sul petto.
Restai a guardarlo per qualche istante, sconvolta, confusa, combattuta, frustrata.
Durza chiuse gli occhi.
«Non credo che lo farò» lo informai.
Forse ero pazza, mezza morta di fame e delirante, ma ricordavo tutto il male che mi aveva fatto alla perfezione. Quella era la mia occasione per ucciderlo.
«Ti posso salvare» disse, senza schiudere le palpebre. «Se io muoio, tu finirai in grossi guai. Il re ti vorrà ad Uru’baen e allora io non potrò fare nulla, ma io.. ho dei progetti per te.. Io sono l’unico che potrebbe aiutarti a sconfiggere Galbatorix, Elfa, pensaci bene».
Mi lasciai stupidamente sedurre dalle sue parole e subito maledissi la mia incapacità di ragionare lucidamente. «Perché dovresti aiutarmi?» domandai poi scettica.
«Non ti riguarda».
«Dovresti almeno darmi delle garanzie, nell’antica lingua».
Aprì finalmente gli occhi. «No».
Le emozioni che si rincorrevano nelle sue iridi erano così tante, che non riuscii a seguirle tutte. Tuttavia vi era un odio così profondo da darmi i brividi. E non era riservato a me.
Gli scostai automaticamente i capelli dalla fronte, un gesto premuroso dettato da quella parte di me che mi suggeriva di porre fine alle sofferenze del mondo intero, la stessa parte di me che mi aveva portata a fare tutte le scelte della mia vita. La sua pelle scottava.
Se lo avessi ucciso sarebbe sparito un ostacolo di importanza cruciale per i Varden. Senza il suo luogotenente, il re sarebbe stato molto più debole. E poi stavamo parlando di Durza lo Spettro!
Quanti avevano perso la vita nel tentativo di farlo sparire tra le ombre?
La lista delle sue malefatte era più lunga della strada da Ellesméra ad Aberon.
Aveva provocato tantissimi danni, sia agli Elfi che ai Varden, che agli abitanti di Alagaësia, oltre che a me, si intende.
Se invece le sue parole corrispondevano al vero sarebbe stato un guadagno enorme per me e i miei alleati. Ma quanto potevo fidarmi delle promesse di uno Spettro delirante? Forse stava solo cercando di salvarsi la vita. Ma perché allora era venuto ad offrirsi, debole ed indifeso, alla sua prigioniera affamata di vendetta?
E mentre io pensavo e ripensavo a qualsiasi implicazione che la mia scelta avrebbe portato Durza si agitò e quando tornai a guardarlo stava socchiudendo gli occhi, per mettere meglio a fuoco il mio viso.
«Sei pallida». Sollevò una mano tremante come quella di un vecchio. «E malata» soffiò.
La debole forza che sosteneva il suo braccio venne a meno e le sue dita non raggiunsero mai il mio volto.
Restai a fissare la sua mano fino a che non gli ricadde lungo il fianco. Solo allora la presi e la strinsi forte tra le mie. Al contrario della fronte, era gelida.
Scossi la testa, sconsolata di fronte alla decisione intricata e alla mia incapacità di ragionare lucidamente e sbattei un debole pugno di frustrazione a pochi pollici dal suo viso. Ma avevo già scelto.
«Io sono un po’ più a destra, Elfa» mi informò lo Spettro con una nota di debole sarcasmo.
«Lo so».
Mi spostai da accanto a lui e praticamente strisciai sul pavimento fino a raggiungere il catino con l’acqua, che spinsi verso il mio letto.
Poi tornai dallo Spettro e mi avvolsi un suo braccio intorno alle spalle.
Facendo leva sulle gambe, lo tirai su. Si lasciò andare praticamente inerte addosso a me. Strinsi i denti, sostenendo faticosamente il suo peso fino ai piedi del letto, dove lo lasciai cadere di botto sul pavimento e mi accasciai accanto a lui, ansimando e sudando. Durza ebbe comunque la forza di imprecare.
«Cosa farai Arya?» sussurrò.
Strattonai via le lenzuola dal letto. «Ti pulisco le ferite» dissi, tirando verso di me l’acqua.
Fece una smorfia. «Se basterà..»
Gettai un’occhiata critica al suo petto devastato di tagli. «Chi è stato?» mi informai sfiorandogli le spalle e lasciandomi guidare dal semplice istinto che ogni elfo aveva nei confronti di una creatura ferita: guarirla.
«Il re non è stato molto contento di sapere che non sono riuscito a strapparti nemmeno la più piccola informazione».
Feci scivolare lentamente la camicia dalle braccia forti di Durza. «Non ti sei curato» osservai.
Guardò prima le mie mani e poi mi fissò direttamente negli occhi, con un’espressione che non riuscii ad interpretare, ma che mi fece venire le vertigini. Ebbi un piccolo tremito.
«Non posso» disse semplicemente. «Olio di Seithr stregato e spalmato sulle lame. Le ferite impiegheranno giorni a richiudersi. E Galbatorix mi ha ordinato di non agire su di esse con la magia».
Olio di Seithr. Una volta avevo voluto provare per curiosità a versare una goccia di quel liquido sul palmo della mano e il bruciore, anche se per pochi secondi, era stato fortissimo. Feci una smorfia.
«Perché lo servi se ti tratta così?» chiesi, liberando finalmente il busto dello Spettro dalla stoffa insanguinata.
«Gli giurai di ubbidirgli. Tanti anni fa».
Stracciai una striscia di lenzuolo e la immersi nell’acqua fredda. Poi usai la pezza per ripulire la pelle rossa di sangue di Durza. I muscoli dello Spettro si tesero spasmodicamente non appena toccai le ferite.
«Non è stata una gran bella idea eh?» ironizzai.
«Allora era diverso.. Lui mi prometteva ciò che mi serviva e io potevo dargli qualcosa in cambio».
Feci un gesto interrogativo, mentre le mie dita si facevano sempre più tremanti mano a mano che constatavo quanto gravi, eppure studiatamente non drasticamente mortali, fossero quelle ferite.
«Io conoscevo bene le arti oscure e lui aveva bisogno di un maestro. Io avevo bisogno di qualcuno che fosse potente per riuscire a..» si interruppe, «fare quello che dovevo fare» tagliò corto. «E così lo aiutai con il suo drago».
Mi fermai. «Tu lo hai aiutato a schiavizzare Shruikan!» esclamai.
Ghignò piano. «Quello e molto altro, e molto peggiore, anche. Sicura di voler continuare?» Annuì in direzione delle mie mani, ormai sporche di sangue.
Gettai via la pezza e ne strappai un’altra, senza rispondergli.
Rise sommessamente e reclinò il capo sulla spalla destra .«Sono veramente un fallimento» soffiò. «Ridotto a farmi curare da un’Elfa.. Che sarebbe anche mia prigioniera per di più».
Tacqui.
Lentamente lavai con cura tutti i graffi. Lo Spettro aveva il fisico forte di un guerriero e non vi era traccia di mollezze nel suo corpo, a testimoniare il suo impegno nelle armi, che certamente durava da parecchi decenni. Quando poi arrivai a ripulirgli la schiena e le spalle ebbi un moto di stupore: i muscoli erano così scavati e definiti come ne avevo visti solo in certi acrobati che davano spettacolo nel mondo degli umani.
Mi accorsi che Durza respirava male solo quando tornai a guardarlo per occuparmi della ferita che gli tagliava in diagonale la guancia sinistra, come il macabro proseguimento di un sorriso.
I tagli non sanguinavano troppo, ma le ferite erano ancora aperte e aveva perso un bel po’ di sangue in precedenza, probabilmente aveva la febbre.
«Spettro?» lo chiamai, non senza un nota di preoccupazione, schiudendogli gli occhi a forza. Erano iniettati di sangue. Sangue, sangue, sangue. Mi venne un attacco di nausea ma feci di tutto per ricacciarlo.
Rispose con un borbottio di assenso.
Riducendo a brandelli quello che restava del lenzuolo, gli bendai il torace, poi lo sollevai di peso e lo feci distendere sul mio letto.
Gli sollevai le coperte fino al mento. Durza non smetteva un attimo di tremare e i suoi occhi erano lucidi per la sofferenza.
Ma anche io ero distrutta, giorni e giorni di digiuno, malattia, insonnia e tormento continuo mi avevano ridotta all’ombra di me stessa. Uno straccio.
Avrei tanto voluto dormire.
«Non te ne andare» farfugliò Durza.
Mi sfuggì un amaro sorriso a fior di labbra. Lui stava male, malissimo. Non ero nemmeno certa che avrebbe superato la nottata e non sapevo proprio come poter chiudere le sue ferite. E non ero abituata ad essere così impotente di fronte ad un moribondo, di solito avevo sempre la magia dalla mia parte, mentre in quel momento ero totalmente inutile..
Pochi minuti dopo lo Spettro dormiva. Rabbrividendo per il gelo della stanza, sgusciai sotto le coperte accanto a lui, incurante del fatto che stavo dividendo il letto con Durza lo Spettro. Rifiutare le coperte per il gusto di accontentare l’etica mi sarebbe costato la morte per assideramento.
Non riuscii a prendere sonno. Lo Spettro si agitava, balbettava parole incoerenti -le uniche che riuscii a cogliere furono “madre”, “bastardo”, “signora” e “tempo”, che non parevano avere nessun collegamento logico tra di loro- inoltre la sua pelle scottava ancora ed era madida di sudore.
Il punto di rottura venne quando cominciò a sfregare le mani tra di loro, ripetutamente, con forza. Come se stesse cercando di lavare via una macchia che non voleva saperne di andarsene.
Lo scossi e lo svegliai.
«È rosso!» gridò, con gli occhi fuori dalle orbite. Come un folle.
Sobbalzai e gli afferrai le mani. «Non è nulla, Durza torna a dormire».
Mi guardò vacuamente. «Non te ne andare» ripeté.
«Non me ne vado» cercai di rassicurarlo, ma la mia voce era pericolosamente incrinata.
«Non sparirà mai vero? Rimarrà su di me per tutta la vita!»
«Cosa?»
Tacque per qualche istante. «Il sangue». E si fissò le mani.
All’improvviso ebbi freddo. «Non c’è nulla» dissi lentamente, come se parlassi ad un bambino. «Adesso dormi».
«Non te ne andare.»
«Non me ne vado».
Si lasciò cadere sul materasso e chiuse gli occhi di scatto.
Io mi tirai a sedere, cercando di regolarizzare il battito impazzito del mio cuore. Ero travolta da una quantità tale di pensieri e preoccupazioni che temevo di poter morire sotto quel peso.
Poi guardai Durza. E poi non pensai più a nulla.
Gli sfiorai la fronte con la punta delle dita e poi la guancia deturpata dal taglio. E quando lo Spettro allungò una mano e mi strinse la nuca, avvicinando bruscamente il viso al mio, il ricordo del bacio sfuggevole che mi aveva lasciato sulle labbra poco prima di partire tornò con tutta la sua chiarezza.
Le sue labbra sottili premettero debolmente contro le mie. Impreparata, subii passivamente quel bacio, senza riuscire a trovare la forza di respingerlo. La sue mani circondarono il mio viso e mi trattennero contro le sue labbra, che a quel punto divorarono le mie con brusca avidità, al punto di farmele quasi dolere.
Le sue erano ruvide e crepate per il freddo. Mi ritrovai a pensare che avrebbe dovuto utilizzare il Nalgask, un unguento di cera d’api e olio di noci che il mio popolo produceva e usava per evitare appunto che la pelle si inaridisse e si spaccasse per il gelo o il vento. Ma probabilmente lui non se ne curava affatto.
Mi resi conto di stare annaspando, a corto di fiato, solo quando Durza mi lasciò andare e si staccò da me per qualche istante, lasciandomi vagamente perplessa e confusa.
Scrutai i suoi occhi rossi, alla ricerca di una spiegazione, ma la luce ardente che brillava nelle sue iridi mi spaventò. Sembrava folle eppure terribilmente consapevole.
Spinse i pollici contro la mia gola, reclinandomi lievemente il capo all’indietro, tanto che per un attimo temetti che volesse uccidermi.
Ma in effetti ci andò vicino.
Mi baciò nuovamente, con più calma, quasi chiedendomi il permesso di continuare a farlo. Non risposi a quel gesto, ma non cercai nemmeno di impedirglielo. Restai semplicemente rigida e immobile, fino a che non persi interesse in quella ribellione silenziosa e mi arresi. Accettai che le sue labbra plasmassero le mie e che la mia dignità raggiungesse Glenwing e Fäolin nelle ombre.
Qualcosa mi suggerì -come una voce lontana- di staccarmi dalla bocca dello Spettro e dal fresco sapore di menta che gli era tipico. Ma non riuscii a focalizzare la mia attenzione su quel pensiero per più di qualche istante.
Un’ondata di calore mi esplose nel corpo e nel petto, facendomi sciogliere ai baci di Durza.
Travolta da quella sensazione, mi aggrappai alle sue spalle, strappandogli un gemito di dolore quando artigliai le sue ferite appena fasciate. Ma sul momento non me ne curai affatto.
Tremai violentemente quando la sua lingua mi schiuse con decisione le labbra e si insinuò nella mia bocca. Il sapore di menta fu così forte che mi lacrimarono gli occhi. La mente mi si annebbiò totalmente, ogni pensiero si dissolse come polvere al vento. Forse avrei dovuto ribellarmi, scalciare, spingerlo via. Ma ancora fui incapace di mettere in atto quel pensiero.
Mi abbandonai contro di lui e gli occhi mi si socchiusero, tutto si sciolse nelle sensazioni sconosciute che mi stavano accarezzando.
Un nuovo brivido mi percorse, ma fu totalmente diverso da uno qualsiasi provato fino a quel momento. Caldo, intenso, vibrante.
Stavo.. fluttuando.
Solo quando i polmoni minacciarono di scoppiarmi, mi scostai e ricaddi al suo fianco sul materasso.
Scossi con lentezza la testa e cercai di interpretare logicamente il fatto. «Siamo entrambi ridotti male. Domattina avremo già dimenticato ogni cosa e imputeremo tutto alla nostra condizione» dissi ad alta voce, come a giustificarmi con lui.
«Uhmf» mugugnò Durza, appoggiando il viso nell’incavo del mio collo, apparentemente disinteressato alle mie questioni. Piccoli brividi partirono dal punto in cui il suo respiro sfiorò la mia pelle.
«Ti do fastidio?» chiese piano.
«No» sussurrai, accarezzando i suoi capelli rossi, incerta.
«Lo faceva tutte le sere» mormorò.
«Chi?»
«E mi chiamava per nome».
«Carsaib?» azzardai.
Sorrise con gli occhi chiusi. «Madre».
Si addormentò in definitiva, ancora ardente di febbre, ma perlomeno smise di agitarsi.
Crollai a mia volta.
Sognai una donna che entrava nella cella, seguita dalle guardie, e portava via Durza. Io protestavo qualcosa, ma nessuno mi ascoltava e le mie braccia non bastarono a trattenere lo Spettro. Non ricordai mai i particolari del viso della donna, l’unica cosa chiara in tutto il sogno furono le parole che mi sussurrò all’orecchio prima di andarsene: «La pagherai sgualdrinella elfica».
Quando capii finalmente che non era affatto un sogno e mi alzai a sedere sul letto, la porta era chiusa e Durza non c’era più. E nemmeno le guardie lì fuori.
Pensai di avere immaginato tutto, compresa la presenza dello Spettro nella mia cella. Mi strofinai gli occhi e mi guardai intorno con tutta l’attenzione che riuscii a raccattare. Il lenzuolo che avevo stracciato e usato per tamponare le ferite di Durza non c’era più, così come non c’era alcuna traccia di sangue, né sul pavimento, né nel mio letto.
A quel punto stavo per accantonare tutto come un sogno e la delusione rischiò di sopraffarmi. Con Durza mi ero sentita salva da tutto quello che mi era accaduto nell’ultima settimana: dalle magie misteriose, dagli attacchi dell’occhio bianco, di Hillr, dei soldati, di Galbatorix..
Poi vidi alcuni sottili fili rossi incastrati tra le mie dita e ricaddi sul letto sorridendo.
Durza era stato lì e gli avevo accarezzato i capelli. Presto sarebbe venuto a curarmi e non avrei più sentito l’odore di noce vomica. Aveva detto di volermi salvare.
Sarebbe andato tutto bene.


[Durza]
Quando riuscì a vedere qualcosa con un minimo di chiarezza, Durza colse la figura di una donna dai capelli lunghi e sciolti sulle spalle china su di lui.
«Stai bene?» domandò una voce aspra.
Strinse gli occhi e li riaprì e la figura apparve più chiara. Capì chi era ed ebbe un moto di delusione, era un’altra l’ultima donna che ricordava di aver visto.
«Dove sono?» chiese.
«Nel tuo letto, sciocco» fu la secca risposta. «Ma fino a qualche ora fa eri in quello dell’Elfa».
Lo Spettro si spostò le mani alle tempie e si impose di respirare profondamente. Si sentiva relativamente bene, quasi lucido, ma aveva dei buchi nei ricordi delle ore precedenti. «Come hai saputo che ero tornato?»
«Quei maledetti Ra’zac fanno un rumore terribile quando volano la notte, li ho sentiti a miglia di distanza. Ho immaginato che sarebbero atterrati fuori città e che saresti venuto a piedi, ma invece hanno sorvolato la fortezza. A quel punto ho creduto che ti saresti calato a terra con la magia e sono venuta qui ad aspettarti. Ho aspettato un bel po’, delle ore, poi uno dei tuoi soldati si è precipitato qui, dicendo di averti visto trascinarti, sanguinante e malconcio, fino alla cella della prigioniera».
«Mi ricordo» la interruppe Durza puntellandosi sui gomiti, «dovevo parlare con Arya, ma ero un po’ confuso».
Lo Spettro ripercorse il tempo passato nella cella. I ricordi erano molto sfocati, ma abbastanza nitidi da chiarire cosa fosse successo a linee generali. Si rese conto di averla scampata bella. I suoi pensieri mentre volava con i Ra’zac erano stati di vendetta contro il sovrano e aveva deciso di trascinare anche Arya nelle sue file per contrastarlo. Sceso a terra, era così delirante da non riuscire bene a capire la sua situazione ed era andato fino alle prigioni convinto che fosse quella la cosa giusta da fare. Se l’Elfa avesse voluto, avrebbe potuto ucciderlo con estrema facilità, ma fortunatamente era riuscito a convincerla e anche lei non sembrava troppo in forma.
La ricordava pallida e smunta. Ma poi tutto sprofondava nel buio. Arya aveva pulito le sue ferite con mani tremanti, era l’ultima cosa che ricordava. Quell’Elfa doveva essere pazza.
«Arya!?» proferì gelidamente la sua interlocutrice, ridestandolo. «Adesso la chiami anche per nome la principessina?»
«Ce l’ha un nome, e pure bello, quindi lo uso» la freddò lo Spettro.
«Eri molto nervoso quando parlavi di lei negli ultimi tempi» osservò la donna, porgendogli una pezza di stoffa imbevuta di acqua gelida, che lui si posò con piacere sulla fronte.
«Pensavo che avrebbe mollato prima, e con i metodi tradizionali. Dopo una chiacchierata con Galbatorix, ho deciso di fare altrimenti».
«Da quando ascolti i consigli del re?» chiese lei sedendosi sul grande letto al suo fianco. «Ho buone ragioni di credere che sia stato lui a ferirti».
Durza scostò le coperte e si scrutò il torace. Ricordava che Arya lo aveva fasciato con il lenzuolo, ma ora le bende erano rifatte ed odoravano di erbe curative. Gli bastò annusare un istante l’aria per capire che non era legna quella che bruciava nel camino.
«Hai bruciato la fasciatura dell’Elfa?» chiese con una punta di divertimento.
La donna serrò la bocca con rabbia. «Aveva il suo schifosissimo odore. Dovresti ucciderla. Faresti un favore a me e a te».
Durza rise «A me?»
Lei annuì seriamente. «Ti sta rabbonendo».
«Sai che non è vero».
«No, non ancora forse, ma ci riuscirà. Quelli della sua razza ci provano in continuazione». Fece una pausa. «Sai che sto ricordando, vero?»
«Sì, me lo hai detto decine di volte, insieme al caldo consiglio di sbarazzarmi di Arya» confermò lo Spettro annoiato.
«Sua madre è la causa di ogni mia sofferenza».
«La causa di ogni tuo male è Galbatorix» la corresse lo Spettro. «E non ti lascerò ammazzare l’unica fonte di informazioni che possiedo. È l’unica che conosce il luogo dove è nascosto l’uovo ed è l’unica che può aiutarci. Fingerò di schierarmi dalla sua parte e mi farò dire tutto quello che posso. Se il cavaliere del drago azzurro non sarà dalla nostra parte, non deporremo mai Galbatorix».
«La stai difendendo» lo accusò.
«Sì» ammise lui senza fare una piega, «e dovresti smetterla di farti accecare dal dolore. Ti dico per esperienza che porta a scelte insane».
«Troveremo l’uovo senza il suo aiuto!» insistette lei. «Puoi mandare gli Urgali a setacciare Alagaësia, se la caveranno».
«Gli Urgali sono stupidi».
«Gli Urgali sono una razza come lo sono gli Elfi, i Nani o gli Uomini. O gli Spettri. È tutta colpa tua se sono così rintontiti. Se non dominassi le loro coscienze deboli sarebbero capacissimi di dimostrarsi intelligenti».

Durza sollevò un sopracciglio e un angolo della bocca insieme. «La tua educazione e le tue origini ti hanno influenzata più di quanto tu voglia lasciare intendere».
«No!» ribatté l’altra, risoluta. «Non ho più nulla a che fare con loro».
«Capisco. Ma io avrò a che fare con Arya.. Ascoltami!» esclamò quando lei iniziò ad inveire. «Andrò a Dras-Leona a cercare degli alleati».
«Che genere di alleati?» chiese con perplessità.
Durza esitò. «Chiederò ai Sacerdoti dell’Helgrind di appoggiarmi contro Galbatorix. Odiano i cavalieri dei draghi e il loro ordine, per loro solo i loro dèi devono avere potere assoluto. Non sanno che in realtà gli esseri che venerano sono legati al re da un giuramento di fedeltà e se darò loro una possibilità si uniranno volentieri a me».
«Ma progetteranno la tua morte» osservò la donna. «Anche tu sei considerato una creatura ostile ai loro occhi. È pericoloso, Durza.»
«Preoccupata?»
«Lo stretto necessario» fu la risposta asciutta, accompagnata da un sorriso seducente.
«Starò attento. E una volta terminato il loro compito, mi libererò di loro. Conoscono alcuni incantesimi oscuri e hanno delle biblioteche che nemmeno il re ha mai consultato, forse tra uno di quei libri troverò un incantesimo, una debolezza, qualcosa che mi permetta di vincere la forza di Galbatorix».
«Faresti prima ad unirti ai Varden».
«Non mi accetterebbero mai, né tra le loro file, né come sovrano poi. Tu piuttosto, stai facendo quello che ti ho chiesto?»
Lei annuì. «Ho cercato, ma per ora non ho notizie di altri come me».
«Insisti, ogni alleato sarà utile».
«D’accordo. Ma non mi hai ancora detto cosa c’entra la principessina in tutto questo».
«Mi accompagnerà a Dras-Leona. E cercherò di convincerla delle mie “buone intenzioni” mentre saremo là. Non saprà mai che voglio prendere il potere dopo Galbatorix e mi limiterò a dirle che sono stanco di stare al servizio del re. Forse facendo pressione sulla sua filantropia riuscirò a convincerla a dirmi qualcosa».
«Certo» concesse lei con voce pericolosa, «ma una volta finito il suo scopo la lascerai a me?»
Lo Spettro nascose il suo turbamento. La persona con cui stava parlando era mentalmente instabile, lo sapeva. Era stata bandita dalla propria città natale e lui l’aveva accolta nella propria casa, prendendola al proprio servizio come cameriera personale dopo che si era dimostrata inutile per le sue iniziali intenzioni: aveva perso la memoria, non ricordava neppure il suo nome. Con gli anni qualche ricordo era emerso, niente di troppo importante. Dopo che aveva visto Arya il processo di recupero della memoria pareva aver ripreso a pieno ritmo, rivangando ricordi che avrebbero fatto meglio a restare sepolti.
O almeno secondo il suo personale interesse, sì. Durza non aveva bisogno di una persona affamata di vendetta, oltre a se stesso.
Era capace di fare molte cose la sua serva e lui sfruttava volentieri le sue capacità. L’odio verso Galbatorix li aveva uniti fino a quel momento e molti aspetti dei rispettivi passati erano simili.
Inoltre sapeva che lei era molto affezionata a lui. E come aveva fatto Morzan con la sua mano nera, Durza si era assicurato che quel legame gli garantisse la fedeltà di lei.
Quella donna era uguale a lui. Apprezzava la sua compagnia e il suo modo di essere. Era l’unica su tutto il suolo di Alagaësia a conoscere una fetta della personalità di Durza lo Spettro e ad avere un rapporto umano con lui.
Ma in quel momento lei si stava pericolosamente lasciando trascinare dalla rabbia e lui non poteva permetterlo.
«Devi placarti».
«Non osare» ringhiò lei, «non osare dirmi una cosa simile! È questo il nostro patto, no? Ci sosteniamo a vicenda per raggiungere i nostri scopi. Io uccido la principessina Arya e avrò finalmente la mia vendetta sulla sua famiglia. Poi uccidiamo il re e saldiamo i conti che entrambi abbiamo con lui. Poi tu prendi il potere e sbaragli i Varden, così potrai uccidere la progenie dell’assassino della tua famiglia. Sono questi i piani giusto?»
«Ovviamente» rispose Durza con cautela. «Ma Arya non era compresa nei piani iniziali».
Lei rise stridulamente. «Visto? Ti sei rammollito. Non devi fidarti di lei. Qualunque cosa ti stia dicendo è falsa. Vuole ingannarti, non lasciarti sedurre da un paio di occhi dolci».
Durza sorrise. «Non ho detto che voglio sposarla».
«NON DOVRESTI NEMMENO AVERLO QUESTO PENSIERO!» sbraitò lei.
Lo Spettro scattò. «Vattene» ordinò irritato. «Mi stai stancando. Dimentichi che lei è sotto la mia protezione, e sarò io a decidere cosa ne sarà di lei. E per ora non la voglio morta. E se non sbaglio qui dentro sono io il padrone e tu la serva, quindi non contraddirmi!»
La donna si alzò in piedi fieramente. «Tu non la vorrai mai morta! Ma non dimenticare, mio signore, che io sono l’unica che può capirti qui dentro, sono l’unica ad averlo mai fatto». Lo guardò seriamente negli occhi. «Credevo che avrei potuto fermarti, ma ormai è troppo tardi».
«Tardi per cosa?» ridacchiò lui.
Ma non ottenne risposta perché la sua interlocutrice si era già defilata oltre alla porta delle sue stanze.
Durza si chiese cosa avesse mai fatto di male nelle sue vite precedenti. Doveva aver venduto qualcuno dei suoi parenti. Presumibilmente il padre o la madre. Forse anche la sorella.
Sprofondò nel suo letto morbido.
E poi ricordò. Sgranò gli occhi nella penombra.

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Hello everyone!
Credo di dovere chiarire un po’ di cose: Durza arriva a Gil’ead a Dorso di Lethrblaka e si cala a terra con la magia. Ferito e confuso riesce a capire di dover parlare con Arya e va nella sua cella. L’Elfa non distingue più bene il nero dal bianco e, sperando che le promesse dello Spettro siano vere, finisce per aiutarlo.
Nel sonno Durza si sfrega le mani, quasi a volerle lavare dal sangue, e qui devo citare il grande Shakespeare e Lady Macbeth, da cui ho preso l’idea.
Finalmente vi presento un po’ questa fantomatica “Lei” che ho sempre lasciato avvolta nell’ombra. Con un po’ di impegno si possono dedurre molte cose su di lei in questo capitolo.
Infine un’altra citazione è di dovere: “Doveva aver venduto qualcuno dei suoi parenti. Presumibilmente il padre o la madre. Forse anche la sorella.”
Questa frase non è esattamente un copia e incolla, ma quasi, da uno dei libri della mitica scrittrice fantasy italiana Silvana De Mari: L’ultimo Elfo.
Baci e a presto, spero ;)

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Capitolo 13
*** Aria di partenza ***


13. Aria di partenza

Quando Durza lo Spettro entrò nella mia stanza accompagnato da Alba credetti che si trattasse dell'ennesima illusione data dalla mia mente disturbata. Eppure le dita di lei sulla mia fronte erano reali e anche il tono allarmato nella voce dello Spettro.
E furono proprio le sue mani a curare con delicatezza le ferite rimaste sul mio corpo, accompagnate da parole di magia.
Cercai più volte i suoi occhi, cercavo un lampo di comprensione, di complicità. Qualcosa che mi guidasse i pensieri. Lo ricordavo sanguinante, delirante, disperato, ricordavo il bacio senza perché che ci eravamo scambiati. Eppure lo Spettro pareva abbassare accuratamente gli occhi ovunque, tranne che sul mio viso.
Quando le parole sussurrate da Durza cessarono, Alba mi si avvicinò con un piatto fumante e mi dovette imboccare per farmi sorbire la zuppa di verdure.
Una volta curata e nutrita lo Spettro mi sollevò dal mio letto e uscì dalla stanza. Ebbi un tremito, realizzando che probabilmente il tragitto sarebbe finito nella sala delle torture, ma con mio immenso sollievo, Durza si incamminò in direzione oppposta, salendo le scalette di pietra.
Mi permisi di chiudere gli occhi e di rilassarmi. Forse le promesse che mi aveva fatto mentre delirava non erano così infondate come credevo, forse voleva veramente allearsi con i ribelli, stanco del potere che Galbatorix aveva su di lui.
Riconobbi le scale che avevo salito la notte in cui avevo tentato la fuga -un'eternità prima- e anche la porta di legno di quercia che avrei dovuto aprire per trovare un rampicante che avrebbe favorito la mia fuga. Dietro la porta c'era una camera da letto calda e accogliente, ma ci fermammo solo dietro ad un'ulteriore porta, dove trovammo una vasca di rame piena di acqua fumante.
«Arya mi senti?» domandò Durza.
Provai a rispondere ma riuscii solo a balbettare con voce roca: «S-Sì».
Mi sembrava che tutti i cavalli dell'esercito imperiale mi avessero travolta e gli sforzi di Durza per rimettermi in sesto parevano pressoché nulli. Come puoi sperare che un vaso di vetro torni integro se prima non si hanno raccolto tutte le schegge? E sopratutto come puoi pensare che tornerà esattamente liscio e immacolato come lo era al principio?
«Va tutto bene. Adesso verrà una ragazza e ti aiuterà a fare un bagno, quando starai meglio ti farò una proposta».
«Non ti dirò nulla». Furono le uniche parole che dissi, non un grazie, non una domanda. Mi sentivo al contempo rassicurata e minacciata.
«Va tutto bene» ripeté lui. «Non ti farò del male. Ti ho promesso che ti avrei aiutata e ho intenzione di farlo. Sei salva».
Non mi riuscì facile credergli. Forse perché continuava ad evitare di guardarmi, forse perché era dura credere alle parole che sognavo di sentire pronunciare da mesi. Che tutto andava bene, che non dovevo preoccuparmi, che altri potevano soffrire e preoccuparsi al posto mio.
Mi sentii adagiare a terra e poco dopo la porta fu nuovamente aperta da Alba, che riconobbi dai capelli biondi.
«Guarda come ti ha ridotta» gemette lei. «Mi dispiace tanto, io avrei voluto farti fuggire, volevo salvarti, ma non ci sono riuscita».
E scoppiò a piangere.
«Hai fatto molto per me, ti ringrazio» biascicai.
«Cosa ti ha proposto?» chiese tra le lacrime, aiutandomi a spogliarmi. «Non credergli, non credere a nulla di ciò che ti ha detto e che ti dirà. E' una bugia, le sue sono sempre bugie. Ti venderà al re, che ti spremerà come un limone maturo. Io credo.. credo che la tua ultima possibilità di sfuggirgli sia ucciderti prima di arrivare alla capitale».
La ascoltai con la testa che pulsava e con l'attenzione che vacillava, mentre mi sosteneva e mi adagiava nella vasca. Un profondo gemito di piacere sfuggì dalle mie labbra non appena le mie membra toccarono l'acqua. Cercai di ricordare l'ultimo vero bagno decente che avessi fatto -da cosciente si intende- e la mia mente si perse ad un'eternità prima, quando ancora vivevo tra i Varden e la mia vita non era stata massacrata.
Mi concentrai sull'intensa sensazione dell'acqua calda sulla pelle e non riuscii a percepire nient'altro, nemmeno la voce di Alba. Quindi mi vergognai per il mio materialismo quando lei mi chiese, con voce ferita: «Ma mi stai ascoltando?»
«Perdonami» sussurrai, «ora sono troppo stanca».
La mia risposta debole e secca parve infastidirla. Raccolse i miei vestiti da terra, mi porse un pezzo di sapone e degli oli profumati e poi uscì chiudendosi la porta alle spalle con malagrazia.
A dire il vero il suo atteggiamento non mi toccò più di tanto. Insomma avevo sfiorato la morte innumerevoli volte negli ultimi mesi, avevo tutte le ragioni di sbagliare qualcosa.
Mi lavai con assurda lentezza, ispirando ed espirando ad ogni singola azione, come se stessi compiendo un rito sacro. La mia pelle era secca, ruvida, tempestata di cicatrici frastagliate e di lividi violetti, ma non una ferita sanguinante era rimasta sul mio corpo.
Una volta terminato il bagno afferrai un panno posato sullo scaffale accanto alla vasca e mi ci avvolsi. Uscita dall'acqua finii per sedermi a terra, persino quelle poche azioni mi avevano sfiancata.
Nel silenzio percepii dei passi e un respiro provenire dalla stanza accanto e li identificai come quelli di Durza, quindi decisi a maggior ragione di non uscire, non avevo voglia di resistere alle sue parole melliflue in quel momento, avrei certamente ceduto.
Alba tornò dopo una decina di minuti con un abito e una sottoveste per me.
«La mia fascia e le mie brache?» domandai stancamente.
«Tra gli umani non si usa portare indumenti corti da uomo sotto i vestiti» rispose candidamente, con una risatina di scherno.
«Posso riaverli per favore?» mi impuntai. «Mi servono perché sono pratici».
Ancora una volta mi parve seccata. «Li laverò e domani li riavrai» disse.
Poi immerse un secchio nell'acqua e se ne andò, cominciando così a svuotare la vasca di rame.
Avevo a malapena indossato la corta sottoveste e mi ero nuovamente seduta a terra quando Alba entrò per riempire un secondo secchio. Mi risultava particolarmente fastidioso non avere un qualcosa a sostenermi il petto, che sentivo troppo libero, così come mi disturbava non avere addosso almeno un paio di pantaloni, anche se corti.
La ragazza uscì lasciando la porta aperta.
A quel punto notai lo specchio appeso alla parete alle mie spalle e incrociai il mio riflesso.
E mi pietrificai.
I minuti divennero ore.
Me ne stavo lì ferma , immobile, a guardare e riguardare il cadavere che mi sbirciava dal fondo dello specchio, incredula e sconvolta.
I miei capelli erano appena più lunghi di quanto ricordassi e ricadevano in onde umide fino alla mia vita. Erano l’unica cosa di me che appariva sana.
La pelle del mio viso era pallida, quasi giallastra, per non aver visto così a lungo la luce ed era tirata sulla fronte e sugli zigomi, spingendo in fuori le ossa del mio volto in maniera quasi inquietante. Come una membrana tesa su un teschio.
I miei occhi sembravano più grandi, incastonati nella magrezza del mio viso e non risplendevano più del verde degli smeraldi, come diceva sempre Fäolin. Erano opachi, ingrigiti, spenti. Sotto quello spettacolo desolante, due occhiaie scavate e nere mi davano l’aria di un’Elfa vecchia di millenni.
Tremando, mi arrampicai sulla parete, alzandomi in piedi.
La privazione di cibo mi aveva rubato le poche curve che avevo avuto in precedenza. Le ossa delle costole sporgevano sotto il seno. Quel poco che la fame mi aveva lasciato.
Le mie gambe e le mie braccia non erano ridotti a due traballanti stecchi solo perché i muscoli che avevo sviluppato in anni di allenamenti non avevano avuto il tempo di sparire, ma sapevo che per poterli riattivare al massimo della loro antica potenza avrei impiegato settimane.
Ogni pollice della mia pelle era straziato da raccapriccianti cicatrici rossastre ed infiammate.
Non reagii nemmeno quando una fiamma apparve nell’angolo destro in alto dello specchio.
Capii che erano i capelli di Durza solo quando lo Spettro si avvicinò abbastanza da entrare nella luce e mostrare il suo viso innaturalmente bianco.
Mi voltai lentamente verso di lui, senza nemmeno cercare di cancellare la mia aria smarrita dal volto e senza riuscire a vergognarmi del fatto di essere seminuda. Il mio non era un corpo che avrei dovuto temere di mostrare agli uomini per amore del pudore. Non c’era nulla che un uomo avrebbe mai potuto desiderare in quel cadavere.
«Ho visto che faccia ha la morte» sussurrai indicando lo specchio.
Lo spettro mi guardava finalmente in viso.
«Elfa fai spavento» disse semplicemente. «Mentre ero via hai forse scordato come si mangia?» E la sua espressione rasentava la pietà.
Volevo parlargli della noce vomica e del vomito sospettosamente ricorrente, ma non mi avrebbe creduta, anzi forse era stata addirittura una mia sensazione inautentica. E poi c'erano tante altre cose assurde: l'occhio bianco, i sogni, la minaccia di morte, le occhiatacce di Hillr. No, non era il caso di condividerle con lui, o mi avrebbe giudicata assai poco sana di mente e il suo sguardo era già un colpo basso al mio orgoglio.
«Il mio stomaco non funzionava più a dovere». La mia voce si affievolì. Sentivo gli occhi chiudersi per la stanchezza.
«Sei stanca?» domandò avvicinandosi.
«Infinitamente».
Mi prese in braccio. «Dormi Elfa, mi servi al più presto in forma».
Lo presi alla lettera: mi abbandonai contro il suo petto, evitando accuratamente di guardare
quella nello specchio e piombai in un sonno così profondo da fare concorrenza a quelli che dovevano fare normalmente gli umani.
Per i seguenti tre-quattro giorni la mia vita fu uno scandirsi di routine. Ero debolissima e il mio stomaco si era talmente contratto da non poter sopportare molto più di una zuppa di verdure al giorno. Alba aumentò le dosi piano piano, per riabituarlo. Tuttavia non venne mai nella mia cella senza la compagnia dello Spettro, quindi non ebbe più occasione di parlarmi dei suoi sospetti e di mettermi all'erta.
Riottenei i miei indumenti e anche un paio di pantaloni e una camicia, anche se decisamente larghi, dovevano essere della divisa dei soldati.
Durza continuava a ronzarmi intorno e a parlare di partenza. Io non capivo cosa intendesse ma non gli chiesi mai spiegazioni, perché in fondo non le volevo. Volevo continuare a mangiare, riposare e lavarmi per il resto della mia vita. Erano azioni così piacevoli che a volte mi sembravano irreali.
Ma lo spettro incalzava sempre di più e venne la sera in cui, entrando nella mia cella con aria risoluta disse: «Domattina all'alba partiamo, Arya».
Spostai gli occhi dal soffitto al suo viso. «Per dove, spettro? Che cosa stai facendo esattamente?»
Durza incrociò le braccia sul petto. «Ricordi la sera che sono tornato da Uru'baen vero? Beh non stavo affatto scherzando. Il re mi ha umiliato, mi ha trattato alla stregua di un cane pulcioso e disubbidiente e io non posso sopportare di passare anche un solo altro mese al suo servizio. Per questo ho bisogno del tuo aiuto» disse, concludendo il discorso con un tono che virava sull'infastidito, come se gli seccasse vedersi costretto a chiedere aiuto a me.
«Ah dunque vuoi che io mi faccia un giretto per la capitale, uccida il re nel sonno e ti liberi dalla tua servitù giusto? Un giochetto da ragazzi, dammi un paio d'ore e sarà tutto finito».
«Non è il momento per il sarcasmo. Voglio che tu mi aiuti a cambiare il mio vero nome».
Scossi la testa lentamente «Dovresti cambiare profondamente un aspetto di te, non è come sostituire un paio di stivali» obiettai.
«Fingerò di ignorare la tua frecciatina ai miei poveri vecchi stivali principessa» disse ridacchiando, «ma il mio problema resta. C'era una persona, qui a Gil'ead che doveva aiutarmi, ma non ci è riuscita, forse perché è così simile a me che non c'è assolutamente nulla in me che potrebbe riuscire a cambiare. Invece tu ed io siamo come il giorno e la notte: tu saresti la persona perfetta per farmi fare qualcosa che finora non ho mai fatto, o pensare in modo completamente diverso rispetto a ciò a cui sono abituato».
Soppesai le sue parole. «E io che ci guadagno spettro?»
«La libertà».
Sbuffai sarcastica. «E sono pronta a giurare che non vorrai mai ripetere le tue parole nell'antica lingua, quindi io..»
«Se mi aiuti, ti lascerò libera» mi interruppe. Le parole gli erano uscite di bocca con il suono dolce e melodioso della mia lingua madre, una lingua che nessuno mi parlava da così tanto tempo che gli occhi mi si inumidirono per la nostalgia.
La mia Ellesméra. Guardai Durza e l'espressione determinata che aveva stampata in viso. Forse era sincero, anzi doveva esserlo siccome lo aveva giurato.
Forse avrei rivisto la mia città, le mie campanule, cantato fiori alle tombe di Glenwing e Fäolin, detto a mia madre che nonostante tutto le volevo bene, ringraziato Oromis e Glaedr per la loro pazienza e il loro aiuto, abbracciato Rhunön..
Le cose che avrei potuto fare una volta libera, saltarono sullo specchio placido della mia mente come pesci impazziti.
«Allora è un sì?» insistette lo Spettro. «Partirai con me?»
«Ho veramente altra scelta?»
Ridacchiò. «Effettivamente no. Se rifiuti dovrò impedire al re di mettere le mani su di te e l'unico modo per farlo sarà ucciderti».
«Oppure potresti liberarmi e basta» proposi cautamente.
«Elfa, sapendomi in giro mi manderai contro l'intero esercito Varden ed Elfico. Anche io ho bisogno di garanzie».
«Potrei giurarti di non farlo» ribattei.
Alzò un sopracciglio. «Davvero potresti?»
Tacqui per qualche istante, qualche istante di troppo.
«Come pensavo» riprese lui. «Sarebbe troppo difficile per te l'idea di rinunciare a mettermi le mani addosso. E comunque, se permetti, vorrei guadagnare qualcosa da questi mesi sprecati a torturarti con tutte le mie abilità. Accetta, Arya, è così semplice. Accompagnami, aiutami e sarai libera».
«E dove andremo?»
«Te lo spiegherò strada facendo».
Avrei dovuto rifletterci a lungo e ponderare la situazione ma la proposta era così allettante che la mia impulsività ebbe la meglio. «Allora sì, ma ripeti il giuramento».
Lo fece. Sei volte di fila, in modo da togliere qualunque ambiguità dalla sua promessa.
Mi lasciò con un sorrisetto e la notizia che sarebbe tornato a prendermi all'alba.
Più tardi pensai a quanto era successo. Per tutte quelle settimane, Durza mi aveva tolto ogni possibilità di vedere un futuro nella mia vita, anzi aveva ridotto la mia stessa esistenza ad un debole trascinarsi attraverso ore e sofferenze.
Quella sera aveva riaperto di botto le finestre, e il vento aveva spazzato via la polvere. I miei sogni, le mie aspettative e le mie certezze riaffioravano timidamente, permettendomi di tornare ad essere una persona.
Mi aveva comprata offrendo come moneta me stessa. Aveva aggirato le mie resistenze promettendomi il lontano bagliore di un'esistenza degna di essere definita tale.
Aveva il mio più sconfinato odio e la mia eterna gratitudine per quello.
Non avevo più alcun timore di ciò che sarebbe iniziato il giorno dopo. Ero viva, ero prostrata ma ancora integra, e avevo stretto un patto con un demonio. Più di così che poteva capitarmi?

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Capitolo 14
*** Piani folli ed alleanze inaccettabili ***


14. Piani folli e alleanze inaccettabili

Quando sentii dei passi per le scale, qualche ora dopo, credetti che si trattasse di Durza. Ma il fruscio era addirittura più leggero della sua camminata quindi non poteva essere lui, eppure fu proprio lui ad entrare nella mia cella un attimo dopo, chiudendosi la porta alle spalle.
«Dovevo parlarti disperatamente» disse pianissimo, con la voce di Alba.
«Alba?» domandai stupita.
«Ssst! Ti prego!» implorò. E fu un'esperienza assurda vedere un'espressione implorante sul viso dello Spettro.
«Ti sei.. Come hai..?» non riuscii a completare la domanda perché mi stavo già rispondendo da sola. Magia. Alba era una maga, e anche abile se era riuscita a mascherare così bene il suo aspetto.
«Non è come sembra» si affrettò a dire, sedendosi accanto a me sul letto. «Mi sono fatta aiutare, ma conosco qualche rudimento di magia, hai ragione».
«Ecco come sei riuscita a farmi fuggire» osservai piattamente, «i soldati non si erano intrattenuti volontariamente, li hai obbligati».
«Volevo salvarti» pigolò lei. E per la prima volta vidi una lacrima solcare le guance pallide di Durza.
Non riuscivo a guardarla e a crederle con indosso le spoglie dello Spettro, era una contraddizione vivente il fatto che lei avesse il suo corpo, che ciò che rappresentavano per me innocenza e crudeltà convivessero, anche solo per qualche minuto, in una sola entità.
«Lui ha ucciso quelle guardie» aggiunse Alba. «Sono morte per colpa mia e, indirettamente, per colpa tua».
«Cosa sei venuta a fare?» domandai, scacciando il dolore della sua affermazione ed evitando di guardare gli occhi cremisi che appartenevano a Durza.
«Metterti nuovamente in guardia. Pochi giorni fa non hai prestato ascolto alle mie parole, ora ti prego di farlo. Lui ti ingannerà, non ha intenzione di mantenere il giuramento. Una volta che ti avrà lasciata libera farà in modo che tu venga catturata dal re in persona».
«Come sai delle promesse che mi ha fatto?» domandai sospettosa.
«L-lui.. Durza è.. Insomma a volte mi dice distrattamente qualcosa» balbettò.
Cominciai ad intuire qualcosa. «Siete in rapporti stretti dunque» dissi gelida. E mi parve incredibile di essermi un tempo fidata di una donna che era probabilmente l'amante del mio nemico.
«Io lo odio» disse lei con una voce terribile. «lo odio come odio il re. Forse sono una sua concubina, ma come potrei mai evitarlo? Sono solo la sua serva, ciò che lui desidera io devo farlo. Non è colpa mia!» E scoppiò di nuovo a piangere.
Ero abbastanza stanca ed imbarazzata per i suoi continui piagnistei, ma era umana, dovevo avere pazienza. Probabilmente non sapeva neppure lei cosa stava facendo e le pareva inconcepibile che il suo padrone avesse proposto a me un patto per salvarmi, mentre ai suoi occhi lui era solo un essere capace di malvagità.
«Va bene» accennai, sperando si calmasse, «farò attenzione».
Scosse la testa e i capelli rossi di Durza si agitarono nell'aria. «Non c'è speranza per te, o riesci a fuggire durante il viaggio -ma credo che lui ti troverà- oppure non ti resta che la morte».
Sempre più turbata, mi massaggiai le tempie. Non potevo fidarmi né di lei né di Durza.
Lo Spettro poteva avere veramente intenzione di liberarmi per poi farmi catturare da altri, magari era davvero fedele al re, nonostante lo negasse.
Alba era una povera umana sin troppo vittima delle proprie emozioni. Eppure mi aveva celato qualcosa e non mi era ancora chiaro chi poteva averla aiutata a prendere le sembianze di Durza e perché. Forse era più intelligente e furba di quanto lasciasse intendere, magari era stata lei stessa a trasfigurarsi, forse era in realtà una maga potente, anche se si comportava come un ragazzina disperata.
Mi ritrovai sotto al naso una fialetta di un liquido nero.
«Cos'è?» domandai.
«Veleno» fu la tremula risposta. «Se le cose dovessero andare molto male potrebbe servirti».
«Ti ringrazio» dissi, ma non lo pensavo veramente. Avevo appena ripreso in mano la mia vita, non volevo uccidermi, anche se pur di non finire in mano a Galbatorix lo avrei fatto.
«Addio» sussurrò Alba, «e buona fortuna».
Mi abbracciò. Sorvolando sul fatto che già di mio non amavo gli abbracci, essere abbracciata dal corpo di Durza fu piuttosto spiacevole. Picchiettai leggermente la mano sulla sua spalla, in imbarazzo.
Fui in qualche modo sollevata quando se ne andò dalla stanza. Dal modo in cui gli armigeri si affacciarono subito dopo capii che dovevano aver credo che fossi stata io a piangere in quel modo, visto che quello che loro avevano fatto entrare era il loro padrone e sicuramente non poteva essere stato lui. Mi scrutarono dallo spioncino con curiosità, ma alla fine tornarono ai loro posti.
Stappai la boccetta e annusai il suo contenuto. Fricai Andlat. Il gambo di quel fungo era un potentissimo veleno ad azione rapidissima. E paradossalmente l'unico antidoto possibile era la stesso cappello del fungo. Se avessi bevuto un solo sorso di quell'infuso, Durza non sarebbe nemmeno arrivato a capire cosa mi stesse succedendo prima di vedermi morta a terra.
Mi rifiutai di credere alle parole di Alba, avevo paura che mi avesse detto la verità. Tuttavia nascosi il flaconcino di veleno nel mio nuovissimo stivale sinistro, per precauzione.
            Non vedevo la luce esterna dalla mia cella, quindi quando sentii il suono dei passi di Durza non sapevo che ora del mattino potesse essere.
Potevo solo immaginare la perplessità dei suoi uomini nel vederlo tornare dopo poche ore.
Avevo deciso di non dirgli nulla di Alba, volevo tenermi aperta la possibilità di sembrare completamente sicura dell'affidabilità della parola dello Spettro, così da poterlo cogliere di sorpresa nel caso succedesse qualcosa.
«Dovremo lasciare la città prima che il sole sorga del tutto» mi informò. «I miei soldati non dovranno sapere nulla della tua partenza».
Con questo pretesto mi legò le mani e mi portò fuori dalla cella, in modo da sembrare una prigioniera in piena regola. Lo seguii nel suo palazzo, su per le scale e oltre il portone di quercia.
L'ultima volta che ero stata lì ero così sfinita da vedere solo nebbia intorno a me. Quella volta vidi invece una camera spaziosa, con un letto a baldacchino posto in un angolo, un paravento e una cassapanca appoggiati alla parete opposta al letto. Un grande camino troneggiava vicino a una libreria ricolma di libri e pergamene, affiancato da una poltrona imbottita. Esattamente di fronte alla porta si apriva una finestra di vero vetro, semi nascosta da pesanti tende nere. Il pavimento era coperto da un morbido tappeto rosso cupo, lo stesso che nascondeva le scale. L'ambiente era piacevolmente caldo e accogliente, nonostante fosse la camera da letto dello spettro, come intuii dal mantello di pelle di serpente appeso ad un gancio accanto alla cassapanca.
Ricordavo il giorno in cui Durza lo aveva indossato, quando Lord Barst mi aveva prelevata dalla mia cella per torturarmi.
Ebbi un sussulto quando, dalla porta che sapevo nascondere la stanza da bagno, uscì una copia esatta di me stessa, che rimasi a fissare ad occhi sgranati.
Quella "me" fece un inchino profondo in direzione di Durza mormorando un: «Mio signore».
Riconobbi subito la voce di Alba ed ebbi un inspiegabile brivido di gelo.
«Elfa, ti presento la te stessa che rimarrà qui a coprire la tua assenza, mentre saremo via» disse Durza.
Mi voltai bruscamente verso di lui e lo rimbrottai rabbiosamente. «Spettro è rischioso. Se la scoprissero la ucciderebbero».
Mi rivolse un sorriso di scherno. «Come sei pateticamente premurosa e altruista stamattina».
«Mi rifiuto di farla morire per me» ribattei.
«Non le succederà nulla, te lo posso garantire» fu l'asciutta risposta. «Ora devi cambiarti d'abito, non si è mai vista una donna girare in pantaloni per Alagaësia. Forza, sbrigati!»
Alba mi venne incontro porgendomi una sottoveste e un abito di stoffa marrone rossastra, non troppo grezza, ma non troppo raffinata, insomma quello che indosserebbe una mercantessa benestante ma non ricca.
Andai nel bagno a cambiarmi e anche qui la stanza mi apparve molto più ricca di dettagli di come l'avevo vista qualche giorno prima. Era piccola e angusta, con il pavimento in pietra fredda ma levigata.
La vasca di rame era fissata nel pavimento e sopra di essa erano appesi scaffali di legno che contenevano pezzi di sapone e bottiglie di vetro. Notai con curiosità che in un vaso di terracotta cresceva una piantina di menta, doveva essere quella che masticava Durza. Evitai accuratamente di guardare in direzione dello specchio.
Mi cambiai, ma decisi di tenere la fascia e le brache e tenni anche la fiala di veleno nerastro nello stivale.
L'idea di lasciare Alba a rischiare la vita per me non mi piaceva. Non mi fidavo di lei ma non volevo neppure che l'ennesima persona morisse per colpa mia. Alla fine risolsi il mio conflitto, capendo di rappresentare un pezzo ben più importante nella scacchiera di Alagaësia. Anche se innocente, Alba era più sacrificabile di me.
In seguito Durza modificò i miei lineamenti fino a farmi assumere quelli della ragazza, che a quel punto mi guardò con un'espressione che rasentava la disperazione. La disperazione comprensibile di chi viene lasciato indietro a rischiare per qualcuno che forse non lo merita.
Era la seconda maschera che indossava in quella giornata e vedere la disperazione sui
miei lineamenti fece uno strano effetto.
Quando finalmente ci avviammo alle stalle l'alba stava sorgendo. Durza mi lasciò qualche minuto in compagnia dei cavalli, senza dimenticare di incatenarmi un polso ad un anello appesa al muro, destinato probabilmente agli animali. Anche se avevamo stretto una sorta di patto, decisamente non c'era fiducia reciproca tra di noi.
Approfittai di quel momento per allentare la fascia, dato che il seno di Alba era più abbondante del mio e la stoffa mi stringeva in maniera insopportabile.
«Alba ha preso il tuo posto nella cella» mi annunciò lo Spettro, tornando con le bisacce da appendere alla sella del cavallo.
Sellò un animale forte dal mantello marrone scuro. Probabilmente il suo cavallo da guerra grigio, che nitriva lì accanto, era troppo appariscente per andare ovunque dovessimo andare.
«Perché tu capisca bene come stanno le cose, Elfa» disse poi con espressione burbera, «questo» e mi strinse la mano serrata nella morsa dell'anello di ametiste, «è un incantesimo che io solo posso rompere. Se morissi prima di avertelo sciolto avrai una bella gatta da pelare prima di recuperare i tuoi poteri, chiaro? E come se non bastasse» proseguì, prima che potessi rispondere, «questo mi farà stare più tranquillo».
E strinse una robusta e sottile catena al mio polso destro, lunga poco più di una iarda, che poi legò al suo.
«Credevo che la nostra fosse un'alleanza» obbiettai.
«Io lo definirei un compromesso, per ora».
«E chi mi garantisce che tu stia cercando di ingannarmi?»
«Dovrai fidarti di me per qualche tempo» rispose, tirando il cavallo per le briglie e conducendolo fuori dall'edificio, nel bel mezzo della piazza militare.
A quel punto dimenticai il battibecco con lo Spettro e anche ogni altro sospetto, perché vidi il sole affacciarsi sui tetti aguzzi delle case, luccicanti di neve che doveva essere caduta quella notte. Respirai l'aria ricca e fresca del mattino e mi riempii gli occhi dello spettacolo della luce che inondava il mondo. Quando Durza montò a cavallo le lacrime mi lambivano le ciglia e le nascosi avvicinandomi all'animale e issandomi alle spalle dello Spettro.
Hillr uscì dall'ala che conduceva al palazzo pochi istanti dopo, reggendo altre due bisacce a tracolla. Alla vista dell'uomo mi tesi automaticamente, sulla difensiva e sollevai il cappuccio del mantello sui capelli biondi di Alba.
«Ti auguro buon viaggio, mio signore» disse il siniscalco, porgendo al suo padrone una bisaccia dopo l'altra.
Una mi fu consegnata e la misi a tracolla sotto il mantello.
«Mi raccomando Hillr» aggiunse Durza, «lascio tutto in mano tua. Se il re manda messaggeri riferisci che sono impegnato in una missione per procurargli ciò che desidera. Non lasciare che nessuno si avvicini alla prigioniera, escluse le guardie e la cameriera che d'ora in poi si occuperà dei suoi pasti. Tu non fai eccezione alla regola» specificò. «Se quando torno troverò in lei un solo capello fuori posto, tu sarai il primo a morire male». E lo disse con una tale veemenza che cominciai a sospettare che Alba fosse in realtà una persona davvero importante per lui, nonostante fosse solo una sua serva, o almeno secondo quanto mi aveva detto lei.
Ricevute le dovute rassicurazioni dall'uomo, Durza strinse lievemente i talloni sui fianchi del cavallo, partendo a passo lento.
Mi voltai per guardare di sfuggita Hillr e mi avvidi che mi fissava. Quando i nostri occhi si incontrarono lui annuì e mi fece un cenno di saluto, con un'aria complice da congiurato.
Impiegai qualche istante per realizzare che quei gesti non erano per me, bensì per Alba. Che avevano intenzione di combinare quei due?
«Non parlare fino a che non saremo fuori Gil'ead» mi ordinò Durza.
Gli obbedii, in ogni caso in quell'istante non avrei avuto una gran voglia di parlare. Respiravo aria fresca come se dovessi morire annegata da un momento all'altro. Quando il portone della fortezza si aprì ed uscimmo dalle mura il mio cuore prese a battere impazzito e continuò a palpitare per tutto il tragitto fino alle mura più esterne della città.
Quando ero arrivata a Gil'ead era notte fonda, quindi non avevo visto con chiarezza il panorama intorno a me. Il territorio aspro era velato qua e là da qualche insistente chiazza di neve e qualche boschetto rinsecchito. Tutto quello spazio aperto.. mi sembrava non dovesse finire mai.
Mentre io e lo Spettro uscivamo dalle mura, un gruppetto di uomini vestiti di pellicce si avviava verso la città. Non riconobbero Durza, che aveva il mantello calato fino agli occhi e indossava abiti dimessi.
Guardandoli attentamente capii che doveva trattarsi di cacciatori che si recavano in città a vendere le loro pelli di prima mattina. Passammo accanto a loro e potei sentire il puzzo di cadavere e, quando guardai le pellicce che stavano trainando su una slitta, mi avvidi che erano di lupo.
Stavamo scendendo lungo l'altura su cui sorgeva Gil'ead quando il scintillio del lago Isentar, parzialmente incrostato di ghiaccio, mi abbagliò al punto da costringermi a voltarmi dall'altra parte e a perdere nuovamente lo sguardo nello spazio infinito che avevo davanti.
Ma non appena il cavallo si diresse verso sud, tutta la mia eccitazione svanì in un attimo.
«Durza dove mi stai portando?» gridai allarmata. Stavano cavalcando verso Uru'baen.
Si voltò verso di me ridacchiando. «Paura elfa?» E tornò a guardare la strada davanti a sé.
Mi agitai inquieta sulla sella, combattuta tra l'orgoglio e il bisogno disperato di sapere. Finii per stringere con forza il suo mantello e strattonarlo verso di me, senza dire nulla.
«Rilassati Principessa» fu il suo commento, «facciamo qualche lega verso sud e poi viriamo a ovest. Non voglio aiutare il re più di quanto non abbia già fatto, quindi è mia intenzione evitare la capitale, contenta?»
Abbastanza. Tornai a stringermi alla sua cintura per non essere sbalzata via dalla sella e tacqui, girandomi in continuazione per vedere Gil'ead diventare sempre più piccola e il mondo aprirsi come un'enorme teatro davanti a me. Non potevo fare a meno di pensare che casa mia era esattamente nella direzione opposta a quella in cui stavamo cavalcando e una parte di me sperava, illusa, che Durza volesse dirigersi a sud, sempre più a sud, dritto nelle braccia dei Varden, a consegnarsi e a offrire la propria alleanza.
Cavalcammo fino al primo pomeriggio, quando il sole pallido batteva ormai a picco sulle nostre teste.
Quando ci fermammo ottenni da Durza lo scioglimento momentaneo della catena che ci univa, giusto il tempo per esaudire i miei bisogni fisiologici. Non appena mi fui ricomposta mi chiesi se valesse la pena tentare di fuggire, ma mi dissi che non era il caso, ero ancora troppo debole e priva di poteri. Forse mi conveniva tentare di traviare lo Spettro e trascinarlo dalla mia parte, o anche solo aspettare il momento migliore e ucciderlo, o darmela a gambe.
Nonostante tutto tornai nella sua direzione, come un condannato si muove verso il patibolo.
Durza era seduto su una grossa pietra e stava frugando in una bisaccia, fino a che non ne trasse due pezzi di pane e strisce di carne secca. Rifiutai sdegnosamente la carne, presi il mio pane e mi appoggiai con la schiena ad un albero, in piedi.
«Per quanto hai intenzione di tenermi nascosta la meta del nostro viaggio, o uomo del mistero?» domandai non senza sarcasmo.
Non accolse la mia provocazione. «Andiamo a Dras-Leona» fu la risposta coincisa.
Aggrottai le sopracciglia. «A fare cosa spettro? Per cambiare il proprio vero nome non è necessario viaggiare così tanto, potevi benissimo farlo da Gil'ead».
«Non ti ho detto tutto» biascicò, con la bocca piena.
Tacqui, aspettando che finisse di parlare, ma pareva intenzionato ad aspettare che glielo domandassi, quindi accontentai il suo capriccio. «Allora spiegami.»
«Io voglio deporre Galbatorix, Elfa, ma non voglio perdere la mia occasione. Quando mi ribellerò a lui voglio avere nelle mie mani i mezzi per sconfiggerlo».
«Unisciti ai Varden!» lo interruppi precipitosamente. «Chi è contro il tuo nemico è tuo amico».
Fece un ghigno. «Oh ma anche i Varden sono dei nemici per me. Desidero la morte del loro capo più di quanto desideri quella del re».
«Che male ti ha mai fatto Ajihad, oltre ad umiliarti in un duello?»
Notai con piacere che la mia affermazione lo aveva infastidito. «Non era solo, Principessina, altrimenti non sarebbe vissuto abbastanza per raccontartelo. Nessuno può battermi in un duello, e sicuramente non un semplice umano» concluse, colmo di disprezzo.
«E pensi di trovarlo a Dras-Leona? Se sei sulle tracce di Ajihad per ucciderlo, Spettro, non avrai alcun aiuto da me, nemmeno se mi promettessi di restituirmi gli ultimi tre mesi di vita!»
«Sei sempre più noiosamente prevedibile» mi informò. «Comunque non sono queste le mie intenzioni». Mi guardò di sottecchi. «Voglio offrirti qualcosa in più della tua libertà, elfa, ma voglio i tuoi servigi».
«Arrivi tardi. La mia lealtà va al mio popolo, ai Varden e al drago che si cela nell'uovo di zaffiro, e a nessun altro».
Sbuffò. «Atrocemente prevedibile, piccola Elfa!»
Incrociai le braccia. «Si chiama coerenza».
«Si chiama testardaggine! Non chiuderti tutte le vie!» Ribatté rabbiosamente. «Se io potessi offrirti una possibilità di sconfiggere il re cosa faresti?»
«Stenterei a crederti» ammisi.
«Bene, allora dovrò convincerti!» E i suoi occhi fiammeggiarono, spazientiti.
«Prego».
«Spero di trovare aiuto a Dras-Leona. Il re ha un segreto, la fonte del suo sconfinato potere. Ho cercato per anni un modo per neutralizzare quel potere, senza risultato. Nemmeno l'incantesimo che ho fatto su di te ha funzionato». Ed accennò al mio indice sinistro. «Tuttavia, devo ammettere che quel trucco non è esattamente una mia invenzione.. Mi sono ispirato ad un incantesimo coniato dai sacerdoti dell'Helgrind».
Cominciai a capire dove volesse arrivare e mi venne la pelle d'oca. «Non vorrai..?»
«Loro potrebbero conoscere un modo per rendere inoffensivo quel potere. Sono l'unica setta che studia la magia nera e conserva memoria dei propri studi. Avranno un archivio e se lo consultassimo potremmo trovare qualcosa».
«Ma di quale potere stai parlando? E.. i sacerdoti? Non ti aiuterebbero mai, loro non hanno nulla da guadagnarci in tutto questo».
«La sconfitta del re sarebbe abbastanza per loro».
«Loro servono i Ra'zac, che servono il tiranno, quindi in modo indiretto sono suoi servi!»
«Non è ciò che vogliono!» Mi contraddisse di slancio. «Anni fa ebbi un affare con i sacerdoti dell'Helgrind. Dovevo avere un libro da loro, ma quando andai a Dras-Leona per fare lo scambio mi proposero un'alleanza contro il sovrano. I Ra'zac non sanno nulla di ciò che i loro adoratori stanno organizzando. I sacerdoti sono convinti che i loro dei siano troppo misericordiosi e non possano fare a meno di aiutare Galbatorix e che quindi egli sia un ostacolo alla loro gloria».
«E sicuramente penseranno lo stesso di te. Io non entrerò con te nella tua tomba, Spettro. Come hai detto tu praticano arti oscure da secoli, nemmeno il mio popolo sa fino a che punto si è spinta la loro depravazione».
«Magari hanno intenzione di servirsi di me fino a che il sovrano non sarà sconfitto, per poi uccidermi. Ma fino a quel momento io sono un alleato prezioso per loro e non getteranno via l'occasione, mi aiuteranno se possono. Non conoscono il segreto del potere del re e sarà facile ingannarli».
«Non mi hai ancora detto di che potere stai parlando» gli feci notare.
Sorrise con amarezza. «Perché non posso».
Ah. Pensai che se lo avessi aiutato a cambiare il suo vero nome sarebbe stato libero dai vincoli che lo legavano a Galbatorix, sempre che tutto ciò che mi aveva detto non fosse un'accozzaglia di menzogne.
«Voglio che tu mi aiuti a trovare ciò che mi occorre, a cambiare il mio vero nome e poi a sconfiggere il re. Non voglio nessuna interferenza da parte di elfi, nani, Varden, gatti mannari e così via. In questa alleanza ci siamo solo io, te e un'altra persona che ti presenterò una volta tornati a Gil'ead, una mia vecchia amica».
Lo guardai sprezzante. «Se credi che io..»
«Tu
devi accettare, Arya. Fa parte del tuo compito e anche dei tuoi desideri. Se c'è una possibilità, anche solo remota, che Galbatorix venga sconfitto senza ulteriori scontri e perdite è tuo dovere analizzarla attentamente, almeno».
Mi morsi le labbra. In parte aveva ragione, ma non mi fidavo totalmente di lui e del suo repentino cambiamento da carceriere a salvatore. E non desideravo affatto incontrare i Sacerdoti.
Ma la mia vita aveva smesso di appartenermi il giorno stesso in cui avevo giurato di salvare Alagaësia.
«Giurami che non stai mentendo. Giuramelo» pretesi.
«Lo giuro sulla mia testa» disse nell'antica lingua.
«E ora dimmi perché lo fai».
«Non voglio Galbatorix sopra di me piccola Elfa, io voglio essere un uomo libero».
«Ma vuoi anche la morte di Ajihad».
«Ti ho detto che i Varden non sono inclusi nel nostro accordo».
«E nemmeno il futuro di Alagaësia lo è» gli feci notare.
«Non credi» cominciò con una punta di sarcasmo, «che una volta sconfitto Galbatorix, semmai io dovessi diventare un problema vi sarà decisamente facile mettermi a tacere?»
Annuii. «Sì, sta bene».
«E ora tocca a te, Arya».
«Cosa?»
«Mi devi un giuramento».
«Io non devo..»
«Giurami che non mi tradirai» mi interruppe, guardandomi con aria di sfida.
Tentennai. Non tradirlo significava non consegnarlo ai miei alleati una volta finito tutto, ma nemmeno cercare vendetta per ciò che mi aveva fatto. Per me era un grosso sacrificio e le immagini di Glenwing e Fäolin morti mi balzarono ammonitrici alla mente. Tuttavia non potevo vivere per il passato e i morti, purtroppo, non hanno alcun potere sul futuro.
«Hai la mia parola d'onore» dissi, lentamente.
«Bene» disse Durza, alzandosi in piedi e porgendomi il braccio sinistro, per suggellare l'accordo secondo il costume degli uomini.
Glielo strinsi. «Bene» ripetei.
«Ora vediamo di metterci all'opera immediatamente» disse, prendendo in mano una ciocca dei miei capelli e ricordandomi all'improvviso che avevo ancora l'aspetto di Alba.
Poi le sue dita scivolarono sul mio polso e sentii la catenella tintinnare.
«Ma davvero, Durza?» lo provocai. «Finalmente stringiamo qualcosa di simile ad un'alleanza e tu mi vuoi incatenare?»
Assunse un'espressione sospettosa. «Quando hai ragione hai ragione» disse. E mi lasciò con palese reticenza.
Poi raccolse la sua bisaccia da terra, slegò il cavallo e ci montò sopra.
«Vuoi le redini, mia signora?» mi domandò con un ghigno.
«Preferisco guardarti la schiena, grazie». E mi issai dietro di lui.
«Ho sempre saputo di piacerti» fu la sua risposta irriverente.
Riprendemmo a cavalcare.
Qualunque cosa fosse successa da quel momento in poi sarebbe stata un'avventura incredibile, ne ero certa, come ero certa che nessuna ballata avrebbe mai dovuto raccontarla.

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Capitolo 15
*** Sotterfugi, insulti e orrende visioni ***


15. Sotterfugi, insulti e orrende visioni

[Hillr]
Hillr avrebbe voluto avvicinarsi alla prigioniera, avvelenarle il cibo, il bere, l'aria che respirava. L'importante era farla sparire da quella terra. Poteva addirittura inscenare un suicidio per lei.
Quando aveva saputo dal suo padrone che sarebbe partito di lì a poche ore aveva immediatamente deciso che sarebbe andato a cercare l'unica persona nel palazzo che lo avrebbe sostenuto nel suo tentativo di ammazzare l'elfa in sua assenza, ma fu troppo impegnato nei preparativi per riuscirvi.
Era stata Lei a confermare i suoi dubbi riguardo alla prigioniera e alla sua natura, Lei a istigarlo ad ucciderla, Lei a proporsi come sua alleata in quell'impresa.
L'occasione buona era venuta quando Durza lo spettro aveva lasciato Gil'ead, diretto alla capitale, circa due settimane prima, ma ad entrambi era mancato il coraggio necessario. Non che avessero pietà dell'elfa, affatto, ma temevano entrambi l'ira dello spettro e i molti e fantasiosi modi in cui avrebbe potuto ucciderli.
Così si erano limitati a fare dei piccoli sabotaggi. Noce vomica nel cibo della prigioniera, qualche allucinazione creata ad arte da Lei. Speravano con tutto il cuore che sarebbe morta senza che loro dovessero sporcarsi direttamente le mani, così non sarebbe stata colpa di nessuno.
Tuttavia il padrone aveva avuto fretta di tornare purtroppo. Se avesse tardato anche un solo giorno in più probabilmente l'elfa sarebbe schiattata.
E ora.. il comportamento di Lei si era fatto indecifrabile.
Questo pensava mentre, dopo aver salutato il suo signore e visto le porte della fortezza chiudersi alle sue spalle, si dirigeva verso le sue stanze, sentendo la chiave della cella dell'elfa bruciargli a cintura e tuttavia cercando di dominarsi.
Quando finalmente spinse la porta della sua camera trovò una donna seduta sul suo letto, che lo guardava sorridendo radiosa.
«Hai fatto molto presto» disse con voce morbida, spostando i capelli biondi su una spalla in modo sensuale.
Hillr era sbigottito. «Tu?»
«Sono io» confermò lei, facendogli cenno di entrare.
L'uomo si chiuse la porta alle spalle e avanzò fino a porsi di fronte a lei. «Che ci fai qui?»
«La donna che è partita poco fa con il tuo padrone era l'elfa» lo informò seccata. «Durza mi ha lasciata qui a coprire la loro assenza. Ho anche dovuto prendere le sue disgustose sembianze».
«Infatti hai ancora le orecchie appuntite, Alba» le fece notare.
«Già» disse lei toccandole, «le avevo scordate.» E le fece sparire borbottando qualche incantesimo.
Hillr si ritrasse impercettibilmente. Non gli piacevano gli incantesimi e le magie di quella donna, era una maga umana, non una sozzura elfica, ma era comunque un'abilità che lo innervosiva.
«Mi stavo chiedendo come mai non mi avessi riconosciuto stamattina, ma ora è chiaro. Non eri tu, era l'elfa». Fece una lunga pausa. «Il padrone non ha voluto dirmi dov'era diretto» disse poi.
«Nemmeno io lo so con certezza, amico mio, ma credo che entro un mese o poco più tornerà con la sua prigioniera».
«Perché l'ha portata con sé?»
La ragazza abbassò il capo. «Io credo che lei sia riuscita a sedurlo. Probabilmente il nostro signore starà viaggiando verso nord, dove vivono gli elfi, per stringere un patto con loro».
«No..» mormorò Hillr, e non fu capace di aggiungere nient'altro.
«Non disperare, possiamo ancora salvare lui e noi stessi!»
«Forse dovremmo inseguirli» propose l'uomo, colto da un'ansia che gli divorava lo stomaco. Quell'elfa avrebbe preso il controllo del suo signore e poi della città, e infine del mondo intero.
«Ci ucciderebbe senza pensarci due volte» lo contraddisse Alba. «No, dovremmo stare qui, aspettare che tornino e poi cogliere il momento giusto per liberarci di lei. Mi sono guadagnata parte della sua fiducia, lo sai, e anche se dubita di me ha nei miei confronti un debito di riconoscenza ed è una cosa che quelli della sua razza non possono assolutamente ignorare».
L'uomo annuì. «Sembra un buon piano».
«Ha un suo prezzo però» bisbigliò la donna, «dopo esserci liberati di quella feccia dovremo scappare, perché Durza non ce lo perdonerà mai».
«Io non voglio andare da nessuna parte!» ribatté Hillr. La sua vita gli piaceva, e ormai era troppo vecchio per viaggiare e trovare un'altra sistemazione. Tuttavia la faccenda dell'elfa era davvero seria..
«Purtroppo è l'unica soluzione, ma posso capire la tua paura» lo provocò.
«Ci sto!» scattò infatti, punto sul vivo.
«Bene» disse lei, «allora dovremo solo portare avanti questa farsa fino al loro ritorno». E già mentre parlava i capelli color dell'oro si macchiavano di inchiostro, il corpo si allungava e si appiattiva, i grandi occhi azzurri diventavano due taglienti fessure verde brillante e le orecchie si deformavano in una punta.
«Bene» disse lui, osservando con un velo di disgusto l'intero procedimento.

[Arya]
Fosse stato per me o per lo Spettro avremmo potuto continuare a cavalcare per tutta la notte, con tre ore scarse di riposo, ma il cavallo era stremato quando ci fermammo quella sera e io stessa capii che probabilmente avrei dormito anche quattro ore quella notte.
Stare all'aria aperta mi aveva stancata, oltre a farmi venire una fame da lupi, e inoltre non mi sentivo ancora completamente in forma, stavo riprendendo le mie energie lentamente.
Io e lo Spettro analizzammo il contenuto delle nostre bisacce, la mia piena di coperte, la sua di cibo, e ci dividemmo equamente le due cose. Non senza qualche commento malizioso e sfottente, Durza si prese tutte le scorte di carne, lasciandomi tutte le mele secche e buona parte del formaggio in cambio.
Mi imposi di non divorare tutto il cibo che avevo sotto al naso e mangiai un panino con le noci.
Già da pochi minuti dopo il tramonto del sole, l'aria aveva cominciato a rinfrescarsi e nel giro di mezz'ora divenne decisamente gelida.
Raccogliemmo della legna e lo Spettro le diede fuoco con un semplice “Brisingr” sussurrato. Una fitta di nostalgia mi scavò il petto. Avevo una voglia tremenda di pronunciare una parola di potere e vedere gli elementi della natura agire dietro il mio volere.
Mi domandai se non fosse un mio diritto chiedere a Durza la restituzione dei miei poteri, in seguito alla nostra alleanza, ma quando lo feci lo Spettro mi rispose con una risatina e un secco diniego.
«Sei già stata in missione tra gli uomini, non è vero?» mi chiese poi.
Annuii. «Da settant'anni anni faccio visita regolare ai Varden».
Tacque qualche istante. «Ma loro sanno già chi sei, non è vero?»
«Solo alcuni sanno che sono la figlia della regina, gli altri mi credono solo la custode della..»
«Non in quel senso» mi interruppe. «Sanno che sei un'elfa?»
«Certamente sì» risposi, avvolgendomi in una coperta.
Schioccò la lingua contro il palato. «Quindi non hai mai dovuto fingerti un'umana tra gli umani!»
«Sono perfettamente in grado» lo informai orgogliosamente, chiudendo la bisaccia e appoggiandola accanto a me.
Durza studiò i miei movimenti con attenzione. «Sei troppo veloce, Principessa» mi informò tra i denti. «Gli umani saranno anche stupidi ma certe cose le notano. Ecco anche adesso!»
«Anche adesso cosa?» Cominciavo ad averne abbastanza.
«Hai spostato la testa. Troppo veloce di nuovo».
«Devo solo fare attenzione, Durza, imparerò in fretta».
«Lo spero per entrambi, ma non basta rallentare i movimenti. Devi pensare di poter fare le cose alla metà esatta delle tue capacità. Non puoi udire una conversazione bisbigliata a distanza di cento piedi, e non puoi leggere un'insegna grande come la mia mano che si trova in fondo alla strada. Sono particolari che tu percepirai lo stesso, ovviamente, ma devi nascondere a quelli che ti circondano le tue capacità. E lo stesso vale per la tua intelligenza, piccola Elfa. Ora non credere che voglia farti un complimento, ma rispetto ad un'umana media di diciamo venti primavere..»
«Io non ho venti primavere Spettro, ne ho cento» ribattei piccata.
«.. Sicuramente hai molte più conoscenze» proseguì lui imperterrito, «anche di avvenimenti che hai visto e che per un umano devono essere accaduti ai tempi del suo bisnonno, quindi devi regolarti, anche per quanto riguarda opinioni o pensieri espressi ad alta voce. E poi devi toglierti quell'aria saggia e sofferente dagli occhi perché che tu riesca a renderla anche con gli occhi di Alba è un chiaro segno della tua sin troppo eccessiva serietà» concluse fissandomi corrucciato.
«Hai finito?»
«Potrei insultarti per ore e non stancarmi mai, Principessa».
«Mi fa piacere che tu abbia una così alta considerazione di me» dissi, ignorando la sua ultima battuta, «ma non sono stupida, saprò adeguarmi ai ritmi umani».
«E allora ti consiglio di cominciare ad abituartici sin da domattina, potrebbe risultarti più difficile di quanto sembri».
«D'accordo» concessi.
«E ora dovremmo pensare a te». Si alzò, girò intorno al fuoco e sedette accanto a me.
Con un incantesimo mi spogliò delle membra di Alba e fu bello tornare a vedere i miei capelli scuri e le mie mani callose.
«I capelli vanno bene, viso, orecchie e occhi per niente» borbottò Durza, scostandomi i capelli su una spalla. «In realtà potrei lasciarti l'aspetto di Alba».
«Preferirei di no».
«Perché mai? È molto bella». E mi guardò con aria di sfida.
«Il suo fisico mi risulta scomodo nei movimenti» lo informai.
«Ah capisco, non sei avvezza ad avere curve» disse sarcastico, accennando al mio petto. E in effetti la fascia era improvvisamente lenta.
«Non sono avvezza ad avere un corpo così molle» lo contraddissi con dignità.
«Sai Arya, ci sono uomini che apprezzerebbero comunque, anche se non..»
«NON è quello il problema» sibilai fulminandolo.
Rise, socchiudendo gli occhi vermigli. «Voi elfi siete uno spasso!»
Lo guardai impassibile mentre rideva del mio atteggiamento, ma la mia mente sostava su immagini confuse. La bocca sottile dello Spettro contro la mia, le sue labbra dischiuse, la sua lingua che mi accarezzava il palato. Io ricordavo tutto quello che era successo quella notte, anche se sembrava avvolto in una spessa nebbia, ma lui? Poteva ridere del mio corpo troppo asciutto, ma non gli era affatto dispiaciuto baciarmi. Avrei potuto provocarlo con un'affermazione simile, ma decisi di tenerla per me e stirai le labbra in un sorriso che doveva apparire quasi sadico.
Tanto che Durza recuperò un po' di serietà. «Va bene». E si pettinò i capelli tra le dita, riordinandoli. «Farò come vuoi tu».
Senza togliersi quel ghigno insopportabile dalla faccia si mise all'opera con l'antica lingua, plasmando i miei lineamenti.
Quindi tolse un pugnale lungo quanto il mio avambraccio dallo stivale e me lo porse per specchiarmi. Il mio viso, i miei occhi e le mie orecchie erano rotondi e le mie iridi di un verde più cupo e meno appariscente di quello a cui ero abituata, ma ero sempre io, tanto che mi sentivo abbastanza a mio agio con quelle sembianze.
«Il pugnale puoi tenerlo se mi prometti di non piantarmelo nel cuore stanotte» mi informò Durza e sorrise.
Una fila di denti piani fece mostra di sé quando ritirò le labbra. Guardandolo mi resi conto che i suoi occhi erano marrone scuro, i capelli sempre rossi, ma meno accesi e la pelle di un colore umano.
Quello era l'uomo che avevo visto davanti a me quando mi ero risvegliata, la notte dopo l'agguato.
«Allora lo vuoi tenere sì o no?»
Posai lo sguardo sul pugnale che stringevo tra le mani a quel punto tremanti. Lo riconobbi come quello che aveva premuto sulla mia gola quando avevamo incrociato la pattuglia di elfi di Osilon e che aveva usato per le torture poi.
Era una bella lama a filo doppio, arrotata da poco, con un'impugnatura semplice rivestita in cuoio. Uniche decorazioni, una figura tondeggiante in argento -simile ad una luna- in rilievo sul pomolo e una scritta che correva lungo la guardia.
Avvicinandola al fuoco constatai di non conoscere quelle rune.
«Quella è una lingua ormai dimenticata, Arya. La lama è di fattura nanica ma probabilmente è nata come dono o oggetto di scambio per un mercante delle tribù nomadi nere del deserto di Hadarac. Era una lama gemella». Ed estrasse un pugnale identico dall'altro stivale. «Le rune su quello che hai in mano stanno per “luna”, quelle su questo stanno per “sole”. Dunque? Vuoi il sole o la la luna?» chiese con un mezzo sorriso, contemplando assorto le due lame.
Mi strinsi nelle spalle. Mi stavo chiedendo come fosse venuto in possesso di quelle lame e allo stesso tempo ricordavo di aver sbirciato dentro ai suoi ricordi, una volta. Lui era un giovane che correva per un deserto, accompagnato da un uomo anziano. Forse era originario del deserto di Hadarac, forse aveva rubato quelle lame mentre era ancora umano, perché mi pareva impossibile che il ragazzo con gli abiti trasandati che avevo visto avesse il denaro sufficiente per comprarsi una lama nanica.
«Allora decido io» intervenne Durza, «tieni la luna: è bella, fredda e distante come te». E rinfoderò il pugnale con il sole in rilievo sul pomolo, per poi darmi il fodero di quello in mio possesso.
Feci una smorfia. «Spettro non so se la cosa ti diverta, ma potresti smettere di provocarmi?»
«La cosa mi diverte troppo per poter smettere, Elfa, mi spiace».
Decisi di ignorarlo e mi stesi su un fianco, con l'intento di riposarmi, ma non potei rilassarmi finché lo Spettro rimaneva, sveglio e vigile, al mio fianco.
Poi lo udii mentre legava e scaricava il cavallo, stendeva le coperte e si coricava. Prima di addormentarsi creò un cerchio protettivo intorno a noi. Socchiudendo gli occhi notai che era invisibile e che quindi doveva essere prettamente difensivo, non come quello nerastro che aveva eretto dopo la mia cattura.
«Dormi bene, Arya» disse.
Non risposi e nemmeno sprofondai nel riposo. La mia mente era affollata di pensieri scomodi. È quando il corpo raggiunge l'immobilità che la testa comincia ad agire anche per esso.
Motivo per cui giacqui ad occhi spalancati per lungo tempo, ascoltando il mio respiro e quello di Durza dall'altro lato del fuoco.
Quando alla fine riuscii a rilassarmi a sufficienza per cadere nello stato di semi-incoscienza tipico della mia specie, una visione mi risucchiò con una tale potenza che mi fu impossibile sfuggirle o anche solo svegliarmi.
Inizialmente mi parvero una serie di ricordi legati a Fäolin: ricordai la sensazione che avevo provato quando mi aveva baciata, quando mi aveva fatto dono della campanula da lui creata, quando avevo capito di provare qualcosa di più della semplice amicizia per lui, quando lo avevo visto morire sotto i miei occhi.
Poi mi apparve un'immagine di Fäolin che mi guardava deluso e addolorato, intimandomi di badare a me stessa e di non allontanarmi troppo dal sentiero.
Poi mi porgeva lo stesso pugnale che stavo stringendo a me nel sonno, Luna.
«Uccidilo» sibilò.
E sapevo benissimo di chi stesse parlando.

Se anche avessi voluto farlo a quel punto non mi sarebbe più stato possibile, perché quando riuscii a tornare totalmente cosciente lo Spettro era all'erta, allarmato, e mi guardava con i suoi soliti occhi di fuoco.
Distolsi lo sguardo, mi toccai le guance bagnate di lacrime e regolarizzai il respiro. Per il resto della notte ebbi paura a lasciarmi andare troppo nei sogni, pena la prigionia nella visione di Fäolin.
Durza non si mosse, non chiese nulla e fece anche finta di dormire fino a che non si addormentò del tutto. Gliene fui grata.

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Capitolo 16
*** Giornate di pace e pomeriggi di sangue ***


16. Giornate di pace e pomeriggi di sangue

Il mattino seguente il freddo pungeva quasi dolorosamente sotto i vestiti e qualche fiocco di neve volteggiava nell'aria.
Mentre lo Spettro cancellava le tracce del falò che avevamo acceso analizzai i miei capelli e decisi di accorciarli all'altezza del seno con il pugnale. Poi, siccome mi infastidivano, li legai in una treccia.
«Se hai finito di farti bella potremmo partire, piccola Elfa» mi urlò Durza, già in sella al cavallo.
«Arrivo!» esclamai. Poi colta da un istante di paranoia, scavai una buca nel terreno ghiacciato e vi sotterrai le ciocche amputate.
Dopo qualche ora di viaggio la strada si accostò al fiume Ramr. Ne approfittammo per fare una breve sosta per mangiare e riempire le borracce, quindi ripartimmo.
Ma già nel primo pomeriggio il cavallo cominciò a sbuffare, stanco.
«Non faremmo prima a piedi?» domandai allo Spettro.
«Correndo dici? Indubbiamente sì, in quattro, massimo cinque giorni saremmo a Dras-Leona. Ma ho pensato di tenere il cavallo almeno fino a Taurida».
«E perché?»
«Perché non saresti in grado di coprire una simile distanza nelle tue condizioni».
«Durza non sono incinta» mi sentii il dovere di specificare, un po' ferita nell'orgoglio.
Vidi la sua schiena scuotersi in una risata. «Mi fa piacere! Quindi non sarà un problema farti correre da Taurida a Dras-Leona non è vero?»
«No di certo».
Tuttavia la mia sicurezza era un po' fuori luogo e me ne resi conto quella sera stessa, quando, una volta accampati per la notte, decisi di provare qualche posizione di Rimgar, giusto per sciogliere i muscoli indolenziti dalla cavalcata.
Non mi ero resa conto di quanto il mio corpo si fosse irrigidito in quegli ultimi mesi. Persino il più semplice esercizio -cioè da in piedi toccare a terra con i palmi delle mani- mi risultò più fastidioso del solito, e i muscoli delle mie gambe urlarono pietà quando provai a tirare il piede sopra la testa.
«Stai tentando il suicidio?» mi chiese Durza con un'espressione incuriosita.
«Di riprendere la mia elasticità a dire il vero» borbottai, scapolando a fatica con le braccia.
«Sembra doloroso».
«Sono solo fuori allenamento».
«E di cosa si tratta?»
«Rimgar, noi la chiamiamo la danza del Serpente e della Gru. Consiste in una serie di posizioni e movimenti mirati a mettere in azione e a scaldare ogni singolo muscolo corporeo, così da reagire più prontamente in battaglia ed evitare errori sciocchi come un crampo ad un polpaccio».
«E se volessi provare?» domandò alzandosi in piedi.
Lo guardai con sufficienza. «Non è così facile, se non l'hai mai fatto in vita tua cominciare adesso sarà faticoso».
Sollevò un sopracciglio. «Tu non ci perdi niente Principessa, al massimo ti farai due risate».
La sua affermazione si rivelò veritiera, come anche la mia.
Durza faticava parecchio anche negli esercizi di allungamento muscolare più semplici, e vederlo in difficoltà era veramente divertente. Era quasi gratificante aver trovato un ambito in cui riuscivo molto meglio di lui, anche se fuori forma.
Anche se per quanto riguarda gli esercizi di forza era ovviamente molto capace.
Un paio di ore dopo lo Spettro si gettò a terra, con la fronte velata di sudore. Aveva da tempo rinunciato al mantello -che ora giaceva sotto la sua schiena- e le maniche della sua camicia e della sua casacca erano arrotolate fino ai gomiti. Notai in quel momento che non c'era traccia delle ferite procurategli da Galbatorix.
Lanciò un'imprecazione. «Mi sento molle come un fico troppo maturo» mi informò.
Mi concessi un sorriso per il paragone. «Ti avevo avvisato». E mi sedetti a mia volta, perché, anche se non volevo ammetterlo, anche io mi ero piuttosto stancata.
«Prima di arrivare a Taurida, quindi entro i prossimi due giorni, vorrei che facessimo un bel duello, Elfa. Potrebbe essere interessante».
«Non ho la mia spada» osservai.
Si mise a sedere e fece un cenno in direzione delle bisacce che giacevano accanto al cavallo. «In un involto di cuoio c'è la mia spada, e anche la tua».
«E pensavi di restituirmela prima o poi?»
«Siamo due semplici mercanti, non dei mercenari. Le spade sono comprensibili, perché servirebbero per proteggere la mercanzia o noi stessi da eventuali attacchi, ma destano anche sospetti e preoccupazioni. Fidati di me, meno persone le vedono meglio è, anche perché la mia spada è abbastanza conosciuta in Alagaësia».
Esitai. «A questo punto ho un dubbio: dov'è la nostra merce?»
Durza sollevò un dito ammonitore. «Non aggrottare la fronte davanti a me». E ridacchiò. «Ti rispondo se prometti di non uccidermi».
Accarezzai dolcemente la fodera del pugnale. «Forse».
Lo Spettro tese una mano e, con un sospiro di rassegnazione, gli consegnai l'arma. Ma in realtà ero divertita.
«Stiamo andando a Dras-Leona per cercare una casa, veniamo da Teirm e vogliamo trasferirci per aprire una nuova attività. Siamo mercanti di stoffe».
Mi strinsi nelle spalle.
E allora?
«Siamo troppo diversi per poterci spacciare per fratello e sorella» mi guardò allusivo, «quindi dovremo fingerci marito e moglie».
Mi lasciai sfuggire una smorfia. Non mi piaceva l'idea, ma in fondo avevo passato di molto, molto peggio.
«Non è un enorme problema per me Spettro, la cosa non mi tocca».
Mi riconsegnò il pugnale tendendomelo dall'impugnatura. «Pensavo al peggio».
Chiesi a Durza di vedere la mia spada e mi accontentò. Vedere nuovamente la mia lama, sentire il suo peso perfetto tra le mie mani.. Mi sentii di nuovo forte e pronta a fare qualsiasi cosa.
Più tardi mi abbandonai al riposo serenamente, ma non durò a lungo. La visione di Fäolin mi catturò nuovamente con la potenza di un magnete e di nuovo riaprii gli occhi con la sensazione di stare per vomitare, tremando dalla testa ai piedi nonostante il calore del fuoco sulla mia schiena e le coperte intorno al mio corpo.

In tarda mattinata del quarto giorno di viaggio giungemmo finalmente in vista di Taurida. Essendo l'ambiente pianeggiante, fu abbastanza facile individuare la città anche quando era ancora a ore di distanza. Mentre ci avvicinavamo con calma, accanto a noi, sul filo dell'acqua, passarono leggere un paio di chiatte fluviali cariche di merci.
«Mercanti di pelli» mi informò lo Spettro. «Vengono dal nord per vendere i loro prodotti, del resto questo è un momento propizio, anche se la navigazione fluviale è abbastanza pericolosa in questa stagione, a causa del ghiaccio».
Durza si era parecchio divertito negli ultimi giorni ad impartirmi continue lezioni su usi e costumi degli umani. Avevo già molte nozioni in merito, ma feci altre interessanti scoperte, come per esempio il fatto che nelle città caotiche e fitte -come Dras-Leona- fosse abitudine comune gettare gli escrementi per strada dalle finestre, con l'alto rischio di colpire i passanti. L'idea era piuttosto nauseante.
Un'altra attività alla quale io e lo Spettro ci eravamo ampiamente dedicati era la scherma. Ci eravamo sfidati in continui e sfiancanti duelli, nei quali lui usciva sempre vincitore, anche grazie alla mia momentanea debolezza. Non avevo dimenticato nulla di ciò che avevo imparato in decenni di allenamento e la cosa mi incoraggiò. Ebbi anche l'occasione di fare una sfida alla pari con la sinistra perché -come scoprii- sia io che Durza eravamo mancini, tuttavia dovevo ammettere che l'abilità dello Spettro rimaneva superiore alla mia.
A causa delle lunghe pause di cui aveva bisogno il nostro povero cavallino, trovammo anche il tempo di discutere qualche piano per parlamentare con i Sacerdoti o infiltrarci nei loro locali nel caso ci fosse preclusa un'udienza o le nostre richieste venissero rifiutate. Non venni a sapere nulla di più sul misterioso potere che il re nascondeva al mondo, ma tendevo a fidarmi della parola di Durza perché sembrava spiegare molto bene il perché nessuno fosse ancora riuscito a spodestarlo nonostante i molti tentativi.
Quel nostro incedere lento era frustrante. Non avevo più la presunzione di definirmi completamente guarita, tuttavia ero convinta che, correndo, saremmo già stati a buon punto della strada.
            Quando varcammo le malconce mura della città era mezzogiorno passato. Le guardie ci intimarono di scendere da cavallo e di proseguire a piedi ma non ci degnarono di una seconda occhiata, probabilmente in quel posto non succedeva mai nulla degno di nota.
«Per prima cosa una locanda!» esclamò lo Spettro allegramente, tirando l'animale per le redini.
Non fui troppo contagiata dalla sua allegria, ero stanca, e nelle ultime notti avevo parecchio faticato a dormire per colpa delle strane visioni che mi assillavano e non parevano intenzionate a diminuire.
Vagammo per qualche minuto, poi di fronte ad un’insegna che recitava “Il Muschio Verde” lo Spettro si fermò.
«Direi che può andare».
«Spero che il nome sia solo poesia» osservai.
Durza mi lasciò le redini e si diresse con decisione verso il bancone. La sala era semivuota, qualcuno era seduto ai tavoli e consumava un pranzo veloce, ma nessuno ci gettò più di una rapida occhiata.
«Salve» disse una donna rugosa con fare spiccio.
Intravidi alle sue spalle un uomo, che doveva essere il marito, affaccendarsi intorno al fuoco e ad un pentolone di stufato.
Lo Spettro parlò qualche istante con la donna, con un sorriso cortese, accennando anche nella mia direzione.
Io mi scostai leggermente dalla soglia per non chiudere l'ingresso e mi guardai intorno, accarezzando il cavallo, che sbuffò. Ero in una città umana in compagnia di uno Spettro e cominciavo a temere i risvolti di quel mio viaggio.
Durza arrivò giusto in tempo a salvarmi dai miei pensieri cupi.
«La signora ha una stanza per noi» disse, avvicinandosi a me.
Ebbi appena il tempo di vedere la signora in questione affacciarsi sulla soglia per chiamare lo stalliere, che Durza si chinò a baciarmi sulle labbra. Fu un attimo, e dovetti anche dissimulare il mio turbamento dato che secondo la farsa che avevamo organizzato eravamo una coppia sposata. Mi limitai a scostare gli occhi dai suoi e guardare un punto indefinito alle sue spalle.
«Mio figlio si prenderà cura del vostro cavallo» borbottò la donna. «Ora vi faccio vedere dove sono le brande per dormire e poi dovete pagarmi perché se domattina fate i furbetti e scappate prima dell'alba io ci perdo dei soldi».
«Certamente» fu la serena risposta dello Spettro.
La “stanza” per noi si rivelò essere una stanza comune, con il pavimento tappezzato di pagliericci. A quell'ora del giorno c'era solo un uomo addormentato in un angolo, ma sicuramente quella sera non saremmo stati soli. La locandiera ci indicò un pagliericcio, grande lo stretto indispensabile per stendersi in due e poi tese la mano, agitandola impaziente. Durza la pagò, la ringraziò e disse che sarebbe tornato a prendere il cavallo un'oretta dopo.
«Com'è che vi chiamate voi due? Devo scriverlo sul registro, sapete com'è.. il nuovo catasto».
«Io sono Bitr e lui è Natt» risposi io prontamente, per dimostrare che avevo la lingua, almeno.
La donna annuì e se ne andò sbuffando e imprecando contro le nuove tasse del re, che la costringevano a versare una quota supplementare per ogni cliente alloggiato alla sua locanda.
Sia io che Durza sapevamo bene a cosa servisse tutto quel denaro: vettovaglie e armamenti per un imminente e probabile nuovo scontro contro i Varden e l'Impero. Ci scambiammo un'occhiata significativa e ci avvicinammo al nostro pagliericcio.
«Non mi svegliare prima della fine di questo ciclo lunare» borbottò, gettandosi su di esso.
Anche io ero piuttosto esausta. «Fammi spazio».
«Lo farei se ce ne fosse» sorrise lui con gli occhi chiusi, intrecciando le mani dietro la nuca.
In effetti il materasso era a largo a malapena per due bambini e in alcuni punti la stoffa era lacera e lasciava intravedere l’imbottitura di paglia.
«Sarebbe stato meglio avere una stanza solo per noi, con una porta da chiudere» borbottai, «quella ha guardato il tuo sacchetto di monete come un corvo guarda un cadavere».
Durza sollevò un angolo della bocca ed un sopracciglio. «Vuoi restare sola con me, Bitr?»
«No» lo freddai, «voglio stare su quel pagliericcio senza di te, ma dato che siamo due, dovremo stringerci».
A quel punto aprì gli occhi e mi guardò con curiosità. «E non ti scandalizza l’idea di dormire con un uomo con il quale non sei sposata da almeno due secoli?»
«Molto divertente e maturo».
«Sei tu che fai passare queste idee».
Lo scostai leggermente di lato con un piede e mi distesi in senso opposto al suo, badando bene di stargli lontana. Lo Spettro rinunciò a scherzare e parve appisolarsi, io sciolsi le membra e mi godetti la morbidezza del pagliericcio, sapendo bene che la nuda terra avrebbe ospitato il mio riposo per altri giorni ancora.
Non era ancora passata un'ora quando Durza parve riscuotersi all'improvviso e si alzò di scatto.
«Vado a cercare un'acquirente per il cavallo, tu aspettami qui, dovrei tornare presto» disse infilandosi gli stivali.
«Ti accompagno» risposi e feci per alzarmi.
«No tu aspetta qui!»
«Come? Vuoi lasciarmi in una locanda?»
Indossò il mantello. «Arya» bisbigliò, «ci metterò pochissimo, davvero. Tu aspetta qui, prenditi qualcosa da mangiare e riposati, da stanotte dovremo cominciare a correre».
Oltrepassò la porta, ma poi si riaffacciò all'improvviso. «Ah e.. bada anche ai nostri bagagli» aggiunse, per poi sparire definitivamente oltre la soglia.
Con uno sbuffo seccato mi lasciai cadere sul letto e chiusi gli occhi.
Tanto valeva dargli ascolto e aspettarlo lì.

[Durza]
Già mentre abbandonava la stanza e scendeva le scale sentiva un forte mal di testa martellargli le tempie. Il buonumore che lo aveva accompagnato dal mattino andava scemando mentre si avvicinava alle stalle per recuperare Mor, il cavallo.
Forse una ragione c'era: ora che si avvicinava il momento di incontrare il suo uomo sentiva salire un po' di tensione.
Aveva mentito quando aveva detto ad Arya di voler arrivare fino a Taurida a cavallo solo per lasciarla riposare. Semplicemente aveva un appuntamento con la sua spia nelle ore tarde del pomeriggio di quella specifica giornata, ed era un appuntamento che non poteva mancare. Senza contare che non avrebbe retto un'altra giornata a Gil'ead, sommerso dalle pressioni.
Tirandolo dolcemente per le redini, condusse Mor via dalla locanda, concedendogli qualche carezza rassicurante quando l'animale parve irritato dai rumori della città.
Non conosceva troppo bene Taurida, c'era stato in poche occasioni. Aveva ben chiara solo la posizione delle caserme, lungo le mura cittadine, del palazzo del governatore al centro della città e un paio di vicoli malfamati dove anche Durza lo Spettro sarebbe passato inosservato, senza dover ricorrere a mutamenti o a stupidi falsi nomi quali Natt.
Quel nome aveva un suono ridicolo, lo aveva scelto l'Elfa per lui quindi gli aveva probabilmente affibbiato quell'appellativo per vendicarsi.
Ma in fondo avevano stretto un'alleanza e, salvo brutti ricordi dei mesi precedenti, non c'era motivo per lei di avercela con lui. O almeno non ce ne sarebbe stato fino a che non avesse messo in atto il piano che aveva studiato e che sarebbe partito dopo la morte di Galbatorix.
Arya era la sua rivale naturale.
In qualche oscura maniera gli era piaciuto torturarla, farla oscillare sul filo della pazzia e della morte e poi trarla in salvo all'ultimo istante. Forse in quel momento non aveva alcun interesse a farle del male, anzi, era divertente provocarla e avrebbe volentieri baciato altre mille volte la sua bocca imbronciata, ma era destino che arrivassero allo scontro e le schermaglie verbali e i duelli con le spade non erano che un piccolo assaggio. E se da un lato temeva quel momento e il suo avvicinamento, dall'altro non vedeva l'ora.
Gli spiriti, ridotti a sussurri nella sua mente, avevano sete del sangue della principessa elfica e non gli avrebbero dato pace fino a che non l'avesse uccisa. A dire il vero non gli avrebbero mai dato pace e basta perché, anche in quel momento, le pulsazioni alla testa si fecero più forti e sentì un forza interiore comandargli di prendere vite, maciullare ossa e assaggiare sangue.
Durza resistette a quella tentazione come si resiste al desiderio di grattarsi un punto del viso che prude, con fatica e con la sensazione che se lo avesse assecondato non sarebbe successo nulla di male. Ogni persona che accidentalmente lo urtava diventava una plausibile vittima e tuttavia ignorò ancora quell'istinto.
Lo Spettro non impiegò più di mezz'oretta a raggiungere il luogo prestabilito. Si trattava di un vicoletto stretto e puzzolente, quasi totalmente deserto. Subì qualche occhiata fin troppo incuriosita da parte di uomini sinistri riuniti in piccoli gruppi, ma il lungo pugnale faceva bella mostra di sé, senza fodero, alla sua cintura, e la sua mano inquieta poggiata sul pomolo insieme alla sua corporatura robusta erano una garanzia sufficiente per tenere lontano interlocutori indesiderati.
Bussò ad una porta male in arnese. Due colpi lenti, tre rapidi e un breve tamburellare con le nocche.
La porta si aprì di una fessura, poi si spalancò del tutto e Durza entrò trascinando con sé Mor.
Anche il povero animale portava il fardello di un nome orribile, ma la colpa era tutta di Hillr, essendo quello il suo cavallo.
«Tu sei l'uomo che devo incontrare?» chiese l'ometto dagli occhi sfuggenti che lo aveva fatto entrare.
«Sì».
«Io sono Praell».
«Non ritengo necessario che tu sappia il mio nome» rispose Durza glaciale, lasciandogli le redini di Mor in mano e dirigendosi verso un tavolo di legno attorniato da grezzi sgabelli treppiede, dove si accomodò. Le spie che ingaggiava non conoscevano mai il mandante e lui le incontrava sempre sotto false spoglie, così le trame di Durza, governatore di Gil'ead, rimanevano segrete.
«Posso almeno sapere per chi stiamo lavorando?» chiese l'uomo a quel punto, raggiungendolo.
Lo Spettro posò sul tavolo un corposo sacchetto di monete. «Se ti basta come risposta ti prego di riferirmi in fretta tutte le informazioni che hai».
Praell raccolse il sacchetto, lo soppesò, e poi annuì. «Ho un amico a Therinsford che circa una settimana fa era in visita da un parente a Carvahall, il paese che mi è stato chiesto di tenere d'occhio. Ha raccontato cose incredibili, a quanto pare ci sono state strane visite in paese: due uomini in nero puzzolenti, che se ne andavano in giro a fare domande su una pietra blu. Il macellaio, un certo Sloan, ha detto di averla vista tra le mani di un ragazzino e quanto pare deve averlo detto anche con quei tali perché la casa dello zio del ragazzo è stata trovata rasa al suolo, con il vecchio intrappolato sotto».
«E il ragazzo?» domandò Durza, senza riuscire a trattenere un fremito di eccitazione.
«Il ragazzo ha portato lo zio moribondo fino al villaggio, ma anche lui era ferito. Ferite strane e profonde mi hanno detto, tra le cosce, come una verginella che ha cavalcato delle rocce». E scoppiò a ridere per la sua battuta.
Ma lo Spettro non lo sentiva più. Ci sono pochi animali che puoi cavalcare senza sella ferendoti le gambe a sangue, e uno di quelli era un drago.
Chiuse gli occhi. L'uovo di zaffiro aveva trovato il suo cavaliere, il primo da cento anni. Era una notizia sensazionale, notizia di cui il re doveva essere ormai al corrente se i suoi messi avevano fatto il loro dovere, volando dritti a Uru'baen.
«Che ne è stato degli uomini in nero?» domandò, interrompendo lo scoppio di ilarità del suo informatore.
«Spariti» fu la risposta laconica. «Nessuno sa dove e nessuno gli è andato dietro. Insomma hanno tirato giù una fattoria! Si vede che qualche trucco magico lo conoscevano».
Bene. Poteva significare solo una cosa: il nuovo cavaliere era ancora libero da qualunque vincolo di fedeltà e se fosse riuscito a trovarlo per primo, avrebbe potuto assicurarsela lui stesso. Poi però si ricordò di Brom. Se il vecchio cavaliere si fosse preso la bega di guidare e addestrare il nuovo venuto le possibilità si riducevano.
Doveva mandare qualche manipolo di Urgali nelle città vicine, per intercettare il loro passaggio. Se era con Brom, il cavaliere si sarebbe diretto immediatamente a sud, tra le braccia dei Varden; era improbabile che cercassero rifugio tra gli elfi dato che i rapporti tra le due forze si erano raffreddati.
«Il nome?»
«Come?» domandò Praell confuso.
«Il nome del ragazzo!» rispose iroso. «Lo hai saputo?»
L'uomo annuì. «Un certo Eragon.»
Eragon! Il primo cavaliere! Non poteva esserci nome migliore per il primo esponente della nuova stirpe.
«Come hai avuto le notizie così in fretta?»
«Corvi» fu la pronta risposta.
«Quindi dei corvi giravano per Alagaësia con delle informazioni simili appese alle loro zampette?» il tono dello Spettro si fece irato e sentì la sete degli spiriti risvegliarsi e i denti farsi appuntiti.
«No, non sono mica scemo!» fu la baldanzosa risposta di Praell. «Le mie spie usano un codice, guarda». E si frugò in tasca, tirandone fuori una piccola pergamena ricoperta di segni indecifrabili.
«Bene» rispose Durza secco, ma la sete non passava.
«Mi hai preso per un pivello?» riprese l'uomo, sprezzante. «Dovresti dire al tuo capo di pagarmi di più invece, guarda che il compenso che mi hai dato oggi lo devo dividere con il tizio che da Therinsford mi ha procurato le indiscrezioni. Non me ne frega un accidente se vuole fare il misterioso, ma io sono un professionista e non è la prima volta che chiede i miei servigi e ha da me tutto ciò che desidera. Potrebbe essermi un po' grato almeno, no? Invece manda te che stai qua a trattarmi come uno stalliere e..»
Ma non terminò mai la sua sfuriata. Lo Spettro gli saltò alla gola, con la rapidità e le movenze di un felino, conficcando i denti appuntiti della carne tenera e squarciandola. Vide l'espressione atterrita e terrorizzata dell'uomo mentre la luce lasciava i suoi occhi e cercava invano di gridare, con le corde vocali distrutte.
Poi fu il turno del pugnale, che si conficcò infinite volte nella sua carne schizzando di sangue il viso, i capelli e il busto di Durza. Tuttavia non si fermò fino a che non sentì le voci eccitate dei suoi spiriti scemare lentamente.
Sotto di lui il corpo di Praell giaceva immobile e scomposto, interamente ricoperto di sangue e di raccapriccianti e profonde ferite.
Senza scomporsi, lo Spettro si alzò e diede uno strattone al pugnale, per scrollarlo del sangue e poi lo ripulì con un incantesimo. Lo stesso fece con la pelle del viso, i capelli, il mantello, la casacca, i pantaloni e anche gli stivali.
Tornò poi al tavolo e recuperò il sacchetto di monete, bruciò la pergamena in codice e se ne andò, chiudendosi la porta alle spalle e tirando con sé Mor, agitato dell'odore del sangue.
Durza soppesò la situazione. Ogni tanto gli capitava di perdere il controllo sulla parte più bestiale che i suoi ospiti risvegliavano e del resto era da parecchio che non uccideva. Se andava tutto bene nessuno avrebbe trovato il corpo fino all'indomani mattina e nessuno avrebbe potuto fornire una sua descrizione perché aveva girato per il vicolo con il volto coperto. Senza contare che in quella zona della città l'omicidio doveva essere l'ordine del giorno.
Si premurò di andare a vendere il cavallo nella parte opposta della città, ad un compratore diretto proprio a Gil'ead. Mor parve quasi contento di passare ad altre mani e lo Spettro non lo biasimò.
A quel punto il sole era calato da un pezzo e il freddo si era intensificato. Durza si incamminò verso
Il muschio verde dove Arya lo stava aspettando ormai da ore.
Avrebbe fatto domande, e molte anche, e lui avrebbe mentito, come al solito.
Non voleva che l'elfa sapesse troppo di quello che stava macchinando, per lei stavano andando a Dras-Leona e basta.
Si fermò a comprare due zaini e una volta tornato alla locanda pagò la vecchia affinché li riempisse di provviste. La donna non si risparmiò di rimproverarlo, informandolo che se avesse tardato qualche minuto in più lo avrebbe chiuso fuori dal portone. Durza si impose di ignorarla e quando finalmente lo lasciò andare si incamminò per le scale lentamente, all'improvviso turbato all'idea di rivedere l'elfa, come se guardandolo avesse potuto scoprire in un attimo i suoi segreti e rimproverarlo per ciò che aveva fatto quel pomeriggio.
Trovò la stanza più affollata, con il camino acceso e un lieve brusio di sottofondo, anche se la maggior parte dei presenti dormiva.
Lei era seduta a gambe incrociate sul pagliericcio a loro assegnato e lo guardava con espressione rabbiosa e altezzosa insieme. Lineamenti umani o no, per lui rimaneva bellissima e indomita.
Come si poteva pensare di mentire ad una donna del genere?

[Arya]
Feci come mi aveva detto Durza: mangiai qualcosa di caldo, mi distesi sul pagliericcio a riposare e lo aspettai.
Lo aspettai per un'ora, poi due, poi tre.
Ormai non ero più sola nella stanza, ma feci finta di dormire a lungo, stringendo a me le bisacce affinché nessuno provasse a sottrarmele.
Quando finalmente sentii la voce dello Spettro al piano di sotto mi tirai a sedere di scatto, furiosa. Mi aveva lasciata lì per delle ore, per andare a fare chissà cosa e sicuramente non se la sarebbe cavato propinandomi due scuse da quattro soldi.
Ma l'uomo che aprì la porta del dormitorio pareva quasi spaventato e fissò i miei occhi con riluttanza.
«Dove sei stato?» sibilai non appena mi si parò di fronte. «Mi sono..» mi bloccai appena in tempo. Stavo davvero per dire che mi ero preoccupata?
Durza sedette accanto a me e sorrise titubante. «Ti sei cosa?»
«Annoiata a morte!»
«Mi sembrava di averti detto di riposare».
«L'ho fatto! Ma tu mi avevi detto che saresti tornato in un attimo e invece sei stato fuori per delle ore!»
«Mi dispiace, la contrattazione è stata più lunga del previsto». Abbassò la voce ad un sussurro mano a mano che i clienti della locanda si appisolavano.
Finsi di credergli e gli presi dalle mani gli zaini. «Quando vuoi partire?» mormorai.
«Quando tutti si saranno addormentati prepariamo le nostre cose e ce ne andiamo».
«Va bene» approvai e mi concessi un sospiro per scaricare il nervosismo.
Ma quando ispirai un odore metallico mi riempì le narici, proveniva da dallo Spettro e non era certamente quello del suo pugnale.
Proprio in quel momento Durza si sfilò gli stivali e slacciò il mantello, mettendosi comodo. Gli posai una mano aperta sul petto, bloccandolo.
Lo Spettro sollevò un sopracciglio, perplesso, e fissò la mia mano. «Che stai facendo Ary.. Bitr?»
Gli sbottonai la casacca scura e la macchia di sangue sulla sua camicia bianca mi colpì come un pugno in un occhio. Alzai su di lui lo sguardo più indifferente che potevo esibire e lo spintonai con la mano che era ancora appoggiata sul suo torace.
Ecco, fantastico!
Mentre io languivo in una squallida locanda lui spariva un intero pomeriggio per dedicarsi all'omicidio e osava anche mentirmi.
Durza si riabbottonò rapidamente la casacca e gettò uno sguardo circospetto per la stanza.
Aprii la bocca per ricoprirlo di insulti, ma mi colse di sorpresa stringendomi forte le braccia intorno al corpo e ribaltandomi con lui sul materasso.
La sua bocca raggiunse il mio orecchio. «Non essere sciocca, ti spiegherò tutto, ma non è il caso di fare insospettire qualcuno» bisbigliò.
«Sei un verme e un bugiardo» ringhiai in risposta.
«Non ne possiamo parlare adesso, Principessa». Il suo fiato e le sue labbra mi sfiorarono il collo ed ebbi un involontario fremito, di cui mi vergognai immensamente.
Sentivo la rabbia bruciarmi lo stomaco e la delusione stringermi la gola, ma mi imposi di non dire o fare nulla e mi lasciai andare inerte tra le sue braccia, mentre il suo respiro alla menta continuava a scivolarmi indiscreto sulla pelle e il suo corpo, che puzzava ancora di sangue, premeva contro il mio.
Non dovemmo restare così a lungo perché gli esseri umani intorno a noi caddero presto nelle spire del sonno.
Puntellandomi sullo stomaco di Durza, mi staccai finalmente da lui, nervosa e un po' in imbarazzo.
Trasferimmo il contenuto delle bisacce negli zaini e legammo le coperte per la notte all'esterno di essi. Con il mio pugnale tagliai una striscia del lenzuolo del nostro pagliericcio e feci una fasciatura lenta ai piedi. Gli stivali di pelle erano nuovi e avevo paura che mi riempissero le piante di vesciche. Intanto che lo Spettro finiva di preparasi composi i miei capelli scarmigliati in una coda alta.
Il lungo sacco che Durza mi passò mentre scendevamo piano le scale conteneva la mia spada e la assicurai al mio zaino con dei legacci così da non doverla tenere a cintura, dove era piuttosto ingombrante per la corsa.
Giunti al portone della locanda sollevammo il chiavistello e fummo per strada, dove un vento gelido che annunciava neve frustò prepotente i nostri abiti.
Seguii Durza, che camminava con sicurezza in direzione delle mura, in un punto ben preciso. Solo quando fummo vicini capii: il portone della città veniva chiuso al tramonto e l'unico modo per uscire era scavalcare le mura, che per nostra fortuna non erano troppo alte ed erano costituite da pietre irregolari che permettevano una faticosa ma non impossibile scalata. Dal punto in cui eravamo noi un grosso albero dai rami scheletrici offriva un buon appiglio per cominciare ad arrampicarsi.
Lo Spettro insistette perché salissi prima io e non mi ribellai, del resto era troppo buio perché potesse anche solo pensare di sbirciare sotto la mia gonna quindi sicuramente non era quello il suo movente. Inoltre preferivo che fosse lui a dovermi prendere al volo nel caso fossi caduta -anche perché era l'unico dei due a poter disporre della magia- e non viceversa.
La salita fu ostacolata del freddo, che rese le mie mani intorpidite e le pietre gelate e scivolose. Inoltre fummo obbligati a fare delle soste ogni volta che una guardia passava dal camminamento sopra di noi.
Ebbi la fortuna sfacciata di non scivolare mai, ma quando mi issai oltre il parapetto avevo i muscoli delle spalle piuttosto indolenziti e una breve occhiata alle mie mani mi informò che le mie unghie si erano spezzate tra una pietra e un'altra e ora sanguinavano, ma grazie al freddo non sentivo particolare dolore.
Durza legò una corda lunga ad un merlo e si calò dalla parte opposta, scomparendo nell'oscurità. Quando sentii il verso artificioso di un gufo lo presi per un segnale e lo seguii.
La corda terminava a qualche metro da terra, intravedevo la neve luccicare sotto di me, quindi mi buttai con sicurezza al suolo, mantenendo a fatica l'equilibrio.
Lo Spettro mormorò qualche parola e la corda si sciolse da sé, arrotolandosi tra le sue mani.
Una mano gelata mi sfiorò il mento. «Corriamo piccola Elfa, se hai difficoltà a vedere concentrati su di me e cerca di seguire i miei passi».
«Tu vedi così bene?» mi stupii. Io riuscivo vagamente a percepire i contorni delle cose, ma la notte era veramente troppo buia per poter pensare di correre.
«Io vedo quasi perfettamente» rispose.
Scossi la testa. «Io non vedo quasi nulla, Durza».
Sospirò. «Dammi la mano». E fece scorrere la sua sul mio braccio, fino a stringermi le dita. «E cerca di tenere il mio passo» concluse.
Sbuffai. «
Tu cerca di tenere il mio piuttosto» ribattei.
Il tempo di sentire la sua risatina e partimmo correndo, prima lentamente, poi sempre più veloci.
I muscoli delle mie gambe si tendevano al massimo, finalmente; l'aria fredda mi congelava il viso e mi faceva bruciare gli occhi e la gola; i miei capelli fluttuavano alle mie spalle; il mondo era avvolto nel silenzio pulito della neve che cade e la mia mano destra era calda tra quella sinistra dello Spettro.
Così, un passo dopo l'altro, abbandonammo il sentiero e corremmo liberi da ogni pensiero in direzione di Dras-Leona.


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Piccola nota: Durza! Paolini ha spesso specificato in interviste varie che gli spettri non possono che fare del male, è nella loro natura. Tuttavia ho ben presente lo spettro che viene creato in “Brisingr”, Varaug. Da come viene descritto pare quasi che un neo-spettro non possa controllare affatto il suo corpo (e in effetti Varaug parla al plurale, come se fossero i suoi spiriti a farlo per lui), mentre a mio avviso Durza riscontra questa capacità in “Eragon”, è sopratutto un individuo, con la sua boria e la sua sicurezza, non tanto un corpo manovrato da altri. Ho strutturato il mio personaggio di Durza seguendo questa idea: che con il passare del tempo sia sempre più facile controllare gli impulsi dati dagli spiriti, anche se impossibile sottrarsene totalmente (anche perché poi non parleremmo più di cattivoni, no? ;)
Grazie a chi mi segue/ mi recensisce/ mi preferisce/ mi scrive solo in privato! Ci vediamo tra una settimana con un capitolo che, vi giuro, sarà più corto! xD

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Capitolo 17
*** Dras-Leona ***


17. Dras-Leona

Corremmo incessantemente fino a che i primi chiarori dell'alba non illuminarono il mondo della luce sufficiente per vedere con assoluta chiarezza l'ambiente intorno a noi. O almeno, fino a che io non vidi chiaramente l'ambiente intorno a noi.
La notte aveva portato con sé un po' di neve, che in quel momento ricopriva leggera il terreno già ghiacciato.
Quando lo Spettro si fermò dovetti trattenere un sospiro di sollievo: ero insonnolita, i muscoli delle gambe mi dolevano e il braccio allungato nella direzione di Durza era tutto contratto per la lunga e scomoda posizione.
Posizione che, mi resi conto solo in quel momento, avrei potuto abbandonare con serenità già un paio di ore prima siccome la luce era da tempo sufficiente per permettermi di indovinare i contorni delle cose.
Tuttavia, prima di lasciarmi la mano, lo Spettro depositò un canzonatorio bacio sulle mie dita, accennando un inchino.
Ritirai il braccio con rabbia. Se pensava che qualche moina mi avrebbe fatto dimenticare le vicende della sera precedente si sbagliava. Mi aveva voluta come alleata? Allora era suo dovere essere onesto con me, almeno per ciò che concerneva quella nostra missione in sodalizio.
«Sto ancora aspettando le tue spiegazioni» dissi, secca.
Durza parve non sentirmi, si passò una mano tra i capelli, ricoperti di piccole perle di ghiaccio, e se li scrollò con un sorriso divertito sulle labbra pallide.
«Durza!» ringhiai, al limite della proverbiale pazienza elfica.
Lo Spettro sbuffò. «Non ti risponderò, Arya. Sì, lo so che ti ho detto che ti avrei dato delle spiegazioni e ho intenzione di mantenere la parola, credimi, ma non ti dirò tutto quello che mi è successo ieri, per il semplice fatto che non ti riguarda. Diciamo che stavo facendo gli affari miei quando un uomo mi ha provocato, mi ha infastidito e ha trovato la morte che si meritava».
«Stavi facendo gli affari tuoi, o stavi lavorando ad affari loschi?»
Durza scostò gli occhi dai miei.
Centro!
«Ti prego non farmi domande a cui non posso e non voglio rispondere» fu il commento aspro. Si sfilò lo zaino dalle spalle e prese a mormorare Brisingr per liberare uno spiazzo dalla neve.
«Gli affari tuoi sono anche i miei ora. Dubito che si trattasse di qualcosa che non aveva a che fare con quello che stiamo progettando adesso».
Vidi che continuava ad ignorarmi e mi avvicinai a lui, afferrandogli una ciocca di capelli vermigli. I suoi occhi, all'improvviso color sangue, mi fissarono pericolosi.
«La nostra alleanza può dirsi conclusa, allora». E feci per andarmene.
Mi afferrò per un gomito. «Ho incontrato un informatore e l'ho ucciso perché ormai sapeva troppe cose. Era necessario» disse, palesemente controvoglia.
«E che informazioni hai avuto?» chiesi scettica.
«Non buone. Il re ha raggiunto Carvahall e sta cercando la pietra».
Mi gelai sul posto. «Credevo che avessi tenuto quell'informazione per te! Perché lo hai detto al re?»
«Come se avessi scelta, Elfa!» sibilò e vidi un lampo di umiliazione nei suoi occhi.
Deglutii. «Devo avvertire assolutamente Brom!»
«No, non puoi. Ragiona, un messaggio di qualunque natura attirerebbe solo l'attenzione. Se il tuo Brom ha trovato l'uovo che gli hai gentilmente spedito, avrà avuto l'accortezza di metterlo al sicuro, magari lasciando Carvahall e portandolo con sé. Probabilmente a questo punto sarà già dai Varden o dalla tua gente».
«Forse saremmo dovuti andare a Carvahall, non a Dras-Leona» osservai, inquieta.
«A Carvahall bazzicano i Ra'zac, principessa. Non ho nulla contro di loro per carità, gente simpatica, ma il loro odore e la loro fedeltà al re non mi fanno impazzire».
Pensai a Brom. Se la sarebbe cavata contro i Ra'zac? Probabilmente sì, ma ancor più probabilmente era già lontano da Carvahall, non era uno sprovveduto. Rabbrividii e per la prima volta da quando avevo lasciato Gil'ead sentii di aver preso la scelta sbagliata.
Lo spettro stese a terra le sue coperte e mi rivolse un sorriso, che parve voler essere rassicurante.
«Vieni a dormire un po' Arya».
«Hai abolito i falò?» domandai, sfilandomi finalmente lo zaino dalle spalle e sganciando la spada e le coperte.
«Ormai è giorno, il freddo non è così terribile, e nel caso il gelo fosse insopportabile puoi avvicinarti a me». Percepii un sorriso di scherno nel tono della sua voce.
«Non ne avrò bisogno, grazie» dissi, e mi infilai sotto le coperte a un paio di iarde da lui, dandogli le spalle.
«Puoi anche prenderti delle libertà se lo desideri».
«Durza non sei stanco di questi giochetti?» ribattei, nascondendo a fatica l'esasperazione.
«Tu assecondami, non sarà troppo difficile, no?» rispose lui ridendo.
Tacqui. Era la prima volta che -anche se in maniera indiretta- faceva riferimento alla notte in cui era strisciato nella mia cella sanguinante e mi aveva baciata. A quel ricordo si aggiunse quello del bacio che mi aveva rubato giusto qualche ora prima davanti alla locanda, quello del suo respiro che mi sfiorava il collo sul pagliericcio e quello della sua mano stretta forte nella mia.
Cosa stava cercando di fare Durza? Se pensava che con un paio di mosse da seduttore consumato mi avrebbe incantato, allora non sapeva proprio niente di me.
Ma era quello il vero problema: da quel punto di vista mi conosceva meglio di chiunque altro al mondo, aveva avuto una prova concreta della mia tenacia e quindi doveva essere consapevole del fatto che qualunque sua mossa non avrebbe cambiato il mio atteggiamento nei suoi confronti.
Forse per lui era veramente solo un gioco.
E forse gli sfuggiva che poteva essere benissimo giocato in due.
Quanto potere avevo su di lui? Poco, ma un po' sì. E forse potevo giocarmelo con intelligenza e tirarlo completamente dalla mia parte.
Scossi la testa tra me e me. Durza era testardo almeno quanto lo ero io e su quello non avrebbe ceduto, quindi era inutile umiliarmi di fronte a lui,
assecondandolo.
Che continuasse pure a fare l'arrogante impertinente, la cosa non mi avrebbe toccata.
            Forse ero riuscita a riposare per un'ora quando la visione che mi era ormai familiare mi assorbì completamente.
Ma questa volta comparve anche Durza.
Era completamente coperto di sangue e pugnalava con cattiveria un corpo che giaceva a terra, inerte tra le sue ginocchia. Gli occhi dello Spettro erano spiritati e sembrava sudare sangue dalla fronte.
Poi una luce improvvisa illuminò il volto della sua vittima.
Ero io.
«Questo è un avvertimento» cantilenò Fäolin ferocemente e i suoi lineamenti si fusero con quelli di Durza.

Il tocco di una mano gelida sul viso mi catapultò bruscamente alla realtà. La mia condizione era la solita di tutte le notti: ero sudata eppure tremavo di freddo, la testa mi doleva e le mie ciglia erano umide delle lacrime che non mi ero accorta di aver versato.
Sentii un fruscio alle mie spalle e mi voltai spaventata, giusto il tempo per vedere Durza allontanarsi da me e tornare al suo giaciglio.
Per l'ennesima volta fui felice che non accennasse a quella mia debolezza e gli fui riconoscente per avermi svegliata.
Non volevo chiudere gli occhi. Mai più.
E in effetti per il momento non lo feci, nonostante fossi stanca. Mi limitai a rilassare le membra e anche quello mi permise di recuperare un po' di forze.
Un paio d'ore dopo il sole era ormai sorto, ma era nascosto dietro pesanti nuvole grigie e l'aria rimaneva fredda. Lo Spettro si svegliò, si stirò come un gatto e poi scattò agilmente in piedi.
«Buongiorno madamigella! Pronta a correre per qualche altro miglio?»
Non mi guardò, ma sorrise a fior di labbra.
«Pronta» risposi, laconica.
Ricominciammo a correre.
Quella sera mi ritrovai mio malgrado a chiudere gli occhi, stremata. Non dovevo dormire, non dovevo dormire, non dovevo dormi..
Quando mi svegliai dalla visione il mio panico fu ulteriormente amplificato dall'assenza di rumore. Oltre al mio respiro affannato c'era un silenzio inquietante.
E Durza non era disteso accanto a me. Un terrore cieco mi si riversò nel petto e per poco non balzai in piedi a gridare il suo nome. Cercai di dominarmi, mi alzai in piedi, sfoderai la spada e il pugnale e mi avventurai tra gli alberi del boschetto dove eravamo accampati. Non trovai neanche un'impronta nella neve.
Camminai in cerchio nella luce grigia del mattino per una decina di minuti, allontanandomi sempre di più dai nostri zaini, poi sentii un respiro davanti a me e mi diressi con decisione in quella direzione.
Durza era seduto a terra, incurante della neve che gli bagnava i vestiti, aveva gli occhi chiusi e le dita sulle tempie. E sembrava che non mi avesse sentita arrivare.
All'improvviso mi ritrovai a non sapere cosa fare.

[Durza]
Non sapeva cosa fossero esattamente quegli strani attacchi che prendevano l'elfa ogni volta che pareva addormentarsi. Sapeva solo che se i primi giorni era bastato fare un po' di rumore per ridestarla, la sera prima aveva dovuto scuoterla a lungo prima che i suoi occhi bagnati di lacrime si spalancassero.
La cosa lo turbava. Più di quanto desse a vedere.
Però sapeva che, se avesse osato ficcare il naso negli affari di Arya, lei avrebbe reagito come una gatta inferocita, intimandogli di non impicciarsi. E poi gli sembrava una cosa troppo.. intima da condividere, sopratutto con lui.
Tuttavia sentiva la gratitudine di lei ogni volta che la svegliava.
E nonostante tutto quella notte non l'avrebbe fatto. Non aveva alcun interesse a fare soffrire la sua ex-prigioniera, ma doveva terminare un certo lavoretto e se l'unico modo per tenerla fuori dai piedi era lasciarla a contorcersi in un dolore che lui non sapeva spiegare, beh l'avrebbe lasciata lì.
Doveva mettersi in contatto con gli Urgali che vivevano sulla Grande Dorsale, sotto il suo diretto controllo, e mandarli in direzione di Carvahall immediatamente. Aveva a lungo ragionato sulla direzione che dovevano aver preso Brom e il neo-cavaliere, Eragon, ed era giunto alla conclusione che, in ogni caso, sarebbero passati da Yazuac. Ed era lì che aveva intenzione di mandare il suo esercito personale. Voleva fermarli, catturare il ragazzo e il suo drago e aggiungerli alla babele di piccole alleanze che negli anni aveva stretto contro il tiranno.
            Capì immediatamente quando Arya cominciò a stare male perché il suo respiro si fece affannoso. Con qualcosa che somigliava vagamente a vergogna a zavorrargli il petto, si alzò e sgusciò via tra gli alberi. Non sapeva quanto tempo avesse, quindi tanto valeva darsi una mossa e tornare a scuoterla dai suoi incubi.
Sedette per potersi concentrare meglio. Il primo manipolo di Urgali era parecchio a nord e avrebbe impiegato qualche minuto ad individuarli dato che non li monitorava da settimane. Controllare quelle menti primitive e violente non era stato troppo difficile, gli ricordavano sin troppo bene una versione alleggerita degli spiriti che abitavano nel suo cuore.
Le tribù erano più di una decina e tendevano a darsi battaglia ogni primavera, ma Durza era riuscito a tenerli buoni e a riunirli sotto vari reparti, ognuno con il loro capo, e da allora non c'erano più stati scontri tra di loro.
Si concesse un sorriso a fior di labbra. Qualcosa di buono aveva fatto anche lui, no?
Quando finalmente trovò il contatto con il capo del manipolo più vicino -in corrispondenza del lago Fläm- cominciò a dettare rapide e secche istruzioni nell'asprissima lingua urgali, che conosceva bene quanto l'elfico. Ordinò loro di concentrarsi tutti nei pressi dei paesi del nord: Yazuac, Daret, Gil'ead e anche Ceuron. E in particolare di formare uno sbarramento su Yazuac.
Poi diede loro la descrizione di Brom, o almeno del Brom che conosceva quindici anni prima, insieme all'informazione che con lui c'era un ragazzo, giovane, con un segno luccicante sul palmo -probabilmente il destro- e che un drago color zaffiro viaggiava con loro.
Ripeté le istruzioni più volte: dovevano catturare il ragazzo ma non nuocere né a lui né al suo drago. Per quanto riguardava il vecchio potevano fare ciò che volevano. Per quanto riguardava gli abitanti di Yazuac, pure.
Stava ripetendo il tutto daccapo per la terza volta quando la pressione di qualcosa di gelido sulla sua gola lo costrinse a ritornare a concentrarsi sul suo corpo.
Inginocchiata nella neve davanti a lui c'era Arya, con il viso pallido e tirato. Reggeva il pugnale nella mano sinistra e lo teneva dolcemente appoggiato contro la sua pelle.
«Cosa stai facendo, Spettro?»
Le sorrise, elaborando rapidamente l'ennesima bugia. «Ho parlato con Hillr. A Gil'ead è tutto a posto, nessuno sospetta che Alba abbia preso il tuo posto e nessuno le ha fatto del male. Contenta?»
Lesse l'indecisione nei suoi occhi, ma poi parve fidarsi di lui perché rinfoderò il pugnale.
«Te stai bene elfa? Mi sembri un po' sconvolta».
Sapeva di stare toccando una piaga dolente, ma era proprio quello il suo scopo. Arya voleva sicuramente evitare di ammettere che qualcosa non andava, quindi avrebbe rapidamente cambiato discorso, fingendo di dimenticare.
«Eri sparito, credevo che un branco di lupi ti avesse sbranato» disse infatti.
Come se fosse possibile, Principessa.
«Purtroppo per te sono ancora intero». Si alzò e le allungò una mano per tirarla in piedi. Lei la ignorò e si alzò subito dopo di lui.
«Benissimo, allora credo che tornerò a riposare. Ma la prossima volta sei pregato di avvisarmi». Lo anticipò in direzione del piccolo spiazzo tra gli alberi dove avevano piazzato il loro accampamento.
Restò a guardarla per qualche minuto dopo che ebbe chiuso gli occhi. Aveva ripreso parecchio da quando erano partiti da Gil'ead, ma aveva scritto in volto che il riposo era un lusso che raramente riusciva a concedersi ed era convinto che, se avesse interrotto il debole flusso di energia che le passava a sua insaputa durante la loro corsa giornaliera, sicuramente non avrebbero viaggiato così agilmente.
Con reticenza tolse gli occhi dai capelli di inchiostro sparsi intorno al viso pallido, indugiò un istante sulle labbra screpolate e leggermente bluastre per il freddo e poi si costrinse a chiudere gli occhi a sua volta.
Poteva rispettare i suoi silenzi e i suoi segreti, del resto anche lui ne aveva parecchi nei suoi confronti, ma non voleva assolutamente che un sogno, una malattia o quel diavolo che era la sciupassero.
Oh no, le era costata mesi di sofferenze e convincerla a diventare sua alleata era stato ancora più difficile. Non avrebbe permesso che una bazzecola se la portasse via. Avrebbe aspettato ancora un po'.
E poi l'avrebbe convinta a dirgli cosa le succedeva.
Più tardi sognò di baciare il suo cadavere.

[Arya]
Continuando a quel ritmo serrato, tagliando per i boschi e le pianure, lontani dalle strade e correndo come pazzi sopratutto di notte, dopo due giorni di viaggio avvistammo l'Helgrind in lontananza.
Il mattino dopo avvertimmo il luccichio del lago Leona e smettemmo di correre, rientrando nelle strade e sistemando il nostro aspetto umano.
Costretti a mantenere un'andatura lenta, arrivammo in città solo a sera inoltrata, quando era ormai buio.
Chiamarla città poteva effettivamente essere un complimento. Era un caotico grumo di case di legno talmente scuro da apparire nero.
«Dras-Leona la fangosa» mormorò Durza, e mi parve di cogliere una nota di sincera soggezione nella sua voce.
Lo Spettro mi aveva svegliata ogni volta che le mie visioni mi avevano aggredita. Ma poi, come al solito, aveva mantenuto il silenzio sulla faccenda. Non ero una persona espansiva e ammettevo di essere abbastanza orgogliosa, tuttavia cominciavo a sentire il desiderio di parlare di quel mio problema con qualcuno.
Peccato che al momento Durza fosse l'unico possibile candidato.
Ci avvicinammo alle mura, alle quali la città doveva il proprio infelice nomignolo. L'Helgrind era una presenza opprimente alla mia sinistra e la vista delle guglie della cattedrale, che riprendevano la sua struttura, mi fecero rovesciare lo stomaco.
Istintivamente, mi aggrappai al braccio dello Spettro e lui posò una mano sulla mia senza dire una parola.
I cancelli erano enormi e neri come il resto della città, ingentilita da una spennellata di neve bianca sui tetti di legno.
«Ehi voi due sbrigatevi!» urlò una guardia. «Stiamo per chiudere!»
Durza mi lanciò un'occhiata ammonitrice e iniziò a correre, ma molto piano. Capii l'antifona: gli umani non corrono come avevamo fatto noi negli ultimi giorni, chiaro. Lo seguii.
Probabilmente se fossimo arrivati di giorno, con il flusso normale di chi entrava in città, ci avrebbero fatto passare senza alcun problema. Invece in quel momento avevamo ben dieci guardie con gli occhi puntati sospettosamente su di noi.
Pensai alle spade che nascondevamo sotto i mantelli e capii immediatamente che non ce la saremmo cavata con un paio di rassicurazioni sulle nostre buone intenzioni.
Durza poggiò le mani sulle ginocchia e finse di ansimare, lo imitai portando la mano sinistra al petto e le porte si chiusero dietro di noi. All'improvviso mi sentii terribilmente in trappola.
«Chi siete?» tuonò quello che doveva essere il capitano delle guardie, un uomo alto con i capelli biondi e sporchi legati in una coda bassa.
Lasciai che il mio compagno di viaggio offrisse le nostre generalità e mi guardai intorno rapidamente. Molte delle guardie sembravano insonnolite, oltre che sospettose. Forse c'era una minima possibilità che ci lasciassero andare, fosse anche solo per tornare finalmente a casa. Probabilmente erano al termine del loro turno.
«Quindi cercate una casa qui a Dras-Leona?» La voce del capitano emerse improvvisa.
«Vorremmo trasferirci qui, sì, ma nel caso non ci piacesse l'ambiente nelle prossime settimane proveremo a Belatona, vorremmo solo stare sul lago Leona o nei pressi». Durza rispondeva con ferma allegria, venata di spensieratezza. Sembrava un giovane ingenuo ed entusiasta, niente a che fare con l'uomo micidiale che conoscevo.
«Ancora pochi minuti e sareste rimasti chiusi fuori!»
«Oh mi spiace» fece lo Spettro senza perdere il sorriso, «ma abbiamo avuto un paio di intoppi da stamattina, purtroppo la mia signora non si è sentita bene».
Il biondo mi guardò. «E neanche adesso mi pare tanto in forma. Sai parlare, ragazza?»
«Sì» mormorai, «mi dispiace molto».
La guardia scoppiò a ridere e i suoi compari lo seguirono, apparentemente a caso.
«Non riesco a credere che ti sia sposato una donna così musona» disse poi rivolto a Durza. «Sembrate diversi come il giorno e la notte!»
Trattenni l'istinto di alzare gli occhi al cielo.
Poi sorrisi radiosamente. «Devo contraddirti, sono semplicemente molto stanca. Sono solo al secondo mese, ma il bambino comincia a pesarmi».
Ebbi modo di vedere un lampo di sconcertata sorpresa negli occhi -in quel momento castani- dello Spettro, prima che si decidesse a reggermi il gioco, avvicinarsi a me e baciarmi sulla fronte.
«Andiamo a cercare una locanda» disse, a voce abbastanza alta da farsi sentire da tutti.
«Il primo figlio?»
«Sì» risposi, posando una mano sul mio addome piatto. Ma con il buio e i vestiti e il mantello sopra nessuno se ne sarebbe accorto.
«Mi ricordo il mio primo figlio» disse il capitano delle guardie. «Quando arrivò il momento ero più agitato di mia moglie». E rise.
Mi si strinse il cuore. Quelli erano i soldati di Galbatorix: uomini normali, che facevano il loro dovere, che avevano una famiglia a cui badare, a casa.
Uomini che avevo e probabilmente avrei ucciso in battaglia.
All'improvviso ebbi voglia di vomitare.
Ci lasciarono andare con i migliori auguri, appena prima che arrivasse il drappello che doveva dare loro il cambio per la notte.
Ricominciai a respirare solo quando fummo ad un paio di strade di distanza. Ce l'eravamo cavata con poco, dopotutto.
«Elfa farmi diventare padre così all'improvviso è stato un gran brutto colpo!» bisbigliò Durza ridacchiando e rifiutandosi di lasciarmi il braccio per il quale mi aveva trascinata via dal portone. «E per di più non ricordo di aver mai consumato il matrimonio» concluse, gettandomi un'occhiata allusiva.
«Probabilmente eri ubriaco, Spettro».
Lo spiazzai. Sollevò entrambe le sopracciglia e rinunciò a fare commenti.
«Se non troviamo presto una locanda mi perderò tra questi cunicoli» disse invece.
Non aveva tutti i torti. A parte qualche lanterna appesa saltuariamente a qualche incrocio, il buio più totale avvolgeva la città. Le case erano tutte in legno, altissime, e pendevano verso il centro della strada, tanto che non era raro trovare un palo inchiodato orizzontalmente a sostenere le due strutture. Solo una piccolissima porzione di cielo era visibile e ormai il debole bagliore del tramonto lo aveva abbandonato da un pezzo.
Alla fine Durza cominciò a chiedere indicazioni ai frettolosi passanti, ma impiegammo ancora parecchio tempo prima di trovare un posto per dormire.
Al contrario della silenziosa Gil'ead, a Dras-Leona pareva non esistere un coprifuoco. Io e Durza entrammo alla
Ghiandaia impazzita e ci ritrovammo pressati tra fitti tavoli di legno, boccali di birra e avventori parecchio alticci. Per di più c'era un odore insopportabile.
Raggiungemmo il bancone a fatica e lo Spettro dovette urlare per farsi sentire sopra il baccano.
Ci trovarono una “stanza”. Uno stanzone spoglio, senza camino, tappezzato di paglia. Non una coperta e non un lenzuolo a disposizione, nemmeno un modo per separare un letto da un altro.
            Fummo costretti a dormire con le bisacce abbracciate a noi e, quando arrivò il nostro vicino e cominciò ad infastidirmi con complimenti non richiesti, Durza lo guardò con ferocia e poi mi passò un braccio intorno alla vita. Lo accettai, almeno teneva lontano disturbatori, e, ancora meglio, mi riscosse con prontezza non appena la visione tentò di accalappiarmi.
Fummo costretti a rimanere lì, pressati tra corpi puzzolenti, fino a che il sole non fece capolino. Andarsene prima sarebbe stato piuttosto sospetto e poi un po' di riposo in più non ci avrebbe certo danneggiati.
Non appena il pavimento fu abbastanza libero da poter camminare senza pestare le membra degli altri ospiti, ci affrettammo ad andarcene, allungando quanto dovuto al locandiere.
«Dovremo prendere una stanza più vicina alla cattedrale, ma non troppo, in modo da poter avvicinarci ed allontanarci senza problemi. E in più pretendo un alloggio decente! Per la miseria, il denaro ce l'ho, tanto vale usarlo!»
Mi strinsi nelle spalle. Non ero molto esperta per quanto riguardava il denaro degli umani. Gli elfi si limitavano a scambiarsi favori e, fino a che avevo viaggiato in veste di ambasciatrice, non avevo mai dovuto pagare nulla, mi era sempre tutto dovuto.
Tuttavia quando Durza comprò due focacce calde dal forno che incontrammo lungo il cammino, fui felice che il denaro esistesse e divorai la mia in un istante.
Mano a mano che abbandonavamo la cerchia esterna le case si facevano più basse e solide, ne incontrammo poi alcune in pietra e il culmine fu la vista del grandioso palazzo in granito del governatore della città, un tale Marcus Tàbor.
A quel punto eravamo decisamente nella zona più ricca della città e fu lì che cominciammo a cercare un'ennesima locanda da usare come base, tuttavia nei dintorni trovammo solo case grandiose, circondate da inaccessibili cancelli impreziositi da fiori stilizzati. Decisamente la componente ricca della città non se la passava troppo male.
«Dovremmo tornare indietro» osservai. «Qui non ci sono locande. Magari ce ne sono oltre la cattedrale, ma poi saremmo.. lontani».
Lontani dalle porte della città ovviamente.
Durza capì bene cosa intendessi dire: non volevo rimanere chiusa in quella città come un topo in una sudicia trappola e sembrava condividere il mio stesso desiderio, tuttavia la sua proposta fu di altra natura.
«Raggiungiamo la cattedrale e superiamola. Più ci allontaniamo dalla cattedrale più i quartieri sono miseri, quindi dovremmo trovare un posto nella fascia intermedia; e lo so che preferisci il semicerchio della città vicino alle porte. Però nella parte opposta alla porta della città siamo vicini al lago e ci sono gli scarichi delle fognature..»
Aggrottai la fronte, ma lo Spettro mi fece cenno di seguirlo e quindi decisi di tacere. C'erano troppe persone intorno a noi per fermarsi a discutere.
Più ci avvicinavamo al cuore di Dras-Leona più la cattedrale sembrava inghiottire ogni luce intorno a noi, eppure, quando ci ritrovammo nel piazzale al di sotto si essa, dovetti ammettere che era grandiosa.
Non avrei saputo trovare una definizione migliore di quella. Era alta, talmente alta che ero costretta a rovesciare il capo totalmente all'indietro per vedere la struttura per intero.
Il marmo nero era lucido e poco segnato dalle intemperie. La chiesa non doveva avere più di mezzo secolo, nonostante la setta religiosa esistesse da tempo immemorabile. Probabilmente in assenza dei cavalieri si erano rafforzati altri credi religiosi e quello dei sacerdoti dell'Helgrind era antico e ora pieno di aderenti, quindi probabilmente era anche ricco.
Quando riuscii a staccare gli occhi dal gigantesco rosone centrale trovai gli occhi di nuovo rossi di Durza puntati sulla mia gola, con uno sguardo rapace nelle iridi. Sembrava sul punto di sbranarmi.
Indietreggiai automaticamente.
Lo Spettro si riscosse all'improvviso e le sue pupille e le sue iridi tornarono umane.
«Avrai tempo più avanti di osservarla in ogni particolare, ora andiamo» disse, con un tono assente.
Poi si voltò e riprese a camminare.
Un po' turbata, gli andai dietro, portando una mano alla fodera del pugnale che tenevo a cintura sotto il mantello.
Trovammo una locanda più che decorsa, ma non di lusso. Era a dieci minuti dalla cattedrale e a più di mezz'ora a piedi dai cancelli.
E, cosa più importante, avevamo una stanza con una serratura e una chiave, ma purtroppo con un solo letto.
Era una camera al terzo piano e c'erano solo un paio di stanze occupate oltre alla nostra. Meglio così.
Lasciammo i nostri zaini e le nostre armi sulla cassapanca ai piedi del letto ed esplorammo con lo sguardo la stanza: c'era il letto, la cassettiera, un grande catino pieno di acqua e un paio di ganci alle pareti.
«Una stufa! Addirittura una stufa!» esclamò lo Spettro lanciandosi in direzione di una stufetta di terracotta e iniziando a riempirla di piccoli ciocchi di legna ammucchiati lì accanto.
L'accese schioccando le dita.
Mi sedetti sul pavimento di legno accanto a lui, godendomi il tepore delle fiamme sul viso mezzo congelato.
«Le fogne sono..?» mi interruppi. Non volevo veramente dire quello che stavo pensando. «Non saranno una possibile via di fuga vero?»
Durza sorrise innocentemente. «Finiremmo nel lago, che è come lavarsi no?»
A proposito di lavarsi.. avrei veramente avuto bisogno di un bagno.
«Va bene» concessi. «Nel caso ne avessimo bisogno sai dove andare con esattezza?»
«Non proprio, dovremo andare in esplorazione anche per quelle» ammise. «Poi sarebbe ora che prendessimo qualche decisione pratica per quanto concerne la nostra visita di cortesia ai Sacerdoti».
«Hai insonorizzato la stanza?»
Lo fece, stranamente senza fare commenti. «Non volevo andare lì e presentarmi come Durza, nel caso lo scoprissero non credo che sarebbe un problema, ma preferirei trattare in incognito.»
«E come credi di poter spiegare ai sacerdoti il fatto che un apparentemente comune essere umano vada alla ricerca di un misterioso e potentissimo incantesimo?»
«Chiederò di poter visitare la loro biblioteca e basta, sono certo che ne abbiano una! Non è necessario che sappiano cosa sto cercando».
«Vorranno certamente qualcosa in cambio» gli feci notare.
«Tutto ha un prezzo e tutto si può comprare Principessa. Non credo che abbiano bisogno di denaro, ma qualche informazione su una qualsiasi attività del sovrano potrebbe essere una buona merce di scambio» disse, stirandosi pigramente le braccia.
Mi fermai un istante a ragionare. «Quanti schieramenti tra loro indipendenti sono contro Galbatorix? Quante.. potenze stanno attentando alla sua corona?»
Era un dubbio che non mi era mai sorto prima di allora. Per tutta la mia vita lo schieramento composto dai Varden, dai nani e dal mio popolo era stato l'unico con cui ero venuta in diretto contatto.
Lo Spettro fece un sorriso arrogante. «Noi siamo una, Elfa. E non so te, ma la componente maschile di questa potenza comincia ad avere fame. Che ne dici di scendere e farci preparare qualcosa?»

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Capitolo 18
*** Spie e spionaggio ***


18. Spie e spionaggio

Dovetti darmi parecchio da fare per convincere l'oste che non mangiavo carne non perché non la volessi ma perché lo speziale mi aveva detto di moderarla a causa del “bambino” che ipoteticamente portavo in grembo.
Era una sciocchezza, ovviamente, e stava in piedi a stento, ma l'uomo finì per stringersi nelle spalle e borbottare un: «Ognuno ha il mestiere suo, sicuramente lo speziale sa quello che fa».
Gli sorrisi candidamente, annuendo con convinzione.
Ma perché gli uomini consideravano la carne una tale prelibatezza? Mangiarla significava fare festa per loro, non capivano quanto fosse terribilmente disgustoso?
E non avevo ancora visto il peggio, perché Durza sembrava condividere quella passione con gli esseri umani e quando la sua porzione arrivò vi si gettò sopra con voracità.
Mentre sorbivo la mia zuppa di verdure, osservai lo Spettro con un moto di disgusto. Stava mangiando con le mani un pezzo di carne untuosa, aveva le dita lorde e il grasso gli gocciolava dal mento. L’odore di cadavere cucinato mi pizzicava il naso fino a darmi la nausea.
«Che schifo!» sibilai. «Ti auguro di morire di gotta».
Durza mi guardò con divertita perplessità. «Mi guarirei, principessa» rispose ridendo. Allungò un pezzo di carne nella mia direzione. «Dovresti assaggiarla, invece».
Indietreggiai, raspando con la sedia sul pavimento e attirando un paio di sguardi di avventori spaventati dal rumore.
«In teoria dovremmo evitare di attirare l'attenzione, Bitr» bisbigliò Durza pianissimo.
Annuii e tornai al mio piatto in silenzio.
            Il proprietario della locanda volle essere pagato in anticipo e lo Spettro gli consegnò il denaro sufficiente a tenere la stanza per una settimana.
Rimasi un po' turbata quando Durza mi spiegò che il nome del locale -
L'Avvoltoio- altro non era che un soprannome popolare per i sacerdoti della religione dell'Helgrind, dovuto alla loro abitudine di vestire sempre di nero.
Più tardi, quando era ormai ora di pranzo, noi avevamo già mangiato da un pezzo e, i pugnali nascosti sotto i mantelli, ci avviammo in direzione opposta alla cattedrale, verso il lago Leona.
Avevamo deciso di cominciare cercando l'uscita di emergenza costituita dalle fognature. Non che l'idea mi entusiasmasse, ma andare direttamente alla cattedrale mi entusiasmava ancora meno, fui anzi felice di averla alle mie spalle.
«Dovremmo trovare una botola per calarci» osservai.
«Già! E la troveremo nei quartieri più malfamati della città» fu l'allegra risposta.
«Credevo che non conoscessi Dras-Leona».
«La conosco molto bene, invece. Diciamo che non ho mai dovuto prendere l'uscita di servizio per andarmene di qui. Ma del resto non ho mai avuto nulla da discutere con i Sacerdoti, mentre questa volta il rischio è molto più alto».
«Eppure sai da dove possiamo entrare nelle fogne».
Sbuffò, si portò una mano al petto ed estrasse una pergamena ripiegata da sotto il mantello.
«Da' un'occhiata» disse porgendomela.
Era una mappa di Dras-Leona, ma decisamente non una mappa convenzionale. In inchiostro rosso erano vergate sottili linee che attraversavano disordinatamente quasi tutta la parte centrale della città, creando una griglia, mentre un'altra più spessa la tagliava in due. Le fognature.
«Come l'hai avuta?» domandai restituendola e nascondendo immediatamente le mani sotto i vestiti. Si gelava.
«Sono pieno di risorse» rispose sorridendo e nascondendola nuovamente.
«Fammi capire: hai la mappa, hai la magia per aprire qualsiasi botola quindi non ti serve una chiave.. che cosa andiamo a fare?»
Schioccò la lingua contro il palato. «Purtroppo sei intelligente. Andiamo ad incontrare una persona che ci spiegherà qualcosa sui Sacerdoti».
«E non potevi dirmelo subito?» La mia voce aveva un'inflessione gelida.
Non mi piaceva che mi si prendesse in giro e Durza lo faceva continuamente.
«Volevo evitare le domande che da qui fino alla meta mi farai» rispose con tono falsamente addolorato.
«Qualcosa del tipo: chi è la persona che andiamo a incontrare? Perché ti aiuta? È l'unica spia che hai qui dentro..?»
«Sì, direi che può bastare».
Passammo per un'ampia piazza, quasi totalmente deserta, occupata al centro da quella che sembrava una grande gogna, ma senza l'albero per le impiccagioni.
«Qui ogni secondo e quarto giorno della settimana si svolge il mercato degli schiavi. Quello che vedi è il palco dove espongono la mercanzia» disse lo Spettro in tono piatto.
Feci un respiro appena più pesante. Sapevo di quell'usanza barbara. Come sapevo anche che buona parte degli uomini venduti erano o surdani colti fuori dai confini; o abitanti del deserto di Hadarac, dove intere tribù venivano catturate con facilità vista la loro disorganizzazione sociale; o anche criminali, ladruncoli e tagliaborse che i nobili tiravano fuori dalle loro prigioni per ricavarne qualcosa.
Talvolta avveniva anche che un mercante caduto in disgrazia venisse sequestrato e venduto insieme alla sua famiglia per saldare debiti rimasti a lungo fermi presso i propri creditori.
Inutile specificare che ero disgustata da quell'istituzione. L'idea che un essere vivente potesse appartenere totalmente ad un altro, essere sottomesso al suo volere senza poter fare nulla, era agghiacciante e spaventosa.
Senza contare che quella sensazione la sentivo un po' mia ogni volta che pensavo ai mesi di prigionia nelle grinfie di Durza. Potevo essere benissimo paragonata ad una schiava liberata dal proprio padrone e la cosa era atrocemente umiliante.
Gettai un'occhiata all'uomo al mio fianco, che del mio aguzzino aveva mantenuto solo gli irritanti modi di fare e l'indole violenta. Non aveva alzato un dito su di me da quando avevamo stretto quel patto e probabilmente non l'avrebbe fatto mai più, ma in quel momento mi sentii invadere dall'irritazione per i pensieri che avevo appena formulato sulla mia schiavitù quindi tornai a guardare davanti a me con stizza, rinunciando anche alle domande che avevo in serbo per lui.
Lo Spettro probabilmente percepì il cambiamento nel mio stato d'animo perché sentii i suoi occhi pungermi la parte del viso rivolta nella sua direzione, ma scelse saggiamente di fare finta di nulla.
            Dras-Leona era una delle più grandi città dell'Impero e una grande città ha sempre grandi ricchezze e grandi miserie racchiuse nelle sue mura. Dopo aver visto le enormi ricchezze dei quartieri alti quella mattina, riscontrai nuovamente il peggio di cui avevo avuto un assaggio la sera precedente.
Più la zona era povera più le case erano alte, marce e traballanti. I crolli dovevano essere all'ordine del giorno e mi ritrovai a chiedermi cosa sarebbe successo se un abitante distratto avesse lasciato cadere una lanterna accesa sul pavimento di legno, nei mesi più caldi e secchi dell'estate.
Una buona metà della città povera sarebbe andata a fuoco prima ancora di riuscire a rendersene conto. Probabilmente le mura interne avrebbero tagliato fuori le fiamme e il resto della città si sarebbe salvata.
Questo pensavo mentre, con il cappuccio calato sul viso e degli odori terribili nelle narici, superavo mendicanti aggressivi e non, bambini cenciosi dallo sguardo astuto -probabilmente piccoli ladruncoli- , uomini ubriachi già a quell'ora del giorno e persone dall'espressione pensierosa e losca. In mezzo a questi elementi spiccava ovviamente il lavoratore onesto e la donna che portava un secchio d'acqua tirandosi dietro il figlioletto di non più di tre primavere.
Durza si fermò davanti ad una porta così malandata che pareva a malapena adatta a chiudere una stalla. Eravamo ormai in prossimità delle mura, esattamente dalla parte opposta del portone da dove eravamo entrati.
Lo Spettro mormorò una parola di potere e aprì la porta, poi mi fece cenno di entrare e insonorizzò la stanza. L'interno era malmesso come l'esterno, c'era uno sgabello, delle assi di legno, delle corde e degli attrezzi sparsi per terra.
Il pavimento era di terra nuda e un odore ancora più terribile di quello che gravava all'esterno riempiva l'aria. Era il tipico odore di.. fogna!
«Intanto che aspettiamo che il mio amico rincasi ti dico un paio di cose sulle fognature» cominciò Durza, tornando a parlare dopo un'eternità di mutismo. «Oltre a puzzare terribilmente, sappi che sono state costruite parecchio tempo fa, quando la città era al massimo dello splendore. I canali sono alti poco più di due iarde e altrettanto larghi nella zona centrale di Dras-Leona e lungo l'asse che porta dai cancelli fino al lago, per il resto sono molto più piccoli, malmessi e sopratutto, in legno. Quindi se devi scomparire in una fogna, fallo nella zona ricca o non ci entreresti neanche. Pochi edifici hanno una latrina, il resto della popolazione usa dei catini, che poi ribalta per strada. Quando piove le strade si lavano e gli scoli portano tutto nel lago, ma in quel momento rischieresti di annegare perché i canali sono gonfi, quindi è meglio evitare. Gli ingressi sono a terra ma ben custoditi, spesso in casa di altre persone. È un provvedimento abbastanza recente, serve ad impedire che la gente si ammassi lì sotto, sopratutto criminali. Ma ci sono persone che con un paio di monete ti faranno passare per l'ingresso che custodiscono».
«Come il tuo “amico”?» chiesi accennando agli attrezzi sparsi a terra.
Durza si accomodò sullo sgabello. «Già. Questo è l'ultimo ingresso disponibile prima che le tubature sfocino nel lago Leona. Ed è qui che io preferirei buttarmi nel caso le cose si mettessero male. Da qui in poi tutti i canali convogliano in uno unico, più largo e dal breve tragitto.»
«C'è un'uscita che porta dentro alla cattedrale?»
Lo spettro fece un ampio sorriso. «Sì».
«Quindi se non arriveremo alla biblioteca con le buone..»
«Lo faremo con le fogne».
Mi scappò una risatina. «Va bene».
«Era una risata quella?» domandò scrutandomi con malizia.
«Più un singhiozzo direi».
«Dovrei fare battute intelligenti più spesso» affermò, tirando nuovamente fuori la mappa delle fognature. «Vieni qui piuttosto, ti faccio vedere quali sono gli ingressi sicuri».
Erano solo quattro. Sparsi un po' ovunque lungo il canale che tagliava la città in due, ed erano tutti nella zona che andava dalla Cattedrale al lago Leona. A detta di Durza, gli abitanti e proprietari delle rispettive case, taverne e armerie, mi avrebbero aiutata senza problemi se avessi messo loro in mano la giusta somma.
Fummo costretti ad aspettare il nostro ospite per qualche ora. Lo Spettro impiegò quel tempo parlandomi di fatti e curiosità riguardo a Dras-Leona, che effettivamente conosceva molto bene. Mi stava parlando della cava di marmo nero dove buona parte degli abitanti di Dras-Leona trovava impiego quando si interruppe all'improvviso e inclinò lateralmente la testa nella sua maniera buffa di ascoltare meglio i suoni.
«Passi decisi nella nostra direzione. Credo che il nostro uomo stia arrivando».
Si accomodò ancora meglio sul basso sgabello e mi fece cenno di stare vicino a lui.
L'uomo che entrò era sulla quarantina, era secco come un manico di scopa e aveva una barba grigia così folta e annodata che sembrava un nido di uccelli.
«Ehi!» esclamò subito. «Che volete qui voi due?» E alzò le mani in segno di resa.
Gli mancavano tre dita della mano destra. Non sapevo quale fosse il lavoro attuale del nostro amico, ma sicuramente doveva aver tagliato parecchie borse in passato. E dovevano averlo beccato qualche volta di troppo.
«Ditolesto?» domandò lo Spettro accennando alla sua mano. «Non hai scelto un così bel soprannome, amico».
L'uomo parve rilassarsi all'improvviso e chiuse la porta dietro di sé. «Che volete da me?» ripeté grattandosi la testa.
«Lavoro per un uomo che ha già chiesto i tuoi servigi in passato. Si fa chiamare Il Ratto».
Ditolesto, o come diavolo si chiamava, si illuminò. «Ah sì, ma certo! L'ultima volta mi aveva mandato una bella bionda però!» E rise sguaiatamente.
Mi irrigidii e, non so per quale motivo, ma pensai subito ad Alba.
«Oggi dovrai accontentarti di me» fu l'incolore replica.
«Va bene, va bene, se mi paghi non c'è problema, no? Cosa vuole Il Ratto stavolta? Altre informazioni da Aberon?»
Faticai parecchio a contenere una mia reazione di fronte a quelle parole. Sapevo che lo spionaggio era un'attività proficua in quel brutto e pericoloso periodo, ma sentirmelo dire in faccia..
«No» lo interruppe Durza e mi parve quasi agitato. «Voglio sapere qualcosa sugli Avvoltoi».
L'uomo si rabbuiò e incrociò le braccia sul petto. «Non so se posso aiutarti. Quasi tutti qui seguono la loro religione, ma nessuno sa davvero qualcosa su quello che fanno. Se vai alle cerimonie li senti cantare e basta ma non ci capisci nulla del loro rito che fanno all'altare. So che per diventare parte della loro religione devi fare un battesimo col sangue, tipo che te lo fanno bere, roba così..»
«Chi ha accesso agli edifici dietro la cattedrale?»
Ditolesto rise di nuovo. «Dietro dici? Forse non sai che quasi tutta la loro roba è
sotto la chiesa».
Durza fischiò ammirato. «E come lo sai?»
«Lo senti dire dappertutto che a volte vengono degli strani rumori dal di sotto. Quando vedi gli avvoltoi te ne accorgi, sono così bianchi che per forza devono stare sottoterra o così pallidi non sono, no? E poi.. non so se c'entra qualcosa, ma una volta ho fatto entrare un gruppo di tizi dal di là». E annuì in direzione di una botola, quella che sicuramente portava alle fognature. «Per me erano dei ribelli perché parlavano di ammazzare qualcuno. Io gli ho dato la mappa, no? Così non si perdono, ma loro non sono mica tornati sai? E volevano andare sotto alla chiesa. Per me si sono fatti ammazzare» concluse in tono quasi confidenziale.
Durza annuì lentamente, composto. «Sai come posso entrare negli edifici sotto la cattedrale senza farmi ammazzare?»
«Mhhh credo che devi diventare uno di loro, no? Così dopo puoi andare dove ti pare. Mi sa che è l'unica cosa che puoi fare».
«Come divento uno di loro?»
«Comincia ad andare alle cerimonie, amico, no? Poi parli con uno dei monaci e chiedi se puoi entrare nel giro».
«Quando ci sono le cerimonie?»
«Tutti i giorni alla mattina presto e alla sera. Tutti possono entrare quindi stai tranquillo».
«Va bene». Durza si alzò in piedi. «Tornerò la prossima settimana, tu raccogli informazioni e se avrai qualche novità saprò come ricompensarti adeguatamente».
Gli posò qualche moneta sul palmo e si avviò alla porta. Lo seguii rapidamente.
«Omaggi al Ratto, amico. Avrò certamente qualche cosa per te la prossima settimana». Con queste parole Ditolesto ci lasciò andare.
«Ratto?» domandai quando fummo a qualche iarda di distanza.
Durza si strinse nelle spalle. «Mi chiamavano così una volta, non mi dispiace come nomignolo. Lo trovo.. azzeccato».
«Così hai delle spie ad Aberon» dissi cambiando bruscamente discorso.
«Tutti hanno spie ad Aberon. I Varden, l'Impero e anche io, sì».
«Se tutte le tue spie sono ridotte così ho paura ad affidarmi alle loro informazioni».
«Sono ridotte così perché non ho una mia catena personale di spie. Vedi l'Impero ha la sua Mano Nera, ad esempio, ma io non posso permettermi che un intero gruppo di persone possa parlare e dire chi è il mandante. Io lavoro nell'ombra, Bitr, ho sempre fatto così e così farò, non sai quanto sia stato
strano avere con me qualcuno che non fossi io, oggi».
Ripensai all'intera conversazione avuta con l'uomo. «Ditolesto ha detto che l'altra volta gli hai mandato una bionda..» mi interruppi, sperando che che Durza terminasse il discorso al posto mio, ma non lo fece. «Era Alba vero?» chiesi alla fine.
Lo Spettro sospirò. «Non era previsto che sentissi quella parte di discorso. Comunque sì, era lei. Ha lavorato anche come spia per me».
«Devo averla sottovalutata parecchio» mi lasciai sfuggire.
Durza si bloccò all'improvviso e gli ero così vicina che urtai contro la sua schiena. Mi guardò da sopra la spalla sinistra e riprese a camminare. «Non credevo che la conoscessi così bene» disse innocentemente, con voce morbida.
La voce suadente da interrogatorio.
Mi costrinsi a non farmi toccare dall'ansia per quello che sarebbe potuto saltare fuori su Alba, lo avrebbe percepito.
«Mi portava i pasti, la vedevo ogni giorno» risposi con calma assoluta. «Però mi sembrava una ragazzina, non mi sarei mai aspettata che facesse la spia per te».
«Ha.. doti nascoste» replicò guardandomi un'ultima volta.
Come l'essere una maga?
«Sa usare molto bene la magia» aggiunse infatti.
Non risposi e per un po' proseguimmo in silenzio.
Fino a quando Durza non si voltò di scatto, mi afferrò per il mantello e mi spinse in uno strettissimo vicolo tra due case.
«Durza che..?»
«Come mai non mi sembri per niente sorpresa dal fatto che Alba sappia usare la magia, piccola Elfa?» ringhiò minacciosamente.
«Lasciami» comandai seccamente, «o mi metto a urlare».
Scoppiò a ridere. «Potrei stuprarti in questo vicolo e nessuno dei grigi passanti che vedi farebbe nulla per fermarmi, anzi, verrebbero probabilmente a reclamare il loro turno. Non siamo tra i bravi Varden o i perfetti elfi, qui siamo nei bassifondi di una città umana, tutto è concesso, fin qui non arriva giustizia».
Non mi dibattei. «Cosa diavolo vuoi?»
«Che tu mi risponda».
Non dovetti fingermi indignata. «Pensi che me ne freghi qualcosa della tua cameriera? Per la miseria Durza, la tua reazione è ridicola».
«Non mentirmi Principessa, non sei abbastanza capace da nascondere la paura».
Strinsi le labbra e guardai un punto indefinito oltre la sua spalla. «Puoi non credermi se vuoi, ma sappiamo entrambi che non sono io quella delle bugie».
Le mie parole parvero non toccarlo affatto. Tuttavia, dopo qualche lungo istante, lasciò andare il mio mantello.
«Sei una mia alleata adesso e non posso farti del male» disse semplicemente.
«Dunque vorresti?» lo provocai aspramente. «Perché se mantenere la parola è un compito troppo difficile per te, me ne farò una ragione e vedrò di trovarmi il più lontano possibile da te quando ti salirà la voglia di uccidermi».
La miglior difesa è l'attacco e il ricordo del suo sguardo predatore davanti alla cattedrale, quella stessa mattina, mi aveva suggerito quelle parole.
«Non ti ucciderò Arya, né ti farò del male. Non è questo che voglio. Hai ragione tu, mi sono comportato da idiota, perdonami».
Ebbi un moto di sincero stupore e scossi la testa, confusa.
Non mi aveva mai chiesto scusa e mai e poi mai avrei pensato di sentire uscire una simile frase da quelle labbra sottili.
Con un mezzo sorriso lo Spettro uscì dal vicolo e si avviò nuovamente verso la nostra locanda.
Mentre camminavamo in silenzio mi sovvenne un pensiero ancora più inquietante: forse ciò che avevo detto lo aveva colpito perché era minacciosamente vero.
            Tornati alla locanda consumammo una cena veloce, poi salimmo in camera.
Ma l'aria in quella stanza era troppo pesante e in più non mi sentivo per niente stanca. Ditolesto mi aveva dato parecchie informazioni su cui ragionare e prima avessimo portato a termine quella missione meglio sarebbe stato per entrambi, quello era certo.
Mi sedetti sul letto e infilai gli stivali.
«Vai da qualche parte, Principessa?» domandò lo Spettro, alzando pigramente gli occhi da pugnale che stava affilando.
«A fare una passeggiata» risposi, vaga.
Durza si allarmò. «Arya sei una donna ed è buio lì fuori, non puoi passeggiare sola per la città come se niente fosse».
Alzai il cappuccio del mantello. «Se solo avessi ancora i pantaloni e la camicia potrei benissimo passare per un uomo, ma mi hai costretto a lasciarli a Gil'ead».
«Già, ho fatto un grande errore» sospirò. «Ma ci tenevo molto a vederti con qualcosa di più scollato di un farsetto di pelle».
Mi voltai e uscii dalla stanza sbattendo la porta, poi corsi rapidamente giù dalle scale.
La voce di Durza mi raggiunse quando ero ormai sulla soglia dell'Avvoltoio.
«Bitr, aspettami!»
Esitai, sopratutto perché ormai gli uomini e donne seduti ai tavoli seguivano con interesse la scena. Probabilmente credevano si trattasse di un litigio tra innamorati.
Lo Spettro scese le scale con l'espressione preoccupata da manuale e corse verso di me.
«Vengo anch'io» sussurrò portando il viso a un palmo dal mio, «almeno saremo in due quando cercheranno di aggredirci in un angolo buio» borbottò.
«D'accordo» dissi semplicemente. E sgusciai fuori nella notte.
Non nevicava, ma come al solito era freddissimo.
«Non ti credevo così irresponsabile» mi rimproverò Durza. «Se qualcuno ci attaccasse saremmo costretti a fare quello che dobbiamo per difenderci e la nostra copertura salterebbe se qualcuno ci vedesse farlo».
Mi incamminai in direzione dei pinnacoli della cattedrale, quasi invisibili nel cielo notturno. «Hai per caso paura, Natt?»
«Non ho paura» ringhiò, «ma non voglio buttare tutto all'aria. È da anni che organizzo piani su piani per tirare quel pazzo giù dal suo trono e non voglio fare passi falsi per colpa dei capricci di una..» si interruppe.
«Di una?»
«Stavo per dire donna, ma una donna sarebbe indubbiamente rimasta nella sua calda stanza a riposarsi, quindi le tue azioni ti escludono dalla categoria. Devi essere un demonio».
«Mi sa che non puoi permetterti di chiamarmi demonio» ribattei.
«Purtroppo hai ragione».
«Non volevo fare una semplice passeggiata» lo informai qualche istante dopo.
«Lo avevo immaginato. Che hai in mente?»
Mi strinsi più vicina a lui in modo da poter sussurrare ancora più piano. «I rumori sotto la cattedrale.. voglio sentire con le mie orecchie».
«Sai qualcosa che io non so sui loro riti?»
Scossi la testa. «So solo che adorano l'Helgrind e i suoi abitanti e che la loro religione è crudele e sanguinosa».
«Non più di quanto ne sappia io, allora. Bene, andiamo pure, ma dovremo cercare un buon nascondiglio da dove ascoltare non visti».
Non eravamo i soli a girare per le strade a quell'ora, tuttavia c'era un relativo silenzio. Solo i richiami delle prostitute risuonavano chiari e netti tra le viuzze, ma nessuno si avvicinò a disturbarci.
Quando raggiungemmo lo spiazzo davanti alla cattedrale vedemmo un fiume di gente fuoriuscire dai tre portoni spalancati.
«La funzione della sera..» mormorai.
«Direi che è appena terminata» concluse Durza per me.
«Quindi temo che non passerebbe inosservato il fatto che andiamo in direzione opposta al flusso» dissi mogia.
«Nascondiamoci in un vicolo e aspettiamo che tutti se ne vadano» rispose lo Spettro prontamente.
«Basterà restare qui immobili, è buio».
Durza si appoggiò con le spalle al cancello della ricca casa dietro di noi «Vediamo di passare inosservati, almeno. Avvicinati».
Lo affiancai e assunsi la sua stessa posizione.
Le dita dello Spettro mi sfiorarono la spalla e poi si arrampicarono sul mio viso.
Mi fulminò un pensiero. «Cosa intendevi con “passare inosservati”?»
Ghignò. «Puoi sempre ritirarti» bisbigliò chinandosi su di me.
Mi sfiorò appena le labbra con le sue. Non reagii in alcun modo, non me ne sentivo in grado. Da un lato avrei voluto schiaffeggiarlo con tutte le mie forze, dall'altro.. ero un po' confusa. Non era minimamente necessario fingere un incontro amoroso per non farci notare, di questo ero sicura, ma del resto stare lì a bighellonare con le mani in mano poteva sembrare sospetto..
Tornò a baciarmi, con più convinzione.
Sollevai una mano, forse per fermarlo, ma me la strinse e la abbassò nuovamente. E io non mi ribellai.
Percepii le sue braccia sfiorarmi i fianchi mentre si appoggiava al cancello alle mie spalle, poi gli occhi mi si socchiusero e, presa dal momentaneo trasporto, posai le mani sul suo torace.
Sentii i suoi muscoli tendersi sotto le mie dita e le sue labbra schiudersi per approfondire il bacio. Lo lasciai fare, fino a che non dimenticai la mia reticenza e mi lasciai trascinare da una sensazione calda e piacevole che scivolò dalla gola al petto come una bevanda magica.
Poi l'improvvisa assenza di suoni mi riscosse e mi dibattei piano per liberarmi.
Gli occhi di Durza si spalancarono, selvaggi e divertiti insieme. Si staccò da me con un mugugno.
Schioccò la lingua contro il palato. «Non male, cominciavo a prenderci gusto».
Anche io. «Sono andati via, Spettro».
«Già, te lo avevo detto che saremmo passati inosservati, dovremmo tenerlo presente come metodo futuro».
«Andiamo» lo liquidai, spostandomi silenziosamente verso la cattedrale e scrollandomi violentemente di dosso le impressioni appena ricevute. Lo Spettro mi seguì.
L'edificio era nero, immerso nel nero del cielo e nell'oscurità della terra. Insomma la sua arzigogolata struttura era a malapena distinguibile, tuttavia i portoni di legno che si aprivano sulle tre navate erano chiaramente chiusi.
«Potrebbe ancora uscire qualcuno» bisbigliò Durza, «togliamoci dall'ingresso».
Scivolammo sul fianco sinistro della costruzione, dove trovammo rifugio appiattendoci tra i contrafforti.
«Senti niente?» mi chiese.
«Non finché parli».
Tacque e rallentò il respiro. Feci lo stesso e chiusi gli occhi per concentrarmi al meglio sui suoni.
Dall'interno venivano alcuni rumori che tuttavia non erano particolarmente allarmanti: uno strisciare di panche, il tintinnio di alcuni piccoli oggetti in metallo. Probabilmente stavano mettendo a posto l'occorrente usato per il rito.
Poi sentii le voci.
«Avremo la veglia fino a mezzanotte oggi» disse una voce cavernosa, indubbiamente maschile.
«Un altro novizio?» rispose una più acuta, ma sempre maschile, di un giovane.
«Esattamente. Deve ancora seguire la Purificazione e poi fare la prima Donazione nell'Arca».
«E la prima Rinuncia? La farà all'alba?»
«No, credo che si farà tra un paio di giorni. È un peccato che voglia fare il praticante, era abbastanza forte da entrare nel corpo delle guardie».
«Avete provato a convincerlo?»
«Senza successo purtroppo. Vuole assolutamente essere vicino agli dei».
«Se la Rinuncia è tra un paio di giorni c'è ancora tempo».
«Suppongo di sì! Ora andiamo a prepararci. Tra due ore dovremo essere pronti nella cappella per cominciare le preghiere».
«Abbiamo già officiato il rito e io stamattina ho fatto un'ulteriore Donazione per espiare.. Sono molto stanco».
«È un onore servire gli dei» fu il secco rimprovero.
«Che sciocco, hai ragione tu!»
«Ora dovrai espiare nuovamente per il tuo comportamento inappropriato!»
E continuando il discorso su quel filo, scomparvero lentamente in lontananza. Probabilmente avevano attraversato la sagrestia ed erano entrati negli edifici riservati a loro.
Durza si spostò e sedette a terra, stendendo le gambe di fronte a sé.
«Interessante» osservò.
«Mi fanno venire i brividi» dissi invece.
Avevo sentito solo un breve scambio di battute, eppure parole come Rinuncia e Donazione riecheggiavano inquietanti nella mia testa.
«Se vuoi posso riportarti alla locanda. Io dopo torno qui però, a questo punto sono curioso».
«Non insultarmi, per favore» sibilai. «Ti ricordo che è stata una mia idea».
«Hai ragione, sei stata davvero brava, Elfa, ma in ogni caso dovremo aspettare la mezzanotte e mancano più di tre ore. Direi che puoi accomodarti».
Posai la schiena al muro alle mie spalle e scivolai lentamente a terra, pronta a cogliere un qualunque suono proveniente dall'interno.
I minuti scivolarono lentamente via. Tremavo per il gelo e per di più ero costretta a rimanere immobile, quindi mi strinsi nel mantello e mi abbracciai le ginocchia per preservare più tepore possibile. Tuttavia sentivo il freddo della pietra sotto le gambe e ad un certo punto staccai la schiena dal muro per evitare la dispersione di calore.
Dopo un'oretta passata in quella condizione sentii un po' di caldo attraversarmi le membra. Alzai gli occhi sullo Spettro, che era un'ombra nera di fronte a me.
«Grazie» dissi.
Fece un gesto noncurante con la mano, ne intravidi il movimento. «Non mi servi morta assiderata, Principessa».
A mezzanotte suonarono le campane. Un suono cupo, duro e profondo che mi fece sobbalzare sul posto.
Dopo tre rintocchi tacquero e Durza mi posò una mano sul ginocchio per richiamare la mia attenzione.
«Non si sentono i suoni dalla cappella, dovrò fare un incantesimo per ampliare i rumori alle nostre orecchie» mi informò. «Pronta?»
Annuii.
La prima cosa che sentii furono i mormorii supplici: preghiere sussurrate a fior di labbra. Ma c'era qualcosa che non andava..
«Parlano l'antica lingua?» mormorai.
«Ci sono anche parole di lingua urgali e della lingua degli uomini».
«E nanico» aggiunsi.
Durza parve irritato. «Non capisco un'accidente.»
Anche io ero confusa, ma qualcosa percepii lo stesso, tranne le parole in lingua urgali che erano davvero fuori dalla portata delle mie conoscenze.
Stavano implorando e invocando la pietà di un dio. Un dio? Credevo che i Sacerdoti pregassero i Ra'zac, e loro erano decisamente due, quattro con le loro cavalcature, i Lethrblaka.
Poi, dopo le preghiere, passarono a dei lugubri canti, che narravano le vicende di un tale di nome Tosk, che a quanto pareva era il fondatore e teorico della loro religione. Infine conclusero il tutto accennando a diversi meritevoli rappresentanti della loro setta attraverso i secoli.
Erano tutti vaghi accenni, evidentemente davano per scontato che i presenti conoscessero bene ciò di cui parlavano, ma da parte mia le loro parole mi rimanevano oscure.
Poi i canti tacquero e il rumore di passi fece da padrone alla scena. Erano almeno sette persone che camminavano allo stesso lento ritmo in una direzione ben precisa. Poi buona parte del corteo si fermò e solo una persona proseguì, salendo quelle che parevano scale.
«Questa sera» cominciò una voce veemente, «accogliamo tra noi un nuovo fratello. Oggi sei davanti a noi e al nostro Grande e Terribile signore in veste di novizio. Puoi scegliere un nuovo nome per cominciare tra noi la tua nuova vita o mantenere il tuo vecchio, qui non beneficerai del tuo stato sociale, delle tue origini o delle tue ricchezze e nemmeno sarai discriminato per queste».
Una voce tremante si alzò nel silenzio. «Io scelgo Fuilteacha come nuovo nome, spero di essere degno dell'adepto che lo portò in passato».
«Che il Signore supremo ti accolga nella sua famiglia» risposero gli altri in coro.
Il sibilo inequivocabile di una lama piantata nella carne mi fece sobbalzare nuovamente. Dai movimenti indaffarati intuii che qualcuno si stava premurando di raccogliere il sangue sgorgato dalla ferita, probabilmente in un calice, che poi venne portato in direzione del novizio.
«Bevi» disse il sacerdote, «e sarai mondato da ogni colpa, bevi e i tuoi desideri terreni ti saranno strappati in previsione di un più alto compito».
Si sentì un lungo gorgoglio e poi ci fu una lunga attesa.
«Credo che vogliano essere sicuri che non lo vomiti» bisbigliai inorridita.
«Ora» riprese la voce veemente, «è ora di fare la tua prima Donazione, che riconfermerai sotto la dimora terrena del Signore. Questo sarà il tuo primo passo verso la sua immensità».
Si sentii il suono metallico di un pugnale sguainato e poi un improvviso pestare frenetico di piedi.
Durza imprecò oscenamente, poi mi afferrò il gomito e mi trascinò via, giù dallo spiazzo e lungo una delle tante strade che si ramificavano dalla Cattedrale.
«Spettro cosa c'è?» gridai sopra allo scalpiccio del corsa.
«Ho fatto una sciocchezza» rispose. «Ci stanno inseguendo. Corri e basta!»
Lo presi in parola, senza resistere alla tentazione di guardarmi alle spalle qualche volta.
Durza rallentò bruscamente quando passammo di fronte ad un'osteria -ormai nella fascia media della città- raggiungendo un ritmo che almeno apparisse umano.
Sciolsi la presa del gomito dalla stretta ferrea dello Spettro e gli afferrai la spalla. «La nostra locanda è dalla parte opposta!»
«C'è qualcuno dietro di noi?»
«Non mi pare» risposi, spostandomi lontano dalla lanterna che illuminava l'incrocio dove ci eravamo fermati e tirandolo via con me. «Cos'hai combinato?» aggiunsi.
«Te lo spiego quando torniamo all'
Avvoltoio. Se ci torniamo ovviamente».
«Muoviamoci allora».
Cercai con gli occhi le alte guglie della cattedrale per orientarmi e poi mi incamminai per le strade, prevedendo di fare un giro molto ampio intorno ad essa.
Impiegammo quasi un'ora, sussultando ad ogni rumore e cercando di evitare qualunque persona a piedi o a cavallo che incrociasse il nostro cammino.
Quando arrivammo all'
Avvoltoio trovammo la porta chiusa. Lo Spettro si morsicò le labbra e poi bisbigliò una parola per aprirla. Con lo stesso metodo la chiuse alle nostre spalle e mi fece cenno di salire in silenzio le scale.
Solo quando chiudemmo la porta della nostra stanza a chiave e posammo un pannello di legno sulla finestra per sigillarla, cominciai a sentirmi vagamente in salvo, ma la sensazione di inquietudine impiegò parecchio a sparire.
«Non insonorizzo la stanza perché qualcuno potrebbe già rintracciare l'incantesimo che ho fatto sulla porta. Dovremo semplicemente parlare pianissimo» ansimò gettandosi in orizzontale sul letto.
Presi le pietre focaie posate accanto alla stufetta ed accesi una candela, posandola sulla cassettiera accanto al letto. Tutti gesti che servirono a calmarmi e a tirare le somme della situazione.
«Hai fatto qualche incantesimo invasivo e c'erano tra loro dei maghi ti hanno individuato?»
«Non era invasivo» mi assicurò, «ho solo allungato un tentacolo mentale per cercare di percepire il quadro generale della situazione. Mi hanno individuato con una prontezza che non avrei mai creduto possibile. I passi che hai sentito dopo erano di guardie armate, venivano a cercarci».
«Probabilmente saremmo riusciti a cavarcela».
«Non ne avevo la certezza e in ogni caso avremmo attirato parecchia attenzione indesiderata. La fuga era la soluzione migliore, fidati».
«Ci siamo persi il resto del rito, peccato» borbottai sedendomi sul ciglio del materasso.
«Da quello che ho sentito posso provare a dedurre che si trattava probabilmente di privarsi di un arto o di dissanguarsi un braccio o giù di lì».
«Ed è quello che dovremmo fare anche noi per entrare nella loro maledettissima setta?» mi informai allarmata. «Io non vorrei perdere mani, dita o qualunque altra parte del mio corpo. Non è successo in tutti questi anni di battaglie e scaramucce..»
«Ti capisco, non piacerebbe nemmeno a me. Spero che troveremo facilmente un'altra soluzione».
«Dobbiamo almeno osare. Andiamo al loro rito domattina?»
Sospirò. «Sì. Hai ragione tu». Si sfilò gli stivali con un calcio e si tirò a sedere vicino a me.
«Ho un altro dubbio: si sono riferiti ad un dio, ma io credevo che venerassero i Ra'zac, cioè due dei..»
«Credono che sia i Ra'zac sia i loro genitori siano la rappresentazione su questa terra di un'unica divinità e allo stesso tempo sono la divinità stessa. È complicato da spiegare, loro dicono semplicemente che per crederci basta avere fede e allora tutti i sentieri della religione saranno chiari».
«E quale sarebbe questa divinità?»
«La morte».
Ovviamente.
Annuii ma non replicai. «Immagino che il rito non sia molto dopo l'alba».
Si sfilò anche il mantello e lo gettò sugli stivali. «Tanto ci sveglieremo molto prima di tutti gli abitanti. Quando sentiremo il movimento generale verso la cattedrale ci aggregheremo». Fece una pausa. «Adesso vediamo di dormire qualche ora. Io sto sul lato della porta» aggiunse subito.
Gettai un'occhiata critica agli stivali e al mantello abbandonati a terra ai miei piedi e mi alzai per lasciargli la sua metà di materasso. Spensi la candela tra le dita e mi distesi per dormire.
            Quando nel cuore della notte mi riscossi dalla mia visione e trovai gli occhi felini dello Spettro puntati su di me, ebbi l'improvvisa certezza che mi avrebbe costretta a confessargli tutto.
Tuttavia Durza non disse nulla. Mi strinse piano il mento e mi depositò un bacio impercettibile sulle labbra, poi mi lasciò e chiuse gli occhi.
Il battito del mio cuore aumentò ulteriormente, ma dopo qualche minuto si placò.
Forse per quella notte il terrore era finito.

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Capitolo 19
*** Grazie per il tuo sacrificio ***


19. Grazie per il tuo sacrificio

Scendemmo a fare colazione intorno alla sesta ora del mattino. Inutile specificare che ci eravamo svegliati almeno due ore prima, ma ovviamente eravamo rimasti reclusi nella nostra stanza fino a che un po' di movimento non ci aveva rassicurati sulla presenza di altri umani svegli al piano di sotto.
Tornammo a comprare le focacce dal forno dove eravamo passati la mattina precedente e ne prendemmo due a testa, che consumammo mentre ci avviavamo lentamente in direzione della cattedrale, sbuffando nuvolette di calore dalla bocca.
Il sole doveva ancora fare capolino ma un lieve bagliore cominciava a riversarsi sulla città.
Della cattedrale spiccava il pinnacolo più alto -quello della torre campanaria- doveva trovarsi a più di cinquecento piedi da terra per soverchiare di così tanto tutti gli edifici della città. Persino il palazzo del governatore sembrava un cucciolo indifeso vicino ad essa.
Né io né Durza avevamo particolare fretta, quindi potei osservare al meglio i dettagli, mano a mano che ci avvicinavamo, ma l'intera struttura era talmente arzigogolata e complessa che l'impresa mi riusciva impossibile.
Ogni pietra, pilastro, colonna o guglia era tappezzato totalmente di statue ed incisioni, Come se un qualsiasi spazio vuoto potesse spaventare i passanti. Non riuscivo a concentrarmi su una statua che immediatamente ero distratta dalle altre dieci che la circondavano. Quel non riuscire a cogliere il tutto lasciava una sensazione di acuta inquietudine e di piccolezza: ero certa che, anche se fossi rimasta lì seduta per l'eternità, non sarei mai riuscita a memorizzare tutte le decorazioni esterne dell'edificio.
Quando gli uomini erano diventati capaci di produrre tanto orrore e bellezza allo stesso tempo?
«Chiudi la bocca, bellezza» mi canzonò Durza, picchiettando le dita sotto il mio mento.
Gli concessi una smorfia a metà strada tra una richiesta di scuse e il divertito, ma poi tornai alla mia osservazione.
Avevamo ormai raggiunto lo spiazzo davanti alla cattedrale e la solitaria torre campanaria si perdeva nel cielo grigio scuro del mattino. Le guglie che si allungavano verso l'alto erano più basse, ma tutte di altezze diverse, tanto che formavano una foresta attorcigliata.
Non eravamo gli unici che si muovevano verso la struttura: altre persone salivano con solennità le ampie scale che portavano al portale principale, l'unico dei tre ad avere un'anta aperta.
L'acuta strombatura sopra di esso lo incassava nel muro della cattedrale, ma permetteva anche di rappresentare un'ulteriore ciclo di immagini nello spazio reso disponibile. Quindi sopra il portale trovava spazio una lunetta che rappresentava un individuo semi-umano, con ali da pipistrello e due teste con becco da avvoltoio che divoravano dei corpi decisamente umani.
Dalla lunetta fino a terra si allungavano processioni di uomini e donne che facevano da cornice al portale, ognuno scolpito con caratteristiche salienti. Non riconobbi bene i dettagli perché, come al solito, erano troppi da cogliere tutti in una volta, ma intuii che si trattasse di una sorta di rappresentazione di vizi, come mi indicava l'uomo grasso con una coscia di animale in mano -il Goloso-, la donna riccamente vestita -la Scialacquatrice-, un altro uomo con un boccale e il naso grosso -l'Ubriaco- e un'altra donna, formosa, rappresentata nell'atto di togliersi le vesti -la Dissoluta.
Poi fummo esattamente sotto al portale e solo in quell'istante mi resi conto che non era in legno, come avevo creduto la notte precedente, ma in ferro. Una scritta in argento solcava la metà sinistra, ancora chiusa, e rimaneva incompiuta a metà. Probabilmente proseguiva nell'altra anta, al momento spalancata verso l'interno della cattedrale.
Colsi dunque solo qualche frammento: “O tu che varchi.. rammenta la.. e dimentica l'attaccamento..”
Solo quando avevo ormai passato l'uscio realizzai che la scritta non era nella lingua degli uomini, ma nella mia lingua madre.
Lo Spettro si sedette sulla prima panca che trovò alla sua destra, in ultima fila e scivolò lontano dal corridoio centrale. Feci lo stesso, ma non era particolarmente necessario nasconderci: a quell'ora del mattino l'interno spoglio era buio, nonostante le pareti fossero in gran parte composte da vetrate, e c'erano solo due grandi bracieri, per di più posti in corrispondenza dell'altare. Esso era una semplice pietra, come erano in pietra le fredde panche dove eravamo seduti. Se non fosse stato per le grandiose, altissime vetrate e le statue incastrate nelle nicchie delle navate laterali, l'ambiente sarebbe stato poco dissimile da quello di una grotta: grigio e cupo. Persino l'altissima volta a crociera non bastavano a renderlo più sofisticato.
Lentamente, la chiesa si popolò, fino a diventare stracolma di gente, ma la navata era talmente larga e lunga e le panche talmente tante che nessuno rimase in piedi. Notai che le persone più riccamente vestite si addensavano in corrispondenza dell'altare, mentre i più poveri sedevano più vicini all'ingresso.
Ad un certo punto le campane iniziarono a suonare. Sei lugubri rintocchi.
I fedeli caddero tutti in ginocchio sul pavimento levigato e io e Durza ci affrettammo ad imitarli senza farci troppe domane.
Da una porta accanto all'abside triangolare comparvero gli Avvoltoi nelle loro lunghe vesti nere, seguiti da una fila di uomini vestiti di quello che pareva un rozzo sacco di iuta stretto in vita da una catena di ferro. Non li seppi collocare all'interno della scena, quindi tolsi l'attenzione da loro e la riportai sui sacerdoti, che si stavano disponendo ordinatamente intorno al rozzo altare di pietra.
Uno di loro si pose però davanti ad esso e allungando al cielo le braccia -o almeno, il braccio, dato che la manica sinistra penzolò vuota fino all'altezza del gomito- parlò con voce tonante, che riecheggiò alla perfezione tra le pareti:
«Il Signore supremo ci dona questo giorno, come ulteriore occasione di rendere omaggio alla sua forza. Siate i benvenuti, tutti voi».
«Fuori i pensieri, dentro i misteri» rispose il coro cantilenante dei fedeli, alzandosi da terra e accomodandosi a sedere.
Mossi le labbra per dare almeno la parvenza di saper seguire il loro rito.
Ripensai alle incisioni in argento sul portale e alle parole appena pronunciate: probabilmente era una sorta di dichiarazione. Essi assicuravano che la loro vita, le loro paure e sofferenze sarebbero rimaste fuori da quelle mura, così da potersi dedicare appieno all'adorazione del loro Dio.
«Prima di cominciare con le preghiere voglio presentare a questa congregazione il nuovo membro che si è ormai unito alla nostra fratellanza. Fuilteacha ha già eseguito i primi passi e tra un paio di giorni diventerà ufficialmente carne di Dio».
«Che il Signore Supremo ti accolga nella sua famiglia» replicò il coro, mentre un giovane robusto, pallidissimo e con occhi e capelli scuri si faceva avanti fino a raggiungere il sacerdote senza braccio. Indossava una veste dorata e il colore fulgido contrastava terribilmente con il nero lucido di quella in pelle dell'Avvoltoio.
Così quello era il tizio che si era bevuto una coppa di sangue non troppe ore prima. Chissà cos'altro era stato costretto a fare per entrare in quella setta agghiacciante..
Non avevo ancora finito il pensiero che l'uomo arrotolò le larghe maniche della veste fino alle spalle, scoprendo bende macchiate di sangue legate strette all'altezza dei polsi.
Ecco cos'era stato il suono metallico di pugnale sguainato che avevo sentito la notte precedente, prima che Durza mi trascinasse via.. La Donazione consisteva probabilmente nel fare cadere qualche goccia del proprio sangue dai polsi.
Questo lo posso fare, pensai. Non era nulla in confronto all'idea di perdere un arto.
Il novizio sciolse le bende con le mani che tremavano penosamente e, quando finalmente ci riuscì, le distese con incredibile deferenza sull'altare. Qualche goccia di sangue stillò dalle ferite e cadde sulla pietra insieme alla stoffa.
«Siete tutti testimoni davanti a Dio» riprese il sacerdote senza braccio, «della Donazione che questo suo adoratore ha compiuto per lui».
«Lo testimonieremo davanti agli abissi» dissero i fedeli.
Continuai a muovere le labbra nella mia recita e vidi lo Spettro fare lo stesso, ma vidi anche la sua fronte corrugata. Con un lento movimento, quasi impercettibile nella penombra, frugò nelle piccole bisacce che portava a cintura e si portò qualcosa alla bocca.
Per poco non gli diedi uno scappellotto. Gli sembrava il momento giusto per mangiare?
A parte il fatto che lo spettacolo che avevo di fronte dava la nausea.. e poi probabilmente non era considerato educato mangiare alla presenza di “carne di Dio” o come cavolo si auto-definivano i Sacerdoti, e per di più in mezzo ad un rito che si presupponeva fosse sacro.
Continuai ad inveire mentalmente nella sua direzione, fino a che l'odore di menta non mi pizzicò le narici ed ebbi la tentazione di scoppiare a ridere. Durza masticava le sue foglie di menta con la stessa assiduità e passione con cui Brom fumava la sua pipa.
Il sole doveva essere sorto, ormai, perché un debole raggio colpì il grande rosone della contro-facciata e un fascio di luce piovve dolcemente sulla navata centrale, tra le due fitte file di panche.
«Ora possiamo proseguire con la nostra cerimonia. In onore del nostro nuovo fratello, Fuilteacha, dedicheremo i canti all'uomo che in passato portò il suo stesso nome».
Poi cominciarono a cantare tutti insieme, in quella strana babele di lingue che avevo già sentito la sera prima. Non ne ero certa, ma i concetti espressi mi parevano esattamente gli stessi.
In tutto quel passaggio i fedeli seduti alle panche se ne stettero immobili, a capo chino, senza dare cenno né di capire né di ignorare totalmente quella cantilena. Forse non sapevano il vero significato, ma ormai ne erano avvezzi e quindi la reputavano normale.
L'intera orazione non durò a lungo, al massimo dieci minuti, e fu seguita da una nuova orazione del sacerdote senza braccio.
«Fedeli del solo, Potente e Terribile Signore, recitiamo insieme le Verità che egli dettò alla sua carne, l'Irraggiungibile Tosk, nella notte dei tempi». Fece una lunga pausa e allungò nuovamente il braccio e il moncherino al cielo. «Per primo, Dio stabilì la sua assoluta e unica presenza nell'universo».
«Così sia» risposero i fedeli.
«Come seconda Verità Egli stabilì che l'uomo avrebbe popolato la terra, impegnandosi per servirlo e ricompensarlo del dono della vita».
«Così sia».
«Come terza Verità Egli stabilì che alcuni uomini sarebbero stati eletti a suoi più stretti servitori».
«Così sia».
«Come quarta Verità Egli stabilì che questi suoi servitori fossero suoi sacerdoti e saziassero la sua fame sulla terra con l'offerta della propria carne».
«Così sia».
«Come quinta Verità Egli stabilì che i suoi sacerdoti diffondessero il suo credo nel mondo».
«Così sia».
«Come sesta Verità Egli stabilì che l'uomo avrebbe vissuto un ciclo di anni non superiore ai cento».
«Così sia».
«Come settima Verità, Egli stabilì che chiunque forzasse il limite di anni stabilito gli fosse nemico».
«Così sia».
Quindi Durza, io, tutti gli Elfi, i Nani, i Draghi, persino il re in persona, che era cavaliere, eravamo considerati nemici della loro religione. Mi parve strano che Galbatorix permettesse il diffondersi di un simile credo.
«Come ottava Verità Egli stabilì che i nemici della sua chiesa erano da combattere».
«Così sia».
«Come nona Verità Egli stabilì una ricompensa per chiunque gli offra la carne del suo nemico».
Rabbrividii.
«Così sia».
«Come decima Verità Egli stabilì la condanna dell'Abisso a chiunque neghi la sua grandezza».
«Così sia».
«Come undicesima Verità Egli stabilì lo Sterminato Riposo per chiunque l'avesse onorato in vita».
«Così sia».
«Come dodicesima Verità Egli proibì il contatto anche solo più lontano con l'Illusionista, l'enigmatico, il protettore dell'equilibrio, il multiforme che trova la vita nella morte e che non teme alcun male; colui che cammina attraverso le porte. Il dio che solitario che, alla deriva sul mare del tempo, vaga da sponda a sponda, custode delle leggi delle stelle».
«Così sia».
La risposta venne spontanea dalla folla, ma io ero rimasta bloccata sull'ultima Verità, perché era l'unica delle dodici che non avevo capito per nulla. E mentre i sacerdoti tornavano a cantilenare in gloria al loro dio nella cacofonia di lingue mischiate -e sopratutto pronunce nell'antica lingua così sbagliate che sentivo il bisogno quasi fisico di correggerle- io mi concentrai su quelle ultime parole, che parevano davvero prive di senso, nel tentativo di sciogliere l'enigma, invano.
Tornai alla realtà quando il sacerdote passò nuovamente alla lingua degli uomini. Tuttavia lo ritrovai con le spalle rivolte alla platea, girato in direzione dell'altare e dei suoi fratelli.
«Per affermare e confermare la nostra devozione al Triumvirato recitate con me i Nove Giuramenti». E da quel preciso istante tutti gli uomini in nero si unirono al suo discorso. «In nome di Gorm, Ilda e Angvara il Crudele, giuriamo di rendere omaggio almeno tre volte al mese, nell'ora che precede il crepuscolo e di offrire parte di noi stessi per soddisfare la fame perenne del nostro Grande e Terribile Signore. Giuriamo di osservare i comandamenti del libro di Tosk, giuriamo di portare sempre il Bregnir sul nostro corpo e di astenerci dal dodicesimo dei dodici e dal tocco di una corda annodata, affinché non corrompa il nostro ordine e la nostra purezza di fronte a Dio. Giuriamo di combattere i Suoi nemici e di difendere la Sua gloria, giuriamo di non abbandonare mai il cammino che Egli ci ha indicato».
Ci fu un lungo momento di silenzio e tutti i fedeli chinarono rispettosamente il capo.
Poi, sempre con voce cantilenante ma in lingua corrente, i sacerdoti, compresi gli uomini con la catena in vita che erano in piedi dietro di loro, iniziarono a narrare la vita di Fuilteacha e anche parte dei fedeli si unì al coro, anche se era chiaro come il sole che non tutti conoscessero bene le parole.
Il canto era ovviamente un riassunto molto succinto, ma nonostante questo agghiacciante: a quanto pareva Fuilteacha era vissuto trecento anni prima -quando mio padre regnava ancora sugli Elfi dunque- ed era considerato uno dei più grandi predicatori della loro religione. L'uomo aveva lentamente donato ogni più piccola parte del suo corpo, fino ad immolare se stesso alle pendici del monte Helgrind, alla giovane età di trentatré primavere.
Al termine del canto il sacerdote senza braccia tornò all'altare, sfregò con forza la sua unica mano sul bordo di esso e la mostrò, lievemente ferita, alla folla.
«Dio apprezza ogni più piccolo sacrificio che sarete in grado di offrirgli. Seguite le sue Verità e le cose che desiderate e bramate vi saranno concesse come ricompensa per la vostra obbedienza.. Il rito è concluso. Mentre uscite accettate il Segno, e che il Signore vi protegga sotto le sue ali».
«Eterna gloria a lui» fu la replica generale.
Tutto qui?
Mi aspettavo bagni i sangue, sacrifici umani e dita mozzate sull'altare.
I tre portoni furono spalancati dagli uomini vestiti di sacco con la catena e due sacerdoti per portone si posero sugli usci, con una ciotola preziosamente incastonata di gemme tra le mani.
Altroché tutto lì, il bello a quanto pareva doveva ancora venire.
Cercai il consenso di Durza -che annuì- e mi avviai dal portone alla mia sinistra, premurandomi di fare passare altre persone prima di me.
La gente veniva semplicemente toccata sulla guancia e rispondeva con un: «Grazie per il tuo sacrificio».
Quando fummo più vicini sentii l'odore metallico del sangue e fu ovvio cosa contenessero quelle stupende ciotole. Tuttavia nascosi il mio turbamento quando le unghie dell'Avvoltoio mi solcarono delicatamente la pelle dall'occhio alla mascella, sporcandomi orrendamente il viso.
«Grazie per il tuo sacrificio» dissi con la voce più dolce che riuscii ad impormi.
Poi passai avanti. E vidi una donna, ferma sulle scalinate della cattedrale ad almeno quattro iarde da me, che mi fissava intensamente, con gli occhi grandissimi, scuri, inquieti. Sembravano occhi di un lupo braccato.
«Hai uno strano accento» disse sottovoce.
Così piano che probabilmente se fossi stata umana non avrei nemmeno dovuto sentirlo.
Motivo per cui mi fu facile fingere di non averlo fatto. Mi voltai verso Durza, che usciva in quel momento dalla chiesa, e gli sorrisi. Lo Spettro -la guancia macabramente segnata di sangue- parve capire immediatamente che qualcosa non andava. Mi afferrò una mano e iniziò a parlare del nome da dare al nostro presunto bambino.
«Potremmo chiamarlo Haeg, che dici? Se mi somiglia Haeg è indubbiamente il nome giusto».
Scendemmo rapidamente le scale, passando accanto alla donna con gli occhi da lupo, che ancora mi fissava, immobile in mezzo alla folla che si dileguava.
«Peccato che sarà sicuramente una femmina» risposi a voce alta, inscenando una risata.
«In quel caso la chiameremo Rahi!»
Arrivammo in fondo alle scale e proseguimmo in direzione opposta alla nostra locanda, di nuovo.
«Scusa ma della mia opinione non ti importa?»
Durza rise più forte di quanto avessi fatto io e si chinò a darmi un bacio sulla tempia. «Dobbiamo continuare?» bisbigliò.
Gettai un'occhiata alle mie spalle. La donna dagli occhi di lupo era sparita.
«No» lo rassicurai.
«Bene». Continuò a camminare, accarezzando piano le vene del mio polso, che tremavano al battito accelerato del mio cuore.
«C'era una donna che mi guardava fisso. Ha detto che ho uno strano accento, ma lo ha detto pianissimo.. e poi ha continuato a fissarmi, anche quando sei arrivato tu» spiegai a voce bassissima.
Lo Spettro grugnì in segno di assenso. «Dannazione, spero non sia nessuno di importante. Non l'ho vista, com'era? Bassa e con i capelli scuri e ricci?»
«No statura media, capelli lisci e dritti, ed enormi occhi scuri».
Sospirò sollevato. «Meno male. Senti probabilmente non era nessuno, solo una tizia sorpresa dal tuo accento esotico».
«La mia pronuncia è impeccabile» ribattei.
«Sì, ma una lieve inflessione rimane, Principessa. Per niente spiacevole, ma c'è».
Oh beh, quello non me lo aveva ancora rimproverato nessuno. «Quindi?»
Sollevò le spalle ed ispirò allegramente l'aria del mattino. La funzione era durata circa mezzora e il sole stava ancora finendo di sorgere.
«Quindi niente» mi rispose Durza, «direi che puoi stare tranquilla».
«Torniamo alla locanda?» chiesi titubante.
La giornata era ancora lunga, ma né io né lo Spettro ci eravamo sentiti in grado di avvicinare un sacerdote dopo essere entrati meglio nell'ottica del loro credo religioso, quindi probabilmente avremmo passato quel giorno con le mani in mano, fino a che non si fosse fatta sera, e poi ci saremmo nuovamente recati al rito serale.
Un intero giorno con le mani in mano, dopo tutte quelle giornate di piena attività, sarebbe stata un incubo.
Ma Durza mi sorprese con la sua risposta: «Va' pure se vuoi, io devo uscire per qualche ora da Dras-Leona». E mentre mi rispondeva continuava a camminare noncurante in direzione della porta esterna, sempre con le dita tese a sfiorare la pelle del mio braccio.
Mi irrigidii. «L'ultima volta che mi hai lasciata sola
qualche ora a Taurida..»
«Stai tranquilla, non devo fare nulla del genere».
«E cosa dovresti fare invece?»
Voltò il viso nella mia direzione e mi sorrise con aria di sfida. «Voglio fare un bagno nel lago e togliermi un po' di sporcizia di dosso. Se non ti fidi di me,
amore mio, puoi sempre venire a farmi compagnia, ti assicuro che la cosa non mi dispiacerebbe».
Incassai la frecciatina con dignità. «Credo che io resterò a farmi un bagno alla locanda. Non faranno obiezioni se chiederò loro dell'acqua calda per la tinozza che abbiamo in camera».
Il sorriso di Durza si allargò e il suo tono si fece sempre più sarcastico .«Insisto, non vorrai scomodare quella povera gente, che lavora da mattina a sera spaccandosi le ossa..»
«È il loro lavoro dopotutto, li stai anche pagando».
Sogghignando, lo Spettro rinunciò a convincermi e si fermò, lasciandomi finalmente il polso.
«Tieni». Mi porse una piccola borsa di denaro. «Non hai l'aria di una sperperatrice, quindi mi sembra inutile chiederti di non spenderli tutti. Sta' attenta ai borseggiatori e non mostrare troppo il tuo denaro in giro».
Battei le palpebre. «Mi stai prendendo in giro?» Mi reputava davvero così sciocca?
Si strinse nelle spalle. «Non ti conosco così bene, Arya, o almeno non so come ti comporteresti in una vita normale. Posso azzardare l'ipotesi che non ti piacciano le gonne, ma non provare a comprarti un paio di pantaloni o giuro che ti annego nelle fogne».
Non era chiaramente una minaccia. Durza si stava divertendo un mondo e basta.
«Credo che comprerò del sapone» risposi serafica, prendendo la borsa di denaro dalle sue mani e facendola sparire sotto il mantello.
«Nel caso ti imbattessi in uno speziale o in un erborista comprami anche delle foglie di menta. Fresche, mi raccomando!»
Feci una sorta di sbuffo divertito. «Non sono davvero tua moglie, sai?»
«Lo so» disse con voce melliflua, sfilandosi qualcosa dal collo: la chiave della nostra stanza, legata ad uno spago.
Me la passò sulla testa e sfilò la treccia da sotto il cordino, poi accompagnò la chiave sotto il mantello, fino alla scollatura del mio vestito e ve la fece sparire. La sua mano a contatto con la mia pelle nuda era gelida e decisamente indiscreta, mentre la chiave, che aveva ormai raggiunto l'altezza del cuore, era ancora pregna del suo calore.
Qualcosa che somigliava vergognosamente ad un tremito -e decisamente non di disgusto- mi squassò le membra.
«Non perdere nemmeno questa» bisbigliò, mantenendo il tono mellifluo e prolungando più del dovuto la carezza sul mio collo.
L'odore di menta mi soffiò in faccia. «V-va bene».
«Ah e non mi mordere, per favore». Fece un'ultima risatina, prima di spegnerla sulle mie labbra.
Fu lui a mordermi invece, ma piano, in maniera piacevole. Lo baciai per prima e lui mi rispose per qualche lungo, intenso istante.
Durza si scostò con un'espressione quasi beata, condita da una buona dose di malizia.
Un po' punta nell'orgoglio per il fatto di avergli ceduto tanto facilmente, mi affrettai ad andarmene, dopo avergli rivolto un frettoloso saluto.
Quando mi leccai le labbra seccate dal freddo vi ritrovai il sapore di menta.
            Vagai a caso per qualche minuto, poi mi decisi a fermare una donna e chiederle se sapesse indicarmi la bottega di un erborista.
«Ti ci porto, devo passare giusto da lì!»
Sorrisi. «Grazie».
Ripassai mentalmente le regole di un buon essere umano: mezzi ciechi, mezzi sordi e lenti nei movimenti.
«Abiti a Dras-Leona?» mi chiese, squadrandomi e cominciando a camminare.
A mia volta squadrai i suoi stracci e colsi un'ombra di invidia nel suo volto. Del resto io ero vestita come una donna semi-agiata e avevo un mantello pesante e stivali nuovi.
D'istinto, mi feci più guardinga, quella donna poteva essere benissimo una ladra, la povertà poteva fare questo alle persone. E anche la disperazione.
«Sono di Teirm. Io e mio marito vorremmo trasferirci qui, credo che resteremo un po' di tempo per ambientarci in città e poi torneremo a Teirm a prendere le nostre cose».
«Si sente che sei straniera, hai uno strano accento».
E due.
Alzò una mano all'altezza del mio mento. «Sei credente».
Mi toccai la guancia, sentendo sotto le dita il sangue secco. Me ne ero totalmente scordata.
«A dire il vero» risposi cautamente, «quella di oggi era la mia prima funzione. Mio suocero era credente e prima di morire ha chiesto a mio marito di convertirsi a sua volta».
«Oh! All'inizio è un po' strano sai? La mia famiglia ha cominciato a partecipare ai riti quando io avevo dodici primavere. Ero spaventata da quello che dicevano e facevano i sacerdoti all'altare». Rise con leggerezza. «Dopo ho capito che non era nulla di male ovviamente».
«E sei diventata credente partecipando semplicemente alle funzioni?»
Mi guardò come se fossi spuntata davanti al suo naso come un fungo velenoso. «No, devi chiedere ai monaci».
«I monaci?»
«Sì. Sono vestiti con un sacco chiuso da una catena, dovresti averli visti al rito!»
«Li ho visti infatti» confermai.
«Loro sono una guida per tutti quelli che si avvicinano alla religione. Tu e tuo marito dovreste chiedere a loro se volete che Dio vi riconosca».
«Ti ringrazio» dissi un po' imbarazzata, consapevole di camminare su un terreno spinoso. «Sei sposata?» cambiai discorso.
«Sì e ho tre figli» rispose contenta. «Ma di bambini ne ho visti parecchi, sono levatrice!»
«Davvero?»
«Sì, è per questo che vado dall'erborista, devo comprare dei semi di papavero per una donna che soffre di dolori da dopo-parto». Mi guardò «Tu hai figli?»
Ahi, di nuovo spine. «Aspetto il mio primo» mentii con disinvoltura. «Sono solo al secondo mese però».
«Dovresti trattarti meglio, il pallore e le occhiaie non sono mai un buon segno» osservò con un tono di scuse.
Mi sforzai di ridere. «Hai ragione, avrò più cura di me d'ora in poi».
«Senti già le nausee o dei dolori?»
«No, sono stata fortunata. Nessun fastidio e nessun dolore, se non fosse stato per il sangue interrotto e il seno più gonfio non me ne sarei mai accorta».
Ringraziai mentalmente il mio buonsenso giovanile -che mi aveva spinta a studiare parecchio- e la mia abitudine di portare con me libri e pergamene durante i lunghi viaggi. Avevo letto un'infinità di trattati su tantissimi ambiti e le gravidanze erano uno di quelli. Per di più in quindici anni avevo aiutato a far nascere quattro bambini tra i Varden: il processo di gravidanza e del parto era lo stesso sia tra gli uomini che tra gli elfi -tranne per il fatto che gli elfi soffrivano molto meno- e la mia magia arrivava dove l'abilità delle levatrici umane non poteva.
La donna parve soddisfatta dalle mie risposte e mi chiese che lavoro facessi. Dissi che mio marito era un mercante e che io mi occupavo della casa.
Inventai un dettaglio della mia vita dietro l'altro, chiedendomi se per caso il fantomatico erborista abitasse ai confini del mondo. Quando ebbi finito di descriverle il mio ipotetico cane -animali chiassosi che tra l'altro non erano tra i miei preferiti- arrivammo finalmente in vista di una piccolissima bottega, estesa in gran parte sul marciapiede, ricolma di contenitori, piante e tutto ciò che ci si aspetta di trovare da un erborista.
L'erborista in questione era un vecchio canuto dall'aria gentile, intento a macinare qualcosa con un pestello su un tavolinetto di legno. Quando ci vide ci accolse con un sorriso.
«Svella! Come stai?»
«D'incanto, Gamall . È nato anche l'ultimo piccolo che stavo seguendo, ma la madre è stremata e non riesce nemmeno a riposare. Hai dei semi di papavero?»
L'ometto scomparve tra scaffali e sacchi e riemerse con un pugno di semini neri, che arrotolò in uno straccio e porse alla donna.
«Cosa posso fare per te, ragazza?» mi chiese poi.
«Ho bisogno di diverse cose» dissi gettando un'occhiata al piccolo locale. «Un pezzo di sapone prima di tutto, poi un poco di cera d'api e di olio di noci».
Il vecchio tornò con un bel pezzo di sapone grande quanto il mio palmo, una scatola di legno piena di cera d'api e una grande boccia che doveva contenere l'olio di noci.
«Dimmi tu esattamente quanto ne vuoi» disse tirando fuori una bottiglietta di vetro e versandoci lentamente l'olio.
Lo fermai quando il livello era salito a circa due dita.
«E di cera d'api?»
«La quantità che starebbe nell'incavo del mio palmo» lo istruii mostrandogli la mano.
L'uomo eseguì e tirò fuori un'altra scatoletta per metterci la cera.
Accarezzai la borsa di denaro che tenevo sotto il mantello ed estrassi qualche corona, poi mi ricordai all'ultimo istante della menta per Durza.
L'uomo mi guardò un po' confuso. «Foglie di menta fresche? Cosa devi farci? Per le tisane si usano le foglie secche di solito».
«Impacchi per mio marito» risposi asciutta, chiarendo che non intendevo approfondire la questione.
Lo pagai, un po' a disagio nel maneggiare del denaro e presi le mie cose. A quel punto avrei voluto allontanarmi immediatamente, ma la donna riprese a parlarmi.
«Se tornerai alla funzione stasera ci vedremo» esclamò allegramente.
Era l'ultima cosa che volevo, ma con tutta la folla che riempiva la cattedrale era alquanto improbabile che succedesse.
Mi sorprese il vecchio erborista, che replicò con voce carica di disprezzo: «Non entrare anche tu tra quei sanguinari, la loro religione è una farsa».
La donna reagì indignata. «Gamall cosa dici? Dio ti punirà nell'abisso per queste parole».
«Certo, che faccia pure. Io sono una brava persona e certamente non mi merito una punizione».
«Sei una brava persona» confermò la donna, «ma il Signore Supremo non ha pietà dei miscredenti. Perché non ti unisci semplicemente alla comunità? E smetti di dire queste cose ad alta voce, non diventerai molto popolare..»
«Questa religione è seguita da un popolo di disperati. Non ho alcuna intenzione di inchinarmi davanti ad un'idea, le idee non ti danno da mangiare e non ti tengono lontana la morte».
«Ma Dio è
reale» insistette la donna.
«Però il nostro sovrano sembra più potente di lui, dato che qui fa il bello e il cattivo tempo».
La donna si afferrò il volto disperata e scosse con convinzione la testa. «Ora ti comporti anche da ribelle? Sei troppo vecchio per esporti così, qualcuno potrebbe farti del male».
L'erborista si strinse nelle spalle. «Che facciano pure, ormai abbiamo toccato il fondo».
La donna mi guardò tristemente. «Faresti meglio ad andare. Queste parole nuoceranno al tuo bambino».
Annuii dubbiosa, salutai entrambi e li ringraziai.
Mentre mi allontanavo sentivo ancora il vecchio inveire contro i falsi dei che possedevano la città. A quanto pareva l'aderenza alla religione non era così unanime come credevo.
Bene, mi sembrava che il mio primo vero approccio con degli umani fosse andato liscio, e per di più avevo scoperto un'altra cosetta sulla religione dell'Helgrind: il metodo giusto per farvi parte.
            Quando finalmente tornai alla locanda era trascorsa più di un'ora da quando avevo salutato lo Spettro.
Chiesi alla ragazza che stava spazzando il pavimento se poteva scaldarmi dell'acqua per fare il bagno e le misi in mano qualche moneta per ringraziarla del disturbo.
Poi salii al terzo piano, recuperai la chiave da sotto il vestito ed entrai in camera. Mentre aspettavo che la ragazza mi chiamasse, presi l'olio di noci e lo versai dolcemente nella scatolina con la cera d'api, poi impastai il tutto con le dita. Forse era un po' rozzo come procedimento, ma avevo ottenuto una mia piccola riserva di Nalgask da spalmare sulle labbra: non ne potevo più di sentirle spaccate dal gelo.
Riposi il tutto sulla cassettiera accanto al letto e controllai che le spade mia e di Durza fossero ancora nascoste sotto il materasso. Tutto a posto.
Sganciai la cintura con le bisacce e il pugnale, mi tolsi il mantello.. insomma mi misi comoda.
Poi sentii passi pesanti su per le scale e, dopo qualche minuto di esitazione mi affacciai per controllare chi fosse. Mi imbattei nella servetta che trascinava un pentolone di acqua su per le rampe.
«Dovevi chiamarmi, sarei venuta ad aiutarti!» esclamai automaticamente, scendendo rapidamente le scale per andarle incontro. Troppo rapidamente.
Ma per fortuna la ragazza non mi stava guardando. «Mi hai pagata» ansimò, «e poi mi hanno detto che aspetti un bambino, quindi ho pensato che non dovevi fare fatica».
Accidenti, aspettare un bambino sembrava un'attività pericolosissima tra gli uomini.
La convinsi a farsi aiutare. Il pentolone di rame non era pesante quanto pensavo, ma probabilmente per una donna lo era, quindi finsi di faticare almeno quanto lei. Quando ebbe versato tutta l'acqua la ringraziai e non appena uscì chiusi la porta a chiave.
La tinozza era poco più alta di una iarda da terra, di forma ovale, ma comunque piccola. Dovetti lavarmi tenendo le gambe piegate quasi al petto: uno dei bagni più scomodi della mia vita.
Tuttavia mi fece davvero bene togliermi tutta quella sporcizia e quel luridume dalla pelle e dai capelli, tanto che dopo mi prese una sensazione simile alla sonnolenza e rimasi immersa nell'acqua a lungo, con gli occhi socchiusi e i pensieri che viaggiavano.
L'acqua era ormai diventata fredda quando sentii i passi di Durza sul pianerottolo. Fece per spingere la porta ma la trovò chiusa.
«Bitr? Posso entrare?»
Mi riscossi. «Te provaci e io mi assicurerò che tu non possa lasciare eredi su questa terra».
Sentii la sua risata fragorosa scoppiare come un tuono, poi lo scricchiolio della porta quando vi si appoggiò con la schiena.
«Sai mi è appena venuto un dubbio» disse poi a voce bassa.
«Cosa?»
«Se io avessi uno specchio o una qualsiasi superficie riflettente e poi provassi a..» fece una pausa, «non so, a divinarti?»
Mi affrettai ad allungare una mano in direzione di una coperta. «Non oserai».
Rise di nuovo. «Rispondimi: che cosa vedrei?»
«Sarà l'ultima cosa che vedrai se osi farlo». Uscii dall'acqua e mi ci avvolsi.
«Allora muoviti a ricomporti, purtroppo sono poco paziente e molto curioso».
Mi asciugai, avvolsi i capelli gocciolanti nella coperta e indossai un abito pulito di riserva che avevo con me da Gil'ead. Il tutto tremando violentemente: non mi ero resa conto di avere preso tanto freddo immersa nell'acqua non più calda.
Aprii la porta. Durza aveva i capelli puliti e spettinati, ma asciutti.
I vantaggi innegabili di poter usare la magia: scaldare una porzione d'acqua, asciugarsi i capelli con un gesto.. potevo andare avanti per giorni.
Lo Spettro mi gettò un'occhiata. «Sembri un'abitante del deserto di Hadarac conciata così.»
Toccai la coperta che avevo avvolto intorno alla testa. «Ti ringrazio» dissi, senza sapere bene se la sua fosse un'offesa o meno.
Andai a nascondermi sotto le coperte imbottite del letto per scaldarmi un poco.
Durza chiuse nuovamente la stanza a chiave e riempì di legna la stufetta. Io ovviamente non lo avevo fatto, mi ero crogiolata nel calore del bagno fino a perdere la percezione della realtà.
«Allora Principessa? Hai scialacquato tutto il mio denaro?»
«La tua menta è sulla cassettiera» borbottai.
«Sei un tesoro». Arraffò una fogliolina e la masticò.
«Sì, lo so. E lo era anche la donna che mi ha portato fino dall'erborista..»
Sedette sul letto. «Hai avuto problemi?»
«No, fammi finire.. Mi ha spiegato che quegli uomini con la catena in vita che erano stamattina alla funzione sono quelli che si occupano dei conversi. Insomma dovremmo chiedere a loro per farci inserire tra i credenti prima, e tra i sacerdoti poi».
«Mi ero chiesto chi fossero.. sembrano sacerdoti pure loro ma non ne sono certo, stavano dietro gli Avvoltoi e non sembravano più attivi della plebe nel rito».
«Non so nemmeno io chi siano, la donna li ha chiamati monaci e a quanto pare dovremo parlare con loro».
«E allora lo faremo».
«Stasera?»
Gemette. «No, ti prego, troppe cose tutte assieme. Aspettiamo almeno domani».
«Va bene» acconsentii, sgusciando fuori dal letto e avvicinandomi alla stufa per asciugarmi i capelli.
Una ventata bollente mi avvolse con violenza, strappandomi un grido sorpreso e asciugando in un lampo ogni pollice del mio corpo. Era indubbiamente una magia.
Mi girai in direzione di Durza -che stava nuovamente ridendo senza ritegno- e resistetti alla tentazione di saltargli addosso e prenderlo a pugni.
«Bastava avvisarmi!» ringhiai irata. «La minaccia alla tua virilità è ancora valida, Spettro!»
Alzò i palmi in segno di resa. «Non arrabbiarti, volevo solo riscaldarti» concluse in tono sensuale.
Mi morsicai le labbra. «Vado a prendere un secchio per svuotare la tinozza» dissi poi.
O ti uccido, aggiunsi tra me e me.
«Vuoi una mano?»
«No».
Mi seguì lo stesso. Prendemmo un secchio a testa dalla cucina e svuotammo l'acqua in strada.
Poi, di comune accordo, andammo a mangiare in un'osteria non troppo lontana. Il cibo era stranamente delizioso e mangiai almeno tre tortine dolci alle mele. La birra non era da meno e per una volta ci concedemmo di bere qualcosa di diverso da una brocca d'acqua.
Tornammo all'Avvoltoio un po' su di giri, ma comunque lucidi, e salimmo in camera, dove avremmo semplicemente aspettato che si facesse sera per tornare alla funzione.
Tutto ad un tratto mi venne voglia di conversare.
«Te hai capito cosa significava la dodicesima Verità di stamattina?»
«La cosa?» biascicò stendendo un braccio sopra agli occhi.
Era supino sul materasso, mentre io stavo riordinando il mio zaino e le mie bisacce, seduta accanto alla cassettiera.
«Sei
così ubriaco Spettro?»
«No, ma non me la ricordo. Forse è quella che non ho capito neanche io».
«Parlava di un illusionista, multiforme, un dio solitario che viaggia da sponda a sponda, che apre le porte.. qualcosa del genere».
«Hai buona memoria».
«E tu una buona parlantina.. Era quella allora?» insistetti.
«Sì». Si puntellò sui gomiti e mi guardò. «Non potrebbe riferirsi ai draghi vero?»
Ci pensai su. «Dio solitario? Non credo..»
«Loro tendono ad unificare diversi concetti in uno unico, come hanno fatto con i Ra'zac, ai quali si riferiscono come un unico dio, quindi potrebbero benissimo parlare dell'ordine dei cavalieri in generale».
Esitai. «Non mi sembra coerente. Dopo presterò più attenzione, ma non ci scommetterei».
Dopo quel breve scambio Durza parve rabbuiarsi. Tacque a lungo e divenne pensieroso. Quando si alzò sembrava addirittura in imbarazzo, a disagio.
Afferrò una bisaccia dalla cassettiera e la aprì, probabilmente alla ricerca di altra menta. Peccato che avesse sbagliato bisaccia.
«Durza quella è la mia!» esclamai.
Ma quando mi tirai in piedi era troppo tardi.
Lo Spettro teneva in mano una piccolissima fialetta contenente un liquido nero. Feci per strappargliela di mano, ma si voltò e la stappò in un istante.
L'odore amaro giunse anche alle mie narici.
«Veleno» sentenziò con voce gelida.
Mi sentii precipitare. Abbassai la testa e aspettai che tornasse a parlare.
Ero stata una sciocca. Avevo sfilato la boccetta di Fricai Andlat dallo stivale quando eravamo arrivati a Taurida e l'avevo messa nella piccola sacca che tenevo in vita insieme alla borraccia e i fazzoletti di lino. Non avrei mai pensato che Durza avrebbe finito per trovarla.
Non ero pronta ad inventarmi delle spiegazioni, anche perché non ce n'erano di possibili. A meno che non volessi negare di sapere della presenza del veleno tra le mie cose, ma la mia reazione era stata più che rivelatrice.
Lo Spettro poggiò con delicatezza la fiala sulla cassettiera, mi afferrò le spalle con violenza e mi trascinò a sedere sul letto di fronte a lui.
Mi stava facendo male, ma preferii stare zitta.
Quando tornò a parlare lo fece nell'antica lingua. «Era per me?»
«No» risposi sinceramente.
Si rilassò visibilmente e le sue dita si allentarono. «Per te?»
Colsi l'occasione per sviare il discorso da come, dove e quando mi fossi procurata il Fricai Andlat, e conseguentemente di non riportare la discussione sull'argomento “Alba”, che a quanto pareva era abbastanza scottante.
Lasciai che le lacrime mi annebbiassero gli occhi e risposi con un flebile: «Sì».
L'espressione dura di Durza si addolcì ulteriormente e la stretta sulle mie spalle diventò una carezza. «Per quale motivo?»
«Se Galbatorix mi trovasse e mi catturasse.. Non voglio finire viva nelle sue mani».
Ed era effettivamente parte della verità. Non potevo certamente dirgli che conservavo quel veleno nel caso lui avesse deciso di tradirmi, e ancor meno confessare che era stata la sua cameriera a mettermelo tra le mani.
Sospirò profondamente. «Mi hai fatto prendere un accidente, Arya» disse tornando alla lingua degli uomini.
Lo guardai confusa. «Perché? Ho giurato che non ti avrei tradito, ricordi?»
«Sul tuo onore.. ma magari eri disposta a sacrificare il tuo onore per levarmi di mezzo.. In realtà io..»
Lasciò il discorso a metà e sentii nell'aria il peso grave delle parole non dette. Parole che non avrei mai potuto indovinare ma che avrei voluto sentire.
I suoi capelli erano ancora scompigliati dal bagno mattutino ed ebbi il fortissimo istinto di allungare una mano per pettinarli tra le dita.
Mi trattenni, ovviamente, e per qualche minuto restammo in silenzio totale.
Un altro paio di sensazioni mi giunsero tutte insieme: le sue mani cadute ormai sulle mie gambe, ma non inerti, bensì tese ed inquiete; i suoi occhi che mi scivolavano addosso; le sue labbra strette in una linea sottilissima.. E quella fu la prima volta che ebbi l'atroce dubbio che Durza lo Spettro mi desiderasse.
Che non fosse solo una questione di irritanti battutine e scherzetti fuori luogo.
Forse mi voleva davvero. Voleva baciarmi, voleva toccarmi, voleva..
Per il Wyrda di Alagaesia, no!
«Bene!» esclamai alzandomi in piedi, agitata come in poche altre occasioni della mia vita. «Se la cosa non ti turba eccessivamente mi tengo il veleno» dissi accennando alla fiala.
«Mi fido del tuo giudizio» rispose con calma, gli occhi vacui.
Lo Spettro rimase in silenzio per più di due ore. Un mutismo quasi preoccupante considerata la sua abilità nel parlare in continuazione di ogni cosa che gli venisse in mente.
Doveva esserci qualcosa che non andava, ma non mi azzardai a fare domande, non avrebbe apprezzato.
Riprese a parlare quando la seconda ora del pomeriggio era ormai al termine e per lungo tempo discutemmo dell'eventualità di introdurci in segreto nei locali della cattedrale, saltando a pie' pari tutto ciò che riguardasse la conversione.
Era rischioso, molto rischioso. E probabilmente non avremmo nemmeno avuto la magia dalla nostra parte: Durza sosteneva che l'incantesimo di ametiste che bloccava la mia magia fosse un'invenzione dei Sacerdoti, quindi era probabile che fossero capaci di respingere un attacco magico senza troppi sforzi.
In più ci fu un'altra cosa che disse lo Spettro che mi inquietò ulteriormente.
«Lo so che conviene essere prudenti, ma dovremmo sbrigarci. Il Re sta lavorando a.. una ricerca. Una ricerca che gli darebbe in mano un potere enorme. E non è così lontano dalla soluzione, purtroppo».
«Un potere enorme? Un ulteriore potere oltre a quello di cui mi hai già parlato?»
«Sì» rispose e colsi nuovamente un'espressione che rasentava l'umiliazione, tipica del suo viso ogni volta che si finiva per parlare del sovrano.
Feci scricchiolare la schiena in una torsione. «Quanto?»
«Quanto tempo abbiamo dici?» Annuii. «Ancora qualche mese penso. Spero. In realtà non ho alcuna certezza. Potrebbe scoprirlo oggi, come domani, come tra un decennio..» Esitò. «Effettivamente non vale la pena preoccuparci di questo, non posso stabilire una scadenza».
Così accantonammo la fretta a favore della prudenza.
E quella sera tornammo alla cattedrale e seguimmo il rito.
E la dodicesima delle dodici Verità rimase un mistero per me e anche per Durza.
La visione di Fäolin tornò anche quella notte, come in tutte le notti precedenti. Mi risvegliai scossa dalle mani dello Spettro, biascicando parole nell'antica lingua riguardo a una porta e a una speranza. Non avevo idea di cosa volessi dire, né dell'origine di quei concetti.
Durza mi guardava sconvolto e allarmato, come si guarda una pazza o una morente. Ma poi mi porse una borraccia d'acqua e mi accarezzò la schiena fino a che non mi calmai.
La sua espressione, tesa e guardinga, e i suoi occhi fiammeggianti passavano un chiaro segnale:
Questa era l'ultima volta. Alla prossima mi dovrai una spiegazione.
In tutta sincerità, non vedevo l'ora.


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Salve a tutti! ^_^
Mi prendo un piccolo angolo autore per informarvi che per la descrizione del rito ho in gran parte ripreso le descrizioni all'inizio di "Brisingr" e ho cercato di tappare i buchi con un po' di fantasia, ovviamente!
L'allusione al Dio solitario si trova anch'essa in "Brisingr", quando Arya va a recuperare Eragon e scrive quelle frasi sulla terra. Le parole sono rimaste un mistero, che cercherò di sciogliere più avanti.
La donna con gli occhi di lupo.. è davvero necessario dirvi chi è? xD Paolini ha accennato e lasciato cadere molti ponti durante l'intero Ciclo -non so se intenzionalmente o per errore- e ho intenzione di recuperarne il più possibile e portarli a termine.
Grazie a tutti e buona domenica! :*

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Capitolo 20
*** Scoperte e confessioni ***


20. Scoperte e confessioni

Io e Durza eravamo seduti sul fondo alla Cattedrale, dove già ci eravamo nascosti le due volte precedenti, e ascoltavamo il rito con impassibile attenzione. Avevamo già imparato le poche risposte necessarie per poter partecipare alla funzione senza problemi, erano piuttosto facili.
Quella mattina buona parte dei nostri sguardi erano stati riservati ai monaci, gli uomini vestiti di tela che stavano in piedi dietro ai Sacerdoti, lungo le pareti dell'abside. Sapevamo di dover parlare con uno di loro, ma non sapevamo esattamente quando e come, così decidemmo di aspettare la fine della funzione e di fermare uno di quelli che stavano alle porte, dopo che avessimo ricevuto il Segno di sangue sul volto.
E così facemmo. Lo Spettro mi strinse le dita e mi condusse con sé verso il portone di sinistra, dove ricevette il Segno per primo.
Mentre ancora pronunciavo il mio “Grazie per il tuo sacrificio” il mio compagno di viaggio iniziò a parlare con il monaco in piedi lì accanto.
«Prima di entrare nella comunità dovrete essere indottrinati a dovere da uno del mio ordine» stava dicendo l'uomo, con la testa completamente rasata che riluceva dei primi raggi del mattino.
«Lei è mia moglie» mi introdusse Durza.
Accennai una riverenza. «Onorata.»
Lo Spettro mi lanciò uno sguardo obliquo, ma il monaco parve compiaciuto e mi rispose con un cenno della mano.
«Anche tu vuoi convertirti?»
«Sì» risposi con ferma pacatezza.
«Ebbene, amici miei, dovrete seguire un percorso. Verrete convocati per un mese, due volte a settimana, e imparerete tutto ciò che dovete sulla nostra religione e sul nostro immenso Dio». Si baciò il pugno chiuso.
Vidi le spalle di Durza gonfiarsi leggermente in un atteggiamento teso. «Non possiamo cominciare subito? È necessario un intero mese?»
«Sei così impaziente di servire il Signore?»
«Non vorremmo fermarci al semplice ruolo di credenti, vogliamo diventare suoi funzionari ed entrare nell'ordine dei Sacerdoti» fu la pronta risposta.
Il monaco ci fece cenno di spostarci dal portone e ci condusse fuori dalla strombatura, lateralmente alla facciata, e si appoggiò ai bassorilievi.
«Avete figli?» ci chiese poi.
«No» fece Durza.
«Non ancora» specificai.
Ebbi la netta sensazione che lo Spettro fosse sul punto di inchiodarmi alla parete nera e sbattere la mia testa contro di essa fino a massacrarmela.
Sorrisi lievemente. Non potevamo permetterci di dire cose diverse su quel punto. Alla locanda dove alloggiavamo sapevano che aspettavo un figlio, e lo stesso sapevano una parte delle guardie cittadine, una sconosciuta e un erborista. Non erano molti calcolata la vastità di Dras-Leona, ma una gravidanza è una caratteristica che si tende a ricordare fin troppo bene, non valeva la pena correre il rischio di essere pubblicamente contraddetti da una di quelle persone che così credevano. Sperai che Durza lo capisse e continuasse a reggermi il gioco.
Lo fece restando in silenzio quando il monaco mi chiese se fossi incinta e io assentii.
«Allora la cosa si fa più complicata» disse poi. «Non impossibile, ma complicata. Insomma una coppia che aspetta un figlio può unirsi alla famiglia della Carne di Dio ma dovrete offrire un dono in cambio: il frutto dei vostri atti terreni sarà consacrato al Signore e sarà cresciuto nel monastero come figlio non vostro ma di Dio stesso».
«Dovrei rinunciare a crescere mio figlio?»
L'uomo annuì. «O liberartene prima che nasca». Fissò ostinatamente il mio addome. «Non mi sembra che la tua gravidanza sia molto avanzata.»
«Solo due mesi» confermai.
«Un bravo speziale o erborista sarà in grado di darti una pozione che ti faccia abortire. Se volete entrare nei Sacerdoti questa è la soluzione migliore, anche perché altrimenti sarete costretti ad aspettare che la signora partorisca prima di poter essere ufficialmente ammessi».
Non avevamo altri sette mesi a disposizione. Mi sarei liberata del “bambino”.
«D'accordo, grazie» disse lo Spettro.
«Oppure» saltò su improvvisamente il religioso, «c'è un'altra soluzione».
«Quale?» abboccai immediatamente.
«Conoscerete ovviamente le differenze tra l'ordine monacale e quello sacerdotale..» cominciò, ma si interruppe, probabilmente alla vista dei nostri sguardi perplessi.
«Siete sicuri di volere entrare nell'Ordine?» insinuò davanti alla nostra ignoranza.
«Sentiamo di doverlo fare» dissi, cercando di impregnare la mia voce di tutta la superstiziosa credenza che avevo notato nel tono della donna che mi aveva accompagnata dall'erborista.
Funzionò, il monaco ricominciò a parlare spedito: «Allora sappiate che c'è una sostanziale differenza tra Monaci e Sacerdoti. Mentre i Sacerdoti sono letteralmente la Carne di Dio, noi ne siamo solo i servi. Doniamo a volte il nostro sangue durante le cerimonie, ma ci sono riti e misteri ai quali non possiamo partecipare, ali della Cattedrale a cui non dobbiamo accedere. Diciamo che siamo più limitati, ma in un certo senso la nostra esistenza è più tranquilla dato che non dobbiamo privarci di parti del nostro corpo per nutrire la fame del Signore. E come se non bastasse è molto più facile entrare nell'ordine: un'educazione di base, un notte intera in preghiera, i capelli rasati, un goccetto di sangue sull'altare e sareste già dentro». Si fermò all'improvviso e ci guardò con imbarazzo. «In teoria dovreste però rinunciare ufficialmente al vostro matrimonio -cosa che dovreste fare anche per entrare nei Sacerdoti- e non.. insomma non giacere più insieme. È un problema?»
Durza aprì la bocca e lo anticipai esclamando: «Niente affatto!»
«Per me è un problema a dire il vero» ribatté e mi lanciò un ghigno.
Il monaco si strinse nelle spalle. «Questa è una scelta vostra. Io posso solo darvi altre informazioni sull'ordine monacale. Si tratta di lavorare all'interno dell'ambiente della Cattedrale e dei suoi edifici, ma fare cose semplici, come cucinare e pulire e riscuotere denaro dagli appezzamenti di terreno che la chiesa possiede. Siamo coloro che assistono i Sacerdoti nel loro alto compito».
«E potrò tenere mio figlio?» chiesi a quel punto. Non potevo fingermi così altamente disinteressata alla mia prole. Quella era una prerogativa di mia madre.
«Fino a che non sarà diventato adulto potrà stare all'interno della struttura. Ma come laico dovrà lavorare, non può pesare inerte sulle spalle della chiesa. Tuttavia una volta diventato adulto verrà cacciato, a meno che non entri a sua volta nell'ordine».
Annuii. «Mi pare ragionevole.»
«Intanto potremmo cominciare con le lezioni sulla religione, amico, che dici?» propose lo Spettro.
«Sì, avrete tempo di decidere dopo che sarete diventati dei fedeli in piena regola. Allora dovrete venire qui alla cattedrale ogni terzo e quinto giorno della settimana. Gli altri giorni c'è il mercato sapete.. non verrebbe nessuno!» Perse il filo. «Ehm sì, allora ogni terzo e quinto giorno un'ora prima del rito della sera. Entrate nella cattedrale», indicò alle sue spalle, «e mettetevi in preghiera. Qualcuno verrà a prendervi, non siete gli unici conversi, molti stanno lentamente abbracciando Dio in questa miseria».
«Ci sei stato molto utile» lo ringraziò Durza.
«Vi rivedrò presto alle funzioni e alle lezioni suppongo».
Gli sorrisi. «Non mancheremo.»
Ci allontanammo dall'ombra opprimente della cattedrale.
«Ne sappiamo troppa poca» bisbigliò lo Spettro.
«Di cosa?»
«Di tutto. Se sapessi che diventare monaci fosse sufficiente direi di buttarci su quella soluzione -anche se ovviamente mi piange il cuore all'idea di non poter più dividere il letto con te- ma non sono sicuro che questo ci permetta l'accesso ai loro archivi».
«Potremmo sempre intrufolarci» suggerii ignorando la provocazione.
«Una volta entrati nell'ordine monacale dici?»
Mi strinsi nelle spalle. «Rubiamo delle tuniche nere, sicuramente saranno i monaci a lavarle quindi non dovrebbe essere un problema».
«Io non ho la minima idea di come sia organizzato quel posto. Non conosco gli edifici sotto e nemmeno quelli sopra. Non ho idea di dove sia l'archivio e a dire il vero non sono nemmeno certo che ne abbiano uno!» la frase si concluse in un tono esasperato.
«Mi stai suggerendo di rinunciare?»
«Ti sto informando che è l'impresa più sventata, male organizzata e pericolosa che io abbia mai fatto» disse con il volto allungato in un'espressione seria.
«Probabilmente vale anche per me» osservai, nel vano tentativo di consolarlo. «Ma forse ne vale la pena, no? Se esiste davvero una labile possibilità di neutralizzare il potere di Galbatorix potremmo fare in pochi mesi ciò che nessuno è riuscito a fare nell'ultimo secolo».
Ridacchiò. «L'Elfa e lo Spettro, saremo il terrore di ogni cantastorie».
Mio malgrado risi a mia volta, forse la prima vera risata da quando Fäolin mi aveva strappato l'ultima, prima di morire. Il pensiero mi costrinse a spegnerla bruscamente.
Durza mi guardò, la fronte aggrottata, ma poi passò ad un altro argomento.
«Tra qualche giorno abbiamo un appuntamento con Ditolesto. Ho buone ragioni di credere che sarà in grado di dirci qualcosa in più sulla Cattedrale e i suoi ambienti».
«Lo spero davvero, o saremo costretti ad entrare alla cieca».
Percepii una certa frenesia intorno a me e mi guardai intorno con attenzione. Io e lo Spettro ci stavamo dirigendo verso un'osteria -stava diventando sospetto il fatto che passassimo tutto il giorno alla locanda- e stavamo procedendo in direzione delle porte, controcorrente.
«Dove vanno tutti? Non dirmi che c'è un'altra funzione».
Scosse la testa. «Oggi è il secondo giorno della settimana» disse semplicemente.
Ricordai immediatamente: il mercato degli schiavi.
«Prima che tu me lo chieda: no, non ti porterò a vederlo» aggiunse immediatamente lo Spettro.
«Non stavo per chiedertelo» mentii. «E in ogni caso.. perché?»
«Perché qualcosa mi dice che faresti una sciocchezza, tipo buttarti sul palco del mercato e tagliare la gola a tutti i mercanti, poi condurre una spedizione di schiavi ad assediare il palazzo del governatore e prendere il controllo della città e..»
«Stai lievemente esagerando» lo fermai.
«Uhm, conoscendoti l'esagerazione non è mai troppa».
Adorabile.
Ci accomodammo ai tavoli di un'osteria, ovviamente diversa da quella del giorno precedente, e ci facemmo portare del vino caldo.
Continuando a ragionare sull'ipotesi di entrare nell'ordine monacale, la mia mente si soffermò su una soluzione che pareva così ovvia da dover essere per forza irrealizzabile.
«Durza?» mi guardò «Puoi cambiare ulteriormente i nostri tratti? Renderci totalmente diversi da come siamo adesso si intende?»
«Senza problemi direi».
«Bene. Allora se noi fingessimo di essere due tizi qualsiasi in viaggio e andassimo alla cattedrale a chiedere di vedere i loro documenti, cosa ci risponderebbero?»
«Farebbero tante domande».
«Domande a cui non siamo tenuti a rispondere» dissi semplicemente. «Se ci rifiuteranno l'accesso ai loro fantomatici archivi, ce ne andremo con aria indignata».
«Potrebbero semplicemente chiederci di che libro abbiamo bisogno e andare loro stessi a cercare qualcosa nei loro antri. E in quel caso dovremmo -anzi dovrei- rivelare loro il segreto di Galbatorix, e non posso farlo. A quel punto li avremo insospettiti per nulla, tanto vale seguire la via dei Monaci o dei Sacerdoti».
Gli rivolsi uno sguardo grave. «Dovremmo anche cominciare a lavorare sul tuo vero nome. Fino a che Galbatorix ha questo potere su di te non posso nemmeno fidarmi totalmente delle tue promesse e delle tue azioni».
«Perché se fossi libero dal suo controllo ti fideresti?» chiese con asprezza e un pizzico di sfida.
«Sì» risposi, stupendo sia lo Spettro che me stessa.
Le sopracciglia di Durza migrarono fino all'attaccatura dei suoi capelli, o almeno così mi parve.
«So che hai ucciso i miei amici e mi hai torturata per dei mesi» mi affrettai a giustificarmi, «ma mi hai anche fatto delle promesse. E anche se mi hanno insegnato a non fidarmi mai delle promesse di uno Spettro, voglio crederti. Che dovere ubbidire a Galbatorix non ti piaccia è chiaro come il sole, quindi perché dovresti mentirmi? Se vuoi veramente liberarti del dominio del re io potrei davvero esserti utile, quindi mi pare che l'intero ragionamento fili dal punto di vista logico».
Vidi un'ombra oscurare le iridi dello Spettro ma non riuscii ad interpretarla perché dopo un attimo era già sparita.
«So cosa stai cercando di fare, Arya» disse poi duramente.
Non tentai nemmeno di nascondere la mia confusione. «Cosa starei cercando di fare, scusa?»
«Stai cercando di incantarmi» rispose, in un tono di minaccia controllata. «Sappi che in buona parte ci stai riuscendo, ma sappi anche che quando verrà il momento di scegliere io sceglierò sempre me stesso».
«Barzul!» imprecai tra i denti «Sei tu che per primo mi hai chiesto di fidarmi di te e ora te ne stai lamentando?»
«Abbassa la voce ed evita di sbottare parole che non conosco».
«È nanico» lo informai.
Fece un gesto disinteressato. «Non lo parlo».
Ero esasperata. «Dato che non mi credi sarà difficile aiutarti a cambiare te stesso, dovrei conoscerti molto meglio per poter fare qualcosa».
«Vuoi che ti racconti la mia vita piccola Elfa?»
Accolsi la domanda con un cenno vago del capo, ricordando automaticamente la volta in cui si era distratto cercando di penetrare la mia mente. Ricordavo che la sua era strana, multiforme, costellata da zone di buio.
Ricordavo un dolore atroce, la solitudine e la perdita di un uomo che amava come un padre.
Non ero mai stata una che incoraggiava gli altri ad esporre le proprie sofferenze. Non volevo che lo chiedessero a me, quindi mi veniva spontaneo evitare. C'erano cose che si potevano tenere per sé, se si era in grado di sopportarle senza cercare consolazione.
Tuttavia con Durza ero curiosa. Forse perché era uno Spettro e non ne avevo mai conosciuto uno, ovviamente. Anzi, nessuno ne aveva mai conosciuto uno.
Era una curiosità più accademica che personale, però mi bruciava le viscere alla stessa maniera. Ma non volevo che lui lo notasse.
I miei occhi vagarono pigramente sui suoi capelli e di nuovo ebbi l'impulso di passarci le dita. Non ne avevo mai visti di così rossi, se non nel Surda.
Lo Spettro tossicchiò. «Quindi non stai cercando di incantarmi?» chiese in tono più amichevole, deviando immediatamente dal discorso sul suo vero nome.
Lo capivo. Non è facile affidarsi a qualcuno per risolvere un problema di una tale delicatezza, considerando anche il fatto che, per poterlo aiutare, avrei dovuto conoscere almeno parte del suo vero nome e gli avvenimenti legati ad esso. Durza non aveva la minima voglia di farmi delle confidenze e la cosa era comprensibile.
«No, credevo che fossi tu a cercare di incantare me» ribattei senza insistere.
«Confermo».
«Spettro..» lo ammonii.
Fece una smorfia divertita e schioccò due dita tra loro. «Non ci riuscirò mai, temo».
«No».
«A parte gli scherzi: Davvero ti fideresti di me? Non mi odi?» chiese con sincera curiosità.
Tentennai. Fidarmi di lui e non odiarlo erano due faccende completamente diverse, e a dire il vero non ero certa di riuscire a rispondere con sicurezza a nessuna delle due domande.
Forse mi fidavo, ma non in maniera totale e forse non lo odiavo, ma gli serbavo comunque del rancore.
«E tu? Mi odi?»
«Non si risponde ad una domanda con una domanda».
«Non lo sapevo» mentii. Quelle erano le regole della buona educazione, e le conoscevo benissimo.
«Mi dispiace di avere ucciso i tuoi amici e averti torturata» disse all'improvviso, facendomi sussultare. «Anzi no, non mi dispiace, perché se mi dispiacesse veramente sceglierei di non farlo mai più. E se invece avessi la possibilità di ritornare indietro lo rifarei ancora, senza pensarci due volte. Quello che voglio dirti è che ho dovuto. Che non mi sono divertito, e che so quanto odio si prova nei confronti di chi ti ha portato via gli affetti».
«Non eri minimamente tenuto a giustificarti» osservai perplessa.
«Lo so». Sorrise. «Era una maniera dignitosa per dirti che non ti odio».
Ricambiai il suo sorriso stirando le labbra. «Forse» dissi poi, laconica.
Forse non ti odio, forse capisco cosa ti ha spinto a farmi questo, perché per arrivare ai miei obiettivi anche io avrei fatto qualsiasi cosa fosse necessaria. Anche uccidere, anche torturare, anche se ne avrei odiato ogni istante.
«Ricevuto!» esclamò, poi abbassò nuovamente il tono. «Se non hai nulla in contrario io direi di cominciare ad andare a quelle maledette lezioni di religione già da domani sera».
«Il nostro mentore ha detto che ci vorrà un mese per poterci convertire appieno», osservai, «è un tempo molto lungo».
Annuì vigorosamente. «Lo so, ma credo che sarà più prudente e più fruttuoso procedere con calma. Hai fretta madamigella?» domandò poi sarcastico.
«No, ma sono preoccupata» ammisi a disagio.
«Per cosa?»
«Tutto e tutti. Mi credono morta, Durza. Nessuno di quelli che conosco sa di quello che sto, che stiamo facendo».
«Ed è così problematico?»
Aprii la bocca per rispondere che sì, lo era, che avevo lasciato dietro di me una vita, una serie di progetti, un compito importante. La resistenza aveva bisogno di me, non era una questione di egocentrismo, era così e basta.
Gli Elfi avrebbero impiegato un tempo infinito per nominare un mio sostituto, se lo avrebbero nominato, e i contatti tra i Varden e il mio popolo sarebbero rimasti asciutti per tutto quel tempo. Forse avevo fallito nel mio ruolo di Custode, ma ero ancora l'ambasciatrice.
Aprii la bocca per dire tutto questo e per chiedere di mandare un messaggio alla mia gente, solo un avviso, per dire loro che ero viva e in salute. Ma poi realizzai che avrei automaticamente dovuto rinunciare all'alleanza con lo Spettro. Perché il mio popolo sarebbe venuto a cercarmi. Non ero propriamente amata tra la mia gente, ma rispettata sì, e per di più ero la figlia della regina: non mi avrebbero lasciata a fare gli affari miei sapendomi in combutta in un piano segreto per deporre Galbatorix. Un piano che non comprendeva l'aiuto di nessuno dei miei storici alleati.
No, se volevo usufruire della proposta di Durza dovevo farlo in silenzio e nell'ombra, anche fingendomi morta se necessario.
Se avessimo fallito nessuno ne avrebbe mai saputo nulla, se fossimo riusciti nell'impresa allora avrei potuto raccontare tutto, per quanto incredibile potesse sembrare.
Aprii la bocca.. e poi la richiusi. «Direi di no» risposi, dopo una pausa troppo lunga, lo sapevo.
Durza allungò una mano sul tavolo che ci separava e sfiorò le mie dita, serrate intorno alla tazza di vino ormai raffreddato.
«Se andrà tutto bene diventerai un'eroina» disse in tono incoraggiante.
«Non mi importa».
«Lo immaginavo, ma sarà gratificante lo stesso, vedrai». Ritirò la mano e tornò alla sua bevanda.
            Restammo ancora qualche ora all'osteria, poi nel pomeriggio uscimmo da Dras-Leona per andare a dare un'occhiata alla cava di marmo nero poco distante. Era una visita di puro piacere, non accompagnata da secondi fini, e me la godetti come da bambina mi godevo le passeggiate nella foresta, nei rari spazi di tempo libero che avevo.
La cava era grande e ci lavoravano in moltissimi contemporaneamente, tanto da sembrare un enorme formicaio.
Durza girò qua e là tra i lavoratori, facendo domande e chiacchierando banalmente nei loro tempi di pausa. In generale mi limitai a seguirlo e ad ascoltare ciò che i cavatori avessero da dire.
Dilagava malcontento, ovviamente. Per le tasse aumentate, per i comportamenti del governatore Tàbor, per la vertiginosa differenza tra ricchi e poveri.
C'era molta rabbia in quella folla, una forza spaventosa. Se avessero voluto avrebbero potuto prendere i loro picconi, presentarsi sotto le bellissime ville dei nobili e ucciderli uno ad uno, guardie reali comprese.
Ma non mancavano i deterrenti.
Molti raccontarono di compagni puniti per una qualche loro comportamento giudicato scorretto o sovversivo: si andava dalle dita, alle mani, alle lingue, alle braccia tagliate. E c'erano bel altre fantasiose esecuzioni: la vendita come schiavi, rogo, impiccagione, morte su graticola, smembramento.
Niente che contemplasse una pulita e dignitosa decapitazione.
Oltre a quei discorsi che non mancavano mai di impressionarmi fu interessante vedere gli uomini al lavoro, con attrezzi rudimentali e fatica puramente fisica. Dove gli Elfi sarebbero arrivati in un attimo con la magia, loro arrivavano con la tecnica e le invenzioni, erano incredibili.
Rientrammo a Dras-Leona all'imbrunire, anticipando la carovana dei cavatori, che avrebbe fatto lo stesso entro mezz'ora. Le guardie dei cancelli erano le stesse che ci avevano fatti entrare la prima sera, Il capitano ci riconobbe e ci chiese come ci trovassimo.
Durza rispose con la sua solita allegria, inventando una menzogna dopo l'altra, ma non appena voltammo l'angolo imprecò. Avevamo attirato troppa attenzione la sera del nostro arrivo e un manipolo di guardie aveva memorizzato i nostri volti, una cosa che sarebbe stato meglio evitare.
            Dopo cena andammo alla funzione della sera e per la prima volta essa fu presenziata da quello che si definiva il Sommo Sacerdote, un tale senza capelli, con il volto pallido quasi ai livelli della pelle di Durza e solcato da rughe di fatica, e sopratutto: privo di arti. Era un semplice tronco, che doveva fare affidamento sui suoi inferiori per ogni azione. Persino per stare seduto era legato con delle cinghie al sedile della portantina.
Egli cominciò ad officiare la funzione chiedendo perdono per la sua lunga assenza nella comunità, adducendo come scusa una lunga convalescenza a seguito della perdita del braccio destro, offerto in sacrificio a Dio.
Aveva un modo di parlare un po' sputacchiante, ma profondamente esaltato. Non c'era dubbio che avesse la più totale e sconfinata fiducia in ciò che predicava e che si sentisse di un gradino sopra a tutti i presenti, come se lui fosse parte di qualcosa che noialtri nemmeno potevamo immaginare.
Notai anche l'enfasi particolare che diede alla dodicesima Verità, che ormai sapevo a memoria.
Quella notte la scarabocchiai sul muro della nostra stanza, con un pezzo di carbone preso dalla stufetta. «Domani cancellala, Principessa», mi disse Durza, «se qualcuno si intrufolasse qui si farebbe delle domande».
«Anche io me ne faccio parecchie su queste poche parole».
«Potrai sempre farle a chi potrà risponderti, domani sera». Ammiccò.
Gli diedi ragione, ma restai a contemplare le parole ancora un poco, prima di cancellarle con l'acqua gelida che gli inservienti della locanda avevano attinto per noi al pozzo del vicino incrocio.
Mi stesi vicino allo Spettro sentendo il mio corpo mandare segnali di inquietudine: avevo il battito del cuore accelerato e le mani che tremavano leggermente.
Non volevo addormentarmi di nuovo, ero in ansia per le visioni che vi avrei trovato e anche per il discorso che avrei dovuto fare con il mio compagno di viaggio subito dopo.
Come se mi avesse letto nel pensiero -probabilmente aveva solo percepito i miei sentimenti- Durza si girò su un fianco, nella mia direzione, e intrecciò le dita alle mie, fermandone il tremore.
«Voglio solo aiutarti, Arya» disse con la voce così carezzevole che pareva stesse spalmando miele nell’aria. «Vuoi dirmi cosa succede ogni notte da un paio di settimane a questa parte?»
«Mi sembrava che per oggi avessimo già esagerato con le confidenze» protestai flebilmente.
«Certo, ma sono io quello che ti risveglia ogni notte, piccola Elfa. Lo faccio da parecchi giorni, in silenzio. So che gli Elfi non hanno il sonno pesante, so che mantenete un contatto con la realtà, eppure tu sembri sprofondare in una sorta di coma. Avrei il sospetto che tu lo faccia apposta, ma ho visto il terrore autentico sul tuo viso e ti ho sentita piangere, quindi si direbbe che c'è qualcosa su questa terra che ti fa più paura di me. Forza..»
Solo allora ebbi il coraggio di alzare gli occhi. Durza era più vicino di quanto ricordassi e sentivo il leggero profumo di menta del suo respiro. Calmo e regolare. In qualche modo calmò anche me.
«Non so cosa mi succeda» sputai fuori, sentendo il mio orgoglio subire una forte ammaccatura.
«Non lo sai?»
«No».
«Prova a parlarmene lo stesso».
Serrai le labbra e fissai le nostre mani intrecciate. «Credo che sia una visione, ma più potente, tanto che non riesco a staccarmene nemmeno con la mia forza di volontà. Vedo.. una persona a cui ho voluto bene e che è morta. Lui mi parla, mi dice sempre le stesse cose, ma sempre più aspramente. A volte ci sono anche altre immagini e ogni volta è sempre più difficile riscuotermi».
Se non ci fossi tu probabilmente non mi staccherei affatto. Pensai, ma non lo dissi.
«Cosa ti dice?»
Lo guardai. «Mi ordina di ucciderti». Feci una lunga pausa «A volte vedo te uccidere me, ti vedo torturarmi di nuovo..» Mi fermai quando la mia voce prese a tremare eccessivamente.
Non era necessario dirgli tutto, no, mi sarei sentita ridicola nel farlo. Non era necessario che sapesse che Fäolin era morto per colpa sua.
«Ti direi che sono normalissimi incubi e ti manderei a casa con una pacca sulle spalle, ma non credo che sia così».
«Non lo credo neanche io» lo informai.
«A questo punto resta da capire chi e perché. Hai nemici potenti?»
Tentai una risata, ma ne uscì solo un rantolo strozzato. «Intendi oltre a Galbatorix?»
Ammutolì. «Non so se può esistere un nemico più potente di lui in Alagaësia».
«Ne dubito fortemente».
Ovviamente avevo pensato che potesse essere qualcuno che mi odiava profondamente a farmi quello, ma non riuscivo a capire chi potesse conoscermi a tal punto da farmi rivangare ricordi che erano appartenuti soltanto a me e a Fäolin.
Deglutii rumorosamente. «Il re sa di me?»
«Ovviamente sì Principessa» fu la risposta quasi pietosa.
«Può.. non so.. leggere la mia mente senza il mio permesso?»
«Senz'altro, ma non può farlo senza che tu te ne accorga».
«Non mi sento forzare la mente».
«No, è come se qualcuno ti mandasse semplicemente un messaggio».
«Chiunque sia sa troppe cose di me».
«Che invidia!» borbottò in tono scherzoso, ma non mi lasciai contagiare dal suo sarcasmo.
Avevo paura, una paura nera.
Mi ero aspettata che Durza sapesse risolvere la cosa, ma fino a quel momento c'erano state solo tante domande e poche risposte.
«Lasciamo stare, non è importante. Passerà..» Sciolsi le mani dalle sue, ma tornò a sfiorarmi la pelle sensibile dei polsi un istante dopo.
«Sai benissimo che non è così».
«E tu sai benissimo che non posso farci nulla».
«Io sì però, stanotte cercherò di rilevare l'origine della visione. Se è un incantesimo scoverò la fonte senza dubbio. Se non è un incantesimo posso anche ritirarmi e andare a cacciare orsi con gli Urgali».
Risi piano, per la seconda volta nella giornata.
Quella era l'unica possibile cosa da fare: scoprire chi mi stesse torturando.
«Ti ringrazio» aggiunsi poi.
Si sporse su di me e mi baciò sonoramente sulle labbra. «Dormi che sono curioso».
E spense la candela.
Ma non riuscivo ad assopirmi, non quando da un lato desideravo ardentemente dormire e dall'altro avrei voluto mantenere la mia veglia in eterno. Mancavano tre ore all'alba e ancora giacevo ad occhi spalancati.
«Arya..»
«Addormentami».
Lo fece.
Fäolin, sanguinante e disperato, mi implorava di vendicarlo, di non dimenticare chi fosse lui e di non perdere me stessa. Poi vidi degli occhi. Occhi di tutte le forme e dimensioni, gli occhi di mia madre e di altri elfi di Ellesméra, gli occhi di Orik, Brom e dei nani e degli umani a Tronjheim, poi tutte le visioni sfumarono in un unico grande occhio lattiginoso.
Mi riscossi bruscamente, scattando a sedere e inspirando violentemente aria fredda, che mi graffiò la gola.
Poi schiusi le palpebre, lentamente. Era buio, totalmente buio, ma sentivo lo Spettro respirare vicino a me.
«Allora?» ansimai.
«Niente» rispose funereo.
Il sangue mi defluì dalla testa e mi parve di stare pericolosamente fluttuando nel vuoto. Ricaddi pesantemente sul materasso.
«Cosa significa niente
«Esattamente quello. Non ho trovato una fonte, una traccia, un minimo segno di magia. È come se venisse da te».
«Oh per il Wyrda di Alagaësia!»
«O forse qualcuno è riuscito a nasconderla».
«Nascondere l'origine dell'incantesimo? Ci vuole un potere enorme».
Non sapevo a chi pensare. Dopo Galbatorix, gli Elfi erano l'unica potenza che mi pareva in grado di fare una cosa simile. Ma non era il mio popolo il colpevole, di quello ero sicura: non mi avrebbero mai fatto una cosa del genere.
«Non ho idee» ammise Durza scoraggiato, «ero convinto che sarei riuscito a risolvere la cosa in un lampo e invece è più complicato di quanto credessi».
Mi tremarono le labbra, quindi le morsicai con violenza. Non era decisamente il caso di mettersi a piangere, anche se una forza sconosciuta agiva su di me, terrorizzandomi.
Del resto fino a quel momento non mi aveva uccisa, potevo sperare che continuasse così.
Certo, ma mi avrebbe esaurita.
«Mi dispiace, Principessa» biascicò lo Spettro, sfiorandomi una spalla.
«Non fa nulla».
«Proverò di nuovo, farò anche uno scudo protettivo intorno a te».
«Grazie».
«E nel caso continuerò a svegliarti».
«Grazie».

Per quella notte non dormii più, ovviamente.
Al mattino andammo alla funzione e all'uscita incontrammo nuovamente il monaco che ci aveva dato le indicazioni per convertirci.
«Vi aspetto nel pomeriggio, sarò io a istruirvi».
«A più tardi allora!» rispose Durza con entusiasmo.
Per il resto della mattina bighellonammo per la città fino a che il freddo non ci costrinse a rifugiarci in un'osteria, dove ci fermammo anche a mangiare per pranzo.
Nel pomeriggio proposi allo Spettro di tornare dall'erborista dove avevo già comprato l'occorrente per il Nalgask e le sue foglie di menta.
«Voglio della salvia per la cura dei denti».
Rise. «Sei una maniaca della pulizia. L'ultima volta ti sei comprata un pezzo di sapone, oggi la salvia..»
«Tu puoi usare la magia per ripulirti».
«Posso usarla anche su di te».
«Oppure possiamo andare a comprare della salvia».
Si strinse nelle spalle. «Ci sto! Tanto non avremmo granché da fare qui».
Gettò un'occhiata alla stanza -non troppo pulita- dove avevamo trascorso buona parte della mattina, a mangiare e a parlare pigramente di tutto tranne che di quello che era successo la notte precedente. Non ce n'era affatto bisogno ormai.
Ricordavo abbastanza bene la strada per la bottega, che era nella parte di Dras-Leona rivolta verso il Surda, fuori dalla zona ricca e al limite di quella della miseria.
Tuttavia, quando vi arrivammo, trovammo la piccola bottega distrutta, le piante sparse ovunque in mezzo alla strada, e tutto ciò che poteva anche solo vagamente sembrare di valore era sparito.
Mi tesi immediatamente. Che cos'era successo?
Avanzando con cautela, mi sporsi all'interno del piccolo ambiente e vi trovai lo stesso disastro che dilagava fuori. Quando mi volsi nuovamente verso la strada, trovai Durza con il naso all'insù, i tendini del collo contratti e lo sguardo puntato esattamente sopra la mia testa, all'altezza dell'architrave.
Seguii la linea dei suoi occhi e vidi una mano rossa impressa sopra la porta. La raggiunsi con un piccolo salto e ne grattai via un poco con le unghie, poi mi portai le dita al volto, per annusarle.
Era sangue.
«Cosa state facendo?» urlò qualcuno alle nostre spalle.
Era un bambinetto così magro che quasi si confondeva con l'aria. Forse aveva anche una dozzina di primavere, ma non ne dimostrava più di otto.
«Ehi ragazzino», lo apostrofò Durza, «sai dirci che cosa è successo qui?»
«C'è la mano rossa sulla porta» rispose lui con ovvietà, avvicinandosi sospettoso a noi.
«E cosa significa?» domandai, piuttosto impaziente.
«Che il vecchio Gamall è un Irriverente e ha compiuto crimini contro Dio». Fece una smorfia pensierosa. «O forse posso già dire che era un Irriverente. Ma no, mi sembra che la consacrazione dei nuovi adepti e la consegna del terzo sacrificio mensile è domani».
«Va bene, spiegaci esattamente tutto quello che hai detto e tornerai a casa con due corone, hai capito bene?» calcò lo Spettro.
Il bambino si illuminò tutto e cominciò a parlare come un fiume in piena: «Tutti dicevano che Gamall era bravino nel suo lavoro, ma che era vecchio e che stava diventando pettegolo come una comare e che non aveva più bene in controllo della sua lingua. Lo sapevano tutti, eh! Bastava passare di qua per caso per sentirlo bestemmiare contro Dio, accusandolo di essere la rovina della città. Una volta ha interrotto la funzione del mattino e si è messo ad urlare in chiesa, poi ha anche tirato una scatola di foglie secche contro un Sacerdote. Qualche volta», abbassò il tono ai livelli di un cospiratore, «diceva male anche del re. Comunque qualcuno deve finalmente aver trovato la forza di andarlo a dire ai Sacerdoti, che lo hanno riconosciuto come un Irriverente, uno che ostacola la chiesa e robe così, quindi Gamall sarà giustiziato. Lo consegneranno a Dio perché con la sua carne paghi i suoi errori e trovi il perdono. Per questo c'è la mano rossa: ti fanno un buco nel mezzo della mano» e si indicò il palmo «e poi te la fanno appoggiare alla porta, così la gente sa che eri un Irriverente e che deve buttare le tue cose. Se avete comprato della roba dal vecchio dovete metterla via perché è maledetta e vi procurerà dolore. Gamall potrebbe anche tornare sotto forma di spirito e cercare le sue cose, quindi è meglio che non le abbiate più».
«Quando.. Quando lo consegneranno a Dio?» trovai la forza di chiedere.
«Mi sembra domani sera dopo la funzione. I Sacerdoti vanno in processione fino alla dimora di Dio», fece un cenno verso la sagoma scura dell'Helgrind, «tre volte al mese per consacrare i nuovi arrivati tra di loro e per offrire una parte di sé. Di solito portano anche dei doni per Dio. Di solito sono degli schiavi, ma molto spesso se c'è un Irriverente si portano dietro lui. Durante la notte Dio li addormenta e si nutre di loro, così diventano parte della sua carne e li usa per riprendersi dalla fatica di aver creato il mondo».
Durza aveva un'espressione comicamente perplessa mentre allungava al ragazzino le sue due corone e gli intimava di tornarsene a casa.
Lui ci rivolse uno sguardo obliquo e schizzò via.
«Non sapevo che la religione dell'Helgrind avesse tanto potere sui cittadini» dissi incredula.
«Io ne avevo sentito parlare», ammise, «ma credevo che si trattasse di una chiacchiera infondata. Invece a quanto pare hanno davvero la forza di stroncare chi si schiera apertamente contro di loro e gli mette i bastoni tra le ruote».
«Il vecchio, Gamall.. era gentile. E ha detto qualcosa contro la chiesa e contro Galbatorix anche l'altro giorno».
«Non puoi fare nulla per lui», disse seccamente, «i sacrifici che arrivano all'Helgrind sono per i Ra'zac, che come sai non disdegnano la carne umana, anzi ne vanno veramente ghiotti».
«Lo so, ma mi sembra assurdo che la gente riesca a credere a tutte queste sciocchezze, montate sulle spalle di due semplici creature come i Ra'zac. Insomma qualunque esponente della mia razza potrebbe essere un dio, allora!»
«Non vi fate abbastanza propaganda, Principessa. Alla gente piacciono i Sacerdoti perché, anche se fanno cose schifose, non si danno delle arie, non pretendono di calpestarli, anzi a volte li aiutano: curano i loro bambini, mi sembrano disposti ad accogliere chiunque stia morendo di fame tra i monaci. Magari fanno poco, ma sono gli unici a fare qualcosa per loro. Per questo li adorano».
«E sono disposti anche ad accettare la condanna di un amico?» indicai la bottega distrutta.
«Amico? Quale amico? Chi complotta contro il dio che ti da da mangiare non è un tuo amico».
Alzai le mani in segno di resa. «Non li capisco, gli esseri umani».
«Siamo creature interessanti».
«Tu non..»
«Io lo ero e ricordo perfettamente la sensazione. E in buona parte lo sono ancora, solo più longevo, potente e probabilmente inquietante di prima. Ora prendi le tue foglie di salvia ed andiamocene, quella mano di sangue mi inquieta».
Sgranai gli occhi. «Mi devo comportare da sciacallo?»
«Immagino fosse una domanda retorica».
Sospirai e tornai nella bottega, dove frugai in lungo e in largo fino a che non trovai la salvia. Poi seguii Durza lontano dalla mano di Gamall, stampata a chiari caratteri su quella che era stata la sua attività.
«Consideriamolo un ammonimento», mi disse poi, «dobbiamo essere più cauti con la chiesa».
«Non vedo l'ora che arrivi il pomeriggio» ringhiai.
E il pomeriggio arrivò, fin troppo lentamente. Quando entrammo in chiesa trovammo una decina di persone inginocchiate davanti alle panche che davano sull'altare, tutte con entrambi i pugni chiusi portati al petto, in totale silenzio.
Li imitammo e immediatamente sentii un po' di emozione e di adrenalina montarmi dentro. Avrei scoperto qualcosa di più di quella religione e poi anche dei sacerdoti, avrei visitato le loro stanze più nascoste e portato alla luce i loro segreti più oscuri.
Se fossi riuscita a tornare a casa avrei potuto scrivere il primo trattato della storia di Alagaësia sulla religione dell'Helgrind.
Ci fecero attendere, ma alla fine si presentò il vecchio monaco rasato che avevamo già incontrato, come ci aveva informati quella mattina.
«Benvenuti», disse con voce pacata, «tutti voi avete mostrato l'intenzione di apprendere le gesta di Dio e del suo popolo e io sono qui per accompagnare i vostri primi passi in questo mondo a voi finora sconosciuto. Se volete seguirmi all'esterno vi racconterò tutto, dall'origine fino ad oggi».
Inizialmente mi chiesi perché dovessimo uscire all'esterno, poi individuai le decorazioni in bassorilievo nell'ordine inferiore del muro esterno -che già le altre vole avevo notato- e capii: intendeva compiere un ciclo di istruzione per immagini. Forse, delle persone che accompagnavano me e Durza, la metà non sapeva nemmeno leggere e scrivere.
Come promesso, non ci trattenne per più di un'ora, anche perché poi sarebbe cominciata la funzione alla quale non potevamo proprio mancare.
E proprio durante il rito mi misi a ricapitolare l'assurda favoletta che ci aveva raccontato il monaco -che per inciso si chiamava Gagnsamr.
Stando a ciò che ci aveva detto, secondo la chiesa dell'Helgrind il mondo era stato creato da un Dio ingenerato, che si era sacrificato per portare la vita. Di conseguenza l'uomo gli era debitore di ogni suo respiro ed era suo compito risarcirlo per tutte le sofferenze patite per crearlo, un po' come una madre che mangia il figlio in fasce per riprendersi dalla fatica della gravidanza e del parto. Sempre secondo la storiella il monte Helgrind sarebbe una sorta di scala, che permette agli uomini di avvicinarsi al loro Signore che, udite, udite, dimora direttamente nel sole, anzi è il sole stesso. Ecco perché i sacrifici sono sempre compiuti al tramonto, per dare la forza al Dio di rinascere il giorno dopo, più forte di prima.
E quel Dio a quanto pareva udiva tutte le preghiere che gli erano rivolte, riprendeva le forze con i sacrifici dei Sacerdoti e puniva tutti coloro che si rifiutavano di inginocchiarsi davanti alla sua potenza. A costoro era riservata un'eternità di veglia in quelli che il monaco aveva chiamato “Gli Abissi”, un luogo che a quanto pareva si trovava sotto la superficie della terra, dove tutti i non-credenti erano condannati a essere divorati dagli emissari del Dio e poi rigenerarsi e ricominciare daccapo il giorno dopo. Coloro che invece avevano aderito alla religione potevano morire in pace.
Quella era la spiegazione della decima Verità, dove si parlava dell'Abisso
Fantastico.
Continuavo a chiedermi come potesse la gente credere a un simile ammasso di sciocchezze, io avevo faticato a mantenere un'espressione credulona per tutta la durata di quell'ora.
E per di più non avevo avuto le risposte che desideravo.
«Non ho capito il significato della dodicesima Verità», avevo detto al monaco, al termine del breve viaggio sul fianco della cattedrale.
Il monaco mi aveva rivolto un'occhiata rassegnata. «Perché non puoi. Nessuno lo sa, gli unici che hanno qualche informazione in più sono i Sacerdoti, ma la condividono solo con Dio, noialtri non ne siamo messi a parte».
«Non sai nulla del Dio solitario?»
«Solo che è un nemico dell'unico e vero Dio».
Avrei volentieri continuato il dibattito, ma Durza mi aveva gentilmente indirizzata verso il portale principale, intimandomi sottovoce di lasciare perdere.
Così ci eravamo sorbiti il rito in silenzio ed eravamo tornati alla locanda con la nostra brava traccia di sangue sul viso.
Lo Spettro provò a erigere una barriera protettiva per bloccare l'azione di un qualsiasi incantesimo.
Ovviamente non contò nulla.
Le visioni erano un morbo che mi consumava dall'interno e che per il momento non aveva soluzioni possibili, l'unica cosa in cui potevo sperare erano le mani e la prontezza di Durza, che non mancò di riscuotermi né quella notte né quelle a seguire.
Almeno per quella notte, però, riuscii a riaddormentarmi.


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Capitolo 21
*** Disgelo ***


21. Disgelo

La notte seguente non fui l'unica a venire disturbata nel sonno. Durza scattò in piedi così velocemente che mi sfuggì un piccolo grido. Avevo già avuto il mio incubo giornaliero ma ero riuscita a scivolare in una sorta di semi-veglia.
«Durza cosa fai?»
«Tranquilla, va tutto bene».
Mi sporsi sulla sua metà del letto e accesi la candela posata sul cassettone con le pietre focaie.
«Torna a dormire, Principessa» sussurrò lo Spettro, frugando sotto la casacca e la camicia.
Estrasse un ciondolo, che brillò argentato nella penombra, e tirò a sé il secchio d'acqua.
Sedetti sul materasso e lo guardai concentrata e confusa. Riconobbi la forma del ciondolo: un sole a sei raggi.
«Ti prego non dire nulla per i prossimi due minuti, devo.. parlare con una persona». Detto questo si sfilò il ciondolo e applicò una variante dell'incantesimo di divinazione al secchio d'acqua.
«Durza?» fece una voce gentile.
«Sono qui, Alba».
Sobbalzai.
«Ho un messaggio per te. I Ra'zac sono appena passati da Gil'ead e hanno chiesto di te. Ho detto loro che eri impegnato con la prigioniera e che non potevi assolutamente essere disturbato, così loro mi hanno lasciato detto un paio di cose e hanno proseguito di tutta fretta in direzione di Uru'baen, dove a quanto pare il re li sta aspettando».
«Arya è con me» disse semplicemente lo Spettro.
Quasi percepii il clima raggelarsi e farsi immediatamente più cauto.
«Porgile i miei saluti» disse Alba coincisa.
Durza accennò un sorriso nella mia direzione e io feci un cenno di saluto con la mano. «Ricambia» fece poi. «Ora dimmi tutto quello che hai da dirmi». Concluse l'ordine fissando intensamente il secchio.
«I Ra'zac sono stati a Carvahall, ma non hanno trovato ciò che cercavano, era già fuggito».
«Ho già avuto queste informazioni da un tale di Taurida».
«Ah.. Non ne sapevo nulla».
All'improvviso mi sentii decisamente di troppo.
«Cosa riferiranno al re?» chiese lo Spettro.
«Che sono tornati a mani vuote. A quanto pare alcuni abitanti hanno intravisto un tale che girava con una grossa pietra di zaffiro, ma poi è scomparso. Io penso che si trattasse di Brom».
«Direi che è molto probabile. Bene, grazie, per oggi mi basta. Cercami se avrai altre novità».
«Certamente, mio signore» si congedò la ragazza.
Lasciai passare qualche minuto di silenzio. Il povero mozzicone di candela che giaceva sulla cassettiera si spense definitivamente.
«È lei l'alleata di cui parlavi quando abbiamo lasciato Gil'ead?» azzardai.
«Sì» rispose, tornando sotto le coperte pesanti. «Galbatorix le ha fatto un torto. Sarà con noi per eliminarlo».
«Mi hai detto che è una maga giusto? È molto potente?»
Esitò. «Per essere umana abbastanza, ci sarà preziosa».
«Credevo fosse una tua serva, non una tua alleata».
«Perché effettivamente è prima di tutto una mia serva. Accettala, non dovrebbe costarti troppo no?»
«No, non c'è problema».
Avrei voluto fargli altre domande, ma cominciavo a sentirmi petulante.
Cedetti almeno ad una curiosità. «Hai uno strano ciondolo».
«Impedisce a chiunque di divinarmi senza il mio permesso, può rivelarsi parecchio utile in molte occasioni».
«E hai una passione per il sole» aggiunsi, pensando al suo pugnale con il rilievo dell'astro.
Rise piano. «Era il simbolo della mia tribù, quando ero ancora un ragazzo. Ora basta indagare, speravo che Alba avesse notizie di cose che non sapevo, invece niente! Peccato».
Già allora avrei dovuto capire che qualcosa non andava. Avevo notato il tono più controllato di Alba dopo che Durza la aveva informata della mia presenza, ma più tardi lo attribuii alla mia immaginazione e ad una eccessiva paranoia.
Era rassicurante fidarsi dello Spettro, mi permetteva di alleggerire un poco le mie spalle dal loro carico di responsabilità, quindi cedetti nuovamente a quella lusinga e lasciai perdere.
La giornata passò in ozio. Dopo il rito della sera mi affrettai a tornare alla locanda, non avrei sopportato così bene come volevo credere la processione che avrebbe portato Gamall l'erborista incontro alla sua morte: si vedeva già una certa quantità di gente radunarsi sotto la cattedrale. Sarebbe stata una grande processione dato che era anche il giorno di consacrazione dei novizi Sacerdoti.

Una settimana esatta dopo il nostro arrivo a Dras-Leona pagammo nuovamente il proprietario della locanda per un'altra settimana, ripromettendoci di cambiarla alla fine di essa. Prima che qualcuno imparasse troppe cose su di noi.
Il giorno seguente andammo alla ricerca di Ditolesto e aspettammo per ore nella sua baracca puzzolente. Quella volta Durza mi offrì lo sgabello che aveva occupato alla nostra precedente visita e si appoggiò al muro accanto a me.
«Cosa speri di sapere?»
«Tante cose in realtà» rispose fiducioso. «Forse i Sacerdoti sono incorruttibili, ma i Monaci mi sembrano molto più alla mano. Ditolesto è uno che non si fa scrupoli, avrà scoperto qualcosa per noi, anche se ormai abbiamo praticamente già scelto come agire».
Già, seguire il nostro mesetto di istruzione e poi infilarci tra le file dei monaci.
Quando i passi trascinati del nostro informatore si fecero più vicini Durza mi abbassò il cappuccio fino agli occhi e poi fece lo stesso con il suo.
«Chi siete?» domandò Ditolesto non appena ebbe aperto la porta.
«I due tizi del Ratto, ricordi?»
«Ah sì, certo! Non ho ancora capito come mi aprite la porta senza rompermela, ma non importa, no?»
Se la chiuse alle spalle e posò il sacco che aveva in mano in un angolo della stanza, dove raccattò anche un pezzo di stoffa giallastro ripiegato su se stesso.
«Questo è quello che mi avete chiesto».
Lo Spettro fu rapido ad allungare una mano davanti a me e ad afferrarlo per primo. Lo svolse e vi gettò un'occhiata, mentre un ghigno soddisfatto gli stirava le labbra sottili.
Era inquietante e anche Ditolesto parve notarlo, perché dondolò sui piedi, a disagio.
«Vi va bene, no?»
Durza lasciò cadere la stoffa sul mio grembo, affinché potessi vederla anche io, e chiese, perentorio: «Non hai saputo nient'altro?»
«Qualche cosa che non vi servirà a molto: so che i Sacerdoti hanno un gruppo di guerrieri protettori, quasi guardie del corpo, che si occupano di pattugliare le robe della chiesa. Li chiamano le Ombre».
Quelli che si sono mossi per venire a cercare me e Durza, la notte in cui abbiamo cercato di origliare il loro rito. Con questo pensiero mi estraniai un istante dalla conversazione e mi concentrai sulla stoffa che giaceva sulle mie cosce. Era una mappa. Stilizzata e con simboli al posto di qualsiasi scritta, ma era una mappa, un principio, una breccia nell'impenetrabile muro di segreti che era la Cattedrale.
Vi era rappresentata non solo la chiesa in sé, ma anche gli ambienti monacali e anche i dormitori dei Sacerdoti, come mi indicava il pagliericcio stilizzato affiancato dall'effige di un avvoltoio, il loro simbolo.
La mappa era ovviamente incompleta. C'erano stanze accennate ma lasciate in bianco, altri spazi completamente vuoti. Forse con quella avremmo potuto orientarci sui piani superiori della struttura, ma non avevamo troppe certezze per quanto riguardava i piani sotterranei.
«E hanno anche alcuni maghi, pochi, ma abbastanza efficienti a quanto dicono i miei contatti. Non è la prima volta che una brava spia si intrufola nella cattedrale per fare il suo lavoro e viene beccata e fatta secca a quel loro altare dal monte nero. Poi niente, i Sacerdoti passano davvero tutte le giornate rintanati nelle loro celle o in degli studi che però chiudono a chiave non appena abbandonano. Mica scemi, no? Nessuno mi ha detto bene cosa facciano tutto il giorno, ma a volte qualcuno arriva al pasto del mattino senza un pezzo». Si guardò la mano «E pensare che non ci vuole una gran fatica per farsi cavare dei pezzi e loro lo fanno apposta. Potrei essere un buon Sacerdote, no? Ogni ladruncolo un po' troppo imprudente lo sarebbe».
«Hai altro da dirci?»
Fece un sospiro pesante, poi si soffiò il naso tra le dita e scrollò il muco a terra. Disgustoso.
«Non so che volete fare ma fate attenzione voi due. Nessuno esce da quel posto se non è invitato, credetemi. Non siete mica i primi che ci hanno provato, sapete? Non ne ho più visto nessuno. Tu amico», e indicò Durza, «hai con te la mappa che avevo dato alla bionda?»
Lo Spettro estrasse dal mantello il tracciato delle fogne. «Questa?»
«Proprio lei! Scarabocchiata di mio pugno. Allora voi due mi state simpatici, non voglio che ci lasciate le penne. Se volete entrare là dentro fatelo pure, ma se ve la vedete male cercate le fogne! Il vostro Ratto dovrebbe saperlo bene che chi si muove nelle fogne la scampa sempre, no? Il canale più grosso è l'unico dove potete entrare perché gli altri sono piccoli e fatti alla boia. Sapete nessuno che sia entrato nel canale grosso è mai tornato, ma andavano tutti in direzione della cattedrale, invece voi ve ne allontanate, quindi chissà. Da qui in poi», pestò un piede a terra, «tutti i canaletti finiscono in quello grande e poi si buttano nel lago, farà schifo ma ci si salva, no? Cercate le fogne, subito, poi fate quel diavolo che dovete fare e se dovete scappare con dei tizi in nero alle calcagna usatele!» Fece una pausa. «Nel caso scopriste altre informazioni sui Sacerdoti io sono disposto a pagarvi sapete. Non siete gli unici che le cercano, proprio no! Se trovate qualcosa in più venite qui e io vi pago, ho giusto un bel giovane arrivato ieri che mi ha chiesto..»
Non riuscì a finire la frase. Durza lo afferrò per il mantello e lo inchiodò alla parete, puntandogli la lama del pugnale alla gola.
«Queste informazioni», sibilò con voce glaciale, «te le abbiamo pagate. E non devi darle a nessun altro. Hai un'altra copia di quella mappa?» Accennò a quella che stringevo tra le dita, in tensione.
«S-sì» balbettò il miserabile, «là sotto i sacchi».
Lo Spettro mi fece un cenno e mi alzai per recuperare la copia, poi nascosi il tutto nelle bisacce.
«A nessuno!» Ringhiò. «Chiaro?»
«Certo, sì.. Servo vostro, signore, io..»
Lo lasciò andare e gli porse delle monete. «Se manterrai il silenzio sarai ulteriormente ricompensato, se ti sfuggirà una sola sillaba io ti troverò e ti ucciderò staccandoti un pezzo di carne alla volta e buttandolo ai ratti che tanto mi piacciono».
Ditolesto, serio in volto, accettò il denaro e fece un inchino. «Non dirò nulla dei vostri affari».
«Grazie» mi sentii il dovere di aggiungere, vista la fin troppa aggressività dello Spettro.
Durza mi guardò un po' dubbioso, ma poi fece un cenno di saluto all'uomo, rinfoderò il pugnale, e mi seguì alla luce morente del sole.
«Sei troppo gentile».
«Abitudine» mi giustificai.
«No, sei gentile con tutti tranne che con me, è questo a turbarmi». Ridacchiò.
Arrivammo in ritardo alla funzione della sera, ma nessuno parve notarlo.
Per tutta la sua durata fui distratta dal pensiero di cosa ci fosse oltre all'abside, ora che ne avevo una vaga idea: i dormitori dei Monaci, il refettorio, l'ospedale, le cucine, le latrine, la lavanderia..

I giorni mi scivolarono rapidamente tra le dita. La settimana seguente cambiammo locanda, una più lontana dalla cattedrale e di conseguenza più povera, dato che Durza mi aveva confessato di avere già speso parecchio denaro. Il Covo segreto era ancora più vicino alla baracca di Ditolesto, in vista di una disperata fuga attraverso le fogne, e aveva un nome decisamente meno inquietante della locanda precedente, anche se rimaneva losco.
La nostra educazione alla chiesa dell'Helgrind proseguiva e presto scoprimmo che il triumvirato a cui i Sacerdoti si rivolgevano -Gorm, Ilda e Angvara il Crudele- altro non erano che i nomi dei tre picchi del monte Helgrind, sacri perché più vicini al sole, e dunque a Dio stesso. Il quarto picco, Teufel, più basso, era ancora discusso se fosse da considerare sacro o meno e a quanto pareva era un argomento molto discusso tra i Sacerdoti.
“Giuriamo di portare sempre il Bregnir sul nostro corpo e di astenerci dal dodicesimo dei dodici e dal tocco di una corda annodata.” Recitava poi la loro formula di rito.
Il dodicesimo dei dodici era la dodicesima verità, quella riguardante il dio solitario e intimava di tenere le distanze dal soggetto stesso. Soggetto che ai fedeli non era dato conoscere, però.
La corda annodata era un modo simbolico per indicare una maledizione nella lingua popolare e faceva riferimento alle capacità degli elfi, considerati quasi dei demoni dall'intero ordine.
Il Bregnir, invece, altro non era che una fascetta di cuoio uncinata, che i Sacerdoti dovevano sempre indossare e che graffiava loro la pelle, un eterno monito al loro ruolo nei confronti di Dio. Si partiva stringendola intorno alle estremità -polsi o caviglie- e poi si spostava mano a mano che i Sacerdoti effettuavano una Rinuncia, cioè l'amputazione di una parte.
«Il nostro Sacerdote Supremo», aveva annunciato Gagnsamr gonfio di orgoglio, «lo porta ora sul ventre perché ha già sacrificato quasi tutto se stesso».
Già. Il Sacerdote Supremo aveva presenziato tutti i riti a cui avevamo partecipato, intervenendo di tanto in tanto sopra all'officiante, che gli lasciava la parola con un rispettosissimo inchino. Indossava sempre una strana corona in pelle, alta quasi quanto lui stesso -o almeno quanto rimaneva di lui- e che lo rendeva ancora più grottesco di quanto già non fosse. Osservandolo attentamente avevo intuito la causa del suo parlare sputacchiante: gli mancavano buona parte dei denti e anche la punta della lingua.
Cosa otteneva in cambio di quei suoi sacrifici? Quale folle forza lo spingeva a persistere nelle sue convinzioni anche quando il suo Dio restava muto alle sue richieste?
Era sempre stato un mistero per me, come gli uomini o i nani riuscissero a crearsi una così convinta immagine di un essere superiore quando non avevano alcuna prova, se non qualche avvenimento naturale perfettamente regolare che nella loro ignoranza classificavano come atto del divino. Il vero problema era che non si poteva discutere con colore che si definivano “credenti” perché rifiutavano qualsiasi spiegazione che potesse apparire razionale, affermando che Dio non poteva ridursi ad un ragionamento e che io non potevo capire perché mancavo della fede necessaria a farlo.
Se avere fede significava essere ciechi ero felice di esserne totalmente priva.
Partecipando alle funzioni e alle lezioni venimmo presto a conoscenza dei vari miti sugli Irraggiungibili, coloro che il loro Dio aveva preferito e che erano stati meritevoli testimoni della sua esistenza. Tra questi il più misterioso rimaneva il vate Tosk, che avrebbe scritto in codice tutta la dottrina sacerdotale sotto diretto dettato di Dio, ma di cui si parlava talmente poco da rimanere una leggenda.
Avrei tanto voluto procurarmi quel libro ma lo Spettro mi spiegò che, essendo la pergamena così costosa, l'acquisto di un libro era da considerarsi un lusso bello e buono e che quel volume in particolare era uno dei segreti meglio custoditi dai sacerdoti. Peccato che gli umani non producessero carta, avrebbero risolto molti problemi e probabilmente anche calato il livello di ignoranza.
«Nessuno vuole comandare un popolo acculturato, si fa troppe domande e ha troppe pretese» mi disse Durza, con il tono di chi in parte condivide l'idea.
«Un popolo acculturato sa cosa è bene e cosa è male e può collaborare con il governo. Un popolo che sa è tutto allo stesso livello e non lascia spazio all'ingiustizia» avevo ribattuto, prendendo la perfetta società elfica come base delle mie argomentazioni.
«Gli umani sono più impulsivi e sentimentali degli Elfi, Principessa», fu la risposta. «Non hanno il tempo di ponderare le loro scelte, vogliono vivere al massimo le loro brevi vite e questo li porta irrimediabilmente a fare delle sciocchezze. Non dubito che una società perfettamente equa diminuirebbe le ingiustizie, dubito della semplice possibilità di instaurare una società perfettamente equa tra gli esseri umani. Non ne sono capaci, la violenza è parte della loro natura e la vendetta, l'odio e l'amore guidano i loro movimenti, non la razionalità».
Quel discorso mi colpì, perché in parte giustificava il modo di fare di tutti gli uomini con cui avevo avuto a che fare e anche le azioni stesse di Durza: l'odio verso Galbatorix, una sorta di sentimento di vendetta nei confronti di Ajihad, l'amore.. Mi dissi che probabilmente l'amore era riservato solo a se stesso e forse a qualche figura che giaceva morta e sepolta nel suo passato.

Una mattina fummo testimoni di una scenetta che mi lasciò con l'amaro in bocca per il resto della giornata. Passavamo dalla piazza, dove si teneva il mercato di schiavi due giorni alla settimana e il mercato normale il resto delle mattinate. Lo Spettro voleva semplicemente farmi vedere in cosa consistesse un mercato dato che non mi ero mai attardata ad osservarne uno e al massimo ne avevo letto qualche informazione nei libri sulle tradizioni degli uomini che avevo studiato per diventare ambasciatrice.
Ne ero rimasta abbastanza stupita: in mezzo a quella città caotica, squallida e pericolosa il mercato era come un cuore pulsante di vita, voci ed allegria. Tutti contrattavano sui prezzi, qualche ladruncolo si intascava, non visto, la merce e molti altri trascinavano i loro carri nel poco spazio disponibile, per diventare anch'essi parte di quella massa di venditori.
Stavamo passeggiando innocuamente, dividendoci una frittella, quando un tale balzò agilmente su un barile di birra -non troppo lontano da noi- e distese con aria solenne una corta pergamena.
«Cittadini!» gridò. «La terra di Alagaësia, questa città e la vostra stessa sicurezza sono minacciate da un nemico che si fa di anno in anno sempre più forte e pericoloso. Il vostro sovrano, il re Galbatorix, ha tentato con tutte le sue forze di tenere il suo popolo lontano dal sangue e dalle battaglie, ma purtroppo i suoi sforzi non sono stati sufficienti..»
«Lo ha scritto lui quel discorso», sussurrò Durza al mio orecchio, «è il suo stile di indorare le cose. Guarda la gente, tutti attoniti, sconvolti. Il re sa come infiammare i cuori».
Annuii, rendendomi conto solo in quel momento che il vociare confuso della piazza si era pressoché estinto e che tutti gli uomini e le donne presenti pendevano letteralmente dalle labbra dell’araldo imperiale
«I Varden», continuò l’uomo con fare drammatico, «si sono definitivamente schierati con i Nani e gli Elfi. Sono servi delle creature più malefiche e pericolose di queste terre, sono i portatori della distruzione e gli annientatori della pace e dell’equilibrio. Inoltre complottano con i nostri eterni nemici: i surdani. Il loro unico scopo è rovesciare Galbatorix e porre il loro tiranno sul trono».
Presi coscienza delle mie unghie conficcate nei palmi e delle braccia rigide lungo i fianchi solo quando lo Spettro mi sfiorò lievemente la guancia, in un gesto di intima sicurezza. Non che il mio comportamento potesse essere considerato sospetto in mezzo alla folla: tutti esibivano espressioni sorprese, disgustate, indignate e persino spaventate. Quanto sapevano essere sciocchi gli umani. Con le loro brevi vite tendevano a credere immediatamente a qualunque fandonia avesse infangato la storia, troppo giovani e inesperti per aver partecipato agli eventi, avevano un tempo troppo breve per imparare a vivere nel mondo.
Erano cresciuti in una vita in cui Galbatorix era considerato un uomo onesto che cercava disperatamente di proteggere tutti da nemici che rischiavano di sommergere l’intera Alagaësia. Non era colpa loro. Ma l’insinuazione sul mio popolo e sui miei alleati mi faceva infuriare.
Feci un profondo respiro e posai una mano sul braccio di Durza al mio fianco. Lui se la scrollò di dosso e mi tirò davanti a sé, cingendomi la vita con le braccia e posando il mento sulla mia testa. In qualche contorta maniera mi sentii meglio.
L’araldo continuava imperterrito. «Ora voi avete l’occasione di difendere la vostra patria dalla minaccia che incombe. I Varden si spacciano per liberatori ma non sono altro che briganti assassini, lasciateli entrare in queste terre e porteranno la morte ovunque. Il vostro sovrano esorta uomini in forze a prendere il proprio coraggio e l’amore per i propri cari ed arruolarsi nel suo esercito. Tutti potranno essere utili in questa guerra. Le sole forze del nostro re non basteranno. Difendete le vostre case e le vostre famiglie!» L’uomo balzò giù dal barile e si infilò la pergamena a cintura con un gesto fluido e noncurante. «Da domani mattina il palazzo del governatore sarà aperto per accogliere le vostre adesioni. Partirete alla fine di questa settimana per un breve addestramento ad Uru'baen».
Tacque un istante e posò una mano sul ventre prominente. Era piuttosto avanti con l'età e doveva aver preferito un tavolo imbandito ad una spada.
Quando tornò a parlare disse le magiche parole che tutti stavano aspettando: «Verrete regolarmente retribuiti, ovviamente, e sarà tenuto conto del vostro valore quando le terre strappate ai nostri nemici dovranno essere equamente ripartite. Vi auguro una buona giornata!»
Si avviò con noncuranza in direzione della Cattedrale -anzi probabilmente in direzione del palazzo del governatore- seguito da un paio di uomini che gli rivolgevano delle domande sulla condizione nell'esercito e su quanto ammontasse il salario.
La gente tornò lentamente alle proprie attività con un brusio di indignazione e di malcontento.
Captai qualche discorso qua e là e mi ritrovai ulteriormente scoraggiata: nessuno dubitava di quanto avesse appena detto l'araldo, nessuno credeva alla possibilità che fosse il re quello da additare come pazzo e non i Varden e i loro alleati.
«Andiamo via?» chiesi a Durza. E la mia voce sfumò in una supplica.
Ci avviammo automaticamente verso il Covo.
Lo Spettro mi guardò fisso, in silenzio, per parecchi minuti.
«Sto bene», affermai con sicurezza.
«Ma stai piangendo» mi informò.
«Non sto piangendo» ribattei con voce ferma, ma i miei occhi erano bagnati di lacrime e il mondo stava scomparendo dietro il loro velo.
«Andrà tutto bene».
«No!» protestai. «Se il nostro progetto non funzionerà non andrà tutto bene! Finché il popolo non capisce, finché non decide di rifiutare Galbatorix come re, i Varden, gli Elfi e i Nani potranno combattere fino all’estinzione, ma non conterà nulla. E nel frattempo altre migliaia di persone moriranno inutilmente su campi di battaglia. Tutto questo mi disgusta. La morte mi disgusta..»
Mi sistemai una ciocca di capelli dietro l’orecchio e recuperai un contegno.
L’espressione di Durza era vuota e rassegnata. Forse per il fatto di essere semi-posseduto da degli spiriti o perché così per natura, non sembrava provare gli stessi rimorsi delle persone normali.
«Scusami» mormorai.
Fece un sorriso mesto. «Tu sei troppo sensibile per fare la guerriera, Arya».
«Mi chiamo Bitr» gli ricordai, gettandomi un’occhiata circospetta intorno, ma la massaia che stendeva il bucato dalla finestra canticchiando allegramente non poteva averci sentito. «E se l’ho fatto finora potrò continuare» conclusi.
«Ma non vorresti farlo» disse riprendendo a camminare.
«E chi vorrebbe?» lo affiancai.
«Riusciremo» mi tranquillizzò. «E nel caso non fosse così.. Il re si fa passare per un eroe delle antiche leggende, che ha sconfitto la morte per poter mantenere la vita di queste terre, ma non appena lascerà le città al loro destino tutti capiranno».
«E lui non interverrebbe nella guerra?» lo interruppi.
«Se volesse veramente fermarvi non avreste scampo, ma non lascerà il suo palazzo per impedirvi una simile quisquilia. Se riuscirà nel suo progetto potrà riprendere il potere dopo, con tutta la calma del mondo. .
Le sue parole mi ricordarono che ancora non avevamo fatto nulla per il suo vero nome e che aveva ancora parecchi segreti che non poteva rivelarmi, oltre ad essere ancora in parte succube del re.
Fui sul punto di dire qualcosa, ma Durza lasciò la mia mano e la spostò sulla mia schiena, avvicinandomi a sé per strapparmi un bacio, in mezzo al vicolo soffocante.
Così rinunciai, per l'ennesima volta.
Lo Spettro vegliò su di me ogni notte. Ad un certo punto cominciò a posare una mano sul mio torace -subito sotto il seno- prima di addormentarsi, così da percepire sotto le dita le variazioni del battito del mio cuore non appena le visioni mi ghermivano e agire più rapidamente.
Non sempre riusciva a svegliarmi con uno scossone, doveva toccarmi a lungo e quando finalmente aprivo gli occhi da me non riceveva altro che uno sguardo vacuo e il respiro affannoso.
Durza era caldo, solido, reale, familiare. E di solito riusciva a tranquillizzarmi con pochi gesti.
Riprendemmo anche ad allenarci con le spade e a proseguire un poco con la Rimgar -per mio sommo divertimento- uscendo tutte le mattine da Dras-Leona per non attirare attenzioni. Notai che avevo ormai ripreso buona parte del mio vigore fisico e i duelli con Durza duravano di più.
Spesso, dopo gli allenamenti, ci fermavamo a fare un bagno al lago e lo Spettro ebbe la decenza di non sbirciarmi e di lasciarmi nascondere dietro a pietre o canne, anche se ovviamente all'inizio tentò di persuadermi a fare altrimenti.
Con il decadimento dell'inverno il rapporto tra me e Durza si modellò, si deformò, cambiò, fino a diventare qualcosa di diverso da una semplice alleanza di convenienza.
Non ci avrei mai e poi mai definiti amici, ma complici.. complici forse sì.
Tuttavia c'era un'ombra, una tensione tra di noi che si stringeva e che si intensificava di giorno in giorno. Nemmeno quella sapevo definirla, esulava dal mio sapere critico. Sapevo solo che i baci che ci scambiavamo, sia che fossero per la recita, sia che fossero -come arrivai ad ammettere a me stessa- per desiderio, avevano il potere di imbrogliare ulteriormente la matassa.
Non mi fermai mai abbastanza su questi pensieri da farli diventare un problema. Sia io che Durza avevamo cose ben più importanti a cui pensare oltre ai capricci dei nostri sentimenti.
Così relegai in un angolo le incertezze, dicendomi che, nonostante tutto, un giorno quella tensione avrebbe trovato uno sfogo.

A due settimane dalla nostra prima lezione con il monaco, successe qualcosa di inaspettato, che ci colse di sorpresa e preparati insieme.
«Avete ancora intenzione di entrare nell'ordine monacale?» ci chiese Gagnsamr, trattenendoci prima dell'inizio del rito e subito dopo la sua lezione.
Ormai avevamo percorso e studiato più della metà dei bassorilievi sul perimetro della cattedrale, ma mancavano ancora una quindicina di giorni per terminare il tutto.
«Sì» rispose Durza, ignorando il fatto che nessuno dei due avesse mai confermato al monaco di volere entrare nel suo ordine.
«Bene, allora ho una proposta per voi. Dopo la funzione raggiungetemi all'esterno e vi spiegherò tutto.»
Durante il rito discutemmo della cosa, a bassa voce, fino a che due donne anziane sedute accanto a noi non ci intimarono di tacere o di lasciare la chiesa.
Lo Spettro rivolse loro un ghigno irriverente, ma poi tacque e io feci lo stesso.
La proposta del monaco si rivelò decisamente interessante, quasi provvidenziale in effetti.
«Uno dei nostri ha abbandonato la catena per unirsi all'esercito del re» ci disse con l'aria di uno che è stato schiaffeggiato dalla moglie. «Per di più il vecchio Kran è caduto nel sonno eterno un mese fa e ora ci troviamo a corto di manodopera.. So che può sembrare un poco squallido come avvicinamento a Dio, ma che ne direste di cominciare già da domani o dal giorno dopo ad ambientarvi nei luoghi della chiesa in vista del vostro ordinamento? Nel frattempo continuerete la vostra istruzione ma sarete anche iniziati ai vostri futuri compiti, che ne dite?»
Ci scambiammo una rapida occhiata, ma la risposta era così ovvia che parlammo contemporaneamente: «Accettiamo!»
Poi ci guardammo nuovamente, perplessi e divertiti per la sincronia.
A quel punto Gagnsamr parlò di nuovo: «Prima dovrò sciogliere il vostro matrimonio, capite? Ufficialmente dovete essere impegnati solo con il Signore». Abbassò il tono. «Vi è proibito giacere insieme e se qualcuno vi scoprisse a farlo sareste immediatamente allontanati dall'ordine. Tuttavia non è raro che una delle nostre monache rimanga in cinta di tanto in tanto e nessuna di loro è mai stata mandata via. Di solito si limitano a nascondere la gravidanza e a spacciare il figlio per un trovatello pescato alla porta. Nessuno è troppo severo con il nostro ordine, riuscirete a mascherare al meglio l'esistenza del vostro bambino».
«Ti ringrazio immensamente» feci con enfasi, cingendomi la vita con le braccia per nascondere la totale piattezza del mio addome.
Se non ci fossimo dati una mossa avrei dovuto fare qualcosa anche per quello.
«Domattina, dopo la funzione del mattino, vi chiamerò all'altare e scioglierò il vostro impegno. Mi ripetete i vostri nomi per favore?»
Ripetemmo i nostri nomi, ringraziammo per l'ennesima volta e ci dirigemmo verso il Covo.
«Dunque questo è il nostro ultimo giorno da marito e moglie, Principessa. Devo ammettere di essere un po' turbato. Vedi di farmi ricordare la nostra ultima notte insieme dato che a quanto pare alla prima ero ubriaco» scherzò Durza più tardi, sedendosi sul materasso e sfilandosi gli stivali.
Sorrisi a fior di labbra e lo raggiunsi, dopo essermi lavata dal viso la sporcizia di quella giornata.
«Cosa facciamo allora?»
«Facile e indolore: andiamo, ci separiamo e domani ci trasferiamo tra i monaci. Pagherò la locanda per altre due settimane, per sicurezza, e bloccherò la porta con un incantesimo per evitare ospiti indesiderati. Non credo che potremo entrare tra i monaci con qualunque possedimento personale, o almeno non di certo con i pugnali o le spade. Quando ci saremo sufficientemente ambientati torneremo qui a prendere le nostre armi e le nasconderemo da qualche parte begli ambienti della cattedrale, a portata di mano».
«Spero di non doverle usare» mormorai stringendomi addosso il mantello.
A differenza dell'Avvoltoio la nostra stanza era molto più angusta, con un letto, un secchio d'acqua e qualche chiodo appeso al muro. Poche coperte e decisamente nessuna stufetta, quindi la temperatura era non molto dissimile da quella esterna.
«Spero che i loro guerrieri e maghi non siano troppo abili e sopratutto spero che non ci dovremo mai addentrare in una zona circondata da ametiste, o anche i miei poteri saranno nulli».
Fissai istintivamente l'anello al mio indice.
«Pensi di togliermelo mai?»
«Elfa..»
«Durza potrei esserti utile con i miei poteri» protestai pacatamente. «E sinceramente credo anche di averne il diritto».
«Non ho mai specificato in quali circostanze ti avrei liberata». Mi rivolse uno sguardo che pareva quasi implorante, anche se il tono della sua voce sfiorava l'imperiosità.
«Puoi fidarti di me, sai?»
«Mi fido di te, Arya. Ti prego assecondami ancora un po'».
Sospirai. «D'accordo, d'accordo. Sappi che la cosa mi infastidisce».
Rise. «C'è anche qualcosa di me che non ti infastidisce?»
«In effetti no». Scivolai sotto le coperte e chiusi gli occhi.
La nostra ultima notte di matrimonio si concluse come tutte le precedenti: i miei incubi e la veglia dello Spettro sul mio risveglio, con l'aggiunta di un breve bacio a fior di labbra.

[Durza]
Arya si era appena riassopita dopo la visione di quella notte e aveva ancora la mano sudata stretta nella sua.
Gli piaceva quella mano, era morbida e ruvida insieme, rassicurante e pericolosa. Un po' come la sua proprietaria.
Spesso si chiedeva se sarebbe mai stato in grado di restituirle i poteri. Ormai l'Elfa si fidava di lui a sufficienza da non tradirlo, nemmeno con la sua magia a disposizione, ma aveva la strana e angosciante sensazione che l'anello di ametiste che ora sfiorava con le dita fungesse da una sorta di deterrente: lei non sarebbe andata via fino a che lui non la avesse liberata del tutto. Se invece se ne fosse liberata forse..
Stava diventando uno stupido sentimentale per caso?
Di sicuro non al punto da smettere di mentirle. Ecco, per quello non le restituiva i poteri, perché se avesse scoperto la verità sarebbe stato più difficile controllare la sua reazione.
Due settimane prima Alba lo aveva divinato e avevano dovuto interrompere la conversazione a causa di Arya. Il giorno seguente, con la scusa di andare alla latrina, aveva ripreso il contatto con lei, che gli aveva confermato le informazioni che aveva già avuto a Taurida: che il cavaliere esisteva davvero, che era un ragazzo dagli occhi e capelli castani e che si chiamava Eragon. I Ra'zac avevano avuto le informazioni sulla pietra dal macellaio del paese e avevano addirittura incrociato il ragazzo, ma purtroppo erano stati ostacolati da Brom. Allora si erano recati a casa del giovane, ma vi avevano trovato solo il vecchio zio e le orme di un enorme animale -che doveva per forza essere un drago- così avevano ucciso il vecchio ed erano corsi a riferire al re, assicurandosi così l'eterno odio del ragazzino, che a quel punto doveva aver lasciato Carvahall per mettersi sulle loro tracce, forse accompagnato da Brom.
Che Eragon avesse lasciato il villaggio era una certezza assoluta per Durza. La prima volta che era uscito da Dras-Leona, oltre a farsi un bel bagno, aveva anche contattato nuovamente le bande di Urgali che bazzicavano a nord. Gli avevano riferito che, qualche ora dopo aver lasciato Yazuac –e dopo avere ucciso tutti gli abitanti, che erano ormai testimoni del loro passaggio- avevano visto un lampo blu balenare in città, così erano tornati indietro e avevano visto una fila parallela di orme di cavallo abbandonare la città verso sud. Purtroppo non erano riusciti a seguire le orme perché si erano perse nella boscaglia.
Ma se i Ra'zac si erano fatti riconoscere da Brom e il ragazzo aveva perso lo zio per causa loro.. Brom, quella vecchia volpe, non ci avrebbe messo molto a scoprire dove fosse il loro covo.
E guarda a caso lui si trovava proprio a Dras-Leona.
Era stato contento quando il monaco aveva detto loro che sarebbe stato necessario un mese: un mese gli serviva, per aspettare il giovane cavaliere e catturarlo. Certo, voleva anche trovare un incantesimo per mettere a tacere una volta per tutte gli Eldunarí di Galbatorix, ma se fosse riuscito a fare entrambe le cose tanto meglio.
L'anticipazione di due settimane era imprevista, ovviamente, ma non troppo dannosa. Non conosceva troppo a fondo i Sacerdoti, aveva chiesto il loro aiuto solo due volte: una per l'incantesimo delle ametiste e una per un incantesimo che privasse il corpo della sensazione del dolore, quest'ultima voluta dal re nero in persona non troppi mesi prima.
Era certo di riuscire a trovare ciò che gli serviva e svignarsela, il tutto senza farsi notare, in modo da poter temporeggiare fino all'arrivo del cavaliere. Per allora doveva solo sperare che i Ra'zac non tornassero e non si mettessero in mezzo. In quel momento erano a nord con i loro disgustosi genitori, intenti a controllare ogni paese, valle o pietra, alla ricerca del ragazzo.
Tuttavia prima o poi si sarebbero rassegnati al fatto di averlo perso e sarebbero rientrati al loro covo, ad aspettarlo. Tutti i pezzi grossi della scacchiera si sarebbero scannati per averlo dalla loro parte, era ovvio, come era ovvio che, avendo probabilmente seguito un addestramento con Brom, egli si sarebbe schierato con i Varden il prima possibile.
Lo avrebbe intercettato e lo avrebbe convinto a collaborare con lui con le buone o con le cattive.
Per quello non aveva messo Arya a parte delle sue informazioni, perché non avrebbe capito, anzi avrebbe probabilmente insistito per lasciare andare Eragon dai Varden. Era scesa a molti compromessi per allearsi con lui, ma aveva dei paletti morali che lui aveva perso da tempo e che, in quella situazione, sarebbero stati solo uno svantaggio.
Le avrebbe detto tutto una volta che il cavaliere fosse passato dalla sua parte.
Forse avrebbe capito e lo avrebbe perdonato, forse no. Non erano così diversi in fondo, potevano avere un modo completamente diverso di vedere le cose, ma c'era qualcosa che condividevano.
Arya era una che camminava da sola, come lui, lo aveva capito sin dal loro primo incontro.
E aveva scoperto molte cose di lei in quelle poche settimane.
Già.. se il suo primo grande pensiero era la vendetta e il potere, il secondo era l’Elfa.
Non si era nemmeno reso conto di come fosse successo, ma quella che era stata solo una prigioniera era diventata un’alleata, una confidente, quasi.. un’amica?
No, certamente non un’amica.
La consapevolezza dell’esistenza di Arya lo avvolgeva come un fluido tiepido e talvolta riusciva addirittura a scacciare il gelo che da sempre era su di lui, dentro di lui.
Certo aveva un caratteraccio -era fredda, altera e superba- eppure lo aveva baciato più e più volte, aveva condiviso passeggiate, scoperte, cibo, duelli, pensieri, pericoli, persino il letto, con lui. Non era solo un’algida principessa elfica, era anche gentile, premurosa, forte, testarda, piacevole, misteriosa, altruista, sagace, intelligente, sveglia, intrigante..
«Spettro mi stai stritolando la mano» lo informò lei in un mugugno, facendolo sobbalzare per la sorpresa.
«Scusami» si affrettò a dire, interrompendo il contatto tra di loro.
«Non dirmi che fai brutti sogni anche tu..» azzardò.
Eccome se ne faceva, ma non erano decisamente problematici quanto i suoi. Dopo giorni di tentativi aveva anche smesso di creare una barriera intorno a lei, non contava un accidente.
«No», mentì, «dormi pure, mi spiace di averti disturbata».
Percepì lui stesso la vuotezza delle parole appena pronunciate.
E forse lo percepì anche lei perché allungò una mano nella sua direzione e gli sfiorò una spalla nel buio. Quando fece per ritrarre la mano la fermò e la sentì tiepida tra le sue.
Un calore aggressivo si fece strada nelle sue membra e non aveva nulla a che fare con gli spiriti, che per una buona volta giacevano in silenzio sul fondo della sua coscienza. Aveva una voglia atroce di baciare la pelle nuda e bollente dell'Elfa, accarezzarne ogni pollice e abbandonarsi tra le sue braccia. Non era la prima volta che aveva quel pensiero, ormai la desiderava da non sapeva nemmeno lui quanto tempo, ogni giorno con forza maggiore. Tuttavia non era il caso di..
Si sentì cadere a pezzi quando Arya si avvicinò ulteriormente a lui e gli baciò le labbra. Un attimo solo, giusto il tempo di passargli il sapore di un intruglio che si spalmava per mantenerle morbide.
E che funzionava alla perfezione.
L'avrebbe presa, spinta sotto di sé e spogliata seduta stante, se solo non si fosse alzata di scatto dal materasso. Era sempre così, un po' si lasciava andare e un po' si ritraeva, in un atteggiamento quasi irritante e terribilmente imprevedibile.
«Sono abbastanza riposata per tutta la giornata» sentenziò calzando gli stivali.
Durza lo Spettro, governatore di Gil'ead e terrore di Alagaësia, sospirò pesantemente e si alzò anche lui, certo che, in ogni caso, non avrebbe più dormito fino all'alba. E il tutto per una donna, incantevole e fuori dagli schemi per carità, ma pur sempre una donna.

[Arya]
Dopo il breve scambio di battute con Durza sentii nuovamente quella sensazione di cose non dette che pesavano nell'aria che respiravo. Erano abbastanza frequenti negli ultimi tempi, ma come al solito non avevo né il tempo né la voglia di analizzare il problema.
Io e lo Spettro cominciammo a riordinare le nostre cose e a prepararle nel caso avessimo dovuto lasciare la città inseguiti da un'orda di Sacerdoti monchi impazziti.
Durza mi convinse anche a mettere un paio di guanti con le dita tagliate. Solo dopo qualche minuto realizzai che il loro scopo era nascondere l'anello di ametiste e per un attimo mi sentii quasi ferita.
Dopo aver pagato per altre due settimane la locanda e aver fatto una colazione veloce -nessuno dei due era particolarmente affamato- ci accomodammo sulle panche della cattedrale, più vicini all'altare del solito così da non dovere andare contro troppa corrente umana al termine della funzione.
Ero disattenta e prestai poca attenzione al tutto, gli occhi fissi su Gagnsamr, nascosto dietro ad un sacerdote. E la mano di Durza sul mio ginocchio non favoriva esattamente la concentrazione.
Quando il sacerdote che officiava il rito indirizzò i fedeli in direzione dei portoni per ricevere il Segno, noi rimanemmo seduti ai nostri posti, in attesta di un cenno del monaco, che arrivò non appena i Sacerdoti liberarono l'abside.
«Bitr e Natt», cominciò subito in tono solenne e sbrigativo, come se avesse timore che cambiassimo idea improvvisamente, «vi ho chiamati davanti a questo altare perché giuriate di fronte a Dio e me, suo funzionario e testimone, di rinunciare alla vostra unione, così da poter entrare pienamente nella famiglia del Signore. Ora giurate».
«Lo giuro» bisbigliai, a disagio sotto gli sguardi degli ultimi fedeli che lasciavano la cattedrale, quasi tutti nobili e ricchi che sedevano ai primi posti.
«Lo giuro» ripeté lo Spettro.
«Devo chiedervi di farvi un taglietto e di lasciare cadere una goccia del vostro sangue sull'altare, in modo da rendere il vostro giuramento indissolubile. Basterà sfregare un dito nell'asperità qui di lato», ci istruì, indicando una irregolarità laterale della lastra di pietra, quella che usavano tutti i Sacerdoti che celebravano la funzione al termine di essa.
Durza si fece avanti per primo e vi sfregò dolcemente il palmo. Fu sufficiente a procurargli un lungo graffio sulla pelle, che premette sull'altare per tingerlo di sangue. Io mi ferii un polpastrello, dato che indossavo i guanti e lo strinsi fino a stillarne una goccia di sangue.
Il monaco annuì soddisfatto e ci fece cenno di seguirlo fino all'ingresso per ricevere il Segno.
«Bene!» Esclamò una volta giunti all'esterno, «Se volete posso accogliervi anche oggi stesso, nel pomeriggio! Potete tenere i vostri abiti ma dovrete indossare questa veste sopra», tirò la stoffa della sua, «e poi se avete qualche oggetto personale portatelo pure, inutile dirvi che non sono accettate armi di alcun genere e la signora non potrà portare monili preziosi».
Non li avevo mai portati quindi non era un problema.
«Avrete un pagliericcio in un dormitorio e potrete mettere lì tutte le vostre cose. Le regole sono semplici: dovete ubbidire ai vostri superiori, è vietato fare del male a chiunque, rubare sia cibo che oggetti della chiesa, avere del denaro vostro con voi.. Direi che per ora è sufficiente. Potrete coricarvi dopo ogni funzione serale e svegliarvi in anticipo per preparare i pasti ai Sacerdoti, ma su questo vi istruirò più tardi. Ah e ovviamente ci sono dormitori per maschi e femmine» concluse quasi con noncuranza.
Ma a quelle parole il mio cuore sobbalzò. Guardai Durza con un terrore e uno smarrimento che doveva essere più che evidente, perché lo Spettro mi passò davanti e parlò al monaco:
«Possiamo cominciare da domattina?»
Gagnsamr corrugò la fronte. «Quello che state prendendo è un impegno, non potete ritirarvi e tornare ogni volta che lo desiderate. Non siete carne di Dio come i Sacerdoti, ma siete comunque una piccola fetta della sua chiesa e Dio non accetterà traditori e spergiuri nelle sue fila».
Vidi la figura dello Spettro tendersi in modo quasi spasmodico. «Non siamo spergiuri. Vorremmo semplicemente un altro giorno per sistemare le nostre cose e mandare qualcuno a portare il resto alle nostre famiglie a Teirm, è possibile?» Il suo tono si fece sempre più gelido.
Il monaco si schiarì in volto e annuì. «Certamente! Però domattina, dopo la funzione, vi trasferirete direttamente qui, d'accordo?»
«Sì, per domattina dovremmo essere pronti».
«Bella giornata a voi!» si congedò.
«Se qualcuno non mi sveglia credo che morirò» sentenziai sottovoce non appena si fu allontanato.
Era stato il mio primo pensiero quando il monaco aveva accennato ai dormitori divisi: dormire lontano da Durza significava dormire in balia dei miei incubi, oltre al rischio di attirare l'attenzione presso le mie compagne di stanza.
«Troveremo un modo» rispose Durza, prendendomi per mano e avviandosi verso un'osteria. «Non credo che sia saggio cercare di usare la magia, l'ultima volta che ho provato ad espandere la mente mi hanno intercettato subito. Hai una sola visione a notte di solito e comincia subito dopo che ti sei addormentata, quindi basterebbe che io fossi con te ogni volta che succede».
«Hai imparato bene le tempistiche» osservai amaramente.
«Ti aiuterò, Principessa» disse semplicemente e le sue parole erano tutto quello che avevo bisogno di sentire, veritiere o false che fossero. E lui lo sapeva perfettamente.


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Questo capitolo è insieme statico e ricco di informazioni e l'ho interrotto solo perché sarebbe diventato esageratamente lungo e illeggibile! Quindi il vero e proprio ingresso nella chiesa lo lascio alla prossima settimana, spero mi perdonerete ^_^
Piccola nota: il quarto picco dell'Helgrind non ha nome nel Ciclo dell'Eredità (o almeno così mi pare, in caso contrario siete pregati di farmelo notare perché qualche errorino con i libri mi scappa spesso e volentieri) quindi l'ho chiamato "Teufel", sia perché la parola ha un suono che mi sembrava adeguato, sia perché significa "Diavolo" in tedesco ed è appropriato per la setta impazzita che sono i Sacerdoti.
Buona domenica a tutti e alla prossima!
Baci,
Lalli

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Capitolo 22
*** Sono pazzi ***


Ciao
22. Sono pazzi

Quella era l'ultima notte che avrei potuto passare a dormire in pace, certa che qualcuno mi avrebbe riscossa in tempo, eppure faticai terribilmente ad assopirmi e riuscii sì e no a sommare un'ora totale di sonno da quando ebbi la visione al sorgere del sole.
Lo Spettro dormì poco più di me e passammo il resto della notte in chiacchiere che sarebbero state decisamente frivole in qualunque circostanza. Per la maggior parte del tempo, Durza schermì Galbatorix, elencandomi i suoi difetti e i suoi fallimenti, i suoi lunghi discorsi e le poche azioni concrete che vi corrispondevano. Mi sembrava così strano sentire ridicolizzare quello che dalla mia nascita era stato il mio primo e assoluto nemico.
«Galbatorix uccise mio padre, sai?» mi scappò detto, nel clima disteso di conversazione che si era creato.
«Davvero? Quando?»
«Cento anni fa, quando prese il potere».
«Nella battaglia di Ilirea?» domandò quasi stupito.
«Già. Non si sa nemmeno come sia morto esattamente. Si gettò nel cuore dell'esercito nemico per affrontare Galbatorix faccia a faccia, un'azione folle che gli costò la vita, quasi sicuramente per mano del re o forse per uno dei Rinnegati. A quanto pare i suoi generali gettarono la testa di Evandar davanti all'esercito elfico, fermandone in buona parte l'avanzata. Quel giorno fummo ovviamente sconfitti» conclusi con tono amareggiato.
«Evandar era tuo padre?» si accertò Durza.
«Sì. Dopo la sua morte il consiglio elesse mia madre come suo successore e da allora regna sugli elfi. Eri anche tu in battaglia?» domandai dopo aver ragionato sulla possibile età dello Spettro. Sapevo che aveva aiutato Galbatorix a fare schiudere il drago nero per lui, tramite l'uso della magia nera e quindi doveva già essere uno stregone esperto all'epoca.
Durza non mi rispose e tacque talmente a lungo che credetti che la conversazione fosse finita.
Poi tornò a parlare, cambiando argomento. «Dunque tu diventerai regina dopo tua madre, Principessa..»
«Non è corretto chiamarmi principessa, Spettro», puntualizzai, «Il mio popolo mi chiama Arya Dröttningu, ma non esiste un preciso corrispondente nella tua lingua, sarebbe letteralmente “figlia della regina”. Ed essere figlia della regina non ha lo stesso significato che ha tra gli uomini: non mi assicura l'accesso al trono, chiunque potrebbe diventare sovrano al posto mio, se il consiglio lo riterrà opportuno. Ma dato che la mia famiglia regna da parecchi secoli è probabile che scelgano me come successore».
«E tu, Arya dal nomignolo così altamente elfico da non potere nemmeno essere tradotto, vuoi diventare regina?»
Risi. «Perché ho la sensazione che tu sappia già la risposta?»
«Forse perché è così?» aggiunse con sarcasmo. «Sarebbe ovvio a chiunque: sei troppo abile con la spada per diventare una sedentaria regnante e in ogni caso sei uno spirito libero. Non ti piacerebbe vivere ingabbiata in una corte».
«Nemmeno a te».
«Invece magari mi piacerebbe, che ne sai?»
Fui incerta sulla risposta perché mi pareva un po' indiscreta, ma alla fine parlai: «Perché in certi aspetti sei simile a me. E inoltre sei sempre inquieto, sembri in eterna fuga da te stesso e sei troppo disinteressato ai problemi degli altri, non saresti mai un buon sovrano. Forse un buon amministratore di provincia, sì», aggiunsi precipitosamente, «ma con l'intera terra di Alagaësia non solo non ce la faresti, sarebbe un compito che odieresti con tutta l'anima».
«Diamine, Elfa! Non mi parlavano con così poco rispetto da decenni».
«Magari perché sei circondato da persone che hanno troppa paura di te per potersi azzardare ad essere sincere».
Esitò. «Forse. Ma hai ragione tu. Anzi non sono nemmeno un buon amministratore di provincia: la maggior parte del lavoro lo fa Hillr».
Mi irrigidii. Disprezzavo profondamente quell'uomo e il disprezzo era ovviamente reciproco.
Durza percepì il mio disappunto e si sentì il dovere di difendere il suo sottoposto. Così mi raccontò la straziante storia di Hillr il Siniscalco e di come avesse perso la madre, accusata di stregoneria in un processo popolare e arsa viva.
«Da allora rifugge chiunque mostri di avere dei poteri. Ne ha un timore così assoluto che credo preferirebbe uccidersi pur di non venirne in contatto. I miei li tollera, forse solo perché gli ho salvato la vita».
«Dunque ha orrore del mio popolo».
«Come molti tra gli uomini. Voi siete così terribilmente superiori ad un comune mortale e così misteriosi.. Sono fiorite migliaia di leggende su di voi e la gente ha paura di ciò che non comprende».
Lo sapevo già. Nonostante i membri dei Varden mi rispettassero, mi temevano anche parecchio e la cosa non era calata negli ultimi settant'anni.
«Anche tu hai paura?»
Sbuffò. «Potrei cavarmela anche contro una mezza dozzina di elfi, purché non siano addestrati come te. E comunque non siete così incomprensibili per me. Il re sa molte cose su di voi, le ricorda dal suo primo addestramento, e quindi le so anche io».
«Cose importanti?» domandai tesa.
«Più che altro cose riguardanti la vostra etichetta e il vostro modo di vivere. Niente di pericoloso, lui stesso ha ammesso che ci sono segreti nelle vostre foreste che non è arrivato a capire».
Mi rilassai un poco.
«Credo che sia l'alba» borbottò lo Spettro.
Andò a spostare l'asse di legno dalla finestra ed un tenue chiarore illuminò la stanza.
«Siamo pronti, Principessa?» chiese stirandosi.
«Non lo saremo mai».
«Questa dovrebbe essere la fase in cui mi incoraggi, Elfa».
«Come non detto: siamo preparatissimi!»
«Meno male!» esclamò. Poi scoppiò a ridere, sciogliendo in parte quel po' di tensione che si stava accumulando per la giornata che ci aspettava.
Recuperammo le bisacce che avevamo utilizzato per la prima parte del viaggio dal loro nascondiglio in fondo agli zaini e le riempimmo delle banalità: vestiti di ricambio, una coperta, il Nalgask per me e la menta per Durza. Poi nascondemmo le lame sotto il materasso e per un lungo attimo mi dispiacque lasciare lì la mia spada, quasi fosse un amico che abbandonavo nelle difficoltà.
Era stata forgiata per me quando ero ancora una ragazzina ed ero partita per la mia prima missione diplomatica. Quante primavere avevo allora? Trenta? Trentadue?
Ricordavo il volto impassibile di mia madre, il sorriso incoraggiante di Däthedr mentre mi porgeva il suo dono: una lama realizzata su misura per me, anche con l'aiuto di Fäolin, che conosceva alla perfezione il mio stile di combattimento.
L'avevo banalmente chiamata Ren, promessa o giuramento nella lingua degli uomini, talmente forte era la mia convinzione nell'assumere il ruolo di ambasciatrice e sostenere il mio popolo. Per me era stata davvero una scelta importante, che mi era costata parecchio: ero andata contro a tutte le aspettative e in molti avevano dubitato di me data la mia giovanissima età, tuttavia mi ero allenata e avevo studiato duramente per avere quella carica e alla fine l'avevo guadagnata.
«Arya?» la voce dello Spettro mi risucchiò nella realtà.
Ero ancora inginocchiata sul pavimento, le mani strette intorno al fodero di Ren.
«Dimmi» nascosi la spada e mi alzai.
«Il Fricai Andlat dovresti lasciarlo qui».
«L'ho già nascosto insieme alle spade» lo rassicurai.
«Avresti fatto meglio a lasciarlo direttamente dall'erborista, ma ormai..»
Stirai le labbra in un sorriso amaro -non vista- pensando a chi veramente mi aveva fornito quella boccetta e a quali fossero le sue vere intenzioni. Avevo smesso di considerare Alba un'inerme e piagnona umana da quando Durza aveva ricevuto quella comunicazione da lei, in piena notte. Non lasci che una semplice serva interagisca con soggetti importanti e pericolosi quanto i Ra'zac, specie se hanno informazioni rilevanti -che tu le conosca già o meno. A giudicare da quello che ormai sapevo di lei doveva trovarsi anche al di sopra di Hillr, forse non nell'amministrazione di Gil'ead, ma perlomeno nelle forze che dipendevano dallo Spettro sì.
E a paragonarla con la visione che avevo avuto io di lei, la donna a cui stavo pensando sembrava un'altra persona. Più misteriosa, ingannatrice e pericolosa.
Non fui di molta compagnia quella mattina: ero concentrata sulla nostra missione e stavo ripassando mentalmente il mio comportamento da debole donna umana, che avrei dovuto mantenere ben solido per tutto il tempo, senza osare mai gettare la maschera.
Quando arrivammo in prossimità della chiesa, però, qualcuno decise di distrarmi.
Lo Spettro mi trattenne nel vicolo che dava sulla piazza della cattedrale, si bloccò al lato della strada e mi si fece più vicino, abbandonando la bisaccia ai suoi piedi. Non feci domande e accettai la carezza gelida delle sue dita, che mi sfiorarono delicatamente il viso.
Ma il bacio che seguì non ebbe niente di delicato. Era frenetico, esigente, avido come non mai. Non mi baciava in quella maniera dalla sera in cui era tornato dalla città del dolore e le sensazioni che provai mi parvero ancora più intense di quelle a cui mi ero abituata negli ultimi tempi, mi sballottarono qua e là senza pietà, disorientandomi e sprofondandomi in un dolce oblio.
Durza baciò le mie labbra, le succhiò, le morse con un entusiasmo che rasentava la disperazione, mentre le sue dita si incastravano tra i miei capelli, scompigliandomi la treccia, e i suoi occhi si spalancavano voraci su di me, facendomi improvvisamente sentire trasparente.
La bisaccia mi cadde dalle mani e mi aggrappai alle sue braccia -unico punto fermo che trovai in quel delirio- e allo stesso tempo abbandonai la mia postura rigida, permettendogli di tirarmi a sé con una violenza che quasi mi tolse il respiro.
Sentii il calore del suo corpo colpirmi come uno schiaffo attraverso i vestiti e fui improvvisamente cosciente delle sue mani strette quasi con cattiveria sulla mia schiena, del mio seno premuto contro il suo petto e del fortissimo sapore di menta che mi pizzicava la gola. Mi parve di sentire il mio spirito vibrare e mi colse un’ansia incontrollabile, come un incendio estivo su un tetto di paglia. Somigliava vagamente al trasporto feroce che si provava in battaglia, dove la ragione sfumava nell'istinto, e alla sensazione che si sentiva a stare su un picco alto, quando si era padroni del mondo.
Ero certa che avrei potuto continuare a baciare Durza fino alla fine dei tempi e non averne mai abbastanza, e allo stesso tempo volevo.. di più. Più baci, più carezze, più calore.
Ma non era il luogo e neanche il momento. Il rito stava per cominciare e quella mattina non potevamo proprio mancare, tuttavia fu quasi faticoso abbandonare le labbra dello Spettro, sciogliere le mani dal suo mantello, e tornare bruscamente alla realtà non appena le campane suonarono.
Quando entrammo in chiesa Durza aveva ancora il respiro pesante e io mi sentivo riscossa, devastata e profondamente turbata.
I confini netti che avevo sempre mantenuto nei suoi confronti si erano rotti. Altre volte mi ero volentieri abbandonata alle sue labbra, quel giorno mi ero abbandonata e basta, in maniera totale.
Eppure non mi sentivo abbattuta, non mi sembrava di aver calpestato la mia dignità o la mia integrità. Mi era sembrato naturale e il fatto che lo Spettro ne fosse rimasto trascinato quanto me contribuì a calmare la mia agitazione e a scacciare l'episodio dalla mia mente.
Per il resto della funzione tormentai la tracolla della bisaccia e mi concentrai per tornare totalmente nel mio ruolo. Ero Bitr e non vedevo l'ora di servire Dio, ero lenta, ignorante, spaventata, non sapevo cosa fosse la magia, tanto meno una spada e non provavo più alcun sentimento per quello che era stato mio marito.
Guardai Durza e lui posò su di me occhi ardenti di fiamme e umidi di smarrimento.
Ci stringemmo una mano, in un gesto di incoraggiamento reciproco. Quello che stavamo per fare non era impossibile, ma così tanto più grande di noi che entrambi ce ne sentivamo schiacciati. Era in ballo il futuro di Alagaësia e il destino di migliaia di persone.
Il rito terminò troppo in fretta e, ricevuto il Segno, Gagnsamr ci venne a recuperare dall'esterno della cattedrale e ci fece cenno di seguirlo con i nostri bagagli.
«Vi mostro immediatamente i dormitori così potrete lasciare lì le vostre cose e mi seguirete più agilmente mentre vi mostro gli ambienti».
Mi sarebbe piaciuto dirgli che non c'era bisogno, che ormai conoscevamo a memoria gli ambienti, grazie alla mappa di Ditolesto.
Arrivammo all'altezza dell'altare -dove il monaco si inginocchiò portando un pugno al petto- e imboccammo una porticina a sinistra di esso, che portava ad una piccola stanza che sapevo essere la sagrestia. Tre Sacerdoti riponevano, su un tavolo coperto da un ricco drappo dai colori cupi, le coppe utilizzate per segnare i fedeli di sangue.
«Novizi?» chiese uno, sfilandosi la larga veste nera da cerimonia e scoprendo abiti più stretti, che mettevano in risalto le parti amputate -nel suo caso una mano e un piede.
La nostra guida rispose affermativamente, con grande rispetto e chinando lievemente il capo. Emulammo quel suo saluto e lo seguimmo oltre un'altra porta, che dava su un cortile quadrato, incorniciato da un portico colonnato. Eravamo nel chiostro e sul portico si affacciavano diverse aperture, che conducevano agli edifici interni. Una graziosa fontana campeggiava nel centro esatto dello spazio erboso, spenta. Il bocchino, che probabilmente spruzzava acqua nelle stagioni più calde, aveva l'inconfondibile forma di una testa di avvoltoio.
Feci il punto della situazione. Stando alla mappa di Ditolesto, sul lato alla mia destra si trovavano gli edifici dei Sacerdoti, con il loro dormitorio, le loro latrine e i loro ambienti da bagno; alla mia sinistra si trovavano il refettorio e la cucina, che proseguiva su un altro cortile di servizio, e dritto davanti a me si trovavano i dormitori dei monaci, con sopra l'infermeria.
Gagnsamr proseguì sul lato sinistro del porticato, passando accanto alle porte che dovevano condurre al refettorio e alle cucine e si fermò in corrispondenza del lato opposto a quello da cui eravamo entrati, dove appunto si trovavano i dormitori monacali.
«Britt per di qua» disse accennando alla prima porta che incontrammo, che celava il dormitorio femminile.
«Sono Bitr» corressi automaticamente, seguendo le sue indicazioni e aprendo la soglia.
Una doppia fila di pagliericci -sei in tutto- occupava tutta la stanza, ed erano l'unico arredamento oltre ad un chiodo sopra ciascuno, da cui pendevano abiti e mantelli.
«Mi hanno detto che il tuo giaciglio è l'ultimo a sinistra» mi istruì il monaco dall'esterno.
«Grazie» risposi e mi ci avviai per lasciare le mie cose.
Mentre appoggiavo la bisaccia sul pagliericcio e mi guardavo intorno sentivo le voci provenire dalla stanza attigua, dove il monaco stava accompagnando Durza di persona. A quanto pareva le regole di divisione dei dormitori erano abbastanza rigide, dato che non si era nemmeno arrischiato ad affacciarsi in quello femminile.
Un altro suono proveniva dall'altra parete, un chiacchiericcio sommesso, un rumore di stoviglie e il fruscio di un fuoco acceso. Quella stanza condivideva il muro con la cucina e si sentivano i suoni delle persone al lavoro, ecco perché non c'era nessuno in giro
Tornai a guardare la stanza. I letti erano molto vicini -circa un paio di piedi l'uno dall'altro e le coperte e le lenzuola giacevano ordinatamente piegate su ciascun giaciglio, ma non vi era traccia delle minime comodità quali un cuscino o una stufa.
Al chiodo sopra al mio letto era appesa una veste di rozza iuta grigiastra, la stessa che indossavano i monaci, ma non vidi nessuna catena.
Seguendo i discorsi della stanza accanto venni a sapere che le catene da mettere a cintura ci sarebbero state consegnate non appena avessimo prestato giuramento ufficiale davanti a Dio, fino ad allora potevamo tenere ferma la tonaca con le nostre cinture. Dando per scontato che il discorso che valeva per Durza valesse anche per me, mi slacciai il mantello, mi sciolsi di vita la cintura e la utilizzai come aveva suggerito Gagnsamr. La veste pizzicava contro la pelle nuda del collo, così nascosi i capelli sotto la stoffa per limitarne in parte il contatto. Non scaldava neanche lontanamente quanto il mio mantello, ma con i miei abiti sotto non pativo particolarmente il freddo.
Uscii nel chiostro nello stesso istante in cui lo fecero lo Spettro e il monaco. Durza era bardato come me e vederlo in quegli abiti quasi da penitente era piuttosto ridicolo.
«Bene, vedo che te la sei cavata senza le mie istruzioni!» esclamò il monaco. «Ora seguitemi e non disturbate le attività della cattedrale, ve ne prego. Come ho già detto al tuo compagno», disse rivolgendosi a me, «esattamente sopra ai dormitori di trova l'infermeria, a cui si accede dai dormitori maschili tramite una scala. Ora, a meno che uno di voi non dimostri di avere doti curative o non vi ammaliate la cosa non dovrebbe interessarvi più di tanto».
Lo Spettro intervenne: «Non credo che saremo abili in una simile arte». E vi lessi un sottile ammonimento in quella precisazione. «A Teirm eravamo commercianti di stoffe e..»
«Oh, non voglio sapere cosa eravate. Da quando vi consacrerete a Dio non avrà più alcuna importanza cosa eravate prima, se nobili, accattoni, ricchi, poveri, istruiti o ignoranti. Sarà come nascere una seconda volta e potrete anche scegliere un nuovo nome, purché non sia un nome già preso da uno dei Sacerdoti. Dunque.. di qua ci sono le cucine».
Spalancò la porta accanto al dormitorio femminile, quella che ne condivideva le pareti. La mappa non aveva peccato, dunque. Trovammo un gruppo di monaci, tra uomini e donne, intenti a riassettare l'ambiente. Non interruppero il loro lavoro, sembrammo quasi invisibili ai loro occhi.
«Qui prepariamo i pasti per la Carne di Dio, tre volte al giorno. Sappiate che noi non mangiamo mai con loro. Il nostro primo pasto del mattino c'è al sorgere del sole, poi abbiamo il tempo appena sufficiente di sgomberare la sala e prepararla per il pasto mattutino dei Sacerdoti. Per il pranzo del mezzodì e della sera è il contrario: prima serviamo i Sacerdoti e quando hanno terminato abbiamo il permesso di nutrirci a nostra volta. Qui sopra», puntò al soffitto e notai solo in quel momento la ripida scaletta che si arrampicava al piano superiore, «c'è una stanza dove stendiamo il bucato ad asciugare. Vedete quelle fenditure? Da lì passa il calore del fuoco e permette di rendere l'operazione molto più veloce».
Dalla cucina finimmo in un ulteriore cortile erboso, quadrato, palesemente di servizio. Al centro si ergeva un pozzo di mattoni rossi, sulla sinistra un pugno di cabinotti emanavano l'inconfondibile odore di latrina e sulla destra, sotto un portico, si trovava la lavanderia vera e propria, con le sue vasche e i suoi piani di legno.
Accanto alla lavanderia prendeva spazio un bell'orticello. L'intero cortiletto era circondato da un muro di mattoni, che aderiva alla strada, dalla quale provenivano i rumori della vita cittadina.
Gagnsamr ci ricondusse poi nel chiostro dove ci mostrò l'ingresso del refettorio e quello dei dormitori dei Sacerdoti, precisandoci che l'ingresso ad esso ci era proibito se non nelle ore in cui erano ritirati in preghiera nella cattedrale -e in quel momento ci era proibito l'accesso alla cattedrale- quando dovevamo ripulirlo e riassettarlo. Mi parve di sentire una ventina di respiri profondi, da dormienti, provenire dal piano superiore del dormitorio.
Quel giro fu quasi totalmente inutile perché entrambi sapevamo già com'erano ripartite le stanze superiori, il nostro interesse andava a quelle sotterranee, ovviamente. Ed era ancora più ovvio che i monaci sapevano a malapena della loro esistenza. Gagnsamr accennò solo ad una cappella riservata ai Sacerdoti, che si trovava sotto alla chiesa, ma che aveva un accesso segreto che nessuno conosceva a parte i diretti interessati.
Nessun problema, lo avrei scovato.
Poi il monaco passò alla spiegazione dei compiti dei monaci. Dovevamo svegliarci all'alba, lasciare il dormitorio in ordine, consumare una colazione veloce e poi affaccendarsi per quella dei Sacerdoti. Subito dopo dovevamo presenziare alla funzione del mattino.
«Ma fino a che non sarete monaci non potrete salire sull'abside insieme a noi quindi dovrete mischiarvi alla folla» specificò.
Poi c'era la preparazione e la consumazione del pranzo. Da quel momento del giorno in poi i monaci si dividevano i compiti: chi si occupava di riordinare il refettorio, chi la cucina, chi ripuliva gli oggetti sacri utilizzati per il rito, chi faceva il bucato, chi curava l'orto.. A turni, i monaci si recavano all'esterno per fare acquisti al mercato o occuparsi dei cavalli riservati ai Sacerdoti, che erano tenuti in una stalla vicina alle mura della cerchia esterna.
«Sarete assegnati ad un compito se verrà fuori una vostra particolare attitudine, altrimenti ogni giorno ruoterete ad un lavoro diverso» ci informò Gagnsamr.
Spesso e volentieri i fedeli portavano doni: cibo, piccoli monili, stoffe e simili. Gli oggetti di uso pratico dovevamo riporli nella dispensa sotto la cucina e negli scaffali della stanza dove si asciugava il bucato, ma gli oggetti preziosi -proibiti ai monaci- dovevano essere lasciati dietro all'altare, ai Sacerdoti, che a quanto pareva sapevano bene come usarli.
Insomma i monaci erano una sorta di servi all'interno della chiesa dell'Helgrind. Servi che ricevevano vitto e alloggio in cambio dei loro servizi e che onoravano Dio occupandosi semplicemente dei Sacerdoti e trascorrendo il resto del loro tempo libero in preghiera. Conoscevano la religione, ma non il libro di Tosk, riservato ai Sacerdoti, quasi nessuno di loro sapeva leggere o scrivere e provenivano tutti da ceti bassi, dato che qualunque nobile avrebbe disprezzato le loro condizioni.
«Non fatevi illusioni», aggiunse Gagnsamr, «qui c'è sempre molto da fare. Siamo quindici monaci -voi inclusi- e dobbiamo occuparci di ottantacinque persone».
Quasi sobbalzai. «Ottantacinque?» chiesi cautamente.
Il monaco annuì. «I Sacerdoti praticanti sono ventiquattro, poi abbiamo una decina di novizi e cinquanta guardie».
Durza assunse un'espressione di innocente stupore. «Non avevo mai visto guardie nella cattedrale» insinuò.
«Diciamo che è una sorta di piccolo segreto. I fedeli non ne sono messi a parte, anche se probabilmente molti di loro lo sanno per sentito dire o per le chiacchiere troppo indiscrete di un monaco. Le guardie sono parte dell'ordine sacerdotale e proteggono i segreti di Dio insieme ai praticanti, che però non possono difendersi visti i sacrifici che il loro alto compito richiede. Sono stati istituiti per la loro protezione, noi li chiamiamo le Ombre e li onoriamo come carne di Dio».
Io e lo Spettro ci guardammo di sottecchi. Sapevamo delle guardie, ma non sapevamo che fossero così tante. Probabilmente anche loro svolgevano i loro compiti sottoterra, insieme agli avvoltoi, e forse i respiri che avevo sentito provenire dal dormitorio dei Sacerdoti erano di alcuni di loro che avevamo vegliato per tutta la notte. Doppia cautela, dunque.
Quando il vecchio ebbe terminato di impartirci ordini e istruzioni era ormai mezzodì e ci condusse direttamente alle cucine, dove aiutammo ad imbastire il pranzo per i Sacerdoti e poi consumammo il nostro.
Durante il pasto dei primi assistetti a scenette grottesche: figure che mangiavano con la faccia nel piatto, vista l'impossibilità di usare gli arti, che si imboccavano a vicenda o che mangiavano con l'aiuto di un monaco.
Vidi anche qualche membro delle Ombre: indossavano abiti neri e farsetti imbottiti e avevano le spade al fianco, ma erano veramente in pochi, quindi dedussi che il cibo che tenemmo da parte fosse destinato ai loro compari, rintanati nel ventre della terra.
Dopo gli Avvoltoi si ritirarono in chiesa e non ne uscirono più per il resto della giornata. Dovevano essere nelle loro stanze sotterranee, senza dubbio.
Gagnsamr ci aveva detto che i monaci non avevano un capo e che dipendevano direttamente dal volere dei Sacerdoti e del Sacerdote Supremo prima di tutti, ma lui sembrava una sorta di coordinatore all'interno della comunità: si occupava dell'educazione dei fedeli, accoglieva i novizi ed assegnava i compiti per il giorno.
Durza fu mandato con tre monaci ad occuparsi dei cavalli, mentre io, forse perché ero una donna, fui assegnata alle cucine.
Fu presto chiaro a tutti i sei monaci che si affaccendavano tra le pentole che la mia “attitudine” non era certo alla cucina, del resto se avessero saputo chi ero avrebbero capito: noi Elfi non mangiavamo molto cibo cucinato, oltre ai dolci, al pane e ai vegetali e in ogni caso non mi ero mai trovata nella condizione di dover provvedere di persona. Quando soggiornavo a Tronjheim mi era sufficiente recarmi alla mensa e richiedere un pasto, quando tornavo ad Ellesméra mi venivano addirittura serviti in camera, se preferivo non scendere a consumarli con mia madre. Durante gli spostamenti eravamo soliti mangiare pasti freddi, per dare meno nell'occhio e muoverci più veloci sul territorio dell'impero. Prudenze che tra l'altro si erano rivelate inutili..
Insomma l'unica cosa che mi ero vista in grado di fare autonomamente era stato tagliare le verdure per lo stufato, per il resto ero quasi d'impaccio. Senza contare che i miei guanti tagliati erano guardati con un velo di disapprovazione.
Non conversai molto con le persone che mi circondavano: un po' perché ero silenziosa di mio, un po' perché nessuno pareva a suo agio nel parlare di ciò che gli era accaduto prima di diventare monaco, quindi le mie possibilità di appigliarmi a qualcosa si riducevano drasticamente. Quando si parlava si parlava di Dio, degli Avvoltoi, della chiesa e dei propri doveri, nessuno aveva legami di amicizia con nessun altro, tutti erano semplici compagni che come loro servivano Dio.
Ulteriore elemento di estraneità era dato dai miei capelli. Tutti, uomini e donne, avevano il cranio rasato, così volevano le regole e tutti tenevano il cappuccio sollevato per riscaldarsi la testa altrimenti esposta al gelo. La mia spessa treccia nera mi identificava per quello che ero: al di sotto di una novizia, introdotta tra di loro solo perché si erano momentaneamente trovati a corto di adepti.
Quando il sole cominciò la sua discesa verso il tramonto i Sacerdoti uscirono in massa dalla chiesa insieme ai loro novizi e si riunirono nuovamente nel refettorio. Rividi il tale che io e Durza avevamo origliato mentre beveva il suo calice di sangue, ormai era un Sacerdote in piena regola e indossava le loro stesse vesti nere, inoltre gli mancava già il pollice della mano sinistra.
Mentre riportavo in cucina una pila di piatti di terracotta, apparve Gagnsamr e mi trasse in disparte.
«Nessuno deve sapere nulla di tuo figlio», mi bisbigliò, «o finirò nei guai io per averti ammessa in queste condizioni, ma anche te perché verrai scacciata».
«Non temere» risposi serenamente, ricordandomi solo in quel momento della mia presunta gravidanza.
«Lo dirò anche a Natt».
Ebbi il buon senso di non chiedere dove si fosse cacciato Durza, ma non lo vedevo da mezzodì e cominciavo ad essere preoccupata.
Lo Spettro in questione apparve quando venne il turno dei monaci di cenare, accompagnato da due uomini di mezza età con i quali sembrava aver fatto amicizia, perché parlavano e ridevano sommessamente tra di loro. I suoi capelli rossi spiccavano nel grigiore dell'ambiente: un'impertinente macchia di colore.
Essendo assegnata alle cucine dovetti aiutare a servire anche i monaci, che in realtà, essendo solo tredici in tutto -quindici con me e lo Spettro- occupavano una minima parte di uno dei lunghi tavoli che i Sacerdoti, i Novizi e le Ombre avevano riempito.
Durza ammiccò quando posai il pasto davanti a lui e io gli strinsi furtivamente la spalla per informarlo che andava tutto bene. Ma poi gettai un'occhiata alle strette finestre e alla notte che avanzava inesorabile e mi resi conto di cosa significasse. Potevo non dormire per un giorno, anche due, tre o quattro, non di più, il mio fisico non avrebbe retto.
Mi sedetti tra una donna dai grandi occhi marroni e un uomo dall'aria severa.
La donna mi guardò amichevolmente e si presentò: «Mi chiamo Tove».
«Bitr».
Ci stringemmo il polso destro. La sua prima domanda mi fece sorridere.
«Perché hai i capelli?»
Le spiegai del particolare noviziato che stavo seguendo.
«Anche l'uomo con i capelli rossi è nella tua stessa situazione?»
«Sì».
«Succede raramente che Gagnsamr faccia venire qualcuno prima ancora che abbia giurato, ma puoi stare tranquilla, Dio ti accoglierà come ha accolto tutti noi».
«Già, ma di solito si prendono almeno le persone che hanno concluso la loro istruzione» fu l'aspro intervento dell'uomo dall'aria severa.
«Mi chiamo Bitr» replicai candidamente, senza porgergli il braccio.
«Sono Mikell. Il mio nome significa “simile a Dio” nell'antico dialetto del vate Tosk».
Feci un cenno del capo. «Ne sarai orgoglioso».
Indubbiamente lo era, lo avrebbe capito anche un bambino.
«Molto. Il tuo cosa significa?»
«Nulla, credo».
Mi guardò con superiorità. «Potrai cambiarlo quando diventerai monaca» mi provocò.
«Quindi entro due-tre settimane» conclusi, alzandomi dal mio posto e portando il mio piatto integro al cortile di servizio, dove lo vuotai nello scolo.
Stufato di verdure e carne di pollo. Non sarei mai riuscita a mangiarlo, a meno che non stessi per morire di fame, e non ero ancora nella condizione.
Ah, e Mikell era un insopportabile e tronfio vecchio.
Tornai al refettorio per aiutare a ripulire il tutto, poi venne l'ora della lezione, che io e lo Spettro seguimmo insieme alle solite persone, che guardarono incuriosite la nostra mise.
Poi Gagnsamr venne verso di me con Durza al seguito.
«Sedete dove preferite, ma lasciate libere le panche davanti per i nobili della città. Concluso il rito andate alle porte per ricevere il segno, ma poi restate all'interno. I portoni vengono chiusi per la notte».
Facemmo come ci aveva detto. Sedemmo in fondo, in quella che doveva essere diventata la nostra panca preferita e, per la prima volta da quando ci eravamo baciati, mi ritrovai da sola con lo Spettro.
«Com'è andata?» mormorò esibendo un sorriso accennato, gli occhi castani che brillavano quasi giocosi.
«Credo che non mi metteranno mai più in cucina».
Ridacchiò .«A me è andata meglio. Ho portato a passeggio un paio di cavalli per tutto il pomeriggio».
«Sì, decisamente molto meglio».
«Ti ho vista discutere con un tizio, prima».
«Mikell» lo informai. «Un idiota.»
«Come molti altri qui dentro. Come hai fatto con la cena? La brodaglia di cadaveri era di tuo gradimento?» mi stuzzicò con sarcasmo.
«L'ho buttata. E comunque mi sembravi circondato da amabile compagnia».
Annuì lentamente. «Trygg e Stian sono due persone sopportabili. Elof invece no, non so perché sia finito tra i sacerdoti ma continua a parlare della sua ricchezza perduta e dell'ingiustizia del padre nel preferire suo fratello minore come suo erede. E non ha parlato d'altro per tutto il pomeriggio, stavo morendo di noia».
«In ogni caso non siamo qui per fare amicizie» lo consolai.
«No, infatti. Te hai scoperto qualcosa?»
«Ho intuito da quello che ci ha detto Gagnsamr stamattina.. immagino che l'ingresso agli ambienti sotterranei si trovi qui dentro, anche perché i Sacerdoti sono rimasti qui tutto il giorno».
«Allora dovremmo perlustrare la chiesa, che dici?»
«Quando?»
«Stanotte».
«Non la chiuderanno a chiave, vero?»
«Perché dovrebbero? I monaci non rappresentano una minaccia per loro e in teoria hanno delle guardie armate a proteggere i loro segreti. So che a parte la magia siamo disarmati, ma per ora propongo solo una rapida ispezione per trovare l'ingresso, poi ci avventureremo là sotto solo quando saremo in grado di difenderci».
«Allora vediamoci nella sagrestia a mezzanotte. Aspettiamo un'ora e se l'altro non è arrivato torniamo ai rispettivi dormitori».
Mi scoccò uno sguardo malizioso. «Vorresti davvero farmi credere che non stai cercando di incantarmi?»
«Sei il solito idiota» sbuffai.
«Mi sei mancata anche tu».
Non riuscii a fermare un sorriso.
Dopo la funzione assistemmo a retroscena che di solito perdevamo quando lasciavamo immediatamente la cattedrale. Dopo aver segnato tutti i fedeli, i Sacerdoti facevano anche il giro tra i monaci, ma non si sporcavano tra di loro, forse perché non potevano ringraziarsi per il loro stesso sacrificio.
Gli Avvoltoi sparirono in massa nei propri dormitori, mentre noi affiancammo i monaci nelle operazioni di ripulita del refettorio e della cucina. Un gruppetto fu mandato a pulire l'altare dalla striscia di sangue lasciata dal sacerdote officiante e a lucidare le bellissime coppe che avevano contenuto il sangue.
Poi, stanchi dal lungo giorno di lavoro, i monaci si coricarono.
Seguii le monache con cui avrei condiviso la stanza, affiancata da Tove, la donna che avevo conosciuto durante la cena.
Lo Spettro mi lanciò una lunga occhiata, prima di sparire oltre alla porta accanto. Ci vediamo dopo, mi diceva.
«Vieni, ti presento le altre» disse pacatamente Tove, facendomi cenno di entrare. «Compagne», annunciò poi una volta che ebbe chiuso la soglia, «questa è..» si interruppe, a disagio.
«Sono Bitr» suggerii, stampandomi in volto un sorriso indulgente.
«Bitr!» esclamò, come se lo avesse appena ricordato. «Queste sono Gefion, Delling, Elin e Helsa». Indicò rispettivamente un donna abbastanza alta dallo sguardo intelligente; una molto bella per essere un'umana, con le labbra rosse e carnose e il viso rotondo; una dall'espressione assente e una bassina, con un'ombra infelice negli occhi.
Mi rivolsero tutte un sorriso cortese, fecero qualche domanda di circostanza -tipo come fosse andata la mia prima giornata- ma poi fu evidente che non vedevano l'ora di andare a dormire.
Rimasi distesa nel buio totale per delle ore, aspettando le campane che annunciavano la mezzanotte, che sapevo suonate da un membro delle Ombre, che concludeva il suo turno sul campanile e poi andava a dormire.
Quando le campane suonarono giacqui immobile ancora un poco, in attesa di sentire l'uomo che entrava nel dormitorio, ma un altro suono mi sorprese. Una figura si alzò da uno dei giacigli più vicini alla porta e sgusciò non troppo silenziosamente fuori nel chiostro.
Mi parve di riconoscere Delling, la più giovane delle monache e anche la più graziosa. Poi sentii dall'esterno altri passi, ancora più pesanti, unirsi ai suoi e dirigersi verso le cucine, poi sparirono.
Arrotolai le coperte che mi ero portata dietro, sistemai un po' la bisaccia e coprii il tutto con le coperte che mi erano state fornite: al buio poteva sembrare che non mi fossi mossa dal mio giaciglio.
Senza fare un suono, uscii anche io nel chiostro e mi affacciai guardinga alla porta della cucina. Sentii due risatine, fruscii di abiti e qualche sospiro.
Forse i monaci e i Sacerdoti avevano come unico desiderio quello di servire Dio, ma non si facevano problemi a prendersi qualche libertà. Immaginai la guardia che aveva suonato le campane scendere pigramente, recuperare Delling e portarla con sé nel buio della dispensa, sotto il refettorio, dove nessuno sarebbe mai venuto a spiare a quell'ora di notte e dove nessuno -a parte me ovviamente- avrebbe sentito. Almeno non ero l'unica a darmi alle uscite clandestine.
Durza uscì in quel momento dal suo dormitorio, mi si avvicinò e vidi l'ombra della sua testa inclinarsi leggermente di lato. Quando faceva così sapevo che ascoltava suoni lontani.
Fece uno sbuffo divertito e richiuse l'uscio della cucina. «Non è educato origliare questo tipo di conversazioni, Principessa».
«Stavo valutando se fossero una minaccia».
«È una tua compagna di stanza o una sacerdotessa quella che sta.. conversando?»
«Una mia compagna, ma la stanza è buia e ho lasciato le coperte a fare il loro dovere. Possiamo andare».
«Bene allora».
Con mia profonda sorpresa, entrammo in chiesa senza dovere abbattere porte o serrature.
«Te l'avevo detto» cantilenò Durza.
Qualche sottile filo di luce soffiava dalle ampie vetrate, lasciando l'ambiente in una dolce penombra. Non sarebbe stato troppo difficile perlustrarla da cima a fondo.
«Io parto dal fondo e tu fai l'abside» proposi.
Lo Spettro mi afferrò una mano. «Te non ti stacchi da me, piccola Elfa. Non so cosa troveremo e voglio essere pronto ad intervenire».
Rimasi interdetta qualche istante. «Come vuoi tu» accordai alla fine.
Cominciammo dall'abside, insieme. Tastammo l'altare, le pareti, i pavimenti. Alla fine, sul fondo dell'abside, nascosta ai fedeli, ci ritrovammo davanti ad una pala che raffigurava realisticamente i colli dell'Helgrind, incompiuta.
La spostammo, scoprendo un'altra lastra di marmo, apparentemente un qualsiasi altro pezzo della parete, solo più grande. Picchiettai dolcemente sui bordi e sentii un lieve eco.
«Qui sotto è cavo», bisbigliai.
«Proviamo a spostarlo», fu la risposta.
Le dita di Durza non riuscivano a passare nella fessura che separava quella lastra dalle altre, quindi vi incastrai le mie, più sottili, e tirai dolcemente il marmo verso di me. Si spostò senza fare resistenza, aprendo una cavità buia, in fondo alla quale si intravedeva un lieve bagliore.
Poggiai la lastra a terra e mi concentrai sui suoni. Niente.
Allungai cautamente un braccio nell'oscurità e le mie mani sfiorarono un gradino, quindi vi passai le gambe e cominciai a scendere quella che indubbiamente era una scala, seguita a ruota dallo Spettro. E così andò all'aria la nostra intenzione di aspettare di essere almeno armati prima di correre verso l'ignoto.
Scendemmo una lunga rampa, inizialmente ripida e strettissima e poi sempre più larga, ma comunque scivolosa.
In fondo ad essa trovammo una lanterna, con al suo interno una grossa candela di cera rossa, consumata circa a metà, che lasciava intravedere a malapena il corto corridoio in cui eravamo finiti.
«La città sotterranea» mormorò Durza, afferrando la lanterna. «Ditolesto diceva il vero».
«Sì, ma che posto è?» Posai una mano sul muro, era gelido e forse vagamente umido, ma non era scavato nella roccia viva. C'erano lastre di pietra incollate le une alle altre con un'abilità che credevo solo i nani potessero avere, eppure non mi sembravano certamente le pareti di una fogna, c'era anche un tappeto sotto i nostri piedi, sottile e consumato, ma c'era.
Il nostro corridoio presentava due alternative: una porta sulla sinistra e una in fondo ad esso.
Optammo per quella a sinistra e ci ritrovammo in un piccolo ambiente quadrato che doveva essere la cappella dove si era svolto il rituale per ammettere il novizio tra i sacerdoti, che avevamo origliato dall'esterno. La struttura era in tutto e per tutto simile a quella della chiesa superiore, ma non vi trovammo alcun oggetto di interesse e non aveva altri sbocchi verso l'esterno.
Tornammo al corridoio e prendemmo la porta in fondo ad esso: dava su un ulteriore corridoio, più largo e lungo, con affacciate tre porte.
Nella prima a sinistra trovammo una sorta di vasca rotonda incassata nel pavimento, circondata da scaffali contenenti drappi di velluto nero e preziosissime coppe incastonate di pietre colorate. Riconobbi parecchi rubini autentici.
Ma l'odore che emanava era inconfondibile.
«Hanno una piscina di sangue umano», decretai disgustata.
«Credo sia quello che utilizzano per segnare i fedeli a fine funzione. Quanto sarà profonda secondo te?»
«Spero poco, o i Sacerdoti devono pagare un prezzo molto alto per mantenerla sempre piena».
Durza si avvicinò all'orlo.
«Cosa vuoi fare?» domandai allarmata.
«Verificare», rispose asciutto, posando la lanterna e arrotolandosi la manica fino al gomito. Entrambi avevamo ancora le vesti monacali sopra i nostri abiti, ma lui aveva anche il mantello.
Il braccio dello Spettro scivolò nel liquido vischioso fino a quasi raggiungere i vestiti. «Sono pazzi» sentenziò.
La vasca era grande quanto quattro di quelle che avevo utilizzando per farmi un bagno all'Avvoltoio e, anche se non era molto profonda, aveva comunque un'enorme capienza. I Sacerdoti dovevano essere perennemente in fragili condizioni a causa di qualche perdita: di arti, di sangue, di senno..
Durza si asciugò il braccio sul retro di uno dei panni di velluto e mi fece cenno di volere uscire rapidamente, lasciandomi il compito di recuperare la lanterna. Non credevo che il sangue lo avesse impressionato, quindi doveva essere successo qualcos'altro, ma si rifiutò di spiegarmelo.
«Continuiamo a guardarci intorno», disse semplicemente, dicendomi di tenere la nostra fonte luminosa.
Nella stanza accanto trovammo denaro e gioielli in quantità incredibili, forse dovute agli omaggi dei ricchi credenti, che speravano così di ingraziarsi il loro Dio. Tutto era ordinatamente riposto in mensole, scaffali, cassetti e bauli, quasi qualcuno si occupasse regolarmente della cura di quelle ricchezze. Forse avevano un tesoriere incaricato del compito.
Oltre la terza porta si affacciavano stanze comunicanti a catena. Sembrava che l'intera struttura sotterranea seguisse la scia di una chiocciola: lunga e sottile. Se quegli ambienti erano stati costruiti sulla struttura delle vecchie fogne della città, esse erano decisamente inutilizzate da secoli.
Un lontanissimo rumore di passi fece salire la mia attenzione alle stelle. Sfiorai il braccio di Durza e lo invitai ad ascoltare e anche lui parve allarmato e concorde nell'affermare che provenissero dal nostro stesso piano.
«Apri lo sportello della lanterna e stai pronta a spegnere la candela» bisbigliò.
Ma i passi scemarono nel silenzio, e tuttavia servirono a ricordarci che non eravamo al sicuro, che i Sacerdoti non andavano sottovalutati e che non tutti erano di sopra a riposare.
Avanzammo in silenzio assoluto nella prima stanza e la lanterna illuminò strane e allungate boccette di vetro, libri lasciati spalancati sugli scrittoi e scatole di candele nuove ammucchiate accanto a quelle ridotte a mozziconi.
Ovunque fossimo, eravamo arrivati. Gli studi degli Avvoltoi e i loro libri erano a portata di mano.
Agganciai la lanterna ad uno scrittoio dal tavolo inclinato e analizzai il contenuto dei libri poggiati lì sopra. Sembravano libri sull'anatomia umana e realizzai con sdegno che i Sacerdoti stavano studiando quali parti non vitali fosse il caso di amputare per non perdere la vita.
«Ora dovresti darmi qualche indizio su cosa stiamo cercando, Spettro, o dubito che riuscirò ad aiutarti».
«Qualunque cosa riguardante la magia.. e i draghi».
«I draghi?»
«Arya sai che le domande saranno inutili, non.. non posso rispondere».
Mi affrettai a scusarmi. «Va bene, cerco quello che dici tu».
Prendemmo una pergamena ciascuno e cominciammo a scorrere rapidamente le righe, mentre la candela rossa si consumava lentamente e colava la sua cera nel piatto della lanterna.
Trovai molti studi sulla natura e suoi suoi usi: liste di piante velenose, i loro effetti e i loro antidoti, ma anche piante curative. Alcuni erano piuttosto grossolani e rudimentali, altri addirittura sbagliati e affidati alla pura superstizione, ma non erano affatto male per essere condotti da degli umani.
Mischiati ai libri e alle pergamene trovai polveri, preparati di veleni e erbe appese a seccare. Al contrario delle stanze precedenti, quella sembrava piuttosto disordinata, anche se era chiaro che il macro-argomento studiato in quella stanza era la natura, vegetale, animale o umana.
Un cigolio ruppe il silenzio.
«Vado a dare un'occhiata alla candela, tra un po' dovrebbero venire a darci il cambio».
«Sì, vai anche a svegliarli, quelli non vengono mai senza un aiutino».
Mi inumidii indice e pollice e soffocai la fiamma della nostra lanterna repentinamente.
Un'altra luce, proveniente dalle stanze successive, si avvicinò, accompagnata da un respiro e un rumore di passi.
Feci un respiro appena più profondo, per richiamare l'attenzione di Durza, e camminai rapidamente verso le scale. Fortunatamente avevamo lasciato le varie porte aperte e sgusciammo rapidamente fin dentro alla cattedrale, abbandonando la lanterna dove l'avevamo trovata.
La vera impresa fu riaccostare la lastra di marmo senza fare rumore, ma prima di sigillarla sentimmo un'ultima volta la voce dell'uomo: «Si è spenta 'sta stronza!» esclamò, probabilmente rivolto alla candela.
Pregai che non si facesse troppe domande sul come e sul perché.
Dunque non era mai vuoto lì sotto: le Ombre si davano il cambio come qualsiasi guardia imperiale, segnando il tempo con il consumarsi della candela.
«Nascondiamoci in chiesa, Principessa» suggerì Durza spostandosi nella navata sinistra e poi in una nicchia, dietro ad una statua.
Ma non venne nessuno per parecchi minuti. Dovevamo essere vicini alla seconda ora del mattino, quando una ventina di uomini vestiti di nero da testa a piedi, con un velo nero davanti al volto, scostarono la lastra e uscirono dalla porta della sagrestia. Non molto tempo dopo un'altra ventina di guardie fece lo stesso tragitto, ma al contrario.
«Credo che fino a domattina non avremo più traffici», sussurrai pianissimo non appena i rumori scemarono.
Durza si sfilò la tonaca e la stese a terra. «Vediamo di dormire un poco.»
«Vuoi dormire qui?»
Mi sorrise. «Perché? Credevo che la spoglia chiesa di una sanguinaria setta di pazzi fosse l'ideale per portare avanti il tuo corteggiamento».
La stava buttando sul sarcastico, ma fui felice che facesse quello per me: dormire in quella scomoda postazione solo per potermi svegliare non appena le visioni fossero sopraggiunte era un gesto veramente gentile, e io ero in debito con lui per l'ennesima volta.
«Grazie».
Per un attimo parve quasi imbarazzato. «Come al solito è più per me che per te. Mi servi».
La mia gratitudine non scemò. Poggiai la mia tonaca attaccata alla sua e mi coprii con il lembo di mantello che lo Spettro mi offrì e che aveva avuto il buon senso di indossare prima di lasciare il dormitorio.
Anche dopo la mia visione, anche dopo che mi fui calmata, indugiammo sul duro pavimento di marmo, fino a quando non divenne pericoloso esitare ancora e tornammo ognuno al proprio letto.
«Dormi bene», fu il semplice congedo di Durza.
Per un attimo rimasi insoddisfatta sulla soglia, sentendo la mancanza delle sue labbra sulla mia bocca, poi scivolai all'interno silenziosamente e riposai per un paio d'ore.
Finsi di svegliarmi non appena le campane suonarono l'alba e, dopo aver ordinatamente piegato le coperte, seguii le mie compagne all'esterno, dove Gagnsamr dava le direttive per la giornata.



Cattedrale di Dras-Leona ______________________________________________________________________________________________
Ehilà! :D
Allora questo capitolo è stato un parto perché ho dovuto recuperare tutte le descrizioni della cattedrale di "Eragon" e "Inheritance" e vi giuro che è un'impresa!
Qualcuno mi ha chiesto dei nomi dei personaggi: no, non sono dati a caso.
Paolini ha detto di avere ispirato l'antica lingua al Norreno antico e io ho più o meno fatto lo stesso, creando o recuperando nomi dalle tradizioni celtiche, finlandesi, danesi, anche norrene.
I nomi dei nostri monaci hanno un perché e troverete la spiegazione in Appendice 1!

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Capitolo 23
*** Attenzioni indesiderate ***


Ciao
23. Attenzioni indesiderate

«Bitr vai al mercato con Delling e Broder, loro sanno cosa fare, tu limitati a non perderli di vista. Dopo vi darò il denaro, comprate della carne, che è finita, e passate dal taglialegna a ordinare degli altri ciocchi. Mi raccomando non pagatelo subito o quello se la svigna con i soldi, dategli un piccolo anticipo e promettetegli il resto per quando avrà consegnato la legna alla cattedrale», ci istruì Gagnsamr.
Annuimmo e il monaco passò ai compiti degli altri. Durza fu assegnato alla cura degli oggetti sacri, probabilmente Gagnsamr stava facendo di tutto per tenerci il più possibile separati dato che ai suoi occhi eravamo sposati prima di aderire alla chiesa. Sospettava che potessimo.. fare sciocchezze e ci teneva d'occhio.
Lo Spettro mi passò accanto mentre andavamo al refettorio per consumare una frugale colazione.
«Riesci a prendere Sole e Luna dalla locanda? È vicina al mercato», sussurrò.
«Credevo l'avessi sigillata con la magia» risposi con lo stesso tono.
«Sì, ma non per te».
«Hai la chiave?»
«Vado a prendertela, te la farò cadere in mano stavolta», concluse con il divertimento stampato in volto.
Si voltò e si mosse controcorrente verso i dormitori.
Inevitabilmente, pensai a quando le sue dita gelide avevano accompagnato la chiave fin sotto alla scollatura del mio abito, il primo giorno che avevamo partecipato alla funzione. Poi mi riscossi e pensai a come “perdermi” nel caos del mercato e sgusciare fin dentro alla locanda senza farmi notare da Broder e Delling.
Non doveva essere troppo difficile.
I Sacerdoti, che erano precedentemente entrati in chiesa chiudendo la porta a chiave, uscirono portando in spalla il Sommo Sacerdote. Notai delle bende insanguinate sporgere dalle maniche della sua casacca di pelle aderente. Sangue, latte e pane a colazione. Fantastico.
Durante la funzione, Durza mi infilò al collo lo spago a cui era allacciata la chiave della stanza al Covo Segreto, ma lasciò che fossi io stessa a nasconderla sotto i vestiti.
«Ci vediamo stanotte in sagrestia», mormorai dopo il rito, quando Gagnsamr mi chiamò -insieme a Broder e Delling- a recuperare il denaro.
«Fai attenzione», disse in risposta.
Sapevo già chi fosse Delling, la piccola, graziosa monaca che avevo visto e sentito abbandonare il suo pagliericcio per correre tra le braccia della guardia.
Broder era invece un uomo dall'aria mite che, come scoprii mentre camminavamo in direzione della piazza del mercato, discendeva da una famiglia nobile caduta in disgrazia dopo la fine dei Broddring e l'ascesa di Galbatorix ed era l'unico tra i monaci -insieme a Gagnsamr, Gefion e Elin- a saper leggere e scrivere. Perché ufficialmente né io né Durza ne eravamo capaci.
«E come mai non hai preferito entrare nell'ordine sacerdotale?» domandai, sapendo che uno dei requisiti era appunto una cultura di base, forse in modo da poter continuare i loro studi segreti.
Broder rise pacatamente. «Immagino per lo stesso motivo di tutti coloro che preferiscono il monacato: amo il mio Dio e sono lieto di servirlo, ma non sono disposto a sacrificare me stesso come fanno i Sacerdoti. Onore a loro» aggiunse infine.
«Siamo molto meno vincolati della Carne di Dio», rincarò Delling, «magari dobbiamo lavorare duramente tutto il giorno, ma è una vita tranquilla, quasi contemplativa e, se si è pronti a rinunciare a qualche cosa, è la migliore delle scelte».
Le sorrisi, pensando ancora alla sua scappatella notturna.
Il mercato era pieno di gente come al solito, come speravo e come mi serviva che fosse.
Broder e Delling sapevano già dove comprare tutto e a quanto pareva avevano i loro banchi di fiducia perché nulla di ciò che comprammo ci fu consegnato in mano. I commercianti venivano pagati, poi preparavano la merce e incaricavano un garzone di fare avanti e indietro dal mercato alla cattedrale fino a che tutto non fosse stato recapitato.
«C'è Trygg a ricevere le consegne oggi» mi spiegò Broder.
Poi ci tuffammo nuovamente nella calca, diretti dalla parte opposta della città, più vicino alle porte, dove la figlia del taglialegna avrebbe preso l'ordine di legna e lo avrebbe riferito al padre, a quell'ora probabilmente già nei boschi.
Fu quello il momento che scelsi per restare leggermente indietro, staccarmi dai miei compagni e confondermi tra la folla. Camminando a passo veloce, raggiunsi il Covo Segreto in non più di cinque minuti.
Come promesso da Durza, la porta si aprì docilmente al tocco delle mie mani e allo scattare della serratura. Tutto era rimasto esattamente come lo avevamo lasciato la mattina precedente e mi fu facile scivolare sotto al materasso, recuperare i due pugnali e nasconderli sotto il vestito, coperti dalla larga tonaca e dal mantello.
Esitai per parecchi minuti, poi presi la boccetta di veleno e la nascosi nella fascia di stoffa, tra i seni. Averla con me mi risultava sempre rassicurante, mi faceva sentire più padrona di me stessa: sapevo che non avrei mai retto ad una seconda sessione di torture e anche se ormai ero al sicuro da Durza non lo ero da Galbatorix e tanto meno dai Sacerdoti. Avere una via di eterna fuga con me poteva essere l'unica mossa possibile nel caso mi fossi trovata nei guai.
Il locandiere mi guardò stranito vedendomi passare, ma non mi fece domande e non mi fermò. Non ci avrebbe visti tornare alla nostra stanza per parecchi giorni, purtroppo, ma aveva l'aria di uno abituato alle stranezze altrui.
Arrivai alla cattedrale ben prima degli altri due e mi presentai direttamente a Gagnsamr, che era nella sagrestia insieme a Durza, intenti entrambi a riporre le vesti nere dei sacerdoti in ricchi bauli.
Il monaco mi liquidò con poche parole, intimandomi di fare più attenzione in futuro, mentre lo Spettro alle sue spalle grondava approvazione.
Corsi a nascondere le armi e il veleno nella paglia del mio giaciglio e fino a mezzogiorno aiutai Tove a rammendare una pila di vestiti, appartenenti un po' a tutti gli abitanti della Cattedrale: c'erano un paio di vesti da cerimonia dei sacerdoti, un paio di pantaloni neri delle ombre, ma anche degli abiti civili che i monaci portavano sotto alla tonaca. Non ero abilissima, ma me la cavavo decisamente meglio che in cucina.
Mi scusai anche con Delling e Broder non appena tornarono, ma i due erano tranquilli e non se la presero affatto.
Il primo vero colpo della giornata arrivò durante il pranzo, quando, mentre davo una mano a servire i sacerdoti, mi imbattei in una donna con indosso la veste dorata dei novizi e dai grandi occhi neri. La riconobbi come quella che, qualche settimana prima, si era fermata a guardarmi, commentando sottovoce il mio accento, quasi tra sé e sé. Non diedi segno di averla riconosciuta ma vidi di sottecchi che mi gettava qualche occhiata di tanto in tanto e lo stesso faceva con Durza.
Chi era? Barzul, sembrava quasi conoscerci eppure ero certa di non averla mai vista in vita mia ed ero parecchio brava a ricordare i volti.
Chiunque fosse sembrava ben intenzionata ad entrare nella setta dei Sacerdoti e se conosceva o me o lo Spettro, o anche solo sospettava che stessimo combinando qualcosa, era un pericolo.
Mi appuntai mentalmente di farlo presente al mio ex carceriere più tardi e fui sollevata quando i tavoli si svuotarono da quelle figure inquietanti, che sparirono nuovamente all'interno della chiesa, donna dagli occhi di lupo compresa.
            Quella notte Delling non si mosse quando le campane annunciarono la mezzanotte e i passi dell'Ombra che le aveva suonate si spensero nel dormitorio dei Sacerdoti.
Quando fui abbastanza tranquilla mi alzai -i pugnali avvolti nel mantello e la boccetta di veleno nella fascia- e scivolai nella sagrestia, in attesa di Durza. Mentre lo aspettavo arraffai anche due candele con rispettivi candelieri in modo da poter lasciare la lanterna al suo posto e muoverci più agilmente nelle stanze sotterranee.
Durza arrivò portando con sé il suo inconfondibile odore di menta.
«Vorrei davvero dirti che è un piacere vederti, Principessa, ma qui dentro è buio pesto. Che ne dici di accomodarci nella cattedrale?»
«Stavo pensando..» cominciai entrando nella chiesa.
«Di dormire un'oretta prima di scendere in modo da evitare il cambio delle guardie? Sì anche io».
«Non ti si nasconde niente».
«E detto da te non può che essere un insulto», scherzò, stendendo a terra la tonaca come aveva fatto la notte precedente, a sottile barriera tra i nostri corpi e il pavimento gelato.
Svolsi il mantello e gli porsi il suo pugnale. «Forse dovremmo nasconderli qui, invece che riportarli nei dormitori, dove chiunque potrebbe andare a frugare e imputarci immediatamente» osservai.
«L'unico posto possibile mi pare in cima ad una statua perché oggi, insieme al caro Gagnsamr, ho ripulito il pavimento dal fango e non abbiamo tralasciato un solo angolo o nicchia», mi informò.
Mi allontanai da lui, per scrutare la statua che si trovava nella nicchia eletta a nostro rifugio. Riconobbi le caratteristiche tipiche di Hofud, il Sacerdote guerriero che offriva le teste dei suoi nemici in dono a Dio.
Era alta circa una dozzina di piedi ma c'erano dei buoni appigli per scalarla e incastrare le armi sopra il suo elmo o nella curva del collo.
«Si può fare», mormorai tornando dallo Spettro.
«Devo smettere di dire le cose per scherzo o potresti prenderle per buone», commentò, un sorriso arrogante stampato sulle labbra.
«Devo dirti una cosa, piuttosto».
«Se sei in cinta davvero non è colpa mia, bellezza, non mi sbronzo dalla nostra prima notte di nozze», disse con voce candida.
Sbuffai e gli diedi un pugno leggero sul torace. «Sarebbe una cosa seria. Ho rivisto la donna che ha notato il mio accento» che in realtà era perfetto «ed è qui, tra gli Avvoltoi. Aveva indosso la veste da novizia».
Gemette. «Ti ha riconosciuta?»
«Non solo, ci ha guardati entrambi, più volte, per tutta la durata del pranzo».
Imprecò con la sua solita finezza. «Domani indicamela, discretamente. Non ho idea di chi possa essere, ma non mi piace».
«Sembrava quasi conoscerci..»
«Quindi siamo in svantaggio perché non abbiamo idea di chi sia lei. Aspetta.. credo di aver già vissuto qualcosa di simile negli ultimi mesi», fece allusivo.
«Sei insopportabile. Comunque d'accordo, domani ti faccio un cenno prima di passarle vicino, ma non credo che aiuterà».
«Teniamola d'occhio, non c'è altro da fare per ora». Sospirò. «Sono circondato da misteri negli ultimi tempi».
Già.
Dopo la visione, Durza mi strinse le mani nude per aiutarmi a calmarmi e mi fece notare che erano più ruvide del solito. Da lì il discorso cadde sui nostri doveri della giornata: lavanderia al pomeriggio per me -causa della ruvidità particolare della mia pelle- e cura degli ambienti e oggetti sacri per lui.
«Credo che ogni mattino bevano un poco di sangue del Sommo Sacerdote. Quando sono andato a ripulire gli oggetti usati per la funzione c'era anche un'altra coppa, più piccola. Era sporca di sangue ma vuota, quindi quello che conteneva deve essere stato consumato. E ho notato le bende che uscivano dalla manica del monco durante la colazione».
«Sì, l'ho notato anche io» risposi, resistendo alla tentazione di sfilare le mani dalle sue per tamponarmi la fronte imperlata di sudore.
Non mi ero ancora abituata a nessuna delle immagini che vedevo la notte, anche se erano sempre le stesse, magari ricombinate, ma sempre uguali. In generale sembrava che una volta al giorno i miei ricordi si mettessero insieme e assumessero volontà propria, cercando di ammonirmi ripetutamente per i miei comportamenti, anche se a me non sembravano così scorretti o incoerenti con ciò che ero sempre stata.
A parte i baci concessi a Durza. Ma quelli non erano così importanti.
Lo Spettro continuava a parlare e parlare sottovoce, senza nemmeno aspettarsi una risposta da me. Era quello che faceva ogni volta che mi risvegliavo: dopo avermi rassicurata cercava di non farmi pensare e mi imbottiva di parole.
La scomoda sensazione di essere in debito con lui cominciava a farsi sempre più insopportabile.
Fummo testimoni silenziosi del cambio della guardia e, dopo qualche minuto di attesa, ci addentrammo a nostra volta nella botola. Le candele che avevo sottratto dalla sagrestia ci furono decisamente utili.
Continuammo la nostra esplorazione interrotta, sfogliando in rapida successione libri e pergamene e cercando di ignorare gli alambicchi poggiati qua e là su tavoli e scaffali.
Vicino ad un manuale di astronomia trovai un aggeggio piuttosto stupefacente: un tubo con due lenti per estremità che, se accostato agli occhi, ingrandiva incredibilmente gli oggetti. Mi persi un poco anche nel manuale di astronomia. C'erano studi di costellazioni che già conoscevo, ma un lungo capitolo dedicato alla luna dove si sosteneva che essa non brillasse di luce propria, ma riflettesse quella del sole!
Non avevo mai letto nulla del genere nelle biblioteche di Ellésmera, ma essendo la mia un'educazione prettamente militare e socio-politica potevano essermi benissimo sfuggiti dei libri sugli astri, che il mio popolo studiava con profonda passione.
«Arya», mi richiamò Durza in tono amareggiato, «smetti di comportarti da Elfa e molla quel libro al suo posto».
Per un attimo fui profondamente tentata di tenerlo con me, ma alla fine lo lasciai dov'era, a malincuore.
Restammo lì sotto per quasi tre ore, accendendo altre due coppie di candele sottratte alla scorta che i Sacerdoti avevano accanto agli scrittoi. Ogni volta che trovavo un qualsiasi riferimento ai draghi non potevo fare altro che chiamare lo Spettro e lasciargli esaminare il volume lui stesso, ma puntualmente scuoteva la testa.
Circa alla quinta ora del mattino tornammo alla cattedrale e Durza rimase a tirarsi i capelli mentre mi arrampicavo sulla statua di Hofud e nascondevo i pugnali nell'incavo tra i lunghi capelli e le spalle di marmo.
«Non ho mai visto un animale arrampicarsi così velocemente», mi disse non appena i miei piedi toccarono a terra, con stupito rispetto.
«Si imparano parecchie cose a vivere in una foresta».
Accennai una scherzosa riverenza, misi nella tasca del mantello il mozzicone di candela avanzato e entrambi ce ne tornammo rapidamente nei nostri letti, sapendo che i Sacerdoti avrebbero tardato solo un'altra ora o poco più prima di correre in chiesa a bere la loro dose mattutina di sangue.
Prima di entrare nel dormitorio, strinsi gentilmente la spalla dello Spettro.
«Grazie», mormorai, consapevole di avere ancora un debito con lui.
Feci per restituirgli la chiave della nostra stanza alla locanda, ma mi disse di tenerla. Lui poteva sempre usare la magia in casi di emergenza.
Dormicchiai fino a che Gagnsamr non suonò la piccola campana della sagrestia, l'appello mattutino dei monaci
Durante la colazione degli Avvoltoi riuscii a segnalare la presenza della donna a Durza, ma lui scosse la testa, mordendosi le labbra fino a farle sparire, talmente erano sottili.
E lei continuò a gettarci qualche rara ma circospetta occhiata.
Se noi avevamo attirato la sua attenzione, lei aveva ormai attirato la nostra
Ne discutemmo un poco, sottovoce, durante il rito, ma non c'era molto che potessimo fare quindi ci limitammo a ribadire quello che avevamo già detto: dovevamo tenerla d'occhio.

Per altre tre notti io e Durza ci trovammo a mezzanotte nella sagrestia. Ormai avevo imparato che Delling aveva appuntamento con la sua guardia a notti alterne e sapevo come evitare di farmi scoprire dai due.
La ricerca nelle stanze sotterranee dei Sacerdoti progrediva e si faceva sempre più pericolosa perché ci avvicinavamo lentamente alla porta dietro alla quale stavano schierate le venti Ombre di guardia. Ovviamente era prevista un'intrusione, ma non dalla chiesa.
Le stanze comunicanti erano in tutto sette. Sette grandi saloni allungati, tappezzati di ricchezze e conoscenze.
Il compito mio e dello Spettro si faceva sempre più frustrante, mi bruciavano un poco gli occhi al termine delle lunghe letture alla fioca luce della candela e cominciavo ad accusare della stanchezza dovuta alla scarsa ora di sonno che mi concedevo ogni notte e agli innumerevoli pasti saltati a causa della componente di carne che contenevano.
Ma era la frustrazione la cosa peggiore da affrontare: erano già passate cinque notti ed avevamo appena cominciato a frugare la seconda stanza. Senza risultato.
Avremmo potuto continuare ancora per un mese intero, ma a quale scopo? Di solito leggevamo le prime righe di ogni manoscritto prima di etichettarlo come inutile e metterlo da parte. Chi ci assicurava che non ci fosse un capitoletto, un paragrafo, due sole righe con la nostra soluzione, nascoste tra le sue pagine?
Né io né Durza lamentammo i reciproci dubbi, ma erano evidenti sul suo viso, come immaginavo anche sul mio. Forse il vero e unico modo per ottenere le nostre informazioni era chiedere direttamente ad un sacerdote, ma lo Spettro non poteva parlarne, il suo giuramento glielo impediva, e il suo vero nome era ancora argomento intoccato nelle nostre conversazioni.
E come se non bastasse -oltre a quelle della donna dagli occhi di lupo- cominciammo ad attirare anche le attenzioni degli altri monaci.
Al pomeriggio del nostro sesto giorno lì, mi fu proposto di fare un bagno.
Tove mi venne a prendere dalla lavanderia e mi disse allegramente di smettere di lavorare. «Gangsamr ha detto che i Sacerdoti ci hanno dato il permesso di usare le loro vasche. Sono meravigliose, vedrai. Si stendono delle braci ardenti sotto e si riempiono di acqua, che così diventa tiepida. Vieni, andiamo a prendere i secchi!»
Il sorriso mi si congelò sul volto. Non potevo fare un bagno con delle altre donne, c'erano almeno due o tre cose che avrebbero trovato fuori dal normale. Prima di tutto le cicatrici lasciate dai mesi di tortura. C'erano ancora tutte, tranne quelle sul petto, che Durza aveva cancellato mentre ero incosciente, probabilmente per farmi mettere l'abito da popolana.
Secondari, ma non meno importanti erano i miei muscoli, troppo definiti per una debole donna, e il fatto che non avevo peli sul corpo.
Rifiutai, insistette, rifiutai nuovamente e alla fine se ne andò con un'espressione stranita e quasi scandalizzata.
Durza mi disse più o meno la stessa cosa la sera stessa.
«Oggi Rasmus mi ha chiesto come faccio a farmi la barba così perfetta e come riesco a trovare il tempo di farla tutti i giorni». Si sfiorò il volto glabro. «Da quando sono diventato uno Spettro non mi sono mai dovuto preoccupare di queste cose».
«La nostra copertura sta crollando», affermai, raccontandogli quello che mi era successo poche ore prima.
«Dobbiamo fare in modo che non crolli, invece».
«Durza..» cominciai incerta, accarezzando istintivamente il suo viso. Eravamo distesi sotto lo stesso mantello, l'altro posato sotto le schiene per arginare il freddo e non avevo ancora subito la mia tortura giornaliera.
«Ti ascolto», mi incoraggiò lui, passando le dita tra i miei capelli e sciogliendo il legaccio che mi fermava la treccia. Doveva essere una sorta di mania.
«Forse dovremmo valutare l'opzione di rinunciare. Non riusciremo mai a nasconderci per il tempo sufficiente a trovare quello che stiamo cercando, ci scopriranno molto prima. Finora i libri spostati, il furto di qualche candela e la cera che sicuramente abbiamo fatto cadere sui tappeti sono passati inosservati, ma per quanto? E quanto passerà prima che qualcuno scopra che non passiamo la notte nel nostro letto? Quanto prima che Gagnsamr scopra che non sono veramente incinta? Quanto prima che la donna faccia qualsiasi mossa? Finora ci siamo incoraggiati a vicenda e abbiamo insistito, ma stiamo letteralmente cercando un ago in un pagliaio».
Pensò a lungo prima di rispondermi, pettinando i miei capelli ormai sciolti tra le dita. «Anche io sono scoraggiato, ma in tutta sincerità non trovo altre soluzioni».
«Tutto qui?»
«Hai idea del potere che ha Galbatorix, piccola Elfa?»
«Ha sbaragliato il mio popolo e convinto mia madre a tenere gli Elfi al sicuro per cento anni! Sono giovane, ma non così ingenua».
«Un uomo non può avere tutto quel potere dentro di sé. Io l'ho aiutato a piegare al suo volere il suo drago», disse lo Spettro, laconico.
I miei occhi si inumidirono per la frustrazione. «Cosa vuoi dire?»
«Che dobbiamo continuare a cercare e sperare. I draghi sono intrisi di magia».
«Continui a dire cose senza senso», protestai.
«Sono le uniche cose che la mia bocca mi concede di dire».

La settima notte parte dei miei timori si avverò. Eravamo appena entrati in chiesa e avevamo appena recuperato i pugnali, quando dei passi frusciarono nel chiostro, nella sagrestia e infine nell'abside stesso.
Io e Durza ci appiattimmo nella nicchia, contro la statua.
Una voce composta, che tradiva un lieve tremore risuonò piano ma chiara tra le navate: «Venite fuori, voglio solo parlare con voi. Sono disarmata».
Ci ritrovammo faccia a faccia con la donna dai grandi occhi neri come pozzi, quasi fusi con la pupilla.
«Andiamo in fondo alla navata», ordinò accennandolo col mento, poi ci passò accanto, anticipandoci.
Vidi il colpo diretto alla nuca di Durza quando era ormai troppo tardi. Lo Spettro riuscì a schivarlo solo in parte e, invece di finire tramortito sul pavimento, cadde semplicemente sulle ginocchia, stordito.
La donna gli andò dietro, gli tirò i capelli e premette un coltello da cucina contro la sua gola. Mi fermai a poche braccia da lei, interrompendo lo scatto che avevo iniziato per allontanarla da lui.
La donna mi guardò, seria in volto. «Non credo di doverti spiegare come funzionano queste cose. Fai cinque passi indietro, togli il mantello e la tunica e butta per terra tutte le armi che hai. Poi fanne altri cinque».
Cercai gli occhi di Durza, chiedendomi che cosa sarebbe successo se lei gli avesse tagliato la gola. Era uno Spettro, quindi si sarebbe rigenerato. Ma dove? E sopratutto, come e quando?
Il mio ex carceriere ammiccò e intravidi uno sfarfallio nei suoi occhi castani, che per un attimo assunsero di nuovo l'aspetto di quelli di un felino.
Era pur sempre in grado di usare la magia e avrebbe potuto fermare la sconosciuta in qualsiasi momento, forse aveva addirittura fatto apposta a farsi colpire.
Mi stava suggerendo di darle corda e vedere come si evolveva la cosa.
Quindi lo feci: gettai il pugnale sopra la iuta e il mantello, poi la assecondai mentre mi ordinava di toccarmi il corpo per farle vedere che non avevo nient'altro sotto i vestiti. Il Fricai Andlat giaceva nella tasca del mantello, ormai fuori dalla mia portata.
«Per chi lavorate te e il tuo amico?» mi chiese poi, calma e fredda.
Decisamente non era una qualunque popolana, aveva l'aria di una che ha ricevuto un qualche addestramento.
«Per nessuno».
Si aspettava quella risposta e reagì graffiando la pelle di Durza. «Vorresti farmi credere che venite qui la notte ad amarvi e basta? Non credo che sarebbe necessario un pugnale per quello.» Spinse la lama con più forza e un fiotto di sangue scivolò sotto la tonaca dello Spettro, che fece una smorfia.
«Lavoriamo per il Surda!» esclamai, imprimendo una buona dose di panico nella mia voce e nella mia espressione.
«Il Surda?»
Improvvisai. «Una fazione interventista. Re Orrin è ancora incerto sulla sua posizione nei confronti dell'Impero, ma il Ratto no e i suoi membri stanno raccogliendo informazioni su tutto il territorio di Alagaësia. Vogliono spingerlo alla guerra».
«E voi sareste parte di questa fazione? Questo.. Ratto?»
«Siamo spie assoldate da loro».
«Cosa state cercando?»
«Te l'ho detto: informazioni. Di qualunque tipo».
La donna socchiuse gli occhi. «Il tuo accento non è surdano, ragazza. Non l'ho mai sentito».
«E io non ho mai detto di essere del Surda», risposi coincisa.
Tacque per qualche istante. «Non riesco a raggiungere la tua mente. Perché?»
La confusione che esibii poco dopo era genuina. L'anello di ametiste, dono del mio carceriere, impediva alla mia mente di varcare i suoi stessi confini, ma non credevo che impedisse anche l'accesso in verso opposto, anche perché avrebbe significato.. Che Durza aveva sciolto l'incantesimo per poter attaccare la mia mente, il giorno in cui avevo visto alcuni dei suoi ricordi da umano! Secoli prima.
«Mi hanno maledetta da bambina» inventai e capii dalla sua esitazione che ne sapeva troppa poca di magia per poter contestare.
Ma si riprese in fretta: «Il tuo amico invece ha una mente ben difesa. Siete un'accoppiata originale, i vostri mandanti devono sapere il fatto loro».
«E i tuoi?»
«Non vi interessano. Sentite io non ho alcuna intenzione di uccidervi -scatenerebbe allarmismi- o di ostacolarvi, quindi se mi giurate che ognuno proseguirà sulla propria strada senza tentare di fare inciampare l'altro..»
«Vuoi entrare davvero nei Sacerdoti?»
Il suo atteggiamento cambiò e vidi i suoi muscoli allentarsi di parte della tensione, anche se il coltello rimase sulla pelle dello Spettro. «Sono una spia come voi, ho tutto l'interesse a farlo. Mantenete i miei segreti e io manterrò i vostri. Se venissi catturata mi ucciderei piuttosto che permettere a qualcuno di frugarmi il cervello».
Annuii ma non spostai lo sguardo dalla gola macchiata di sangue del mio compagno.
La donna seguì i miei occhi e intuì parte della mia inquietudine. Scostò la lama e lasciò i capelli di Durza, poi mi passò accanto e si incamminò guardinga verso l'abside, dichiarando chiusa la conversazione.
La lasciai andare e corsi ad esaminare la ferita dello Spettro. Lunga e superficiale. Niente di cui preoccuparsi.
«Forse dovremmo ucciderla», ringhiò lui toccandosi il collo.
Mi voltai a guardare la donna, che sparì nella sagrestia. «Non è necessario. Non ha motivo di tradirci e in ogni caso in realtà non sa nulla di noi».
Lo Spettro era stranamente agitato e rabbioso. Una serie di espressioni gli solcarono il viso, un misto di disgusto, ira, ferocia, confusione. Mi inginocchiai alla sua altezza per chiedergli se stesse bene, ma le sue mani si serrarono sui miei avambracci, in una morsa micidiale e così forte che mi sfuggì un gemito di dolore.
Poi gli occhi gli tornarono improvvisamente limpidi e mi lasciò andare di scatto, come se lo avessi scottato.
Mi trattenni dal massaggiare la mia pelle ma lo guardai con voluto rimprovero.
«Scusami, non..» Si interruppe e si alzò in piedi.
Vidi nel suo tono e nel suo atteggiamento uno spiraglio e mi ci aggrappai. «Qualcosa ti turba?»
Fece un sorriso tirato. «I miei Spiriti sono inquieti. Colpa di quella tizia, è già passato».
Deglutii, un po' spaventata. Quello era un argomento di cui non sapevo davvero nulla. «Posso aiutarti?»
Il sorriso divenne un ghigno. «Non tentarmi», fece, fissando la mia bocca, «potrei approfittarne».
Probabilmente lo avrei lasciato fare, ma non si mosse.
Recuperai i miei vestiti e la mia arma. «Ti.. parlano?» chiesi infine.
«Sussurrano insistentemente, mandano impulsi, ma riesco a controllarli ormai. Conviviamo da parecchio tempo.. qualcosa come centocinquant'anni anni».
«Ah. E all'inizio?»
Raggiungemmo la nostra nicchia e ci sedemmo a terra, come tutte le notti.
«Ricordo poco dell'inizio. Prova ad immaginare tre coscienze che entrano nella tua, si fondono con essa e la nascondono come sotto ad un drappo pesante. Ero spettatore dentro al mio corpo, poi ho cominciato lentamente a sentire le mani e ho capito che erano mie. Ma ancora non distinguevo se il desiderio di uccidere era mio o di qualcun altro, talmente gli Spiriti erano aggrovigliati alla mia coscienza. Dopo un po' ho imparato a dominarli. Non so quanti mesi o anni siano passati all'inizio: non capivo molto bene cosa stessi facendo».
«Sembra orribile. Non conoscevi i rischi quando hai evocato gli spiriti?»
Gli si gonfiarono i muscoli delle spalle. «Lo sapevo benissimo. Io volevo diventare quello che sono».
«Davvero?» chiesi perplessa, ripescando vagamente ai suoi ricordi.
Chiuse le palpebre. «No. Ma è umiliante da ammettere, no?» Gracchiò una risata.
«Stai rimediando ai tuoi errori».
Spalancò gli occhi. «È questo che pensi?»
Mi strinsi nelle spalle, anche se era un gesto maleducato. «Sì».
«Io sono il cattivo Elfa, non so se la situazione ti è chiara. Ho fatto tanto male, ma rifarei tutto daccapo. Prima ero un ragazzetto, sciocco e debole, costretto a piegarsi alla prepotenza di chiunque, ora sono una delle creature più potenti di questa terra. Ma tu.. non credo che tu possa capire. Quante volte nella tua vita qualcuno ti ha messo nella condizione di non poter fare nulla per contrastarlo?»
Alzai il mento con fierezza. «Tu», ammisi.
Mi parve a disagio e spostò gli occhi sui suoi stivali. «Moltiplica quella sensazione per dieci. Forse non era previsto che degli Spiriti prendessero il controllo, ma allora lo accolsi come una benedizione: non dovevo più preoccuparmi, non ero più un debole e potevo proteggere me stesso e le persone che amavo».
«Ma loro erano già morte, non è vero?» soffiai.
Annuì. «Non voglio più essere come quel ragazzetto, per questo sconfiggere Galbatorix è la mia priorità. Lui doveva aiutarmi ma ormai mi fa sentire di nuovo l'eco di quella debolezza». I suoi occhi tornarono su di me, accusatori.
«Cosa c'è?» domandai, sulla difensiva.
«E tu sei quella che non mi sta incantando, Principessa? Perché mi fai raccontare queste cose?»
«Mi sembrava che ne avessi bisogno».
Durza restò immobile a guardarmi, fino a somigliare ad una delle statue che costeggiavano le navate laterali.
Con la luce della luna che filtrava dalle vetrate colorate riuscivo a vederlo chiaramente. Aveva un'espressione quasi compassata, ma gli occhi ero inquieti e le sopracciglia aggrottate. Da così vicino le sue labbra non erano poi così sproporzionate. Erano pallide e sottili, sì, ma in modo quasi piacevole, sensuale. All'improvviso ebbi caldo.
«Io provo a dormire un poco», dissi lentamente, sfilandomi il mantello dalle spalle e posandolo a terra. «Spero che quella donna faccia come ci ha promesso e spero che non sia una spia del re», aggiunsi poi.
«Non credo. È più probabile che lavori per i Varden».
Scossi la testa. «Non credo».
«Forse sarebbe meglio farci un'altra chiacchierata».
Lo Spettro mi fece spazio e mi aiutò ad allestire il nostro giaciglio improvvisato, poi tirò il suo mantello sopra entrambi.
Cedetti al sonno a fatica, distratta dalle lunghe dita di Durza che erano intente a disegnare leggeri e minuscoli cerchi sopra il mio stomaco, dandomi le vertigini.

La mattina seguente mi trovai dei lividi sulle braccia, ma in compenso la donna con gli occhi di lupo non ci degnò di uno sguardo per tutta la giornata e io e lo Spettro ci adeguammo facilmente al suo atteggiamento, fingendo di non aver mai vissuto la discussione della notte precedente. Mi dissi che le cose stavano andando a posto, ma una seconda stranezza mi smentì quella sera stessa, durante la funzione.
Un attimo prima ero seduta sulla panca di pietra e un attimo dopo mi ritrovavo all'esterno, tra le braccia di Durza, che mi scuoteva ansioso.
«Arya guardami. Mi senti?»
Ma la mia mente era persa in altre immagini. Immagini che qualcuno mi aveva mandato, in barba all'anello di ametiste e alle mie difese.
Vedevo Brom, un ragazzo e un drago. Dello spesso stupefacente color zaffiro della pietra che per anni avevo portato con me.
I tre si muovevano in un luogo indefinito, venendo nella mia direzione. «Vengono a salvarti», disse una voce nella mia testa, una voce che riconobbi come quella di Fäolin. Dolce, limpida, gentile. «Resisti».
Un'altra voce, fredda, carezzevole e allarmata, mi chiamava, però da un altro luogo.
«ARYA!»
Sobbalzai e tirai un respiro furioso, mettendo a fuoco il viso dello Spettro, a pochi pollici dal mio.
«Durza», constatai.
Mi baciò sonoramente le labbra e i suoi capelli mi pizzicarono la fronte. «Cosa diamine ti è successo?»
Mi aggrappai alla sua tonaca e mi alzai a sedere. Ero sulle scale, fuori dalla chiesa e non ricordavo come ci fossi finita.
«Ho avuto una specie di visione», biascicai, ed ebbi un brivido di freddo, causato dalla mancanza del mio mantello, probabilmente.
Durza si mise a sedere sulle scale e mi tirò sulle sue gambe, strappandomi una smorfia quando strinse i lividi che lui stesso mi aveva procurato. «Sei rimasta con gli occhi sgranati per dei minuti interi. Se non avessi sentito che respiravi e il tuo cuore batteva ti avrei data per morta».
«Ho visto un drago», dissi e mi resi conto di stare sorridendo.
Le sue cosce si tesero sotto le mie. «Un drago?»
«Un drago e il suo cavaliere. Non era una semplice visione», mi affrettai ad aggiungere, «ho sentito qualcuno nella mia testa, qualcuno mi ha passato quelle immagini».
«Non è possibile» mi informò, sfiorando l'anello da sopra il guanto.
«Hanno detto che stanno venendo a salvarmi».
«Chi?»
«Il ragazzo, il drago.. e Brom».
«Temo che la tua mente ti abbia fatto un brutto scherzo, Principessa».
Aveva ragione. Io non ero in pericolo, Brom era chissà dove e io non avrei mai lasciato entrare una coscienza sconosciuta senza almeno provare ad oppormi. Eppure quella visione era stata così bella e rassicurante..
Gli occhi mi si riempirono di lacrime, senza motivo, ma mi sentivo così trasognata che quasi non me ne curai «Peccato».
Durza lo Spettro mi baciò e mi abbracciò come se fossi appena tornata dal mondo dei morti, scaldandomi e scacciando lentamente la sensazione di infelicità che mi aveva colta non appena ero tornata alla realtà.
Tornammo in chiesa solo al termine della funzione e ci beccammo uno sguardo di disapprovazione da parte di Gagnsamr.
«Ha avuto un malore e l'ho portata fuori a prendere un po' d'aria», spiegò Durza umilmente, senza spostare il braccio da intorno a me.
Il monaco non fece una piega. «Se ne occuperanno le sue compagne. Elin!» chiamò. «Bitr non sta bene, aiutatela a coricarsi».
«Sto già molto meglio, grazie» mi affrettai a dire.
Ma Elin e Tove insistettero per portarmi praticamente a braccia fino al mio pagliericcio, dove restarono vicino a me per qualche minuto, sentendomi la fronte e il battito del cuore dai polsi.
Alla fine Elin decretò che ero debole per mancanza di cibo.
«Ho notato che spesso salti i pasti», mi rimproverò.
Solo quelli di cadaveri. «Sì ho sempre avuto qualche problema con il cibo».
«Vado a prenderti del pane e del latte, domattina sarai di nuovo in forma perfetta», mi rassicurò.
«Ti ringrazio».
Mentre Elin si allontanava e dall'esterno venivano i rumori degli ultimi preparativi per la notte, Tove mi si avvicinò ulteriormente e mi guardò quasi con pietà.
«Chi è l'uomo dai capelli rossi?»
Mi colse contropiede. «Si chiama Natt ed è un novizio come me», risposi con semplicità.
Sorrise. «Sembra tenere molto a te».
Scossi una mano. «Ti sbagli».
«Non sono certo in grado di giudicare, ma dovresti dirgli di nascondere i suoi sentimenti per te. A Gagnsamr non piace e non sono ammessi altri amori oltre a quello per Dio. Potrebbe anche decidere di non ammettervi a causa della sua infatuazione».
Spiegò il tutto con pacatezza, ma non si rendeva conto delle assurdità che andava dicendo. Dovetti trattenermi dal riderle in faccia.
«Lo farò», dissi, con il suolo scopo di chiudere il discorso.
Poi mangiai il cibo che Elin mi porgeva e augurai loro buon riposo, solo per poter sgusciare in pace fuori dalla stanza, a mezzanotte.
Durza mi aspettava nella sagrestia. «Stai bene?»
«Benissimo! Scusa per prima.. sono andata fuori di testa».
Lo Spettro aprì la bocca un paio di volte, ma qualunque cosa volesse dirmi gli morì sulle labbra e decisi di non insistere.
Visto il mio delirio di qualche ora prima, sperai che la visione mi fosse risparmiata, ma venne con la solita puntualità, non appena mi assopii. Quella notte faticai a tenere la concentrazione su quello che stavo facendo: ero stanca e mi si incrociavano gli occhi. Le pareti ricolme di vetri, scatole e marchingegni di legno sembravano quasi ondeggiare insieme alla fiamma della candela e le righe scritte si sdoppiavano spesso e volentieri
Da quanto non dormivo almeno tre-quattro ore a notte? Da quando siamo arrivati alla cattedrale, mi risposi.
Fu Durza ad abbassare la maschera di orgoglio e a chiedere una pausa, non appena abbandonammo le stanze sotterranee.
«Elfa domani veniamo qui, te ti fai il tuo incubo giornaliero e poi dormiamo fino all'alba».
Fui lieta di sapere che non ero la sola ad essere ridotta così male. «Approvo.»
Arrivammo davanti ai dormitori e le nostre voci divennero un sottile bisbiglio.
«Allora a domani notte», fece lo Spettro e intravidi il biancore dei suoi denti quando sorrise.
«A domani».
Mi prese una mano e, trovandola coperta dal guanto, la voltò con il palmo verso l'alto e mi depositò un bacio sul polso, con lentezza, accarezzando le vene con la punta della lingua.
Mi ritrovai a tremare.
La notte seguente non facemmo esattamente quello che avevamo programmato di fare.

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Capitolo 24
*** Giù le maschere ***


Ciao
24. Giù le maschere

Le prime avvisaglie della notte turbolenta che ci aspettava furono evidenti già dal mattino, quando vidi la donna dagli occhi di lupo a colazione. Il suo cuore batteva fortissimo e si sfregava le mani sudate, anche se per il resto sembrava tranquillissima e perfettamente padrona di sé.
Probabilmente erano dettagli che solo io e forse Durza avremmo notato.
«La donna era spaventata stamattina», mi disse infatti durante la funzione.
«Secondo te dobbiamo preoccuparci?»
«Credo che sia venuto il momento di cancellare dalla sua memoria il ricordo del nostro incontro qui dentro», rispose lo Spettro con durezza. «Magari riaffiorerà prima o poi, ma per ora ci basta che se ne stia buona per qualche altra settimana».
Mi voltai a guardarlo per capire se facesse sul serio. Non scherzava affatto.
«Potresti distruggerle la mente nel tentativo e renderla pazza per il resto della sua vita», gli feci notare.
Sollevò un sopracciglio. «Conosco perfettamente gli effetti collaterali di una simile operazione, Principessa. Ma sarai certamente d'accordo con me nell'affermare che è una soluzione meno drastica e appariscente di una pugnalata al cuore».
Annuii. «Indubbiamente. Sì, forse è necessario. Il fatto che sia imprevedibile e sconosciuta la rende solo più pericolosa e noi abbiamo bisogno di molto altro tempo qui prima di avere finito».
«Riusciresti a mandarla alle latrine dei Sacerdoti oggi pomeriggio? Sono assegnato alla pulizia dei loro ambienti per tutta la giornata e dato che sono l'ultimo arrivato quelle toccheranno sicuramente a me. Potrei risolvere la questione senza farmi notare».
Annuii di nuovo. «Se qualcosa va storto mi trovi nelle cucine».
Ridacchiò. «Di nuovo?»
«Gagnsamr è l'unico a conoscenza delle mie “condizioni”», enfatizzai l'ultima parola, «e quindi fa in modo che mi siano assegnati i compiti che ritiene meno onerosi. Per esempio non mi ha mai mandata alle scuderie».
«Credo che l'unica donna che abbia mai mandato alle scuderie sia Tove. È la figlia di un macellaio, ci sa fare con le bestie».
«Ecco perché è così gentile», borbottai, «ci rassicura come animali prima del macello. Hai fatto amicizia anche con lei?»
Alzò le spalle. «Credo che Gagnsamr le abbia detto che eravamo sposati. Dopo ogni funzione ci scruta minuziosamente da testa a piedi, come se potessimo metterci a fare gli affari nostri sotto le panche».
Non gli dissi quello che mi aveva riferito Tove stessa la notte precedente, mi sarei sentita ridicola.
«Due ore dopo il pranzo dei Sacerdoti la donna verrà da te», gli assicurai, tornando al discorso originario.
«Sarò rapido e silenzioso come un serpente».
Trovai le sue parole calzanti e le labbra mi si stesero in un sorriso. «Non ne dubito».
«Ma sarò anche gentile», aggiunse lui, «le porto via quei due minuti di ricordi e poi la rimando sottoterra. Vedrai non le succederà nulla, i veri danni si hanno quando si asportano le memorie di una vita intera».
«Non ho mai dovuto fare una cosa simile, quindi mi fido della tua agghiacciante esperienza».
«Già..» fece lui.
            A mezzogiorno feci in modo di servire la donna di persona, così da poterle sussurrare all'orecchio mentre posavo la scodella di cibo davanti a lei.
«Tra due ore alle vostre latrine. È urgente».
Mi guardò solo quando tornai a servire il Sacerdote accanto a lei. Sospettosa e preoccupata, il battito del cuore nuovamente irregolare.
Mi sentii un po' in colpa per quell'imbroglio, ma la paura che parlasse prima del previsto si era fatta più forte da quando l'avevo vista inquieta, quella mattina. E poi non si trattava di una soluzione così estrema, avrebbe solo dimenticato me e Durza per qualche tempo, speravo solo il più a lungo possibile.
Alla seconda ora del pomeriggio ero intenta a lavare le stoviglie usate dai monaci per pranzare e mi ero tolta i guanti. Era disagevole stare molte ore con la stoffa bagnata contro la pelle e inoltre sapevo essere abbastanza rapida da nascondere la mano sinistra se qualcuno si fosse avvicinato eccessivamente. Ma in ogni caso chi avrebbe mai badato alle mie mani?
Mentre i monaci consumavano il loro pasto di cadavere, mi ero lavata rapidamente alle vasche della lavanderia, usando il pezzo di sapone che avevo comprato da Gamall e che avevo portato con me. I capelli fradici erano stati avvolti in un telo che Gefion mi aveva gentilmente procurato, affinché non mi congelassi totalmente. Però il calore della stanza aveva già operato bene ed erano ormai solo umidi.
Aspettavo lo svolgersi degli eventi. Non ero molto tranquilla a lasciare la donna sola con lo Spettro, ricordavo bene qual'era stata la sua ultima reazione e quella dei suoi spiriti. Non mi sarei stupita troppo se fosse venuto da me con un sorriso innocente stampato in volto e una macchia di sangue nascosta sotto i vestiti.
Gillis, il più giovane dei monaci, entrò in cucina affannato. «Una novizia è svenuta! Gagnsamr mi ha mandato a prendere Gefion, Ellin è fuori a fare commissioni purtroppo».
Ellin era la più abile in fatto di medicamenti, ma anche Gefion se la cavava bene, o almeno così mi aveva detto Mikell, premettendo che lui era in realtà più esperto di entrambe.
Quando Gefion seguì Gillis nel chiostro, asciugandosi le mani con uno strofinaccio, mi sporsi anche io sulla soglia della cucina e vidi Durza entrare nel dormitorio dei monaci con la donna dagli occhi di lupo in braccio, inerte, diretto alle scale che portavano all'infermeria.
Mi imposi di non seguire la processione di gente che accompagnava la donna svenuta e tornai ai miei doveri. Gefion tornò dopo una decina di minuti e raccontò a me, Rasmus e Stian cosa fosse successo.
«Abbiamo trovato una pila di fogli di pergamena scritti fitti sotto la sua veste, probabilmente ci ha lavorato strappando ore al sonno, poi quando è andata alla latrina si è sentita male. Fortuna che Natt era lì vicino e se n'è accorto subito. Quando ha ripreso i sensi era parecchio confusa, forse ha battuto la testa mentre cadeva a terra. Direi che per oggi è meglio che stia stesa sulla branda dell'infermeria».
«Cosa c'era scritto sui fogli?» domandai quasi distrattamente, sapendo che lei era una delle poche che sapeva leggere.
Gefion si picchiettò la testa rasata. «Non ho letto. Bitr non sono affari nostri le ricerche dei sacerdoti», aggiunse con una punta di rimprovero.
Cercai di riparare il danno. «Magari era una lettera che l'ha sconvolta», ipotizzai, «e leggerla avrebbe semplicemente significato capire il perché e confortarla com'era necessario».
«No, non vorrei mai leggere cose che non mi sono permesse e incorrere per errore nell'ira di Dio».
«Hai ragione», tagliai corto.
La verità sui fogli di pergamena mi fu svelata da Durza in persona, sussurrata in pieno svolgimento della lezione pomeridiana con Gagnsamr.
Sentii il suo torace contro le mie spalle e il suo respiro all'orecchio quando di chinò su di me. «È andato tutto bene. Quella tizia ha una mente ben difesa, ma sono riuscito a violarla dopo qualche sforzo e a dissipare i suoi ricordi di noi, anche quello di te e della tua voce. Il mancamento è una reazione comprensibile, non c'è da preoccuparsi».
«Hai saputo altro di lei?»
«Non lavora né, per i Varden né per l'Impero. Ho solo colto un paio di riferimenti ad occhi e orecchie e a segreti».
«Gefion mi ha detto che aveva della pergamena nascosta sotto i vestiti».
«Ci stavo arrivando: l'ho letta e sembrava tanto un rapporto».
«Un rapporto?»
«Bitr e Natt!» tuonò Gagnsamr, rosso in volto per la rabbia.
«Perdonaci!» esclamò Durza chinando il capo e allontanando la bocca dal mio orecchio.
Ma il monaco non si placò così facilmente e ci trattenne anche dopo la lezione, intimandoci di correggere rapidamente il nostro atteggiamento o saremmo stati espulsi.
Nella cattedrale vedemmo la donna con gli occhi di lupo disposta nel semicerchio di Sacerdoti e novizi, pallida e leggermente traballante, con un braccio stretto in quello del suo vicino, che la sorreggeva.
«Diamine», sibilò lo Spettro durante la funzione, «devo smetterla di parlarti».
«Non è colpa tua», lo rassicurai con una leggera carezza sulla schiena. «Finisci di raccontarmi, da qui il nostro mentore non ci vedrà».
«Potrebbe avere una vista migliore della mia per quanto sembra», sbottò. «Comunque non c'è molto da dirti: quella donna ha messo per iscritto i ruoli, i numeri e le abitudini dei Sacerdoti. C'è anche un accenno alla funzione dei monaci. Prima che tu me lo chieda.. Sono tornato in infermeria dopo che Gefion è andata via per leggerli, mi avevano insospettito».
«Per questo era così agitata oggi? Ha con sé un rapporto ed è una spia. Potrebbero scoprirla da un momento all'altro. Ha paura».
«Sì, ne aveva parecchia quando l'ho trascinata in una latrina con me. Le ho rimesso i fogli sotto la veste, comunque, non era il caso di lasciarli in bella vista sullo sgabello accanto al letto».
«Sei stato gentile», mi sorpresi.
«Dopo averle strappato la memoria di noi due? Direi che era il minimo. E poi vorrei scoprire per chi lavora prima o poi».
Poi un po' per gioco, un po' per sfida a Gagnsamr, mi diede un bacio sulla tempia, ricordandomi che per quella notte era previsto il riposo più totale.
«Io per riposo intendo dormire», lo informai.
«Perché che altro vorresti fare, bellezza?» mi provocò.
Scossi la testa con divertita rassegnazione.
Dopo il rito vedemmo la donna farsi sostenere dai suoi compagni novizi per raggiungere il dormitorio.
«Non parlarle e cerca di non farti vedere in volto», mi ammonì lo Spettro, «o stimoleresti quella parte del suo cervello che ora è annebbiata e i suoi ricordi tornerebbero molto più in fretta».
Poi si staccò da me e assunse un'espressione perfettamente fredda e distante mentre ci aggregavamo ai monaci, con lo scopo di evitare l'ennesima sfuriata da parte di Gagnsamr, che come al solito ci stava studiando. Quella sera notai anche lo sguardo di Tove, che guizzava da Durza a me con curiosità e un pizzico di preoccupazione, ma quando le arrivai vicino mi sorrise.
Delling non aveva appuntamento con il suo amante quella notte, quindi non appena la guardia chiuse la porta del dormitorio sacerdotale mi alzai e preparai le coperte come al solito. Teoricamente io e Durza dovevamo trattenerci in chiesa solo per un'ora -il tempo necessario per scacciare le mie visioni e poi tornare ognuno a dormire- ma ero certa che alla fine saremmo rimasti nella nicchia un po' più a lungo.
Allestimmo il nostro giaciglio come al solito e per qualche minuto restammo in silenzio, la mano del mio compagno già posata sotto il mio cuore per registrarne i battiti.
«Hai più visto draghi?» mi chiese di punto in bianco.
«Non prendermi in giro», protestai.
«Era sincera preoccupazione!» ribatté lui con plateale indignazione.
«Indubbiamente».
«Il tuo silenzio mi addolora, Elfa. Dopo tutto questo tempo credevo che fossimo diventati intimi confidenti» concluse ridacchiando.
Feci uno sbuffo divertito, ma non gli risposi. Chiusi gli occhi e sentii la mia mente sprofondare lentamente nel buio.
Rividi il drago, effettivamente. Era un'ombra che andava e veniva, intervallata dalle minacce proferite da Fäolin, ma era rassicurante, bellissima e quasi familiare.
Tornai al presente e la prima cosa che vidi furono gli occhi castano scuro di Durza socchiusi su di me.
«Va tutto bene», disse subito per rassicurarmi. Poi mano a mano che il mio respiro si calmava anche il suo sguardo si rasserenò. «Niente tremore né lacrime stanotte?»
«Credo fosse meglio del solito», risposi.
«Magari stai.. guarendo?»
«Mi piacerebbe moltissimo».
«Ti credo». Si sedette e si stirò.
Il mantello si spostò, lasciandomi scoperta dalla vita in su. Rabbrividii e mi sedetti a mia volta.
«Vuoi tornare al dormitorio?» mi informai, un po' intorpidita.
«No, sei più calda te del mio pagliericcio».
Quell'affermazione mi colse impreparata e mi svegliò all'istante. Completamente.
Tossicchiai. «Ora possiamo dormire sonni tranquilli, allora».
«Il punto è che ora finalmente possiamo dormire, Principessa».
Risi piano, premurandomi di non fare riecheggiare la mia voce nella cattedrale spoglia.
Quando tornai a guardare Durza i suoi occhi mi parvero così profondi da poter assorbire in un attimo me, la chiesa, la città stessa.. Poi caddero sotto il mio mento e si tinsero di una sfumatura più inquietante: selvaggia, incontrollabile, bruciante.
Ebbi paura dell’improvviso istinto che mi assalì, quello di buttarmi tra le sue braccia e dimenticare tutto e tutti, restai destabilizzata dal fatto che le mie labbra bruciassero per il desiderio delle sue, che la pelle mi formicolasse, bramosa delle sue mani.
L’espressione dello Spettro cambiò ancora. E un’ombra di impazienza gli oscurò le iridi.
Allungò un braccio verso di me e attorcigliò una ciocca dei miei capelli tra le dita, per poi afferrarne un’altra e ricominciare il suo gioco ipnotico, che restai a fissare in silenzio.
«Durza non..» balbettai pateticamente, improvvisamente conscia del pericolo e ritraendomi appena.
«Shht», sussurrò lui, «non scappare», mi pregò con voce vellutata.
La mano dello Spettro cadde sul mio collo ed esplorò curiosamente la mia pelle in una lenta carezza. Un brivido che non aveva niente a che fare con il freddo delle sue dita mi percorse piacevolmente la spina dorsale in un lieve spasmo.
Solo quando i suoi polpastrelli scivolarono pericolosamente verso il basso, decisi che doveva essere sufficiente.
Afferrai il polso di Durza. «Dovremmo andare».
«Magari più tardi». Mi gettò una rapida occhiata da testa a piedi, ignorando volutamente il mio turbamento. «Adesso», aggiunse con voce bassa e suadente, «voglio solo farti scivolare questo dannato vestito di dosso».
La normalità avrebbe previsto che io scattasi come una molla e gli urlassi indignata che era un lurido verme schifoso.
Ma io mi limitai ad un totalmente fuori luogo, fremito di eccitazione.
Lo Spettro si chinò su di me e le sue braccia mi circondarono senza stringermi. Sentii la punta fredda del suo naso sfiorarmi la guancia e le sue labbra ruvide graffiarmi dolcemente il filo della mandibola, spostandosi poi apparentemente per sbaglio sulla giugulare e chiudendosi in baci lenti e quasi dolorosi.
Non sapevo bene come comportarmi. Sapevo ovviamente dove volesse arrivare Durza e sapevo anche che era da parecchio tempo che ci voleva arrivare, ma il mio animo era confuso circa la risposta ai suoi desideri: una parte di me era spaventata ed impreparata, un'altra parte -quella in quel momento prevalente- voleva assecondarlo, anche se significava concedere libertà che non avevo mai concesso a nessun uomo prima a quello che era stato il mio carceriere e boia.
Travolta dalle attenzioni dello Spettro e dal rapido evolversi della cosa, r
idacchiai nervosa, protestai, fremetti, gli fermai il volto tra le mani. Durza voltò rapidamente il viso contro i miei palmi e li baciò entrambi, uno dopo l’altro, poi chinò nuovamente la testa e artigliò la scollatura del mio abito con l'indice, tirandolo verso il basso insieme alla fascia.
Aggrottò la fronte alla vista della boccetta di veleno, ma poi si limitò a prenderla, posarla sul pavimento e precipitarsi a ricoprire di baci la pelle appena esposta, mentre i suoi capelli mi sfioravano il petto.
Smisi di pensare e di esitare. Un sospiro mi scivolò tra le labbra e una sensazione di languore si espanse nel mio corpo.
Le sue dita si strinsero sui miei fianchi e risalirono ad accarezzare la mia vita
, il respiro alla menta di Durza mi soffiò sul viso e un istante dopo la sua bocca travolgeva la mia. Schiusi automaticamente le labbra e la mia schiena finì contro il muro, mentre gli stringevo nuovamente il viso -stavolta con l'intenzione di trattenerlo contro la mia bocca- e lo baciavo come se fosse l’ultima cosa che avrei potuto fare in vita.
Lo Spettro cominciò a toccarmi con rude sicurezza da sopra al “dannato” vestito, che mi sembrava diventato improvvisamente stretto e decisamente di troppo: seguì la curva della schiena, le gambe, il seno..
Mi sentii sciogliere, diventare di puro fuoco tra le sue mani e contemporaneamente sentivo crescere la brama dell'incendio, il senso di vuoto sotto il mio stomaco e acuirsi quella particolare tensione che si era stretta tra di noi, che a quel punto divenne insopportabile.
Con un mugugno, affondai le mani tra i capelli rossi di Durza e li scompigliai caoticamente -come da settimane volevo fare- tirandolo a me come un'amante consumata: mi sembrava che non potesse mai essere abbastanza vicino.
Lo Spettro abbandonò la mia bocca martoriata ed emise quello che parve un ringhio, poi tornò ad armeggiare bruscamente con il mio abito. Il corpetto fu rapidamente slacciato. La bocca di Durza scivolò sulle mie spalle nude e sul petto, arrossando la mia pelle di baci.
Mi ritrovai alla mercé dei suoi gesti, quasi inerme, poi incontrai le iridi improvvisamente rossicce di lui e le trovai lucide di passione e dello stesso desiderio devastante che mi stava sconvolgendo.
Volevo baciare di nuovo la sua bocca sottile, sfilargli la casacca e sentire la sua pelle nuda contro la mia, tutto insieme. Subito.
Con ogni fibra del mio essere che bruciava di desiderio, agii scompostamente, baciandolo con aggressività e insinuando le mani sotto i suoi vestiti.
Durza tremò come in preda ad una forte febbre. Con uno scatto felino mi stese sul pavimento gelido della cattedrale, lasciando il corpetto mezzo slacciato e schiudendomi le ginocchia con impazienza.
E mi sarei data a lui senza remore, davvero, ma le cose non andarono come entrambi desideravamo.
Lo Spettro si staccò improvvisamente dal bacio, ansante, le mani ancora sotto la mia gonna.
Restai con la schiena pressata contro il pavimento, le labbra dischiuse in attesa del ritorno delle sue, respirando furiosamente per riempire il vuoto di aria che si era venuto a creare. Restai imbambolata a fissare Durza, che stava inclinando il capo di lato.
In ascolto.
Sentii dei passi provenire dall'abside.
«Diamine!» sibilò lo Spettro.
Si sollevò bruscamente da sopra di me, afferrò le nostre tuniche monacali e i mantelli, e mi trascinò contro la statua di Hofud. Arraffai al volo i nostri pugnali e gli andai dietro.
«Chi è?» bisbigliai sconvolta.
«Chiunque sia ha un tempismo terribile», replicò con voce bassa, roca, impaziente.
Così terribilmente sensuale da farmi fremere.
Qualcuno dal passo instabile raggiunse l'altare. La donna.
Durza lasciò cadere i nostri abiti e prese il suo pugnale dalle mie mani. Ma la tizia si guardò intorno spaesata e se ne andò, il pugno stretto intorno a dei fogli di pergamena.
Solo a quel punto mi resi repentinamente conto di essere seminuda. Sollevai la fascia e il vestito e tirai nuovamente i lacci del corpetto.
«Arya», mormorò Durza, «è andata via». E mi baciò.
Lo staccai da me. «Aveva il suo rapporto in mano. Lo deve consegnare stanotte».
Si pettinò i capelli che gli avevo scompigliato. «Non l'ho visto».
«Be' io sì. Se qualcuno la scopre scopre anche noi, dobbiamo andarcene».
Annuì. «Va bene. Ti aiuto».
Mi diede una mano a stringere i lacci del corpetto, anche se non era decisamente necessario. La lessi come una scusa per non interrompere così bruscamente il contatto prezioso che c'era stato tra di noi.
Indossammo le nostre tuniche, tenemmo i pugnali sotto e ci avvolgemmo nei mantelli.
Lo Spettro mi porse il mio veleno. «E questo?»
«Prima non sembrava importarti più di tanto», lo liquidai, strappandoglielo dalle mani e spostandomi nella sagrestia.
«Quando hai ragione hai ragione.. Ma domani continuiamo la conversazione interrotta, che ne dici?» azzardò con tono speranzoso.
Gli sorrisi accondiscendente e mi trattenni sulla porta che dava sul chiostro per baciarlo sulle labbra e affondare un'ultima volta le dita nella sua chioma rossa, mentre l'aria notturna rinfrescava la mia pelle rovente.
Fu a quel punto che un grido angosciato mi perforò le orecchie.
Sobbalzammo entrambi.
«Chi era stavolta?» piagnucolò Durza.
Non avrei saputo cosa rispondergli, ma fui sollevata rapidamente dal compito: sacerdoti e monaci si riversarono nel chiostro come un fiume in piena, guardandosi intorno allarmati e spaesati.
Poi un uomo vestito di nero, con una benda davanti alla bocca, spuntò dalla porta della cucina, trascinando una figura recalcitrante con sé. La nostra amica spia si era fatta catturare.
Qualcuno si decise a recuperare candele e lanterne e presto l'intero chiostro fu illuminato da una luce soffusa. Io e lo Spettro strisciammo contro la parete del refettorio e ci avvicinammo al gruppo dei monaci, che, presi com'erano dalla scena, quasi non ci notarono.
Quasi.
Perché Delling sobbalzò non appena ci vide comparire alla sua destra e Stian guardò con sospetto Durza, che teoricamente avrebbe dovuto trovarsi vicino all'ingresso del dormitorio maschile, non di quello femminile.
Ma ovviamente l'attenzione generale fu nuovamente catapultata alla donna, singhiozzante e in preda al panico, che era ora bloccata da due Ombre, mentre un altro soldato mostrava dei fogli di pergamena stropicciati al Sommo Sacerdote, sostenuto come al solito nella sua lettiga.
Il cipiglio dell'uomo si indurì di minuto in minuto, più i suoi occhi scorrevano le parole vergate, e fui certa in un istante che la donna con gli occhi di lupo non avrebbe fatto una gran bella fine. Forse averla uccisa quando ne avevamo avuta l'occasione poteva essere ormai considerato un atto di pietà.
Lo Spettro mi strinse le spalle con muto incoraggiamento e poi scivolò tra i suoi compagni.
E io mi ritrovai a consolare Helsa, la giovane donna dagli occhi perennemente tristi, che era scoppiata a piangere apparentemente senza motivo.
Dopo un lungo discutere e bisbigliare, il Sommo Sacerdote si erse in tutta la sua monca statura e parlò: «Miei cari compagni e amici, stanotte abbiamo scovato una serpe che si annidava nel nostro seno. Avete davanti a voi una traditrice. Stava per consegnare questi documenti segreti», annuì in direzione dei fogli, ancora in mano all'Ombra, «ad un suo complice oltre al muro del cortile. Purtroppo egli ci è sfuggito, questo significa che questa donna dovrà pagare sulla sua carne il tributo che Dio esige anche da colui che non siamo riusciti a catturare». Fece una pausa drammatica. «Dimenticate quella che conoscete come Augyra, non era altro che una maschera per ingannarci. Ma Dio non può essere ingannato e ha provvidenzialmente tenuto sveglio Wachter che ha notato l'insolito movimento notturno della traditrice, e di questo lo ringraziamo!» I Sacerdoti si batterono contemporaneamente un pugno al petto. «Ora che la maschera è caduta», proseguì il monco, «Augyra avrà la punizione che si merita. Che sia portata negli antri della cattedrale, dove domani sarà deciso il suo destino».
La donna -Augyra era sicuramente un nome falso- aveva smesso di ribellarsi, stremata, e si lasciò condurre docilmente nella cattedrale, dove sarebbe ovviamente sparita sottoterra per mai più riemergere. O forse l'avrebbero portata in sacrificio all'Helgrind, come avevano portato Gamall l'erborista?
Riuscii solo a pensare che avevamo nascosto i suoi ricordi di noi appena in tempo.
Ci fu comandato di tornare a dormire e di non preoccuparci di nulla, dato che ormai eravamo al sicuro. Cercai lo sguardo di Durza e lui me ne restituì uno così intenso che mi riportò all'istante all'abbandono che avevo provato per lui, tra le mura spoglie della chiesa.
Poi sparì oltre alla porta e fui colta dalla certezza che quella notte, nonostante la stanchezza infinita, non sarei riuscita a dormire tanto serenamente.
C'erano le solite preoccupazioni, alle quali si aggiungeva quella per Augyra, della quale mi sentivo in qualche modo responsabile; quella per Delling e Stian, che avevano notato che io e lo Spettro eravamo fuori dai dormitori prima che il fatto avvenisse; e sopratutto quella per Durza stesso.
Non volevo sbilanciarmi con me stessa, ma dovevo ammettere di non aver mai provato un trasporto simile per nessuno, nemmeno per Fäolin, che fino a qualche settimana prima ero convinta di aver amato. Ero visceralmente attratta da Durza, dal suo sarcasmo, dal pericolo che emanava da lui, dai suoi atti di sottile gentilezza nei miei confronti, dai suoi segreti, dalla sua curiosità, dai suoi capelli rossi e dal suo corpo forte.
Era un'attrazione acerba, che non giustificava le azioni decisamente precoci di quella notte, ma c'era, ormai ne ero certa. Cosa dovevo fare? Confessargliela o tenerlo per me?
Non conoscevo esattamente i suoi sentimenti nei miei confronti, ma se la notte seguente avesse di nuovo cercato di sedurmi probabilmente gli avrei ceduto senza rimpianti.
Ero prima di tutto un essere razionale, non un animale in preda all'istinto, ma non trovavo dei freni solidi su quella questione. Certo, c'erano i più banali: Come puoi concederti ad un uomo che conosci da pochi mesi? Come puoi desiderare una carezza da quelle stesse mani che ti hanno accoltellata? Come puoi tu, figlia della regina di Ellesméra, lasciarti sedurre da Durza lo Spettro?
Forse erano validi, ma non lo erano abbastanza. L'unica risposta che mi rimbalzava in mente era: che male c'è?
Così lasciai cadere quei ragionamenti e mi dissi che si trattava di un imprevisto, scivolato tra le questioni importanti che stavo affrontando e probabilmente causato dalla gratitudine che provavo nei confronti di Durza. Forse mi sarebbe passata in fretta, forse no, ma ci avrei pensato sul momento. Mi fidavo della mia capacità di prendere decisioni.

Dovetti accompagnare Helsa al suo pagliericcio -che era di fronte al mio- e lei non smise un attimo di piangere piano, ma con sincera disperazione.
Così quello fu l'ennesimo tormento di quella notte già agitata. La giovane si svegliava spesso, singhiozzava a lungo e poi si addormentava.
Al terzo risveglio, quando mi vide chinata su di lei a chiederle se andasse tutto bene, spalancò la bocca, mi si fece vicina e sussurrò: «Questo è un posto orribile, quello che hanno fatto a quella donna è orribile. Io voglio andarmene. Vattene, Bitr, finché sei in tempo».
Poi ricadde all'indietro e piombò di nuovo nel sonno.
Mi addormentai anche io, con l'immagine di Helsa piangente in testa e la vivida sensazione dei baci di Durza sulla pelle.

Fui riscossa solo dalla campana del mattino e mi ritrovai perfettamente riposata e piena di energie, nonostante la notte un poco inquieta.
Helsa si alzò con gli occhi rossi e gonfi e, dopo aver preso l'ordine di Gagnsamr -che destinava lei alla cucina, me agli ambienti sacri e Durza all'orto e a delle commissioni pomeridiane- scappò nel cortile di servizio, stringendosi la testa rasata tra le mani.
Incontrai lo sguardo di Tove, che mi fece cenno di lasciarla stare. «A volte ha delle crisi spirituali, dovute al suo duro passato. Ma non preoccuparti, ne esce sempre», disse.
Accettai la spiegazione e mi diressi con tutti gli altri al refettorio, cercando lo Spettro tra la piccola folla.
Lo trovai intento a parlottare con Stian, entrambi corrucciati, e il mio cuore sobbalzò. Sicuramente stavano discutendo della notte appena passata, forse Stian aveva notato Durza accanto a me, aveva notato che eravamo i soli ad indossare un mantello e ne aveva tratto le sue conclusioni.
Istintivamente cercai Delling e la vidi poco distante da me, concentrata sul suo cibo. Forse era il caso di dirle che conoscevo il suo segreto, così dal dissuaderla dal rivelare il mio.
Sentii una risata e alzai di scatto la testa, per vedere Stian scostare bruscamente lo sguardo da me e tornare a bisbigliare a Durza. Qualunque cosa avesse visto e concluso non sembrava importargli granché perché il suo turbamento era scomparso.
Fermai Delling in cucina, mentre riempiva le scodelle dei Sacerdoti di latte caldo.
«Delling», dissi piano.
Lei non alzò gli occhi dal suo compito. «Ti ho vista ieri notte, con Natt. Dove eravate quando la donna ha urlato? Siete suoi complici per caso?»
«No», la rassicurai, «eravamo nel chiostro a fare quello che tu vai a fare con Wachter a notti alterne».
Le tremò violentemente la mano e un po' di latte si riversò a terra.
«Ti prego..» I suoi occhi grigi si sgranarono.
«Non dirò nulla, ma tu dovrai restituirmi il favore».
Annuì ripetutamente. «Certo, certo».
«Grazie. Bella giornata a te».
Presi tre scodelle e andai a servire i Sacerdoti.
Poco dopo Elin tornò in cucina con Helsa sottobraccio. La giovane aveva uno sguardo perso e sofferente, ma si era calmata. La facemmo sedere e le mettemmo tra le mani la colazione, in ritardo.
«Helsa ha completa fiducia in Dio», mi disse Elin sottovoce, probabilmente notando il mio sgomento, «ma ogni tanto le sue origini la fanno soffrire».
«Me lo ha detto anche Tove», risposi, «ma non conosco il suo passato».
«Perché in teoria non dovremmo. La nostra vita comincia da quando prendiamo i voti, quello che c'è prima non conta. Helsa ogni tanto lo dimentica, è un po' debole in questo».
Se avessi insistito mi avrebbe probabilmente rimproverata, quindi lasciai perdere, anche perché non potevo preoccuparmi delle sofferenze di tutte le mie compagne, non ero lì per quello.
Tuttavia Helsa mi sembrava la più infelice lì dentro, lo avevo pensato anche il primo giorno che l'avevo vista, e mi faceva pena.
Arrivò finalmente l'ora della funzione.
«Buongiorno», mi salutò Durza, rivolgendomi un sorriso radioso.
Ci sedemmo nella nostra solita panca, all'estremità opposta alla navata centrale.
«Buongiorno a te», ricambiai il sorriso, «hai parlato con Stian?»
Sollevò le sopracciglia. «Come sei arida, Elfa, non mi chiedi neanche un bacio?»
«Idiota».
Mi posò una mano sul collo e mi baciò con desiderio, intrecciando la lingua alla mia. Chiusi gli occhi e mi strinsi alla sua tonaca, sperando con tutto il cuore che la ragazzina seduta accanto a me stesse guardando da un'altra parte.
Il rito cominciò e tornammo con i piedi per terra.
«Ho parlato con Stian», confermò lo Spettro.
Strinsi la sua mano. «E..?»
«Si è congratulato con me e ha detto.. vuoi le testuali parole? “Anche io perderei volentieri un paio di ore di sonno per quella”».
Sbuffai con muta rassegnazione. «Ma davvero? Si è congratulato con te?»
«Anche io mi sarei congratulato con me», mi informò ghignando.
Ignorai l'allusione. «Delling non dirà nulla, ma ci credeva complici della donna dagli occhi di lupo».
«Quella sciocca. Probabilmente ha cercato di fare quello che doveva fare, ma era ancora confusa».
«Per colpa nostra», aggiunsi.
«Per colpa nostra», concesse, «ma almeno se ora scaveranno nella sua mente dovremmo essere al sicuro».
«La mia maggiore preoccupazione va alle stanze sotterranee. Saranno più sorvegliate del solito adesso che hanno una sorta di prigioniera là sotto? Nessuno ha più parlato di lei, quindi immagino che sia ancora nelle mani dei Sacerdoti».
«Credo che la uccideranno presto».
«O la tortureranno per strapparle informazioni su chi l'ha mandata», ipotizzai.
«Probabile anche quello, ma in ogni caso faremo più attenzione. Non possono tenerla in quelle stanze ricolme di begli oggetti e pergamene, di sicuro c'è un'altra stanza, oltre a quella presidiata dalle guardie, quindi avremo ancora libero accesso alla parte che ci interessa».
«Lo scopriremo stasera».
«Sarà la giornata più lunga della mia vita», concluse Durza, accarezzandomi il ginocchio con malcelata malizia.
La sua aspettativa e impazienza per la notte mi contagiò e separarmi da lui fu quasi penoso. Non era una sensazione nuova, ma fino al giorno prima non le avevo mai attribuito il significato che assumeva a quel punto, dopo gli eventi della notte precedente.
Per tutta la mattina fui un poco distratta. Pensavo a casa mia, ai sotterranei, a Helsa, a Augyra e al suo mandante, che mi era ancora ignoto. E allo Spettro, ovviamente, anche se cercavo di non farmi distrarre dal ricordo del fuoco che avevo visto nei suoi occhi.
Lo rividi, allegro come un bambino, durante il pasto di mezzogiorno, poi fui impegnata a lavare coppe dal sangue dei Sacerdoti e a pulire il pavimento della chiesa per tutto il pomeriggio.
Fu mentre ripulivo l'altare dal sangue che ebbi una seconda visione ad occhi aperti. C'erano di nuovo il drago, Brom e il ragazzo, che venivano verso di me avanzando in uno spazio senza confini. Ed era così vivido, così reale, che quasi allungai una mano per toccarli.
«Bitr stai bene?» mi chiese Rasmus toccandomi una spalla.
Le dita serrate agli angoli dell'altare, ero immobile e rigida, la bocca dischiusa e lo straccio abbandonato sulle mie ginocchia.
Dissi che avevo avuto un capogiro e allontanai Rasmus con gentilezza, però decisi di riferire a Durza ciò che avevo visto, non poteva essere di nuovo uno scherzo della mia mente. O almeno speravo.
Ma l'uomo che sedette accanto a me durante la funzione non aveva nulla di quello che aveva chiesto un bacio, quella mattina.


[Durza]
Gagnsamr lo mandò alla bottega del taglialegna, a esigere il carico di legna che avevano richiesto ormai una settimana prima, quando Arya si era allontanata dal gruppo per recuperare i pugnali, come gli aveva raccontato.
Avrebbe impiegato circa mezzora a raggiungere le mura esterne della città, dove la bottega del taglialegna giaceva, condividendo una parete con esse. Il monaco aveva mandato lui, anche se non conosceva il posto, perché era il più alto di tutti i monaci e lo scopo di quella visita voleva essere intimidatorio. La chiesa aveva già versato un anticipo per la legna, ma essa non si era ancora vista e quindi andava là per protestare.
In parte ne era felice, perché l'ambiente bigotto della cattedrale minacciava di soffocarlo, a volte, ma in parte era inquieto, perché non gli piaceva allontanarsi troppo dalla sua Elfa.
Sorrise tra sé.
Quasi sua.
Non si raccapezzava del fatto che quella donna fiera e altera fosse stata sul punto di offrirsi a lui e non riusciva a descrivere la gioia feroce che aveva provato quando Arya aveva sospirato ai suoi baci e lo aveva ricambiato con ogni pollice del suo corpo che trasudava desiderio.
Non riusciva a descriverla, ma poteva rievocarla. E anche in quel momento gli trasmise un tremito nel tiepido pomeriggio assolato.
Si era vergognato delle sue azioni quando aveva realizzato di averla illusa di essere un tipo di uomo, quando in realtà stava ancora indossando la sua maschera. La vergogna, però, stava rapidamente sfumando nel panico.
Il panico non completamente sconosciuto, ma da tempo assente, di perdere una persona cara.
Il sorriso si spense repentinamente dal suo volto, sostituito da un'espressione corrucciata. Quel tipo di paura lo aveva tormentato quando era ancora un semplice umano e si era visto strappare dalle mani la sua vita, il padre, la madre, la sorella e infine Haeg, lasciandolo solo al mondo. Ma quello era un tipo di paura particolare, dove la perdita quasi non dipendeva da lui: i suoi cari potevano essere portati via da chiunque avesse la forza di farlo.
Con Arya invece si trattava di un terrore diverso: rischiava lui stesso di allontanarla da sé con le sue stesse mani, con i suoi atteggiamenti e le sue bugie.
Si era affezionato alla Principessa elfica più di quanto volesse e potesse ammettere e non riusciva ad immaginare come potesse diventare la sua vita senza di lei.
Vuota, indubbiamente.
Era da tempo che metteva in discussione la validità dei suoi propositi, e se aveva cominciato a farlo era principalmente per colpa sua. Il suo primo obiettivo, quando aveva evocato gli spiriti sotto il sole cocente, era stato quello di sterminare i predoni che avevano massacrato la sua famiglia. Tutti loro e tutta la loro discendenza, fare sparire il loro sangue lercio da quelle terre.
Non ci era riuscito, ovviamente, e aveva scatenato una caccia all'uomo, che lo portava ormai da anni alle calcagna di Ajihad, al quale aveva già portato via la moglie, ma non ancora la figlia.
Quello era il punto focale della sua rabbia: i discendenti di quegli assassini vivevano insieme e avevano costruito ciò che a lui era stato strappato. E non aveva mai potuto sopportarlo.
Su quella linea si era basato il piano con cui aveva lasciato Gil'ead: trovare un modo per annullare i poteri degli Eldunarí -che riuscivano a passare oltre al cerchio di ametiste- e allo stesso tempo ingannare l'Elfa in modo da prenderle qualche informazione e asservirla, poi avrebbe deposto Galbatorix, preso il trono e attaccato i Varden, che, sopraffatti, avrebbero ceduto alle sue richieste e gli avrebbero consegnato il loro capo e sua figlia. Vivi.
Quello
era appunto il piano.
Ma poi Arya aveva cominciato a incrinare la sua, di maschera, e a mostrare la debolezza e la bellezza che vi si celava sotto e lui si era ritrovato a pensare che, invece di seguire la vendetta per la sua famiglia perduta, avrebbe forse potuto trovare pace nel formarne un'altra, tutta sua.
A quei pensieri seguiva la paura. La paura di avere di nuovo qualcuno da perdere, qualcuno per cui provare delle debolezze, qualcuno che lui non sarebbe mai riuscito a proteggere e che sarebbe indubbiamente caduto tra le ombre.
Certo per anni aveva intessuto una sorta di instabile amicizia con Alba ed erano stati anche amanti, una o due volte, forse anche tre. Ma non aveva stabilito un legame particolarmente profondo con la sua serva, era troppo contraddittoria, alternava sbalzi di umore spaventosi ed era palesemente disturbata al punto di non ritorno.
Arya invece era stata magistrale. Lo aveva legato a sé piano piano, un pezzetto alla volta, sciogliendosi e facendolo sciogliere, e quando finalmente se n'era accorto era ormai troppo tardi. Era perso di lei, e probabilmente nemmeno per quello c'era ritorno.
A quel punto non gli rimanevano molte scelte: o lei o la vendetta e il potere. E non era pronto a rinunciare a nessuno dei due. Forse se ne avessero parlato avrebbero trovato un compromesso, perché era certo che anche lei provasse un qualche attaccamento nei suoi confronti, ma c'era l'alta possibilità che lei fuggisse alla scoperta di tutte le cose che le aveva celato, di tutte le bugie che aveva intessuto per nasconderle il suo vero piano.
Non voleva che se ne andasse, ma non era disposto a buttare via tutti i piani che aveva fatto in una vita solo per una donna. Anche perché se avesse rinunciato al trono, qualcun altro lo avrebbe reclamato per sé, insieme a tutti i cuori dei cuori appartenuti al sovrano, e a quel punto sarebbe stato nuovamente alla mercé di qualcuno di più grande e potente di lui e sarebbe tornato il ragazzino che piangeva, nascosto alla vista, mentre la sua famiglia veniva massacrata sotto i suoi occhi impotenti.
E Arya.. non poteva perderla! Cominciava però a rendersi conto che, qualunque fosse stata la sua scelta, l'avrebbe perduta comunque.
Basta fare il codardo!
Le avrebbe parlato. Le avrebbe vomitato addosso tutte le nefandezze della sua anima nera e per il tempo necessario a finire l'elenco era sicuro che lei si sarebbe già dileguata.
Ma non poteva costruire un castello su delle bugie. Tutte le maschere, prima o poi, cadevano. Per sbaglio, per distrazione, per logoramento, per un incendio.. era una verità senza scampo.
Avrebbe detto la verità e avrebbe corso il rischio. Non aveva più le forze di ingannare l'Elfa, voleva baciarla, amarla e dimenticare il mondo nella curva elegante del suo collo. Una, due, mille volte..
            Alla bottega del taglialegna trovò solo una ragazza, la figlia, che gli assicurò che il legname sarebbe arrivato entro sera. La ragazza sembrava esausta e, viste le ampie spalle che il vestito celava a malapena, doveva aiutare spesso il padre nel suo lavoro, oltre che a badare alla casa.
Tuttavia quando intravide una fornace all'interno della bottega faticò a nascondere lo stupore.
La indicò alla ragazza. «Credevo fosse la bottega di un taglialegna, non di un fabbro».
«Mio padre era un fabbro, signore. Il mio patrigno è taglialegna, ma io porto avanti l'attività della mia vera famiglia».
«Sei tu a forgiare..?»
«Tutte le spade dei soldati imperiali. Sono molto brava», disse orgogliosa.
Fece un cenno di sorpresa. «Incredibile, complimenti».
«Sei gentile».

«Sei sola?» le chiese poi, distrattamente.
Si fece sospettosa. «Cosa vuoi dire?»
«Tua madre dov'è?»
«Oh è morta di febbri lo scorso inverno».
Mentiva. Strano.
Provò a sfiorarle la mente e si trovò respinto da un solido muro. La figlia di un taglialegna, anzi di un fabbro, con abilità magiche?
La giovane brandì un lungo bastone di legno e gli fece cenno di andarsene. «Non so chi tu sia, ma devi lasciarmi in pace».
Lo Spettro sollevò le mani e le sorrise con una punta di sarcasmo. «Sono un monaco, ragazzina, non hai nulla da temere da me».
«Preferirei che te ne andassi», replicò un po' spaventata. «Ti giuro che la legna arriverà prima del tramonto, ma ora va'».
Durza la guardò attentamente, perché era certo di voler ricordare quella figura in futuro. Era comune: altezza media, capelli lisci -ma non della stessa seta di quelli di Alba- e castano chiaro raccolti in una crocchia, occhi piccoli e di un colore leggermente più chiaro dei capelli e folte sopracciglia che davano una forte espressività al suo volto tondeggiante, ancora da bambina. Osservò le sue braccia e vide forti muscoli guizzare sotto la stoffa e poteva quasi indovinare i calli sulle sue mani. Forgiare armi non era decisamente un mestiere adatto ad una fanciulla.
Le fece una riverenza, senza poter evitare di fare una smorfia ironica, e se ne andò.
Non erano molti quelli capaci di difendere la propria mente, anzi..
Un forte bruciore all'altezza del cuore lo fece sobbalzare. Toccò la catena d'argento che sosteneva il ciondolo a forma di sole e si affrettò a trovarsi un vicolo buio dove poter ricevere quello che sicuramente era un messaggio di Alba e che lo raggiungeva con un tempismo perfetto, proprio nel momento in cui era fuori dalla cattedrale.
L'immagine tremolante della sua serva fu applicata ad una pozza di acqua, residuo della neve ormai sciolta.
«Mio signore ho notizie per te, posso parlarti liberamente?»
«Certo, ma fai in fretta».
«Una banda di Urgali ha localizzato il cavaliere, il suo drago e Brom. Il ragazzo ne ha uccisi molti ma due sono riusciti a mettersi in contatto con me».
Durza si mosse inquieto. Aveva ordinato agli Urgali di riferire direttamente ad Alba perché lui non poteva ricevere messaggi ad ogni ora del giorno, ora che era relegato nella cattedrale, e non era sicuro che quei bestioni avrebbero capito di dover ritentare fino a che non avesse dato loro udienza.
«Dove sono?» domandò.
«Vicino a Teirm, in direzione del lago di Leona».
«Di già..»
«Te lo aspettavi?»
«Sì prima o poi sì, era un altro motivo per cui volevo essere qui. Il ragazzo sta sicuramente seguendo i Ra'zac e le loro tracce lo avrebbero portato a Dras-Leona in un modo o nell'altro».
«Come sta andando per ora? Hai già ottenuto un'alleanza dai Sacerdoti?»
«Diciamo che per il momento sto solo cercando di sottrarre loro qualcosa», abbozzò.
Il viso grazioso della sua interlocutrice si accigliò. «Di questo non mi avevi parlato». Fece una lunga pausa. «E l'Elfa?»
«Sotto controllo», disse, ma non credeva neanche lontanamente a quello che stava dicendo.
«Durza tu mi stai nascondendo qualcosa, non è vero?»
«Sì», ammise bruscamente, «te ne parlerò non appena faremo ritorno».
Sibilò. «Io la voglio uccidere».
«Me ne ricordo perfettamente».
«E tu dovrai lasciarmelo fare. Era nel nostro patto».
«Il nostro patto risale a ormai quattro mesi fa, da allora molte cose sono cambiate» le fece notare.
«Non per me, mio signore». Lo guardò a lungo in silenzio. «
Credevo che avrei potuto fermarti, ma ormai è troppo tardi. Ricordi queste mie parole?»
Lo Spettro sentì lo stomaco fare una capriola. Le ricordava benissimo. Gliele aveva rivolte la notte in cui lo aveva recuperato, febbricitante, dalla cella di Arya. Quando lei lo aveva curato invece di ucciderlo.
Ricordava anche di aver riso a quella sua affermazione, non capendola.
Alla luce dei nuovi eventi assumeva tutt'altro significato.
«Vedo che ricordi. E allora ricordati anche questo: lei non potrà mai e poi mai perdonarti ciò che le hai fatto, come tu non potrai mai perdonare agli antenati di Ajihad ciò che hanno fatto a te. Pensaci, prima di fare sciocchezze. Non potrai mai avere la principessa degli elfi, il suo primo e unico desiderio sarà quello di ucciderti».
Durza spezzò il contatto con un lento gesto della mano e indossò nuovamente il ciondolo. Non voleva darle la soddisfazione di vedere quanto le sue parole gli avessero fatto male.
            Durante la funzione quasi non ebbe il coraggio di alzare gli occhi su Arya e quando lo fece fu solo mentre erano in fila per ricevere il segno. La vide ferita e preoccupata e si dispiacque di doverle causare ulteriore sofferenza quella notte.
«Dopo dobbiamo parlare».
«Di cosa?» chiese dolcemente, con quel suo timbro particolare di voce.
«Tante cose. Ci vediamo nella sagrestia come al solito».
«E la nostra ricerca?»
«Due giorni di pausa non ci uccideranno, non credi?»
Annuì titubante.
Avrebbe voluto stringerla a sé e baciare le sue labbra di rosa, ma sentiva le braccia di legno e il sapore della sabbia in bocca. La sabbia che lo aveva quasi soffocato il giorno prima dell'evocazione che lo aveva trasformato in un mostro, salvandolo dalla disperazione.


[Arya]
Durza non mi aveva detto nulla durante il rito, anzi, quasi non mi aveva guardata. Mi voleva parlare, così aveva detto, ed io ero preoccupata. Cos'era cambiato nelle ultime ventiquattr'ore?
Faticavo a mantenere regolare il mio battito cardiaco quando aprii la porta della sagrestia e quello scarso minuto che attesi mi parve infinito.
Quando arrivò, lo Spettro non mi sorrise e non mi disse nulla. Poggiò la schiena alla porta e rimase immobile.
«Andiamo in chiesa?» Proposi sulle spine. «Qui non riesco nemmeno a vederti».
«Andiamo».
Non ci nascondemmo nella nostra solita nicchia. Durza mi portò sulle panche in fondo, mi fece sedere e cominciò a parlare, piano, con voce monocorde, quasi distante.
E in pochi minuti aprì una voragine di dolore sotto i miei piedi.
Mi disse tutte quelle verità che a lungo mi aveva taciuto, quelle che avevo sempre sentito sospese tra di noi ma che per convenienza non mi ero mai preoccupata di affrontare.
Partì dai veri scopi di quella missione: sconfiggere il re con il mio aiuto, sì, ma anche prendere il suo trono dopo e costringere i Varden alla resa poi. Aveva dei conti in sospeso con Ajihad e aveva intenzione di uccidere sia lui che Nasuada, ma non entrò nei dettagli.
Finito quello passò all'argomento che sul momento mi sconvolse di più: mi aveva mentito a Taurida e mi aveva mentito quando Alba lo aveva contattato. L'uovo di cui ero custode era arrivato a Brom e lui ne aveva trovato il cavaliere. Le visioni che avevo avuto non erano uno scherzo della mia mente malata, erano la verità. Brom e il cavaliere erano in viaggio verso Dras-Leona, sulle tracce dei Ra'zac che più di un mese prima avevano attaccato la casa del ragazzo e ucciso suo zio.
Le parole di Durza si spensero nel silenzio.
Mi resi improvvisamente conto di essere tesa come una corda d'arco e di avere la mascella così contratta da far sfregare i denti tra di loro.
«Mi hai mentito», sentenziai con freddezza, «e io ti ho creduto come una sciocca. Non credo che farò mai più questo errore».
Mi alzai. Volevo andarmene da lì, mi sembrava che i muri severi della chiesa potessero crollarmi addosso da un momento all'altro.
«Ora ti ho detto la verità», soffiò lui. E io mi chiesi dove fosse finita la voce suadente e melliflua di Durza lo Spettro, non ne trovavo traccia in quella tremante che avevo appena udito.
«Magari avresti dovuto dirmela prima che mi alleassi con te, non credi? Io non ti permetterei mai di asservire il cavaliere, uccidere Ajihad o prendere le redini di questo regno. E, fidati, se mi avessi premesso queste cose quando mi hai chiesto di partire con te, non avrei mai accettato e sarei morta, folle e denutrita nella mia cella».
Cercò i miei occhi, ma io li spostai di lato. Stavo trattenendo tantissime emozioni dentro di me -rabbia, delusione, umiliazione, sofferenza- e tuttavia sapevo che lui le avrebbe lette tutte, dalla prima all'ultima. Per l'ennesima volta ero nuda e indifesa davanti a lui e ebbi di nuovo la tentazione di scappare.
«Devi credermi quando ti dico che mi dispiace».
«Non posso credere a nulla di ciò che mi dici, potrebbero essere altre fesserie, per quello che mi riguarda».
Picchiettò sulla panca accanto a sé. «Siediti, ti prego».
Sedetti su quella di fronte a lui e sfuggii nuovamente ai suoi occhi.
«Puoi guardarmi», aggiunse, «essere bugiardi non è contagioso».
Non lo feci. «Dimmi quello che hai da dirmi. Domattina io me ne vado».
«Non puoi».
«Eccome se posso. Hai intenzione di trattenermi con la forza, Spettro? Sinceramente non credo di meritarlo».
Vidi con la coda nell'occhio che allargava le braccia. «Non ti costringerò a fare nulla che tu non voglia, Principessa, ma se ti lasciassi andare ora cercheresti di fermarmi e io non posso permettermelo. Ti garantisco che non ti farò del male, ma non sarai libera fino a che non sarà tutto finito».
Trattenni l'istinto di strapparmi i capelli per l'esasperazione. «Allora riportami a Gil'ead. È lì il mio posto. Se non sono tua alleata torno ad essere la tua prigioniera».
«Puoi ancora essere mia alleata».
«Peccato che io non voglia. A meno che tu non cambi i tuoi piani».
«Non posso rinunciare alla mia vendetta se è quello che stai pensando, e nemmeno al potere».
«Hai mai pensato che io ho rinunciato alla mia nei tuoi confronti per unirmi a te in questa missione?»
Ammutolì. No, non ci aveva pensato affatto.
«Tu sei migliore di me» disse infine.

«E dunque hai pensato bene di approfittarne» sibilai aspramente.
«Sono cambiate delle cose, Elfa. Tu mi piaci».
«Sì, l'ho notato», osservai sarcastica.
«Non fraintendermi. Sei bellissima, ma non è solo.. Puoi guardarmi almeno adesso?» Lo ignorai. «Arya, maledetto mulo cocciuto! Guardami!» Mi afferrò per il mento e mi costrinse nei suoi occhi. Li fissai, indignata per la metafora.
«Tu mi piaci», ribadì con sincerità disarmante, «e so che è reciproco. Ieri notte..»
«Non eri tu l'uomo che ho baciato ieri notte».
Mi lasciò il viso e si strinse il suo. «Non troveremo mai un compromesso, vero?»
«Durza io non andrò contro tutto ciò che ho sostenuto in tutta la mia vita solo perché ti..» mi fermai. «Potrei perdonarti le bugie», aggiunsi titubante, «perché non sono così stupida da negarmi la felicità per dei risentimenti. Ma non diventerò un'altra persona per te».
Mi alzai. Ed era una scelta definitiva.
Lo Spettro fece lo stesso. «Io continuerò a cercare là sotto», accennò all'altare, «ma non ti costringerò ad aiutarmi. Tuttavia non cercare di ostacolarmi o di andartene, perché nemmeno io cambierò per te».
Alzai il mento. «Bene. Buonanotte».
«Aspetta, i tuoi incubi..»
«Non mi importa. Per una notte le mie compagne si adegueranno».
«Arya posso ancora fare questa cosa per te» mi informò, e c'era una tale passione nel suo sguardo che per un attimo mi sembrò che nulla fosse cambiato.
«No, preferisco starti lontana per un po'».
Restammo in silenzio a fronteggiarci per qualche istante, poi mi decisi ad andarmene, con il cuore straziato e la gola che bruciava a causa delle lacrime a stento trattenute, che da un pezzo mi bruciavano bollenti negli occhi.
Scivolai tremando nel mio pagliericcio e mi ripiegai su me stessa. Nonostante nella vita avessi sempre cercato di tenere una certa distanza dai miei sentimenti e dominarli con la ragione, in quel momento mi sentivo a pezzi, dilaniata.
Non mi avevano forse avvisata di non fidarmi delle promesse di uno Spettro? Avevo voluto vedere l'uomo nascosto dietro il mostro e avevo finito per dimenticarmi che il mostro c'era, e non se ne sarebbe mai andato.
Forse provava dei sentimenti per me, ed era bello, ma non valeva nulla se né io né lui eravamo in grado di rinunciare a qualcosa per venirci incontro. Andargli incontro significava rinnegare tutti gli insegnamenti con cui ero cresciuta e in cui credevo profondamente e non lo avrei fatto, mai e poi mai. Perché i miei principi erano giusti e non li avrei calpestati per niente e nessuno.

Fu con estremo stupore che mi svegliai con il suono della campana mattutina nelle orecchie.
Persino il mio incubo notturno mi aveva abbandonata.


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Capitolo lunghisssssssimo! T_T
Vi supplico di perdonarmi ma ad interromperlo prima mi sembrava di spezzare troppo la vicenda e non me la sono sentita, ma mi rendo conto che forse per i canoni di una fanfiction ho un po' esagerato, scusate!
Quando ho finito il capitolo ho passato una notte di sofferenza a pensare alla situazione in cui ho lasciato la mia povera Arya ç_ç
Non ho molto da dirvi, lo Spettro ha mostrato le sue vere intenzioni e l'Elfa non è disposta a fare passi indietro e nemmeno lui. Provano qualcosa l'uno per l'altra, ma non è abbastanza per due persone così orgogliose e decise!
Quindi per ora.. ciao xD
Grazie mille a tutti e ci vediamo domenica prossima!
Bacioni,
Lalli

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Capitolo 25
*** Fughe ***


Ciao
25. Fughe

La colazione sapeva di fango, quel mattino.
Elin fu la prima a guardarmi in faccia e a dirmi che ero pallidissima. Riuscii a convincerla che stavo bene e lei mi lasciò stare, incaricandomi di prendermi dieci minuti per pregare Dio di preservarmi dalla malattia.
Ovviamente, solo Dio poteva salvarmi.
All'ora della funzione sedetti rigida accanto a Durza, ma non gli dissi nulla, mi limitai ad un cenno del capo che stava per un “buongiorno”. Le buone maniere non le avevo ancora dimenticate, ma il dolore e l'umiliazione della notte si erano tramutati in furia gelida e l'affetto in rancore.
Per quel motivo accolsi con fastidio il suo profumo di menta, che masticava anche in quel momento, e le occhiate che mi rivolgeva praticamente ogni minuto. Per un attimo fui sul punto di voltarmi e di dirgli di smetterla, ma in tutta sincerità avevo paura di cosa avrei trovato nei suoi occhi inquieti.
Mi ritrovai comunque a farlo al termine della funzione, quando il Sommo Sacerdote si fece portare davanti a tutti i fedeli e prese la parola.
«L'altra notte è stata trovata una criminale all'interno della cattedrale e dopo un processo davanti a Dio, Egli ha stabilito che la donna che risponde al nome di Augyra dovrà essere giustiziata tra due giorni, durante la processione ai picchi sacri».
Nel lungo silenzio che seguì io incrociai gli occhi sgranati di Durza e rimasi in attesa delle seguenti parole del Sacerdote, che però si guardò intorno ancora a lungo prima di concludere.
«Augyra», scandì bene il nome, «verrà lasciata nelle mani di Dio».
Poi dichiarò terminato il rito e i fedeli cominciarono a disperdersi, bisbigliando eccitati.
«Aspettava che qualcuno si facesse avanti.. un familiare o un complice, per chiedere la salvezza della donna» fece lo Spettro, più tra sé e sé che a me in particolare, riferendosi al lungo e quasi inopportuno silenzio del monco.
Durante il giorno ebbi più volte la fortissima tentazione di scappare.
Forse avrei perso i miei poteri per sempre -perché Durza non mi aveva ancora sciolta dall'anello di ametiste, né lo avrebbe mai fatto- ma almeno avrei potuto dire concluso quell'incubo che durava ormai da.. quanto? Quattro mesi? Forse di più.
Potevo correre a sud, varcare i confini del Surda e avviarmi con più calma al covo dei Varden. Lo Spettro non mi avrebbe seguita fino in capo al mondo. O forse sì. Non poteva permettersi che qualcuno sventasse i suoi piani.
E a proposito dei suoi piani: in fondo sapevo che sarei stata costretta a restare, anche solo per tenerlo d'occhio. Il cavaliere sarebbe venuto a Dras-Leona, alle calcagna dei Ra'zac, e lo Spettro avrebbe cercato di asservirlo, per poi attaccare il sovrano, cercare di sottrargli il potere e infine uccidere Ajihad per una faida antica che aveva con la sua famiglia.
Non approvavo nemmeno una di quelle azioni -se non la sconfitta del re- ed ero l'unica persona al mondo che avrebbe potuto fermarlo o anche solo distrarlo o ostacolarlo e ancora una volta ero vincolata dalle mie responsabilità.
Potevo fingere di assecondarlo, aiutarlo a trovare un modo per configgere Galbatorix e una volta reso innocuo il re nero impedirgli di prendere il trono. O lasciarglielo prendere e sconfiggerlo poi. Durza avrebbe recuperato tutto il potere che aveva il sovrano? Lo Spettro mi aveva lasciato intuire che esso derivasse dal suo drago. Su quello si concentravano le nostre ricerche notturne: draghi e magia, ma probabilmente non bastava uccidere Shruikan o lo avrebbe fatto già da un pezzo.
Durza rappresentava in quel momento la mia unica speranza, sebbene flebile, di deporre Galbatorix. Al momento giusto avrei potuto sfruttare l'influenza che ormai sapevo di avere su di lui, avvicinarmi e trapassargli il cuore con il suo stesso pugnale.
L'idea mi faceva soffrire immensamente e sarebbe stata molto difficile da attuare, anche perché una parte di me mi avrebbe probabilmente ordinato di stringerlo invece che di ucciderlo, e io avrei dovuto ignorarla, aggrappandomi alla mia rabbia.
Alla fine avrei fatto ciò che dovevo, a qualsiasi prezzo, come sempre.
Continuai a pensare con tutta la freddezza e la razionalità di cui ero capace, mentre svolgevo il mio compito nelle vasche di acqua gelida della lavanderia. E a fine giornata avevo preso la mia decisione
            Alla funzione della sera il Sommo Sacerdote ripeté l'annuncio e di nuovo aspettò qualcuno che si facesse avanti. Non lo fece nessuno e dopo aver riassettato gli ambienti ce ne andammo a dormire.
Giacqui sveglia fino a che non sentii la campana di mezzanotte e il fruscio dei passi della guardia sparire nel suo dormitorio.
Poi sentii un altro fruscio, così lieve da essere quasi impercettibile, ma che conoscevo a memoria: i passi di Durza. Non era più necessario che andasse in chiesa a mezzanotte perché io non gli avevo certamente promesso che sarei andata con lui, ma probabilmente pensava che io avessi ancora i miei incubi e che quindi avessi bisogno di lui.
Be', non era così, o almeno
forse non era così. La notte precedente ero stata risparmiata ma quella che veniva era un'incognita. Per quello non ero riuscita a prendere sonno fino a quel momento, avevo paura.
Attesi ancora una buona mezzora, prima di trascinarmi fuori dal pagliericcio, indossare il mantello e incamminarmi silenziosamente verso la sagrestia.
Trovai Durza steso su una delle panche di pietra in fondo alla cattedrale, le mani incrociate dietro la nuca e gli occhi chiusi. Mi stesi sulla panca davanti a lui e mi strinsi nel mantello.
«Credevo che non saresti venuta» disse dopo qualche minuto.
«Vengo con te» lo informai.
«Sottoterra?»
«Sì».
Parve riflettere «Non metterti contro di me, Principessa».
«Spero solo di farti cambiare idea».
«Temo non succederà».
«Allora avrò sprecato un altro paio di mesi di vita, tanto ormai..»
Sospirò. «Come desideri».
«E poi potremmo ritrovare Augyra là sotto» abbozzai. «Voglio sapere cosa le hanno fatto».
«La tua memoria non manca mai di stupirmi» osservò.
Non risposi. Mi avvolsi stretta nel mantello e mi costrinsi ad appisolarmi, certa che nonostante tutto mi avrebbe svegliata.
Recuperai la percezione della realtà quando lo Spettro si alzò dalla panca.
«Tra poco ci sarà il cambio della guardia» disse torreggiando su di me, gli occhi sgranati per la sorpresa.
Lo anticipai in una nicchia, diversa dalla solita, dove mi sedetti a terra.
Il mio compagno mi stava guardando fisso, mettendomi quasi in imbarazzo.
«Non so perché» ammisi controvoglia, riferendomi all'improvvisa assenza di incubi notturni.
Fece una smorfia. «Sei guarita».
«Sembri quasi dispiaciuto».
E forse in parte lo era, perché aveva perso un qualche potere su di me: non mi era più necessario, ero libera.
Lo Spettro chinò il capo, pensieroso, ma non mi contraddisse.
Scendemmo con maggiore cautela quella notte, perché nessuno dei due andava nelle stanze sotterranee da quando la donna era stata catturata e non sapevamo se ci fossero delle nuove disposizioni e nel caso quali.
Ma in effetti non trovammo nulla di insolito. La lanterna con la grossa candela rossa era al suo posto in fondo alle scale e le sale oltre al corridoio erano deserte, mentre sicuramente i soliti venti uomini facevano la guardia oltre l'ultima porta.
Riprendere la ricerca fu in qualche modo benefico per il mio spirito turbato. Tornavo finalmente a fare qualcosa di utile per il mondo e Durza era solo l'uomo a cui dovevo chiedere consulenza, non quello per cui provavo sentimenti scomodi o quello che avrei dovuto ingannare sfruttando quegli stessi sentimenti.
Circa tre ore e tre coppie di candele dopo, era ormai ora di riemergere nel chiostro, onde evitare scontri con i Sacerdoti e i loro riti del mattino. Tuttavia.. occhieggiai alla massiccia porta che doveva esserci in fondo alle sette stanze, dietro la quale c'erano le guardie e forse anche la donna dagli occhi di lupo.
Durza seguì il mio sguardo e un'espressione di sfida gli deformò il volto. «Andiamo a dare un'occhiata?»
La curiosità mi fece formicolare le gambe. «Perché no?»
Lo Spettro inumidì indice e pollice e spense la sua candela. «Meglio evitare di fare troppa luce» affermò, facendomi segno di seguirlo con la mia e spostandosi nella terza stanza.
Non ci eravamo mai avventurati oltre e mentre ci muovevamo mi guardai intorno, trovando all'incirca gli stessi oggetti che tappezzavano le prime due sale. Qualche parete era coperta di ricchi arazzi e urne preziose ma puramente decorative giacevano su mensole e scaffali o appese a dei ganci.
Quando la massiccia porta di legno e ferro fu in vista rallentammo contemporaneamente i respiri e alleggerimmo ulteriormente i passi. Posai un orecchio sul portone ma non udii niente di diverso dai respiri e i battiti dei cuori di venti persone circa. Quella porta era parecchio spessa e se Augyra si trovava in una stanza ancora oltre non l'avremmo mai sentita.
Scossi la testa in direzione di Durza, anche lui attaccato alla soglia, e poi retrocedetti verso le scale.
«Nemmeno le porte della città sono così spesse» borbottò lo Spettro. «Potrebbero nascondere un drago là sotto e noi non ce ne accorgeremmo nemmeno. Potrei sempre fare un incantesimo ma..»
«Meglio di no» tagliai corto. «Vuoi darmi il pugnale o preferisci riportarlo al dormitorio?»
«Oh» fece lui, precipitandosi a sganciare la fodera di Sole e porgendomelo con gli occhi bassi.
Mi arrampicai sulla statua di Hofud e nascosi entrambe le lame nel solito incavo. Come se nulla fosse cambiato.
Ci affrettammo ai nostri dormitori, dove ci separammo con un poco di imbarazzo, in silenzio.

Era passata un'ora esatta quando la campana della Sagrestia trillò. Helsa, di fronte a me, si alzò con un sobbalzo, guadagnandosi un'occhiata gentile da parte di Tove e una infastidita da parte di Elin. Gefion sbadigliò sonoramente e Delling evitò di guardarmi in volto, come faceva sempre da quando le avevo imposto il silenzio, praticamente ricattandola.
Gagnsamr era teso quella mattina, come anche la precedente. La presenza di una spia tra i Sacerdoti era stato un brutto colpo per tutti e avevo il sospetto che il monaco avrebbe sorvegliato me e Durza più da vicino da quel momento in poi, del resto eravamo novizi ed eravamo estranei.
Dovevamo sbrigarci a trovare quella maledetta soluzione o non sarebbe finita bene. Qualunque cosa fosse successa avevo ancora la mia boccetta di veleno tra i seni, e quel giorno avevo con me anche la chiave della stanza alla locanda. Volevo poter recuperare la mia spada e andarmene in qualsiasi momento.
Anche senza lo Spettro.
«Natt tu ritorna dal taglialegna», borbottò Gagnsamr, «e vedi di essere più convincente di ieri! Mi avevi detto che avrebbe mandato la legna entro sera e invece non si è visto niente».
«C'è solo la figlia in bottega, mi è difficile minacciare una ragazza indifesa per la negligenza del padre» fu la sua replica.
Mi morsi le labbra per non ridere amaramente. In realtà non gli sarebbe importato un accidente.
«Bitr, Helsa e Mikell riassetterete gli ambienti sacerdotali» proseguì Gagnsamr, ignorando l'osservazione di Durza.
Fantastico. Mikell mi avrebbe uccisa con il suo orgoglio e le sue deliranti lodi a Dio e Helsa rischiava un crollo mentale da un momento all'altro.
Durza tornò con una nuova promessa di legna in arrivo e in effetti il carretto del taglialegna si fermò all'ingresso della chiesa qualche ora prima di cena e tutti i monaci furono impegnati a scaricarlo. L'uomo era un vecchio ubriacone, con barba e capelli ingrigiti e occhi giallastri e iniettati di sangue. Non c'era da stupirsi se il carico ci avesse messo tanto ad essere recapitato.
            Arrivai viva e vegeta all'ora della funzione serale. Come aveva già fatto a quella del mattino, il Sommo Sacerdote ripeté l'annuncio del sacrificio della donna a Dio, ma fu nuovamente accolto da un silenzio attonito e a tratti eccitato. Dalla reazione della folla sembrava si stesse allestendo uno spettacolo divertente.
Per la prima volta da quando eravamo entrati nei ranghi dei monaci come novizi, il monco tenne un breve discorso dopo la funzione, con le istruzioni per la sera seguente, quando il rito sarebbe seguito alla processione all'Helgrind per offrire la vittima.
«Voi seguirete semplicemente il corteo dei Sacerdoti affiancando la folla e incitandola a seguire i canti. Come al solito non intromettetevi e pregate quando vi è chiesto di farlo». Parlava con un tono così sprezzante che sembrava sputare le parole insieme alla saliva.
Avrei voluto spiegargli che senza i monaci la casta dei Sacerdoti avrebbe dovuto sporcarsi le mani a preparasi da mangiare o a fare il bucato. Ah, se avevano le mani ovviamente. Nel suo caso sarebbe probabilmente morto di disagi nel giro di una settimana.
Gagnsamr trattenne me e Durza ulteriormente.
«Voi non siete ancora monaci, quindi mischiatevi ai fedeli come fate in chiesa. Tuttavia non scordate di mettere le tonache, siete pur sempre parte dell'ordine». La sua voce, invece, era stanca.
Mi era sempre risultato facile stabilire l'età degli esseri umani visti i profondissimi e insoliti segni che essa lasciava sui loro corpi. Ed era chiaro che Gagnsamr cominciava ad essere vecchio.
«Verrai?» mi chiese lo Spettro sottovoce, dopo che il monaco si fu allontanato.
Non capii bene se si riferisse alla processione o all'esplorazione notturna, ma risposi con un: «Verrò», che valeva per entrambe.
E invece quella notte ci furono altri intoppi.
Non doveva mancare più di mezzora alla mezzanotte, quando il respiro di Helsa -che era stato pesante per tutta la sera- si trasformò in vero e proprio affanno.
Tove, che aveva il sonno più leggero, si svegliò e andò a scuotere anche Elin e Gefion. A quel punto finsi di svegliarmi e le affiancai al capezzale di Helsa.
Occhi lucidi e fronte velata di sudore. Probabilmente era una semplice febbre invernale, ma Elin e Gefion insistettero per portarla in infermeria.
Fui mandata insieme a Tove a bussare al dormitorio maschile, dove ci aprì un assonnato Elof.
Helsa fu portata di sopra e Elin decise di rimanere a dormire nel giaciglio accanto al suo e vegliarla nel caso le sue condizioni fossero precipitate.
Notai l'espressione delusa di Delling quando la campana suonò la mezzanotte, trovandoci ancora sveglie e impedendole di sgattaiolare nella dispensa come suo solito.
E in effetti dovetti aspettare un'ora prima di sentirmi abbastanza tranquilla da uscire. Non trovai Durza in chiesa e mi domandai se per caso stesse cercando di farmi un dispetto, mancando al nostro incontro notturno. Oppure aveva semplicemente pensato che, dato che i miei incubi erano spariti, non aveva senso trascinarsi fuori dal dormitorio a mezzanotte.
Ci fu il cambio della guardia, ma ancora nessuna traccia dello Spettro, forse temeva che la situazione di quella sera avesse mosso troppo le acque e che fosse più prudente rinunciare.
Un po' per orgoglio, un po' per impazienza decisi di scendere senza di lui, lasciando la chiave della locanda dietro alla nostra nicchia come segnale del mio passaggio. Sia nel caso fosse arrivato in ritardo sia nel caso venissi catturata.
Ma non successe nulla del genere. Frugai pigramente tra le pergamene -registrando mentalmente quali avrei dovuto far presenti al mio compagno la notte seguente- per più di un'ora. Poi sentii l'eco lontanissimo di un grido.
Strisciai verso la porta in fondo alla settima stanza e mi misi in ascolto. L'urlo era molto più nitido e apparteneva ad Augyra, non c'erano dubbi. Probabilmente qualcuno aveva aperto la famigerata stanza dove la donna era tenuta prigioniera e in quel momento la stava in qualche modo torturando.
Rimasi lì incollata per lunghi minuti, tremando al ricordo di ciò che avevo subito sotto le mani di Durza e compatendola con un trasporto non indifferente.
Poi tornai alla mia ricerca, ma ormai ero distratta ed inquieta, quindi vi rinunciai presto e tornai al dormitorio per riposarmi un paio d'ore.
Lo Spettro si era addormentato. Me lo bisbigliò a colazione il mattino seguente, sbilanciandosi in un paio di scuse, che mi ripeté con costernazione durante la funzione.
Gli dissi che ero andata lo stesso ma non gli parlai degli urli della donna. Li sentimmo entrambi, con estrema chiarezza, quella sera stessa.
La processione partì da davanti alla cattedrale all'ora della funzione della sera. I fedeli e i monaci si radunarono all'esterno e Augyra fu presumibilmente recuperata dai sotterranei, incatenata e condotta all'esterno, esausta, emaciata e rassegnata. Aveva un livido violaceo sullo zigomo sinistro e le maniche della veste da novizia, che ancora indossava, lerce di sangue rappreso.
Solo alla vista delle sue mani incatenate capii il perché: non era stata torturata, aveva semplicemente cercato di liberarsi dalle manette, strattonandole fino strapparsi la carne all'osso.
Sfilò tra la folla in direzione della punta della colonna, dove avrebbe camminato fino all'Helgrind accompagnata dai Sacerdoti. Passò davanti ai primi fedeli, arrivò all'altezza mia e di Durza..
..e mi guardò dritto negli occhi.
Si bloccò, costringendo i suoi accompagnatori a strattonarla e farla gridare per il dolore del ferro premuto sulla carne viva.
«Aiutami» soffiò pianissimo, girando la testa verso di me. «Ti prego uccidimi. Uccidimi».
Voltai il capo e mi finsi intenta a guardare tutt'altro, mentre sentivo il cuore stringersi mio malgrado.
«Non ti ha riconosciuta, le sei solo sembrata affidabile. Nei recessi della sua memoria qualcosa le ha detto che tu avresti potuto salvarla» fece la voce fredda dello Spettro.
«C'è modo di avvicinarsi nuovamente a lei?» chiesi guardando la schiena china di Augyra allontanarsi e pensando alla boccetta di Fricai Andlat che avevo con me.
«Non lo so e non te lo lascerò fare, Principessa. La tua vita vale molto più della sua».
La donna continuava a cantilenare la sua supplica di aiuto e continuai a udirla nelle mia testa anche dopo che si fu allontanata di troppo da me per poterla realmente sentire.
La processione partì. La seguii affiancata da Durza, pensando e ripensando ad un modo per avvicinarmi ad Augyra senza risultare sospetta, farle bere il veleno, e poi rientrare nei ranghi.
Non c'era. Anzi, probabilmente non era nemmeno passato inosservato il fatto che avesse chiesto aiuto a me, pochi minuti prima. Se Delling avesse visto la scena probabilmente i suoi sospetti della mia complicità con la donna sarebbero riemersi e allora nemmeno la minaccia di rivelare a tutti del suo amante l'avrebbe fermata. Fortunatamente era più avanti e non poteva averlo notato.
A poca distanza da noi c'era invece Helsa, ancora febbricitante e con gli occhi vacui.
«Un giorno la troverete impiccata nel vostro dormitorio» mi sussurrò Durza, seguendo la direzione del mio sguardo.
«Perché dici così?»
«Me lo ha detto Stian».
«Siete proprio diventati amiconi» ironizzai.
Fece un sorriso traballante. «Non volevo farti ingelosire, Elfa, ma quell'uomo ama raccontare i fatti altrui».
Mi irrigidii. «E non temi che possa andare a raccontare anche i nostri?»
Fece un gesto noncurante. «Parla solo con chi lo ascolta, e tra i monaci lo ascolto io e forse Trygg, ma lui è molto discreto, non c'è da preoccuparsi
».
Assentii.
«Perché dovremmo trovarla impiccata?» mi informai.
«Stian mi ha detto che ci ha già provato una volta ad ammazzarsi. A quanto pare i monaci fanno offerte di sangue all'altare se devono chiedere qualcosa a Dio. Lei ci è andata, ma si è tagliata tutte e due le braccia dai polsi ai gomiti e secondo l'opinione di Stian non era per fare un favore al loro stramaledetto Dio. L'hanno recuperata appena in tempo, quasi dissanguata».
«Ti ha anche raccontato della sua storia?»
«Sì. I suoi genitori erano dei poveracci, il loro primogenito era gravemente malato e quando è nata la seconda figlia hanno deciso di consacrarla a Dio, così che mosso a pietà guarisse il figlio maggiore. Avrebbero voluto che diventasse Sacerdotessa, ma non sa né leggere né scrivere quindi hanno dovuto spedirla tra i monaci. A quanto pare aveva dodici primavere quando è arrivata qui e non voleva assolutamente lasciare la sua famiglia, ma l'hanno abbandonata e sono fuggiti, quindi non aveva molta scelta. Sono passati diciassette anni da allora. La madre è tornata quattro anni fa, per dire alla figlia che sia suo padre che suo fratello erano morti, per poi morire a sua volta sotto i suoi occhi. Credo che la cosa l'abbia un po' traumatizzata».
«Direi. È questo che intendeva Tove per “duro passato”».
«Forse poteva anche andarle peggio» replicò funereo.
Non risposi, perché non volevo sbilanciarmi in discorsi personali, non era decisamente il caso.
            Mano a mano che ci avvicinavamo alle porte della città la folla sembrava aumentare alle nostre spalle, tanto che quando oltrepassammo le mura eravamo ormai parte di un lungo serpente. Forse erano meno persone di quante partecipassero di solito al rito, del resto si trattava di camminare per un'ora e non tutti ne avevano le forze. Notai principalmente persone ben vestite: coloro che non si sarebbero dovuti svegliare all'alba del giorno dopo per iniziare a lavorare.
Ci fu un momento di eccitazione generale mentre passavamo accanto ad un mucchio di stracci appeso ad un albero, un criminale impiccato, ma per il resto uomini e donne se ne stavano raccolti in silenzio, concentrati sui canti.
Le giornate si stavano allungando lentamente, eppure quando arrivammo sotto il monte Helgrind la luce era così lieve che alcuni degli esseri umani intorno a noi iniziarono ad inciampare nei loro piedi. Furono accese le torce che molti avevano portato.
L'Helgrind era una figura nera contro il cielo già scuro e di nuovo provai una sensazione di disagio e oppressione. Anche se i Ra'zac non erano lì la loro cupa presenza aleggiava su tutti noi e gli uomini la temevano.
Ci fermammo in prossimità di un ennesimo altare di pietra. I Sacerdoti proseguirono, trascinando con loro la donna e agganciando le catene ad un perno impiantato nella roccia.
Una serie di sacchi e scatole furono ammucchiati intorno ad esso ed intuii si trattasse di ulteriori offerte.
Quattro torce furono inserite in quattro apposite scanalature agli angoli dell'altare, schiarendo la scena. Solo allora i miei occhi registrarono con chiarezza i resti di una pira, non distante dall'altare. Le ossa bianche giacevano sparse tra le braci, ma era chiaro che il rogo risaliva a qualche giorno prima.
«Gamall?» gemetti.
Durza allungò un braccio nella mia direzione, ma decise saggiamente di interrompere l'azione e lo ritrasse precipitosamente.
«Temo di sì. I Ra'zac non vengono al loro covo da diverse settimane, quindi non hanno potuto consumare il loro pasto. E non si può lasciare un cadavere incatenato ad un altare sacro suppongo. Il rogo è una soluzione rapida e pulita».
Deglutii. Quindi quel poveraccio era morto di stenti, in attesa di un destino ben peggiore, che per sua fortuna non era arrivato. Era comunque un modo orrendo per andarsene e se pensavo che Augyra avrebbe quasi sicuramente subito lo stesso sentivo la nausea sfiorarmi la bocca dello stomaco.
Incrociai le braccia al petto e mi preparai ad assisterei impassibile ad un'ennesima funzione.
I Sacerdoti sembravano quasi inebriati dall'inquietante vicinanza dell'Helgrind e conclusero il rito incidendo la pelle del Sommo Sacerdote e raccogliendo il sangue in due piccole coppe, che poi si passarono tra di loro per berne, davanti a tutti.
La folla rimase in assoluto silenzio per tutto il tempo, stringendosi nei mantelli per il freddo e scrutando la scena come si trattasse di un magnifico regalo, finito per sbaglio tra le loro mani. I monaci fecero più o meno lo stesso, ma intravidi Mikell con il capo chino, che pregava sottovoce, con fervore.
Infine una donna nelle vesti neri di sacerdotessa si avvicinò all'altare, prese uno dei coltelli ricurvi che i Sacerdoti avevano usato per ferire il monco e lo calò con violenza all'altezza del gomito, strappandosi il braccio.
Lanciò un grido terrificante e un brivido scosse i presenti, mentre la donna veniva circondata e fasciata dai suoi compagni.
L'arto fu lasciato sulla pietra, quasi con noncuranza.
«Arya..» fece Durza incerto.
Mi volsi nella sua direzione. Tremava e cercava in tutti i modi di non guardare i Sacerdoti. Intuii che ci fossero i suoi spiriti di mezzo e mi precipitai davanti a lui per distrarlo da qualunque cosa stesse pensando, stringendo le sue mani nel buio e accarezzandone il dorso.
In realtà ero io quella che aveva bisogno di essere rassicurata. Temevo immensamente gli spiriti, specialmente dopo ciò che mi aveva raccontato Durza su di essi e sul potere che avevano avuto su di lui e che di tanto in tanto rischiavano di riprendere. Se avesse perso il dominio su di essi..
Lui mi guardò respirando profondamente e per fortuna si riprese in fretta. Poi sgranò improvvisamente gli occhi, fissi in un punto oltre alla mia spalla.
«È svenuta», ansimò, lasciandomi e passandomi accanto.
Impiegai qualche istante per capire che stava parlando di Helsa, talmente mi ero lasciata assorbire da immagini di sangue e morte e spiriti assetati di violenza.
Sospirai di sollievo, lo raggiunsi e strinsi il polso della monaca. Il battito era un poco debole, ma era normale dopo uno svenimento.
«Sarà meglio che la porti via» dissi, facendo per sollevarla.
Mi fermò con un gesto. «Ci penso io, tu sei una donna e sei troppo debole».
Giusto. Gli feci spazio e Durza sollevò Helsa tra le braccia sostenendole la testa, un po' impacciato.
Piantai la torcia sfuggita dalle mani della monaca per terra e guardai davanti a me in cerca di consulenza, giusto in tempo per vedere la veste di Augyra strappata sullo sterno e uno dei pugnali sfiorarle la carne non troppo in profondità, ma a sufficienza da lasciarle una brutta cicatrice. Il Sacerdote che reggeva la lama incise tre triangoli, probabilmente una schematizzazione dei tre picchi dell'Helgrind e poi fece colare un po' del sangue della donna sull'altare. Lei urlò, ma non aveva più lacrime, sedeva rannicchiata, dondolandosi e muovendo le labbra in una preghiera frenetica.
Ti prego uccidimi. Uccidimi.
Sfiorai il veleno, nascosto nell'incavo tra i seni. Avrei voluto aiutarla con tutto il cuore, ma non potevo, non senza attirare attenzioni che non valeva la pena di attirare.
«No» mi ammonì lo Spettro con voce severa, ovviamente consapevole di ciò che nascondevo sotto la fascia e il vestito.
Lasciai cadere la mano che avevo portato al petto, per mostrargli che avevo rinunciato.
«Vado a chiamare Gagnsamr» annunciai. «Tu prova a schiaffeggiarla,
delicatamente».
«Non sono totalmente idiota, Elfa».
La cerimonia era ormai conclusa e io e Gagnsamr dovemmo farci strada a braccia tra la calca per raggiungere Durza, che spiccava per la sua altezza e i suoi capelli rossi in mezzo a tutte quelle persone.
Helsa aveva ripreso i sensi, ma era sorretta dallo Spettro ed ero certa che se l'avesse abbandonata anche solo per un attimo si sarebbe afflosciata nella polvere.
Si decise che Helsa avrebbe camminato, ma alla fine Durza finì per sollevarla nuovamente da terra, anche se Gagnsamr osservò che poteva apparire sconveniente di fronte a tutti i fedeli della città. Ma dato che l'alternativa era fare arrancare la poveretta, accettò di buon grado la soluzione.
Fu proprio lungo il viaggio di ritorno a Dras-Leona che il vecchio monaco cominciò a parlarmi, a voce bassa, lasciando passare lo Spettro davanti a sé.
«Le tue compagne sanno qualcosa delle tue condizioni?» mi chiese.
Incinta, ero incinta. Tendevo a dimenticarlo.
Spostai la torcia di Helsa da una mano all'altra, per prendermi un istante. «Non ho detto nulla né del bambino né del mio precedente matrimonio con Natt» risposi con il suo stesso tono di voce.
«Hai più valutato l'idea di sbarazzartene?»
«Ma tu avevi detto..»
«Sì, ti ho detto che saresti riuscita a mascherare la gravidanza, e per ora ci sei riuscita. Se ti scoprono però io non potrò fare altro che cacciarti e allora forse ti pentirai di avere tenuto il bambino».
«Temo di doverci pensare ancora un po'. Non voglio essere cacciata, ma non è una decisione così facile da prendere» improvvisai, aggiungendo un po' di sano sentimentalismo alla mia voce.
«Sì, lo capisco. Ti ho detto questo perché pensavo che ormai il noviziato tuo e di Natt potrà iniziare ufficialmente. Tra due lezioni esatte avrò finito di illustrarvi le storie degli Irraggiungibili e allora vi rimarranno da imparare i canti necessari per le funzioni e poi potrò organizzare la vostra notte di preghiera».
«Una notte di preghiera nella cattedrale?»
E come facevano le ombre a passare inosservate ai monaci novizi? Avevo creduto che l'ingresso dei sotterranei fosse segreto.
«E dove sennò?» fece il monaco, impaziente. «A mezzanotte vi verranno rasati i capelli e poi sarete lasciati da soli in meditazione fino alla seconda ora della notte. A quel punto sarete condotti all'altare, dove verserete una goccia del vostro sangue e resterete in preghiera fino alla campana del mattino. Allora vi saranno consegnate le catene e sarete ufficialmente parte dell'ordine monacale».
Ovviamente facevano in modo che i due gruppi non si incrociassero.
Provai ad immaginare la mia testa rasata e non vi riuscii. Quando poi tentai di immaginare Durza.. sarebbe stato un vero peccato tagliare i suoi capelli rossi.
Gagnsamr prese il mio silenzio come un segno di comprensione e si allontanò lungo la colonna, recuperando il suo ruolo di monaco e riprendendo i canti.
Lo Spettro mi guardò con occhi socchiusi, le ciglia corte e sottili che si sfioravano, e mi fece cenno di avvicinarmi a lui.
La testa di Helsa oscillava sulla sua spalla destra, così camminai in prossimità della sua sinistra.
«Hai sentito?» chiesi.
«Ogni parola. Nei prossimi giorni vai da Gagnsamr e digli che hai bisogno di più tempo per decidere della sorte del bambino. Da quello che ti ha detto sembra intenzionato a farci monaci nel giro di dieci giorni, cerca di farli diventare almeno quindici».
«E tu nel frattempo non ti farai monaco per non attirare sospetti sulla mia reticenza, giusto?»
«Esatto. È meglio che non ci invischiamo fino a questo punto nella vita della cattedrale, finora ci hanno lasciato più libertà d'azione anche per il fatto che non siamo nemmeno veri e propri novizi, ma ora.. Ho realizzato che è meglio per me non farmi notare troppo dal monco. Mi ha visto una volta sola, ed avevo altre sembianze, ma potrebbe avere sentito delle descrizioni e farsi venire il sospetto. Il tradimento di Aug.. come cavolo si chiama, ha messo tutti sulle spine».
«Augyra» lo corressi distrattamente, pensando alla piccola figura che avevamo lasciato accasciata sull'altare.
Forse sarebbe morta di freddo quella notte stessa e se un domani i Ra'zac fossero tornati avrebbero trovato solo il suo corpo, freddo e rigido.
Tra un intoppo e un altro, ci trovavamo ormai in fondo alla fila. C'erano un pugno di persone dietro di noi, tutte così anziane da non riuscire a camminare abbastanza veloci da superarci.
Tuttavia, quando arrivammo all'albero dell'impiccato, una ragazza scivolò alle nostre spalle, rallentata da un laccio sciolto dei suoi stivali. Non avrei badato a quella scena se Durza non mi avesse dato una gomitata e fatto segno di guardare la giovane.
Aveva il viso tondeggiante e spaventato di una ragazzina e le labbra le tremavano violentemente.
«Quella è la figliastra del taglialegna» sibilò il mio compagno.
Sollevai leggermente le sopracciglia.
Allora?
«L'altro giorno ho provato a sondarle la mente e ho trovato un muro. Quando ieri sono tornato a imporle di farci portare la legna mi guardava come un coniglio in trappola. Non so come, ma deve avere percepito che sono diverso e si è spaventata».
Gettai nuovamente un'occhiata alle mie spalle. Gli anziani dietro di noi non seguivano affatto i canti e chiacchieravano liberamente tra loro, a toni quasi troppo alti per un contesto religioso.
Capii con un pizzico di divertimento che avevano perso buona parte delle loro capacità uditive.
Poi vidi la ragazza -lo stivale ormai decisamente allacciato- rimanere ferma mentre i bagliori delle ultime torce abbandonavano il suo viso, lasciandola tra le braccia dell'oscurità.
«È rimasta indietro. Di proposito».
«Va ad aiutare la tizia, non è vero?»
Rievocai lo sguardo della giovane: impaurito e determinato insieme. «Credo di sì».
«Natt mi viene da vomitare» intervenne Helsa.
            Era più tardi del solito quando ci coricammo, quella notte. Helsa, dopo aver rigettato sulla strada, si era appisolata sulla spalla di Durza, che l'aveva depositata direttamente nel suo giaciglio. Era ancora febbricitante ma l'infermeria era riservata alla sacerdotessa che aveva offerto il suo braccio, quella notte, quindi restò nel dormitorio.
Nessuna di noi le chiese cosa la tormentasse, oltre alla malattia ovviamente, e accettammo di buon grado i suoi piagnistei notturni. Solo Elin fu sul punto di perdere le pazienza, ma Tove e Gefion riuscirono a mitigarla e la convinsero a lasciare Helsa nel suo letto e non trascinarla a pregare Dio nel chiostro.
Più tardi sgattaiolai in chiesa con lo Spettro, dove proseguimmo in silenzio la nostra ricerca.
Ci soffermammo qualche istante più del solito in sagrestia, dove accendemmo una candela per contemplare le lame dei Sacerdoti. Erano lunghe quanto il mio avambraccio e leggermente ricurve, con delle scanalature geometriche su tutta la lunghezza della lama, che confluivano in un piccolo incavo all'altezza della guardia. Sembravano nate apposta per raccogliere il sangue ed erano state arrotate di fresco, per questo la sacerdotessa era riuscita a tagliare la carne senza dover fare troppa pressione.
Nemmeno quella notte Durza dovette scuotermi dai miei incubi, tuttavia tornammo ad accucciarci nella nicchia di Hofud, ognuno sulla propria tonaca e sotto il proprio mantello, ma a distanza decisamente maggiore. Non era comodo e nemmeno particolarmente caldo, ma nessuno dei due ebbe il coraggio di proporre di rinunciare a quell'inutile appuntamento di mezzanotte e vederci direttamente alla seconda ora del mattino.

Il mattino seguente un gruppetto di Sacerdoti si recò alle pendici dell'Helgrind per verificare se Dio avesse gradito l'offerta o meno e tornarono soddisfatti, annunciando che tutti i doni erano spariti.
Pensai ad Augyra e alla ragazza. Se davvero la giovane era tornata indietro per liberarla probabilmente c'era riuscita, ma il fatto che tutti i doni fossero spariti, incluse le sacche e scatole, suggeriva una seconda soluzione: il ritorno dei Ra'zac. Del resto le due donne non potevano essere fuggite portando tutto con loro, sarebbe stato solo d'impaccio.
La vera domanda era: la ragazza aveva liberato Augyra in tempo?
Non lo avrei saputo mai, e in ogni caso non doveva importarmi, come non doveva importarmi della condizione di fragilità di Helsa, alla quale cominciavo ad affezionarmi.
Durza venne in cucina nel pomeriggio e mi fece cenno di seguirlo nel chiostro. Mi scusai con i miei compagni e andai con lui in prossimità della fontana spenta.
«Sono loro» mi disse lo Spettro. «Quando il ragazzo e il drago arriveranno a Dras-Leona dovremo intercettarli prima che lo facciano i Ra'zac».
«Io non sono più la tua alleata» gli ricordai freddamente.
«Preferisci vederlo nelle mie mani o in quelle del re?»
Mi tormentai le unghie. «Dove sono lui e Brom?» mi risolsi a chiedere, ricordando in quali dolorose circostanze ero venuta a conoscenza di quelle informazioni.
«Erano a Teirm tre, forse quattro giorni fa».
«Allora non viaggiano a dorso di drago», constatai, «o sarebbero arrivati tre giorni fa».
«Temo sia troppo giovane per essere montato da più di una persona per volta». E dal tono intuii che aveva più conoscenze sui draghi di quanto avessi immaginato.
«Quando si è schiuso l'uovo?»
Lo Spettro scosse la testa. «Non lo so, ma credo non molto tempo dopo il nostro primo incontro. Forse un paio di settimane dopo, non di più».
«In ogni caso sarebbe troppo giovane» confermai.
«Ci vuole una settimana abbondante a cavallo, se si va di fretta» aggiunse poi. «Potremmo trovarli alle porte della città tra una manciata di giorni».
«Nel caso dovessimo combattere contro i Ra'zac tu puoi.. Agire?» mi riferivo ai suoi giuramenti prestati a Galbatorix e alle limitazioni che riscontravano nella sua vita.
«Posso anche ucciderli» fu la dura risposta.
«Bene. Perché non sono sicura che passeranno dalle porte della città. Brom è un uomo molto prudente, ma il cavaliere non lo conosco e potrebbe essere folle al punto di gettarsi direttamente sull'Helgrind non appena arrivato».
«Tieni gli occhi puntati sul cielo, Principessa. Credo sia inutile spiegarti di che colore è il drago».
Blu zaffiro. Un colore così intenso da fare quasi male agli occhi, specialmente se esposto alla luce del sole o di un falò. Nella penombra aveva sfumature più cupe, ammalianti, che ricordavano i fairth che avevo visto sul mare.
Conoscevo a menadito l'uovo, ma non la creatura che ne era fuoriuscita. E al nostro primo incontro avrei dovuto trovare un modo di spiegare ad essa e al suo cavaliere che non stavo effettivamente parteggiando per uno Spettro, che era tutto un piano per deporre il re, che progettavo di ingannarlo e ucciderlo una volta che non mi fosse stato più utile.
Probabilmente avrei censurato la parte in cui io e quello stesso Spettro ci baciavamo come due assetati bevono ad un otre d'acqua, sul pavimento della cattedrale di Dras-Leona.
«Credevo che avessi smesso» aggiunse Durza all'improvviso.
Pensai che il suo commento fosse in qualche modo legato ai miei pensieri e reagii con brusco: «Cosa?»
«Di strapparti le unghie». Annuì in direzione delle mie mani. «Non ti ho mai detto quanto mi dia fastidio il suono delle unghie spezzate. Non somiglia sinistramente al rumore di un osso che si rompe? È odioso».
Mi guardai le dita e la mia mente tornò ad una conversazione avuta con lo Spettro, subito dopo la partenza di Lord Barst da Gil'ead. Aveva fatto un'osservazione sul mio vizio di strapparmi le unghie quando ero nervosa e io gli avevo intimato di non pretendere di conoscermi.
Avrei voluto replicare quella frase, ma ormai aveva perso di spessore. Durza mi conosceva sin troppo, gli avevo permesso di conoscermi troppo a fondo, per essere mio nemico.
Comunque lo accontentai e lasciai cadere le mani lungo i fianchi. «Torno ai miei doveri».
«Prima devo dirti un'altra cosa».
«Un altro segreto taciuto?» domandai con asprezza.
Strinse le labbra. «A dire il vero me ne ero stupidamente dimenticato, ma non doveva essere un segreto. Quando sono andato ad Uru'baen il re mi ha detto che potevo continuare a torturarti, ma che se non fossi riuscito a strapparti nulla entro i seguenti tre mesi avrei dovuto portarti a lui. E con tre mesi intende che entro due e mezzo ti vuole alla capitale, è spesso impaziente quando sono altri ad occuparsi delle sue questioni».
Mi irrigidii. «Quanto tempo è passato?»
«Un mese e due settimane, più o meno. Non mi ero preoccupato di questa scadenza perché credevo che sarebbe stato tutto molto più rapido, ma ormai comincia ad essere una minaccia quasi imminente».
Cercai i suoi occhi e battei le ciglia con voluta lentezza. «Se ti dicesse di portarmi da lui lo faresti?»
«Se me lo comanderà con il mio vero nome non avrò scelta, lo sai. In caso contrario.. tu vuoi ancora sconfiggerlo se non erro». Annuii. «E allora potresti servirmi da diversivo, Principessa, nel caso avessi la soluzione su cui agire».
«E nel caso non l'avessi?»
«Non ti manderò al macello. Ti lascerò andare».
«Davvero?» feci dubbiosa.
Si alterò. «Puoi continuare a non prendermi sul serio se vuoi, ma questo non cambierà le cose. Voglio che tu viva, che sia con me o contro di me mi importerà poco nel caso non trovassi una scappatoia, perché la mia sarebbe una schiavitù eterna e non condannerei nemmeno il peggiore dei miei nemici a viverla con me, figuriamoci..»
La donna che amo.
Non lo disse, ma la mia mente si bevve le parole taciute come miele.
All'improvviso mi sentii in colpa.
«Ci vediamo più tardi» fece, laconico. E se ne andò nel cortile senza più alzare gli occhi su di me.
Delling mi fulminò con lo sguardo quando tornai in cucina.
Mi ero cacciata in una situazione così terribilmente contorta che era ormai impossibile uscirne fisicamente e mentalmente indenne. Potevo strappare gli uncini dalla carne, ma essi ne avrebbero portato una buona porzione via con loro.
            Un'ora prima della cena dei Sacerdoti ci fu un'ennesima sorpresa. Due uomini incappucciati di nero apparvero in chiesa, chiedendo al povero Broder -che stava lucidando l'altare- di allontanarsi per lasciarli pregare in pace. Venne in cucina da noi, tutto agitato.
«Quei due erano inquietanti, gobbi e per di più non ho nemmeno visto i loro volti, avevano i cappucci calati fino al mento».
Feci due più due ed intuii di chi si trattasse.
Dovevo avvisare Durza? Era in cortile, quindi in ogni caso lo avrei incrociato se si fosse spostato. Probabilmente i Ra'zac lo avrebbero riconosciuto se lo avessero visto e non era il caso che la mia unica speranza di eliminare Galbatorix venisse smascherata.
Il buon Broder rimase in cucina fino a che non fu ora di servire il pasto dei Sacerdoti, solo allora si avventurò oltre alla porta della Sagrestia, continuando a ripeterci che sarebbe tornato presto.
Era il tipo di rassicurazione che rivolgi agli altri nella speranza che ti vengano a cercare nel caso ci mettessi troppo, tipico di chi ha paura di non tornare affatto.
Ed era ridicolo considerando che in fondo la chiesa dell'Helgrind altro non era che una facciata per nascondere gli adoratori dei Ra'zac. Ma forse quella era un'informazione riservata ai Sacerdoti.
I Ra'zac dovevano avere davvero un brutto impatto sugli uomini, probabilmente era l'istinto della preda che aveva allarmato Broder, lo stesso che avevo provato io con Durza quando mi ero risvegliata dopo il suo attacco nel bosco.
Non avevo mai incontrato un Ra'zac in vita mia e ciò che sapevo su di loro derivava da letture sulle creature che avevano popolato Alagaësia. Sapevo che erano ghiotti di carne umana, ma probabilmente nemmeno quella degli elfi faceva loro ribrezzo, anche se eravamo prede decisamente più difficili.
Ai tempi delle prime migrazioni, il mio popolo aveva cercato di avvisare gli uomini delle creature di cui le terre del sud brulicavano, ma essi non avevano capito la minaccia a cui andavano incontro, anzi avevano addirittura fondato una città e dato ad essa il nome Dauth, morte.
Ma cos'erano venuti a fare i Ra'zac? A parlare con i Sacerdoti? Per dire loro cosa esattamente? Che il pasto della sera prima se l'era data a gambe? Speravo davvero di sì.
Lo dissi allo Spettro, quella sera. E lui parve agitarsi, tanto che lo sentii deglutire rumorosamente un paio di volte durante la nostra ricerca notturna.
Dovetti trattenermi dal cercare di rassicurarlo, ma cominciavo a comprendere il suo terrore. Se fosse stato scoperto, il re lo avrebbe ucciso, e avrebbe fatto in modo che morisse male. Molto male.
Stava rischiando molto a schierarsi -anche se segretamente- contro di lui, tanto più che il suo vero nome era nelle mani del suo nemico.
Avrebbe potuto costringerlo ad uccidersi da solo.
Cedetti. E sfiorai la spalla di Durza nella penombra.
Gli occhi che si incastrarono nei miei erano così ricolmi di gratitudine e tenerezza che per un attimo mi parve di venirne fisicamente accarezzata.
Ispirai appena più forte e mi staccai.
Non dovevo lasciarmi abbindolare da lui, mi aveva raggirata e io stessa stavo progettando di restituirgli il favore ed eliminarlo in quanto mio antagonista, non potevo permettermi sentimentalismi.
Eppure ormai mi sembrava che il posto dello Spettro dovesse essere tra le mie braccia, con le mie labbra sulle sue e le mie dita tra i suoi cappelli.
Il libro che stava sfogliando quasi gli cadde dalle mani, ricordandomi in un istante che poteva percepire nitidamente i miei sentimenti, incluso il mio desiderio.
Tornai a concentrarmi nella ricerca, anima e corpo.

All'alba del giorno dopo lottai con Gefion e Tove contro Elin, affinché lasciasse Helsa a letto e non la costringesse a prendere parte alla funzione. Sembrava essersi ormai ripresa, ma proprio all'alba aveva avuto una ricaduta, accusando un feroce mal di capo.
Delling guardò disinteressata le due parti, ma si astenne dall'esprimere commenti. Nemmeno la notte precedente era sgattaiolata all'incontro con la sua guardia. Che avessero litigato? O forse temevano di dare nell'occhio, visti gli ultimi fatti?
Alla fine Helsa ottenne di essere lasciata a riposo e noialtre ci affrettammo in chiesa.
Quando tornammo nel nostro dormitorio non c'era più traccia di lei. Solo una pila di casse delle provviste accanto al muro del cortile ci illuminò sulla sua sorte.
L'infelice Helsa era fuggita dalla sua gabbia, finalmente.



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Allora.. im primis: se nei prossimi giorni vedete i capitoli calare, cambiare titoli o layout, non avete le traveggole, sto semplicemente facendo una rilettura nei tempi morti e sistemando qualche errorino di battitura qua e là, oltre a raggruppare i primi capitoli tra di loro (perché diciamocelo, ero così pigra che li scrivevo lunghi un decimo di quelli che faccio adesso e se continuo su questa strada arriverò alla fine con 150 capitoli e non mi pare il caso. Quindi potreste trovare il primo capitolo che include anche l'attuale due, il due che include l'attuale tre e quattro, ecc..)
Poi.. la scorsa volta mi sono scordata di avvisarvi che i capitoli con contenuti sessuali non verranno preannunciati, quindi metto le mani avanti: se vedete che sto descrivendo qualcosa che preferireste non leggere, saltate il pezzo a pie' pari! ;)
Da parte mia mi impegno ovviamente a rispettare i limiti del rating arancione che ho assegnato alla mia storia, quindi non sarò troppo prodiga di dettagli e cercherò di non scadere nella volgarità. Nel caso ci fosse qualcosa che non vi garba siete pregati di segnalarmelo nelle recensioni e/o per messaggio privato ^_^
In questo capitolo mi sono concentrata su Occhi di lupo e sulla ragazza che sparisce nella notte per andare a liberarla. Perché lo fa? Immagino che ve lo spiegherò più avanti :D
Sappiamo tutti che, però, rivedremo entrambe in "Brisingr" con i nomi di Occhi di lupo e Cantalama!
Helsa non corrisponde a nessun personaggio in particolare all'interno del Ciclo dell'eredità, l'ho creata per mostrare che anche la religione ha delle falle e che non tutti gli aderenti sono convinti, quindi la sua funzione dovrebbe terminare qui!
Okay ho finito! (:
Alla prossima, baci a tutti,
Lalli

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Capitolo 26
*** Una sventura tira l'altra ***


Ciao
26. Una sventura tira l'altra

Gagnsamr ci ordinò di cercare Helsa daccapo e noi tutti ubbidimmo in silenzio, tutti perfettamente consapevoli del fatto che non l'avremmo trovata, non dentro le mura della cattedrale, almeno.
Indugiai qualche istante in più sulle casse malamente ammucchiate accanto al muro di mattoni che separava i vicoli di Dras-Leona dal cortile, chiedendomi quante altre volte la donna avesse pianificato una fuga alla quale aveva poi sempre rinunciato.
Aveva trovato il coraggio, alla fine.
Tuttavia quella situazione non sarebbe stata particolarmente comoda per me e Durza. Una traditrice e una fuggitiva nella stessa settimana non passavano esattamente inosservate, anzi, facevano dubitare di tutto e tutti.
            Dopo mezzora ci ritrovammo tutti e quattordici nel cortile, dove il povero Gagnsamr si torceva le mani con tale preoccupazione che faceva pena, come se la monaca fuggita fosse stata sua figlia.
Per lui non era concepibile che qualcuno abbandonasse Dio. Lui viveva della sua servitù agli Avvoltoi, lo faceva sentire pieno e realizzato e non trovava scopi più alti nella vita. La fuga di Helsa e il tradimento di Augyra erano stati un gran brutto colpo per lui, avevano dimostrato che persino Dio ha dei limiti e che persino la sua religione poteva essere calpestata.
Gagnsamr ci assegnò infine ai nostri compiti giornalieri e spedì Broder alle porte della città, per avvisare le guardie di fermare una donna con la testa rasata e la veste grigia da monaca se l'avessero vista varcare i cancelli.
Non sapevo quanto buon senso avesse Helsa, ma se ne aveva anche solo un briciolo si sarebbe nascosta in qualche angolo della città, si sarebbe mascherata rubacchiando qualcosa al mercato e sarebbe uscita qualche giorno dopo, magari mischiandosi alla folla dei cavatori.
Gagnsamr ci aveva più volte ribadito che chiunque può abbandonare il suo status di monaco se lo desidera, ma probabilmente riteneva che la donna avesse preso una decisione in preda ai deliri della febbre o dei fantasmi del suo passato e che quindi la sua non fosse una scelta ponderata, affidabile o definitiva. Insomma non gli aveva comunicato nulla, non gli aveva chiesto un rito per scioglierla dai suoi doveri.. Si era comportata in modo imprevisto e al vecchio non piaceva quando le situazioni sfuggivano dalle sue mani pazienti.
Lo Spettro condivideva parte della mia preoccupazione per il nostro futuro e la espresse chiaramente nell'espressione corrucciata che mi rivolse prima di dirigersi in cucina a lavorare alla pulizia delle stoviglie della colazione.
Delling lo notò e fece guizzare gli occhi da me a lui con fastidio. Forse avrei dovuto parlare nuovamente con lei, prima o poi, per accertarmi che la mia minaccia fosse stata ben recepita.
Dovevo fare anche un discorso con Gagnsamr sulla eventuale posticipazione della nomina mia e di Durza a novizi, ma il momento non mi sembrava propizio così decisi di rinunciarvi e andai a riassettare le camere dei Sacerdoti.
            Dopo il pasto di mezzogiorno il Sommo Sacerdote decise di tenere una sorta di discorso nel chiostro. Avevo notato Gagnsamr bisbigliare al suo orecchio durante il pasto e avevo carpito qualche tralcio di conversazione, che avevo individuato come una lunga spiegazione della fuga di Helsa, imbottita di giustificazioni per la donna e di rassicurazioni per il suo imminente ritorno.
Il monco capì probabilmente che il morale della sua chiesa doveva essere ormai sotto i talloni dopo quella terribile settimana e ci convocò insieme agli Avvoltoi -senza nemmeno lasciarci mangiare, prima- intorno alla fontana spenta del chiostro, dove fece una predica su Dio e sulla sua grandezza e di come i fatti terreni cercassero in continuazione di distrarci dai nostri più alti doveri.
Durza, il capo chino e il cappuccio stranamente abbassato sui capelli rossi, era immobile dietro a Elof, il più alto dei monaci, dopo di lui.
Capii la sua mossa solo quando realizzai che il Sommo Sacerdote ci stava scrutando tutti, uno ad uno, per imprimere il più profondamente possibile le sue parole in noi. Mi affrettai ad assumere un'aria credulona, sperando con tutto il cuore che non avesse un'improvvisa rivelazione alla vista del viso dello Spettro. Fino a quel momento non aveva mai perso il suo tempo a chiedersi perché alcuni di noi avessero ancora i capelli, anzi a dire il vero non aveva mai perso il suo tempo a guardarci e basta, ma in quel momento lo stava facendo.
Il mio carceriere mi aveva detto di aver avuto un precedente affare con i Sacerdoti dell'Helgrind, ma di averlo concluso sotto altre sembianze, quindi doveva essere irriconoscibile agli occhi del monco, che però avrebbe potuto riesumare delle descrizioni e dei ricordi di un qualche aspetto di Durza, che magari non si era premurato di alterare.
La fortuna parve essere nuovamente dalla nostra parte perché il discorsetto si concluse con una preghiera a Dio, di mantenerci fedeli e uniti nel sostegno della sua chiesa, poi gli Avvoltoi sparirono oltre la sagrestia e noi potemmo tornare al nostro pranzo ormai freddo.
Io lasciai intoccato il mio brodo di pollo, nonostante Elin mi facesse delle pressioni, memore del mio mancamento avvenuto non più di una settimana prima. Quello che non sapeva era che non avevo affatto avuto un mancamento, solo una semplice visione della verità che lo Spettro mi aveva taciuto e che era misteriosamente apparsa ai miei occhi.
Non era il cibo il mio problema, passavo a rubare qualcosa dalla dispensa ogni tanto, per mantenermi in forze quando i pasti a base di carne diventavano troppi. Del resto Durza rubava la menta dall'orto..
Elin non poté durare a lungo con i suoi rimproveri perché doveva recarsi in infermeria, a prendersi cura della sacerdotessa che si era amputata il braccio due notti prima, quando la processione aveva accompagnato Augyra a morire. A quanto pareva la ferita non si era chiusa molto bene e la donna ne soffriva.
            Helsa non tornò e Gagnsamr ci mandò a dormire ancora più inquieto di quanto fosse quella mattina.
«Spero di vedervi tutte domattina» mormorò scherzosamente Tove, cercando inutilmente di scacciare la pesantezza data dalla vista del giaciglio vuoto di Helsa.
Aveva persino portato con sé le coperte e i vestiti.
Delling si svegliò con le campane di mezzanotte e io pensai automaticamente che sarebbe uscita con la guardia, ma si trattenne nel suo giaciglio, fingendo di dormire.
Voleva per caso fermarmi o spiarmi?
Ero indecisa. Così finii per scattare fuori dal mio pagliericcio solo quando sentii la porta del dormitorio accanto aprirsi.
Delling non mi fermò e non mi disse nulla, ma temevo il suo comportamento, così non appena vidi Durza gli posai un indice sulle labbra e lo tirai con me in cucina.
«Delling è sveglia», lo informai, «e non so cosa voglia fare ma ho avuto la sensazione che aspettasse solo che io uscissi».
«Cosa?!» gemette.
«Io.. credo che sia meglio che torni al dormitorio. Se dopo si addormenta ti raggiungo in chiesa».
Annuì. «D'accordo. Vai!»
E effettivamente mi scontrai con la ragazza nello stesso istante in cui lei usciva nel chiostro.
La spaventai e per poco non gridò. «Hai.. già di ritorno?» balbettò.
«Wachter è già passato temo» la punzecchiai.
Si fece rossa in volto, lo vidi nonostante l'oscurità. «Mi sono accorta che stai via tutta la notte», disse, «e torni solo poco prima della sveglia».
«Ti ho già spiegato il perché, non credo che tu possa permetterti di giudicarmi o di biasimarmi».
«Sì ma io non ti credo. Perché sono venuta a vedere se vi trovavo, le scorse notti, e non c'eravate da nessuna parte. Non andrete in chiesa spero» concluse con disgusto.
Sentii i passi di Durza alle mie spalle, mentre si spegnevano sulla soglia della cucina, nell'ombra.
«Non ti riguarda».
«Sei una traditrice anche tu, non è vero?» E i suoi occhi luccicarono di lacrime.
Inspirai con calma. Avevo due scelte davanti a me: colpire Delling sulla nuca, portarla fuori dalla cattedrale e annegarla nelle fogne, oppure potevo continuare a tentare di lavorarmela e a fare un po' di scena.
Rievocai un paio di ricordi dolorosi -non mi mancavano- e lasciai che le lacrime mi inumidissero le ciglia a mia volta.
Poi scoppiai in bassi singhiozzi e mi accasciai a terra.
La ragazza sobbalzò, ma poi si chinò alla mia altezza e mi scrutò incuriosita e indecisa con i suoi occhietti grigi.
Balbettando come si conveniva ad una donna sommersa dal dolore, raccontai dell'amore infinito che provavo per Natt, che era stato mio marito prima del mio ingresso tra i monaci e che era stato esiliato da Teirm a causa di un furto finito male.
«Eravamo poveri, stavamo morendo di fame e io ero incinta.. Lui non aveva scelta» bisbigliai affranta. «Ma poi ci hanno scoperti e ci hanno cacciati dalla città, risparmiandoci la vita solo perché ne portavo una dentro di me. Ho perso quel bambino a causa delle percosse e io e Natt abbiamo deciso di ritirarci dal mondo, perché saremmo stati prede facili per chiunque. Questa era l'unica soluzione, capisci? Questo era l'unico rifugio che potessimo trovare e quindi.. Ma io lo amo e non riesco a stargli lontana». Feci una pausa. «Hai ragione, siamo in chiesa tutte le notti, per tutte le ore che riusciamo a passare insieme senza che qualcuno ci scopra. Ma la donna che hanno sacrificato non ha nulla a che fare con noi. Lei l'hanno catturata mentre cercava di scappare dal cortile, mentre io e Natt eravamo semplicemente insieme quando abbiamo sentito gridare. Per questo quella notte ci hai visti nel chiostro.. Io..»
Ero stata convincente sin troppo. Lacrime bollenti mi bagnavano il viso, scivolando fino al collo e il mio corpo era scosso da lievi spasmi, mentre la mia voce tremava e vibrava di dolore e di passione.
Delling fece la cosa più inaspettata e incredibile che potesse fare. Mi abbracciò stretta, cullandomi tra le sue braccia fino a che non mi fui “calmata”.
«Scusami», singhiozzò lei, «sono una stupida, non avevo capito niente. Vedi anche io amo Wachter, e lui ama me. Siamo nella vostra stessa situazione, per cui tranquilla, tu mantieni il mio segreto e io manterrò il tuo». Mi mise in piedi. «Vai da Natt, io torno a dormire» concluse dolcemente.
Ero incredula. Se l'era bevuta sul serio. Davvero gli umani si lasciavano corrompere tanto facilmente di fronte al dolore altrui? Era una reazione molto sciocca quella di Delling, non aveva capito che forse si era trattato di una farsa per ingannarla?
Durza apparve alle mie spalle. «Elfa, mi hai spezzato il cuore» bisbigliò con sarcasmo.
Mi asciugai le lacrime dalle guance e ripresi a respirare a ritmo regolare per placare i sussulti e i singhiozzi, ma non fu così immediato.
Eravamo seduti nel nostro cantuccio da qualche minuto -i pugnali già accanto a noi- quando potei definirmi completamente ristabilita.
Lo Spettro mi scrutava incuriosito. «Stavo per applaudire. Dove hai imparato a mentire con tanta convinzione? Non sembravi nemmeno tu».
«Non te lo aspettavi?»
«No, mi hai stupito. E messo in guardia» aggiunse.
«Da cosa?»
«Da te, Principessa. Persino i tuoi sentimenti sembravano sinceri in certi momenti, avresti anche potuto ingannare uno come me».
«Grazie per il consiglio» risposi asciutta.
Non gli dissi del dolore che avevo rivangato per poter sembrare più credibile in tutta la breve recita. Molto di quel dolore era causato da lui, dalle sue torture, dalle sue parole..
Sospirò. «La finirai mai?»
«Di fare cosa, Spettro?» domandai irritata. «Smetti di parlarmi per enigmi stanotte».
«Di cambiare idea su di me ogni secondo» borbottò abbassando gli occhi e raccogliendo il suo pugnale da terra.
«Smetti di leggere i miei sentimenti e ti libererai da questo tormento» suggerii freddamente.
Si sfiorò le labbra con la lama del pugnale. «Sarebbe come chiederti di girare per strada e non vedere. Non è una cosa che posso controllare, al massimo posso non farci caso, ma è molto difficile quando si è in due in una stessa stanza».
«Trova il modo di conviverci, per favore».
«Conviverci» ripeté, continuando a picchiettare l'arma sulla bocca. «Fosse facile, Elfa. Tu a tratti grondi odio, amarezza e risentimento e a tratti affetto, preoccupazione e desiderio».
Tremai sotto il mantello «Smettila» soffiai. «Tu sei pazzo».
«Dici?» ribatté socchiudendo gli occhi. «Sì, forse hai ragione tu Elfa. Sono completamente fuori di testa. Ed è colpa tua, è tutta colpa tua».
«Non..»
«Tu», ringhiò, interrompendomi, «devi avermi stregato. Solo non capisco a quale antico e sconosciuto incantesimo elfico tu abbia fatto ricorso per ammaliarmi fino a questo punto e quale magia abbia potuto aggirare
quello». Accennò bruscamente all'anello di ametiste che da mesi imprigionava in maniera totale il mio potere.
Mi sporsi verso di lui spingendo il mento in fuori. «Sai perfettamente che non sono in grado, quindi smetti di incolparmi per cose di cui non posso essere responsabile».
Posò il pugnale a terra e assottigliò le labbra, avvicinandosi a sua volta a me. «Allora spiegami», disse con voce tremula per l’ira a stento trattenuta, «perché sono così.. ossessionato da te».
Il tono era imperioso, ma i suoi occhi parevano quasi spaventati.
Il cuore mi schizzò contro le costole, battendo così forte da riempire il vuoto che si era creato nel mio stomaco.
«Non lo so» gracchiai. «Ma smettila, ti prego».
Durza inspirò ed espirò lentamente, un paio di volte. «Elfa..» disse con un tono di voce duro e insieme sensuale.
Scossi la testa.
«Io credo che dormirò un poco» concluse sistemandosi per la notte.
Mi ritrassi, sprofondando il volto nel bavero del mantello. Non era necessario rispondergli, avrebbe potuto leggermi in qualsiasi momento, come un libro aperto.
Sapeva che odiavo molte parti di lui, sapeva che avevo voluto le sue labbra da quando vi aveva posato sopra il pugnale, sapeva che ero infatuata di lui e sapeva che le sue confessioni mi avevano scombussolata e confusa.
Come sapeva che non avevo fatto alcun incantesimo su di lui, che non avevo mai avuto l'intenzione di incantarlo -semmai era il contrario- e che non avrei mai accettato il sentimento che era nato dentro di me se prima non fossero cambiate le carte in gioco.
Finii per addormentarmi seduta, con la schiena contro il muro.
            Erano passate più di due settimane da quando eravamo arrivati alla cattedrale con le nostre bisacce e in quel lasso di tempo avevamo a malapena frugato le prime due stanze e una buona metà della terza. Il nostro tempo stava per scadere, lo sapevamo entrambi, e la nostra ricerca si faceva sempre più frettolosa e superficiale, tanto che spesso leggevamo le prime pergamene di uno scaffale e non trovandovi niente di utile, lo etichettavamo come irrilevante e non finivamo nemmeno di analizzarle tutte.
Quella notte arrivammo fino alla quarta stanza e ci trattenemmo fino a che non fu veramente troppo tardi e fummo costretti a rientrare nei dormitori di corsa, appena prima del suono della campana del mattino.

Nei seguenti due giorni la situazione cominciò davvero a precipitare.
Helsa non era tornata e le guardie alle porte esterne della città non erano venute per portarcela quindi supponevo che si fosse nascosta da qualche parte al sicuro o avesse trovato il modo di uscire mascherata, magari fasciandosi la testa rasata.
Delling si era bevuta le mie parole con facilità, ma da quel momento in poi prese a guardare me e Durza con un'espressione così carica di pietà da risultare sospetta. E poi ricominciò a vedere Wachter la notte, anche se mi premurai di non incrociarla mai.
Il primo vero problema fu Gagnsamr che, ancora sconvolto per la fuga e il tradimento, venne a chiedermi se avessi preso una decisione riguardo al mio bambino. Aveva intenzione di farci presto novizi e poi monaci, vista l'improvvisa penuria di adepti.
Lo implorai di concedermi altro tempo prima di farmi prendere una decisione sul bambino.
«Bitr comincio a credere che tu non voglia veramente diventare monaca» insinuò dispiaciuto.
Mi affrettai a difendermi, ma il vecchio sembrava avere veramente esaurito la sua riserva di pazienza.
«Ti concedo sette giorni, anche a Natt ovviamente. Poi dovrete decidere se restare o andarvene. Sappiate che questa vostra situazione di stallo non è piacevole per me e mi sono anche dovuto giustificare di fronte al Sommo Sacerdote per la presenza di due elementi ancora estranei alla chiesa tra i monaci. È vero, vi ho chiesto io di anticipare il vostro ingresso qui perché avevo disperato bisogno di aiuto, ma non voglio perdere il mio tempo a rincorrere due giovani capricciosi come voi. Se sentite di dovere servire Dio è il momento di dimostrarlo».
Quando lo riferii a Durza lui imprecò tra i denti e quella notte scendemmo nei sotterranei ancora prima che avvenisse il cambio della guardia, nascondendoci sotto gli scrittoi mentre quello era in corso.
Nel giro di due notti terminammo di analizzare la quarta stanza e ci spostammo nella quinta, dove per la prima volta la fortuna sembrò sorriderci: le pergamene sembravano concentrarsi sulle creature di Alagaësia, e questo ci permise una rapida scrematura, anche se Durza dovette passare molto più tempo a leggere quelle riguardanti i draghi.
Arrivammo al punto in cui io frugavo negli scaffali e lui sedeva ad uno scrittoio a leggere ciò che gli portavo, restituendomelo ogni volta con un'espressione di cocente delusione in viso.
Seguendo quel metodo, annullammo totalmente le poche ore di sonno che ci eravamo concessi fino a quel momento e, dopo soli due giorni a quel ritmo serrato, Elin mi rimproverò prontamente per il mio aspetto orribile. Il vero problema era che lo Spettro ne aveva uno simile, e sarebbe bastato veramente poco per guardarci entrambi e trarne le dovute conseguenze.
Mi ritrovai a maledire le notti che avevamo trascorso nell'ozio fino a quel momento, che avremmo potuto sfruttare molto di più nella ricerca.
La fretta mi rese anche più incauta e all'alba del terzo giorno dopo il discorso di Gagnsamr, mi resi conto di avere il pugnale appeso a cintura solo quando ero ormai sul punto di uscire nel chiostro. Mi affrettai a riporlo nel pagliericcio e nessuno notò nulla, per mia fortuna.
Ma purtroppo qualcuno notò qualcos'altro.
Mikell si svegliò la notte seguente per un forte dolore di stomaco e, non riuscendo a riaddormentarsi, giacque sveglio per ore. Fino a che non vide Durza rientrare dalla nostra ricerca notturna.
Lo Spettro disse di essere andato alle latrine.
«Non mi ha creduto» mi informò più tardi, durante la funzione. «Ha detto di essere rimasto sveglio per delle ore e io ho cercato di convincerlo che probabilmente si era appisolato, ma è testardo come un mulo. È convinto di avere ragione e io e te non gli siamo mai piaciuti particolarmente».
Mi strinsi il volto tra le mani. «Forse dovresti riservargli lo stesso trattamento che abbiamo imposto ad Augyra. Di certo lo meriterebbe molto più di lei».
«Lo farò» rispose, d'impulso. Poi sorrise con amarezza. «Forse avrei dovuto informarti che, per uno strano gioco del destino, i miei piani sembrano essere destinati a fallire. Sempre e comunque, nonostante gli sforzi e la prudenza che vi riservo».
«Il destino non esiste, Durza» mi limitai ad affermare. «È solo un modo elegante per dire che non siamo stati capaci di fare quello che volevamo fare».
«Allora sono un incapace, Principessa».
«Ho fallito un'unica volta: quando mi hai catturata. E mi sono promessa che non avrei fallito mai più. Quindi troveremo quel maledetto.. qualunque cosa dobbiamo trovare, stanne certo» ribattei, con una sicurezza che non sentivo mia.
Un buon generale sa quando è meglio ritirarsi. Queste erano le parole che mi rimbalzavano in testa.
Lo Spettro alzò leggermente le spalle e io faticai a concentrarmi su qualunque altra cosa che non fosse lui.
A cosa stava pensando? Che forse non sarebbe mai riuscito a diventare il padrone di Alagaësia?
Be', non gli avrei permesso di rinunciare all'idea di deporre Galbatorix, poi quando fosse giunto il momento di insediarsi al suo posto ne avremmo riparlato. Probabilmente armati di spada.
            Quella notte, la quarta dopo l'ultimatum di Gagnsamr, io e Durza ci trascinammo fuori dalla botola, a pezzi e sconfortati per l'ennesimo fallimento.
Era quasi l'alba e dovevamo darci una mossa se non volevamo farci scoprire, eppure fu proprio la nostra fretta a renderci troppo precipitosi.
Strisciai sul pavimento di pietra della cattedrale e mi tirai in piedi spazzolandomi il vestito con le mani. Solo a quel punto vidi la sacerdotessa inginocchiata davanti all'altare, le bende sciolte intorno al moncherino infettato e gli occhi spalancati su di me.
Scattai nella sua direzione con tutta la forza e la velocità concessami dalle mie membra stanche ed ebbi la sfacciata fortuna di avere a che fare con una donna indebolita da una ferita rimarginata male.
La atterrai lanciandomi su di lei e abbracciandole le ginocchia. Sbatté la testa a terra e il suo grido fu soffocato dall'urto. Mi affrettai a premere un braccio contro la sua gola e una mano sulla sua bocca.
«Arya!» sibilò Durza, raggiungendomi.
La donna mi morse la mano e io trattenni a fatica una smorfia.
«Ci ha visti» bisbigliai.
Lo Spettro guardò in un lampo me, poi la donna e poi un'ondata di panico gli deformò i lineamenti.
«Non credo che ci sia tempo!» disse.
Capii cosa intendesse. Non c'era tempo di cancellarle la memoria, Gagnsamr avrebbe suonato la campana della sagrestia da un minuto all'altro.
«Durza il veleno» suggerii, spingendo la testa della sacerdotessa all'altezza del mio stomaco e liberando così la scollatura dell'abito.
La donna mi morse di nuovo, con forza, mugugnando disperata.
«Sbrigati» gemetti, sentendo il sangue sgorgare dalle ferite lasciate dai suoi denti.
Lo Spettro abbassò il corpetto dell'abito con una mano e afferrò la boccetta che nascondevo tra i seni con l'altra, cercando pateticamente di non sfiorarmi la pelle e fallendo miseramente.
La stappò e si inginocchiò davanti alla Sacerdotessa. Spostai entrambe le mani al suo collo, mozzandole il respiro e impedendole di gridare, mentre Durza le tappava il naso e la costringeva a ingollare una generosa dose di Fricai Andlat.
La trascinammo verso l'altare, mentre il suo corpo era scosso da piccoli spasmi. Il veleno agiva rapidissimo, lo sapevo, e in pochi minuti sarebbe certamente morta di una morte che sarebbe risultata inspiegabile da chiunque non fosse un maestro di veleni.
Ma in realtà nessuno avrebbe mai sospettato un avvelenamento. Tutti nella cattedrale sapevano che la Sacerdotessa che aveva offerto un braccio sotto i picchi sacri soffriva ormai da giorni per una grave infezione della ferita. La donna poteva benissimo essere andata in chiesa per invocare il suo Dio, sentendo la morte imminente.
Probabilmente sarebbe stata considerata una bella dipartita la sua: in preghiera sull'altare del suo signore, per il quale era vissuta e morta.
Lasciai la sua gola e lei emise un flebile lamento.
«C'è del sangue sulla sua pelle» mi informò Durza.
Lo asciugai, insieme ai suoi denti, con un lembo del mio abito e sistemai la sacerdotessa in ginocchio, chinata in avanti, con un pugno stretto all'altezza del cuore, nel segno di rispetto che quegli idioti riservavano al loro Dio.
Corremmo via dalla chiesa, non prima di aver recuperato le nostre tonache, e sgusciammo ciascuno nel proprio dormitorio, scambiandoci un breve cenno di saluto.
Non più di dieci minuti dopo Gagnsamr uscì pesantemente dal dormitorio accanto e andò in sagrestia a suonare la campana. Finsi di svegliarmi insieme alle mie compagne, lasciai il pugnale nel pagliericcio, indossai la tonaca per coprire l'abito macchiato leggermente di sangue e mi avvidi solo a quel punto di avere una mano a sua volta ricoperta di sangue caldo.
Stracciai rapidamente una striscia di lenzuolo e la bendai, indossando immediatamente i guanti tagliati sopra. Poi mi ricordai di avere lasciato il veleno a Durza e fui colta dalla certezza che non mi sarebbe stato mai più restituito.
            Stavamo consumando la nostra colazione in refettorio quando i Sacerdoti entrarono in chiesa.
Ne uscì un gran baccano, voci che parlavano le une sopra alle altre e inutili tentativi di scuotere la sacerdotessa mutilata, che a quel punto doveva essere passata a miglior vita.
Tuttavia i miei compagni sembravano non notarli e solo quando vidi Durza poco lontano da me, con la sua ciotola di latte tra le mani e la testa leggermente inclinata di lato, capii che i rumori dovevano essere troppo flebili per loro nonostante le porte aperte della sagrestia permettessero a buona parte dei suoni di filtrare alle mie orecchie. Scemarono nel silenzio solo quando le porte furono chiuse.
Elin si alzò per portare la colazione alla donna che stava curando in infermeria. Ma non l'avrebbe trovata e presto sarebbe scoppiato il finimondo.
Non sapevo come fosse normalmente la vita nella cattedrale di Dras-Leona, ma era certo che da quando io e lo Spettro eravamo arrivati lì erano successe una disgrazia dopo l'altra. Ed erano passati poco più di venti giorni.
Qualcuno avrebbe velatamente affermato che eravamo dei portatori di sventura, prima o poi.
«Bitr come mai tu e Natt non siete ancora novizi?» mi chiese Mikell con arroganza e con l'evidente scopo di provocarmi.
«Gagnsamr non te lo ha detto?» risposi dolcemente, inarcando le sopracciglia in un'espressione che doveva apparire comicamente sorpresa.
Si irrigidì. Il fatto che Gagnsamr non lo avesse messo al corrente degli ultimi avvenimenti lo infastidiva parecchio, perché metteva in chiaro la sua inferiorità rispetto al vecchio monaco. Inferiorità che gli pesava a causa del suo incommensurabile orgoglio e della sua ancor più incommensurabile arroganza.
Convinta di essere uscita vincitrice da quello scambio, tornai a concentrarmi sulla colazione, cogliendo il sorriso divertito di Durza.
Elin tornò nel refettorio molto allarmata e corse a farfugliare a Gagnsamr che la sacerdotessa era sparita nel nulla.
Il vecchio monaco iniziò a sudare copiosamente. Due sparizioni nel giro di una settimana non dovevano essere esattamente rassicuranti.
«Amici!» esclamò con voce un poco stridula. «Bidelia, la nobile donna che ha offerto il suo braccio a Dio non si trova nel suo giaciglio. Siete pregati di disperdervi negli ambienti del chiostro e di cercarla. È debole e potrebbe avere un malore.. e avere bisogno di aiuto insomma».
In chiesa non si poteva andare, era ovvio. Nessuno poteva interrompere il rito mattutino dei Sacerdoti, che a quanto pareva non avevano rinunciato a celebre nemmeno quella mattina, nemmeno in presenza di un cadavere.
Finsi pigramente di cercare nei dormitori dei sacerdoti, combattendo contro l'istinto di gettarmi su uno dei loro materassi imbottiti di lana e concedermi qualche ora di sonno ristoratore.
Quando arrivai alle loro latrine mi tirai in un angolo e mi lavai la mano in un secchio di acqua gelida, che poi lasciai scivolare -rosata per il sangue- giù per lo scarico della latrina.
            La morte della sacerdotessa ci fu comunicata solo dopo che i Sacerdoti stessi ebbero mangiato. La reazione del Sommo Sacerdote era stata quella in cui avevo sperato: aveva visto la bellezza del gesto della povera donna e non si era curato di analizzare più attentamente la sua improvvisa dipartita.
Ripeté il suo drammatico discorso anche durante la funzione del mattino, aggiungendo che la donna sarebbe stata tumulata nella cripta della cattedrale.
La tumulazione doveva essere già avvenuta perché non c'era la minima traccia del corpo.
Durza mi mise in mano la boccetta di vetro contenente il Fricai Andlat, ormai ridotto a meno della metà.
«Alla fine ci è stato utile» abbozzò, in tono quasi di scuse.
Lo feci sparire nella scollatura dell'abito e pensai se fosse il caso di rivelargli infine chi mi avesse fatto quel macabro dono. Sapevo ormai che Alba mi aveva in buona parte mentito, ma ricordavo anche che aveva tentato di farmi fuggire e non potevo ignorare il suo gesto e consegnarla ad una probabile punizione da parte del suo padrone.
«Spero non servirà più» mi limitai a commentare.
«Mikell ti odia» disse lui dopo un po', guardandomi di sottecchi. «Non che non abbia apprezzato il tuo spirito, Principessa, -ho sempre pensato che fossi una persona dotata di senso dell'umorismo in fondo- ma credo anche che quell'uomo si affretterà a cercare di fartela pagare».
«Ho ancora del Fricai Andlat, giusto?»
«Diamine Elfa, a volte mi fai paura» sentenziò Durza, aggrottando la fronte.
«Davvero?»
«Solo a volte» si sentì il dovere di specificare. «La Sacerdotessa sapeva difendere la sua mente comunque» aggiunse, quasi per caso.
«Ah sì?» mormorai stupita.
Lo Spettro annuì e una ciocca di capelli rossi gli piovve sulla fronte. «Ha provato ad attaccarmi. E forse sapeva anche qualche rudimento di magia, ma non abbastanza da fare un incantesimo senza pronunciarlo».
Mi guardai la mano sinistra, che pareva il doppio dell'altra così bendata e ricoperta dal guanto «Probabilmente si affilava i denti ogni mattino».
«Come la capisco. Non sottovalutare la comodità di avere i denti appuntiti». Durza ridacchiò. «Ti ha fatto molto male?»
«No». Lui mi aveva fatto molto di peggio, ormai potevo sopportare di tutto. «Ma in realtà non l'ho ancora esaminata per bene.»
«Se te la vedessi male dimmelo».
«Non è il caso di usare della magia, ma grazie per l'interessamento» dissi, cercando di non apparire né troppo fredda né troppo coinvolta.
Lo Spettro si strinse nelle spalle. «Figurati» rispose in tono distante.
Mi veniva da ridere.. o da piangere, ancora non ero sicura. Ma sentivo più presenti che mai la stessa tensione e le stesse parole taciute che da settimane accompagnavano il nostro rapporto.
Durza posò la mano a pochi pollici di distanza dalla mia, sulla panca di pietra. Era un muto invito e io vi caddi come una sciocca. Mi spostai impercettibilmente e lui fece lo stesso, così che le punte delle nostre dita si incontrassero e si stringessero.
Era un atto puerile, eppure fu piacevole, per quanto breve.
            Evitammo di ripetere la cosa alla funzione della sera, mentre il Sommo Sacerdote non mancò di ribadire che la povera donna era morta come una santa.
Gagnsamr era sull'orlo di una crisi di nervi quando ci congedò per la notte. Non sapevo cosa gli avesse detto il Sommo Sacerdote riguardo ad Helsa e alla sua ormai definitiva scomparsa, ma il monaco sembrava nervoso e irritabile.
«Bitr» mi chiamò. «All'alba di dopodomani voglio la risposta e la tua decisione definitiva».
Chinai il capo e assentii in silenzio, ma forse avrei potuto trovare il modo di rallentare ulteriormente il noviziato. Magari ammalandomi gravemente o sparendo e tornando con altre sembianze.
Arrivai in chiesa prima di Durza quella notte e posai la tonaca a terra per riposarmi qualche minuto. Lo Spettro mi raggiunse poco dopo e restammo entrambi seduti a terra, sfiniti.
«Ci rimane un'ultima notte» mormorai rompendo il silenzio.
«Ci tieni particolarmente ai tuoi capelli, Principessa?»
«Dovremmo accettare di diventare novizi allora?»
«Sperando che nessuno mi riconosca.. Sì, direi che è l'ultima soluzione rimasta. Sei disposta a farti rasare il cranio o preferisci che prosegua da solo?»
Feci un gesto sprezzante. «Non mi importa nulla dei miei capelli. Ricresceranno».
«Allora resistiamo fino a domani e poi ci prenderemo un giorno per dormire, nel caso non trovassimo in tempo ciò che cerchiamo. Riprenderemo la ricerca quando saremo ufficialmente novizi» concluse con un sospiro di stanchezza.
Mi imposi di alzarmi. «Andiamo?» lo spronai arrotolando la tonaca e nascondendola ai piedi di Hofud.
Trovammo l'ambiente leggermente diverso da quello che ci attendeva di solito.
La prima inquietante visione ci fu offerta non appena arrivammo in fondo alle scale. La candela rossa illuminava una sorta di barella sulla quale erano ammucchiate delle vesti nere, insanguinate all'altezza del braccio.
Trovammo la porta della cripta socchiusa e, senza bisogno di scambiarci una parola, ci affacciammo nell'ambiente gelido. Sull'altare giaceva la sacerdotessa che avevamo ucciso quel mattino, avvolta in un telo bianco quanto lei.
Lì accanto, in un secchio pieno di pezzi di ghiaccio, erano ammucchiati quelli che dovevano essere i suoi organi interni, ripuliti a ben conservati.
Provai ad immaginare a quale orrendo scopo potessero servire e l'unica immagine che mi balzò in mente fu l'Helgrind e l'altare dove avevo abbandonato Augyra e visto le ceneri di Gamall.
Mi voltai per andarmene, sopraffatta dalla nausea per l'odore disgustoso. Durza aveva uno sguardo vacuo e io mi affrettai a spingerlo gentilmente all'indietro e chiudere la porta alle mie spalle.
Nella quinta stanza la luce timida della mia candela illuminò una nuova stranezza: una pila di libri ammucchiati sul pavimento, poi una di pergamene lì accanto. Avanzammo ancora e ne trovammo altre, tutte poste ordinatamente sul tappeto, quasi.. in cerchio intorno a noi.
Durza si girò a guardarmi e sobbalzò.
«I tuoi occhi» latrò.
Guardai i suoi e li vidi rossi come sangue, con le pupille strette da felino. La cosa in sé non mi avrebbe stupita particolarmente: non era la prima volta che lo Spettro pareva perdere per qualche istante il controllo sulla forma impostata ai suoi caratteri.
Poi intravidi le punte aguzze dei suoi denti e percepii il riflesso inquietante della fiamma sulla sua pelle improvvisamente nivea.
Portai una mano al mio orecchio destro e lo sentii appuntito sotto le dita.
Prima ancora che io o Durza potessimo ovviare la situazione, due aperture solcarono i muri e da esse uscirono una quantità di Ombre, ben superiore a quelle che solitamente stavano di guardia dietro alla porta di legno massiccio. Sembravano esserci tutti: una cinquantina di uomini in nero, armati fino ai denti.
Mi pentii di non avere mai picchiato contro le librerie alla ricerca di una seconda parete o di un muro cavo. Ma del resto il passaggio doveva essere abbastanza massiccio dato che né io né il mio compagno avevamo percepito i loro respiri.
Sguainai il pugnale con la destra, ritenendo la sinistra momentaneamente inadeguata al compito, e vidi Durza fare lo stesso. La sua schiena sfiorò la mia.
«Fammi indovinare», azzardai a voce bassissima, «non puoi usare la magia, vero?»
«Purtroppo no» fu la risposta lapidaria.
Probabilmente avremmo trovato una pietra di ametista nascosta sotto ad ogni caotico mucchietto di libri e pergamene.
A quel punto ebbi davvero paura. Cinquanta contro due -per di più armati di soli pugnali- era uno scontro così impari da non poter nemmeno essere definito tale. Forse io e lo Spettro avevamo qualità particolari e forza straordinaria, ma non ce la saremmo mai cavata contro un tale dispiegamento di forze. L'unico punto che avevamo coperto era la schiena, per il resto eravamo vulnerabili da ogni lato.
Sentii del trambusto provenire dalle pareti aperte e pochi istanti dopo ne uscì una processione di Sacerdoti, con il monco in testa, trasportato nella sua lettiga.
«Durza lo Spettro!» esclamò l'uomo. «Non ricordo di averti mai invitato qua sotto».
Durza rispose con un lieve inchino. «Sono famoso per non chiedere mai il permesso, Abracham».
«Già», riprese il monco affabilmente, «ma non era necessario uccidere una di noi, fare sparire chissà dove una monaca e traviare una novizia. Te la sei presa con tre povere donne..»
«Mi hai riconosciuto?» domandò lo Spettro e capii che stava cercando inutilmente di prendere tempo.
Il Sommo Sacerdote scosse lievemente la testa, ultima sostituzione alla sua gestualità e rispose: «Non ti avrei guardato una seconda volta se solo non fossero accaduti tutti questi incidenti in così pochi giorni. Poi ovviamente ci sono stati un paio di indizi: gocce di cera sui tappeti, scorte di candele finite precocemente, pergamene leggermente spostate, libri con le pagine girate.. E sangue nella bocca di Bidelia. Senza contare la preziosa testimonianza di Wachter», indicò la guardia, al suo posto dall'altra parte del cerchio, «che ha detto di avervi visti nel chiostro il giorno che Augyra è stata scoperta.»
Non era stato lui a vederci, era stata Delling. La giovane doveva aver raccontato tutto al suo amante e se la mia spiegazione era riuscita a convincere lei, lo stesso non si poteva dire del suo uomo, che aveva anche avuto il buon senso di non accennare alla loro relazione.
«Ah poi c'è quel monaco, Mikell, che ha detto di sospettare di voi già una settimana fa, prima che avvenisse l'ultima disgrazia. Sapevamo già che qualcuno si intrufolava qua sotto e sapevamo che erano presumibilmente Bitr e Natt, i due giovani appena arrivati, dall'educazione incompleta e dall'aria curiosa. A Gagnsamr non sono piaciute le vostre esitazioni nell'abbracciare l'ordine. Se ne è molto lamentato quando gli ho chiesto spiegazioni della vostra presenza tra i monaci. A quel punto vi ho guardati attentamente e ho mezzo intuito chi fossi tu, Durza, mentre ancora mi sfugge l'identità della tua accompagnatrice».
«Si chiama Alba» rispose lo Spettro al posto mio.
«E come mai ti porti appresso un'elfa?»
«Lei è un'elfa nera. Mi sta aiutando a cercare un modo per distruggere Galbatorix» disse guardando il sacerdote dritto negli occhi e assumendo un'aria spavalda.
Il monco fece quello che doveva essere un sorriso sdentato. «Perché non lo hai detto subito? Accomodatevi, tu e la tua amica. Vi prego di restare all'interno del cerchio di ametiste intanto che discutiamo, ma potete considerarvi miei ospiti».
Durza rinfoderò il pugnale e io abbassai il mio con reticenza.
Il mio compagno mi guardò con occhi feroci e determinati.
Fidati di me. Dicevano.
Ma la mia mente corse inevitabilmente all'esigua scorta di Fricai Andlat che avevo sotto il vestito e allo scopo originale per cui mi era stata data.
Uccidermi.

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Capitolo 27
*** Fidati di me ***


Ciao
27. Fidati di me

Forse il monco poteva considerarci suoi ospiti, ma io non mi sentivo precisamente a mio agio: ero completamente circondata da uomini in nero, che puntavano le loro armi contro di me per impedirmi di uscire da un cerchio di ametiste che bloccava la magia. Come se non ne avessi già abbastanza del mio anello.
Durza, invece, aveva l'aria di sapere il fatto suo, ma poteva essere un'ennesima maschera.
Non vedevo molte vie d'uscita da quella situazione, ma lo Spettro aveva detto di aver già avuto a che fare con i Sacerdoti, quindi forse sarebbe riuscito a parlamentare.
Abbassai il pugnale, ma non lo rinfoderai. Anzi, ero pronta a scattare in qualsiasi momento e a vendere cara la pelle. Se mi avessero sopraffatta mi sarei uccisa prima che potessero catturarmi o torturarmi.
Le candele che ci avevano fatto luce fino a quella stanza giacevano a terra, ormai annegate nella loro cera, ma i Sacerdoti avevano con loro delle torce e con esse accesero quelle attaccate ai muri, rendendo l'ambiente molto più luminoso.
Il Sommo Sacerdote se ne stava sulla sua lettiga, dietro le Ombre, e non sembrava minimamente intenzionato ad avvicinarsi. Capii che in fondo aveva paura di Durza, e forse anche di me.
«Mi hai detto di voler distruggere il re, ma non mi hai detto cosa sei venuto a fare qui».
«Cercavo appunto la soluzione ad un problema: il modo per aggirare il potere di Galbatorix».
«Cosa cerchi?»
Lo Spettro fece un ghigno. «Non posso dirtelo».
«Allora non vedo come tu possa trattare con noi» sputò l'altro.
«Non sto chiedendo la vostra alleanza», specificò, «ma solo una consultazione dei vostri archivi».
«Direi che in quello ti sei già dato parecchio da fare. Ancora due stanze e gli archivi della cattedrale sono finiti, altri testi si trovano nella dimora degli dei» concluse chinando il capo.
C'erano altri testi nell'Helgrind? Chissà quanti altri mesi avremmo impiegato a spulciare anche quelli.
«Non ho ancora trovato ciò che cercavo», insistette Durza, «e dato che ormai mi avete scoperto potreste aiutarmi a farlo».
Il monco assunse un cipiglio duro. «Non ti lascerò andare senza le dovute garanzie» disse.
«Che ucciderò il re? Puoi starne certo, se mi darete ciò che cerco».
«No», fece il monco, «io voglio un tuo giuramento vincolante che, una volta annientato il re, tu ti ritirerai e lascerai che i legittimi sovrani prendano le redini di questa terra. Gli Antichi sono i creatori del mondo ed è loro diritto comandarlo. Se li libererai dalla loro schiavitù avranno sicuramente la pietà di non nutrirsi di te o dei tuoi cari».
«Abracham, i Ra'zac hanno
giurato di ubbidire al re. Ed è quello che tu chiami un giuramento vincolante. Hai mai pensato che forse a loro vada bene la condizione di servitù?»
Un cupo mormorio si diffuse tra i nostri ospiti e alcune Ombre si mossero inquiete. Non ci voleva un genio per capire che lo Spettro aveva detto la cosa sbagliata: insinuare che il tuo dio sia il servo di un mortale deve essere considerato una sorta di sacrilegio.
Ma il monco gli aveva toccato il tasto del potere, e Durza non lo avrebbe mai abbandonato per nessuno, lo sapevo bene.
«Ti ricordo che ti trovi ancora nel cuore del culto degli Antichi» sputò il Sommo Sacerdote. «Se non vi abbiamo ancora uccisi è solo perché i nostri dei ci impongono di pensare a loro».
«Lo so» rispose Durza, più conciliante. «Ma in ogni caso non avrete alcun giuramento né da me né da Ar.. Alba. Posso esservi utile anche così, non credete?»
«Nulla ci garantisce che non cercherai di nuocere agli Antichi, una volta sconfitto il re».
«Io non farò alcun male ai vostri dei» disse lo Spettro spazientito, nell'antica lingua. «Contenti?» aggiunse gettandomi un'occhiata significativa.
Ovvio. Forse lui non poteva fare del male ai Ra'zac, ma chiunque altro sì. Io stessa sarei stata in grado di ucciderli senza troppe difficoltà, se li avessi colti senza i Lethrblaka al seguito.
Il monco parve sorpreso, e subito dopo soddisfatto. «Non ci basta. Vogliamo avere un ostaggio come ulteriore deterrente. Lei per esempio potrebbe andare bene» disse annuendo nella mia direzione.
Sollevai il pugnale. «Non ho intenzione di rimanere qui» dissi con voce ferma.
«Non ho chiesto a te, elfa. Ho chiesto allo Spettro..»
«Che rifiuta» concluse Durza seccamente. «Non avete bisogno di nient'altro. Se volete sconfiggere Galbatorix io so dove bisogna colpirlo, mi serve solo qualche altra informazione. Voi brancolate nel buio al riguardo, quindi credo di avere io il coltello dalla parte del manico».
Il monco fece nuovamente quello che doveva essere un sorriso. «Sei mio prigioniero, sono io a dettare la legge qui dentro».
«Credevo di essere un ospite» lo pungolò il mio compagno.
«Questo finché ho creduto che sarei riuscito a farti ragionare. O sei totalmente dalla nostra parte o sei nostro nemico. Lasciaci l'elfa e ti aiuteremo come possiamo. E ti lasceremo andare, ovvio».
Vidi Durza tentennare e fui nuovamente colta dal panico. Strinsi con forza l'elsa del pugnale e portai una mano al petto, pronta a trapassarmi con la lama o a svuotare la boccetta di Fricai Andlat nel caso mi fossi trovata costretta a farlo.
«Cosa avete intenzione di fare con lei?» chiese poi, dandomi le spalle e facendo sprofondare le mie speranze nel buio.
«Nulla di male, te l'assicuro».
«Balle» sentenziò freddamente lo Spettro. «Sono stato allievo di Gagnsamr per un mese e ormai conosco le vostre dodici verità a menadito. Voi rifiutate chiunque non viva un ciclo normale di anni, e gli elfi vivono ben più di cento anni. Non ha senso che la torturiate per strapparle informazioni perché non ne ha. È un'elfa nera e le hanno cancellato la memoria quando l'hanno cacciata dalle terre degli elfi, quindi il massimo che saprebbe dirvi sarebbe il suo nome, il mio e la pianta del mio palazzo a Gil'ead».
Mi stava difendendo, ma non potei fare a meno di chiedermi chi fossero gli elfi neri. A sentire parlare lo Spettro parevano dei ripudiati, ma non esistevano degli elfi ripudiati, raramente compievamo atti per i quali era necessario punirci. L'unico esempio che mi veniva in mente era la triste storia di Linnea, che aveva finito per punirsi da sola.
Probabilmente se li stava inventando.
«Non dovrebbe importarti più di tanto del suo destino. Preoccupati del tuo» lo invitò il monco.
Mi balzarono in mente immagini del mio corpo morto tagliato a pezzetti, analizzato e studiato, e poi dato in pasto ai Ra'zac. Avevo sempre pensato che una degna pira funebre mi attendesse dopo la morte, non di certo di diventare oggetto di perversi studi di una setta di folli.
In fondo neanche ammazzarmi mi avrebbe totalmente preservata.
«Se rifiutassi?»
«Uccideremo entrambi. Tu ti credi superiore forse, ma la nostra religione è piena di adepti e di potere. Riusciremo a sconfiggere il re anche senza il tuo aiuto».
Durza scoppiò a ridere. «Stai sopravvalutando le tue possibilità Abracham».
«E tu le stai sottovalutando!» rispose il sacerdote alzando la voce. «Sei in mio potere e non hai affatto in mano la situazione. Ecco perché farai esattamente ciò che ti dirò, senza discutere se tieni alla vita! Forse non conosco ancora il punto debole del re, ma conosco bene il tuo» disse accennando al torace dello Spettro, dove il suo cuore batteva leggermente accelerato.
Il monco aveva scoperto le proprie carte. Non aveva alcuna intenzione di scendere a compromessi, voleva dettare legge. Le parole che ci aveva rivolto all'inizio della conversazione avevano il solo scopo di farci sentire ancora padroni del contesto.
Ad un suo cenno l'ultima fila delle Ombre lasciò le lance e incordò dei piccoli archi dalla gittata sicuramente breve, ma sufficiente a freddare sia me che Durza.
Lo Spettro sfoderò nuovamente il pugnale e restò a guardarlo con interesse per qualche lungo istante, quasi distratto.
Sta valutando la proposta pensai.
E invece le parole che sussurrò mi stupirono: «Pronta a correre, Principessa?»
Flettei i muscoli delle gambe. «Ci ammazzeranno» risposi allo stesso tono, quasi impercettibile.
«Verso la chiesa» disse semplicemente.
«Allora, Spettro?» lo richiamò il monco.
Durza sorrise, snudando terrificanti denti aguzzi, allargò le braccia e chinò il capo facendo alcuni passi nella sua direzione. «Accetto tutte le condizioni».
Fidati..
«Tieniti Alba, ma non farle del male..»
..
di..
«.. e sopratutto forniscimi tutte le informazioni che ti chiederò».
..
me!
Le sue parole melliflue ebbero il potere di calmare gli animi. Vidi i lineamenti di molti uomini intorno a me distendersi e gli archi e le lance di alcune Ombre abbassarsi.
«Ora» sibilò Durza.
Lanciò il coltello in direzione del Sommo Sacerdote, che gridò non appena la lama sprofondò nella sua carne con un tonfo.
Ma non seppi mai dove l'avesse colpito. Durza non aveva ancora finito di pronunciare “ora” che già io ero schizzata in direzione della quarta stanza, saltando sopra alle Ombre e finendo con i piedi in faccia agli arcieri.
Forse a causa dei loro riflessi troppo lenti, non arrivarono a fermarci. Riuscirono appena a tirare qualche freccia prima che lo Spettro -recuperato l'uso dei suoi poteri- alzasse una barriera dietro l'altra per chiuderli nella stanza.
Tuttavia le lance e le frecce dovevano essere incantate perché superarono in gran parte quelle difese, andandosi a conficcare dolorosamente in diversi punti del mio corpo.
Caddi a terra gridando, con una lancia nella coscia sinistra, due frecce nel polpaccio destro e un paio di colpi di striscio alle braccia. Durza era passato avanti, quindi aveva subito meno danni: in qualche modo gli avevo fatto scudo col mio corpo.
Mi trascinò fuori dal fuoco delle Ombre e mi strappò frecce e lancia dal corpo senza troppi complimenti, iniziando a guarire le mie ferite con rapide formule.
«Usciranno dai muri!» ansimai, la pelle velata di sudore gelido, datomi dalla sofferenza.
Lo Spettro realizzò che la sua barriera chiudeva semplicemente l'accesso più rapido dalla quinta alla quarta stanza, ma che probabilmente c'era una serie di tunnel che correvano paralleli a tutte le stanze, permettendo ai Sacerdoti e alle loro guardie di muoversi liberamente nonostante il suo sbarramento.
Sentii le sue lunghe dita circondarmi i fianchi mentre mi caricava sulle sue spalle e correva con fretta disperata verso le scale che portavano in superficie.
Rimasi inerte. Non ero in grado di correre, probabilmente nemmeno di camminare fino a che qualcuno non si fosse preso cura delle mie ferite, che dolevano terribilmente.
Ci eravamo trattenuti qualche istante di troppo oltre alla barriera dello Spettro, ma lui correva parecchio veloce, quindi arrivammo in prossimità delle scale nello stesso istante in cui le Ombre cominciavano a raggiungerci per i corridoi paralleli. E infatti fuoriuscirono dalla cripta, praticamente pestandosi i piedi a vicenda.
Mi sporsi ad afferrare la barella di legno e la tirai loro addosso, ostacolandoli ulteriormente, poi fui sballottata su per le scale e infine praticamente gettata sul pavimento duro della cattedrale, dove lasciai una piccola scia di sangue.
Durza salì dopo di me e io pugnalai il braccio che si allungava per afferrargli la caviglia. Con mio grandissimo stupore, l'uomo non parve farci caso e continuò imperterrito la sua azione, stringendo infine il piede dello Spettro.
Strisciai più vicina e gli tagliai di netto la mano, ma nemmeno allora parve soffrire particolarmente, anzi, si issò fuori dalla botola e cercò la corta spada che portava a cintura con l'unica mano rimastagli.
«Tra gli occhi!» mi gridò Durza, lanciando una sfera di energia contro un'altra Ombra.
Mi alzai in piedi a fatica, evitai un fendente e conficcai la lama nella fronte dell'uomo, uccidendolo sul colpo.
Vidi lo Spettro alle prese con un'altra ombra. Aveva afferrato l'uomo disarmato per la giubba imbottita e lo stava tenendo saldamente, con gli occhi serrati e un'espressione concentrata in volto.
Un attacco mentale? Non avrebbe fatto prima ad ucciderlo e basta?
Sentii i passi affrettati di altri uomini per le scale di pietra, così feci scivolare la lastra nell'insenatura e vi trascinai sopra i corpi dei due uomini che giacevano morti lì accanto, per appesantirla.
«Durza!» sbraitai, «Stanno arrivando!»
Lo Spettro mi ignorò per qualche altro istante, continuando la lotta silenziosa con l'Ombra, e io iniziai a trascinarmi in direzione del portone principale, zoppicando appoggiandomi alle panche e digrignando i denti per le ferite.
Mi raggiunse e mi prese nuovamente in spalla, poi corse fino al portone, che aprì con un incantesimo e richiuse dietro di sé con un altro.
«La locanda!» esclamai, pulendo il pugnale gocciolante di sangue sulla mia gonna e rinfoderandolo.
«Prima ti guarisco, Principessa».
Ci spostammo in direzione opposta al Covo Segreto e Durza mi adagiò a terra in un vicolo, riprendendo a biascicare una formula curativa dietro l'altra fino a che tutte le mie ferite non smisero di sanguinare e i tessuti non si furono saldati tra loro. Solo allora la mia sofferenza si placò.
Avevo decisamente perso l'allenamento da quando Durza mi torturava ogni singolo giorno.
«Sei abile con la magia curativa» osservai.
Strano per uno Spettro portatore di morte.
«Volevo essere sicuro di poter salvare le persone che volevo restassero in vita» rispose semplicemente, un po' ansimante.
Mi resi conto che mi aveva effettivamente salvato la vita. Volevo ringraziarlo, ma la frase che mi uscì era dettata dall'esigenza di sopravvivere.
«Andiamo alla locanda ora?»
«Facciamo attenzione. Ho paura che i Sacerdoti abbiano potere anche sulle guardie cittadine e se mettessero di ronda anche i soldati potremmo essere veramente in pericolo. Almeno saremmo attaccati da piccole pattuglie. Te hai ancora il pugnale?»
«Sì».
«Io no purtroppo, spero almeno di aver ferito mortalmente il monco» commentò rabbioso.
Piegò il capo per captare suoni sospetti e io feci lo stesso. Percepivo ordini urlati in lontananza e rumori di passi pesanti sparpagliati in ogni direzione.
«Ci verranno a cercare. Sappiamo molte cose che non dovremmo sapere e non siamo legati ai loro dei in alcun modo, quindi nulla ci impedisce di andare a spifferarle in giro. Mi dispiace solo di essermi lasciato scappare un giuramento di troppo, ma credevo che le cose si sarebbero sistemate pacificamente a quel punto, invece ho sottovalutato la testardaggine di Abracham».
«Durza..» mormorai, nuovamente sul punto di ringraziarlo.
In un impeto di affetto mi sfiorò il volto, accarezzandomi una guancia con il dorso della mano. «Tutto bene, piccola Elfa?»
A quel punto udii dei passi. «Qualcuno si sta avvicinando».
«Allora dovremo nasconderci dietro quei barili laggiù».
Lo facemmo, ma la figura che ci passò accanto non era né una guardia imperiale né un'Ombra, bensì una semplice prostituta.
Cominciammo il nostro lento spostamento in direzione della locanda. Le guardie cittadine erano state avvisate e cominciavano a riversarsi per le strade in una ricerca silenziosa, un terzetto passò nella strada davanti a noi, senza vederci.
Cosa sapevano di noi? Il colore dei nostri capelli? Probabilmente avremmo fatto meglio ad alterare nuovamente le nostre sembianze, ma forse Durza non aveva intenzione di lasciare troppe tracce di magia, per non indicare la nostra direzione, o forse se n'era semplicemente dimenticato.
A rigore di logica l'unica nostra via di fuga doveva essere per la porta principale, che da quel momento in poi sarebbe stata sorvegliata come solo le ultime due uova rimaste al re dovevano essere.
Lo Spettro mi aveva guarita in un vicolo in direzione dei cancelli -dove sicuramente erano rimaste tracce di sangue- e forse quello avrebbe orientato la nostra ricerca in direzione di essi, mentre noi ci spostavamo dalla parte opposta.
Trovammo tutte le lanterne agli angoli delle strade accese, probabilmente per stanarci più facilmente. Ma se sentivamo un respiro nei paraggi ci limitavamo a cambiare strada e allungare ulteriormente il giro.
A nostro svantaggio andava anche la luna: piena, libera di nubi e brillante. Illuminava le stradine di una luce liquida che permetteva a noi di muoverci agilmente, ma anche ai nostri inseguitori di individuarci con più facilità. Fortunatamente, però, avevano una vista peggiore della nostra.
Impiegammo più di un'ora per raggiungere il
Covo segreto. Doveva avvicinarsi ormai la seconda ora del mattino e io non ero ancora certa che avrei visto l'alba, anche se la situazione era infinitamente migliorata rispetto a un'ora prima.
Ovviamente la porta della locanda era chiusa dall'interno, e anche quella di servizio della cucina, quindi decidemmo di entrare per una finestra ed evitare nuovamente di fare uso della magia.
Durza socchiuse la finestra della cucina dopo una minima forzatura, sbirciò all’interno e poi la spalancò del tutto. Analizzò lo stretto passaggio per qualche secondo, poi scosse la testa e mi sussurrò:
«Arya prova a passare tu, le mie spalle sono troppo larghe.»
Annuii e accettai le sue mani incrociate a mo’ di scalino per issarmi fino all’apertura. Nemmeno le mie spalle erano strette, se si consideravano i canoni di una fanciulla media, ma stringendomi su me stessa al massimo riuscii a passarci e a scivolare dentro la cucina. Atterrai, non esattamente con grazia, sul massiccio tavolo di legno, rovesciando un secchio d’acqua. Soppressi un’imprecazione e sgusciai fino alla soglia, ma non sentendo nessun suono mi rassicurai e mi diressi verso la porta principale, che aprii con circospezione. Durza scivolò dentro e richiuse il chiavistello dietro di sé.
Feci mentalmente il punto della situazione: il mio abito di riserva e le nostre coperte erano rimaste nei dormitori della cattedrale. Fortunatamente avevamo con noi i mantelli e avevamo lasciato le nostre spade sotto al materasso del
Covo. Se avessimo rubato un paio di coperte dalla locanda non avremmo rovinato nessuno. Del resto la primavera era ormai alle porte e le temperature erano mitigate di parecchio.
«Vado a recuperare le nostre cose» dissi salendo i primi scalini.
Lo Spettro annuì e i suoi occhi scintillarono vermigli nella penombra .«Ti aspetto in cucina, prendo qualche provvista nel frattempo».
Salii al secondo piano, dove dormivano tutti e riuscii a muovermi con tranquillità nel buio avvolgente. Cercai la cordella che mi cingeva il collo e inserii la chiave nella serratura. La porta si aprì con un lievissimo cigolio.
Una volta all'interno scostai il pannello di legno dalla finestra per godere un poco della luce lunare e recuperai i nostri zaini, arrotolai due coperte e ve le agganciai. Poi strisciai sotto al letto e presi con delicatezza la mia spada e quella di Durza, facendo attenzione a non farle tintinnare.
Sciolsi la chiave dallo spago, la lasciai nella toppa e tornai di sotto.
Durza aveva ammucchiato del pane, del formaggio e delle mele sul tavolo e mi strappò di mano gli zaini per riempirli.
«L'incantesimo che hai lanciato sulla porta perché nessuno la aprisse andrebbe sciolto» osservai posando le spade su una sedia.
Esitò. «Diamine, hai ragione!»
Senza nemmeno avvicinarsi alla porta bisbigliò qualche parola.
«Se non avessi ribaltato un intero secchio d’acqua potremmo anche riempire le borracce». Sbuffò e fece un sorrisetto. «A proposito, hai delle gran belle gambe Elfa, non so se nessuno te l’ha mai detto».
«E c’era bisogno di sbirciare sotto la mia gonna per scoprirlo?» risposi, ma il mio tono mancava del pepe che doveva.
Guardavo la testa rossa di Durza e non potevo fare a meno di pensare che lui, mio nemico, che aveva visto le mie gambe almeno mille volte e solo grazie alle torture che mi aveva inflitto, mi avesse preferita ad un accordo decisamente vantaggioso che gli avrebbe procurato più potere di quanto sicuramente potessi fare io con il mio ambiguo aiuto.
Sentii una sensazione calda stringermi la gola e da lì scendere al cuore, tanto che mi parve di librarmi nell’aria per qualche istante.. Fino a che una mano bianca non mi sfiorò il braccio.
«Tira il chiavistello della porta della cucina, ce ne staremo qui un’oretta o due per placare le acque e poi usciremo dalla porta di servizio». Durza parlò con un tono pratico e sbrigativo, ma la sua voce mi toccò in maniera profonda e indefinibile.
Quando allungai il braccio per chiudere la porta mi resi conto di avere la pelle d’oca, diffusa in tutto il corpo e che la sensazione di calore aveva al contempo raggiunto ogni mia terminazione nervosa.
Lo Spettro si accasciò su una sedia di legno e sospirò di stanchezza. «Non me ne va mai bene una» borbottò.
Lo guardai. La pelle pallida del suo volto, anche se increspata in un cipiglio frustrato, riluceva al bagliore della luna, gli occhi cremisi erano più profondi e intensi più che mai e le sue forti mani erano strette a pugno sulle sue ginocchia. I suoi vestiti erano sporchi di sangue, probabilmente più mio che suo.
Non era la prima volta che lo guardavo in quella maniera, ma quella notte mi parve quasi insopportabile, le mie labbra bruciavano e bramavano le sue come acqua fresca e il desiderio mi travolse tutto d’un tratto, lasciandomi immobile accanto alla porta, destabilizzata.
All'improvviso seppi che io e Durza eravamo al sicuro, che nessuno ci avrebbe trovati per molto tempo, che mi sentivo addolcita, morbida, accaldata, e che ciò che provavo per lui mi stava riempiendo il petto fino a farmi scoppiare il cuore e tremare le gambe.
E fui perduta.
Colmai la distanza che mi separava dallo Spettro, ignorando la sua espressione confusa.
Tremavo quando mi chinai su di lui e lo baciai. Vidi i suoi occhi sgranarsi di scatto e vi lessi la sua esitazione e la sua sorpresa, prima che li chiudesse e si abbandonasse completamente alle mie labbra, allungando le mani e stringendomele intorno al viso. Mi parve di avere già vissuto una situazione simile e il ricordo del giorno in cui Durza era partito per Uru'baen mi balzò vivido in mente.
Ma io non avevo intenzione di andare da nessuna parte, e glielo dimostrai quando mi sedetti a cavalcioni sulle sue gambe. Lo Spettro mi strinse le cosce e mi divorò la bocca nel più passionale e irruento bacio che avessi mai ricevuto, mentre il suo corpo si tendeva contro il mio, come se l’aria tra di noi fosse un ostacolo insormontabile.
E non pensai più a nulla se non al fatto che volevo Durza. Lo desideravo ardentemente, insensatamente, indecentemente, incondizionatamente.
Quei semplici baci non erano abbastanza.
Non erano mai stati abbastanza.
Avida, sfiorai il profilo del suo petto, risalendo fino ai lacci del mantello, che presi a sciogliere. Quando gli baciai la gola Durza emise un gemito roco che mi colpì come una ventata d’aria rovente, ma subito dopo mi afferrò le spalle e mi allontanò da sé.
«Elfa», disse ansimando leggermente, «non c’è bisogno di ringraziarmi per ciò che ho fatto.. cioè magari sì, ma non.. non così». E tentò una risatina di scherno.
Ma ormai lo conoscevo e individuai la maschera sul suo viso da falco, sentii la tensione dei suoi muscoli, lessi il desiderio nei suoi occhi felini e seppi che mi voleva almeno quanto lo volevo io. Chinai il capo e tornai ad armeggiare con il mantello.
Strinse la presa sulle spalle. «Che cosa stai facendo?» E mi parve quasi allarmato.
«Non riesco a slacciarlo» ammisi fissando le mie mani tremanti e i nodi stretti.
Percepii lo sguardo dello Spettro, uno sguardo freddo e calcolatore, lo sguardo di chi cerca di capire dove sia il trucco.
E nonostante ciò si sfilò il mantello dalla testa, lentamente, senza neanche provare a districare la selva di nodi.
«Vuoi per caso sedurmi e uccidermi a metà dell’opera?» domandò giocherellando con lo spago che avevo ancora al collo e sfiorandomi il seno, esitante. «Perché vorrei informarti che, se me la lasciassi finire, morirei felice».
«Forse dovrai rischiare» lo provocai, sporgendomi a baciargli un'altra volta le labbra e ritirandomi subito dopo, invitandolo in silenzio a seguirmi.
Rischiò. Il dubbio e la reticenza sparirono rapidamente dai suoi occhi e di nuovo li socchiuse quasi con ferocia, assecondando i miei gesti, rispondendo alla mia bocca e spostando le mani improvvisamente impazienti sul mio corpo.
Fiori di fuoco sbocciarono sulla mia pelle quando insinuò le mani sotto il vestito e mi accarezzò le gambe, trascinando con sé la stoffa fino a che le sue dita non raggiunsero le corte brache che portavo sotto.
Lo sentii sorridere contro la mia bocca. «E queste?»
«Ti ho detto che odio le gonne» mugugnai tra un bacio e un altro.
«In ogni caso adesso non ti servono».
Durza mi strinse nuovamente le cosce e si alzò in piedi tenendomi a sé, gettò uno sguardo frenetico nella stanza e finì per appoggiarmi sull’orlo del tavolo, che pareva l’unico angolo libero tra quelle quattro mura.
Fece per tirare via le brache, ma quelle si incastrarono all'altezza dei miei stivali. Lo Spettro ridacchiò per l'impaccio e io scalciai via direttamente uno stivale, sfilando le brache dalla caviglia sinistra.
Arrotolai le gambe intorno alle sue, portandolo più vicino, e gli sganciai la cintura con mani ancora più tremanti per la trepidazione. Finì a terra e il fodero vuoto che vi era agganciato atterrò con un tonfo sul pavimento grezzo.
Il mio carceriere sollevò la gonna fin sopra alle ginocchia e mi baciò per l'ennesima volta, lasciando vagare pigramente le mani sulle mie gambe scoperte.
Quando si staccò pensai che mai Durza mi era sembrato così bello. Con i capelli scomposti, i lineamenti distesi in un abbandono quasi infantile e gli occhi cremisi ricolmi di una brama incalzante, che di infantile non aveva nulla.
Con l'ardore che mi bruciava le vene, tutti i muri che mi avevano tenuta separata da Durza lo Spettro mi parvero improvvisamente insignificanti e, senza pensare a nulla che non fosse lui, abbracciai l'uomo di fronte a me come se non avessi fatto altro per secoli.
Fu brusco e mi fece male. Mi sfuggì un piccolo singhiozzo, ma mi affrettai a reprimerlo.
Mi aggrappai con forza alle spalle dello Spettro, irrigidita per il dolore, e lasciai che soffocasse i sospiri e i gemiti contro la mia bocca.
Sarebbe passato, lo sapevo, ed in effetti fu così. Il dolore si ridusse lentamente ad un lieve fastidio, sempre più lontano, mentre la passione e una sensazione gradevole prendevano il suo posto, strappandomi un paio di profondi sussulti e stringendo ulteriormente il nodo sotto il mio stomaco.
Cominciai a perdermi, ad annaspare, ad abbandonare la coscienza dei netti confini del mio corpo, ad annegare nelle iridi di sangue dello Spettro.
Poi Durza mi strinse a sé, affondando le dita nella mia schiena, e rilassò improvvisamente i muscoli con un ringhio gutturale, premendo la fronte imperlata di sudore contro la mia, il respiro pesante e gli occhi spalancati. Gli pettinai i capelli tra le dita, insoddisfatta eppure felice, e lui mi baciò con una dolcezza che non mi aveva mai riservato in mesi di baci rubati.
Non sanguinai, e potei risparmiarmi l'imbarazzante ammissione di non avere mai fatto l'amore prima di allora e potei restare a godermi ancora un poco le labbra screpolate di Durza, la carezza gentile delle sue mani e la sua espressione beata.
Ma non potevamo restare troppo a lungo in quella bolla di non troppo innocente spensieratezza
. Sentii dei passi frettolosi provenire dalla strada accanto e la realtà inquinò in un istante tutto: la cucina tornò ad essere un luogo squallido e io e lo Spettro tornammo ad essere due fuggitivi.
«Forse dovremmo andare» mormorai, quasi spaventata all'idea di interrompere il nostro silenzio complice.
«Non ancora» rispose Durza pigramente. «Fammi prima realizzare che questo non è un sogno».
Gli sorrisi e gli afferrai il volto per baciarlo sonoramente sulla fronte. «Non lo è. Ma non è il caso di farci trovare in queste condizioni dal locandiere, dai Sacerdoti o dalle guardie cittadine».
Ormai avevo spezzato l'incantesimo. Durza si separò con reticenza da me, non prima di avermi sfiorato le labbra un'ultima volta. Come se fossi effettivamente un sogno che rischiava di dissolversi tra le sue dita.
Il mio amante ridacchiò quando mi vide indossare le brache sotto la gonna, ma poi si ricompose in silenzio, allontanandosi per recuperare il mantello, che giaceva ancora a terra accanto alla sedia.
Inevitabilmente calò un lieve imbarazzo e lo Spettro non si diede esattamente da fare per dissiparlo.
«Forse avrei dovuto dirtelo prima di.. insomma..» cominciò, guardando un punto indefinito all'altezza delle mie spalle. Gli feci cenno di andare avanti e lui mi accontentò.
«Prima, quando eravamo alla Cattedrale, mi hai visto assalire la mente di un uomo, ricordi?»
«Certamente».
«Ecco forse quell'uomo potrà portarci qualche informazione entro le prossime due ore».
Trattenni un'esclamazione di stupore. «Gli hai invaso la mente?»
Annuì. «Sta terminando le ricerche per noi. Costringerà un sacerdote a dargli indicazioni più precise».
«Hai.. Gli hai detto il tuo segreto?»
«Non posso. Ho cancellato la sua identità e l'ho sostituita con l'idea fissa di trovare quello che cerchiamo. Eravamo vicini, Arya, molto vicini. Se ciò che cerco non si trova in quella stanza direi che non si trova in nessun altro luogo di Alagaësia se non nella biblioteca privata di Galbatorix».
Era una scelta orribile, la sua, e così perversa da darmi i brividi. Cancellare l'identità di un uomo era molto peggio che ucciderlo.
Avrebbe potuto consegnare me e riprendere la ricerca con calma.
Ma non lo avrebbe mai fatto, in quel momento ne fui certa. Spettro o no, nemico o no, Durza ci teneva a me. In modo singolare e tutto suo, ma ci teneva.
Fui distratta dalla tinta rosata che avevano assunto le sue guance mortalmente pallide e così mi dimenticai di commentare le sue azioni.
«Non sei arrabbiata?» mi chiese con cautela.
«Non avevi scelta. Era la nostra ultima possibilità..»
Mi bloccò con un gesto. «Non parlavo di quello».
Incrociai le braccia sotto il seno e risposi con una franchezza senza precedenti: «Non mi sono data a te solo perché non mi hai consegnata al monco, Spettro, e lo sai anche tu. Sono felice che tu abbia avuto la prontezza di mettere a punto un piano di riserva».
Ammutolì, guardandosi la punta degli stivali. «Hai sempre intenzione di uccidermi?»
Ero abbastanza sicura che solitamente non ci si intavolassero discorsi di quel genere dopo aver giaciuto insieme, ma fui sollevata dall'impaccio della risposta quando qualcuno dal passo pesante si avvicinò alla porta di servizio e vi picchiettò leggermente le nocche.
Durza sollevò un sopracciglio e andò ad aprire il chiavistello.
Mi ritrovai faccia a faccia con l'ombra dell'uomo che aveva lottato contro Durza nella cattedrale. Aveva un'espressione vuota e assente, i muscoli facciali molli e il passo tremebondo. Aveva subito una cosa orribile del resto.
Lo Spettro stava per tirarlo dentro e strappargli la pergamena che stringeva tra le mani, ma un grido risuonò, sin troppo vicino. «ECCOLI!»
Erano altre ombre. Probabilmente il loro compagno così ridotto aveva attirato la loro attenzione, ma non era il caso di fermarsi a chiedere conferma.
Infilai lo zaino in spalla, la spada già legata saldamente ad esso, ed estrassi il pugnale.
«Ti serve vivo?»
«No».
Lo colpii al cuore e in qualche modo seppi di avergli fatto un enorme favore.
Poi mi ritrovai a correre nuovamente con lo Spettro per i soffocanti vicoli di Dras-Leona, in direzione della baracca di Ditolesto.
«La pergamena?» gli urlai dietro.
«L'ho io, Principessa».
I nostri inseguitori erano parecchi, ma erano lenti. Tuttavia, anche se ci persero di vista, sapevano ormai alla perfezione in che zona della città ci stessimo nascondendo e avrebbero stretto il cerchio frugando in ogni casa traballante.
Mentre noi avremmo fatto un bel bagno nelle fognature, sperando di non annegare in quella melma puzzolente.
Ricordavo la strada per la baracca di Ditolesto, ma dovetti lasciar passare Durza avanti, perché aprisse la porta con la magia. Ormai potevano anche rintracciarci, ma una volta fuori da Dras-Leona io e lo Spettro avevamo altissime possibilità di fuggire indenni, con il buio e la velocità dalla nostra.
Peccato però che, dopo tutte le emozioni di quella notte, mi sentissi decisamente esausta. E a quella stanchezza si sommava quella accumulata dalle notti precedenti.
La botola che portava sottoterra era coperta da varie assi di legno, secchi, corde, scatole di chiodi e martelli e picozze. Se non fosse stata l'unica possibile botola in quella stanza l'avrei scambiata per un semplice ammasso di strumenti e materiali.
Facemmo troppa confusione.
Ditolesto scese da una scaletta di legno dopo pochi minuti, una camicia lercia a coprirgli il torace ossuto e una torcia in una mano.
«Ehi, voi siete quelli del Ratto, no?»
«Sì», rispose Durza seccamente, «e dobbiamo andarcene in fretta se permetti».
Ma l'uomo non sembrava intenzionato a lasciarci andare con tanta semplicità e iniziò a tempestarci di domande. Eravamo entrati tra i sacerdoti? Cosa avevamo scoperto? Volevamo vendergli qualche informazione?
«Vi ho detto che c'è un giovane uomo coi capelli scuri che vuole sapere un paio di cose su di loro, no? Se restate fino all'alba vi organizzo un incontro così ci parlate diretto e magari vi fate dare un po' di soldi. Oppure vi scambiate altre informazioni..»
Capii che c'era qualcosa che non andava quando mi accorsi che il suo tono di voce si faceva sempre più flebile mano a mano che parlava. Alzai gli occhi su di lui, abbandonando il martello che stavo spostando, e colsi il volto di Durza ai margini del mio campo visivo.
Gli occhi animaleschi assottigliati, la pelle bianca, i denti aguzzi. Nessun uomo avrebbe esitato a riconoscerlo per ciò che era, e probabilmente nemmeno le mie orecchie a punta erano sufficientemente nascoste dalla treccia ormai totalmente scarmigliata dopo le disavventure della notte.
Non mi mossi abbastanza in fretta da impedirgli di urlare. Ditolesto riuscì ad emettere un grido sorprendentemente acuto -pur essendo un uomo- prima che gli recidessi le corde vocali col pugnale ancora incrostato del sangue dell'Ombra. Poi lo colpii al petto e misi fine alle sue sofferenze. L'uomo cadde a terra fissandosi la mano destra -quella mezza amputata- lercia di sangue, con un'espressione di ingenua sorpresa stampata in viso.
Lo Spettro imprecò quando la torcia, caduta dalle mani della spia, sparse le sue fiamme sul pavimento legnoso della baracca. Ma per nostra fortuna non attecchì a causa dell'umidità del materiale e con un paio di calci bruschi riuscimmo ad estinguere il fuoco.
«Arya finisci tu ti prego!» implorò stirando la pergamena che gli aveva portato l'Ombra tra le mani e scorrendola rapidamente.
Avrei voluto sedermi accanto a lui e leggerla a mia volta, ma le grida di Ditolesto avevano svegliato un buon numero di vicini, che domandavano inquieti cosa fosse successo. Entro un minuto avremmo avuto addosso le guardie imperiali e l'intero manipolo di Ombre.
Gettai via tutto ciò che trovai sulla botola, senza più curarmi di essere cauta e silenziosa.
Quando la botola fu sgombra, Durza la aprì con un incantesimo e mi fece segno di scendere per prima dalla marcia scaletta a pioli, per poi seguirmi nel buio e chiudere nuovamente la botola. Fece danzare una fiammella accanto a me per illuminarmi la strada, ma non dovemmo scendere troppo prima che i miei stivali toccassero una superficie solida. Più o meno eravamo alla stessa altezza delle stanze sotterranee dei Sacerdoti, solo che al centro del tunnel scorreva lentamente un melma nerastra e terribilmente puzzolente.
Stringemmo saldamente la scaletta di legno e dopo una lunga forzatura, riuscimmo a staccarla dal suo sostegno. Quella soluzione avrebbe ulteriormente rallentato i nostri inseguitori.
Io e lo Spettro corremmo su una sorta di stretta piattaforma rialzata, che tuttavia si estinse presto, affondando direttamente nel liquido.
L'idea di tuffarmi in quello schifo mi disgustava, ma non avevo molte altre scelte, quindi scesi il primo scalino e i miei stivali si mossero con uno sciacquio.
Ben presto mi ritrovai immersa fino alla vita, con lo stomaco contratto per la nausea.
«Forza, Principessa!» mi incoraggiò Durza facendo una lieve pressione tra le mie scapole. «Non siamo molto lontani dal muro esterno. Una volta lì dovremmo cadere in un canale che porta al lago e allora ci laveremo tutto di dosso».
«Sono stanca» ammisi, trascinando le mie gambe dai muscoli tremanti nella melma.
«Anche io». Mi strinse un gomito, senza smettere un attimo di camminare.
Alle nostre spalle qualcuno mandò in pezzi la botola di legno. Lo Spettro estinse la fiammella e io riuscii ad afferrare la sua mano appena in tempo, prima che tutto sprofondasse nell'oscurità.
Qualcuno urlò di portare una corda e io mi ritrovai a camminare nel buio totale, con il respiro di Durza e la sua mano nella mia come unico segnale della sua presenza e un sciabordio sempre più forte che si avvicinava davanti a noi.
Sembrava passata un'eternità, ma probabilmente non più di cinque minuti dopo ci trovammo davanti ad una cascata, come intuimmo dal rumore dell'acqua che si infrange dopo una caduta.
Non era certamente alta, ma ci avrebbe costretti ad inzaccherarci dalla testa ai piedi ed esitammo qualche istante prima di buttarci.
Sentivo ancora il sciabordio del liquame alle mie spalle, causato dai movimenti dei militari che ci stavano seguendo in quel pantano, agitando le torce.
Non ero più particolarmente spaventata da loro. Io e Durza li avevamo distanziati e non avevano un udito buono a sufficienza per poter azzeccare la nostra posizione e colpirci a distanza con armi da lancio, in quel buio. Ed ero certa che una volta fuori dalle acque del lago nessuno sarebbe riuscito a raggiungerci, a meno che non venissero movimentati i Ra'zac.
Ma probabilmente sarebbero rimasti a Dras-Leona ad aspettare il cavaliere, com'era loro dovere. Io non potevo fare altro che sperare che Brom e il ragazzo se la cavassero contro di loro, mentre accompagnavo Durza lo Spettro a Gil'ead, lontano da loro e forse vicino ad una soluzione per deporre Galbatorix.
Sì, perché nonostante l'intimità di quella notte, nulla era cambiato nelle mie convinzioni e nei miei propositi.
Quasi a risposta dei miei pensieri, Durza mi sfiorò il viso, cercando le mie labbra, e mi baciò duramente. Ricambiai mio malgrado quel gesto familiare, per poi stringergli nuovamente la mano e saltare nel vuoto.
Prima di atterrare con un tonfo nei fluidi puzzolenti, pensai al cibo che avevamo negli zaini. Non lo avrei mangiato mai, a costo di morire di fame.
Strinsi le labbra, mi tappai il naso e serrai gli occhi con tale forza che apparvero dei lampi colorati sotto le mie palpebre. La puzza era diventata insostenibile, ma ora sembravamo trascinati da una vera e propria corrente, anche se non osai aprire gli occhi incrostati di melma per accertarmene.
In un pugno di secondi sentii il contatto di un liquido freddo e dedussi che fossimo ormai arrivati alle acque del lago Leona, anche perché non ero più costretta dall'acqua densa. Quella era più leggera e liquida.
Tuttavia non ebbi il coraggio né di lasciare le dita di Durza, né di aprire gli occhi, né di immergere la faccia per lavarmi il viso in quella che forse era acqua pulita.
Nuotammo scomodamente per qualche minuto prima di riuscire a compiere tutte e tre le azioni.
Quando finalmente aprii gli occhi sulla notte vidi le luci di Dras-Leona ancora vicine e l'immensità scura del lago argentato alle mie spalle. La luna non aveva abbandonato la sua posizione e presto individuai le rive più vicine, continuando al contempo a strofinarmi il lerciume di dosso.
«Potremmo nuotare fino alla sponda opposta» suggerii.
Ero sfinita, ma procedendo con calma ci sarei riuscita.
Ma lo Spettro scosse la testa rossa. «Non sono un gran nuotatore. È già buono che sia riuscito a rimanere a galla finora, ma è il caso che mi sposti verso riva» concluse accennando alla sponda più vicina, quella sotto le mura della città.
Lo seguii, ovviamente. E appurai che effettivamente era a malapena capace di galleggiare.
Una volta arrivati al suolo sassoso cominciammo a correre, tenendo il lago alla nostra sinistra. Corsi fino a che le gambe non mi ressero più. Allora camminai, poi traballai, reggendomi al mantello di Durza, poi ci sostenemmo a vicenda e infine crollammo l'uno sopra l'altra, all'estremità settentrionale del lago Leona.
Era mattino fatto e io crollai addormentata, sfinita.


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Ehilà, salve a tutti! ^_^
Questo è decisamente un capitolo denso di azione e azioni, che dite?
So che molti aspettavano il momento in cui Durza e Arya sarebbero arrivati al sodo e infine eccoci qua!
Rimangono tuttavia dei dubbi: Durza ha tra le mani la soluzione che cercava? Che faranno ora i nostri eroi? Arya è davvero indifferente a ciò che è successo, nonostante il suo trasporto?
Vi lascio con queste domande e vi auguro un felice Natale -che lo festeggiate o meno- e vi mando un mucchio di baci, vi adoro ;)
A domenica prossima (perché non vado in vacanza con la fanfiction, tranquilli),
Lalli

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Capitolo 28
*** Decisioni ***


Ciao
28. Decisioni

Non so quanto tempo riuscii a dormire in pace. Ma so per certo che Durza si accorse subito quando la mia visione -che sembrava avermi ormai abbandonata- ricomparve in tutta la sua potenza, trascinandomi in un vortice di sofferenza e disperazione. Mi svegliò scuotendomi violentemente le spalle e schiaffeggiandomi leggermente il viso.
Aprii gli occhi per fargli capire che era riuscito a riscuotermi, ma poi ero così stanca che mi riaddormentai nuovamente, di un sonno di poco più leggero.
            Tornai alla realtà con la luce del sole che picchiava violentemente sui miei occhi. Doveva essere ormai la seconda ora del pomeriggio e io mi sentivo sporca -probabilmente non avevo mai puzzato tanto in vita mia-, indolenzita e dolorante.
Mi sarei alzata a sedere ma lo Spettro era praticamente steso su di me e il suo peso mi teneva premuta a terra, con un sasso scomodamente affondato nella schiena. Gli scostai i capelli inzaccherati dalla fronte e sussurrai un paio di parole per incitarlo a svegliarsi.
Riuscii nel mio intento e Durza si scostò bruscamente da sopra di me, guardandosi intorno un poco spaesato. Solo in quel momento mi ricordai che eravamo ancora braccati.
«Ho bisogno di lavarmi» lo informai, sollevandomi dal terreno e massaggiandomi la schiena, dove il malefico sasso aveva scavato un solco.
Trovai il mio zaino gettato scompostamente accanto a me e lo portai con me sulle sponde del lago, dove mi immersi con piacere nell'acqua fredda. Mi frizionai la pelle, gli abiti e i capelli con energia, piangendo la perdita del sapone dell'erborista Gamall.
Lo Spettro mi seguì e mi imitò. Insieme, svuotammo i nostri zaini e gettammo buona parte delle provviste che avevamo radunato nella cucina del Covo, tenendo solo le mele e sciacquando le borracce vuote, le coperte e le nostre spade.
«Possiamo lasciare Dras-Leona?» mi accertai, intrecciando i miei capelli grondanti d'acqua.
«
Dobbiamo, direi. E di corsa, prima che qualcuno trovi le nostre tracce con la magia. Perderemo il cavaliere, ma se i Ra'zac ci trovassero e riferissero al re saremmo finiti».
«I Sacerdoti..»
«Non parleranno» mi rassicurò. «Sanno bene che la priorità dei loro dei è servire Galbatorix, volenti o nolenti, e non andranno a sbandierare il loro tradimento e il loro fallimento in faccia a loro. Sanno che la pagherebbero cara».
Annuii e mi concentrai sulla domanda cruciale. «Hai ciò che cercavamo?»
Sorrise, con un pizzico di amarezza. «Sì. Ed è più semplice di quanto credessi, anche se non facile».
Una feroce esultanza mi montò in petto e una scarica di energia mi percorse le membra. Lo Spettro ammiccò, allargando il sorriso e cedendo per qualche istante a un'allegria che mi parve sincera.
Poi asciugò entrambi con poche parole, quindi mettemmo gli zaini in spalla e corremmo verso nord, cercando il punto in cui il fiume Toark sfociava nel lago Leona. Non avevo chiesto nulla ma immaginavo che la nostra meta sarebbe stata Gil'ead.
Non ci fermammo -se non per riempire le borracce- fino a che la luce non cominciò a calare. A quel punto crollammo a terra, nuovamente sfiniti e decisamente affamati. Mangiammo le nostre mele e bevemmo abbondantemente l'acqua del fiume, che in quel punto si gettava a estuario nel lago.
Durza riuscì anche a pescare un paio di pesci con la magia e accese un fuoco per cuocerli prima che facesse buio e il bagliore diventasse localizzabile a miglia di distanza. Tuttavia anche la colonna di fumo che si levava sopra di noi era abbastanza evidente nella sera grigiastra.
Non sentivamo la presenza di nessun inseguitore alle nostre spalle, ma la prudenza non era mai troppa.
«Ne vuoi un po', Arya?» mi chiese Durza, porgendomi del pesce. E per la prima volta non percepii del sarcasmo nella sua proposta di mangiare le carni di un essere che aveva pensato e respirato.
«No, grazie» risposi.
Non avevo così fame da dovermi abbassare a quello.
«Non so se troveremo altro» mi avvisò lo Spettro, un poco titubante. «Non avevo previsto di dover fare un tuffo da testa a piedi in quella schifezza o mi sarei risparmiato di riempire gli zaini».
Sarebbe successo quello che era successo se lui non avesse riempito gli zaini? Forse sarebbe andato lui stesso a chiudere la porta della cucina e quindi non mi avrebbe toccato il braccio. Era da quel contatto che era partita la pelle d'oca in tutto il mio corpo, ma forse non era stato quello il vero principio.
Forse la sua battuta irriverente sulle mie gambe?
Probabilmente non aveva senso cercare di capire come il tutto fosse partito: era successo e basta.
«All'altezza dell'ansa del Toark, quando ripiega sulle montagne, potremmo spostarci di qualche miglio verso Taurida. Troveremo delle fattorie e dei frutteti dove potremmo rubacchiare qualcosa» dissi, tornando al mio lato pratico.
Mi guardò da sotto le corte ciglia. «Lo sai per certo?»
«Ho percorso questa via ad anni alterni, per quindici anni, portando l'uovo con me. Io e i miei compagni cercavamo di evitare i centri abitati e non viaggiavamo con troppe provviste, quindi non era raro che facessimo qualche deviazione per rifornirci».
Sollevò un sopracciglio. «Elfi che rubano agli uomini?»
«Ho passato più tempo tra gli uomini che tra la mia gente, qualche brutta abitudine devono avermela passata» mi giustificai debolmente.
Ridacchiò. «Tranquilla, non lo dirò a nessuno. Forse non sarò amabile come i tuoi amici elfi, ma direi che stavolta ti accompagno io nelle tue.. scorrerie».
«Si trattava di piccoli furti» minimizzai.
«Arriveremo entro domani al tramonto?»
«Sì».
«Bene, perché credo che moriresti di fame se tardassimo ulteriormente». Mi lanciò un'altra mela, che afferrai al volo. «Prendi anche questa, io per stasera sono più che sazio».
«Grazie» dissi, stirando le labbra in un sorriso accennato.
Si strinse nelle spalle e spense il falò. «Ti dispiace camminare altri dieci minuti? Giusto per allontanarci un poco dal bivacco, non si sa mai».
«Non credo che qualcuno ci abbia seguito» lo rassicurai.
E tuttavia acconsentii ad allontanarmi di un poco.
Stendemmo le coperte lontano dalla strada e dal fiume.
«Sai una cosa?» fece lo Spettro dopo avere slegato la spada dallo zaino e averla posata accanto a sé. «Non abbiamo pagato le ultime settimane di permanenza al locandiere del Covo Segreto. E per di più gli abbiamo anche rubato del cibo e delle coperte».
Sbuffai una risata. «Potrai tornare a pagarlo una volta che tutto sarà finito. Mi fai leggere la pergamena?» azzardai, cambiando discorso prima che i pensieri di entrambi indugiassero sulla cucina e sul tavolo della cucina in particolare.
Durza parve sorpreso della richiesta, ma stranamente non si oppose. Forse non aveva pensato che, se il suo giuramento gli impediva di rivelarmi il segreto di Galbatorix, nulla gli impediva di lasciarmelo scoprire da sola.
Tuttavia quando estrasse la pergamena macchiata di inchiostro dalla tasca della casacca realizzai immediatamente che le mie speranze erano state vane e persino un po' ingenue.
Avevamo fatto un bagno in del liquame e poi in dell'acqua. Cosa poteva essere rimasto delle parole se non qualche sparuta macchia nera a testimoniare il loro passaggio?
«Ricordi ciò che c'era scritto vero?» mi accertai, un poco amareggiata.
Annuì. «Mi spiace, non ho pensato a salvarla».
«Oh, non fa nulla».
Mi avvolsi nel mantello e nelle mie coperte e mi preparai a dormire. Ormai era calato il buio e nessun falò rischiarava il nostro bivacco, la nostra unica luce era nuovamente quella della luna, che però era un po' oscurata dalle nubi, al contrario della notte precedente.
«Arya», mormorò Durza in tono morbido, «forse dopo dovrò svegliarti. Ed è freddo».
Persino un idiota avrebbe letto l'implicito invito nelle sue parole.
Raccolsi il mio zaino e le mie coperte e mi spostai di qualche iarda, fino a che non mi trovai accanto a lui.
Le nostre mani si trovarono. E poi anche le nostre labbra.
Dovevo smetterla di comportarmi da stupida e mettere in chiaro le cose con lui una volta per tutte: potevo provare nuovamente a convincerlo a rinunciare ai suoi propositi, oppure dovevo allontanarmi definitivamente da lui.
«Devo parlarti, Spettro».
Tormentò i miei capelli e assunse un'espressione corrucciata. «Domani, ti prego».
Mi riscosse dal mio incubo e mi baciò di nuovo. E io lo baciai e poi lo strinsi e poi mi addormentai, tremando tra le sue braccia.

Mi risvegliai sentendo Durza canticchiare una ballata popolare, stonato come poche altre persone che avevo sentito cantare in tutta la mia vita. Parlava di due nemici che si scontravano sul campo di battaglia. Lui uccideva il suo avversario, il migliore che avesse mai sfidato, ma quando gli sfilava l’elmo scopriva che era la sua amata, che apparteneva all’esercito avversario. Lei moriva piangendo, spiegando che aveva fatto tutto quello perché il conflitto tra lealtà e amore la stava uccidendo più di qualunque spada. E quale morte migliore di quella per mano sua?
Le mie palpebre chiuse tremarono, riconoscendo l’ombra della nostra situazione in quelle parole.
«Non farmi mai uno scherzo del genere, Elfa» borbottò ridacchiando, ma la sua voce era fioca e debole.
Schiusi gli occhi e restai a fissare i suoi in silenzio, ritardando il più possibile il momento in cui avrei dovuto erigere nuovamente un muro tra di noi.
«Comincio io se permetti» mormorò lo Spettro, stringendomi la mano sinistra.
N
e baciò le dita, poi si staccò e iniziò a pronunciare una lunga cantilena nell’antica lingua. Mi imposi di non muovermi e di non intervenire, ma ero spaventata e non riuscivo a capire cosa stesse facendo e perché.
«Toglilo» disse infine.
«Cosa..?»
«L’anello» puntualizzò.
Ah. Lo tirai quasi con pigrizia e, con mio estremo stupore, si tolse con facilità.
Sentii vagamente Durza dire: «Sei libera».
Ma la mia mente vagava ad altro. Sentivo la mia energia tumultuosa premere per uscire, potevo fare una magia, una qualsiasi, quando volevo e come volevo.
Una fiammella danzò sul mio palmo senza neanche bisogno di parole, seguita da globi luminosi che mi fecero pizzicare tutto il corpo per l'emozione.
Poi abbandonai la solitudine della mia mente ed espansi tentacoli di coscienza tutto intorno a me, percependo all'improvviso la natura brulicante che si risvegliava nella primavera, insetti, piante, piccoli animali. Da mesi ero costretta in me stessa come dietro ad un muro e in quel momento sentire la vita, il suo flusso, i suoi misteri.. Mi si riempirono gli occhi di lacrime bollenti e le membra mi formicolarono di rinnovata energia.
E mi sentii forte, potente, invincibile, letale, pronta a colpire.
Infine sentii la coscienza di Durza e il vuoto lasciatomi al dito dall’anello. Dopo tutti quei mesi avevo fatto l’abitudine a sentirlo lì, a stretto contatto con la mia pelle, dove ormai si era disegnato un pallido cerchio.
Era il simbolo schiacciante della mia sconfitta, della mia umiliazione e inferiorità, delle mie illusioni, delle mie sofferenze, delle mie paure più oscure, delle sue menzogne e delle sue crudeltà.
Eppure lo rimisi al suo posto, d'impulso.
Tornai faticosamente a concentrarmi sullo Spettro e lo trovai guardingo, teso e inquieto, con gli occhi così socchiusi che sembravano scomparire sotto le ciglia corte e sottili. Mi parve bello e pericoloso allo stesso tempo. E sembrava quasi aspettare un mio attacco.
«Se lo desideri,» disse lentamente, «puoi tornare a casa».
«Cosa?!» esclamai sconvolta. «Ma.. e il piano per deporre il re? I tuoi segreti?»
«Ormai non importa» replicò con voce monocorde, sfilando delicatamente il braccio da sotto il mio corpo e alzandosi a sedere, privandomi repentinamente del suo calore. «Il cavaliere mi è scappato, quindi non c'è nessuno dei miei piani che potresti intralciare facendo rapporto al tuo popolo o ai Varden. Vado ad affrontare Galbatorix, ma credo che non avrai nulla in contrario su quello» concluse con una risatina. «Per quanto riguarda ciò che succederà dopo.. immagino che non arriverai in tempo per ostacolarmi. Al massimo potrai tentare di depormi più avanti. Hai fatto il tuo dovere e anche di più, non credi?»
Mi accigliai e mi alzai a mia volta. «Hai bevuto qualcosa mentre io dormivo, Spettro?»
«A quanto pare devo sempre essere ubriaco quando succedono cose interessanti» fu la sarcastica risposta.
Nel tumulto che sentivo crescermi dentro trovai a malapena la lucidità di chiedere: «Perché?»
«Devo veramente spiegarti il perché? No, credo che tu lo sappia già alla perfezione».
«E quindi mi mandi via? Non dovevo servirti contro il re?» insistetti.
Mi pareva incredibile di essere improvvisamente sciolta da ogni vincolo dopo più di quattro mesi. E se da un lato mi sentivo esultante, dall'altro ero terrorizzata.
Non mi aspettavo un allontanamento così brusco e improvviso né dalla missione né da Durza stesso.
Mise le mani sugli occhi. «Vai via prima che mi venga voglia di trattenerti, piccola Elfa».
«Io voglio esserci!» decisi, determinata, afferrandogli i polsi e spostandogli le mani. «Voglio esserci quando il re cadrà».
«Non capisci», soffiò con voce rotta, «che dopo Galbatorix sarà uno di noi due a morire? Io non voglio morire. E non voglio ucciderti».
Le lacrime mi punsero gli occhi. «Nemmeno io».
«Allora, ti supplico, vattene».
Solo in quel momento realizzai pienamente la portata dei sentimenti che provavo per Durza lo Spettro.
Ciò che mi legava a lui era così complesso, contraddittorio e stratificato.. qualcosa che non avevo provato per nessuno, mai.
Avevo combattuto contro di lui e poi al suo fianco, lo avevo ferito e salvato e lui aveva fatto lo stesso per me, ero stata sua nemica e alleata, lo avevo schiaffeggiato e baciato, gli avevo nascosto e confessato segreti terribili, avevo tramato alle sue spalle e fatto l'amore con lui, avevo pregato per la sua morte e la sua salvezza, avevo subito le sue torture e goduto delle sue carezze, lo avevo definito un mostro e poi avevo scoperto il ragazzino spaventato alle sue spalle, accanto a lui mi ero sentita in pericolo e al sicuro, avevo decifrato le sue espressioni e reagito impreparata alle sua azioni, riso e protestato alle sue battute, negato e richiesto il suo affetto..
Forse potevo andare avanti per delle ore.
E forse era il caso di smetterla di pensare e cominciare a prendere decisioni che avrebbero sconvolto la mia abituale esistenza, ma forse mi avrebbero finalmente resa felice.
Ed era tutto così facile.. Volevo che Durza fosse mio. Non c'era niente di male in tutto quello.
«Io.. tu hai detto di provare dei sentimenti per me, quella notte nella cattedrale» balbettai.
«Sì, Arya. Tantissimi sentimenti. Ed è per questo che..»
«Anche io» lo interruppi.
Addolcì l'espressione disperata che aveva in volto. «Lo so e so anche che non mi vorrai veramente, non finché le cose non cambieranno».
«E allora dovremmo cambiarle, non credi?»
«Non sai quello che dici, Elfa».
Strinsi la presa sui suoi polsi. «Se reclamerai il trono del re ti uccideranno, Durza. Gli elfi, i nani, gli uomini, forse anche i gatti mannari. Nessuno vuole un altro tiranno, tanto meno uno spettro, quindi se vuoi vivere devi rinunciare al potere».
Mi scrollò bruscamente e iniziò ad arrotolare le coperte. «Non voglio» proferì gelidamente.
Lo imitai e gli concessi qualche minuto di pace, anche solo per meditare sulle mie parole. Ma poi, mentre camminavamo fianco a fianco lontano dal sentiero, tornai all'attacco.
«Cosa te ne fai del trono di Galbatorix?»
«Mi hanno schiacciato molte volte nella mia vita, troppe. E ora non voglio sottostare mai più all'autorità di qualcuno. Ho capito che in questo mondo si ferisce o si è feriti, si schiaccia o si è schiacciati, e non c'è una via di mezzo» fu l'asciutta risposta.
«Non so con esattezza cosa ti abbia condotto a queste conclusioni, anche se una vaga idea ce l'ho, ma ciò che ho detto è la verità: se prenderai il trono di Alagaësia sarai sicuramente e inevitabilmente schiacciato da forze superiori alle tue. Sei potente, ma non abbastanza da sconfiggere tutti i membri del mio popolo».
«Non credo che..»
«Si muoveranno» lo freddai. «Sicuramente si muoveranno contro di te».
Fece una smorfia e all'improvviso mi parve spaesato. «E dunque vuoi propormi amnistia? Posso rinunciare al potere, ma sarei in ogni caso condannato a morire. Ci sarà un processo o qualcosa del genere e sono abbastanza sicuro che una buona fetta di Alagaësia vorrà vedere il mio cuore strappato dal mio petto».
«Rinunceresti al trono?» mi accertai.
Esitò. «Ormai te lo dico, tanto peggio di così non potrà mai andare». Fece un respiro profondo. «Fino ad un giorno fa avevo intenzione di uccidere il re ed impossessarmi del suo potere, ma ora so che se voglio sconfiggerlo devo distruggere la fonte della sua magia e non avrò più possibilità di recuperarla. Mi trovo ad un bivio, ed entrambe le mie scelte sono vicoli ciechi, come puoi vedere. Quindi continuerò sulla pista originale, chissà che non mi imbatta per sbaglio in Ajihad nel frattempo, magari almeno uno dei miei progetti potrebbe essere realizzato».
«Verresti via con me?» chiesi a bruciapelo.
Si fermò e sollevò le sopracciglia. «Una fuga d'amore, Principessa?»
Mi fermai a mia volta. «Sì».
«Quando ti è venuta in mente un'idea simile?»
«Adesso» ammisi.
Contrasse il viso in un'espressione sospettosa. «E me lo stai proponendo per tenermi con te o per tenermi lontano dal trono di Galbatorix?»
«Una cosa implica l'altra. Non disdegnerò di prendere due piccioni con una fava» ammisi.
Ammutolì, spiazzato.
Capii che aveva creduto di avere solo due misere ed infelici opzioni tra cui scegliere e che la mia proposta gli aveva aperto un baratro.
Individuato quello spiraglio di incertezza nel suo esitare, decisi di insistere.
«Non devi né diventare re, né consegnarti ai Varden o agli elfi. Sono d'accordo sul fatto che in entrambi i casi verresti probabilmente ucciso, ma sono sicura che se sparissi semplicemente dalla circolazione, prendessi nuove sembianze e un nuovo nome, allora potresti vivere in pace la tua vita. Potresti difenderti da qualsiasi essere umano e stare alla larga dagli Elfi, per sicurezza. Non sarebbe un'esistenza così terribile».
«Con te?» chiese semplicemente
«Con me» confermai. «Ma non tentare di ingannarmi con finte promesse o ti giuro sulla mia vita e su quanto ho di più caro in questo mondo che non avrai mai e poi mai il mio perdono. A quel punto avresti creato la tua più acerrima nemica, per di più custode di parecchi dei tuoi segreti» aggiunsi con voce terribile.
E in effetti Durza parve quasi spaventato.
Ripresi a camminare davanti a lui, dandogli nuovamente il tempo per metabolizzare le mie proposte e le mie intimidazioni.
La sua voce suadente mi accarezzò le scapole. «E il tuo popolo? La tua casa? I tuoi amici?»
«Nessuno mi mancherà particolarmente. Dopo che il re sarà sconfitto gli elfi nomineranno un nuovo ambasciatore e se la caveranno alla perfezione anche senza di me».
Lo Spettro sbuffò. «Devo piacerti davvero parecchio per abbandonare tutto come se niente fosse, solo per stare con me».
«Oppure non mi piace l'ambiente in cui vivo e tu sei la mia prima vera occasione di fuga da quando sono nata» dissi con leggerezza, ma quella confessione pesava terribilmente sulla mia anima e avrei tanto voluto vedere l'espressione del suo viso mentre la condividevo con lui.
Tuttavia Durza pareva intenzionato a convincermi a rinunciare.
«Non credo che tu sappia esattamente quello che stai facendo, piccola Elfa. Io sono pur sempre Durza lo Spettro, ho fatto cose orribili e non sono sicuro che riuscirò a trattenermi dal farne delle altre».
«Ti fermerò io» quasi lo ammonii. «E anche Ajihad deve restare fuori dai tuoi pensieri».
«Sto lavorando alla mia vendetta..»
«.. da decenni» conclusi per lui. «Ma puoi voltare pagina. Mi dispiace per ciò che ti è successo, per ciò che la famiglia di Ajihad può averti fatto, però potresti guardare avanti, per una volta».
«Non sono sicuro di poterlo fare».
Mi voltai a fronteggiarlo, fermando il suo passo. «Durza ascoltami: hai ucciso due elfi la notte che mi hai catturata. Uno era un mio caro amico e fedele compagno, l'altro era come un fratello per me e giusto qualche ora prima mi aveva chiesto di.. diciamo sposarlo».
Lo Spettro sgranò gli occhi. «Per la miseria..»
«E poi mi hai torturata» proseguii imperterrita, «e mi hai ingannata. Eppure io ti sto chiedendo di stare con me. Credi che non sia stato difficile per me perdonarti e accettarti? L'ho fatto. E non sono affatto migliore di te, quella è solo una scusa. Ti chiedo di rinunciare alla tua vendetta per me, per noi. Puoi farlo?»
«Non voglio che tu sia mia solo per senso del dovere».
«Sai che non è così» risposi prontamente, mettendo a tacere la sua flebile protesta.
Insistette. «Dimmi solo una cosa: è considerato normale tra gli elfi fuggire con un uomo che conosci da.. quattro mesi e mezzo? Cinque? Magari ti stuferesti di me nel giro di una settimana, Principessa. E dopo?»
«Non tutte le persone sono in questo mondo per ferirti, Durza. Io non sarà la compagna perfetta: sono più brava a maneggiare una spada che un ago da ricamo, e ho visto più sangue che minestroni di verdure, però sono sicura di ciò che provo per te. Non posso giurarti che non mi stancherò mai, perché la mia vita è appena iniziata, ma i miei sentimenti sono autentici e non si dissiperanno tanto in fretta».
Fischiò, tentando con scarso successo di recuperare i modi di fare sfottenti che gli erano tipici. «Non avrei mai creduto di sentirti dire qualcosa del genere».
«Questa è la semplice verità» insistetti, muovendo qualche piccolo passo nella sua direzione.
«
Sembra troppo facile e bello per essere vero».
Mi sentivo in biblico sull'orlo di un baratro e sapevo che avrei dovuto fare del mio meglio per portare lo Spettro con me. Durza era una persona importante ed ero davvero disposta ad andarmene pur di stare con lui, tanto non avrei lasciato troppe cose o persone dietro di me. Solo che.. per il Wyrda di Alagaësia, stava succedendo tutto così in fretta!
E lui sembrava condividere il mio stesso timore, la mia stessa impazienza e la mia stessa incertezza.
Sembrava incredibile che le nostre vite si fossero sviluppate su due sentieri completamente diversi, tortuosi e ben separati, che tante altre cose importanti fossero successe prima che le nostre strade si incrociassero. Abbandonare i progetti di una vita per un amore incerto e appena sbocciato era un azzardo, quasi un atto incosciente.
Guardai Durza e vidi la sua postura rigida saldarsi ulteriormente, ma quando i suoi occhi si alzarono su di me, non li trovai
tristi e sconsolati, bensì cupi e voluttuosi, densi di sentimenti e di promesse.
Finii tra le sue braccia ancora prima di essermi resa conto di aver mosso gli ultimi passi che mi separavano da lui. Lo baciai, lentamente, chiudendo le palpebre con abbandono e accarezzandogli la schiena.
Lo Spettro mi strinse la vita. «Grazie» gracchiò, il volto premuto contro la mia spalla.
«Avrai ancora tempo per pensarci, fino a che non avremo raggiunto Gil'ead» sussurrai.
Sentii le sue labbra sfiorarmi il collo. «Non credo di averne bisogno».
E mi morsicò appena la pelle con i denti aguzzi, giocosamente.
Un peso enorme sparì dal mio cuore, ma un leggero brontolio mi annunciò che il mio stomaco voleva la sua parte.
«Andiamo a cercare qualcosa da mangiare» mugugnai, staccando lo Spettro da me.
Rise. «Se incredibile. Ardore e calcolo da un minuto all'altro».
Scoprii i denti in un sorriso. «Ma abbiamo un accordo, giusto?»
Mi guardò con aria di sfida. «Sì, donna infida».
Non mi fu troppo difficile sorridergli di nuovo. Avevo appena compiuto la seconda mossa più azzardata della mia vita, eppure sembrava essere quella giusta, finalmente. Perché in effetti mi sentivo felice, leggera, serena,quasi.. realizzata, completa. Arrivata alla fine del mio viaggio.
Una piccola parte di me continuava a guardare Durza con l'occhio sospettoso di chi ha già subito un tradimento e non sa se aspettarsene un altro, ma gli credevo, volevo credergli. I suoi sentimenti erano reali e io potevo forse offrirgli ciò che aveva perso in passato e non di era mai aspettato di ritrovare in futuro.
Amore.
            Quella notte dormimmo nel granaio della fattoria. Avevamo raggiunto i frutteti poco prima del tramonto e avevamo saccheggiato la dispensa del fattore e l'orto fino a riempire gli zaini. Forse il fattore si sarebbe accorto che qualcosa mancava, ma noi avremmo affrontato i nostri quattro giorni di viaggio fino a Gil'ead con più serenità. Ma in realtà, dopo un breve scambio, avevamo stabilito che avremmo tagliato in linea retta in direzione della città, ignorando i sentieri tracciati e accelerando il tutto.
Durza sembrava da un lato impaziente di tornare a casa e dall'altro preoccupato. Mi chiesi se la sua ansia derivasse dal fatto che, dopo Gil'ead, la meta seguente sarebbe stata Uru'baen, dove avremmo dovuto tentare l'impossibile.
«Sei preoccupato?» gli chiesi stringendomi a lui sotto le coperte.
«Pensavo che la nostra avventura potrebbe finire ancor prima di cominciare. Possiamo fare dei progetti per il nostro futuro, ma nulla ci garantisce che non finiremo ammazzati da Galbatorix. So che è una meta necessaria per riottenere la mia libertà, ma ora che è così vicino..»
«Ho paura anche io» ammisi.
Ridacchiò. «Sei brava a non farlo vedere o a non pensarci».
«E se andassimo direttamente ad Uru'baen?» gli proposi. Forse l'attesa di agire ci avrebbe scoraggiati ancor più di quanto già non fossimo in quell'istante.
Mi rispose quasi controvoglia. «Devo assolutamente vedere Alba e parlarle».
Sobbalzai. Non avevo più pensato a lei e quindi non ero ancora riuscita a dare un significato a tutti i misteri nascosti dietro le sue mosse. Sapevo però che molte di esse le avevo tenute per me, nascondendole allo Spettro per evitare che la poveretta facesse una brutta fine.
Ma forse era giunto il momento di abbattere anche quelle ultime barriere e dirgli tutta la verità. Nessun rapporto può reggere se nato su menzogne o cose non dette, tuttavia c'erano altre vite implicate quindi dovevo agire con cautela.
«Cos'è Alba per te?» domandai alla fine, anche se in realtà avrei voluto chiedergli direttamente chi fosse.
«Un'amica e un'alleata, ma avevamo stabilito una sorta di patto al quale ormai non posso più attenermi e le devo delle spiegazioni, almeno».
Notai l'esagerata lentezza nel suo tono e capii che entrambi ci stavamo nascondendo buona parte della verità. Così gli dissi tutto: della volta che Alba mi aveva aiutata a fuggire dalla mia cella, dei suoi avvertimenti, dei suoi consigli, della boccetta di veleno.
Evitai di parlare dell'occhio bianco, così somigliante a quello della giovane. Non ero ancora certa che si fosse trattato di una mia fantasia o della verità.
Durza mi ascoltò in silenzio sbigottito e quando tornò a parlare il suo tono grondava amarezza.
«A quanto pare non sono l'unico a volersi ribellare al proprio padrone» ringhiò.
«Mi dispiace».
«Dispiace anche a me, piccola Elfa. Avrei dovuto capirlo da molti segnali che Alba avrebbe tentato di ucciderti prima che fosse arrivato il suo momento».
«Uccidermi.. prima?» bofonchiai, un po' confusa. Alba era sempre stata un personaggio ambiguo per me, ma in fondo ero sempre stata convinta che avesse intenzione di aiutarmi.
Durza sospirò, mi baciò e vuotò il sacco.
«Alba è un'elfa nera. Il tuo popolo l'ha esiliata circa ottant'anni fa».
«Non credo sia possibile» lo interruppi. «Se fosse veramente successa una cosa del genere ne sarei stata informata, avevo già più di vent'anni quando è successo. Non ho mai saputo di un elfo esiliato nell'ultimo millennio e non è una cosa molto frequente dalle nostre parti».
«Eppure è così» insistette lui. «E se chiedessi a tua madre sono certo che confermerebbe. Alba è stata scacciata da Islanzadi in persona, che ha anche provveduto a farle rimuovere tutti i ricordi legati alle vostre terre».
Deglutii rumorosamente, sentendo il cuore affondarmi nel petto. «Non è possibile..»
«L'hanno trovata i miei uomini, mentre vagava sulle sponde del lago Isentar, con le vesti stracciate e un'aria folle. Non ha saputo rispondere a nessuna domanda e le orecchie a punta l'hanno tradita. A quel punto è stata portata a Gil'ead, dove ho provato ad interrogarla e a violarle la mente, ma ho trovato la nebbia. Non un ricordo, solo la sua lingua madre. Non sono un esperto di Antica lingua ma me la cavo e in breve sono riuscito a rassicurarla e anche ad insegnarle la lingua degli uomini. Tre anni dopo ha ricordato il suo nome e ha voluto immediatamente cambiarlo, così da Aiedail ho iniziato a chiamarla Alba. Mi ha giurato fedeltà e si è messa al mio servizio. Il re ha voluto vederla, ma non ha potuto fare nulla, così le ha concesso di rimanere con me nella speranza che qualche ricordo riemergesse negli anni. Ma non è accaduto nulla fino a che non sei arrivata tu».
«Io?» soffiai.
«Alba ti ha riconosciuta come la principessa degli elfi, o non avrei mai e poi mai saputo il tuo nome, immagino».
Una voce dolce, soave, incredibilmente argentina e musicale.
La voce di un elfo.
«Complimenti, mio signore. Hai tra le mani nientemeno che la principessa degli Elfi, Arya di Ellesméra, figlia della regina Islanzadi e del re..»
Le parole di qualcuno che mi conosceva. Bene.
Quei ricordi mi colpirono come una rivelazione. Ero divorata dalla febbre e quelle parole erano scivolate sul fondo della mia coscienza.
E in quel momento riemersero, portando con loro la prova schiacciante che ciò che lo Spettro mi aveva detto era la pura e semplice verità.
Poi misi in ordine i ricordi confusi dei giorni di deliri che avevo passato nella mia cella. L'odore di noce vomica, l'occhio, il foglio di carta con il suo minaccioso “morirai” vergato in inchiostro rosso, poi sparito nel nulla il giorno seguente.
Alba aveva cercato di ammazzarmi, più volte, cercando di non rimanerne troppo coinvolta da poter essere scoperta da Durza. Anche la mia fuga, organizzata da lei, era una semplice farsa: mi aveva indirizzata ad un portone di legno di quercia, che a quel punto sapevo celare la camera da letto dello Spettro. Probabilmente nella speranza che lui mi scoprisse e provvedesse ad eliminarmi.
Come avevo fatto a non unire prima tutti quegli indizi, sparsi in quei tre mesi di prigionia?

«Arya» mi richiamò il mio compagno. «Io e Alba avevamo un patto: io ti avrei spremuto tutto le informazioni in tuo possesso, avrei asservito il cavaliere e poi avrei trovato il modo di sconfiggere il re. Poi ti avrei consegnata a lei, che avrebbe fatto di te ciò che voleva. Non è più valido, ovviamente, ma ha il diritto di sapere tutto».
Ero frastornata e schiacciata dal peso di tutte quelle verità. Elfi neri? Traditori? Mia madre aveva distrutto la mente di un'elfa?
«Quale crimine ha commesso?» chiesi.
«Perché l'hanno cacciata, chiedi? Stava cercando di resuscitare sua sorella. Era morta per mano di uno dei rinnegati nella battaglia di Ilirea».
Sussultai. «Resuscitare..»
Oh no! Non poteva veramente esistere un incantesimo in grado di compiere una cosa simile. Era sbagliato, dannatamente sbagliato. La morte è un processo irreversibile. Quale persona oserebbe mai fare una cosa così innaturale? E sopratutto come?
«Non dirmi che non hai mai desiderato che qualcuno che era morto tornasse a respirare. I morti sono irrecuperabili, ma tutti sognano di vedere i propri cari tornare alla vita» mi punzecchiò Durza.
«Non l’ho mai pensato» ammisi, quasi con vergogna.
«Quanto sei arida, Elfa» sbottò lui.
Non vedevo più il suo volto, così risalii le sue braccia e gli scompigliai i capelli con affetto.
Lui cercò nuovamente le mie labbra e io divorai le sue con trasporto.
Poi mi sovvenne un'ennesima affermazione di Alba.
«Alba mi ha detto di essere la tua amante» dissi, quasi con timore.
Durza rise piano e passò un braccio sotto di me, tirandomi al suo petto. «Sei tu la mia amante, Principessa».
«Ero seria, Spettro» borbottai in imbarazzo.
«Sì. Due o tre volte. Ma è passato e non succederà mai più» quasi implorò.
«Non mi importa» lo rassicurai, «volevo solo accertarmi che non fosse un'ennesima bugia».
«Mi sa che entrambi avremo qualcosa da dire ad Alba quando torneremo a Gil'ead».
«Temo anche io».

L'incubo tornò anche quella notte e Durza mi riscosse, così come mi risvegliò le notti seguenti.
Fui io ad usare la magia per orientarci al meglio fino a Gil'ead e fu un'esperienza fantastica tornare ad usarla dopo tanti mesi di inerzia.
Qualcuno tentò di divinare Durza, ma lui lo ignorò sempre, affermando con sicurezza che non si trattava di Galbatorix, perché il medaglione a forma di sole non gli risucchiava troppa energia.
Nel giro di tre giorni arrivammo a Gil'ead. Era notte fonda quando raggiungemmo il portone esterno e io fui colta dal duro ricordo della notte in cui ero arrivata in città, a cavallo davanti allo Spettro, distrutta dalla morte dei miei amici, non sapendo cosa mi avrebbe aspettato nei giorni seguenti e certa di morire entro un paio di settimane.
Durza ripeté effettivamente la stessa procedura della volta precedente. Si illuminò il volto e esplicitò la propria identità davanti ad ogni portone, anche quello della fortezza interna.
Per un attimo mi aspettai che lo Spettro mi ridesse in faccia, schernisse la mia ingenuità e mi gettasse nella mia gelida e angusta cella. Durza invece mi condusse con sé sulle scale di pietra, oltre la porta di legno di quercia e infine nel suo letto morbido, dove adagiammo il capo su grandi cuscini e dove lui coprì entrambi con spesse coperte imbottite di piume.
Dormimmo, sporchi e stanchi dal viaggio, fino a mattino inoltrato.


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Ehilà, ciao a tutti! Spero abbiate passato buone feste e mangiato come non ci fosse un domani xD
Scusate il ritardo ma ho avuto problemi al mio povero pc!
Questo è un capitolo un po' statico e un po' di passaggio, avevo bisogno che Durza e Arya definissero finalmente il loro legame e prendessero una decisione e mi sembrava che un capitolo intero fosse necessario ^_^
Direi che ci vediamo domenica prossima (il prossimo anno)! Oggi vi auguro un felice anno nuovo e vi ringrazio nuovamente ;)
Baci,
Lalli

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Capitolo 29
*** Addio, mio signore ***


Ciao
29. Addio, mio signore

La prima cosa che feci non appena aprii gli occhi fu gettare una rapida occhiata alla stanza. La ricordavo bene dall'ultima volta che vi ero stata, quando Durza mi aveva dato le sembianze di Alba e fatto indossare un vestito per meglio mascherarmi durante il nostro viaggio, tuttavia la prospettiva dal suo letto era nuova.
Di fronte a me intravedevo una cassapanca, nella penombra, e la parete che celava quella che sapevo essere la sala da bagno.
Scostai la mano dello Spettro da sopra il mio cuore, dove la teneva sempre per svegliarmi dai miei incubi, e scesi piano dal materasso. Le tende scure erano aperte e legate ai quattro pilastri del baldacchino e, quando posai i piedi nudi a terra, sentii la morbidezza del tappeto, che copriva anche il piccolo palchetto su cui si ergeva il letto.
Delle pelli giacevano ai piedi di esso, probabilmente in uso nella stagione invernale, ma ormai totalmente inutili nella primavera che prendeva lentamente piede.
Mi avvicinai alle tende che coprivano le finestre attorcigliandomi una ciocca di capelli biondi tra le dita e mi liberai dell'aspetto di Alba -residuo della notte precedente- chiedendomi con che occhi avrei guardato la suddetta donna da quel momento in avanti.
Non mi ero presa il tempo di pensarci durante la corsa fino a Gil'ead, ma l'idea che un'elfa più grande di me, punita duramente da mia madre e che doveva odiare lei e la sua discendenza al di sopra di ogni cosa, mi fosse stata così vicina da potermi uccidere senza troppa fatica mi dava i brividi. Per di più mi risultava ancora arduo credere che la regina degli elfi fosse stata capace di un gesto così estremo.
Premetti la fronte contro il vetro della finestra che dava sull'esterno e mi ritrovai davanti l'intera città di Gil'ead, con il lago Isentar che luccicava poco lontano. Nessun rampicante che potesse aiutarmi a fuggire da quella stanza raggiungeva quell'altezza. Alba aveva previsto che finissi direttamente tra le braccia dello Spettro, che mi avrebbe punita a dovere per la mia fuga.
Lo Spettro in questione borbottò qualcosa di incomprensibile sul “dormire ancora” e sputò un paio di insulti nella mia direzione per aver scostato le pesanti tende di velluto nero che coprivano i vetri, rivelando la luce del mattino.
«Ben svegliato» dissi in tono canzonatorio avvicinandomi nuovamente al letto e inginocchiandomi all'altezza del mio zaino, che avevo gettato a terra con noncuranza al nostro arrivo.
Indossai gli stivali, recuperai Ren e la cintura a cui era agganciata Luna, lasciando intatto il restante bagaglio. Effettivamente non sapevo cosa fare: dovevo riporre il tutto da qualche parte? Quanto saremmo rimasti a Gil'ead prima di avventurarci nella città del dolore? Forse non valeva neppure la pena di disfare il tutto?
«Voglio farmi un bagno» mugugnò Durza, trascinandosi fuori dalle coperte e cercando gli stivali.
Non ribattei, ma anche io avrei usufruito della sua vasca dopo di lui perché ne avevo davvero bisogno.
«Ma prima vado a cercare Alba» aggiunse in un sussurro, sedendosi accanto a me per baciarmi la bocca.
Aveva finito le foglie di menta da giorni e le sue labbra ne avevano perso il sapore, ma sapevo che entro sera sarebbe tornato tutto alla normalità.
«Dopo vorrei lavarmi anche io, se possibile» dissi.
Rise. «Quanta formalità. Forse non è così ovvio come sembrava a me, ma con un bagno io intendevo un bagno
insieme, bellezza» fece con malizia, sfiorandomi la pelle esposta del collo.
«Sei un idiota». Sorrisi.
«No, ho bisogno di qualcuno che mi lavi la schiena e mi consoli per le fatiche del viaggio» ribatté giocosamente. «Vado, parlo con Alba e torno con dell'acqua calda. Non osare spogliarti, voglio avere l'onore».
«Non essere crudele con lei».
In realtà avrei voluto andare con lui e dire ad Alba quel che si meritava di sentire, ma una parte di me si sentiva in colpa per le fantomatiche azioni di mia madre e inoltre ero certa che, in una discussione tra lei e Durza -che si conoscevano da parecchi decenni-, sarei stata solo di troppo, quasi molesta.
Lo Spettro indossò il mantello da viaggio sopra i vestiti impolverati. «Non mentivo quando ti ho detto che è un'amica per me. Non ho alcuna intenzione di farle del male, ma di rimetterla in riga sì. Vedrai che capirà e ci sosterrà, del resto il vero colpevole della morte di sua sorella è Galbatorix».
Annuii, non troppo convinta. «Ti aspetto qui».
«Sì, è il caso che tu non ti faccia vedere in giro per il castello, libera come l'aria». Esitò sulla soglia. «Guarda ciò che vuoi nel frattempo» disse, indicando gli scaffali ricolmi di libri impilati disordinatamente.
«Non sparisco» lo rassicurai, notando la sua esitazione.
Sorrise e uscì nel corridoio.
Mi mossi in direzione del camino freddo e spento e sbirciai curiosamente la libreria che lo incorniciava.
Erano tutti testi scritti nella lingua degli uomini e, in mezzo a cronache di guerre, trovai anche libri di poesie e ballate. Non credevo che Durza fosse un gran lettore, ma le pergamene e i libri che aveva consultato erano evidentemente quelli riposti in malo modo negli scaffali.
Li sfilai, scorsi vagamente i titoli, e li rimisi al loro posto, in ordine.
In tutta sincerità non avevo voglia di leggere nulla. Avevo passato tre settimane a leggere pergamene su pergamene alla luce scarna di una candela e, all'idea di concentrarmi nuovamente su delle parole, mi si incrociavano gli occhi.
Pensai automaticamente alle persone che avevo lasciato così bruscamente alla cattedrale. Gagnsamr si sarebbe disperato per la nostra fuga, Delling sarebbe tornata sulla sua idea del nostro tradimento, Elin ci avrebbe maledetti davanti al suo dio, Gefion avrebbe presto dimenticato il fatto e Tove avrebbe vagato per le stanze, incredula. Helsa non avrebbe mai saputo nulla e in tutta sincerità ne ero felice.
Nonostante i miei propositi mi trattenni qualche istante in più su un libro che parlava di fantastiche creature che vivevano oltre il mare. Le miniature rappresentavano cavalli con il manto macchiato a strisce, strani lupi con pelo giallo e folto intorno alla testa e una specie di cervo femmina con il collo lunghissimo e il manto a macchie, senza contare l'enorme animale grigio dalle grandi orecchie e il naso lunghissimo.
Le illustrazioni erano così grottesche che dovetti trattenermi dal riderne e mi chiesi a lungo se non si trattasse di un libro per divertire i bambini. Ma il linguaggio era complesso e arcaico, indubbiamente destinato ad un adulto. L'autore era un certo Vandrer, ma non c'era scritto né il nome della sua famiglia né il suo luogo di nascita, e tanto meno una data a cui fare riferimento.
            Erano passati pochi minuti da quando lo Spettro si era allontanato e un lieve rumore di passi riempì il corridoio, avvicinandosi alla stanza. Se si fosse trattato dei passi di un qualsiasi umano del castello sarei corsa a nascondermi dietro le tende o nella sala da bagno, ma ormai conoscevo i passi delicati di Alba e sapevo anche perché fossero così particolarmente leggeri: non era un'umana, ma un'elfa.
Riposi il libro
Le creature d'oltremare, che stavo ancora tenendo in mano e afferrai la cintura a cui era agganciato il pugnale, fermandola in vita in modo che la fodera pendesse dietro la mia schiena, fuori dal campo visivo di Alba.
Entrò socchiudendo un'anta della porta, con il solito sorriso gentile e rassicurante che aveva esibito ad ogni sua visita.
La sua era una finzione perfetta e, se non fossi stata certa che Durza mi aveva detto la verità e non avessi avuto prove sufficienti, sarei caduta nella sua rete per l'ennesima volta.
«Bentornata!» esclamò.
«Durza è venuto a cercarti» replicai freddamente.
«Lo so» cinguettò. «Ma io volevo prima parlare con te».
Sfiorai la sua coscienza. Ben difesa, ovviamente, avrei faticato parecchio a penetrarla.
Non appena si sentì sfiorare la mente Alba trasalì e i suoi occhi corsero alle mie mani, alla ricerca -come intuii- dell'anello di ametiste che doveva bloccare i miei poteri. Il monile cingeva ancora il mio indice sinistro, ma il leggero bagliore violetto delle pietre era svanito, così come il loro potere, e l'elfa dovette rendersene conto, perché il suo viso si deformò in una maschera di odio.
Decisi di scoprire le carte, tanto ormai non aveva più senso fingere.
«Durza mi ha detto tutto».
«Ti ha liberata» sibilò.
«Sì».
«Non doveva farlo».
«Per questo era venuto a cercarti: doveva dirti la verità».
Mi guardò con disprezzo. «Non gli avrai creduto, vero principessina?» Scoppiò in una risata sguaiata e folle, che mi diede i brividi.
«Vai a cercarlo, sarà lui a spiegarti» tagliai corto, cercando di evitare l'oneroso compito di spiegare ad una persona che odiava me e mia madre, che il suo padrone -e probabilmente amico e alleato- si era innamorato di me.
Si avvicinò di qualche passo e io indietreggiai di altrettanti, portando la mano sinistra dietro la schiena e stringendo l'elsa del pugnale.
«Tu non sai niente» sillabò Alba, sgranando gli occhi celesti. «Ti ha detto tutto? Non ci credo neanche un po'. Ti ha detto che vuole diventare re? Ti ha parlato della sua famiglia? Ti ha detto che ha ucciso tuo padre? Ti ha detto che controlla tutti gli Urgali sottomettendo le loro anime? Ti ha detto della carneficina di Yazuac? E del nostro patto?»
Tentennai. «Stai mentendo».
«Hai ragione, puoi dubitare di me, ma posso sempre rispolverare un po' di antica lingua per te».
«Potresti essere convinta di una menzogna. Smettila di recitare, so tutto di te. So chi sei e so cosa hai provato a farmi. Non ho bevuto il tuo veleno e non ho intenzione né di uccidermi né di farmi uccidere da te, quindi puoi rinunciare alla tua parte di messaggera della verità perché io non ti credo».
Rise. «Se non ti uccidi da sola sarò io a farlo. È il minimo che meriterebbe tua madre, per ciò che mi ha fatto».
«Hai tradito i principi cardine del nostro popolo, Islanzadi non avrebbe avuto scelta. Anche se io non sono ancora convinta che tu stia dicendo il vero» dissi senza battere ciglio.
Alba mi scoccò uno sguardo sprezzante. «Non osare farmi la morale, principessina. Tu non sai niente di me. Ti credi l’eroina della tua razza perché hai saputo resistere a qualche mese di torture, credi che il tuo popolo sia capace solo del giusto, ma non sai proprio niente. Sei cieca».
«Gli Elfi sono anche il tuo popolo!» replicai indignata.
«Ti sbagli».
«Sei tu quella in errore. So che hai provato a resuscitare tua sorella ed è probabilmente l'abominio più grande che potessi compiere. Un elfo che usa la magia nera non può sperare di continuare a vivere nella Du Weldenvarden».
Un’espressione di cupa soddisfazione le deformò il viso. «Non hai idea di quante cose meravigliose si possano fare con quel tipo di magia. È molto più potente e più ampia di quella che gli Elfi si limitano a studiare, e la ignorano per pura codardia, perché temono che possa sfuggire loro di mano».
«La ignorano perché è male» sibilai.
«La ignorano perché sono degli sciocchi, ecco perché! E hanno avuto paura di me quando mi hanno scoperta, tua madre ha avuto paura di me».
«Non tirare in ballo mia madre, non avrebbe mai fatto ciò che tu sostieni».
«Tua madre è stata colei che mi ha cacciata! Lei e i suoi consiglieri. Tutti quegli uomini e quelle donne che ti hanno cresciuta nella tua deliziosa bolla dorata. Io mi ricordo di te, principessina. Avevi diciannove anni quando mi hanno mandata in esilio e già scalpitavi per andartene da Ellesmèra, uscivi di nascosto dal palazzo e ti esercitavi al combattimento».
«Perdonerai la mia scortesia, ma non ricordo di averti mai vista».
«Ovviamente no! Tua madre ha insabbiato ogni traccia di me».
«Non ti credo».
«Eppure sai che in fondo è la verità, giusto? Ormai non avrei alcun interesse a mentirti. E non avrei motivo di avercela con te se tua madre non mi avesse veramente fatto un torto di tale portata».
Il suo ragionamento filava e, seppure con un po' di disperazione, cominciai a credere davvero alla sua versione. «Se lo ha fatto significa che era necessario» dissi, difendendo Islanzadi per l'ennesima volta.
«Cancellare la mia identità ed insabbiare la mia storia?» chiese lei con una punta di sarcasmo. «Avrebbe potuto imprigionarmi o farmi subire un processo davanti a tutti gli elfi, ma invece ha preferito agire di nascosto, con l'appoggio di pochi fidati e di eliminare la mia esistenza alla radice. Dovevo essere una gran brutta macchia nel suo regno perfetto per farmi questo. Mentre tu eri impegnata a farti imbottire il cervello di sciocchezze sulla perfezione e la bellezza della nostra razza quella stessa razza non ha esitato a cacciarmi, senza nemmeno volere ascoltare le mie ragioni».
«E che ragioni sarebbero?» la provocai. «Tutti hanno subito perdite ad Ilirea, perché tu avevi il diritto di reagire diversamente da tutti gli altri?»
Disprezzavo davvero Alba, le sue debolezze e le sue azioni, ma mi sentivo anche responsabile per l'ingiusto e terribile trattamento che le era stato riservato. E quei miei sensi di colpa mi infastidivano, quindi mi impegnai a nasconderli alla mia interlocutrice.
Alba ignorò le mie domande. «Non sai quanto sia stato difficile impormi di essere carina e gentile con te per tutti questi mesi». Mi si avvicinò. «Quando Durza mi fece chiamare per chiedermi chi fossi, sono stata contenta di potergli dire che eri la figlia della regina. Speravo che, sapute le tue origini reali, ti avrebbe spremuta come un limone maturo, fino ad ammazzarti. E io avrei finalmente avuto la mia vendetta sulla tua famiglia».
I suoi lineamenti gentili erano grottescamente deformati in un odio profondo, più radicato di quanto fosse mai stato quello che brillava negli occhi di Durza.
Ma di fronte a lei non sentivo quella debolezza che mi caratterizzava con lo Spettro. Lei non mi confondeva. Lei mi odiava e basta. E fu quasi un sollievo riuscire improvvisamente a trasformare la simpatia che avevo sentito in precedenza in freddo disprezzo e rancore.
Dopo mesi, mi sembrava di essere tornata pienamente la vecchia me stessa, calcolatrice e distante. E mi ero estranea.
«Ma lui non lo ha fatto» ringhiò Alba. «Io gli ho creato tutte le situazioni favorevoli per farlo. Ti ho anche fatta fuggire, perché lui perdesse la pazienza, ma niente. Durza aveva piani di altro genere per te, ma lo hai sedotto e lui è stato così ingenuo da lasciarsi abbindolare da te».
«Mi dispiace..» dissi, con evidente sarcasmo.
«Non provocarmi!» urlò avvicinandosi ancora e allungando le mani alla mia gola. Scattai di lato, sfuggendole.
«Sono stata al suo fianco per anni, decenni. E poi? Arrivi tu e in pochi mesi mi porti via tutto quel poco che ero riuscita faticosamente a ricostruire. Arrivi tu e ad un tratto perdo di nuovo la mia famiglia. Sei tale e quale a tua madre, cammini per la tua strada, fissando la luce della rettitudine, e ignori i poveracci che pesti durante il tuo cammino!»
Il suo tono si alzò fino a diventare un urlo isterico.
Non fui troppo sorpresa quando sentii i passi agili di Durza rimbombare sul pavimento. Lo Spettro spalancò le ante con furia, mandandole a sbattere contro le pareti e fissò Alba con ira.
«Cosa ci fai qui?»
«Mi hai tradita, brutto verme!» fu l'acida replica di Alba, che rivolse tutta la sua attenzione al nuovo venuto, ignorandomi.
«Tu mi hai tradito, disobbedendo ai miei ordini. Per quanto riguarda il resto, ti avrei spiegato» disse Durza, camminando cautamente nella sua direzione.
«Che cosa? COSA devi spiegarmi!? Quello che io ho capito un mese prima di te? Io ti avevo avvisato, te l'ho detto com'è fatta lei e la sua gente, ma tu non mi hai ascoltata. E ora guardati.. ridotto ai piedi di una frigida Principessa elfica, che non sta facendo altro che sfruttare la tua debolezza per raggiungere i suoi scopi».
Arrivò anche Hillr, trafelato. Probabilmente era alle calcagna dello Spettro, che però doveva averlo seminato. Il siniscalco riservò un'occhiata diversa ad ogni persona della stanza: timore per Durza, pietà per Alba e odio per me.
«Hillr vattene» comandò Durza. «Questa conversazione non ti riguarda».
«No, no!» lo interruppe Alba. «Riguarda anche Hillr, non è vero? Durza adesso cerca di capire chi sono i tuoi veri amici e chi sono i nemici. Io e Hillr ti abbiamo servito per anni con assoluta dedizione e non vogliamo che ti succeda niente di male». Raggiunse l'uomo e lo prese a braccetto, anche se lui non parve particolarmente entusiasta della piega presa dalla situazione. «Mentre quella», e mi indicò, «la conosci appena e per quanto ne sai potrebbe averti mentito su tutto».
«Non sono io quella delle bugie» dichiarai in tono neutro, gettando un'occhiata a Durza.
Lo Spettro era imperturbabile, ma continuava a fissare Alba, tanto che per un attimo mi chiesi se non le stesse credendo.
«Avevi grandi progetti» insistette lei. «Non puoi abbandonarli per un'infatuazione che si spegnerà nel giro di pochi mesi».
«Durza..» dissi a quel punto.
«Non temere» mi interruppe lo Spettro, senza guardarmi. «Ho già preso la mia decisione e non ho intenzione di tornare sui miei passi».
A quel punto Alba scattò. «Hai preso la tua decisione? Vuoi vivere con l'elfa? Fai pure, ma prima dovresti almeno trovare il coraggio di dirle la verità su Evandar, sugli Urgali e un paio di massacri e carneficine che hai compiuto negli ultimi secoli».
Durza parve ferito da quelle parole e i suoi occhi mi porsero delle mute scuse.
Era la verità, dunque?
Mi irrigidii un poco, ma non ebbi il modo di chiedergli conferma perché Alba rincarò nuovamente la dose.
«Lei non ti accetterà mai, capisci? Tu sei un mostro, come me, e nessuno -tanto meno un'elfa- potrà mai volerti bene o accoglierti con sincerità nella sua vita».
Le pupille dello Spettro si assottigliarono e la sua espressione subì un repentino cambiamento, diventando in un attimo grondante d'ira e di sofferenza.
Scattò in direzione di Alba e la atterrò, strappandola al braccio di Hillr, che scappò terrorizzato alla vista della pazzia del suo padrone.
Mi precipitai su Durza e lo afferrai per il mantello, tirandolo via dal corpo dell'elfa prima che la ammazzasse di botte e spingendolo a terra sotto di me. Alba aveva il labbro inferiore spaccato e un fiotto di sangue le usciva dal naso, inzuppandole i capelli color del grano. Tuttavia sorrideva. Non aveva reagito, anzi, sembrava quasi aver provocato deliberatamente l'ira di Durza.
Combattei per tenerlo inchiodato a terra per qualche istante prima che la consapevolezza gli illuminasse nuovamente gli occhi. A quel punto tornò padrone di sé e parve inorridito.
«Questo è ciò che ti aspetta» sibilò Alba. E sputò un grumo di sangue sul tappeto.
La ignorai e lasciai andare lo Spettro con cautela, permettendogli di alzarsi a sedere.
Ancora una volta le mosse di Alba erano volte a doppi fini. Ma se pensava che mi sarei sorpresa dell'improvviso attacco d'ira dello Spettro si sbagliava. Conoscevo i suoi demoni e sapevo che non sempre riusciva a tenerli imbrigliati, tuttavia fino a quel momento ero sempre riuscita a calmarlo, quindi l'intero spettacolo non mi spaventò più di tanto, se non per le condizioni in cui verteva Alba dopo il pestaggio.
Durza mi fissò, iniziò a tremare e non smise fino a che non iniziai a pettinargli i capelli tra le dita, un gesto che sapevo capace di calmarlo.
«Coraggio Durza, dille la verità e in pochi minuti ti volterà le spalle!» insistette Alba, forse delusa dalla mia mancata reazione alle mosse dello Spettro.
A quel punto però fissai il mio compagno, seduto davanti a me, alla ricerca di spiegazioni.
Forse speravo che negasse tutto ciò che aveva insinuato Alba e mi rassicurasse, ma non lo fece, e seppi in un istante che l'elfa aveva detto la verità e che Durza lo Spettro mi aveva mentito un'altra volta, nascondendomi verità scomode.
«Dopo» mi disse lui con voce melliflua, liberandosi gentilmente dalle mie mani e muovendosi in direzione della mia rivale.
Alba rifiutò sdegnata il suo aiuto, si guarì da sola e rimase immobile con le braccia incrociate sotto al seno.
«Non le parlerò davanti a te» specificò Durza, fronteggiandola.
«Ti sei davvero innamorato di lei» sentenziò l'elfa, sprezzante. «Mi sembrava che avessimo stabilito che l'amore era per i deboli e che né tu né io potevamo permettercelo».
«Sono sempre stato un debole, lo sai, ma Arya mi da forza, per una volta».
Scoppiò a ridere. «Ti stai solo raccontando delle menzogne. Non funzionerà mai. Un amore del genere.. nemmeno il più ardito cantore umano avrebbe mai osato immaginarlo. Finirete male, entrambi. Non c’è futuro per chi è così diverso come voi due!»
«Forse no. Ma vogliamo provarci» replicò lo Spettro, prontamente.
Mi alzai in piedi, alle spalle di Durza, e fui profondamente tentata di andarmene dalla stanza. Alba mi voleva morta, ma mi feriva che l'uomo al quale avevo offerto la mia vita avesse preferito non dirmi che era l'assassino di mio padre. Insomma, ero fuori posto, di nuovo.
Alba alzò il mento con compostezza e dignità, nonostante l’espressione folle che aveva il suo viso. «Sono stata bene nella tua casa, mio signore, ti ringrazio per avermi accettata quando nessun altro si era dimostrato disposto a farlo». I suoi occhi celesti scivolarono nella mia direzione. «Ci rivedremo, principessina Arya. Non chiedermi come, quando e dove. Ma ti giuro che ci rivedremo e non sarà divertente per te. Che tu e la tua famiglia siate maledetti. Auguro una lenta, dolorosa, vergognosa, disonorevole e orribile morte a te e a quella sgualdrina di tua madre!»
«Mi dispiace» dissi. E in parte ero sincera, perché la sua storia era veramente terribile e degna di pietà, ma io non avevo alcuna colpa per le presunte azioni di mia madre e non potevo fare nulla se non scusarmi al posto suo. Sempre che Alba non si fosse inventata tutto, ovvio.
Feci per aggiungere qualcosa, ma l’elfa aveva già voltato le spalle e tirato la porta dietro di sé.
Sciolsi bruscamente la tensione dei muscoli e sentii lo Spettro fare lo stesso.
«Hillr mi ha intrattenuto all'ingresso delle prigioni o mi sarei reso conto prima che Alba non era dove doveva essere. Perdonami» disse, con cautela, guardandomi circospetto.
«Non è colpa tua» risposi, atona.
«Arya mi dispiace, ti avrei detto tutto al momento opportuno..»
«Non esiste un momento opportuno nella nostra situazione» lo interruppi. «Quindi sei pregato di smetterla di trattarmi da sciocca».
Fece un gesto vago. «Avevo solo paura che tu te la prendessi e decidessi di andartene».
«Non sono una ragazzetta volubile. So distinguere il passato dal futuro e non ti accuserei mai di avermi tradita per aver fatto qualcosa che io stessa avrei fatto al tuo posto. Credevo che almeno questo punto fosse chiaro, dopo che ti ho parlato di Fäolin».
Era la prima volta che pronunciavo il suo nome di fronte a lui e un poco me ne vergognai, perché in qualche modo mi sembrava di aver infangato la sua memoria.
Durza capì a chi mi riferissi dopo qualche istante di riflessione e annuì.
«Sono uno sciocco, finisco sempre per sottovalutarti» confessò infine.
La mia rabbia si placò un poco. «Già».
«Ora vado finalmente a parlare con Alba. Tra qualche minuto verrà qualcuno a riempire la vasca, te non farti vedere e fai pure un bagno caldo. Quando tornerò metteremo tutto in chiaro, d'accordo?»
«D'accordo» concessi.
Poi allungai un braccio, d'impulso, afferrai la sua casacca e lo tirai a me per baciarlo sulle labbra.
«Tutto questo è reale» dissi. «Non dimenticarlo».
Il mio voleva essere un avvertimento: sapevo cosa avrebbe tentato di fare Alba e non volevo vedermi strappare Durza da sotto il naso dopo tutti quei mesi di confusione, errori e duri patti con me stessa.
Lo Spettro sorrise, scoprendo i denti aguzzi. «Lo so».
E se ne andò, quasi a malincuore, lasciandomi parecchio confusa e incerta sul mio futuro.
Avevo faticato a convincere lo Spettro che una vita insieme sarebbe stata possibile e temevo che Alba lo avrebbe facilmente trascinato nella spirale di odio e vendetta nella quale era avvolto prima che qualcosa scattasse tra di noi.
            Mi nascosi dietro al paravento quando due domestici vennero a portare acqua calda per il bagno e riordinarono il letto. Poi mi chiusi in bagno con la magia e mi abbandonai nel calore dell'acqua mentre mi toglievo definitivamente la sporcizia del viaggio di dosso. Lasciai i vestiti a terra e posai la fialetta ormai vuota del Fricai Andlat sugli scaffali di legno.
E intanto pensavo..
A quanto tempo ci stesse impiegando lo Spettro, alle cose che mi aveva taciuto e alle fragili prospettive che avevo davanti a me.
Mi lasciai trascinare dal gioco dei “se” e dei “forse” e mi chiesi cosa ne sarebbe stato della mia vita se Evandar non fosse morto poco dopo la mia nascita. Forse mia madre sarebbe stata un'altra persona, non chiusa nel suo dolore e nel suo astio e forse mi avrebbe voluto bene. Forse se i miei genitori fossero stati insieme avrebbero trovato le forze per opporsi con più energie a Galbatorix e non avrei dovuto passare la mia vita in funzione di Alagaësia.
E non avrei nemmeno conosciuto Durza. Era tutto un cerchio di dolore e felicità.
E a quel punto cosa mi aspettava? Cosa avremmo mai fatto dopo la sconfitta del re? Due vite fuori dall'ordinario come le nostre non potevano concludersi in una casetta anonima in una città umana, imprigionate in un'esistenza banale e ripetitiva.
Sapevo per certo che né io né lui lo avremmo mai sopportato. Avevamo deciso di camminare sullo stesso sentiero, ma non avevamo ancora deciso la direzione, ed era ormai una decisione necessaria se volevamo inseguire il sogno di una vita insieme.
Chiusi gli occhi e abbandonai la testa all'indietro. Il sapone che avevo usato per lavarmi i capelli aveva l'odore della salvia e del rosmarino. Ed ero ormai certa che fosse stata Alba a farmi un bagno, la prima volta che Durza mi aveva trovata in fin di vita nella mia cella.
Mi sporsi sulla mensola, alla ricerca di un altro sapone.

[Durza]
Era quasi mezzogiorno e ovviamente nulla era andato come lo Spettro aveva previsto.
Appena sveglio aveva deciso che avrebbe subito affrontato il problema spinoso costituito da Alba e poi si sarebbe goduto qualche ora di pace in compagnia di Arya.
Ma Alba aveva agito di testa sua e la Principessa stava probabilmente facendo un bagno solitario in quel momento, rimuginando sulle sue bugie e sui suoi errori. Forse non avrebbe dovuto lasciarla a macerarsi nell'incertezza, ma temeva veramente che Alba sparisse da Gil'ead prima di riuscire a farla a ragionare.
Trovò l'elfa nella sua stanza al piano terra, intenta a preparare un bagaglio con abiti e coperte.
«Alba fermati».
Lo ignorò. «Tu hai fatto la tua scelta e io ho fatto la mia. Semplice, non ti pare?»
«Non ho rinunciato a sconfiggere il re e almeno questo dovrebbe importarti. Insomma in fondo è lui ad avere causato la morte di tua sorella».
«Non provarci con me, Durza, non funzionerà».
«Cosa?»
«La voce suadente!» specificò rabbiosa, lanciando un mantello pesante nella sacca. «Forse la principessina cadrà ai tuoi piedi, ma io no. Puoi credere ciò che vuoi, ma Islanzadi mi ha impedito di riprendermi Solus e in qualche modo l'ha uccisa una seconda volta, per poi uccidere anche me! Tu lo sapevi», gli puntò un indice al petto, «tu lo sapevi perfettamente, eppure abbandoni la nostra alleanza per la figlia della stessa donna che ha distrutto la mia vita, DUE volte in una!»
«Calmati adesso!» rispose con altrettanta furia. «Mi hai già provocato a sufficienza per oggi».
E anche in quell'istante sentì gli spiriti muoversi inquieti e assetati di sangue. Mai come in quel momento la gola di Alba gli parve incredibilmente morbida e perfetta da azzannare.
Distolse lo sguardo bruscamente non appena si rese conto che lei lo stava fissando, sorridendo con disprezzo.
«Tu non mi ucciderai. Non l'hai fatto negli ultimi decenni e sicuramente non lo farai oggi. Prima non ti avrei mai provocato in quel modo se non fossi stata sicura che ti saresti fermato».
«
Arya mi ha fermato. E solo perché, al contrario di noi, non ama le morti inutili, anche se di un nemico».
«Sei ridicolo».
«E tu sai che è così. In qualche modo ti ha salvato la vita, pochi minuti fa».
Alba chiuse la sacca. «Questo non cambia le cose. Tu hai scelto una nuova alleanza e io non posso sopportarla, quindi me ne vado per la mia strada».
Durza ringhiò frustrato. «Potrebbe servirmi anche il tuo aiuto per sconfiggere il re».
L'elfa lo guardò con attenzione. «Tu mi hai promesso del potere, ricordi? Potere e il corpo di Arya. Ora mi dici che sì, possiamo uccidere il re, ma non avrò mai ciò che mi spetta. Prima servivi ai miei scopi e ora non più, quindi non ho alcun interesse a rimanere al tuo servizio».
«Ma mi hai giurato fedeltà» le ricordò.
«Vuoi costringermi a rimanere contro la mia volontà? Fallo pure, e io renderò la tua vita un inferno, nei limiti permessi dal mio giuramento ovviamente». E sorrise sinistramente. «Oppure potresti tornare sui tuoi passi, darmi la principessa e sconfiggere Galbatorix con il mio aiuto. Poi uccideremo Ajihad, tagliandolo pezzo per pezzo, come hai sempre sognato. Credevo che la vendetta per la tua famiglia fosse il tuo principale dovere e obiettivo, dopo l'orribile trattamento che è stato riservato loro».
Durza sentì la fronte velarsi di sudore gelido. «Quelle erano le mie priorità, ma poi Arya mi ha offerto un'alternativa e mi ha aperto gli occhi. Non so che farmene del potere e della vendetta se poi sarò condannato ad essere infelice per tutta la mia vita. La morte di Ajihad non mi restituirà la mia famiglia e il mio maestro».
«No», sorrise lei, «ma io potrei farlo».
Lo Spettro esitò, basito. «Tu?»
«Stavo per riportare in vita mia sorella, ricordi? Non ero ancora giunta ad una soluzione, ma con qualche ricerca e qualche altro mese di memorie recuperate riuscirò a trovare il modo. A quel punto sia io che tu potremo recuperare le nostre vecchie vite e cancellare un secolo di sofferenze. In qualche mese dimenticherai la principessa e chissà, magari troverai un'altra bella donna capace di darti amore, se è ciò che desideri».
«Una come te?» chiese, con sarcasmo, sentendo tuttavia una parte di lui cedere alle lusinghe di Alba.
Lei si portò i capelli sulle scapole con un gesto grazioso. «Perché no? Già in passato hai mostrato di essere attratto da me. Magari in qualche anno riusciremo a trasformare la nostra amicizia in amore e ci ricostruiremo una vita, circondati dalle persone a cui teniamo più al mondo. Non dirmi che non sarebbe bello, mio signore, perché non ti crederò».
Durza si stropicciò gli occhi con l'indice e il pollice e mise sulla bilancia le ennesime scelte che si trovava davanti. Ma non riusciva proprio a valutare quale dei piatti pesasse di più.
Aveva amato i suoi genitori, sua sorella e Haeg con tutto il suo cuore, ma ormai erano passati talmente tanti anni che a malapena ricordava i loro volti. Per oltre un secolo, l'odio che sentiva per la loro perdita era stato il movente di tutte le sue azioni, ma non si era mai reso conto che ormai quelle persone erano diventate ombre. Le amava così come le ricordava, nel suo passato, nel loro contesto.
Pensò all'orgoglio negli occhi dei genitori, l'adorazione in quelli della sorellina e l'approvazione in quelli di Haeg e si chiese come lo avrebbero guardato che avessero visto cos'era diventato; come avrebbero reagito nel risvegliarsi all'improvviso, cento anni dopo.
Poi pensò ad Arya, alle sue promesse e alle sue speranze e alla grande incognita che il futuro con lei rappresentava. Una pagina bianca. Faceva paura, ma era anche estremamente eccitante. Forse non avrebbe mai avuto ciò che voleva, ma ciò di cui aveva bisogno sì. E ormai gli risultava difficile pensare a un domani in cui non avrebbe trovato gli occhi taglienti di lei, la sua intelligenza vorace e il calore del suo corpo.
«Credi che i morti vorrebbero davvero tornare?» finì per dire.
Alba parve sorpresa. «Non lo so, ma.. non esiste una seconda vita dopo la morte, quindi per loro sarebbe come.. risvegliarsi dopo un lungo sonno, ecco!»
Ma nemmeno lei era certa delle sue stesse parole e forse cominciava a comprendere ciò che lui stesso aveva appena intuito: magari i morti volevano restare nel nulla dov'erano relegati e non sarebbero mai più stati gli stessi se fossero stati strappati alla loro pace. Forse avevano lasciato una vita in sospeso, ma non avrebbero voluto completarla dopo avere raggiunto una condizione di totale non sofferenza.
Sempre che non esistesse un aldilà dove gli dei giudicano e gli uomini sono puniti o premiati. Quello lui non lo sapeva, ma gli risultava difficile crederci.
Chinò il capo e si rese conto di stare sorridendo. «Addio, Aiedail» disse, nell'antica lingua. «Ti auguro tutta la fortuna di questo mondo. Grazie per la tua amicizia, ma credo che le nostre strade si siano ormai separate».
Non reagì quando lei gli posò le mani sulle spalle e si alzò in punta di piedi per baciarlo.
«Solus era la mia gemella» sussurrò Alba, a pochi pollici dalle sue labbra. «Gli elfi sono poco fertili e una nascita simile è salutata come una specie di miracolo della natura. Io e lei eravamo una cosa sola e non posso pensare di vivere senza di lei o non punire coloro che hanno tentato di tenerla lontana da me. Uccidi il re e costruisci la tua vita con Arya, ma vigila attentamente su di lei perché vorrò sempre ucciderla, fosse solo per fare provare a sua madre un millesimo della sofferenza che ho provato io quando ha distrutto le mie speranze».
«In tal caso spero che non ci rivedremo mai più».
«Lo spero anche io.» Lo baciò nuovamente. «Addio, mio signore».
E gli passò accanto, abbandonando la presa sulle sue spalle concludendola con una carezza.
«Ah, un'ultima cosa!» lo richiamò, a tradimento.
«Cosa?» domandò incrociando nuovamente i suoi occhi azzurri.
«Negli ultimi giorni cercavo di divinarti, non per capriccio, ma perché dovevo darti informazioni importanti: Galbatorix arriverà a Dras-Leona entro la fine di questa settimana. A quanto pare Lord Tàbor ha intascato dei soldi riservati ai forzieri reali per potersi godere qualche lussuoso banchetto di troppo. E poi a quanto pare le tue spie di Belatona hanno incrociato il figlio di Morzan laggiù, da solo».
«Grazie» disse, prendendo atto del suo tono distante.
Con un ultimo gesto, l'elfa scostò nuovamente i lisci capelli biondi dal volto e sparì per sempre dalla sua vita, lasciando dietro di sé il suo profumo delicato.
Durza scacciò l'inevitabile senso di tristezza e abbandono che gli scese sul cuore e tornò nella sua stanza, non prima di aver lasciato l'ordine di portargli il pranzo in camera. Un pranzo dove abbondassero pane e formaggio, oltre alla solita carne.
Si sentiva come se un'ombra che per tutta la sua vita gli aveva pesato sulle spalle fosse svanita. Aveva finalmente accettato la morte dei suoi cari, a quel punto non gli restava che superarla, e c'era una sola persona che avrebbe potuto aiutarlo in tale impresa.
Arya sobbalzò quando spalancò le porte di quercia e protestò con poca convinzione quando le aggredì le labbra, ribaltandola sul materasso. Poi chiuse gli occhi e le sue dita affusolate si strinsero tra i suoi capelli.
Con una fiamma di gioia feroce che gli ardeva nel petto, Durza lo Spettro continuò a baciare la sua ex-prigioniera, fino a che gli parve impossibile che entrambi fossero ancora in grado di respirare.

[Arya]
Avevo programmato ogni cosa.
Come avrei cominciato il discorso, come Durza mi avrebbe risposto, come lo avrei lentamente portato a dirmi tutto senza temere nessuna mia reazione.
Poi lo Spettro entrò, travolgendomi come una tempesta e i miei pensieri sfumarono nella nebbia, mentre un fuoco sopito si riaccendeva nelle mie membra, bruciandole di desiderio.
Abbandonai il libro con le illustrazioni degli strani animali e risposi con entusiasmo al bacio aggressivo di Durza, che durò tanto a lungo da farmi dimenticare dove fossi e cosa fosse successo.
Quando riuscii infine a staccarlo da me mi resi conto che stava ridendo e che i suoi occhi grondavano felicità ed entusiasmo. E mi contagiarono in un istante.
«Cosa mi sono persa?» mi informai sorridendo e sfiorandogli il volto.
«Sono tuo, Principessa». E mi raccontò dell'intera conversazione avuta con Alba, tutto nei minimi dettagli, senza nemmeno escludere la parte in cui lei lo baciava.
Apprezzai la disarmante sincerità e la sua soddisfazione nell'avere infine abbandonato il proprio passato in vista di un nostro futuro insieme mi rese felice. In un attimo fui certa che gli avrei perdonato tutto, ogni verità nascosta e ogni malefatta, purché non la ripetesse.
Mi nascosi quando arrivarono due servi a portargli il pranzo e poi lo condividemmo fino a spazzolare tutto il contenuto del vassoio. Era un pasto decente e sostanzioso, il primo da giorni, e mi parve che tutto avesse un nuovo sapore. Mangiammo distesi sul letto, mentre lo Spettro sfogliava rapidamente il libro
Le creature d'oltremare, sostenendo che esistessero davvero.
Poi Durza andò a farsi un bagno.
«L'invito è ancora valido» mi richiamò da dietro la porta.
Ma non lo raggiunsi e mi dissi che avrei dovuto chiedergli un paio di indumenti da uomo una volta che fosse uscito dalla stanza. Avevo lavato e asciugato con la magia l'abito che avevo indossato nel viaggio da Gil'ead a Dras-Leona e anche le brache e la fascia, ma avevo davvero nostalgia di un paio di pantaloni e di un farsetto accollato.
Spazzolai le briciole dalla coperta e riposi il vassoio con la caraffa d'acqua ormai vuota sul tavolinetto addossato alla parete, tra il palchetto che ospitava il letto e la libreria.
E poi pensai ad Alba, ammettendo infine con me stessa che tutto ciò che mi ha detto doveva essere la verità. Compresa la parte riguardante mia madre. Ed ero turbata. Sia perché era dura credere che Islanzadi avesse davvero violato e distrutto la mente di un essere senziente, sia perché la minaccia che Alba aveva lasciato allo Spettro non mi dava pace, né me ne avrebbe mai data.
Durza riemerse dalla stanza da bagno con i capelli asciutti e solo un paio di pantaloni addosso. Il sole d'argento pendeva all'altezza del suo cuore, donando ancora più biancore alla sua pelle.
«Che delusione, piccola Elfa, aspettavo davvero che qualcuno venisse a lavarmi la schiena» disse, canzonandomi e allungandosi sul letto, dove recuperò nuovamente
Le creature d'oltremare.
«Chi c'è nella mia cella adesso?»
«Dopo andrò a creare un'immagine tua in modo da ingannare le guardie. Almeno così potrò tenerti qui con me».
Seguii il suo sguardo sull'immagine del cavallo con il manto a strisce bianche e nere. «Potremmo andare a cercarli» dissi infine, richiamando la sua attenzione. «Dopo che il re sarà sconfitto potremmo pagare un equipaggio e andare oltremare. Esplorare terre sconosciute, trovare quegli strani animali e scrivere dei trattati.. cose così insomma».
Lo vidi sorpreso. «Mi piacerebbe moltissimo, ma a te?»
«Se te l'ho proposto significa che l'idea mi piace, non credi?»
Si sporse a baciare le mie labbra, ancora secche per il lungo scambio di prima. Sentii di nuovo il sapore di menta.
«Niente intruglio profumato, Principessa?»
Doveva riferirsi al Nalgask. «Temo sia rimasto nella cattedrale. Ma non puoi permetterti di criticarmi, Spettro».
Inarcò un sopracciglio. «Ti infastidiscono le mie labbra?»
«Sono screpolate».
«Ho la scomoda abitudine di leccarmele, ma se mi presti le tue posso farlo su di te». E mi morse un labbro, gettandomi uno sguardo che mi diede i brividi.
Scostai svogliatamente gli occhi dal suo torace pallido e mi imposi di porgli infine le domande che mi ero preparata quella mattina.
«Devi ancora chiarirmi ciò che mi ha detto Alba».
«Purtroppo era la verità» ammise stringendo le labbra. «Ho scoperto di tuo padre solo quando me ne hai parlato tu, la mattina che siamo entrati nella cattedrale e non volevo allontanarti da me dato che in quel momento avevo ancora intenzione di.. sfruttarti per deporre il re. Dopo quella notte al Covo avevo semplicemente paura che tu reagissi nel modo sbagliato».
«Mi dispiace per la sua morte, ovviamente, ma non ho intenzione di ripudiarti perché era tua la spada che gli ha mozzato la testa. Del resto non l'ho mai conosciuto e tu non sapevi nemmeno chi fossi all'epoca».
«Non sapevo nemmeno che esistessi» confermò. «E ora immagino di doverti una spiegazione anche per gli Urgali».
E così fece. E finalmente seppi perché gli Urgali fossero al servizio dello Spettro. La notte delle terribili verità, nella cattedrale, Durza mi aveva semplicemente detto che gli Urgali erano le sue spie ed avevano intercettato Brom e il Cavaliere a Yazuac, in quel momento mi disse che in realtà stava dominando le loro coscienze, riducendoli a macchine votate all'obbedienza.
Mi garantì che li avrebbe lasciati liberi dopo che il re fosse stato sconfitto e che a quel punto saremmo stati costretti a fuggire da Alagaësia a gambe levate, perché quelle creature avrebbero voluto la sua testa.
«E io che credevo di non essere brava a farmi degli amici».
«Tra gli uomini si dice che al peggio non c'è mai fine, quindi non temere, ci sono tanti altri peggiori di te e forse anche di me».
Poi, titubante, ammise di aver permesso agli Urgali di compiere una vera e propria strage a Yazuac, dove a detta loro non c'erano stati sopravvissuti.
            Passammo in quella maniera tutto il pomeriggio: parlando di tutto e riposandoci. Hillr venne a bussare alla porta, ma Durza disse di non disturbarlo fino al giorno seguente e subito dopo andò nella mia cella per creare una mia proiezione che ingannasse i soldati. Quando si fece buio lo Spettro chiamò qualcuno a svuotare la vasca e a portargli la cena.
«Sarai costretta a rimanere nascosta qui dentro per un po'. Tra non molto il re mi ordinerà di portarti a Uru'baen e allora agiremo».
«Quanto?» mi informai, un po' intimorita.
«In realtà spero ancora diverse settimane» confessò stringendomi a sé.
Parlammo molto più di quanto fossi abituata a fare con chiunque, persino con Fäolin. Parlammo fino a che le parole non servirono più e io riscoprii il sottile piacere di poter gettare vaghe basi del proprio futuro con quella spensieratezza e quell’ottimismo tipico degli ignoranti.
Avevo sempre saputo che più si conosce la vita più si è consapevoli della sua crudeltà, ma avevo quasi dimenticato l'esistenza di quelle semplici azioni piacevoli, che, anche se fugaci, in quel momento mi davano una gioia incalcolabile.



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Ciao a tutti ^_^
Come al solito un po' in ritardo, ma eccomi qui con il capitolo!
Non ho molto da dirvi in verità, ma ci tengo a chiarire la questione prima che mi venga sottoposta: Alba non è innamorata di Durza. Tiene molto a lui e lo considera il suo salvatore e la sua ancora, quasi un fratello, ma rimane abbastanza fredda da abbandonarlo quando si rende conto che ormai non potrà più aiutarla nei suoi scopi.
Ah e ovviamente gli strani animali che vede Arya nel libro sono zebre, giraffe ed elefanti! xD
Ultima puntualizzazione: se state cercando di orientare la storia secondo la timeline di Eragon, vi informo che mentre Durza e Arya giocano a fare i piccioncini, Brom e Eragon vagano per Dras-Leona, dopo la prima notte passata al Globo d'oro, alla ricerca di informazioni sui Ra'zac!
Vi lascio con uno schizzo della camera di Durza per meglio orientarsi :D
Alla prossima settimana! Baci a tutti,
Lalli

cdd

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Capitolo 30
*** Climax ***


Ciao
30. Climax

[Hillr]
Il siniscalco di Gil'ead si sentiva umiliato, piccolo e schiacciato come uno scarafaggio.
Quando Alba era venuta da lui, in piena notte, per informarlo del ritorno del suo padrone e dell'elfa, erano rimasti svegli per un'ora intera per macchinare un piano.
Il mattino seguente, lui avrebbe dovuto intrattenere il governatore Durza, mentre Alba avrebbe convinto l'elfa a seguirla fuori dalla città e lì l'avrebbe uccisa. A quel punto l'avrebbero accusata di essere fuggita di sua spontanea volontà e avrebbero sostenuto che Alba si era lanciata al suo inseguimento per fermarla, finendo poi per ammazzarla per difendersi da un suo comportamento aggressivo.
Non sembrava difficile da realizzare e aveva accettato di buon grado, anche perché quella soluzione gli avrebbe permesso di rimanere in qualche modo fuori dalla situazione, e quindi innocente agli occhi del suo signore. Era decisamente un'idea migliore di quella di farsi ammazzare pur di liberarsi di quella malefica creatura dai capelli neri come inchiostro e occhi di un verde così improbabile da risultare demoniaco.
Peccato che nulla fosse andato come avevano previsto.
Aveva bloccato Durza lo Spettro -ancora in malandati abiti da viaggio- all'ingresso delle prigioni e lo aveva tempestato di informazioni sull'andamento dell'ordinaria amministrazione di Gil'ead, riferendogli anche le più inutili piccolezze. Il suo padrone era rimasto immobile ad ascoltarlo, palesemente seccato, per qualche minuto, ma poi aveva inclinato la testa di lato e corrugato la fronte, per poi correre a tutta velocità in direzione delle sue stanze.
Se si fosse preso due minuti per riflettere avrebbe probabilmente abbandonato il piano e si sarebbe ritirato nelle sue stanze, ma si era ritrovato ad inseguirlo, d'istinto. Alba l'aveva coinvolto nel dibattito per metterlo contro l'elfa e in quel momento l'uomo si era reso conto che il suo signore era veramente infatuato di quell'essere, più di quanto avesse immaginato. E si era ripromesso di aprirgli gli occhi.
Ma poi Alba aveva detto qualcosa di sbagliato e lui era fuggito come un codardo di fronte allo sguardo vacuo e infuocato di Durza.
Era rimasto a lungo nelle sue stanze, a piangere il suo destino crudele, che lo voleva sempre implicato in situazioni troppo grandi, che lui non era in grado di affrontare.
Poi aveva visto Alba scendere in cortile e le era corso dietro.
La giovane indossava un mantello leggero e aveva i capelli biondi stranamente sciolti sulle spalle, impegnati a coprire la parte superiore di una sacca da viaggio stracolma.
«Alba!» l'aveva richiamata.
E lei si era voltata, con un'espressione addolorata e insieme risoluta stampata in volto.
Era bellissima, come al solito, e se ne stava andando.
«Abbiamo fallito» aveva dichiarato lei.
«E hai già rinunciato?»
«Ho parlato con Durza e so per certo che non ci sarà una seconda occasione per poterci liberare dell'elfa. Per questo me ne vado: ora non ho più nulla da fare qui».
«E dove andrai?»
«A sud, credo. A cercare un nuovo alleato e una nuova occasione».
La sua affermazione era così vaga da confonderlo inevitabilmente. «Che genere di occasione?»
Aveva sorriso innocentemente. «So che c'è un eremita nelle lande tra l’Helgrind e le Pianure Ardenti. Per il momento mi rifugerò lì. Non lo conosco, ma credo che non disprezzerà la mia domanda di diventare sua allieva. Se avrai bisogno di me potrai sempre mandare qualcuno a cercarmi».
«Mi sfugge il perché».
«Voglio perfezionare la mia arte magica. Non guardarmi così, mi è necessario, e potrebbe essere utile anche a te se in un futuro diventerai governatore di Gil'ead».
«Non lo diventerò mai» aveva obbiettato lui. «Il nostro signore è immortale, lo sai».
Sempre sorridendo ampiamente, la donna si era avvicinata a lui. «Durza non rimarrà a lungo a Gil'ead. Non so dirti cosa succederà esattamente, ma vedrai che in un paio di mesi qui ci sarà un posto vacante e, se saprai giocare bene le tue carte, potrai facilmente prendere il potere al posto di Durza».
«Non tradirò mai il mio signore!» aveva esclamato, indignato.
E sapeva che non avrebbe mai cambiato idea, né per tutto l'oro del mondo, né per qualsiasi seggio governativo. Durza lo Spettro gli aveva salvato la vita e dato un futuro e lui non sarebbe stato così ingrato da dimenticarlo.
Ma Alba era scoppiata a ridere sommessamente, coprendosi i denti bianchi con la mano.
«Non voglio che tu lo tradisca» gli aveva sussurrato. «Le cose stanno cambiando, gli equilibri di Alagaësia stanno vacillando e il re ha un punto debole che potrebbe essere sfruttato per sconfiggerlo».
«Non mi starai dicendo che il nostro signore complotta contro di lui, vero?» aveva chiesto con timore, riducendo la voce ad un sussurro, tanto che temette che lei non l'avrebbe nemmeno sentito.
E invece lo sentì alla perfezione. «Nel caso fosse così lo tradiresti?» lo aveva provocato.
«No».
«Allora fidati di me: rimani al servizio di Durza e mostrati disposto alla più cieca obbedienza, anche a rinunciare di mettere le mani sull'elfa. Tra qualche mese la situazione può aver preso due pieghe: o il re avrà ucciso Durza o i Varden avranno insediato un nuovo governo. In entrambi i casi potrai sfruttare le tue capacità e dimostrarti disposto a collaborare, magari scaricando tutte le colpe su Durza stesso, e sono certa che non ti sarà negato un posto di prestigio. Dimostra che nessuno possiede la tua fedeltà e chiunque siederà sul trono vorrà accaparrarsela. In ogni caso, ti prego, avvisami di come si evolvono gli eventi».
Un po' scosso, aveva annuito. «Va bene, ti ringrazio».
Lei gli aveva afferrato le mani. «Allora a presto, amico mio. Manda un messaggero a cercarmi con un qualche segno di riconoscimento -anche una lettera con le tue sigle- e se vedrò un uomo vagare tra l’Helgrind e le Pianure Ardenti saprò riceverlo e rimandartelo qua a Gil'ead con una risposta». Si era portata le sue mani sul petto, all'altezza del cuore. «In me avrai sempre una preziosa alleata, ricordati».
E poi era corsa via, bella come un sogno, con i capelli di seta che ondeggiavano dietro di lei. E lui l'aveva lasciata andare, un po' a malincuore. Quella ragazza era strana: inizialmente era stato spaventato da lei, perché sapeva che praticava la magia -e lo dimostrava il fatto che, nonostante la conoscesse da vent'anni non sembrava invecchiata affatto, forse grazie a qualche incantesimo- ma in fondo era sempre stata gentile con lui e, dopo la fuga dell'elfa dalla sua stanza, lo aveva avvicinato e gli aveva proposto una sorta di alleanza contro quella creatura. E lui aveva accettato volentieri, trovando in lei una degna confidente. In quel momento non si era sentito un traditore nei confronti del suo signore, si era sentito l'eroe che l'avrebbe salvato dal compiere errori di cui si sarebbe duramente pentito.
Ma aveva fallito e ormai aveva anche perso la sua alleata.
E come se non bastasse, Durza non aveva accettato di parlare con lui per tutto il pomeriggio e nemmeno il mattino dopo. Sapeva che era nella sua camera da letto con l'elfa e che lei doveva avergli detto qualcosa su di lui. Qualcosa che il suo padrone doveva aver preso sul serio, tanto da non volere nemmeno vederlo.
Così si rifugiò nel suo studio, dove svolgeva i doveri di governatore in sua vece. E si mise a riflettere sulla sua vita.
Aveva ormai superato la mezza età e non aveva combinato assolutamente nulla. Né di buono né di cattivo.
Era sempre vissuto all'ombra di qualcuno: sua madre prima e Durza lo Spettro poi. Non aveva mai potuto dimostrare a nessuno le sue abilità e nessuno gliele aveva mai riconosciute. Certo, il suo signore lo aveva salvato dalla morte, ma lo aveva sempre trattato alla stregua di un servo, nonostante facesse tanto per lui. Praticamente governava Gil'ead al posto suo, visti i numerosi viaggi che egli compiva per tutta Alagaësia, con brevi soste di non più di qualche mese nella città che gli era stata affidata dal re.
L'umiliazione che aveva sentito per l'atteggiamento del suo padrone si trasformò in rabbia. Ma poi la rabbia si spense e divenne determinazione.
Alba gli aveva detto il vero, ne era certo. Lei non gli avrebbe mentito mai. E se Durza lo Spettro avesse davvero abbandonato il suo seggio, allora lui avrebbe preso il suo posto e sarebbe diventato qualcuno, finalmente. Non il figlio bastardo, non il figlio della strega, non il leccapiedi del mostro.
Ma Hillr, il governatore di Gil'ead.
E quelle stesse persone che avevano condannato e arso viva sua madre avrebbero dovuto seguire i suoi comandi e concedergli il loro rispetto.
Non doveva nemmeno tradire il suo salvatore, doveva solo ubbidirgli e aspettare. E lui avrebbe aspettato. Non faceva altro da quando era venuto al mondo.

[Arya]
Il mio incubo era stato meno pesante del solito quella notte, così potei riposare più serenamente fino all'alba, quando Durza si spostò lievemente, ridestandomi.
Nonostante fossi ormai sveglia, giacqui accanto a lui per un'altra buona mezzora, con la testa posata sulla sua spalla nuda e la coperta imbottita sollevata fino al mento, fino a che non sentii il suo respiro diventare più forte, segno del suo imminente risveglio. E in effetti lo Spettro schiuse gli occhi cremisi un istante dopo e mi stampò prontamente un bacio sulle labbra.
«Apro le tende» decretò. E scattò in piedi per eseguire.
Scesi a mia volta dal materasso e mi stesi l'abito stropicciato sulle cosce, lisciandolo.
«Durza che ne dici di procurarmi un paio di pantaloni e una camicia?» domandai.
Lui spalancò le tende, inondando la stanza della lieve luce del sole non ancora sorto e mi squadrò da testa a piedi. «Così mi piaci, Principessa».
«Non ho chiesto il tuo parere» osservai.
«Diamine, come ho potuto credere di contare qualcosa per te!» rispose con sarcasmo, aprendo la porta della sala da bagno e sparendovi all'interno.
Sentii lo sciacquio tipico di una massa d'acqua in movimento e capii che si stava lavando il viso nel catino incastrato sul piedistallo accanto allo specchio, che ben conoscevo.
«Non capisco perché una donna non possa indossare i pantaloni, tra gli umani. Insomma sono decisamente più pratici di una gonna».
«Alla corte degli elfi li porti spesso?» mi gridò Durza dalla stanzetta.
«Poco» ammisi. «Ma sono in casa tua, non alla corte degli elfi».
Lo Spettro si sporse dalla porta e mi sorrise. «In ogni caso dovrò ridarti i vestiti che avevi addosso quando ti ho catturata, Arya. Lord Barst potrebbe avere la cattiva idea di ricordarli e non credo che ci sia nulla di sospetto nell'averti cambiato abiti, ma non si sa mai».
«Li hai conservati, vuoi dire?» mi informai dubbiosa.
Annuì. «Da qualche parte in una delle cassapanche lì dietro». E accennò al paravento.
Trovammo i miei vecchi vestiti -puliti- ammucchiati in una sacca di iuta, insieme ai miei vecchi stivali. Guardai il tutto presa da sentimenti e ricordi contrastanti: libertà, il fuoco, le torture, una vita così lontana che non sembrava nemmeno mia.
Durza pareva intenzionato a lasciarmi qualche istante per me e -aperta l'altra cassapanca- iniziò a vestirsi. Non serviva essere esperti per capire che gli indumenti che aveva indossato per tutto il nostro viaggio erano di qualità di gran lunga inferiore di quelli che stava estraendo in quel momento: una camicia morbida e una casacca che sembrava di velluto nero. Insieme ad un paio di stivali lucidi e decisamente più nuovi di quelli marrone scuro che aveva indossato per correre. Tuttavia ad attirare la mia attenzione fu una specie di piccola borsa che estrasse per ultima e indossò a contatto con la pelle.
«Cos'è?»
Lo Spettro mi guardò sorpreso, forse credendo che fossi intenta a rimirare i miei abiti, piuttosto che guardare lui vestirsi. Mi imbarazzai un poco e scostai gli occhi da lui per riportarli sui miei vecchi pantaloni neri.
«Si tratta di una protezione per il cuore, piccola Elfa. Vuoi vedere?»
Alzai lo sguardo e lo seguii incuriosita mentre si allacciava quella che a prima vista era sembrata una sacca, mentre in realtà doveva essere un cuscinetto imbottito e corazzato. Una metà andava sul torace e l'altra sulla schiena.
«Non mi protegge totalmente» mi informò Durza. «Una lama potrebbe passarmi dalle clavicole o tra le costole, sul fianco. E decisamente non mi salverebbe da un colpo di spada ben assestato. Ma in ogni caso potrebbe risparmiarmi una morte idiota».
Mi alzai e sfiorai la placca corazzata, picchiettando leggermente l'indice su di essa. «È una precauzione saggia» concessi. «Sei mai..?»
«Morto?» Ghignò.
«Esatto».
«No. E non chiedermi come funzioni il processo di rigenerazione perché non ne ho la più pallida idea. So solo che se anche mi spaccassero la testa non morirei totalmente».
«Quindi non sai nemmeno quando morirai di morte naturale?»
Scosse la testa. «Non sono nemmeno sicuro che morirò. Credo che comunque ci sarà qualche segnale del mio decadimento fisico prima di ritrovarmi nel nulla».
«Sembri ancora un uomo giovane» lo rassicurai. «Quando ti ho visto il giorno dopo l'agguato non ti avrei dato più di venticinque primavere. Umane, ovviamente».
«Effettivamente dovevo avere circa venticinque primavere quando sono diventato uno spettro» disse. «Mio padre sapeva contare, ma non credo che abbia mai seguito l'età mia e di mia sorella, quindi non ne sono certo».
Stavo per chiedergli di raccontarmi del suo passato e della sua famiglia, ed ero certa che in quel momento mi avrebbe risposto, ma a quel punto qualcuno bussò alla porta.
«Mio signore sono io» fece la voce di Hillr.
«Non ora!» lo cacciò lo Spettro aspramente.
«Forse ha visto qualcosa di troppo» osservai, ricordando lo sguardo acceso di odio che mi aveva lanciato.
Hillr mi detestava e mi aveva più volte minacciata. E non escludevo che si sarebbe abbassato a compiere qualche atto avventato pur di farmi sparire dalla sua vista. Già sospettavo la sua complicità con Alba vista la sincronia con cui aveva trattenuto lo Spettro in modo che lei potesse venirmi a parlare, da sola.
Ma forse era solo la mia immaginazione.
«Non mi tradirà» insistette Durza.
«Nemmeno Alba doveva tradirti».
Schioccò la lingua contro il palato. «Sarà meglio che faccia un discorsetto con Hillr, allora. Gli dirò di tenere la bocca chiusa su di te».
«E per quanto riguarda i miei abiti?» mi informai accennando alla pila che giaceva ai miei piedi.
«Tienili da parte. Non mi sembravano troppo malmessi e credo che dovresti indossarli quando ci sposteremo verso Uru'baen».
«D'accordo». Li raccolsi e li riposi nella cassapanca.
Lo Spettro finì poi di vestirsi -indossando lo stesso mantello di pelli di serpente che aveva indosso il giorno che aveva affrontato Lord Barst- e uscì, alla ricerca di Hillr. Per il resto del giorno lo vidi solo a pranzo, quando venne in camera con un vassoio ricolmo di cibo, e all'ora di cena, quando mi venne a prendere e mi trascinò con sé in una stanza poco lontana dalla sua camera da letto: il suo studio.
Era una stanza semplice, con una grande scrivania che ospitava pile di carte ordinate e una sola sedia, così che chiunque venisse ricevuto fosse costretto a rimanere in piedi.
Un candeliere con cinque candele era posato sul tavolo, ma la luce del sole morente illuminava ancora l'ambiente a sufficienza, nonostante l'unica e piccola finestra.
Durza sgomberò un angolo della scrivania e vi spostò il vassoio contenente la cena, facendomi cenno di servirmi. Poi occupò la sedia e picchiettò una mano sulle proprie gambe.
«Se vuoi ti ospito».
«Un'altra sedia, no?»
Sorrise sinistramente. «Proprio no».
Sedetti sul tavolo, accanto al vassoio e mi servii con appetito. Avevo passato la giornata rispolverando gli esercizi di Rimgar e mi sentivo piuttosto indolenzita, oltre che affamata.
«Non ti abbandonerò più per un giorno intero» disse lo Spettro. «Credo di aver convinto Hillr a stare al suo posto -anche se continuerà ad odiarti finché camperà- e ho incaricato un uomo di mandare un messaggio a Dras-Leona: voglio essere informato su tutto ciò che succederà, anche se purtroppo abbiamo perso Ditolesto».
«Ti riferisci a ciò che ti ha detto Alba prima di andarsene?»
«Alba mi ha detto che delle spie a Belatona hanno avvistato il figlio di Morzan. E a quanto pare Galbatorix in persona andrà a Dras-Leona per richiamare Tàbor all'ordine. Non sono sicuro che sia quello il vero scopo del suo viaggio, il re non abbandonerebbe mai il suo palazzo e la sua ricerca se non ci fosse un valido motivo di farlo» disse.
Non ci avevo pensato. «Hai una teoria?»
«Galbatorix sta inseguendo Murtagh, il figlio di Morzan».
Corrugai la fronte. «Che interesse ha il re per il figlio di Morzan?»
«Cosa sai del ragazzo?»
«Solo che esiste e che, per quanto ne sapevo, viveva alla corte del re. Quindi davo per scontato che fosse al suo servizio».
«Allora lascia che ti dia qualche ragguaglio». Si accomodò meglio sulla sedia. «Murtagh è stato abbandonato dalla madre e il padre è stato ucciso..»
«.. da Brom» completai.
Fece un cenno di assenso. «Il re non si è interessato a lui finché non è diventato un uomo e allora ha cercato di tirarlo dalla sua parte, ma il giovane non è mai stato molto convinto di una simile possibilità e alla fine ha cercato di fuggire».
«E ce l'ha fatta, a quanto pare. Ma non capisco il punto».
«Sai c'è una certa.. familiarità nell'ordine dei cavalieri».
«Cioè?»
«Che i figli di cavalieri hanno più possibilità di diventare cavalieri a loro volta» specificò.
Capii il nesso e smisi di masticare per qualche istante. Poi deglutii e tornai a parlare: «Vuole fare schiudere le altre uova, non è vero?»
«Ne ha ancora due» confermò. «E potrebbe dar loro una lieve spinta».
«Con la magia».
«Ovviamente».
«Forse avremmo dovuto cercare il figlio di Morzan e portarlo via con noi» dissi, scoraggiata. «Ma come sai che andrà a Dras-Leona?»
«Non lo so. Ma è una delle poche vere ragioni che spingerebbe il re a muoversi da Uru'baen. E inoltre sono sicuro che la notizia dell'avvento di un nuovo cavaliere si sta diffondendo. Un drago non passa inosservato e nemmeno i Ra'zac. Poche parole alle persone giuste e chiunque sarebbe capace di fare due più due».
Già. Passano i Ra'zac, poi passa un drago. Il drago sta inseguendo i Ra'zac.
E chi non vorrebbe l'amicizia di un giovane cavaliere, presumibilmente ancora libero da una qualsiasi affiliazione agli schieramenti di Alagaësia?
«Il re lo troverà?»
«Sì, se non sarà abbastanza furbo da scappare in tempo. Ma non escludo che si sia già aggregato al cavaliere e al suo drago».
«Brom non lo accetterebbe mai» lo smentii. «Prima di tutto perché non saprà mai se è degno di fiducia, visti i suoi natali e gli anni passati alla corte di Galbatorix, e poi perché gli attirerebbe solo ulteriori attenzioni addosso. E come hai già detto tu un drago non ha bisogno di essere annunciato».
Durza si ripulì le mani su un tovagliolo di stoffa e poi le incrociò sull'addome. «Speriamo che non venga preso e continuiamo per la nostra strada» tagliò corto. «Dai a Galbatorix un altro paio di settimane, non più di tre in tutto, e mi ordinerà di portarti ad Uru'baen. Forse ormai non gli interessa avere informazioni sull'uovo -che è decisamente schiuso- ma potresti comunque servirgli per fare pressione sugli elfi».
«Che le ignorerebbero» lo informai.
Posò il viso sulla mano e mi scrutò interessato. «Quindi dicevi sul serio quando sostenevi che gli elfi non avrebbero ceduto di un passo nemmeno per te che sei la loro principessa».
«Non sono l'erede al trono, Durza, mi sembrava di avertelo spiegato».
Si strinse nelle spalle. «Tra gli esseri umani è inconcepibile che il figlio del sovrano non sia anche l'erede. Tranne quando il legittimo re viene spodestato e la sua famiglia massacrata ovviamente. E se anche fosse rimasto un erede dei Broddring dubito che si farebbe avanti a questo punto».
«Già» confermai, afferrando la brocca d'acqua e versandone un poco nel suo bicchiere, che ingollai in un attimo.
Trovai gli occhi dello Spettro puntati sul mio collo e le sue labbra sottili atteggiate in un lieve sorriso.
«Ti ho mai detto che sei bella, Principessa?»
«No» replicai. «Hai detto che sono troppo piatta per essere una donna e mi hai proposto di tenere le curve di Alba».
Fece una smorfia. «Mi sa che già allora mi piacessi».
«Sei uno sfacciato bugiardo».
Si alzò dalla sedia. «E tu hai addosso un vestito di troppo.»
«Te l'ho detto che pantaloni e camicia sono più pratici».
Durza mi si parò davanti e separò dolcemente le mie ginocchia, facendosi spazio tra le mie gambe. «Non da togliere, Piccola Elfa». E mi scostò i capelli su una spalla, per poi depositare baci e morsi sulla mia pelle.
Gli strinsi il viso tra le mani e lo baciai.
«Questo è un sì?» si accertò ridendo.
A dire il vero non ero particolarmente entusiasta all'idea di ripetere l'intera l'esperienza: quella notte a Dras-Leona si era rivelata principalmente dolorosa per me, ma ricordavo anche che Durza ne era stato felice, quindi lo avrei lasciato fare volentieri.
Gli accarezzai il petto e sciolsi i lacci della sua casacca. «Sì» soffiai contro il suo collo.
«Siamo di nuovo su un tavolo, Arya. Non preferiresti un letto stavolta?»
E senza aspettare una mia risposta mi strinse la vita e mi tirò giù dalla scrivania. Il candelabro accompagnò i nostri passi nel corridoio, in direzione della camera da letto dello Spettro. Durza lo posò sul tavolinetto accanto al baldacchino e scostò le coperte dal materasso, poi si voltò verso di me e mi fece cenno di avvicinarmi, con un ghigno rapace stampato in volto.
Lo spogliai, gettando a terra la sua casacca, la sua camicia e la protezione che aveva sul cuore, sfiorando la sua pelle nuda, così pallida da sembrare trasparente contro quella scura delle mie mani. Disegnai con attenzione i contorni del suo corpo asciutto, che avevo conosciuto, ma mai esplorato; giocherellai con il sole d’argento e Durza mi guardò come un cervo dato in pasto ad un lupo, mentre la pelle d'oca gli spuntava addosso.
Lo Spettro mi piegò sul materasso e le sue labbra scesero indiscrete ad impossessarsi della porzione di pelle subito sotto le clavicole. Scivolai sul letto e sprofondai nel materasso sotto il peso del suo corpo, peso che accolsi con un sospiro di beato abbandono.
Se nello studio la mia testa era arrivata alle dovute conclusioni, in quel momento il mio corpo sembrava parlare una lingua diversa. Alle carezze frettolose e ai baci di Durza mi sentivo sciogliere, avvampare, precipitare in un pozzo oscuro senza fondo e quelle sensazioni si facevano solo più intense di minuto in minuto.
Ma quando sentii le sue dita muoversi agili sui lacci dell'abito mi sporsi bruscamente in direzione del tavolinetto e soffiai sulle candele, spegnendole. Peccato che il tramonto schiarisse ancora la stanza.
Lo Spettro ridacchiò, insinuando le mani sotto di me per sciogliere i nodi sulla schiena. «Ti vedo lo stesso, piccola Elfa».
«Allora faresti meglio a tirare le tende» lo informai.
Mi ero guardata nuovamente allo specchio, il giorno precedente, e avevo visto gli strati di cicatrici che deturpavano il mio corpo. Non le avevo cancellate, perché il nostro piano prevedeva di usarmi come diversivo con Galbatorix, che avrebbe sicuramente reputato strana la totale assenza di segni delle torture subite su di me, tuttavia sapevo di non essere particolarmente attraente in quelle condizioni.
Durza forse non le aveva viste, la notte al Covo, e doveva averle dimenticate perché sussultò, non appena mi ebbe sfilato il vestito di dosso.
«Chiudo le tende?» domandai gentilmente.
Lo Spettro mi guardò con occhi seri e ridotti a fessure, poi si chinò su di me, si liberò anche della fascia e tempestò la mia pelle offesa di lenti baci sensuali.
Restai rigida qualche istante, poi finii per abbandonarmi alle sensazioni piacevoli della sua bocca e delle sue mani su di me, mentre il respiro cominciava a mancarmi, trasformandosi in lieve affanno.
Ma l'abbandono lasciò presto spazio a qualcos’altro. Una sensazione di mancanza incredibile che pareva causata da quelle stesse mani e dalle labbra che all’improvviso mi sfiorarono la spalla sinistra, seguendo il disegno dello Yawë. Mi sembrava che in qualche modo Durza potesse saziare quel vuoto, ma più lo baciavo più quella sensazione sembrava aumentare.
Resa impaziente dalla frenesia che sentivo montarmi dentro, mi sfilai le brache con un paio di rapidi movimenti e lo tirai a me, accogliendolo tra le mie braccia.
Aspettai il dolore, ma non venne. Aspettai la bella sensazione che avevo provato la prima volta, ma le mie aspettative furono nuovamente sconvolte.
Fui totalmente e inaspettatamente travolta dal piacere. Gemetti sorpresa, artigliando le braccia dello Spettro e stringendo convulsamente le gambe intorno alla sua vita.
Durza si fermò di scatto, le mani ai lati della mia testa, e mi fissò allarmato. «Diamine! Ti ho fatto male?»
Ma davvero? La volta precedente mi aveva fatto male e non si era accorto di nulla, e ora che tutto sembrava andare bene mi guardava preoccupato.. e si riteneva anche un abile lettore dei sentimenti altrui?
Oh, non avevo tempo per pensare a simili sciocchezze!
«No» bisbigliai in tono quasi supplice, spostando le mani sulla sua schiena e tirandolo bruscamente verso il basso.
Lo Spettro cadde sui gomiti e le sue labbra urtarono con violenza contro le mie, ma quando ricominciò a muoversi mi ritrovai a gemere ancora e non certo per il dolore.
Ebbi caldo, poi freddo, poi caldo e freddo insieme, poi sparirono i suoni e i colori e poi si mescolarono in una confusa sinestesia. Le mie unghie troppo corte scivolarono sulla sua pelle, il mio corpo seguì le sue mosse e la mia mente sfiorò la sua.
E fui sommersa da una quantità tale di sentimenti e sensazioni che mi parve di essere sul punto di scoppiare.
«Durza» singhiozzai.
E poi mi sbriciolai in mille pezzi.

Dopo giacqui senza fiato, ancora avvinghiata a lui, tremando di emozione.
Qualche minuto più tardi lo Spettro si sollevò sui gomiti e mi guardò con espressione teatralmente sconvolta. «Ehi tu!» ansimò. «Che ne hai fatto della donna algida che ho incontrato cinque mesi fa?»
Gli diedi un colpo sulla nuca. «Idiota».
Con un sorriso arrogante, sprofondò di nuovo il volto nella curva della mia spalla.
«Non mi stavo lamentando!» puntualizzò un istante dopo, sollevando un indice.
Scoppiai a ridere.

Quando provai ad alzarmi, il mattino seguente, fui nuovamente trascinata giù dalle braccia forti di Durza, che mi spinse sotto di sé e iniziò a baciarmi. Inizialmente ne risi, poi finii per stringere a me il suo corpo bollente e cedere agli stessi brividi della sera precedente.
E lo stesso si ripeté molte volte nei giorni seguenti. Ancora, ancora e ancora.
Durza aveva il fuoco nelle vene e, fosse dipeso solo da lui, mi avrebbe spinta nel suo letto non meno di una volta al giorno. Io ero diversa e mi rendevo conto io stessa di essere più cauta e meno propensa a cadere nel vortice della passione, tuttavia solitamente lo lasciavo fare e provavo comunque sensazioni molto gradevoli, anche se non ero accecata dal desiderio. E quando ero io a volerlo non facevo certo la preziosa e non mi facevo problemi a cercarlo per strappargli anche solo un lungo bacio.
            Lo Spettro rimaneva con me per molte ore e un giorno mi portò anche fuori dalle mura interne di Gil'ead, dandomi sembianze diverse e facendomi indossare un mantello, ovviamente. Mi accompagnò da uno speziale e mi lasciò comprare l'occorrente per fabbricare dell'altro Nasgalk.
Fu in quell'occasione che ricordai delle spie dei Vardem che sapevo avere una base o due in città. Non dissi nulla a Durza, sia perché non vedevo come la cosa potesse ormai interessarlo, sia perché mi sentivo ancora molto vincolata all'organizzazione ribelle e non volevo rivelare nulla che avevo giurato di tenere per me. Nemmeno a quello che ormai era diventato il mio compagno.
Allo stesso tempo la farsa della mia prigionia andava avanti, e non era raro che Durza restasse qualche ora nelle segrete, a fingere di torturare la mia immagine-specchio, mentre io rimanevo nelle sue stanze a praticare esercizi di Rimgar ed esercitarmi con Ren.
        Tre giorni dopo il nostro rientro a Gil'ead, fui assalita nuovamente da una di quelle visioni ad occhi aperti, che già due volte mi aveva presa, a Dras-Leona. Vidi nuovamente il drago e il giovane cavaliere, ma il volto sfocato del ragazzo era inondato di lacrime e chiazzato di sangue.
Durza non seppe aiutarmi, ma era palesemente sollevato che la visione mostrasse i due ancora in piena libertà e non sotto il dominio del sovrano. Sempre che quelle immagini corrispondessero al vero.
I miei incubi notturni non erano scomparsi, anche se si erano fatti meno violenti e almeno quel problema divenne di importanza più marginale.
Ma l'idillio non poteva durare, ovviamente.
Una settimana dopo il nostro arrivo a Gil'ead vidi Durza sobbalzare al mio fianco e portarsi una mano al petto.
«Arya» soffiò con voce allarmata.
Guardai il medaglione che stringeva tra le dita e l'espressione affaticata che aveva in volto. «No..»
«Non può essere che il re» gracchiò. «Devi andartene».
«Dove..?»
«No aspetta.. resta qui. Io vado di là». E si trascinò in direzione della sala da bagno.
«Posso fare qualcosa?» mi offrii angosciata, seguendolo istintivamente.
Lo Spettro si appoggiò allo stipite della porta. «Se senti il re ordinarmi esplicitamente di farti del male..»
Scossi violentemente la testa.
«..scappa» concluse lui. «Corri fino a che non sarai arrivata in un posto sicuro. E non fermarti fino ad allora».
«Durza..»
«Non fare la sciocca e non buttare via la tua vita» mi rimbrottò bruscamente.
E poi scomparve dietro la porta, tirandosela dietro con violenza.
Mi afflosciai contro il muro, tremando, e mi lasciai scivolare a terra, imponendomi di rimanere concentrata sui suoni provenienti dal muro dietro alla mia schiena.
«Mio Signore» fece Durza, con un tono deferente che non gli apparteneva.
«Non ho tue notizie da mesi, Durza» gli rispose una voce persuasiva almeno quanto lo era stata la sua durante gli interrogatori.
Solo che essa non era fredda, suadente e pericolosa, ma calda, gioviale, familiare e paterna. Rassicurante.
Non era la voce di un pazzo e assassino.
«Ho dato per scontato che non avrei dovuto contattarti se non avessi avuto novità da darti».
«Quindi deduco che la situazione sia rimasta invariata, nonostante le mie raccomandazioni».
Raccomandazioni incise a sangue nella carne di Durza?
«Effettivamente sì, mio re».
«Oramai non è più così importante. Credo che tu abbia sentito le voci, dico bene?»
«Qualcuno mormora che un nuovo cavaliere calpesti il suolo di Alagaësia» disse lo Spettro quietamente.
«Ed è così. I Ra'zac si sono scontrati con lui, appena fuori da Dras-Leona, ma alla fine se lo sono fatto sfuggire. Tuttavia, se il loro racconto non sbaglia, pare che Brom sia rimasto gravemente ferito nello scontro».
Brom?
«Questa è una buona notizia».
«Non lo è abbastanza!» fece Galbatorix severamente. «Murtagh è stato visto con loro: a quanto pare ha provveduto lui stesso a liberarli e si è unito al cavaliere».
«Desideri che mandi gli Urgali a cercarli, mio signore?»
«No. Gli Urgali saranno molto utili ai nostri scopi, ma seminerebbero il panico più totale nel cuore dell'Impero. Tuttavia ti ordino di convogliarli a sud, tra Uru'baen e il deserto di Hadarac, dove potranno intercettare i tre nel caso cercassero di raggiungere i Varden».
Sobbalzai. Il re come sapeva dei Varden? Sapeva forse dove fosse collocata la fortezza sotterranea del Farthen Dur? O forse sapeva solo di voci, che sostenevano che i ribelli si trovassero a ovest?
«Come comandi» rispose Durza prontamente.
«E ora dovremo affrontare la questione dell'elfa.» Rabbrividii. «Manderò alcuni uomini della mia scorta personale a Gil'ead. Ti accompagneranno fino ad Uru'baen e ti aiuteranno a sorvegliare la prigioniera».
«Non è necessario» osservò lo Spettro umilmente. «Non è in grado di nuocermi in alcun modo».
«Lo spero bene per te. Ma voglio avere la certezza che Varden, Elfi o umani non si metteranno in mezzo. Una parte del drappello che verrà si fermerà a Gil'ead».
«Non abbiamo bisogno di altri uomini a Gil'ead».
«Il cavaliere è ancora in circolazione, Durza, e io non ho intenzione di lasciarlo a piede libero un giorno di più. Potrebbe andare a nord, a sud o a est e cercare rifugio tra Elfi, surdani o Varden e io non posso permetterlo. Ogni città abbastanza rilevante da essere segnata su una mappa avrà un drappello di uomini informati sul giovane e sul suo drago tra le sue mura, così da poter agire dove altri esiterebbero. Questi soldati hanno ricevuto miei precisi ordini e quindi ti prego di non contraddirli, come già facesti pochi mesi fa con Lord Barst».
«Ai tuoi comandi».
«Raduna i tuoi Urgali dalle terre del nord e conducili verso sud, ma senza fare tagliare loro il territorio di Alagaësia».
«Ordinerò loro di proseguire lungo la linea del deserto di Hadarc fino al punto che hai stabilito».
«Eccellente. Tra circa una settimana il drappello sarà a Gil'ead. A quel punto lascerò che scada il tempo che ti avevo promesso per strappare qualcosa alla prigioniera, ma tra non più di tre settimane, se non avrai ottenuto risultati, dovrai condurla a Uru'baen».
«Certamente».
«Aspetto presto tuo notizie, allora. Non vorrei vedermi costretto a punirti di nuovo per la tua leggerezza».
Ci fu un lungo silenzio. «Non ho dimenticato la tua lezione. Farò del mio meglio, hai la mia parola».
«Lo so».
E poi probabilmente chiuse il contatto.
Restai raggomitolata a terra per parecchi secondi, incerta, poi mi alzai cautamente e azzardai qualche passo verso la porta. Durza ne uscì e cercò rifugio tra le mie braccia.
«È andato tutto per il meglio» lo rassicurai dolcemente.
«Non avevo così tanta paura da decenni» confessò. E poi rise, cercando probabilmente di sciogliere la tensione che entrambi avevamo addosso dopo quei pochi minuti di contatto con il re.
Una domanda sbagliata avrebbe potuto mandare all'aria i nostri piani, invece il sovrano pareva ancora fidarsi di lui, nonostante disprezzasse evidentemente la sua incapacità di togliermi informazioni.
«Manteniamo integro il nostro piano?» mi accertai.
«Direi di sì. Ordinerò agli Urgali di radunarsi intorno a Gil'ead e solo quando saranno tutti qui li manderò verso sud. Non voglio che il cavaliere finisca nelle mani del re, piuttosto è meglio che raggiunga i Varden».
«A proposito dei Varden..»
«So cosa stai per chiedermi» mi precedette. «E ti rispondo subito: sì, abbiamo delle spie. Sono due individui ambigui, Galbatorix li chiama i Gemelli».
«Li conosco» dissi, freddamente.
«Non pensarci adesso. Una volta ucciso il re potrai fare una soffiata ai Varden e ci penseranno loro a farli morire male».
«Suppongo di sì» concessi. «Ma quanto sa il re del loro covo?» non riuscii a trattenermi dal chiedere.
Durza fissò gli occhi di brace nei miei. «Sa tutto, Arya. Se volesse potrebbe attaccarli in qualsiasi momento e distruggerli. Anche io ho delle mappe delle gallerie sotterranee dei nani nel mio studio, magari non tutte, ma quelle sufficienti per arrivare al Farthen Dur sì. Sono informazioni che possediamo da parecchi anni. A quanto pare Ajihad è molto diffidente nei confronti dei Gemelli, ma loro riescono comunque ad ottenere parecchie informazioni».
«Perché non me l'hai detto prima?»
Si strinse nelle spalle. «Non ci ho neanche pensato, a dire il vero. E poi meno penso ai Varden e al loro capo meglio sto. Magari ho rinunciato a farlo a pezzi, ma questo non significa che mi stia simpatico».
«No, certo» feci, addolcendo il tono.
E pensai automaticamente a ciò che io non gli avevo detto sui ribelli. In fondo era giusto che tra di noi rimanesse un argomento intoccato, almeno fino alla sconfitta totale del re. Del resto, finché fosse stato sotto il suo controllo, Durza non avrebbe nemmeno potuto garantirmi il silenzio sui miei segreti.
Sul filo di quel ragionamento mi raccapezzai di qualcosa che Galbatorix avrebbe potuto facilmente notare e reputare sospetto.
«Devo avere ferite recenti» dissi. «Il re crede che tu stia continuando a torturarmi e sarebbe alquanto insolito presentarmi al suo cospetto con vecchie cicatrici ormai guarite».
L'espressione già cupa di Durza si fece funerea. «Io non ti toccherò mai più con un ferro, Arya. E questo posso giurartelo».
«Ma devi, e lo sai. O dovrò farlo da sola e sarà solo più difficile».
Tentennò. «In ogni caso non ora. Abbiamo ancora una settimana prima che arrivi il drappello promesso dal re. Quando saranno qui sarò costretto a riportarti nella cella per evitare di venire scoperti e lì ti.. farò qualche segno».
«Va bene così».
«Tra una settimana..»
«Abbiamo ancora tempo» constatai.
Poi gli sorrisi e cercai le sue labbra ruvide.

E invece la settimana passò con la rapidità di un sogno, che si interruppe con un brusco risveglio.
Gli uomini preannunciati da Galbatorix arrivarono nel primo pomeriggio, un paio di giorni oltre alla settimana stabilita dal re.
Io e Durza eravamo pronti e, quando una pattuglia rientrò annunciando l'arrivo di venti soldati con le uniformi delle fiamme imperiali addosso, lo Spettro mi accompagnò nei sotterranei.
Avevo indossato nuovamente i miei vecchi abiti neri, ma ero ovviamente stata costretta a lasciare la mia spada, Ren, e il mio arco a Durza, che li avrebbe riposti nell'armeria per non destare sospetti, seppur con l'ordine esplicito che nessuno li toccasse. Mi aveva inoltre procurato una fascetta di cuoio per fermare i miei capelli come lo erano la notte della mia cattura.
Lo Spettro congedò le guardie e io, che mi ero celata sotto un incantesimo che respingeva la luce, rendendomi invisibile ad occhi umani, lo seguii in quella che era stata la mia cella. Non vi entravo da più di due mesi e la vista delle pareti spoglie, umide e prive di finestre mi catapultò indietro nel tempo, a ricordi decisamente spiacevoli, che cercai disperatamente di sopprimere in fretta prima che mi travolgessero.
Durza afferrò le mie mani e fissò i miei occhi per qualche istante.
«Inizia la recita, allora» disse tristemente.
Annuii, assumendo un cipiglio determinato. «Ci vediamo più tardi».
Avevamo stabilito che lo Spettro sarebbe venuto a prelevarmi dalla mia cella come aveva fatto nelle ultime settimane con la mia immagine-specchio e mi avrebbe portata con sé nella stanza delle torture, dove avrebbe dovuto procurarmi nuovamente ferite simili a quelle di qualche mese prima. E avremmo ovviamente sfruttato il tempo insieme anche per parlare delle ultime novità, di cui avrebbe dovuto tenermi informata. La notte avremmo lasciato una mia immagine nella cella, mentre io avrei riposato nel suo letto, dove avrebbe potuto riscuotermi. Al mattino, fingendo di andare a prelevarmi per torturarmi, mi avrebbe riportata nelle segrete.
Ci separammo a malincuore e dopo qualche minuto sentii le guardie prendere posizione davanti alla porta. Era una situazione strana. I soldati lì fuori erano convinti di avermi sorvegliata ininterrottamente anche per gli ultimi mesi, mentre in realtà io avevo viaggiato per Alagaësia insieme al loro padrone e passato le ultime settimane nelle sue stanze.
Tornare a sentire voci e respiri oltre alla massiccia porta di legno era.. Irreale.
E non mi ero ancora resa conto di ciò che avrei dovuto nuovamente subire di lì a poche ore, al più tardi il giorno seguente. Arrotolai le maniche del farsetto e della camicia e contemplai le brutte cicatrici stratificate.
Ricordavo il dolore alla perfezione e ogni più piccola parte di me si ribellava strenuamente all'idea di sottopormi volontariamente allo stesso trattamento che mi aveva spinta sull'orlo della pazzia, solo pochi mesi prima.
Ma era necessario. E sarebbe stato solo per poche settimane.
Dopo, con una buona dose di fortuna, avrei assistito alla caduta di Galbatorix, per la quale combattevo da più di settant'anni. Poi avrei abbandonato Alagaësia nel caos e sarei fuggita.
Ma forse sarei anche riuscita a temporeggiare, convincere Durza a prendere false sembianze e a seguire anche la sua rinascita, l'instaurazione di un governo equilibrato e il risorgere dell'antico ordine dei cavalieri.
O forse no, ma non era importante. Non avrei rischiato la vita del mio amante solo per il gusto di vedere compiuta l'opera a cui avevo partecipato con tanto entusiasmo. Ero fiduciosa: morto il re e annullata la misteriosa fonte del suo potere, gli uomini sarebbero riusciti a ristabilirsi con al massimo qualche scaramuccia e gli elfi avrebbero ottenuto probabilmente un patto vantaggioso per essere almeno lasciati in pace, anche grazie all'appoggio dei Varden.
Sedetti sul pagliericcio e chiusi gli occhi.
Sarebbe andato tutto bene e io avrei cominciato una nuova vita, ricca di avventure e amore e entusiasmo, lontano da tutto ciò di bello e brutto che mi era successo in Alagaësia.
Quella stessa sera non riuscii a mangiare il pane col formaggio che lo Spettro mi porgeva, colta dalla nausea e da una strana emozione che somigliava terribilmente a terrore per il futuro.
Quella notte strinsi a me Durza come se potesse dissolversi tra le mie mani.


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Salve a tutti! ^_^
In questo capitolo succede di tutto e di più e vi lascio solo due commenti:
-Per chi cerca sempre collegamenti con Eragon: la visione di Arya del cavaliere con il volto bagnato di lacrime e sangue corrisponde alla notte della morte di Brom. In seguito passano due settimane e sappiamo bene che Saphira, Eragon e Murtagh si muovono per Alagaësia, sfiorando Uru'baen e avvicinandosi a Gil'ead, alla ricerca di qualcuno che possa condurli dai Varden. Vi arriveranno tra una settimana abbondante e da lì ne parliamo al prossimo capitolo..
-Le guardie mandate da Galbatorix sono plausibili perché Durza litiga con il loro capitano dopo la cattura di Eragon, il quale sostiene di non volere disubbidire agli ordini del re, quindi suppongo che non fosse alle dipendenze dello spettro ma avesse ricevuto ordini diretti dal sovrano.
Vi lascio e ci vediamo alla prossima! ;)

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Capitolo 31
*** Tutto precipita ***


Ciao
31. Tutto precipita

Nei giorni che seguirono io e Durza ci impegnammo per rendere la storia della mia prigionia il più credibile possibile agli occhi dei nuovi arrivati. Le guardie erano arrivate in città in pompa magna e il loro capitano aveva subito chiesto di essere ricevuto da Durza affinché potessero accordarsi per inserire una decina dei suoi uomini nei turni di guardia sulle mura, in modo da poter svolgere il compito per il quale il re li aveva spediti a Gil'ead.
Cinque di loro presero posto fisso davanti alla mia cella, sostituendo gli uomini dello Spettro e aprendo lo spioncino per sbirciare all'interno molto più spesso di quanto fossi abituata. Sgattaiolare via con Durza si fece ogni notte più difficile, e altrettanto difficile era sostituirmi alla mia immagine ogni mattino perché non era raro che il capitano si affacciasse curioso alla porta e seguisse la processione fino alla stanza delle torture con i suoi uomini.
Le torture. Durza cominciò con l'accarezzarmi lo sterno con un ferro arroventato, nel punto dove aveva fatto sparire le mie cicatrici affinché non risultassero evidenti dallo scollo dell'abito, quando eravamo a Dras-Leona. Il dolore era sopportabile e lo Spettro si premurava di guarirmele ogni sera, almeno in parte.
Ma sapevo che prima o poi avrebbe dovuto cominciare a procurarmi vere ferite, sanguinanti e d'impatto, che potessero risultare soddisfacenti agli occhi di Galbatorix, se e quando avesse deciso di vedere fino a che punto si erano spinte le torture del suo secondo.
Tre giorni dopo ci rendemmo conto che indossavo ancora l'anello di ametiste e che forse era il caso di togliermelo, dato che ufficialmente era una droga a sopprimere i miei poteri, che in realtà erano liberi. Lo consegnai a Durza e lui se lo mise al collo insieme al ciondolo del sole.
«I miei spiriti vorrebbero farti ancora del male» aveva ammesso lo Spettro il giorno prima, con un'espressione di vergogna così penosa in volto, che mi ero sentita il dovere di consolarlo, nonostante fossi io la possibile vittima della rabbia di quelle creature.
«Questo olio ricorda vagamente l'odore della tua pelle» disse lui in quel momento, riportandomi al presente.
Lasciai scivolare le dita tra i suoi capelli fradici e gli massaggiai delicatamente la testa. Eravamo entrambi immersi nel piacevole calore della sua vasca, la sua schiena contro il mio petto, e ci stavamo godendo qualche istante rilassante prima di coricarci. Fuori era notte fonda e solo una fioca candela illuminava la sala da bagno.
Al tocco delle mie mani, lo Spettro chiuse gli occhi e reclinò il capo all'indietro, tirando un respiro appena più profondo dei precedenti.
«Aghi di pino?» mi informai incuriosita, annusando l'essenza che aveva appena versato nell'acqua.
«Qualcosa del genere» mugugnò.
E per qualche minuto restammo in silenzio.
«Hai appeso i manifesti con le immagini del cavaliere?» domandai, cambiando discorso.
Anche quelli erano stati una sorpresa: li avevano portati i soldati mandati dal re, ammucchiati in grandi casse, con l'ordine di distribuirli per Gil'ead e villaggi limitrofi. Le pergamene raffiguravano, con dettagli piuttosto precisi, il viso di un giovane dall'aria seria e composta e dovevano essere state realizzate seguendo le descrizioni fatte dai Ra'zac, che avevano affrontato personalmente il cavaliere a Dras-Leona. A chi lo avesse catturato o avesse fornito informazioni utili alla cattura erano promessi mille pezzi d'oro, a detta di Durza una fortuna. Tuttavia non era citato un drago o la vera natura del giovane, lo si denunciava solo per “crimini contro la corona e il regno intero”.
Durza me ne aveva portato uno affinché potessi vederlo e io avevo constatato che si trattava dello stesso volto che vedevo talvolta in quelle visioni così realistiche che mi strappavano bruscamente alla realtà. Ma di lui sapevo solo che si chiamava Eragon, che aveva i capelli castani e che l'ultima volta che l'avevo visto stava soffrendo immensamente. Il perché di quella strana connessione che sembravo avere con lui restava inspiegato, anche se sospettavo dipendesse in qualche modo dal legame che mio malgrado avevo creato con il drago di zaffiro, che a lungo avevo portato con me, attraversando Alagaësia.
«Ci hanno pensato i soldati del re» mi rispose lo Spettro, con voce impastata. «Li hanno appesi ad ogni incrocio e ad ogni locanda, ma si sono anche presi l'impegno di fare annunci orali al popolo, dato che buona parte di loro non sa leggere. In ogni caso non vedo perché il cavaliere dovrebbe passare di qui. Se ha avuto un pizzico di buon senso ormai sarà già nel Surda o tra i Varden».
«Su questo le tue spie non sono state molto utili» osservai.
Effettivamente aveva ricevuto informazioni da Dras-Leona solo pochi giorni dopo lo scambio avuto con Galbatorix e dagli informatori aveva saputo che due individui avevano lasciato la città a cavallo, con tutte le guardie cittadine alle calcagna. Ma a quanto pareva erano riusciti a cavarsela e a lasciare la città, peccato che nessuno sapesse dire che direzione avessero preso.
«Non prendertela con le mie spie, Elfa» borbottò, le palpebre ancora chiuse.
Continuai a massaggiargli le tempie. «E gli Urgali?»
«Li ho richiamati e credo che già da domattina farò partire un primo drappello in direzione del deserto di Hadarac, con l'ordine di catturare il cavaliere. Tuttavia dirò loro di non correre troppo, così non gli saranno di ostacolo nemmeno per sbaglio».
«Ottimo» decretai, baciandogli la nuca e stringendo le braccia intorno al suo collo.
Durza mi scoccò uno sguardo malizioso da sopra la spalla sinistra e si voltò totalmente nella mia direzione.
Scostai le sue mani quando le strinse sui miei seni. «Mi da fastidio» ammisi.
Non ribatté e si limitò a spostarle altrove.
            Per quella notte non ci pensai più, ma il giorno seguente, dopo che lo Spettro mi ebbe lasciata nella mia cella, mi sedetti sul pagliericcio e mi misi a fare un paio di calcoli.
Era da diversi giorni che sentivo il seno gonfio e cominciai a chiedermi se per caso non stesse per venirmi il ciclo. L'ultima volta risaliva a un bel po' di tempo prima, forse un paio d'anni, mentre ero ad Ellesméra. Ero abituata a simili salti: a causa dei numerosi e pesanti sforzi fisici a cui sottoponevo il mio corpo, il mio sangue mensile non era mai stato regolare e probabilmente non lo sarebbe mai stato fino a che non mi fossi decisa a condurre una vita più tranquilla, vita che effettivamente avevo condotto negli ultimi mesi, nei quali avevo drasticamente ridotto i miei allenamenti per ovvi motivi.
Avrei dovuto usare un paio di incantesimi o chiedere a Durza degli stracci.
            Nel pomeriggio, cominciarono le vere e proprie torture, con lame ed uncini. Io e il mio alleato litigammo per ore sull'argomento: Durza voleva applicarmi un incantesimo che mi avrebbe privata delle sensazioni fisiche e quindi anche del dolore, io non volevo perché sapevo che la pratica rientrava nella sfera della magia nera e io ne ero terribilmente spaventata, anche se non lo avrei mai ammesso.
Alla fine l'ebbi vinta io e nei giorni che seguirono mi spogliai del farsetto e dei pantaloni, così che le ferite potessero prendere piede in tutto il mio corpo.
Lo Spettro non riprese le torture più estreme come le frustate perché il nostro vero e unico scopo era creare il più alto numero di segni possibili su di me, in modo che il re non capisse subito che c'era qualcosa che non andava e lasciasse a Durza il tempo di fare ciò che doveva fare. E che io ancora non potevo sapere.
Riprendemmo, a ritmi ovviamente più leggeri, i tempi che aveva adottato quando io ero ancora l'uccellino da fare cantare. E nonostante il dolore fosse palesemente meno intenso, più calcolato e di breve durata, ricominciai ad essere terrorizzata da quella stanza e dai suoi strumenti. Non chiesi mai allo Spettro di fermarsi nel bel mezzo dell'opera, ma mi lasciai spesso sfuggire gemiti di dolore e piccole grida.
            Smettemmo anche di giacere insieme, come avremmo potuto fare altrimenti? Io ero dolorante in numerose parti del corpo e non era raro che rabbrividissi alla sola vista delle sue mani sulla mia pelle, nonostante sapessi benissimo che non lo stava facendo volentieri -o almeno non la parte di lui che mi piaceva tanto, perché ero certa che gli spiriti dentro di lui stessero esultando. Durza, dal canto suo, faticava a torturarmi di giorno e prendere in considerazione l'idea di amarmi la notte, così non lo fece e io non cercai di persuaderlo altrimenti.
Continuammo però a perdere il respiro in lunghi baci, a dormire insieme e ad affrontare i miei incubi.
Sopportai con tutta la forza d'animo che era rimasta dentro di me, dicendomi che un giorno avrei trovato il coraggio di guardarmi indietro e valutare con serenità quei brutti momenti.
Così come prima o poi avrei trovato il coraggio di dire a Durza che portavo in grembo suo figlio.
Impiegai parecchi giorni prima di riuscire ad ammettere a me stessa la verità, ma ad un certo punto divenne talmente ineluttabile che mi ritrovai a farci i conti per forza. Il mio seno era fastidiosamente gonfio, ma il sangue non veniva; e certamente non era immaginazione il flebile battito che sentii provenire dal mio ventre il giorno che mi decisi a fare un incantesimo per ampliare i suoni alle mie orecchie. Il battito lento, incerto e caparbio di un cuoricino.
Incredibile.
Certo, le occasioni in cui sarebbe potuta avvenire una cosa del genere erano state molteplici nelle ultime, intense, settimane della mia vita, ma in una sola occasione non avevo preso provvedimenti affinché la vita non potesse germogliare nel mio ventre, ed era la notte a Dras-Leona, al Covo Segreto, quando non potevo ancora usare la magia. Tuttavia io ero poco fertile, visti i miei natali, e non ero nemmeno certa che Durza potesse avere figli, visti i mutamenti che gli spiriti avevano operato sul suo corpo.
Quante probabilità c'erano che succedesse una cosa del genere?
Eppure era successo e io non sapevo come fosse meglio comportarmi. Se guardavo sia ai canoni degli uomini, sia a quelli degli elfi, l'unica soluzione possibile pareva quella di procurarsi le erbe giuste, bere un decotto e liberarmi del problema ancora prima che divenisse tale. Io stessa ero stata educata a considerare i figli come la più grande delle rarità e come tale un dono preziosissimo di cui prendersi cura con il massimo impegno e dedizione, il frutto di un'unione stabile, serena e presumibilmente duratura.
E nel rapporto tra me e Durza non vi era nulla di simile: la nostra era una passione sbocciata con la rapidità di una stagione e al momento le nostre possibilità per il futuro non erano esattamente rosee. Non avrei messo al mondo una creatura solo per vederla soffrire, tuttavia qualcosa mi diceva che non avrei mai e poi mai trovato la forza di liberarmene.
Così lasciai passare altri minuti, altre ore, altri giorni. E arrivai alla conclusione che semplicemente non potevo prendere decisioni in quel momento. Sapevo che se volevo mettere fine alla questione avrei dovuto farlo entro i primi tre mesi dal concepimento e, se tutto andava come doveva, in poche settimane tutto si sarebbe risolto: io e Durza saremmo stati liberi o morti. E allora -se si fosse verificata la prima opzione, ovviamente- ne avrei parlato con lui e avremmo preso una decisione. Fino a quel momento avrei lasciato che il bambino crescesse dentro di me, e vissuto la mia vita come se nulla fosse successo. Del resto una buona percentuale di gravidanze finiva entro le prime dodici settimane a causa di aborti spontanei e non era certo che lo stesso non sarebbe capitato anche a me.

Mentre il mio corpo tornava ad essere una selva di tagli ed escoriazioni e il mio compagno mi faceva notare che avevo gli occhi più luminosi del solito, i giorni si tradussero in una settimana. E si avvicinò ineluttabilmente il giorno in cui avremmo dovuto lasciare Gil'ead per incamminarci vero Uru'baen.
Ma ovviamente nulla poteva andare come avevamo previsto, e una mattino -subito prima dell'alba- Durza si presentò al mio cospetto con gli occhi felini spalancati e un lieve tremore diffuso in tutto il corpo.
«Il figlio di Morzan è qui» gracchiò.
«Chi!?» esclamai, scattando in piedi così rapidamente che rischiai di alzarmi da terra.
«Shht» mi zittì, posandomi una mano sulla bocca. Poi mi portò nella stanza delle torture e la sigillò con la magia. «La mia catena di spie funziona molto peggio da quando non c'è più il suo capitano» sospirò.
«Chi?»
Alzò un sopracciglio. «Alba, Principessa».
«Ovvio, scusami» borbottai, spalmandomi una mano sul volto.
«Sei stanca? Vuoi che ti guarisca qualche ferita?» si informò con premura, passando una mano gentile tra i miei capelli.
Stirai un sorriso. «No, ma dimmi del figlio di Morzan, ti prego».
Mi baciò fugacemente, poi riprese il discorso. «Era qui qualche ora fa, ma la notizia mi è giunta un po' tardi purtroppo. A quanto pare era solo, ma non escludo che il cavaliere e Brom lo stiano aspettando fuori Gil'ead».
«Mi sembra improbabile che lo abbiano preso con loro. E in ogni caso cosa ci farebbero qui?» imprecai a denti stretti.
«Speravo me lo dicessi tu a dire il vero».
«Mi spiace deluderti, ma non ne ho la più pallida idea».
«Forse dovresti andare a parlare con loro» disse esitante, socchiudendo gli occhi.
«Io?»
Rise amaramente. «Io no di certo».
«Il massimo che potrei fare a questo punto è mandarli nella Du Weldenvarden, sperando che prima o poi una pattuglia di elfi li trovi, il tutto prima che incontrino pericoli che non saprebbero affrontare».
«Credo che sarebbe comunque meglio che proporre loro di seguirci ad Uru'baen. Se il nostro piano fallisse Galbatorix ci guadagnerebbe un cavaliere e allora sarebbe un problema ancora più serio».
«Sei diventato altruista» osservai stringendogli affettuosamente la mano.
«Si chiama odio sconfinato per il re, piccola elfa» ribatté con un ghigno. «E da qui all'altruismo c'è una bella voragine. Comunque se sei d'accordo stanotte..»
Si bloccò al suono di passi affrettati che si avvicinavano.
«Mio signore!» gridò Hillr, battendo con forza i pugni sulla porta. «Mio signore si tratta di una questione urgente!»
Durza mi spinse dietro di sé e sciolse l'incantesimo che bloccava la porta, permettendo al siniscalco di entrare precipitosamente nella stanza.
L'uomo aveva le guance arrossate come per una grande eccitazione e gli occhi sgranati, come a seguito di un grande spavento.
«Mio signore un drappello di Urgali chiede di vederti. Loro hanno.. lo hanno preso».
«Preso chi?»
Ma il rumore di altri passi impedì ad Hillr di rispondergli.
Un uomo dalla corta barba curata si precipitò nella stanza e, dopo uno sbrigativo inchino nella direzione di Durza, chiese: «Sono vere le voci?»
«Non so di cosa tu stia parlando capitano», rispose lo Spettro con studiata indifferenza, «ma se lascerai al mio secondo il tempo di mettermene al corrente forse potrò risponderti».
L'uomo chinò il capo e fece un rispettoso passo indietro, ma era palesemente inquieto e impaziente. Ne approfittai per sedermi sul tavolo di pietra e assumere un'aria imbambolata, tipica di qualcuno sotto effetto di droghe o al limite delle proprie forze fisiche. Anche se non credevo che qualcuno dei presenti avesse anche solo un minimo interesse per me, erano tutti concentrati su altro.
Hillr si portò una mano al petto ed estrasse un pezzo di pergamena. «L'hanno consegnata gli Urgali ad una delle guardie delle porte esterne e hanno aggiunto che il ragazzo ricercato è stato preso, ma non i suoi compagni».
Il mio cuore prese a battere più forte mentre registravo le parole di Hillr e guardavo le dita bianche del mio amato svolgere con lentezza la pergamena e decifrare con altrettanta calma la lingua aspra che vi era vergata.
«Allora?» fece il capitano, dondolandosi su i talloni.
«Hai sentito Hillr, capitano. I miei Urgali hanno preso il cavaliere, ma non il suo drago. Qui c'è scritto che aspettano sulle sponde del lago che qualcuno vada a prelevare il prigioniero. A quanto pare lo hanno tramortito».
«Andremo io e i miei uomini!» esclamò egli. «Il re ci ha mandati qui per questo ed è nostro compito suppongo».
Durza non poté fare altro che annuire. «Portatelo qui, dovrà essere drogato prima di affrontare qualunque viaggio alla capitale. E in ogni caso tra qualche giorno metà del vostro drappello dovrà seguirmi con la prigioniera». E fece un gesto spazientito nella mia direzione.
Il capitano fece un'altra rapida riverenza. «Dopo dovrò parlarti anche di questo. Ora col tuo permesso vado a prendere il cavaliere».
E senza aspettare una risposta corse via, con la velocità che gli permetteva una cotta di maglia, ovviamente.
«Hillr», fece lo Spettro in un sussurro, «assicurati che il prigioniero venga effettivamente portato qui, nelle segrete. E poi al suo ritorno riferisci al capitano che sarò lieto di conferire con lui nel mio studio, domattina dopo il sorgere del sole».
Hillr deglutì, si inchinò e uscì chiudendo la porta dietro di sé.
«Dannazione» sibilò Durza, sbattendo violentemente i pugni chiusi accanto a me, sul tavolo di pietra.
«Hanno preso il cavaliere» sentenziai.
«Quelli erano i loro ultimi ordini, solo che non mi aspettavo di trovarmelo alle porte di casa mia, quello sciocco!»
Che diavolo aveva in mente Brom? Avrebbe dovuto portare Eragon al sicuro tra i Varden o tra gli Elfi, non dritto nella città più militarizzata dell'impero. E al momento circondata da pattuglie di Urgali.
«Ma il drago è libero» sussurrai.
«Non per molto» fu la cupa risposta. «Basterà minacciare di morte il suo cavaliere e lui volerà al castello di Galbatorix di sua spontanea volontà».
Ovviamente. Nulla era andato secondo i nostri piani. E se da un lato avevamo ancora una buona possibilità di uccidere il re, dall'altra il rischio di rinforzarlo di un nuovo alleato si era fatto incombente.
Con la sensazione di panico che andava aumentando esponenzialmente dentro di me, gettai le braccia al collo niveo di Durza e cercai la sua bocca.
«N-non è che possiamo andare nella tua stanza?» balbettai, con la voce che tremava vergognosamente.
E una volta lì chiusi le tende, spensi le candele e ricominciai a baciarlo, a cercare la sua pelle e l'oblio, ignorando il bruciore delle ferite che si aprivano e sporcavano di sangue le lenzuola di seta del suo letto.
Giacemmo svegli per lunghe ore, stretti l'uno all'altra senza osare sciogliere la presa nemmeno per un istante.
«Mio..» sussurrò lui. Poi interruppe il discorso e lo riprese parecchi minuti dopo. «Mio padre si chiamava Urien ed era nato nel Surda. I suoi genitori erano mercanti ed erano ormai sull'orlo della disgrazia quando lui divenne uomo, quindi decise di dare una nuova spinta all'attività di famiglia aprendo un commercio con le tribù del deserto di Hadarc. Passò parecchie settimane nella tenda del mercante con cui avrebbe dovuto chiudere l'affare e si innamorò della figlia, Damali. L'uomo gli concesse la sua mano solo perché Damali era già incinta e l'onta rischiava di abbattersi anche sul resto della sua famiglia se la figlia avesse dato alla luce un bastardo. Così Urien e Damali si costruirono una capanna tutta loro e qualche mese dopo nacqui io. Mi chiamarono Carsaib. Mio padre riuscì a dare il via ad un commercio e mandò del denaro nel Surda per sostenere i genitori, che tuttavia non rivide mai più. Il mio primo fratello nacque morto, ma i veri guai cominciarono diversi anni dopo la nascita di Rahi, mia sorella: il padre di Damali morì e il fratello prese il suo posto negli affari, rifiutando però di avere a che fare con Urien, che reputava uno straniero e disprezzava. Così fu la mia famiglia a cadere in disgrazia. Mio padre si indebitò fino al collo e quando i suoi creditori vennero a pretendere il loro pagamento, egli dovette ammettere di non aver mai posseduto il denaro per poterli ripagare. Lo chiamarono spergiuro e la mia intera famiglia venne bandita dalla tribù. Non ci uccisero, ma da un certo punto di vista ciò che fecero fu anche peggio: un piccolo gruppo, solo nel deserto, non può che soccombere sotto le forze dei briganti che vi si aggirano. Ed in effetti fu così. Una notte mi allontanai dal nostro piccolo campo e tornai solo quando sentii delle grida. Mio padre era a terra e il suo sangue macchiava la sabbia, mia madre stava urlando, ma smise presto e mia sorella venne violentata e poi portata via in fin di vita. Io credo.. spero che fosse già morta».
Non lo interruppi mai e continuai imperterrita ad accarezzargli i capelli, anche quando smise di parlare e tacque per un tempo tanto lungo che credetti non volesse più ricominciare. Eppure lo fece.
«Non intervenni perché avevo paura e non volevo morire, ma sarei morto comunque se un uomo speciale non avesse incrociato la mia strada. Si chiamava Haeg e ai miei occhi era un mago potentissimo. Egli era venuto nel deserto per stare solo in meditazione e migliorare le proprie capacità, ma si imbatté in un ragazzo cencioso ed ebbe pietà di me. Mi portò con sé e dopo qualche anno cominciò ad educarmi all'uso della magia. Mi piaceva, mi affascinava e avevo un dono naturale, tuttavia il mio maestro mi continuava a ripetere di non essere avventato con essa perché avrebbe potuto trasformarmi in un mostro. Il dolore per la perdita dei miei familiari scemò lentamente e passò così un altro pugno di anni. In quel lasso di tempo Haeg divenne come un padre per me e io fui come un figlio per lui. Mi chiamava il ratto del deserto».
«Ecco perché il Ratto» osservai delicatamente. «Mi hai detto che ti si adattava come soprannome, a Dras-Leona».
«Già, mai soprannome fu più adeguato di quello. Mi chiamava così perché correvo veloce sulle dune e mi orientavo d'istinto in quelle lande, cosa che lui riusciva a fare solo con la magia. Eravamo una bella squadra, ma poi tutto è finito. Ci hanno attaccato dei briganti e io sono certo che fossero gli stessi uomini che avevano già ucciso la mia famiglia, non è facile dimenticare i volti di qualcuno che ti ha fatto così male. Haeg li ricacciò e protesse entrambi con la magia, ma consumò molta energia, troppa. Quando provai a passargliene un po' della mia il suo cuore aveva già smesso di battere e non riuscii.. a svegliarlo. La notte dopo ero accecato dal dolore, non avrei potuto sopportarlo un istante di più, così evocai gli spiriti, inseguii i banditi e li uccisi. Tutti loro. Ma prima di morire, uno mi disse che la sua discendenza era viva, nascosta in una delle tribù del deserto. Così mi ripromisi che sarei andato a cercare i suoi figli e avrei ucciso anche loro..»
«Il resto lo conosco» lo interruppi, depositandogli un bacio sulla testa.
«Scusa. Volevo che ci fosse qualcun altro a conoscere la verità prima.. prima di tutto» fece flebilmente.
Lo abbracciai e in quel momento fui certa che nessun gesto e nessuna parola sarebbe mai riuscito a trasmettergli anche solo un minimo di ciò che provavo per lui. Toccai la sua mente e, ottenutone l'accesso, vi riversai il mio affetto, le mie insicurezze, la mia pena, la gratitudine per essersi infine aperto in quel modo con me.
In risposta tornò a baciarmi e ricambiò la mia stretta.
Un pensiero balenò fugacemente nella mia mente: forse avrei dovuto dirgli della creatura che custodivo dentro di me. Una parte di me mi diceva che l'idea di un figlio lo avrebbe reso felice, ma sapevo che l'idea di un figlio in quello specifico momento lo avrebbe terrorizzato a morte, almeno un millesimo di quanto terrorizzava me.
Così tacqui e sprecai probabilmente l'ultima occasione ideale per comunicargli la notizia.
«Che cosa significa il tuo nome, Durza?»
«Nulla. Lo scelsero i miei spiriti per me e io decisi di mantenerlo, perché racchiudeva al suo interno i motivi che mi hanno spinto ad evocarli con tanta avventatezza».
«Cioé?»
«Sono le iniziali dei miei cari, Arya. La “D” per Damali, mia madre; la “U” per Urien, mio padre; la “R” per Rahi, mia sorella; la “Z” per Ziya, il mio fratellino nato morto; La “A” sta per Haeg, anche se si scrive con la “H”. immagino che gli spiriti non lo sapessero» concluse con una risatina.
Restammo svegli ancora un poco, poi cedemmo al sonno e ci risvegliammo all'alba del giorno seguente.
Durza mi guardò con un sorriso sornione a scoprire i denti aguzzi. «Non hai avuto gli incubi».
«No» risposi con leggerezza.
Poi lo Spettro mi lasciò riposare nel suo letto e si rivestì per andare a parlare con il capitano delle guardie mandate da Galbatorix.
Ritornò da me con l'umore decisamente peggiorato.
«Il re ha dato ordine di partire tra due giorni. E ha ordinato di trovare un modo per fare sì che tu non possa essere salvata da nessuno, così i suoi uomini hanno portato del Skilna Bragh con loro e dovrà esserti somministrato ogni giorno. Se qualcuno provasse ad intercettarti ti ucciderebbe se non avrà con sé il giusto antidoto».
Mi massaggiai le tempie. «Non conosco questo veleno, che genere di antidoto devo prendere?»
«Nettare di Thuvion, si ricava dalla Fricai Andlat».
«Credevo non crescesse nelle terre degli uomini» osservai.
«Sì, ma l'ultima persona che te ne ha procurato una boccetta ne coltivava una buona partita e il re lo sa, talvolta se ne fa anche pervenire un po' per le sue spie; so che lo assumono se ritengono opportuno mettere fine alla loro vita pur di non finire in mani nemiche».
Di nuovo Alba. Quell'elfa sembrava destinata a rimanere nella mia vita in un modo o nell'altro.
«Quando devo cominciare?» domandai.
Lo Spettro sollevò una mano e notai solo in quel momento che stringeva una fialetta tra le dita.
«In teoria da oggi, ma puoi aspettare anche il giorno della partenza, basterà che tu finga di fronte ai soldati del re».
Gliela strappai di mano e la bevvi d'un sorso. «Vediamo di non fallire a causa di stupidi dettagli traditori».
Solo dopo qualche istante mi ritrovai a chiedermi se per caso il veleno non avrebbe finito per nuocere al bambino.
Un sorriso orgoglioso comparve sul suo volto. «Non sono sicuro di volerti lasciare andare dal re».
«Nemmeno io sono sicura di volerti lasciare andare ad affrontare la fonte del suo potere».
«Mancano pochi giorni ormai. Se vuoi tirarti indietro sei ancora in tempo per farlo».
Scossi la testa. «Sai che non lo farò».
E non lo feci.
            Più tardi, quando entrai nella mia cella insieme allo Spettro, dovetti affrettarmi a riprendere la mia corporeità e lui a fare sparire la mia copia perché il capitano delle guardie si affacciò subito dopo.
«Capitano..» lo salutò Durza con malcelato sarcasmo, afferrandomi un braccio e tirandomi nuovamente nel corridoio.
Il cavaliere era stato sistemato in una cella vicina alla stanza delle torture, sul lato opposto alla mia, così che le sue sbarre si affacciavano sulle strade di Gil'ead e non sul cortile interno. Gettai una rapida occhiata allo spioncino quando vi passai davanti, ma non riuscii a vederlo. Avrei voluto entrare e scrutarlo dal vivo, dopo tutte quelle sfocate visioni che avevo avuto di lui. Senza contare che avevo trasportato per anni il drago che lo aveva reso cavaliere e nei suoi confronti mi sentivo curiosa come solo una madre doveva essere.
Durza si chiuse la porta alle spalle prima che chiunque potesse anche solo pensare di entrare e per un paio di ore mi procurò nuove ferite, ferite che tuttavia si premurò di non lasciare sanguinanti.
Stava per aprire la porta e condurmi nuovamente nella mia cella, quando ebbi un capogiro.
«Durza non mi..»
Ma non riuscii a concludere la frase perché gli occhi mi si chiusero e il cervello mi si annebbiò.
Mi risvegliai nella mia cella, distesa sul pagliericcio. La testa mi doleva come se avessi appena ricevuto una bastonata sulla nuca e non appena aprii gli occhi fui costretta ad alzarmi a sedere, a vomitare sul pavimento.
Qualcuno mi scostò i capelli dal volto. «Arya?»
Sentii il profumo di menta e capii in un istante chi fosse il mio interlocutore.
«Sono svenuta» dissi in tono di scuse.
«Mi dispiace, è stata colpa del veleno. Ti ho fatto bere l'antidoto, ma il capitano ha insistito affinché te ne venisse somministrata una nuova dose mentre eri ancora incosciente».
«Io sto bene» lo rassicurai. «Dimmi di tutto il resto».
«Quegli idioti credevano di averti ucciso, con il loro veleno. Mi hanno suggerito di non torturarti più fino al per i prossimi due giorni e credo che darò ascolto al loro consiglio». Mi guardò con attenzione. «Dopodomani dobbiamo partire, Principessa».
Sorrisi lievemente. «Ti bacerei, ma non mi pare il caso» dissi, accennando al contenuto del mio stomaco, che giaceva dalla parte opposta del pagliericcio dove era inginocchiato lo Spettro.
Gli strappai un sorriso. «Vuoi bere?»
E mi porse dell'acqua ancora prima di sentire la mia risposta. Bevvi con piacere, ripulendomi la bocca e inumidendo la gola, che sentivo riarsa.
«Ho un piano» mi informò poi.
Gli feci spazio sul pagliericcio e Durza sedette vicino a me.
«Voglio parlare con il cavaliere. Non posso spiegargli nulla di tutto il nostro piano, è troppo rischioso, ma forse potrei riuscire a cavargli di bocca qualche informazione utile per ottenere segretamente la sua fedeltà contro Galbatorix».
«I soldati di Galbatorix avranno ricevuto ordini specifici, e in ogni caso non so se valga la pena rischiare. Ormai non puoi risparmiare al ragazzo un bel viaggio ad Uru'baen, ma coinvolgerlo direttamente.. Mi stai proponendo di mandarlo al macello».
«Il re è nella capitale e qui comando io. Il capitano non mi rifiuterà un colloquio con il giovane se saprò insistere in modo convincente». Fece una smorfia crudele. «E per quanto riguarda la salute del ragazzo, credevo che fosse il piano dei Varden quello di mandarlo al macello contro Galbatorix».
Feci un cenno vago. «Prima si pensava di educarlo».
«Non sarebbe bastato. Lasciami fare, ormai ci stiamo giocando il tutto per tutto ed è meglio un cavaliere morto che uno schierato con Galbatorix».
Sospirai. «Hai ragione».
«Ora devo andare. E temo di doverti lasciare qui stanotte».
«D'accordo» mormorai quietamente, ma probabilmente non riuscii a nascondere la mia delusione e il mio dispiacere perché lo Spettro si chinò a baciarmi lo zigomo e poi a morsicarmi la punta dell'orecchio destro.
«Le guardie sono inquiete» si giustificò. «E spero che quello di stanotte fosse solo il primo di una lunga serie di riposi sereni».
«Sicuramente sì. Vai pure, buona notte».
«Torno domani sera» mi assicurò. «Non sparire».
Gli scompigliai i capelli rossi. «Mi trovi qui».
Ed effettivamente i miei incubi non tornarono nemmeno quella notte, così ne approfittai per prolungare il mio riposo fino alle più tarde ore del mattino seguente.
            Il pomeriggio stesso udii Durza bisticciare con il capitano, ma probabilmente ebbe la meglio perché una porta si aprì cigolando. Non sentii la conversazione che teneva con il cavaliere, anzi non sentii proprio nulla; probabilmente aveva insonorizzato la stanza.
Ma tornò, come mi aveva promesso, la sera stessa, seguendo il vassoio di cibo contenente la mia cena, che non riuscii a mangiare. L'odore della cipolla mi dava seriamente la nausea.
Lo Spettro -come spesso succedeva nelle ultime settimane- mi parve allarmato e turbato.
Mi raccontò del breve scambio avuto con il cavaliere e si soffermò con particolare attenzione sul suo presunto vero nome: Du Sùndavar Freohr. Morte delle ombre.
«Ti ha mentito» decretai con sicurezza. «Un vero nome è molto più lungo di così, descrivere l'intera essenza di un individuo non si può fare in meno di sei o sette parole».
Durza camminò inquieto davanti a me. «Mi sembrava sincero. E le ombre sono i miei spiriti. È quella.. era quella la loro forma quando li ho evocati. E se il suo destino è uccidere le ombre, allora significa che ucciderà anche me».
Mi alzai in piedi. «Nessuno ti ucciderà, tanto meno un giovane cavaliere inesperto. Non ci sono riuscita io e, fidati, non ci riuscirà nemmeno lui. In ogni caso sono quasi sicura che ti abbia detto una menzogna: droghe o no nessuno rivelerebbe un'informazione di un tale calibro con così tanta leggerezza, nemmeno il più stolto degli uomini».
«Mi hai convinto» sussurrò afferrando le mie mani e baciandole.
«Tutto a posto?» gridò una voce dall'esterno, che riconobbi come quella del capitano.
Il mio compagno alzò gli occhi al cielo in un gesto esasperato. «Sì! Mi accerto che il veleno non le stia nuocendo e arrivo, capitano, non è necessario che tu ti preoccupi del mio benessere».
Soffocai una risata nel palmo della mano e restai ad ascoltare i passi dell'uomo, che si allontanavano su per le scale.
«Sarà meglio che vada» borbottò. «Pensi di cavartela con i tuoi incubi?»
«Non li ho avuti nemmeno la scorsa notte» lo informai con ottimismo.
«Allora ci vediamo domani, quando verrò a prenderti per partire».
Mi sollevò il mento e mi baciò sulle labbra.
Una profonda inquietudine mi investì, facendomi tremare le gambe e accelerare il battito del cuore.
«Ci vediamo domani» ripetei, quasi a cercare di convincermi da sola.
E lo baciai una seconda volta.
Durza scoprì i denti aguzzi in un sorriso, una luce quasi tenera negli occhi di sangue.
Se solo avessi avuto una minima idea di quello che sarebbe successo da lì a poche ore lo avrei supplicato di restare, avrei baciato altre mille volte le sue labbra crudeli, scompigliato un'ultima volta i suoi capelli e confessato senza esitazioni il piccolo segreto che celavo nel mio ventre.
Ma non lo sapevo, come avrei potuto? Così lo lasciai andare e presi a mia volta a camminare avanti e indietro davanti alla porta della mia cella, troppo agitata per pensare di dormire o coricarmi.
            Il primo rumore fu quello dei soldati in corsa. Il secondo il rumore di passi vicino alle scale e il sibilo di un arco, poi voci concitate e passi frettolosi nella direzione della mia cella.
Cominciò a girarmi la testa e un forte bruciore mi assalì il cervello.
Il veleno! Non di nuovo.
Con fatica immane, cercai la coscienza di Durza.
«Aiutami!»
Poi vidi il volto di Eragon davanti a me, lo riconobbi all'istante e fui certa che non si trattasse di una visione. Lui mi guardò con una strana consapevolezza negli occhi castani, come se fossi un amico ritrovato dopo tanto tempo e ormai irriconoscibile.
E poi tutto divenne nero.

Ripresi una vaga coscienza di me quando sentii un calore rassicurante accarezzarmi diversi punti del corpo. Capii che qualcuno mi stava guarendo dalle ferite delle ultime settimane, ma mi isolai rapidamente dalle voci.
Non sapevo esattamente cosa stesse succedendo, ma una cosa era certa: non ero più a Gil'ead e sicuramente non ero sotto la custodia di Durza. E avevo del Skilna Bragh in corpo.
Dando per scontato che le voci intorno a me appartenessero al cavaliere e al figlio di Morzan e che i due non avessero intenzione di farmi del male, mi rifugiai nei meandri della mia mente, riducendo al minimo le mie attività vitali, consapevole che un respiro troppo profondo avrebbe potuto rubarmi minuti di vita, sotto l'effetto del veleno.
Era difficile non pensare a nulla quando tante cose facevano a pugni nella mia testa, ma con fatica disumana riuscii a staccarmene. Durza sarebbe venuto a prendermi, ne ero certa, nel frattempo dovevo solo sopravvivere.

L'intrusione di una mente sconosciuta nella mia mi costrinse a reagire. Attaccai lo sconosciuto con ferocia fino a che non mi resi conto che si trattava di Eragon stesso, che si dichiarò mio amico nell'antica lingua.
Un poco sorpresa, gli lasciai lo spazio necessario per riprendersi e toccai con circospezione la sua mente. Una vita breve, grandi dolori e un futuro ancora incerto. Questo colsi di lui in quei pochi secondi.
Poi mi resi conto di sapere troppo, di tutto. Probabilmente il giovane credeva di avermi appena salvato la vita e di avermi strappata dalle grinfie di uno Spettro crudele -e entrambe le cose erano in parte vere- e io non volevo contraddirlo. Non avevo tempo di chiedergli nulla, né di cosa fosse successo, né di cosa mi aspettasse, potevo solo condurlo dai Varden e farmi salvare la vita. Spiegare un'alleanza con Durza lo Spettro avrebbe richiesto ore, se non giorni.
Così feci l'ingenua e mi affrettai a mettergli tra le mani tutte le informazioni necessarie per raggiungere Tronjiheim, sperando che il giovane non avesse teso tranelli nel pronunciare il suo giuramento. Tuttavia la sua conoscenza dell'antica lingua mi pareva così scarna da far perdere spessore a quest'ultima ipotesi.
Ma che ne era stato di Durza?

Di ciò che successe i giorni dopo io ricevetti solo racconti postumi.
Mi risvegliai in una stanza soffocante, circondata da un pugno di persone che si affaccendavano intorno a me, pronunciando incantesimi per purificare il mio sangue.
Avrei potuto guarirmi da sola, ma non riuscivo a trovare la forza per sollevare la testa dal giaciglio e le mie labbra erano gonfie, la mia gola secca e la mia lingua impastata.
Poi arrivò qualcuno e capii che la sua presenza non doveva essere gradita perché cercarono di ricacciarlo.
«Fate come volete, ma se volete che gli Elfi tornino a darvi il loro appoggio dovrete restituire loro la loro ambasciatrice, possibilmente viva».
La voce era decisamente femminile, squillante, vagamente ironica e giungeva familiare alle mie orecchie, tuttavia sul momento non riuscii a stabilire chi ne fosse la proprietaria.
Altre mani leggere sfiorarono il mio corpo, altre parole nell'antica lingua danzarono lievissime nell'aria. Chiunque fosse l'intrusa sapeva quello che stava facendo e lo stava facendo bene. Tuttavia, quando le sue dita indugiarono sul mio ventre le sentii tremare.
Non ero pronta all'ansia divorante che si impossessò di me non appena realizzai che la maga stava sfiorando il punto in cui cresceva il mio bambino. Recuperate un poco di forze, mi affrettai a scacciarla, balbettando qualche sconnessa parola dettata dal panico, probabilmente chiedendo se la mia creatura stesse bene o fosse rimasta vittima del veleno. Schiusi gli occhi appiccicati e intravidi vagamente il profilo di una donna con una spropositata massa di riccioli ad incorniciarle il volto.
«Slytha» rantolò, allarmata.
E fui nuovamente fuori gioco.



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Ciaaaao :D
Prima che mi uccidiate lasciate che vi dia le mie giustificazioni: Immagino che la scelta di far rimanere Arya incinta sarà accolta con controversie. Forse è scontato e banale, effettivamente, ma non ho resistito alla tentazione di analizzare una possibile gravidanza di un elfo e di porre la questione del sangue misto elfa/spettro che avrà la creatura, se nascerà. Dico SE perché in realtà non ho ancora deciso del suo destino, quindi potrebbe benissimo finire -come ha già detto Arya- in un aborto spontaneo o in un bambino/a dai capelli rigorosamente rossi ;)
Vedremo..
Per quanto riguarda il resto del capitolo: Eragon è arrivato e si è portato via l'elfa dalla prigione, come previsto dalla trama. Avevo già premesso che nella mia narrazione avrei seguito gli elementi del Ciclo dell'Eredità con semi-coerenza e quindi eccoci qua! Spero non vi dispiacciano le descrizioni frettolose che troverete d'ora in poi per quanto riguarda gli eventi già ampiamente descritti da Paolini: non voglio ricreare una copia dei suoi libri, ma intessere trame sotterranee. Quindi troverete d'ora in poi interi capitoli riassunti in poche frasi, magari alcuni salti.. Insomma troverete scene "inedite" e alcuni pezzi ripresi frettolosamente dal punto di vista di Arya, ma non una ridescrizione accurata o diventerei decisamente noiosa e anche una plagiatrice. Spero di essermi fatta capire :')
Un'ultima e ahimé infelice informazione: sarò costretta ad aggiornare i capitoli ogni due settimane per il prossimo periodo. Non so dirvi esattamente fino a quando, ma almeno fino a metà febbraio; perdonatemi ma iniziano le sessioni di esami, e che esami! Non posso purtroppo caplestare i miei studi per questa fanfiction (perché per scrivere un solo capitolo impiego una media di dodici ore, sappiatelo), quindi vi chiedo un po' di pazienza, anche perché, per essere più precisa, dovrò riprendere un attimo in mano "Eldest", poi "Brisingr" e poi "Inheritance" ^_^
Un enorme bacio a tutti e ci vediamo (sigh) tra due settimane!
Lalli

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Capitolo 32
*** Morte delle Ombre ***


Ciao
32. Morte delle Ombre

[Durza]
Il dolore era partito tra gli occhi, dove la freccia si era conficcata, e poi si era rapidamente diffuso e ramificato in tutto il corpo, strappandogli le membra in mille frammenti e annullando la sua coscienza.
Si era ritrovato nel buio più totale, annichilito come il primo giorno che gli Spiriti si erano fusi alla sua coscienza. Non riusciva a pensare, a parlare, non riusciva nemmeno a sentire il proprio corpo.
Era solo nero e sussurri. I sussurri rabbiosi delle tre entità che lo avevano accompagnato e guidato per gran parte della sua vita, i suoi più intimi amici e alleati e i suoi più grandi e oscuri nemici.
La prima cosa che tornò a sentire furono le proprie mani, poi la sensibilità tornò alle braccia, al torace e da lì alla testa e agli arti inferiori. Il suo corpo bruciava, come invaso dalle fiamme.
Durza aprì gli occhi con un gemito di dolore e se li trovò feriti dalla luce del sole, che entrava prepotentemente da un buco sul soffitto. Si guardò intorno e riconobbe subito l'ambiente spartano del refettorio, così come riconobbe il mucchio di abiti che giacevano sparsi a terra accanto a lui. Solo a quel punto si rese conto di essere completamente nudo e si affrettò a recuperare i propri vestiti e ad indossarli. Trovò la sua spada e il suo mantello, e quando afferrò la catena con il sole d'argento e vide il luccichio violetto dell'anello di ametiste ricordò tutto ciò che era accaduto, con una chiarezza quasi violenta: il cavaliere era riuscito ad ingannarlo e il suo amico lo aveva colto di sorpresa, colpendolo alla testa. Era stato ucciso per la prima volta in vita sua e il ritorno era stato terribilmente doloroso, più di qualsiasi dolore mai provato prima.
Un'ondata di furia cieca lo investì da testa a piedi, facendolo tremare violentemente e acuendo il bruciante mal di capo che sentiva da quando aveva ripreso coscienza di sé. Gli Spiriti gli parlavano di violenza, dell'inebriante odore del sangue, del potere che dava vedere la luce lasciare gli occhi di un essere vivente.
Arya. Doveva trovare Arya. Lei lo avrebbe aiutato a metterli a tacere, almeno un poco.
Ma il cavaliere se l'era portata via. Aveva sentito il suo richiamo di aiuto ed era accorso il prima possibile, tuttavia aveva bloccato gli intrusi solo nel refettorio, dove aveva visto la sua donna riversa a terra accanto al giovane. E poi il figlio di Morzan l'aveva colpito.
Puntellandosi alla propria spada, quella preziosa lama che decenni prima aveva rubato ai briganti che avevano ucciso Haeg, si alzò in piedi e inclinò la testa di lato, concentrandosi sui suoni. Effettivamente regnava un silenzio innaturale: nessun suono proveniente dalle caserme, non dalle carceri, non dal cortile esterno. Solo avvicinandosi alla cucina cominciò a sentire delle voci, voci che si spensero bruscamente quando spalancò la porta.
«Dove sono finiti tutti?» domandò, la voce tesa dall'ira.
Gli risposero sguardi stupefatti.
«I soldati sono usciti per inseguire il prigioniero fuggito, mio signore» rispose uno dei cuochi. «Ieri notte c'era un drago qui.. Hanno detto che eri morto».
«So cosa è successo ieri notte» lo freddò. «Hillr è ancora qui?»
«Sì, mio signore».
«Vai a cercarlo e mandalo nel mio studio immediatamente».
Si accasciò sull'unica sedia della sua scrivania e subito rievocò la sera in cui Arya si era seduta sopra di essa.
Sentì un vuoto scavargli lo stomaco quando realizzò di avere nuovamente perduto una persona cara, nonostante avesse ormai il potere sufficiente per opporsi a buona parte delle forze in Alagaësia. L'unica, sostanziale differenza alla quale si aggrappò disperatamente, era che il cavaliere non avrebbe mai fatto del male ad Arya, non ne avrebbe avuto alcun interesse e inoltre il suo drago avrebbe dovuto riconoscerla come la sua custode. O forse no?
Forse l'avrebbero punita per essersi alleata di uno Spettro, se lei fosse stata così avventata da rivelarlo.
E per di più aveva un veleno mortale nel sangue.
Si tirò i capelli, poi rovesciò la testa all'indietro e lanciò un grido di rabbia, che decisamente non lo aiutò a migliorare il suo mal di testa.
Doveva andare a prendere Arya. La amava, la amava davvero come non aveva mai amato nessuno in vita sua e non se la sarebbe lasciata strappare senza fare nulla. Avevano dei progetti, dei sogni, e non avrebbe permesso a nessuno -tanto meno a un giovane cavaliere arrogante- di infrangerli.
Finalmente udì i passi di Hillr nel corridoio e stava per uscire dalla stanza e scuoterlo fino a che non gli avesse detto tutto ciò che stava accadendo, ma poi capì che i passi appartenevano a due persone.
Così cercò di rilassarsi e non fare trapelare la propria inquietudine, si accomodò sulla sedia e incrociò le mani davanti a sé.
L'uomo che accompagnava Hillr era il capitano delle guardie mandate del re e aveva gli occhi iniettati di sangue e il viso di un giallo malsano.
«Mio signore» fece Hillr, inchinandosi.
Il capitano si limitò a fargli un cenno e ad avanzare a grandi passi fino all'orlo della sua scrivania. «Abbiamo trovato i tuoi abiti e le tue armi a terra nel refettorio e credevamo che il cavaliere ti avesse ucciso, ma sono felice di vedere che sei tornato. Il cavaliere ci è scappato e si è portato l'elfa con sé, senza contare che alcuni dei miei uomini hanno riconosciuto il giovane che li accompagnava come un altro ricercato: Murtagh, il figlio di Morzan. Sappiamo che si stanno dirigendo a sud e buona parte dei soldati d'istanza a Gil'ead li sta inseguendo».
Durza immagazzinò le informazioni del capitano e capì dal suo tono scoraggiato che non credeva che sarebbero mai riusciti a recuperare i fuggitivi. Ma in effetti non avevano preso in considerazione una seconda risorsa: gli Urgali. Urgali che effettivamente erano rimasti privi di direttive per.. quanto tempo era passato? Lo domandò ai suoi interlocutori.
«Sono passate circa dodici ore da quando il drago è entrato, sfasciando il soffitto del refettorio» rispose prontamente il capitano, con precisione militare.
«Avete notizie degli Urgali?»
«Dispersi. Alcuni di loro hanno cominciato a lanciarsi in scaramucce lungo le sponde del lago Leona e io ho ordinato ai soldati di stare loro lontani. So che eri tu il loro comandante e che non avrebbero risposto ad altri che a te» disse vagamente.
Probabilmente il re gli aveva dato alcune informazioni, ma non aveva specificato come Durza fosse riuscito a dominare quelle creature. E gli Urgali si erano ovviamente svicolati dal suo controllo quando lui era.. morto? Sì, in fondo era davvero morto, anche solo per una dozzina di ore.
«Bene, signori», disse, «io credo che andrò a fare valere di nuovo la mia autorità sugli Urgali, poi credo che li seguirò alle calcagna dei fuggitivi».
E recupererò Arya e la terrò al sicuro fino a che non mi sarò liberato dell'autorità che Galbatorix ha su di me.
Il capitano non si azzardò a toccarlo ma gli fece capire che intendeva fermarlo muovendo un lieve passo di fronte a lui. «Dobbiamo fare rapporto al re, entrambi. Quindi pensavo che potresti usare la tua magia e contattarlo o presto lo farà lui e sarà più infuriato che mai» disse in tono pratico.
Per la prima volta dopo la breve permanenza del suo manipolo a Gil'ead, Durza provò un moto di simpatia per il capitano. E per di più aveva anche ragione: ormai non poteva più andare ad Uru'baen, non senza una buona motivazione, e aveva perso il suo diversivo.
«Hillr rimani nei paraggi, dopo dovrò parlare anche con te» disse, congedandolo.
L'uomo uscì e lo Spettro fece cenno al capitano di avvicinarsi allo specchio che aveva appeso alla parete vicino alla scrivania. Gli spiegò brevemente cosa sarebbe successo e l'uomo ne approfittò per ravvivarsi i capelli e riassettarsi la barba.
Senza preoccuparsi troppo del suo aspetto, Durza aprì una comunicazione diretta con Galbatorix, che comparve sulla superficie liscia dello specchio pochi minuti dopo.
Lasciò parlare il capitano, anche se la sua arte oratoria era decisamente inferiore alla sua. Vide l'espressione del sovrano deformarsi sotto i suoi occhi e passare dal pacato e paterno all'iroso, fino a che non sollevò una mano e bloccò i patetici tentativi del capitano di spiegargli che i suoi uomini sarebbero sicuramente riusciti a recuperare i prigionieri e il figlio di Morzan.
«Io mi sono fidato ciecamente di entrambi, eppure entrambi avete duramente deluso le mie aspettative. I vostri rispettivi compiti erano talmente facili, di così piccola entità rispetto a tutto ciò che io ho fatto per voi, che il vostro fallimento risulta come un'offesa alla mia persona e alla mia autorità. Entrambi sarete responsabili del recupero di tutti i prigionieri che avete lasciato scioccamente fuggire e vi consiglio di non presentarvi più davanti a me o alla mia corte fino a che non li avrete nelle vostre mani. Mi dite che si stanno spostando verso sud, ebbene Geerten, tu continua a tallonarli con gli uomini, tu Durza li seguirai con gli Urgali. Ora capitano ti prego di lasciare la stanza in cui vi trovate e di ricordare le mie parole: sarai accolto come un eroe se porterai a me quei pericolosi criminali, in caso contrario l'onta dell'insubordinazione si abbatterà su di te e sulla tua famiglia, i tuoi figli non troveranno mogli e la tua progenie finirà nell'ombra».
Il capitano Geerten si inchinò con le lacrime agli occhi e lasciò la stanza, decisamente determinato ad ubbidire agli ordini del suo signore.
«Durza» fece il sovrano, con tono di rimprovero. «Ti sei fatto prendere in giro da un ragazzino e dalla sua banda di scapestrati».
Faticò parecchio a chinare il capo e a dire, con tono dimesso: «Mi dispiace».
«Sai che ormai non basta più. Questa era la tua terza occasione, non credo che ne avrai una quarta. Dopo che questa storia sarà finita sarai dimesso dal tuo ruolo di governatore e integrato nell'esercito. Credo che fanteria potrebbe andare».
Teoricamente avrebbe dovuto sentirsi umiliato dalle nuove disposizioni del suo signore, ma ovviamente non lo era. Non quando l'unica immagine che aveva davanti agli occhi era quella di Arya, sulla prua di una nave, con i capelli corvini scompigliati dalla brezza marina e gli occhi verdi che lo fissavano con affetto.
Non sarebbe diventato un semplice soldato di fanteria, avrebbe ucciso l'uomo che voleva vantare diritti di vita o di morte su di lui e poi sarebbe fuggito con la donna più bella che si potesse desiderare.
«Come comandi, mio re» si costrinse a rispondere.
«C'è forse qualcosa che mi stai nascondendo? Qualunque cosa sia ti ordino di mettermene immediatamente al corrente» fece il sovrano in tono volitivo.
Con suo estremo stupore, nessuna morsa gli strinse la mente, la sua lingua non si mosse contro la sua volontà, le labbra non si schiusero a rivelare tutte quelle verità che gli avrebbero procurato una morte certa e pressoché immediata.
Impiegò qualche istante, ma alla fine capì: il suo vero nome era cambiato. Forse grazie ad Arya, forse grazie alla sua momentanea morte, forse grazie ad entrambe, ma non sentiva più nessun obbligo, nessuna costrizione, niente che lo legasse a quello che per un secolo era stato il suo padrone.
Si inchinò, per nascondere il ghigno che andava sbocciando sulle sue labbra. «Ti assicuro, mio re, che non ti nascondo nulla. Farò ciò che mi hai ordinato e seguirò le orme dei fuggitivi con i miei Urgali. I Kull corrono parecchio più veloci di un semplice umano e sono certo che riusciremo a raggiungerli molto prima che raggiungano i Varden, il Surda o qualunque rifugio possano trovare a sud. Dammi un paio di settimane e vedrai che te li consegnerò personalmente».
Il re parve pensieroso. «Mi stai chiedendo di darti la tua quarta possibilità?»
«Sì» mentì prontamente.
«E sia! Ma voglio uno sforzo in più da te, Durza. Finora i Varden non sono stati nulla più di una seccatura, una piccola falla in una diga perfetta, ma ora la falla si sta ingrandendo e io non posso permettere che tutto crolli. Per farla breve: dopo che avrai catturato i fuggitivi voglio che tu continui la tua marcia fino al covo dei Varden e li distruggi. Non ti sarà difficile dato che hai nelle tue mani tutte le informazioni che ti servono. Hai conservato le carte che ti feci pervenire un anno fa, non è vero?»
«Certamente».
«Allora fanne buon uso. Gli ordini sono semplici: attacca i Varden, coglili di sorpresa e uccidi tutti, dal neonato in fasce al vecchio senza denti. Ogni singolo essere vivente sotto la montagna è un nemico. Per quanto riguarda Ajihad.. non ho intenzione di trattare, quindi fa' di lui ciò che desideri, purché non resti in vita. Ti contatterò non appena avrò parlato con i Gemelli e manderò a te e agli Urgali un piano più preciso per l'attacco. Mi raccomando, non deludermi o saprò come fartela pagare».
Ed annullò la magia che permetteva di comunicare con lui.
Durza dovette lottare per lunghi minuti contro gli Spiriti, che scalpitavano eccitati alla sola idea di sangue e morte, sopratutto della morte di Ajihad. Del resto lui che colpa ne avrebbe avuto? Poteva salvare Arya, lasciarla incosciente un paio di giorni e sfruttare il tempo per uccidere finalmente l'uomo che inseguiva da decenni. A lei avrebbe poi detto di essere ancora sotto l'influenza di Galbatorix e di non avere avuto scelta.
Ne avrebbe sofferto, forse, ma lo avrebbe sicuramente giustificato e perdonato una volta che il re fosse morto. Ma lui? Poteva vivere ancora di menzogne?
Ma non tentare di ingannarmi con finte promesse o ti giuro sulla mia vita e su quanto ho di più caro in questo mondo che non avrai mai e poi mai il mio perdono. A quel punto avresti creato la tua più acerrima nemica, per di più custode di parecchi dei tuoi segreti.
Si strinse la testa tra le mani e la scosse violentemente. No, non l'avrebbe mai fatto, non se il rischio era di perdere la prima vera persona importante dopo un secolo di aridità.
Tuttavia gli Spiriti non furono così rapidi a demordere e, per tutta la giornata, fu vittima di spaventosi sbalzi d'umore a causa dei violenti impulsi che le creature diffondevano nella sua coscienza. Pareva che l'intera operazione di morte e rinascita li avesse rafforzati.
Parlò con Hillr e gli affidò il comando della città fino a che non fosse tornato -rendendosi conto lui stesso che probabilmente non sarebbe tornato affatto- poi richiamò gli Urgali all'ordine e passò loro secchi comandi, radunando i primi squadroni di Kull, che avrebbe mandato il prima possibile alle calcagna dei fuggitivi, con l'ordine di catturarli ma non fare del male a nessuno di loro.
I preparativi gli richiesero più tempo di quanto avesse previsto, forse perché recuperare il controllo sugli Urgali si era rivelato piuttosto complicato. Si ritrovò, a un'ora dalla mezzanotte, a mangiare di malavoglia la cena fredda e a trascinarsi verso il suo letto. Era stanchissimo e si chiese se per caso non avesse sottovalutato il prezzo della rigenerazione, tuttavia non appena si coricò capì che il riposo non sarebbe giunto con tanta facilità.
Aveva diviso quel letto con Arya, c'era ancora il suo odore tra le lenzuola e lei era chissà dove, con un pericolosissimo veleno in corpo, affidata alle sbadate cure di un ragazzino. Se mai l'avesse rivista, viva e vegeta, si sarebbe chinato a baciarle i piedi.
Accese una candela e, preso il pugnale Luna, iniziò ad incidere distrattamente la testiera del letto. Non aveva una grafia particolarmente gradevole, era troppo fitta e spigolosa, ma era abbastanza abile ad incidere il legno, lo aveva fatto spesso quando era un ragazzo. Scrisse il nome dell'elfa, piccolo e rassicurante, e poi incise una barca, così ricca di dettagli da sembrare che fosse stata imprigionata nel legno. Poi si addormentò, il pugnale ancora in mano, abbandonandosi a sogni agitati.

[Arya]
«Vi ringrazio molto per le vostre cure, ma ora vorrei alzarmi» dissi spazientita, rivolgendomi al nutrito gruppetto di guaritori che mi circondava. In realtà mi sentivo stanca e svuotata da ogni vigore, tuttavia volevo assolutamente muovermi e tornare pienamente alla vita dopo oltre una settimana di coma.
«Non sottovalutare gli effetti del veleno e delle ferite, hai subito molto».
Già, avevo subito molto. Eppure si erano premurati di cancellare dal mio corpo ogni singola cicatrice, lasciando la mia pelle innaturalmente liscia, come non lo era dalla mia prima missione diplomatica tra i Varden.
«E gradirei riavere i miei abiti» li informai, scrutando con occhio critico la bianca camicia da notte che mi copriva dal collo alle caviglie.
Una donna abbandonò la stanza per eseguire, ma gli altri si affrettarono ad esortarmi al riposo non appena gettai i piedi oltre al pagliericcio per scendere a terra. Sembrava che, dopo avermi creduta morta e aver perso l'appoggio di mia madre, temessero di vedermi cadere in briciole sotto i loro occhi.
Sentii la porta aprirsi e diedi per scontato che fosse tornata la donna che era andata a prendere i miei vestiti, ma quando alzai gli occhi individuai la figura di una donna bassina, dai folti capelli castani e ricci.
«Angela!» la rimproverò qualcuno, «Non sei autorizzata a stare qui».
Ma lei mi guardò in viso e avanzò dritta nella mia direzione.
La riconobbi immediatamente e la sua immagine si sovrappose a quella sfocata che avevo visto durante la mia guarigione.
«Venerabile!» esclamai, inchinandomi precipitosamente davanti a lei.
Sorrise affabile e fece cenno a tutti gli stupefatti guaritori di lasciare la stanza. Lo fecero, forse troppo sconvolti dalla mia eccessiva deferenza per riuscire a ribattere in modo soddisfacente. Solo allora l'espressione di Angela si deformò e assunse contorni terribili.
«Arya Dröttningu di Ellesméra. Mi ricordo molto bene di te. Quanti anni sono passati dall'ultima volta che ho fatto visita a tua madre? Quaranta? Cinquanta?»
«Credo circa cinquanta» risposi incassando le spalle, un poco spaventata dal suo atteggiamento brusco.
«Bene, sappi che le sue ultime decisioni mi hanno parecchio indisposta, ma immagino che di questo dovrà informarti Ajihad.. Come ormai avrai intuito sono stata io a guarirti dal veleno, l'antidoto stava agendo troppo lentamente e il tuo sangue doveva essere depurato».
Annuii. «Ti ringrazio».
«E il tuo bambino sta bene». Era un'affermazione.
«Lo so» risposi, impreparata e allo stesso tempo consapevole di non poterle mentire.
«Ora voglio sapere chi, come e quando. No il come risparmiamelo, per favore, credo di sapere come si svolgano questo genere di cose».
Tentennai, poi feci un altro piccolo inchino. «Temo di non poterti rispondere, Venerabile».
«Arya non voglio costringerti e tanto meno violare l'intimità della tua mente, quindi farai meglio a rispondermi con la massima sincerità» mi intimò, arrotolandosi con noncuranza un ricciolo intorno al dito indice.
Sapevo che dietro all'ingannevole aspetto della minuta, indifesa e spensierata umana Angela l'Erborista si celava un essere dai vasti poteri, dalla saggezza sconfinata e dalla vita ancor più lunga di quella di qualsiasi elfo. Nessuno nella Du Weldenvarden sapeva a quale razza appartenesse quella che noi chiamavamo la Venerabile, ma era citata nelle nostre cronache più antiche e non di rado faceva visita ai nostri regnanti, cambiando nome e aspetto nel corso dei millenni. Sapevamo solo che si occupava di mantenere intatti gli equilibri e, per quanto crudele potesse sembrare, ciò che faceva era sempre mirato al bene supremo di Alagaësia stessa.
Così, in soggezione di fronte alla sua autorità e al suo cipiglio, mi fissai le mani e mi imposi di rivelarle almeno parte della verità. Lei mi avrebbe sicuramente consigliata su come agire, senza impormi soluzioni che sapeva fuori dalle mie capacità, sia morali che fisiche.
«Porto in grembo il figlio di Durza lo Spettro» sussurrai. E dirlo ad alta voce fu come accettarne finalmente l'esistenza.
Mi fece un cenno. «Lo avevo intuito. Ieri ho dovuto addormentarti o qualcuno avrebbe finito per crederti una traditrice: continuavi a balbettare il nome dello Spettro e a chiedere quando sarebbe arrivato e in che condizioni fosse il suo amabile figlioletto. Posso?» fece con inaspettata gentilezza, toccando il braccio che avevo avvolto intorno alla mia vita.
Feci cadere il braccio con un poco di timore e lasciai che bisbigliasse qualche parola per poter vedere sotto la mia carne, un incantesimo difficilissimo e che lei sembrava svolgere con assoluta noncuranza.
«Sei settimane?» domandò poi.
«Ormai sette» risposi automaticamente.
Annuì pensierosa. «Ancora non si vede nulla. Lo sai vero che se vuoi prendere delle erbe ti manca poco tempo?»
Deglutii. «Lo so».
La consapevolezza che brillò nei suoi occhi scuri mi fece intendere che aveva intuito buona parte della verità.
«Allora facciamo così: se sarai abbastanza intelligente e vorrai scrivere la parola fine a questa storia, cercami con la mente e io ti indicherò il posto dove trovarmi. Ti darò io le erbe giuste.» Alzò un indice con aria ammonitrice. «Se parli al Du Vrangr Gata della mia posizione ti ammazzo, ma non credo che lo farai, dico bene?»
Decisamente no. Quella strana setta di stregoni aveva avuto l'insana abitudine di importunarmi i primi anni che avevo preso in custodia l'uovo, ma era bastata una sfuriata di impatto per far passare loro la voglia. Angela, invece, preferiva che la portata dei suoi poteri restasse nell'ombra. Lo aveva sempre fatto tra gli uomini, così da potersi muovere più liberamente intorno a loro.
«Se invece preferisci scegliere la strada più difficile, allora sarà meglio che tu non dica nulla a nessuno o perderesti tutto il tuo rispetto e la tua credibilità. Certo, potresti sempre dire che si è trattato di una violenza e che non hai mischiato il tuo sangue a quello di uno Spettro, ma in ogni caso sarai guardata con sospetto se sceglierai di tenere il bambino, anche se ufficialmente non sarebbe colpa tua. Applica qualche incantesimo su di te in modo che nessuno con l'udito superiore a quello di un umano -come uno della tua razza- possa udire il battito del suo cuore o percepire la sua coscienza, quando si potrà percepire». Mi guardò dritta negli occhi. «Non voglio sapere nient'altro, ma ti conviene anche ricordare che per sei mesi sei stata prigioniera di uno Spettro crudele e sanguinario, che ti ha torturata fino a ridurti in fin di vita pur di strapparti informazioni da dare al re. Quindi vedi di non fare commenti inopportuni quando Ajihad verrà a parlarti. A nessuno piacciono gli Spettri e a me e ad Ajihad non piace Durza lo Spettro in particolare, chiaro?»
«Sono fedele alla causa dei Varden» mi sentii il dovere di specificare.
Rise. «Di questo non ne ho mai dubitato, sei una delle più convinte qui dentro e non credo che la tua fedeltà abbia subito un simile cambiamento in così pochi mesi, tuttavia ti consiglio di seguire alla lettera ciò che ti ho detto».
«Durza è..»
«Ti ho detto che non voglio sapere nulla» mi interruppe. «Fatti però almeno un paio di domande e ricorda che non sempre ciò che vedi corrisponde alla verità. Sappi che in me hai incontrato una persona comprensiva, ma se provassi a spiegare a qualcun altro ciò che hai provato a spiegare a me, probabilmente saresti uccisa senza una minima esitazione. Nessun elfo si è mai alleato ad uno Spettro, unito a lui e ancor meno avuto un figlio con lui».
Sapeva parecchio, era indubbio, ma mi aveva anche lasciato intendere che il mio segreto sarebbe stato al sicuro.
«Seguirò i tuoi consigli, Venerabile».
«Perfetto!» esclamò allegramente, battendo le mani. «Sai tu sei molto utile a questa ribellione e sarebbe un peccato perderti, ne risentiremmo parecchio. Ti prego però, non appena sarai al cospetto di tua madre, di convincerla a cambiare idea, dato che sei decisamente viva. Ah, ed evita di dirle ciò che ti è accaduto per favore. Scegli una versione ufficiale e mantienila con tutte le persone con cui parlerai, non credo di doverti spiegare cosa è meglio evitare di dire e cosa no. Ora ti saluto, suppongo ci vedremo presto!»
«Aspetta!» la bloccai, angosciata. «Tu sai cosa succederà? Cosa devo aspettarmi da questo bambino? La natura del padre lo..?»
Fece un gesto frivolo con la mano. «Non posso risponderti. Nella mia lunga esperienza non si è mai verificata una cosa simile, ma sono quasi sicura che tuo figlio non nascerà influenzato dagli Spiriti che possiedono Durza, se è questo che intendi. Un gran bell'esempio di quanto le azioni dei genitori non dovrebbero influenzare la prole, non credi? Bene, se deciderai di essere intelligente sai cosa fare. Ti farei le congratulazioni, ma qualcosa mi dice che non è il caso».
Detto questo mi strizzò l'occhio e se ne andò, lasciando entrare i guaritori che aveva cacciato fuori pochi minuti prima. Mi vennero restituiti i miei abiti e portato del cibo, che consumai con avidità, poi riuscii finalmente a mandare via tutti i miei molesti salvatori e a restare sola per qualche ora, così da rimettere in ordine le idee.
Non sapevo nulla di Durza, non potevo né divinarlo né contattarlo e se avessi parlato a qualcuno di ciò che era accaduto tra noi mi avrebbero rapidamente bollata come traditrice. Nessuno avrebbe creduto alla mia storia e nessuno avrebbe giustificato la mia alleanza con uno Spettro, mi sarei solo compromessa. E non era il caso che succedesse una cosa simile, non prima di avere la totale certezza della morte di Galbatorix.
A quel punto non ero più così certa che Durza sarebbe venuto a prendermi. Mi fidavo di lui, continuavo a fidarmi nonostante Angela mi avesse fatto notare che poteva avermi presa in giro, ma dovevo agire cautamente, parlare con Ajihad, con il cavaliere, recuperare la mia posizione e poi trovare il momento giusto per allontanarmi e cercare lo Spettro.
Era già un miracolo che Eragon non avesse trovato un paio di incongruenze, quando mi aveva salvata a Gil'ead: avevo i vestiti e i capelli puliti quando mi aveva recuperata dalla mia cella, ed ero certa che la mia pelle avesse ancora l'odore dell'olio da bagno che Durza versava sempre nella vasca. E non era esattamente normale occuparsi dell'igiene dei prigionieri fino a tal punto. Fortunatamente la mia pulizia era decisamente degenerata durante i giorni di viaggio che erano trascorsi per arrivare a Tronjheim, tanto che mi era stato fatto un bagno mentre ero incosciente e mi avevano anche lavato e rammendato i vestiti.
Nessuno sospettava nulla e mai lo avrebbe fatto se fossi stata abbastanza prudente.
            Nasuada venne a trovarmi nel pomeriggio, trascinando con sé una ventata di curiosa allegria. La conoscevo appena, ma era impossibile non volerle bene e rispettarla, nonostante la giovanissima età: era gentile, fiera, indipendente, scaltra e conosceva i Varden e la loro organizzazione almeno quanto Ajihad. La perfetta figlia di suo padre.
«Mio padre vorrebbe parlare con te non appena ti sentirai meglio» mi disse.
«Allora puoi dirgli che quando desidera può farmi chiamare, mi sento in perfetta forma ormai».
«Sei sicura? Non sono passati ancora due giorni completi da quando ti è stato somministrato l'antidoto e mio padre ha intenzione di farti domande che potrebbero rivelarsi piuttosto spiacevoli».
«So cosa vuole chiedermi Ajihad e io sono pronta a rispondergli». Esitai. «Il cavaliere e il suo drago stanno bene?»
«Benissimo, direi. Si sono ripresi in fretta e hanno manifestato l'intenzione di seguire il cammino che il patto tra elfi e uomini aveva previsto. Mio padre li farà esaminare domattina e scriverà una lettera per la regina Islanzadi, che dovrai consegnare a lei quando tornerai ad Ellesméra con i due». Chinò il capo. «Avrei un'altra triste notizia per te, ti prego di non dire a mio padre che te l'ho comunicata o si arrabbierà, ma mi sembra giusto che tu la sappia adesso, prima di dover ripercorrere tutti i mesi di sofferenze che hai passato».
«Dimmi pure».
«Si tratta di Brom. È morto».
Oh.
«Mi dispiace, so che vi conoscevate e che avevate preso insieme gli accordi per dividere l'uovo tra elfi e uomini. Cioè, non lo ricordo ovviamente, ma so che è così» concluse con un lieve sorriso.
Brom, morto. Avevo origliato la conversazione tra Durza e Galbatorix e avevo sentito che Brom era rimasto ferito dai Ra'zac, tuttavia non credevo che fosse..
«Questa è una grave perdita per i Varden» dissi con voce grave. Non lo conoscevo benissimo, Brom, ma ricordavo bene il giorno che era venuto da me a chiedermi di addossarmi anche l'incarico di custode dell'uovo, insieme a quello di ambasciatrice. Mi riteneva l'unica persona adatta e la più imparziale tra le due razze.
La giovane annuì. «Anche mio padre ne è rimasto molto colpito».
Nasuada si mosse inquieta sullo sgabello e capii che non vedeva l'ora di andarsene, ma allo stesso tempo non voleva apparire maleducata. Probabilmente aveva altre cose da fare.
«Ti ringrazio per la visita» la congedai.
«Figurati, rimettiti presto. Ora credo che andrò a trovare Murtagh, il figlio di Morzan. Devo portargli i tuoi saluti? È stato lui ad aiutare te ed Eragon a fuggire da Gil'ead».
Feci un cenno di assenso, poi la ragazza mi salutò e mi disse che avrebbe mandato suo padre da me entro un paio d'ore.
            Ajihad venne, accompagnato da Rothgar, ed entrambi stettero a sentire il mio succinto racconto, accomodandosi sugli sgabelli di fortuna accanto al mio pagliericcio.
Mi concentrai sui primi tre mesi di prigionia e feci un resoconto piuttosto dettagliato di ciò che avevo subito in quel primo periodo, fingendo che il tutto si fosse prolungato anche per i tre mesi seguenti. Evitai ovviamente di parlare di eventuali visioni, di Alba, dei baci -inizialmente umilianti- che Durza aveva lasciato sulla mia pelle.
A sua volta Ajihad fece a me e a Rothgar un breve riassunto delle disavventure vissute dal cavaliere, incastrando alla perfezione il racconto nel mio. Feci finta di nulla quando parlò di Gal, l'uomo che aveva mandato a cercare Brom e che probabilmente era stato intercettato dall'Impero. Da Durza a dire la verità, che era poi stato costretto a riferire le sue scoperte a Galbatorix. Ma non volevo sminuire ulteriormente il mio compagno di fronte al suo più acerrimo nemico e in ogni caso era un'informazione irrilevante. Ce n'era un'altra che era di importanza ben maggiore.
«Mentre ero prigioniera dello Spettro l'ho sentito parlare delle spie che avevano dato al sovrano le informazioni necessarie per intercettare me e gli altri custodi».
«Spie?» fece Ajihad con espressione dura.
«I Gemelli, parlava di loro. E non credo che ci siano molte persone con cui confondersi all'interno del Farthen Dur» dissi con convinzione.
Rothgar aggrottò le folte sopracciglia. «Non mi sono mai piaciuti quei tuoi stregoni Ajihad, mi sembrano due viscidi rettili. E per di più sono al di sopra di ogni controllo, dato che sono loro a scrutare le menti degli altri. È lo stesso problema che si è verificato con i cavalieri dei draghi: chi controlla i controllori?»
«Potrei farlo io» mi offrii.
Capii di aver commesso uno sbaglio quando il capo dei Varden liquidò la questione con un brusco gesto. «Se permettete ciò che riguarda gli uomini è sotto il mio controllo. Rispetto entrambi, la vostra autorità e la vostra razza, ma non voglio che nessuno di voi si immischi nelle faccende che sono sotto la mia autorità. Arya, probabilmente lo Spettro ti ha ingannata e in ogni caso non posso esserne sicuro».
Feci un cenno di assenso. «Come desideri. Ma ti prego di tenere gli occhi aperti e di moderare la tua fiducia nei loro confronti. È un consiglio in quanto tua alleata, non un tentativo di prevaricare la tua autorità».
«E io ti ringrazio del saggio consiglio. Non mi fido di nessuno al di sopra di me stesso e terrò d'occhio i Gemelli anche se sono certo della loro innocenza».
«E lascerai che il cavaliere mi segua ad Ellesméra?» mi accertai.
«Brom è morto e il patto stabiliva questo, quindi da parte mia non incontrerai resistenza. Tuttavia dovrai stare molto attenta, perché il giovane cavaliere -oltre ad essere piuttosto incosciente- è anche parecchio ingenuo. Mi ha riferito di essersi scontrato con Durza, a Gil'ead e ha detto che Murtagh, il figlio di Morzan, l'ha ucciso».
Il mio cuore perse un battito.
«Ma non è possibile, perché a quanto pare il giovane lo ha solamente colpito in fronte e che io sappia gli Spettri non possono morire, a meno che non ricevano un colpo dritto al cuore».
Rothgar annuì con l'aria di chi è sicuro di ciò che ha appena sentito e io mi ricordai appena in tempo di respirare.
«Ora il giovane cavaliere ha un nemico che lo odia profondamente» fece il re dei nani. «Non passa tanto in fretta l'umiliazione di una sconfitta, specie ad una creatura fatta d'odio».
«Lo so fin troppo bene» fu la replica di Ajihad. «Durza è un avversario temibile».
Ed estremamente testardo e orgoglioso. Aggiunsi tra me.
«Vi è un'ultima questione di cui vorrei metterti al corrente, Arya. Rothgar sa già tutto e anche Eragon, così non mi resta che dirla anche a te e pregarti di non riferirla a terzi, non voglio che il panico dilaghi a Tronjheim». Aspettò che annuissi poi proseguì: «Questo pezzo di pergamena è stato sottratto ad uno degli Urgali che ha cercato di sbarrare la strada ad Eragon. Si tratta di un comunicato mandato da Galbatorix in persona e pare riferirsi ad un futuro attacco. Non sappiamo ancora che posto sia questa Ithrö Zhada, ma deve trovarsi tra queste montagne e temiamo un attacco, anche se per il momento il Farthen Dur non è stato ancora scoperto».
«Ho già mandato dei ricognitori nelle gallerie» intervenne Rothgar. «Se ci saranno movimenti anomali lo sapremo immediatamente».
Annuii nuovamente e fui colta da sentimenti contrastanti quando seppi che Durza era annoverato tra i possibili comandanti. Certo, significava che era vivo, ma significava anche che stava muovendo un esercito di Urgali in direzione del Farthen Dur e ricordavo bene che possedeva mappe dettagliate delle gallerie sotto la montagna.
Cosa aveva intenzione di fare, esattamente?
I due rimasero per qualche altro minuto, ma, trovandomi improvvisamente chiusa in un ostinato mutismo, abbandonarono la stanza, lasciandomi con la sgradevole sensazione di stare combattendo la più dura battaglia della mia vita.

Dormii parecchio quella notte, ormai libera dagli incubi che mi avevano tormentata negli ultimi mesi. Il giorno seguente, sentendomi molto meglio, decisi di andare ad assistere all'esame che il cavaliere avrebbe subito; gli dovevo un ringraziamento o la mia scortesia avrebbe decisamente dato nell'occhio, senza contare che ero curiosa di conoscere finalmente il ragazzo che era più volte apparso nelle mie visioni e il drago che lo aveva reso cavaliere.
Non restai particolarmente sconvolta quando vidi che erano i Gemelli i giudici per quanto riguardava le abilità magiche del giovane. Era prevedibile, dato che erano i più abili maghi tra i Varden.
Me ne stetti in un angolo, non vista, a guardarlo passare con abbastanza disinvoltura da un incantesimo all'altro. Indubbiamente Brom era stato un ottimo maestro per lui ed Eragon non sembrava cavarsela male, per essere un umano.
Più volte i miei occhi scivolarono su Saphira, ammirando la bellissima e maestosa creatura, nata dall'uovo che avevo conservato con tanta cura per quasi vent'anni. Le sue squame catturavano la luce in modo ammaliante, rilucendo di un colore che pareva leggermente più chiaro di quello che era stato il suo uovo, più acquoso.
Mi riscossi dalle mie contemplazioni quando udii uno dei Gemelli chiedere ad Eragon di evocare l'essenza dell'argento. A quel punto non ci vidi più e, incurante degli sguardi sospettosi e guardinghi degli uomini intorno a me, avanzai nel piccolo gruppetto e li rimproverai aspramente, guadagnandomi le loro espressioni timorose.
Eragon mi guardò e riconobbi lo stesso sguardo che mi aveva lanciato la notte che mi aveva strappata dalla mia cella, a Gil'ead, lo sguardo di qualcuno che sembrava riconoscermi, ma non conoscermi.
Vidi che il qualche modo il mio intervento non era piaciuto agli uomini intorno a me, ma li ignorai e, attirato Eragon verso il centro del campo, rivendicai un duello con lui.
Perché lo feci? Volevo sondare le sue abilità fisiche, scoprire che guerriero aveva forgiato Brom, che genere di cavaliere fosse nato insieme al drago dell'uovo di zaffiro, quale giovane inesperto era riuscito a mettere Durza alle strette, fino ad ucciderlo, anche se solo temporaneamente. Mi guidava un misto di rabbia, irritazione, curiosità e aspettativa.
Eragon e Saphira erano pur sempre la possibilità che aspettavamo da anni per sconfiggere Galbatorix e io avevo fortemente contribuito alla loro creazione, anche solo sbagliando l'incantesimo che avrebbe dovuto portare l'uovo a Brom e che invece -come mi aveva riferito Ajihad- avevo mandato a lui.
Eragon era debole e lento come ogni essere umano, ma aveva molta fantasia e uno stile di combattimento piuttosto flessibile. Sembrava capace di adattarsi in qualche modo alle mie capacità, anche se non riusciva a raggiungerle. Probabilmente era il miglior spadaccino umano che avessi mai fronteggiato e rimasi abbastanza soddisfatta da quell'incontro e anche gli uomini intorno a noi, a giudicare dai complimenti che fecero al giovane. Nessuno mi disse nulla ovviamente e, una volta catturata l'attenzione di drago e cavaliere, mi allontanai dalla piccola folla con lui e Saphira e li ringraziai per ciò che avevano fatto.
Eragon mi disse di avermi vista in sogno, come una visione, e io mi limitai ad accennargli vagamente agli strani eventi che mi erano accaduti negli ultimi mesi. Era chiaro che il ragazzo non aveva la minima idea di che cosa fossero e non avevo intenzione di attirare ulteriori attenzioni su di me.
Mi congedai dai miei “salvatori” non appena mi fu possibile farlo senza apparire scortese e mi ritirai nella stanza che mi era stata assegnata.
Non avevo voglia di passare altro tempo in compagnia, quello era ancora il mondo che avevo scelto, quello in cui ero cresciuta e quello per cui avevo combattuto, tuttavia io ero cambiata. Durza mi mancava come se mi avessero sottratto un arto ed ero sinceramente preoccupata per ciò che avrei dovuto fare da quel momento in poi.
Lo Spettro si era rigenerato, dato che non lo avevano ucciso definitivamente. Ma come? E sopratutto: chi era l'uomo che era tornato? Era lo stesso che avevo lasciato con la promessa di rivederci il giorno dopo? O i suoi spiriti avevano nuovamente preso il sopravvento, come la notte che li aveva evocati?
Non sapevo nulla sulla materia, e nessuno poteva fornirmi ragguagli.
Cosa dovevo fare? Rischiare tutto e lasciare i Varden senza un perché, per lanciarmi nella cieca e pericolosa ricerca dell'uomo che amavo, ma non ero più certa che ricambiasse, non sembrava la migliore delle idee che avevo mai avuto fino a quel momento. Se non lo avessi trovato, o peggio, se avessi trovato uno Spettro sanguinario che mi vedeva come l'ennesima delle sue vittime, a quel punto avrei solo sprecato tempo ed energie che avrei potuto convogliare più facilmente nei miei antichi obiettivi: deporre Galbatorix.
Eppure allo stesso tempo non potevo fingere che gli ultimi sei mesi non fossero mai passati. Ne avevo la prova schiacciante nel ticchettio sempre più forte e sicuro che proveniva da dentro di me, il battito sempre più forte del cuore di nostro figlio.
Dovevo prendere una decisione.

Tuttavia fui sollevata dall'arduo compito il giorno seguente, quando un nano si presentò alla mia porta, ancora prima dell'alba, dicendomi che Ajihad voleva vedermi con urgenza.
Fui condotta in biblioteca, dove presto mi ritrovai coinvolta in un incontro con Ajihad, Jörmundur, Orik, Eragon e Saphira.
«Un esercito di Urgali si trova ad un giorno di marcia da qui» disse il capo dei Varden.
Non dissi nulla. C'era da aspettarselo visto il precedente messaggio intercettato ad un Urgali, in cui si accennava solo vagamente ad un futuro attacco a Tronjheim. Io poi sapevo che l'impero conosceva buona parte dei cunicoli dei nani e poteva raggiungere il covo dei Varden con facilità.
            Per le ore seguenti aiutai i nani a fare crollare innumerevoli tunnel sotterranei, così da costringere l'armata a convergere sotto Tronjheim, dove le truppe dei Varden avrebbero potuto tenerli a bada. Un fiume di gente si riversò all'esterno della città, in direzione delle gallerie che avrebbero permesso loro di lasciare il Farthen Dur ed essere scortati nel Surda in caso di sconfitta. Riconobbi sopratutto molti bambini, vecchi e donne. Mi chiesi per l'ennesima volta perché gli uomini non pensassero mai a mettere un'arma in mano alle loro figlie e spose, ma sapevo che il problema aveva radici troppo profonde nella loro cultura: gli uomini era previsto facessero lavori di fatica e le donne era previsto che si prendessero cura di loro e dei loro figli. Donne guerriere erano una rarità assoluta nella loro società prevalentemente maschilista.
Riuscii a procurarmi almeno una giubba corazzata da mettere sopra ai miei pratici abiti da viaggio e sedetti insieme al battaglione a cui mi ero unita, quello dove c'erano anche Eragon e Saphira.
Quella battaglia era un incognito per tutti, ma non avrei permesso che succedesse nulla di male al cavaliere e al suo drago. Avrei tenuto la mente aperta e cercato la coscienza di Durza e, nel caso l'avessi trovata, lo avrei raggiunto immediatamente e avrei fatto il possibile perché lui ritirasse le truppe. Sempre che non fosse sotto l'ordine diretto del re, ovviamente. A quel punto l'unica cosa che avrei potuto fare davvero era colpirlo mortalmente alla testa e metterlo nuovamente fuori gioco per.. quanto? Non sapevo quante ore, o quanti giorni impiegasse uno Spettro per rigenerarsi, ma se fossero state anche solo due ore probabilmente sarebbero bastate per ricacciare le litigiose bande di Urgali.
Mi imposi di respirare con calma e rallentare il battito del mio cuore agitato. Non potevo fare altro che aspettare, vegliare su quel giovane gentile e irrispettoso che era Eragon e sulla pacata creatura che lo accompagnava.
Approfittai della lunga attesa per rinnovare gli incantesimi di protezione su di me, intensificandoli sproporzionatamente nel punto in cui cresceva la mia creatura. Anche quella era una preoccupazione tutta nuova, non ero abituata ad essere cauta nell'espormi al pericolo e mi sembrava che in qualche modo la mia vita mi fosse stata sottratta. Non era più una questione solo mia, c'era qualcun altro in gioco.
            Fui io a risvegliare i miei compagni, poche ore dopo, quando le prime grida rimbombarono nel sottosuolo e gli esploratori dei nani riemersero per comunicare la notizia dell'avanzata degli Urgali. A quanto pareva non c'erano uomini dell'esercito imperiale insieme a loro e questo mi fermò ulteriormente nella convinzione che avrei trovato lo Spettro -volente o nolente- al comando delle loro fila.
Finii quasi subito le frecce e mi lasciai assorbire dallo scontro armato, troppo concentrata nel guardare con sgomento quanti Urgali stesse vomitando la terra per poter espandere la mia coscienza per non più di qualche miglio. Di Durza nessuna traccia.
E per i Varden e i loro alleati si stava mettendo veramente male.
La voce profonda di Saphira mi sfiorò la mente: «
I Gemelli hanno contattato Eragon. Dicono che ci sono rumori provenienti da sotto Tronjheim, forse gli Urgali stanno aprendo un tunnel sotto la città. Vogliono che andiamo a bloccarli».
Mi guardai intorno ed individuai drago e cavaliere con la coda nell'occhio.
«I Gemelli?» chiesi, improvvisamente sospettosa.
«Ajihad li ha incaricati di supervisionare la battaglia e uno di loro è sopra Isidar Mithrim».

Poi il drago atterrò davanti a me, schiacciando con la sua mole diversi Urgali ed io afferrai istintivamente la mano di Eragon, issandomi in sella dietro di lui e tenendo saldamente la spada nella mano sinistra.
Non mi fidavo affatto dei Gemelli, ma era meglio non ignorare le loro parole, magari stavano semplicemente ubbidendo ad ordine di Ajihad.
Sobbalzai sentendo Saphira ruggire di dolore: un Urgali l’aveva colpita sul petto. Ci alzammo in volo e vidi lo stesso mostro alzare la sua arma, pronto a scagliarla. Mi affrettai ad evocare la mia magia e a colpirlo.
Volammo via dal campo di battaglia, piuttosto instabili.
«Sta bene?» domandai a Eragon, strillando per farmi sentire e evitando di guardare sotto di me. Non avevo mai volato a dorso di drago e volevo evitare reazioni impreviste da parte del mio corpo.
«L’armatura è schiacciata verso l’interno, le da fastidio». La sua voce vibrò di preoccupazione per il suo drago. Mi fece quasi tenerezza.
«Resterò io con Saphira quando atterreremo» mi offrii. «E quando l’avrò liberata dall’armatura, ti raggiungerò».
Così mi accerterò che la convocazione non sia una trappola.
«Grazie» disse lui, un’espressione di puro sollievo in volto.
Ma quando arrivammo su Isidar Mithrim, dove avremmo dovuto trovare almeno uno dei Gemelli, di loro non c'era traccia.
Eragon si accertò rapidamente della condizioni di Saphira, prima di borbottare un: «Buona fortuna», e correre via.
Lo chiamai, invano. Stupido! Eravamo in cima a Vol Turin, la scala infinita, avrebbe almeno dovuto farsi portare alla base di Tronjheim. Come avrebbe fatto a scendere?
Sbuffai, avrebbe aspettato. Il mio compito era liberare la dragonessa e mi accinsi a farlo con delicatezza, sperando di non farle troppo male. Scostai le placche metalliche dell’armatura, lentamente.
«Arya» mi richiamò all’improvviso lei. «Eragon è sceso con lo scivolo. È arrivato illeso».
Che incosciente.
Mentre incastravo le dita tra la seconda placca del pettorale e le squame di Saphira, espansi di nuovo la mente, alla ricerca dei Gemelli. E invece percepii Durza.
«Durza!» esclamai automaticamente, dimenticando per un attimo che sicuramente non poteva sentirmi da quell'altezza.
«Eragon lo ha detto anche a me! Sbrigati a liberarmi, lo sta affrontando da solo e non ha possibilità!»
Il cavaliere lo stava affrontando. Durza. Il mio Durza.
Saphira era allarmata almeno quanto me e un senso di angoscia mi serrò la gola, impedendomi quasi di respirare. Presi a liberare l'armatura con ansia febbrile, senza più preoccuparmi se la cosa fosse dolorosa per lei o meno.
La mia mente era volta ad un unico pensiero: Non avrei lasciato che nessuno dei due uccidesse l’altro.
Perché uno era il primo cavaliere libero da un secolo, e l’altro era l'uomo con cui avevo deciso di vivere una buona fetta della mia vita, l’unica persona al mondo che sarebbe mai stata in grado di rendermi veramente felice. E io non potevo permettermi di perderlo, o avrei perso una non indifferente parte di me stessa.
«Dobbiamo aiutarlo!» gridai, senza capire bene neanche io a chi mi riferissi.
Saphira pensò ovviamente che parlassi del suo cavaliere e mi mandò un'immagine mentale che doveva corrispondere alla condizione di Eragon in quel momento. Una gran brutta condizione.
Strappai l'ultima placca dal suo torace e mi guardai intorno, consapevole di avere solo pochi istanti per prendere una decisione.
E la presi. Richiamai il mio potere e colpii la pietra sotto di me, saltando contemporaneamente in groppa a Saphira. La dragonessa si tuffò in picchiata, eruttando una fiammata gialla e azzurra. Strinsi le cosce sui suoi fianchi per non essere sbalzata via e boccheggiai, travolta dal calore del suo fuoco. Mi prese una fortissima sensazione di vertigine, che mi chiuse la bocca dello stomaco e mi riempì la testa d'aria, ma riuscii a riprendere il controllo di me stessa in misura sufficiente a pronunciare un incantesimo per controllare la caduta dei frammenti di Isidar Mithrim, o altrimenti il mio intento di salvare Durza ed Eragon sarebbe fallito comunque
Intravidi subito le figure dei due combattenti. Eragon era accucciato a terra e mi guardava con gli occhi di chi vede un’apparizione, il volto rigato di lacrime e un lago di sangue che si allargava intorno a lui.
Durza era di spalle e continuava ad ignorare la pressione della mia mente sulla sua, tuttavia si voltò anche lui, quasi lentamente, i capelli rossi schiacciati sotto un elmo nero.
Il tempo parve dilatarsi, mentre il suo viso trasfigurato in una maschera di disprezzo si alzava nella mia direzione. Vidi i suoi occhi ricolmi di sangue, odio e follia, lo stesso sguardo che gli avevo visto ogni volta che era stato in balia dei suoi Spiriti.
Alzò una mano e per un attimo fui certa che sarei stata uccisa dal mio stesso compagno. Tuttavia lo Spettro ebbe una piccola, impercettibile, esitazione. I suoi occhi si schiarirono e la sua voce si riversò, fredda e carezzevole, nella mia mente.
«Arya», disse.
In quella situazione quasi sospesa, il bagliore rosso della spada di Eragon mi parve quasi accecante.
Il cavaliere si scagliò in avanti.
E colpì Durza proprio al centro del torace, dove la placca di metallo che portava sicuramente sotto l'armatura avrebbe potuto salvarlo da molte ferite. Ma non da un colpo diretto.
In un attimo fu tutto finito: Durza urlò e fissò sconvolto la lama conficcata nel suo petto, poi la sua pelle si fece trasparente e poi polvere, che svanì nel nulla. Restai a fissare tre ombre -unico resto del suo corpo- che volteggiavano verso l'alto, attonita.
Saphira atterrò e io scivolai giù dal suo dorso, circondata da una sensazione di irrealtà. La magia che nell'ultimo tratto della discesa aveva sostenuto i frammenti di Isidar Mithrim sfuggì al mio controllo e una parte di essi si fracassò a terra con un gran baccano, distruggendosi in frammenti ancora più piccoli. Vidi a malapena Saphira intenta a proteggere Eragon sotto la sua ala, poi una grossa scheggia si conficcò nel mio braccio destro, così in profondità da toccarmi l'osso.
La tolsi quasi distrattamente, ma la stilettata di dolore non poté distrarmi dall'abisso di orrore nel quale stavo lentamente sprofondando. Caddi in ginocchio davanti agli abiti di Durza e un violenta convulsione mi scosse tutto il corpo, trasformando il mio respiro in brevi spasmi.
A terra davanti a me c'erano la sua armatura, il suo elmo, il suo mantello di pelli di serpente. Riconobbi il pallore della sua spada e lo scintillio dell'incisione sul pomolo di Luna, sfiorai il medaglione con il sole e le lisce pietre quadrate dell'anello di ametiste. Poi da una piccola bisaccia mi giunse un pungente odore di menta.
Qualcuno si inginocchiò accanto a me e mi afferrò le spalle.
«Arya devi guarirti prima di morire dissanguata» disse Angela, mettendomi tra le mani una borraccia e costringendomi a berne un sorso.
La mia gola rimase secca e il sangue continuò a fluire copioso dalla mia ferita al braccio, bagnandomi di liquido caldo i pantaloni.
Strisciai di una iarda all'indietro. A Durza non avrebbe certo fatto piacere se gli avessi macchiato il prezioso mantello, gli piaceva molto. Ricordavo che lo indossava il giorno in cui mi aveva protetta da Lord Barst, la prima volta che avevo sentito il profumo della sua pelle. Magari lo avrebbe indossato anche il giorno della nostra partenza.
«Arya» mi richiamò Angela con un tono dolce e insieme conciliante che mi colpì come una stilettata.
«No» rantolai. E mi venne un conato, ma non vomitai.
«Sei qui da parecchi minuti e hai perso molto sangue. Guarisciti e poi aiutami a guarire Eragon, ti va? Se lui morisse Galbatorix resterebbe sul suo trono per sempre e non è questo ciò che vuoi, giusto?»
«No» ripetei in tono assente, la gola e il cuore dolorosamente serrati in una morsa.
Con un paio di schiaffi ben assestati sul mio viso, Angela la Venerabile mi tirò in piedi e mi trascinò fino al punto in cui giaceva Eragon, riverso sulla schiena e immerso nel suo stesso sangue. Angela lo voltò con delicatezza e rinnovò l'ordine di guarirmi il braccio.
Lo feci, pronunciando la formula con fatica immane, come se avessi della polvere in bocca. A soffocarmi.
Poi la aiutai effettivamente a guarire Eragon, limitandomi a rimarginare i tessuti e dimenticandomi per un breve attimo di dove fossi. Quasi non notai che Saphira stava fornendo sia me che Angela di nuove energie, né mi accorsi della folla di persone che andava radunandosi intorno a noi.
«Basta così» disse lei ad un certo punto. «Al resto ci penseranno le mie erbe».
Mi ripiombò tutto addosso e per un attimo fui certa che sarei morta anche io.
«Venerabile, ti prego..»
uccidimi.
Angela sorrise con leggerezza. «Sarà meglio che tu dia una mano con gli altri feriti. Puoi salvare molti di loro da una morte certa, lo sai, ed è tuo dovere farlo. Quando ti sentirai così stanca da non riuscire nemmeno a ricordare il tuo nome, allora potrai cercare una branda e sono sicura che riuscirai a dormire».
Oh sì, salvare vite. Lo facevo da decenni, ma non sempre riuscivo a salvare tutti.
«Prendo io le sue cose» aggiunse, guidandomi al seguito degli uomini che avevano sollevato Eragon e lo stavano portando via. Saphira mi seguì, gli occhi fissi sulla figura del cavaliere.
Arrivammo in un edificio dove, nelle ore seguenti, i feriti si moltiplicarono come funghi. Gli ultimi arrivati annunciarono gioiosi la vittoria e la cacciata degli Urgali, mostrando entusiasmo persino con me, che di solito ero allontanata e guardata con sospetto.
Ajihad arrivò per ultimo e venne dritto nella mia direzione, implorandomi di sanare le sue ferite, così da poter inseguire gli Urgali nei tunnel con un drappello e scacciarli definitivamente dalla montagna.
«Sono vere le voci?» mi chiese poi, le nere sopracciglia unite in un'unica linea.
«Angela è con Eragon» riuscii solo a balbettare.
«E tu sei sfinita. Dovresti riposarti. Puoi portarmi da lui?» aggiunse poi, notando che persistevo nel mio mutismo.
Lo accompagnai alle scale e poi cercai la stanza in cui era stato deposto il cavaliere qualche ora prima. Angela uscì nel preciso istante in cui io e Ajihad arrivammo davanti alla porta e, con un gesto grave e solenne, porse al capo dei Varden una lunga spada sottile, incrostata di sangue, con un graffio lungo la lama.
Ajihad sgranò gli occhi e fissò l'arma per diversi secondi. «Lui è morto?»
«Morto per sempre» confermò Angela.
Gli occhi scuri dell'uomo si riempirono di lacrime, che scivolarono lungo l'ovale del suo viso. In qualsiasi altra occasione mi sarei stupita per l'avvenimento, ma in quel momento lo osservai impassibile e con disinteresse.
«Nadara è vendicata» ringhiò, sigillando le palpebre e prendendo in mano la spada.
Sapevo che Nadara era la madre di Nasuada e che era morta prima che Ajihad si unisse ai Varden.
«La farò fondere» aggiunse Ajihad.
«Eragon ha ucciso lo Spettro, spetterebbe a lui la decisione» osservò Angela.
«Sono certo che approverebbe. Il ragazzo sta bene?»
La donna tentennò. «Sì, meglio» rispose poi, laconica.
«Se hai altri oggetti dello Spettro manderò Jörmundur a prenderli. Vanno bruciati e distrutti».
E detto questo scese le scale di corsa, dimenticando l'intento di accertarsi di persona delle condizioni di Eragon.
«Arya dammi la tua spada e i tuoi pugnali, se ne hai» mi riscosse la Venerabile.
Le porsi Ren, con tutto il fodero, senza neanche perdere il mio tempo a farmi delle domande.
«Ricordi il tuo nome?» domandò, abbozzando un sorriso.
«No»
ma il suo sì.
«Bene». Abbassò la voce. «Allora ricordati anche che il tuo bambino ha sette settimane, è grande come un lampone, ma ha già gli occhi quasi formati e il suo cuore pompa il sangue nel suo corpo. E si sta anche muovendo, solo che tu non puoi sentirlo. Tra poche settimane potrai percepire la sua coscienza».
Non ricordo il tragitto, ma sono certa che sprofondai in un sonno senza sogni, forse indottomi da Angela stessa.
Solo quando mi risvegliai capii il senso delle sue azioni. Se fossi stata solo io e avessi avuto Ren con me avrei faticato parecchio a resistere alla tentazione di piantarmela nel cuore.



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Ehilà ciao! :D
Mi sono presa il mio tempo per questo capitolo, perché mi sembrava importante incastrare tutti i fatti in modo da spiegare il comportamento di Arya nei prossimi mesi, oltre a presentare un po' la nostra Angela, quindi è uscito parecchio lunghino, spero mi perdonerete!
Siamo arrivati alla fine di “Eragon” e, come da copione, Durza ci ha lasciati (dopo anni dalla prima lettura piango ancora, sigh). Inizialmente era previsto che Arya adagiasse i frammenti di Isidar Mithrim a terra e cadesse svenuta alla vista degli abiti dello Spettro afflosciati a terra, ma poi mi sono detta che la cosa sembrava fin troppo facile, no? E in una vena di puro sadismo ho deciso di farle vivere da cosciente anche le ore che seguono il lutto. È inutile specificare che la poveretta non ha ancora ben realizzato cosa sia successo al suo uomo, nonostante sia avvenuto sotto i suoi occhi.
In una prima versione era anche previsto che Durza e Arya avessero un breve scambio di pensieri prima della sua morte, il classico “ti amo” e “aspettiamo un bambino”, ma poi mi sono resa conto che i tempi della narrazione erano troppo stretti e che sarebbe diventato troppo melodrammatico, quindi mi sono limitata ad un “Arya” di addio. Quindi Durza non ha nemmeno saputo di suo figlio ed è morto prima di poter dire nulla T_T
Aiuto la mia storia mi fa soffrire troppo!
Tuuuuttavia non è ancora finita e vi informo che avremo altri interessanti colpi di scena da qui alla fine ;)

Mi sono persa anche il 24, che era il secondo compleanno di questa storia (mi vergogno un sacco di non averla ancora finita, sappiatelo) e vi ringrazio tanto per il contributo grande o piccolo che date o avete dato alla sua crescita, significa molto per me ^_^
Con il cuore che sanguina, vi saluto e vi informo che dovrò fare nuovamente un salto di settimana. Spero davvero che sia l'ultima volta che succede una cosa del genere.
Enormi baci a tutti voi,
Lalli

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Capitolo 33
*** Morte e Vita ***


Ciao
33. Morte e Vita

Non ebbi il tempo materiale di realizzare quanto fosse accaduto perché tre giorni dopo Ajihad venne ucciso e il giorno seguente Nasuada assunse il ruolo di capo dei Varden.
I bruschi cambiamenti politici che si svolsero in quei pochi giorni mi lasciarono lievemente spaesata per la loro rapidità e allo stesso tempo mi costrinsero a tornare ad essere l'ambasciatrice della mia gente. Fredda, concentrata sul bene superiore e disposta a tutto.
L'unico breve momento in cui ero riuscita ad abbandonarmi al panico più totale era stato il mattino dopo la battaglia del Farthen Dur, quando Jörmundur era venuto a chiamarmi per analizzare gli oggetti appartenuti a Durza. Voleva sapere se celassero dei malefici e non si fidava della rassicurazioni che già Angela gli aveva dato.
Nessun maleficio. Durza non aveva mai stregato le sue armi, lo sapevo alla perfezione.
Avevo sfiorato nuovamente l'impugnatura di Luna, annusato la menta nella sua bisaccia e rigirato tra le mani il piccolo scudo che teneva legato al petto, sul cuore.
Una maledettissima protezione che non era servita a nulla.
Avevo rassicurato Jörmundur con voce gentile, mentre un vuoto sconfinato si scavava nel mio petto, come se una pietra avesse preso il posto del cuore.
Ma non avevo pianto.
Come potevo?
Le persone intorno a me chinavano il capo in segno di rispetto e ammirazione per la mia coraggiosa resistenza e gioivano della morte del mio aguzzino. Eragon era diventato Ammazzaspettri e io sapevo che non avrebbe mai e poi mai avuto l'onore di portare un simile titolo se non fosse stato per il mio prezioso aiuto.
Così mi ero limitata a prendere la catena alla quale erano appesi il sole d'argento di Durza e l'anello di ametiste e l'avevo gettata sul fondo della mia bisaccia, non vista. Poi avevo dovuto assistere al rogo dei suoi abiti e della sua bisaccia, abbandonati in una pira di corpi Urgali. L'odore di menta aveva rinfrescato leggermente quello nauseante della carne bruciata, più di quanto avesse fatto il finocchio che gli uomini usavano gettare sulle braci.
Jörmundur avevo poi preso in custodia l'armatura dello Spettro, il suo elmo, il suo scudo e la protezione che aveva sul cuore. Avevo chiesto di tenere Luna per me. Mi era stato concesso, ovviamente, accompagnato da uno sguardo deferente.
Lo avevo seppellito sotto un cumulo di pietre, mentre una parte di me mi urlava scioccamente di conservarlo al meglio per quando il suo proprietario fosse venuto a riprenderlo.
Ero stata costretta a fasciarmi il braccio perché la mia guarigione era stata troppo frettolosa e imprecisa e dovevo avere subito un qualche danno all'osso, anche solo una piccola crepa. Sanata quella ferita, molte altre continuavano a scavarmi l'animo senza che nessuno potesse anche solo pensare di guarirle.
Avevo aiutato la Venerabile ad analizzare le ferite del cavaliere e a rimarginale, ero andata a salutarlo non appena si era risvegliato, avevo aiutato a spostare i corpi morti degli Urgali con la magia, mi ero scusata infinite volte con Rothgar per avere distrutto la sua bellissima pietra.. Ah e avevo placato l'ira di Ajihad non appena aveva trovato la figlia sul campo di battaglia, vestita da arciere e china a soccorrere il figlio di Morzan.
Mi ero trascinata dall'alba al tramonto in tutta Tronjheim, tenendo il corpo così occupato da non lasciare spazio alla mente di agire e di concentrarsi su ciò che veramente era successo, su cosa e quanto avessi perso in un solo istante.
Dopo la morte di Ajihad -avvenuta sotto i miei occhi- ero anche corsa alla ricerca del giovane Murtagh, che era sparito con i Gemelli. Avrei pensato che si fosse trattato di un loro trucco, ma avevo trovato brandelli degli abiti del figlio di Morzan vicino ad un precipizio e a quel punto era divenuto ovvio che i tre dovevano essere stati gettati sul fondo da una banda di Urgali, come ultimo atto scellerato durante la fuga.
            In seguito alla nomina ufficiale di Nasuada mi ritrovai immersa in un clima di gioia e cordoglio insieme e mi resi conto di non sentirmi parte né dell'uno né dell'altro.
Continuavo a ripetermi che il re era ancora vivo e io ero ancora l'ambasciatrice degli elfi; era mio dovere prendere in mano le redini della mia vita ed esercitare il mio ruolo in favore dell'alleanza. Dovevo andare ad Ellesméra e convincere mia madre a concedere nuovamente il suo appoggio ai Varden o sarebbero stati spacciati.
Sembrava che gli ultimi sei mesi della mia vita fossero stati spazzati via in un lampo, tanto che spesso mi ritrovai a chiedermi se non fosse stato tutto un terribile e bellissimo sogno. Ero davvero stata prigioniera di Durza? Avevamo davvero viaggiato insieme fino a Dras-Leona, stringendo una fragile alleanza contro il re?
Ci eravamo davvero amati? Davvero avevamo progettato insieme un futuro?
Il macigno sul petto mi diceva che sì, era tutto reale.
E che era tutto finito.
Ciò che cresceva nel mio ventre confermava che era stato reale, ma suggeriva che tanto doveva ancora cominciare. Ascoltare il lieve e regolare battito del cuore del figlio di Durza divenne quasi un rito giornaliero per me, mi ricordava che io ero viva, che altri erano vivi, che la vita non era finita per tutti.
Angela la Venerabile mi aveva caldamente consigliato di sbarazzarmene perché non impacciasse il mio ruolo all'interno della ribellione. Forse sarebbe stato più facile. Persino gli elfi avrebbero capito la mia riprovevole azione: per la mia razza le nuove nascite erano sacre, ma non c'erano precedenti di sangue di uno spettro e di un elfo mischiati in una sola creatura e il fatto li avrebbe spaventati tanto da ritenere quasi necessario quel tipo di provvedimento.
Tuttavia non volevo.
Forse era una delle decisioni più irrazionali che avessi mai preso da quando ero venuta al mondo, ma non avevo il coraggio e le forze di agire altrimenti. Non volevo diventare madre, non ero pronta, non sarei mai stata capace e il mio bambino non aveva futuro. Però c'era un pezzetto di Durza in lui e liberarmene sarebbe stato come uccidere Durza stesso, di nuovo.
E io ero stanca di morte.
Così non feci nulla.
In parte dolorosamente lucida e in parte ancora confinata in una bolla di apatia, mi chiusi in me stessa, evitando sempre di più la compagnia delle persone che mi circondavano. Mi sentivo fuori posto in mezzo a loro, monca e inadeguata; mi sembrava che ciascuno di loro potesse guardarmi e leggere sul mio volto tutto ciò che era successo tra me e Durza, svelando così quello che era diventato il nostro segreto.
E avevo tutta l'intenzione di farlo rimanere tale.
Stando sola avrei potuto essere me stessa -e forse anche sciogliere il nodo che mi serrava la gola in lacrime bollenti- ma non ne ebbi mai il tempo. C'erano mille cose da fare, da organizzare, da decidere.. I miei doveri divennero la mia prigione e la presenza degli altri acuì sempre più la mia solitudine.

Fui convocata da Nasuada e insieme a lei progettai a tavolino il viaggio che avrebbe portato me, Eragon, Saphira e Orik ad Ellesméra. Il nuovo capo dei Varden parve allarmarsi non appena realizzò che per arrivare ad Ellesméra avremmo impiegato un mese, se non di più, ma poi non poté fare altro che approvare. Il suo progetto di muovere l'intera popolazione del Farthen Dur nel Surda era molto rischioso e privarsi tanto a lungo della presenza del cavaliere doveva spaventarla dato che Eragon era una buona protezione per lei e per i Varden -specie da quando le aveva giurato fedeltà- ma senza un'educazione completa non sarebbe stato altro che l'ombra di ciò che sarebbe potuto diventare.
In qualche modo Nasuada mi diede forza. Mi sentivo vicina a lei: entrambe avevamo perso qualcuno di molto caro e molto vicino ed entrambe dovevamo fingere che nulla fosse successo perché qualcosa di più grande richiedeva tutte le nostre energie per compiersi. La sua forza e la sua tenacia erano decisamente ammirabili per una giovane umana.
«Tornerò a darti il mio aiuto non appena Eragon e Saphira si saranno ambientati ad Ellesméra» promisi.
Lei annuì con decisione. «Ci troverai tutti sani e salvi ad Aberon».
Così, due giorni dopo la morte di Ajihad, io e la mia piccola compagnia partimmo in direzione della Du Weldenvarden.
Casa, finalmente.
Eppure ero certa che non sarei stata a casa mai più, non finché Durza non fosse tornato a prendermi.

Arrivammo ad Ellesméra dopo un mese di viaggio.
Non incontrammo ostacoli particolarmente rilevanti, ma non riuscii ad evitare l'ennesimo scontro con il sacerdote dei Quan, Gannel, anche se fu relativamente breve. Ormai la loro religione mi sembrava innocua se paragonata con quella dell'Helgrind, il semplice vaneggiamento di un popolo credulone paragonato ad una setta di folli assassini. Inoltre non potevo ignorare la loro gentilezza nell'aver fatto dono ad Eragon di un ciondolo che l'avrebbe protetto da chiunque volesse divinarlo, con le stesse funzioni che aveva il sole d'argento che aveva portato Durza e che non avevo ancora trovato il coraggio di recuperare dal fondo della mia bisaccia.
Se da un lato nessuno ostacolò mai la nostra marcia, mi resi presto conto che Eragon il cavaliere e Saphira la dragonessa attiravano guai come i cadaveri attirano le mosche. Nel giro di poco più di un mese i due avevano indisposto il Consiglio degli anziani dei Varden, avevano giurato fedeltà a Nasuada e poi avevano accettato la fratellanza di Rothgar senza chiedere il suo permesso, un membro del clan Az Sweldn Rak Anhuin aveva dichiarato aperta ostilità nei loro confronti e durante la navigazione i due si erano scontrati con un Fanghur, rischiando seriamente di farsi male.
Senza contare la sconfinata e spesso indiscreta curiosità del ragazzo: faceva domande a tutti e in quantità quasi preoccupante, come un bambino che scopre il mondo. Mi chiese di me, della mia famiglia, di Glenwing e di Fäolin. Risposi a buona parte delle domande cercando di non apparire scortese, anche se probabilmente risultavo molto evasiva nelle mie spiegazioni.
La verità era che non volevo passare mai troppo tempo con Eragon Ammazzaspettri: in parte mi faceva tenerezza e accendeva la mia simpatia e un istinto di protezione, dall'altra aveva ucciso l'uomo che avevo amato con tutta me stessa. Non ero ancora riuscita ad ammettere pienamente di avere avuto un ruolo di rilevanza capitale nella sua morte, così scaricai tutto il mio rancore su Eragon, trattandolo con freddezza e distanza. La mia parte razionale
sapeva che non era né colpa sua né mia, eppure sentivo il bisogno quasi fisico di individuare un colpevole di tutto quel malessere che mi marciva dentro.
E nonostante ciò ero preoccupata per la sua ferita. Morto Durza era morta anche la misteriosa possibilità di uccidere Galbatorix che portava con sé e il ragazzo ormai era nuovamente necessario ai ribelli, tuttavia non poteva certamente combattere in quelle condizioni.
Il giorno che mi chiese: «Cosa mi ha fatto lo Spettro?» non potei fare altro che controllare la sua ferita, stabilire che tutto sembrava in ordine e scuotere la testa sconsolata.
Che hai fatto, Durza? Di quale oscuro maleficio hai impregnato le sue ossa?
Questi miei pensieri mi portarono ad un comportamento quasi bipolare nei suoi confronti e sia lui che Saphira finirono per accorgersi che qualcosa non andava in me.
E una sera, mentre insegnavo loro i fondamenti delle regole della buona educazione elfica, Eragon mi esplicitò la loro preoccupazione per il mio benessere.
«Ho paura» risposi semplicemente.
E in due parole riassunsi tutto il turbamento delle ultime settimane. Avevo paura perché Durza mi aveva lasciata sola, perché una vita cresceva nel mio corpo, perché l'enorme segreto che stavo celando al mondo mi stava uccidendo, perché il re era nuovamente irraggiungibile e imbattuto, perché si avvicinava il giorno in cui sarei tornata tra la mia gente e avrei dovuto mentire nuovamente a tutti senza poterlo realmente fare, perché avrei dovuto affrontare mia madre dopo tutti i danni che aveva causato ai Varden.
            Sapevo, da quello che mi avevano detto gli elfi della pattuglia di confine, che avrei trovato mia madre in condizioni pietose.
«Nessuno riusciva più a divinarti, quindi abbiamo dato per scontato che tu fossi ormai scivolata nelle ombre. Islanzadi Dröttning ha molto sofferto quando ha saputo della tua morte. Si è chiusa come un riccio, rifiutando cibo e acqua per giorni. Abbiamo creduto che avremmo perso anche la nostra regina, oltre alla nostra ambasciatrice» mi aveva raccontato Narì.
Tuttavia non mi sarei mai aspettata di ritrovarmi con le braccia magre di mia madre strette intorno al collo e di sentirle chiedermi scusa per le sue azioni passate, per di più davanti a tutti i consiglieri della sua corte.
Ne rimasi basita, infastidita e anche un poco offesa. Sarebbe bastato fingere di morire settant'anni prima per ottenere l'amore e il rispetto della mia genitrice? E si aspettava anche che io fingessi di dimenticare gli aspri rimproveri, gli sguardi indifferenti, l'immensa solitudine che avevo provato il giorno in cui mi aveva bandita dalla mia stessa casa, costringendomi a cantarmene una tutta mia?
La regina mi afferrò le mani. «Arya io ti voglio bene. Tu sei tutta la mia famiglia. Vai se devi, ma a meno che tu non voglia rinnegarmi, vorrei riconciliarmi con te» disse in tono melodioso.
Dovetti trattenere una risposta sgarbata, dato che non ero certo io quella che per prima l'aveva rinnegata, ma un lieve guizzo dei suoi grandi occhi neri mi portò a guardarmi intorno. Intorno a me, seduti sui loro scranni, con le nobili fronti corrugate, i consiglieri ci guardavano con intensità, in palese attesa di una mia risposta.
E capii immediatamente di non potermi permettere una risposta sbagliata.
«No, madre. Non me ne andrò» sputai fuori a fatica, senza sbilanciarmi in un vero e proprio perdono.
E mi costrinsi a ricambiarla quando lei mi abbracciò.
Dopo aver letto la lettera di Nasuada e aver dichiarato riaperta l'alleanza con i Varden, Islanzadi tornò a concentrarsi su di me e mi pose la domanda per la quale mi ero tanto preparata nell'ultimo mese. Mi accinsi a ripercorrere i primi mesi della mia prigionia, impassibile, celando invece gli ultimi, come avevo già fatto con Ajihad e Rothgar.
Däthedr si alzò addirittura dal suo scranno e mi rivolse parole gentili, che rischiarono pericolosamente di incrinare il muro di fermezza che avevo costruito intorno al mio cuore instabile. Lui era stato uno dei miei pochi veri amici ad Ellesméra, insieme a Glenwing, Fäolin e Rhunön e ritrovarlo, dopo tutte le persone care che avevo perso, fu come trovare una scialuppa inaspettata in una nave che affonda.
            Il discorso tra me e mia madre era tutt'altro che concluso e me lo dimostrò quando, dopo il banchetto dato in onore dei nostri ospiti, mi guidò con sé nelle sue stanze, dove preparò un tè per entrambe e mi invitò a sedermi. Desideravo solo ritirarmi in una stanza tutta mia, con delle pareti a dividermi dal resto del mondo, ma non potevo certo sottrarmi ad un colloquio con la mia regina.
Islanzadi mi disse che mi aveva fatto preparare la mia vecchia stanza lì nel palazzo di Tialdrì e che avrei potuto trascorrere lì tutto il tempo che desideravo.
«Puoi non credermi, figlia mia, ma sono davvero spiacente per tutto il dolore che ti ho causato in passato» proseguì poi.
«Mi hai praticamente costretta a concederti il mio perdono di fronte ai consiglieri. Mi è difficile credere alle tue parole quando cerchi di ottenere subdolamente ciò che dovresti riguadagnarti».
Islanzadi assunse un'espressione sconcertata, forse colpita dalla mia schiettezza, ma poi si affrettò a farla sparire dal suo volto, a favore di una più rilassata. «Cosa farai ora, Arya?»
«Aspetterò qualche settimana, giusto per assicurarmi che Eragon e Saphira si trovino a loro agio ad Ellesméra e con Oromis e Glaedr, e poi tornerò dai Varden, com'è mio dovere. Nasuada sta spostando tutti i ribelli nel Surda e le ho promesso che sarei tornata a darle il mio aiuto il prima possibile».
«C'è ancora quell'organizzazione di maghi dilettanti a proteggerla?» domandò mia madre, lievemente sprezzante.
Esitai qualche istante. «Ho incontrato la Venerabile durante la battaglia del Farthen Dur».
A quell'informazione parve riscuotersi. «Avresti potuto invitarla qui, ormai saranno cinque decenni che non viene a farci visita».
«Ha espresso lei stessa l'intenzione di stare vicina a Nasuada, e io ho pensato che sarebbe stata in ottime mani».
Non era stato così semplice in realtà. Angela era venuta a parlarmi il giorno prima della partenza per Ellesméra e mi aveva chiesto se avessi preso una decisione in merito a mio figlio. Saputa la mia risposta, aveva dichiarato di sentirsi combattuta e di non sapere se seguire me nella Du Weldenvarden o Nasuada nel Surda.
«Entrambe avete qualcosa di parecchio interessante in progetto» aveva detto. «Ma credo che resterò con la figlia di Ajihad, sarò molto più utile qui. Te ricordati le mie raccomandazioni» aveva aggiunto gettando un'occhiata al mio addome. «Mi sento terribilmente vecchia quando dispenso consigli agli elfi!»
E con una sonora risata se n'era andata, augurandomi la buona notte.
«Molto saggio da parte sua. Lei sa sempre cosa fare» stava dicendo Islanzadi.
La sbirciai discretamente. Era decisamente più magra di quanto la ricordassi e i suoi occhi nerissimi sembravano più spenti. Le credevo, per quanto riguardava la sua preoccupazione nei miei confronti, ma non ero sicura di potermi affidare completamente a lei, non dopo l'eccessiva fragilità che aveva dimostrato negli ultimi mesi. Ma l'odio e il disprezzo che avevo provato nei suoi confronti andava lentamente scemando, trasformandosi in pena, e il mio astio si era sciolto, tanto che non sentivo più il bisogno di fare la sostenuta di fronte a lei, anzi, sentivo quasi il dovere di non parlare di nulla che potesse farla soffrire ulteriormente.
Però c'era almeno una domanda che bruciava sulla mia lingua da troppo tempo.
«Madre conosci un'elfa di nome Aiedail?»
Per la terza volta da quando avevamo cominciato quella conversazione, la regina perse la sua aria regale a favore di un'espressione sconvolta e persino spaventata.
«Non pronunciamo il suo nome da quasi un secolo» disse in tono faticosamente controllato. «Come hai saputo della sua esistenza?»
«Lo Spettro non si è limitato a torturarmi, ha passato anche lunghe ore a parlarmi per cercare di persuadermi».
Tu mi piaci, Elfa. «E ha detto di avere incontrato Aiedail diversi anni fa. Prima di andarsene per sempre lei gli ha raccontato la sua storia, una storia che ha te come protagonista».
Era una frase un poco zoppicante, ma era l'unica che potessi dire senza mentire. Volevo far passare l'idea che Alba fosse morta, non so spiegarmi per quale motivo, forse perché non volevo che mia madre si allarmasse, ma di sicuro fui ricompensata per la mia prudenza, diversi mesi dopo.
Islanzadi mi rispose con cautela. «Ciò di cui parli, figlia mia, è il primo dei molti errori da me commessi da quando sono salita al trono nodoso. Tuo padre era morto da pochi decenni e io non ero ancora riuscita a superare la sua dipartita quando scoprii, quasi per sbaglio, una di noi intenta a praticare arti oscure. Quando la interrogai circa le sue intenzioni, ella non cercò nemmeno di celarmele e mi confessò di stare lavorando ad un incantesimo per riportare in vita la gemella, morta durante la battaglia di Ilirea. La sua follia mi fu evidente fin da subito, così la imprigionai e la sottoposi al giudizio segreto dei miei consiglieri. La maggior parte di loro avrebbe voluto tenerla semplicemente d'occhio e prendersi cura di lei, ma poi dovettero tutti sottostare alla mia crudele decisione. Io avevo cercato disperatamente di convivere con la morte del mio compagno per quella che mi era sembrata un'eternità, avevo resistito ad ogni possibile tentazione e avevo assunto le redini del regno. E mentre io facevo tutto quello c'era qualcuno che aveva osato pensare di poter recuperare una persona cara. Forse fui così dura con lei perché in fondo aveva avuto il coraggio di fare ciò che io avrei tanto voluto tentare, ma che avevo evitato per codardia».
«Non è una giustificazione» dissi, chiedendomi allo stesso tempo come avrebbe reagito se avesse saputo che la sua unica figlia si era innamorata dell'uomo che aveva ucciso il suo compagno, mischiando infine il sangue di Evandar con quello di Durza lo Spettro.
La regina mi guardò con occhi umidi. «Non lo è. Ma perdere il tuo compagno significa perdere una persona fondamentale, è quasi come perdere un figlio. Evandar era l'elfo con il quale mi ero sentita in sintonia perfetta, colui che avevo scelto, colui che mi avrebbe sostenuta in tutto.. Non credo di potertelo spiegare, figlia mia. Quando lo proverai allora lo saprai».
Serrai i denti e battei rapidamente le palpebre per dissipare le lacrime.
«Perché hai tenuto il segreto per tutti questi anni?»
«Inizialmente temevo che un simile episodio potesse minare la mia autorità sugli elfi, in seguito sia io che i miei consiglieri abbiamo ritenuto inutile rendere pubblica la questione. Aiedail non aveva amici, aveva allontanato tutti dopo la morte della gemella, e nessuno si è mai posto domande sulla sua scomparsa. Probabilmente hanno creduto che si sia trasferita ad Osilon o in qualunque altra città della Du Weldenvarden. Deve essersi nascosta per tutti questi anni e aver recuperato parte delle sue memorie prima di morire. Sia io che i consiglieri portiamo ancora sulle spalle il peso delle nostre colpe» concluse chinando il capo. «Questo mi svaluta ulteriormente ai tuoi occhi?»
«Non preoccuparti di questo madre» svicolai, non potendo mentirle apertamente.
«Vorrei che tu ed io passassimo più tempo insieme da domani in poi». Mi sorrise. «Vorrei che diventassimo la famiglia che a causa mia non siamo mai state».
Mi irrigidii un poco. «Non è tanto facile per me».
«Lo so e mi dispiace. Ho sempre scaricato troppe pressioni su di te. Volevo che tu diventassi come tuo padre e prendessi il mio posto sul trono nodoso, non mi sono mai sentita pienamente in grado di occuparlo, mentre tu avresti la tempera giusta per un simile ruolo, lo hai dimostrato con la tua impossibile resistenza».
«Non voglio più parlare del passato. Prima hai garantito ad Orik e ad Eragon che avresti nuovamente accordato il tuo aiuto ai Varden, ora io ti chiedo di mantenere la parola data».
«Ho tutta l'intenzione di farlo. Già da domani i fabbri si metteranno all'opera e l'esercito elfico sarà pienamente riformato. Sono più di cento anni che siamo qui nascosti al sicuro e voglio che tu sappia che i nostri movimenti saranno lenti e cauti, non perché siamo dei codardi, ma perché non ci siamo ancora ripresi dalle perdite subite ad Ilirea. La nostra razza rischia sempre di più l'estinzione».
«Ed è questo a turbarti?»
«Questo e molte altre cose, ma manterrò il mio impegno».
Annuii. «Avrei un'ultima domanda per te».
«Si tratta di Fäolin e Glenwing non è vero?» intuì lei, guardandomi tristemente negli occhi.
«Hanno avuto una loro cerimonia di addio?»
«Sì, Arya. La pattuglia di Osilon ha portato ad Ellesméra i loro corpi trasfigurati dalle fiamme. Abbiamo cantato dei fiori su di loro. Se vuoi domani incaricherò qualcuno di accompagnarti nel loro luogo di fioritura».
«Ti ringrazio» dissi, in evidente tono di commiato. «Buona notte madre».
Islanzadi parve sul punto di alzarsi ed abbracciarmi, ma dovette cambiare idea perché spense il movimento sul nascere. «Mi sono messa in contatto con Glaedr e Oromis e mi hanno riferito che domani mattina, non appena Eragon e Saphira si saranno svegliati, verranno a prenderli per cominciare immediatamente con le loro lezioni. Vorrei che tu ci fossi, Eragon e Saphira potrebbero sentirsi più a loro agio con te nei paraggi, dato che ti conoscono un poco».
«Certo madre, verrò».
«Mando qualcuno a chiamarti un paio d'ore prima dell'alba».
«Verrò direttamente sotto l'albero a loro assegnato, non c'è bisogno che tu mi mandi a chiamare».
«D'accordo. Buona notte figlia mia. Sono immensamente felice che tu sia a casa al sicuro, anche se solo per poche settimane». E mi sorrise.
Le feci un cenno e sparii oltre la porta, per poi raggiungere quasi automaticamente la mia stanza, dove entrai con un sospiro di sollievo. L'ambiente mi era quasi estraneo, dopo tanti anni passati fuori dal palazzo, ma riconobbi alcuni dei miei oggetti personali, che mia madre doveva aver fatto trasportare lì, ormai sicura che mi sarei trattenuta sotto il suo stesso tetto.
Quando lo proverai lo saprai.
Tirai un respiro appena più forte.
Era passato un mese e pochi giorni. Era un tempo brevissimo paragonato ai lunghi anni che mi aspettavano, ed effettivamente era passato fin troppo rapidamente, come se il tempo si ribellasse al significato che io volevo imporgli: per me tutto si era fermato nel momento in cui avevo sentito l'urlo grondante di dolore di Durza, quando Eragon gli aveva trapassato il cuore, eppure da quel momento il sole aveva continuato il suo corso, la primavera era esplosa in tutto il suo splendore, Nasuada doveva avere ormai raggiunto il Surda con tutti i Varden al seguito e chissà quanti altri eventi si erano scatenati in tutta Alagaësia.
A nessuno importava della sua scomparsa, mentre io avevo perso il conto delle volte che mi ero voltata, a cercare i capelli rossi di Durza, pronta a ridere ad una sua battuta; delle volte che avevo desiderato poter scaricare i miei turbamenti sulle sue labbra; delle volte che avevo lottato contro il sonno, terrorizzata all'idea di incontrare il suo volto e la sua voce nei miei ormai regolari sogni elfici; delle volte che mi ero svegliata, sentendo il vuoto dato dalla mancanza delle sue dita sotto al mio cuore; delle volte che avevo aspettato che qualcosa mi dimostrasse che era effettivamente morto per sempre.
E le dimostrazioni erano arrivate, lentamente, poche al giorno. Ma in quel momento parvero scaricarsi sulle mie spalle con violenza inaudita, quasi piegandomi a terra.
Mi spogliai e mi concessi un bagno tiepido, nel vano tentativo di calmarmi e mantenere salda e lucida la mia mente. Sciolsi gli incantesimi che avevo applicato sul mio corpo e scrutai per lunghi minuti la lieve rotondità che ormai deformava il mio ventre altrimenti piatto, poi allungai un delicato tentacolo mentale per percepire la semplice coscienza con la quale potevo già mettermi in contatto da diverse settimane. Non lo facevo spesso, sia perché temevo di nuocere alla coscienza del mio bambino, sia perché non vi era nulla di interessante da esplorare, se non la sua semplice esistenza.
Il mio tempo era scaduto. Il bambino sarebbe probabilmente sopravvissuto e ormai era troppo tardi per avvelenarlo con delle erbe. Non avevo propriamente deciso di tenerlo, mi ero limitata a non ucciderlo.
Forse in futuro me ne sarei pentita, perché nemmeno gli elfi sono esenti dalle problematiche che una gravidanza comporta, come l'appesantimento e l'impaccio dei movimenti, ma avrei continuato a fare il mio dovere nei limiti del possibile, nascondendo alla mia gente la presenza della mia creatura con gli stessi incantesimi che avevo applicato su me stessa prima di raggiungere la Du Weldenvarden.
Ma non mi ero ancora posta il problema di cosa avrei fatto con mio figlio, una volta che fosse nato. Come potevo prendermi cura di lui, da sola e nella mia complicata situazione? Sarei stata una madre ancora peggiore di Islanzadi, senza dubbio. Forse avrei potuto abbandonarlo in un villaggio umano e lasciare che qualcun altro se ne prendesse cura, ma non ero certa che gli uomini sarebbero mai riusciti ad accettare un neonato con le orecchie appuntite e magari anche gli occhi rossi come braci ardenti. E nemmeno gli elfi, come anche nani, urgali e gatti mannari.
Non avevo le forze per pensarci, era troppo presto.
«Elfa farmi diventare padre così all'improvviso è stato un gran brutto colpo!»
Durza era veramente diventato padre all'improvviso, ma non avevo potuto vedere la sua espressione nel venire a conoscenza della notizia. Quella vera.
Mi asciugai e indossai una veste da notte che era stata messa a mia disposizione sopra il materasso. Poi realizzai all'improvviso che era la prima volta da più di un mese che ero veramente sola, non minacciata dall'imminente arrivo di qualcuno, con quattro muri a nascondermi nel loro abbraccio.
Durza.
Durante il viaggio fino ad Ellesméra ero passata dalla negazione del fatto alla rabbia irragionevole nei confronti di Eragon. Poi avevo tentato di spiegarmi che ciò che era successo era stato che un caso, un terribile incrocio di coincidenze e di parole taciute, non colpa mia, non di Eragon, non di Durza.
Mi ero semplicemente lasciata prendere in giro da me stessa. Avevo sempre creduto di essere una persona solitaria, di poter vivere con me stessa per il resto della mia vita, mantenendo così stabile il fragile equilibrio che avevo costruito dopo che mia madre mi aveva cacciata. Avevo creduto di amare Fäolin perché lui era incluso in quell'equilibrio, non lo turbava, non lo incrinava, anzi, mi aiutava a regolarizzarlo.
Poi avevo imparato ad amare e comprendere il suo assassino e mio aguzzino, la prima vera persona con la quale mi ero sentita pienamente me stessa, senza limiti e senza freni. Per lui mi ero dovuta mettere in gioco, ero stata costretta a dubitare di tutto.. e a stravolgere quell'equilibrio sul quale avevo fatto tanto affidamento.
E tra le sue braccia avevo vissuto pienamente, per la prima volta da sempre, concedendo ad una buona parte di me di abbandonarsi alla sua rassicurante presenza, di fondersi con lui.
Con la sua morte quella parte di me non mi era stata restituita e in quel momento mi sembrava di non potere mai e poi mai recuperarla. Se guardavo al mio futuro vedevo solo una grigia vita di doveri e nobili ideali, vuota e arida.
Il groppo che mi stava stringendo la gola si fece insopportabile.
Insonorizzai la mia stanza.
Durza mi avrebbe certamente chiesto se per caso volessi stare da sola con lui, con un ghigno sfottente stampato in volto e gli occhi ardenti di affetto e desiderio.
Mi raggomitolai sul letto vuoto e freddo.
E scoppiai a piangere con una forza che nemmeno sospettavo potesse ancora celarsi dentro di me, il corpo squassato da singhiozzi così profondi e frequenti da lasciarmi ansante. Mi coprii gli occhi con le mani e lasciai che le lacrime colassero sulla mia pelle e sulle mie labbra, cariche di tutta l'amarezza e la disperazione che si era accumulata sul mio cuore.
Durza era morto.
Non avrei mai più sentito la sua voce, baciato le sue labbra sempre ruvide, scompigliato i suoi capelli rossi e stretto le sue mani. Non l'avrei mai più rimproverato per i suoi commenti inadeguati, mai più sfidato a un duello con le spade, mai più strappato al controllo dei suoi spiriti, mai più condiviso i miei pensieri e i miei sogni con lui.
Non avrei mai potuto vivere con lui la gioia di tenere tra le braccia nostro figlio, non saremmo mai partiti alla ricerca di posti meravigliosi, non avremmo mai scoperto come potesse essere una vita normale insieme, non avrei mai potuto vedere sciogliersi le ombre del suo passato dai suoi occhi.
Durza era morto.
Prima che ci fosse concessa un vera occasione di amarci e dimenticare gli errori del passato, era morto.
E non c'era incantesimo, non c'era sforzo, non c'era abilità alla quale poter far riferimento per cambiare l'ordine delle cose. Ero impotente. E sola. Lo sarei stata per sempre.

Non dormii quella notte. Alternai momenti di dolore cocente a momenti di totale indifferenza e passai di conseguenza ore sommersa dal pianto e dalla disperazione e ore a fissare il vuoto.
Il mattino seguente ero esausta e svuotata di ogni emozione. La gola mi bruciava per il pianto e le grida che avevo lasciato libere e la sensazione non si estinse nemmeno quando mi concessi un grande bicchiere d'acqua per placare il singhiozzo che era sopraggiunto.
Era quasi l'alba, così mi costrinsi ad uscire dal bozzolo della mia sofferenza e mi lavai il volto con acqua fresca, provvedendo poi a cancellare i segni del mio sfogo con la magia. Con il cuore in gola, applicai nuovamente gli incantesimi al mio ventre, poi indossai morbidi e puliti abiti elfici e riposi con cura quelli di pelle sul fondo della cassapanca, insieme alla cintura. La piccola bisaccia che vi era agganciata si aprì e sparse il suo contenuto a terra. Sobbalzai alla vista del sole d'argento e dell'anello di ametiste, mi ero totalmente dimenticata della loro esistenza da quando Eragon aveva ricevuto il suo ciondolo a forma di martello e la loro vista minò il debole sforzo appena compiuto per incastrare tra loro le schegge in cui si era frantumato il mio cuore.
Li raccolsi con mani tremanti e li riposi nella cassettiera, ben nascosti sotto i vestiti di pelle, serrando la mascella per mantenere un contegno e non scoppiare nuovamente in lacrime. E lì li avrei lasciati fino alla mia partenza per il Surda, quasi un mese dopo.
Mia madre non mancò di irritarmi con i suoi comportamenti sciocchi nemmeno quella mattina, minando seriamente la flebile fiducia che le avevo concesso la sera precedente. Fortunatamente, dopo che Eragon e Saphira si furono allontanati con i loro maestri, Däthedr mi invitò immediatamente a seguirlo per raggiungere i fiori di Glenwing e Fäolin, così non dovetti affrontarla nuovamente, non subito almeno.
Io e Däthedr camminammo per un paio d'ore prima di raggiungere la radura aperta dove le piante potessero crescere, perché nessun albero sarebbe mai riuscita a sopravvivere sotto i giganti di Ellesméra, dove il sole non poteva raggiungerli. Per i primi minuti restammo in silenzio e io ne approfittai per riassaporare gli scorci familiari della città e della foresta limitrofa.
Una parte di me, quella più istintiva, gioiva del mio ritorno ad
Ellesméra, non c'era un posto simile in nessun angolo di Alagaësia e il mio sangue aveva sempre sentito il richiamo ammaliante della mia terra. D'altra parte ingannare gli uomini era infinitamente più semplice che ingannare gli elfi e non potevo assolutamente permettermi di fare passi falsi finché camminavo tra la mia gente.
Sapevo che avrei dovuto lasciare la Du Weldenvarden il prima possibile, ma sul momento mi godetti tutte le sue meraviglie, lasciando che mi riempissero gli occhi e l'anima. Non volevo passare mai più una notte simile, era stata probabilmente la più orribile della mia vita. Non mi ero mai sentita così annichilita, impotente e incapace come nel momento in cui avevo realizzato che non c'era rimedio per ciò che era accaduto nel Fathen Dur.
I morti sono irrecuperabili e sono il più grande tormento dei vivi.
            Däthedr mi parlò a lungo di ciò che era successo nella Du Weldenvarden, mettendomi al passo con ciò che avevo perso negli ultimi sei mesi.
«Mi spiace per ciò che è successo ieri al cospetto di noi consiglieri» disse infine, con una morbida nota di indignazione.
«Non hai colpe per le azioni patetiche di mia madre» risposi senza mezzi termini.
L'elfo tacque a lungo prima di rispondermi. «Non l'hai vista quando ha saputo del tuo rapimento. Ha cominciato a rivivere solo quando le è giunta voce che ti stavi avvicinando ad Ellesméra. Non sarebbe mai riuscita a superare anche la tua morte, dopo quella di Evandar».
Mia madre era debole, non era colpa sua, ma era così. Non volevo e non dovevo assolutamente emulare il suo comportamento, nonostante ci fossero molti punti in comune nelle nostre rispettive storie.
«Ha ancora l'appoggio del consiglio?» domandai, cominciando a capire la situazione.
«Molti di noi non hanno preso bene la sua reazione nei confronti dei Varden. La reputavamo sciocca e impulsiva, dettata dal dolore più che dalla ragione».
«Perché effettivamente è così» lo rassicurai. «Rischia di perdere il suo ruolo?»
«No, Arya. Nessuno la vorrà deporre fino a che Galbatorix non sarà sconfitto, sempre che non mostri altre pericolose debolezze ovviamente». Mi rivolse un sorriso gentile. «Molti hanno fatto il tuo nome come auspicabile successore di Islanzadi».
Scossi la testa. «Te più di tutti gli altri consiglieri sai benissimo che non è il ruolo che desidero».
«Lo so bene, ma forse prima o poi cambierai idea. Tua madre ti ha indicata come sua erede, hai l'appoggio del consiglio e le buone qualità di una regina. Se ti sottraessi al compito getteresti la corte nel caos».
Aprii e chiusi le mani, a disagio. Conversare nell'antica lingua era diventato quasi difficile per me, dopo mesi passati a mentire con disinvoltura nella lingua degli uomini e non ero abituata a sentire Däthedr ripetermi le stesse parole che per anni erano state solo sulla bocca di mia madre. Non volevo ulteriori complicazioni e non volevo lasciare un margine di possibilità per coloro che volevano vedermi sul trono nodoso, un giorno.
«Non voglio diventare regina» dissi con sicurezza. «Voglio solo essere sicura che l'autorità di mia madre non sia indebolita in questo momento, voglio sapere se gli elfi risponderanno alla sua chiamata quando ordinerà loro di marciare su Uru'baen».
«Puoi stare certa che risponderanno. Siamo rimasti nascosti per un secolo, ma tutti noi ricordiamo il dolore delle perdite causate dalla battaglia di Ilirea e siamo pronti a vendicarci».
«Mi dispiace, tendo a dimenticare le vostre sofferenze. Io non ho vissuto come voi quei giorni».
«Hai perso un padre» mi fece notare.
«Non ho avuto il tempo di conoscerlo».
Sorrise. «Quanto rimarrai ad Ellesméra?»
«Solo un paio di settimane».
«Tua madre non ti ha ancora parlato dell'Agaetì Blödhren, vero?»
Increspai la fronte. «Cade quest'anno?»
«E proprio in questo periodo. È un evento che si verifica abbastanza raramente, non credo che dovresti perderti il tuo primo».
Del resto potrebbe anche essere l'ultimo.
«Potrei rimanere una settimana in più» abbozzai.
«Forse dovremmo anche nominare un'altra scorta per te. Islanzadi Dröttning sarebbe certamente più tranquilla se non viaggiassi sola fino al Surda, quando dovrai partire».
«Non ne avrò bisogno» dissi, fin troppo precipitosamente. «Non sono più la custode dell'uovo e quando ero ambasciatrice viaggiavo spesso da sola».
Non avevo bisogno di una scorta, non volevo altri due elfi a prendere il posto di Glenwing e Fäolin e a rendere il mio viaggio un ulteriore momento di tensione. Gli elfi erano quelli che potevano più facilmente scoprire il mio segreto e non volevo portarmi il rischio con me.
«La questione sarà sottoposta al consiglio» disse Däthedr gravemente. «Nessuno vuole che si replichi ciò che ti è già successo. Anche se adesso Durza lo Spettro è morto e non c'è nessuno potente come lui tra gli sgherri di Galbatorix, potresti comunque incontrare avversari temibili».
Mi arresi. «So che queste decisioni spettano al consiglio, ma vi prego di non farvi influenzare dal passato. Quella notte siamo stati incauti e una cosa del genere non si ripeterà mai più».
«Terremo conto della tua opinione» mi assicurò Däthedr.
Mi lasciò in una valle ricolma di fiori.
«Abbiamo cantato i fiori per Glenwing e Fäolin insieme a quelli dei caduti della battaglia Ilirea. Ritenevamo che meritassero un simile onore e le loro famiglie hanno accettato».
E detto questo Däthedr si affrettò ad indicarmi le targhette di legno con le graziose incisioni dei loro nomi e tornò rapidamente a palazzo, dove avrebbe avuto una riunione con Islanzadi e i consiglieri di lì a poche ore.
Guardai la pervinca dedicata a Fäolin e le campanule dedicate a Glenwing e li trovai molto appropriati, anche se mi dispiacque non essere stata presente alla cerimonia di addio. Erano molto rare nella nostra foresta e non avevo mai assistito a nessuna, nonostante sapessi le modalità: il corpo veniva sepolto nella nuda terra e su di esso veniva cantato un fiore, un arbusto o un albero che ricordasse il defunto, così che esso potesse crescere sfruttando i suoi resti. Altri lasciavano istruzioni
affinché il loro corpo venisse bruciato e le ceneri sparse al vento o sulle rive di un fiume. Qualcuno suonava, qualcuno cantava, si leggeva una poesia o dedicava una memoria e poi si lasciava una piccola targhetta con il nome del defunto inciso sopra.
Avrei tanto voluto che anche a Durza fosse stata concessa una cerimonia, anche semplice, qualcosa di più della sepoltura di Luna sotto un mucchio di pietre grezze.
            Restai davanti ai loro fiori per tutto il pomeriggio e mi mossi verso Ellesméra solo quando il sole era ormai tramontato. Riflettei a lungo su quante persone avessi perso in così breve tempo, del resto non erano passati neanche otto mesi da quando, in un momento di lucidità nel bel mezzo del terrore, avevo usato tutte le mie energie per mandare a Brom l'uovo di Saphira. Avevo perso il mio amico fraterno Fäolin, il mio più affidabile accompagnatore Glenwing, Durza e anche Ajihad. In pochi mesi mi ero vista spazzare via tutti coloro che in qualche modo avevo considerato i pilastri portanti della mia esistenza.
Chi mi rimaneva ormai? Mia madre, la donna che in passato mi aveva ripudiata? O forse Däthedr, il mio vecchio amico ormai convinto che il mio posto fosse sul trono nodoso? O Rhunön, la rozza e anziana elfa che non vedevo da un paio d'anni?
Meditai per molte ore, piansi ancora alcune lacrime silenziose e verso sera mi sentivo decisamente più rilassata, leggera e libera. Il dolore per i morti non era svanito, ma in qualche modo si era sfogato.
Dietro sua insistenza, cenai con mia madre, che mi informò dei primi preparativi della festa dell'Agaetì Blödhren, ai quali sarebbero seguiti immediatamente quelli dell'esercito elfico, che si sarebbe messo in marcia in non più di un mese. Il tavolo della sala dei banchetti era terribilmente ridicolo quando eravamo solo io e lei a consumare i pasti. Rettangolare e lunghissimo, eravamo sedute ai suoi due capi, ad almeno tre iarde l’una dall’altra.
«Vorrei che tu rimanessi per la Celebrazione e vorrei che ti prendessi l'impegno di mostrare Ellesméra ad Eragon e Saphira. Fa' vedere loro tutte le nostre meraviglie e falli innamorare della nostra foresta. Se il re sarà mai sconfitto grazie a loro, allora avranno più autorità loro due di tutti i regnanti di Alagaësia messi insieme e la loro amicizia potrebbe risultarci molto vantaggiosa» mi disse lei.
Acconsentii senza fare storie e mi impegnai ad andare a prenderli la sera seguente, dopo la loro lezione con Glaedr e Oromis.

Tre settimane dopo lasciai Ellesméra in direzione di Aberon, con l'accorata benedizione di mia madre e dell'intero consiglio, sola.
Molte cose erano accadute in quei pochi giorni e non tutte esattamente piacevoli.
Il rapporto con mia madre rimaneva piuttosto ambiguo: lei insisteva nel comportarsi come se non mi avesse mai fatto nulla di male in vita sua e io continuavo in parte a disprezzare certi suoi atteggiamenti. Però le volevo bene e cercavo di non ferirla con affermazioni fuori luogo e di ubbidirle in quanto mia regina.
Avevo passato molte ore sui fiori di Fäolin e Glenwing e ripreso i contatti con Rhunön, la mia vecchia nutrice e amica. Era probabilmente l'elfa più vecchia della foresta ed era l'unica abitante della Du Weldenvarden abbastanza schietta da sostenere che gli elfi erano cambiati in peggio dal loro patto con i draghi.
«Ricordo ancora quando gli elfi facevano altro con le loro spose, oltre a guardare le stelle» era solita borbottare, non appena si accennava alla carenza di nascite nel nostro popolo.
Avevo persino scritto una poesia per l'Agaetì Blodhren. Parlava di vita e di morte, ovviamente. Avrei potuto fare di meglio, ma il mio animo non riusciva a concentrarsi su temi diversi in quei momenti.
Se quelli erano stati aspetti positivi, Eragon si era prontamente impegnato a fare crollare il mio castello di semi-serenità, insistendo, a più riprese, in uno sbadato e zoppicante corteggiamento, che mi aveva mandata su tutte le furie.
Gli avevo concesso la mia simpatia e la mia amicizia, ed era stata davvero dura, considerato il ruolo capitale che aveva avuto nella morte del mio uomo. Ma se io gli avevo dato un dito, lui si era affrettato a cercare di prendermi l'intero braccio, comportandosi come un bambino capriccioso quando l'avevo rifiutato la seconda volta.
«Sei crudele» aveva detto.
Cosa avrei dovuto fare? Essere accondiscendente e assecondarlo solo perché mi aveva “salvato la vita” ed era l'unica e ultima possibilità per i ribelli?
No, avevo una dignità. Ed ero troppo innamorata di Durza per poter anche solo pensare ad una cosa simile.
Senza contare che l'idea in sé non mi attirava per niente: Eragon aveva visto e fatto molto, era vero, ma era tanto troppo giovane. Nessuna elfa della mia età avrebbe mai accettato un sedicenne come compagno, c'era troppa distanza di maturità e di pensiero.
Eragon era.. un ragazzino gentile e curioso e lo consideravo a malapena un amico, nulla di più. Il sentimento che diceva di provare per me non poteva essere amore, infatuazione forse, ma non amore. Del resto ero la prima della mia razza che avesse visto e doveva averlo colpito il mio aspetto, considerato particolare tra gli uomini, ma ero certa che nel giro di pochi mesi gli sarebbe passata. Gli umani compiono evoluzioni a velocità vertiginosa e lo stesso sarebbe accaduto anche a lui.
Mia madre non si era dimostrata molto soddisfatta del mio comportamento, quando aveva saputo del Fairth da Oromis: mi aveva lasciato intendere che avrei dovuto accettare il corteggiamento del cavaliere senza distrarlo eccessivamente dal suo addestramento. Per lei si trattava di un ennesimo trucco per legarlo ulteriormente al destino degli elfi, ma trovandomi indisposta a soddisfare le sue richieste non aveva insistito e mi aveva semplicemente raccomandato di essere cortese e delicata nei suoi confronti.
            Così lo avevo perdonato, aveva insistito, e io avevo lasciato Ellesméra senza nemmeno salutarlo. Non era esattamente il tipo di atteggiamento che gli elfi avrebbero definito educato, ma andare da lui mi pareva un poco incauto: poteva sembrare che lo incoraggiassi e non volevo assolutamente far passare quell'idea.
Il consiglio aveva stabilito che sarei partita sola dato che gli elfi servivano, attivi e concentrati, nella Du Weldenvarden, dove iniziavamo a prepararci per la guerra, forgiando armi e protezioni e occupando i campi di allenamento.
Io avevo riempito uno zaino di provviste, legato il mio arco e la mia spada sulla schiena e mi ero procurata un cavallo, ansiosa di allontanarmi dalla capitale degli elfi. Sia per evitare di perderlo sia perché la sua funzione poteva tornarmi utile, indossai il medaglione di Durza sotto i vestiti, sul cuore.
Ad Osilon avevo cambiato la mia cavalcatura con una più fresca e nel giro di due settimane a tappe forzate avevo raggiunto Aberon. Da lì ero dovuta tornare sui miei passi perché la corte di re Orrin era vuota e i suoi dignitari mi avevano informata che l'esercito del Surda, unito a quello dei Varden, si era appena spostato verso nord. A quanto pareva una spia aveva riferito di un grande esercito con le insegne imperiali in movimento in direzione delle Pianure ardenti.
Nasuada mi accolse con gioia sincera e mi disse di aver già mandato un messaggero a Osilon -la nostra città più vicina al confine della foresta e quindi più accessibile per gli umani- con la richiesta di far tornare Eragon al più presto, in previsione dell'imminente battaglia. Fu in quell'occasione che incontrai Elva, la bambina che sapevo accidentalmente maledetta dal Cavaliere e che per le sue capacità era ormai chiamata la Veggente.
La piccola -che non doveva avere più di cinque mesi effettivi ma dimostrava almeno cinque anni- era spaventosa, una creatura grottesca e inquietante, dai grandissimi occhi viola, penetranti ancor più di quelli di Durza. Quando incontrarono i miei seppi in un istante che Elva sarebbe stata capace, con poche parole, di frantumare il mio autocontrollo e farmi scoppiare in lacrime come una bambina.
Angela la Venerabile confermò i miei timori quando andai nella sua tenda per presentarle gli omaggi di mia madre. La bambina aveva un dono terribile e insieme indispensabile e al momento lo aveva messo al servizio di Nasuada, che aveva già salvato da un tentativo di omicidio.
«Quando quel miserabile tontolo di Eragon farà vedere la sua brutta faccia da queste parti non credo che gli risparmierò una strigliata come si deve, cavaliere di drago o no!» esclamò lei con la voce vibrante d'ira.
«Non fargli del male, Venerabile» la rabbonii. «Eragon ci servirà contro Galbatorix e sono certa che avrà fatto notevoli progressi sotto la guida dei suoi maestri ad Ellesméra, non compirà mai più un simile errore e sicuramente non era sua intenzione maledire la bambina».
«Non c'è alcun bisogno di celarmi la loro identità, Arya» mi disse lei, sedendosi su una comoda sedia a dondolo e cominciando un lavoro a maglia. «Conosco bene sia Oromis che Galedr, uso ancora le ossa della zampa che perse in battaglia per fare le mie predizioni».
«Non lo sapevo» ammisi.
«Tu come stai invece?» mi domandò, guardandomi di sfuggita da sotto le ciglia e continuando a lavorare agilmente a maglia, come un ragno che tesse la sua tela.
«Bene» risposi e ringraziai la lingua degli uomini per l'elasticità di concetti che permetteva.
«Tutto, tutto bene?»
«Un incantesimo cela il mio ventre anche ora, Venerabile, altrimenti potresti vederne il primo gonfiore» finii per mormorare, conscia che la domanda di Angela fosse sempre stata mirata a quello, non tanto alla mia salute.
Inizialmente parve un poco infastidita, ma poi mi rivolse un mezzo sorriso. «Sono davvero curiosa di sapere come sarà».
Mi mossi a disagio sullo sgabello su cui mi ero accomodata, sentendomi quasi oggetto di un suo studio e dopo pochi minuti mi congedai, cercando di non apparire troppo scortese.
Nasuada mi aveva fatto preparare una tenda, così mi accomodai sul giaciglio, non prima di aver consegnato il mio cavallo elfico alla cura degli stallieri.
Presa una ciotola d'acqua, mi trattenni qualche minuto per contattare Däthedr e informarlo sulla presente situazione dei Varden. L'elfo mi ricontattò poche ore dopo, informandomi che era riuscito a penetrare gli scudi che il re doveva aver applicato sulla sua armata, impedendoci di usare la cristallomanzia su di essa. Aggiunse che Eragon e Saphira sarebbero rimasti ad Ellesméra fino a che non fosse giunto il messaggero di Nasuada, per ovvi motivi: sfruttare ogni istante rimasto per insegnare ai due più nozioni possibili in previsione della battaglia. Non era escluso che il re stesso scendesse in campo, del resto.
Non potei dire nulla a Nasuada di quel mio scambio con gli elfi, ovviamente, o avrebbe considerato i nostri sotterfugi un tradimento bello e buono.
Ero stanchissima, ma dovetti sopportare altri tre giorni di stretta marcia prima che fosse posto un accampamento definito, ai confini delle Pianure Ardenti. Portavo in grembo mio figlio già da più di quattro mesi e gli sforzi fisici a cui mi ero sottoposta mi lasciarono esausta.
Sette giorni dopo Däthedr mi disse che Eragon e Saphira erano partiti il giorno prima, insieme ad Orik, in direzione di Aberon.
Il mio bambino aveva ormai diciannove settimane, mi mettevo regolarmente in contatto con la sua coscienza e ormai sapevo che lui riconosceva la mia voce quando gli parlavo, ricambiandomi con sensazioni mentali ambigue che il più delle volte interpretai come affetto.
Quella stessa notte lo sentii muoversi per la prima volta dentro di me e rimasi sveglia, con gli occhi spalancati e le mani strette intorno al ventre, combattuta tra stupore, gioia, sollievo e cupo terrore.



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Saaaalve :D
Come avrete notato i tempi sono parecchio accelerati e in un solo capitolo abbiamo ripercorso quasi tutti gli avvenimenti di Eldest. Conto di continuare su questo ritmo per non fare diventare questa storia un noioso “l'ho già sentito”!
Intanto che ci sono ne approfitto per mettervi al corrente delle terribili difficoltà che sto incontrando nel rispettare le tempistiche dei libri: è tristemente evidente che Paolini non ha tenuto conto di quando la sua storia è iniziata e degli avvenimenti che lui stesso vi ha inserito. Elain ad esempio: è incinta di cinque mesi all'inizio di Eldest eppure partorisce solo all'inizio di Inheritance !
Nel frattempo Eragon sembra passare mesi su mesi ad Ellesméra per il suo addestramento con Oromis e Glaedr, mentre non POSSONO essere più di due, anzi, devono essere di meno o Elain sarebbe incinta di otto mesi alla fine di Eldest e quindi tutte le vicende di Brisingr dovrebbero svolgersi in non più di un mese!
Senza contare l'ambigua frase di Trianna alla fine di Eldest : “Tu pratichi la magia da meno di due anni”. Certo che sì tesoro, Saphira ha si è no dieci mesi! Grrr
Stento a credere che i tempi possano essere coerenti, ma intanto mi sto rileggendo il libro, quindi cercherò di far quadrare il tutto, vi prego di perdonare eventuali imprecisioni che magari mi rivedrò costretta a correggere nel prossimo capitolo, ma purtroppo non sono riuscita a finire Brisingr prima della pubblicazione di questo.
Aggiungo che la stesura degli ultimi capitoli è stata accompagnata dall'ascolto ossessivo di questa meravigliosa e cupa canzone, che vi metto sotto nel caso vi venisse voglia di ascoltarla, a me da i brividi ogni volta! **
City of the Dead
Grazie del supporto, grossi baci a tutti e ci vediamo domenica prossima ;)
Lalli

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Capitolo 34
*** Fantasmi ***


Ciao
34. Fantasmi

Nemmeno una settimana dopo tutte le nostre certezze e le nostre speranze vacillavano in precario equilibrio.
La battaglia delle Pianure Ardenti si era conclusa molto più positivamente di quanto avessimo prospettato, ma un problema ben maggiore pendeva sui nostri capi: Murtagh. Il figlio di Morzan, che io stessa mi ero affrettata a giudicare morto -forse troppo accecata dal dolore per poter compiere una ricerca più accurata sul momento- era ricomparso, vivo e vegeto, in groppa ad un drago rosso e con le insegne di Galbatorix.
E come se non bastasse, aveva rivelato ad Eragon informazioni che sarebbero state meglio sepolte con i morti.
Il giovane cavaliere aveva reagito come chiunque dei Varden avrebbe fatto se avesse saputo di avere Morzan come padre: si era sentito sporco, prigioniero di un legame di sangue che avrebbe voluto recidere con tutto il proprio cuore e al quale non sarebbe mai e poi mai riuscito a sottrarsi.
Sia io che Nasuada avevamo cercato di rassicurarlo circa la sua vera natura e, dallo sguardo grato che Eragon ci aveva restituito, era ovvio che avesse apprezzato il nostro gesto, tuttavia non avrebbe mai smesso di rimuginare sulla questione e c'era poco che potessimo fare per quello.
Forse il desiderio di fuggire da se stesso, forse sincera lealtà verso il cugino, forse le braci sopite della sete di vendetta lo portarono, il giorno dopo la battaglia, a presentarsi nel padiglione di Nasuada, a chiederle il permesso di partire alla volta dell'Helgrind con Roran, per liberare la sua fidanzata Katrina.
Ottenne il permesso solo grazie all'intervento molto convincente di Saphira e partì in groppa alla dragonessa il giorno dopo, accompagnato ovviamente dal burbero cugino.
Non mi offrii di andare con loro. In primo luogo non ero certa che Saphira -nel viaggio di ritorno- sarebbe riuscita a portare quattro persone sul suo dorso, nonostante fosse cresciuta ancora dai giorni del Farthen Dur; poi mi sembrava che quella spedizione fosse più un affare di famiglia che un vero e proprio atto per indebolire l'Impero.
Avrei voluto dire molte cose ad Eragon: parlargli dei Sacerdoti, dei loro riti, dei loro pericolosi cerchi di pietre di ametista.. Ma ovviamente non potevo, così mi limitai ad augurargli buona fortuna, con la certezza che in ogni caso, con le sue capacità ormai elfiche, sarebbe certamente riuscito a cavarsela contro i Ra'zac e i Lethrblaka, anche senza il mio aiuto.
Nasuada odiava ammetterlo ma era nervosa per quel suo allontanamento, così brusco, inaspettato e persino incosciente.
«Speriamo che non gli succeda nulla di male» borbottò, quando mi convocò al suo cospetto.
Le sue guardie, i Falchineri, erano schierate all'esterno della sua tenda, pronte ad entrare al minimo cenno di pericolo. Pochi avevano apprezzato la sua decisione di includere gli Urgali tra le fila dei Varden, ma io non ci trovavo nulla di male, per il momento. Era ovvio che prima o poi gli Urgali avrebbero creato problemi, era nella loro cultura, ma finché la guerra non fosse finita la loro forza sarebbe stata contenuta. E Nasuada era riuscita ad alleggerire il sospetto degli uomini includendo i mostri tra le sue stesse guardie. Nemmeno per quello avevo qualcosa in contrario, anche se il loro odore mi disgustava.
«Hai visto le abilità di Eragon e i cambiamenti che i draghi hanno operato su di lui: si è ridotto drasticamente il numero di creature in Alagaësia capaci di opporsi al suo potere ormai» dissi, con l'intento di rassicurarla.
«Tu e gli elfi ne sareste ancora capaci?»
«Noi elfi conosciamo bene la magia, Nasuada, ma i cavalieri dei draghi ne hanno affinato alcuni aspetti e custodiscono gelosamente i loro segreti. Sono certa che i maestri di Eragon hanno saputo metterlo a parte di questi segreti».
Nasuada mi concesse una smorfia indulgente. «Non mi direte mai di chi si tratta, vero? Sia tu che Eragon diventate improvvisamente schivi quando finiamo per parlare del suo addestramento».
Le feci un cenno col capo. «Non sta a me risponderti, ma suppongo che tu mi abbia chiamata per un'altra ragione».
Il capo dei Varden si riscosse e per un attimo parve quasi infastidita all'idea di pormi la domanda che seguì: «Potresti insegnarmi le formule di saluto che usate tra gli elfi?»
Aggrottai la fronte. «Certamente» risposi poi.
«So che devono arrivare degli stregoni esponenti del tuo popolo e vorrei mostrare loro che non sono completamente ignorante delle vostre tradizioni».
«Capisco» dissi. «Del resto si tratta del primo vero incontro tra le nostre razze sul territorio di Alagaësia da oltre un secolo».
Annuì. «Vediamo di renderlo un evento memorabile e non una pubblica manifestazione della mia incapacità».
Mi strappò un sorriso. Erano poche le cose in cui Nasuada era incapace, pur essendo un'umana.
Poi la conversazione si spostò sulle truppe degli elfi e sulla loro situazione nelle terre a nord di Alagaësia. Le riferii che ormai ero in contatto giornaliero con la mia gente perché avevano abbandonato le profondità della foresta e che si stavano raggruppando nei pressi di Ceunon, che avrebbero attaccato in pochi giorni. Da Ceuron le truppe elfiche si sarebbero mosse serpeggiando verso sud, occupando tutte le città imperiali che li separavano da Uru'baen.
«Mi hai assicurato che l'esercito di tua madre sarà in grado di sottomettere tutte quelle città, ma sono preoccupata. In fondo sono parecchie e immagino sarà difficile tenerle a bada anche dopo averle assediate» disse Nasuada.
Intuii le vere ragioni della sua preoccupazione quando notai che si stava asciugando i palmi sudati contro la gonna dell'abito.
«Non faremo del male agli uomini se non sarà necessario, lo sai» le risposi con la voce più rassicurante che riuscii a modulare. «La mia gente è molto potente, molto più degli umani o dei loro maghi e per loro sarà più facile di quanto tu creda occupare le città rapidamente e tenere a bada gli abitanti. Coloro che vorranno unirsi al tuo esercito saranno mandati verso sud, mentre gli altri saranno contenuti con degli incantesimi all'interno delle loro città».
Nasuada mi parve leggermente in imbarazzo. «Non dubito di voi né della vostra abilità, Arya, ma temo un intervento di Murtagh e Castigo, sia qui tra i Varden che tra gli elfi».
«L'esercito di Islanzadi sarà in grado di respingerli, forse non di sconfiggerli o catturarli, ma di respingerli sì».
La giovane si aggiustò dietro all'orecchio una ciocca di capelli scivolata alla semplice acconciatura. «Se ne avranno l'occasione lo uccideranno?» chiese duramente.
«Sì» risposi, chiedendomi se per caso non avessi sottovalutato la simpatia che Nasuada aveva detto di provare per Murtagh.
Ma il capo dei Varden non mostrò alcuna tenerezza, quando rispose con un semplice e secco: «Bene».

Purtroppo non fui presente al momento del fatidico incontro tra elfi e uomini. Saphira tornò all'accampamento pochi giorni dopo e riversò in me tutta la sua preoccupazione per l'avventata decisione di Eragon di rimanere indietro a distruggere l'ultimo dei Ra'zac.
La sua angoscia era fortissima e, come scoprii con un pizzico di sorpresa, anche la mia. Non ero solo preoccupata per il Cavaliere, ero preoccupata per Eragon, il giovane e ingenuo ragazzo che portava sulle spalle un peso immenso, che mai nessuno sarebbe stato in grado di condividere totalmente con lui, neanche Saphira.
Ricordai in un attimo l'espressione disgustata che aveva assunto quando aveva detto di essere figlio di Morzan e la visione del giovane con un pugnale piantato nel cuore o una corda stretta intorno al collo mi riempì gli occhi. Eragon poteva davvero compiere un gesto estremo? Era umano e quindi più volubile di un elfo, nonostante ne avesse ormai il corpo, e negli ultimi giorni era stato schiacciato da molte pressioni.
Presi la mia decisione ancora prima di ragionarla. Strinsi le stringhe degli stivali, mi alzai in punta di piedi per far scricchiolare le caviglie e mi misi a correre in direzione dell'Helgrind, ben decisa a raggiungere Eragon e a riportarlo sano e salvo sotto le ali della sua dragonessa.
Una volta lontana dall'accampamento dei Varden, modificai il mio aspetto, assumendo quello che Durza mi aveva costruito quando eravamo partiti da Gil'ead, e quella notte stessa, prima di prendermi qualche ora di riposo, sottrassi un vestito verde alla grassa moglie di un bovaro. Dovetti aggiustarlo un po' con la magia perché mi pendeva addosso come un mucchio di stracci, ma fui contenta che la donna avesse una corporatura massiccia o, con la mia pancia ormai prominente, non sarei mai riuscita a indossarlo.
Mi sfilai anche la collana di Durza e la annodai al polso, coperta dalla manica dell'abito, poi fui costretta ad applicare nuovamente gli incantesimi che nascondevano la mia condizione e proteggevano il mio bambino. Dopo aver informato Däthedr della mia posizione ero sfinita, ma mi trattenni qualche altro minuto ad ascoltare il battito del cuore di mio figlio e a sussurrargli qualche parola dolce.
Dovevo smettere di andare a cercarmi i guai, visto il profondo attaccamento che essi sembravano provare nei miei confronti. Se avessi continuato a mettere in pericolo la mia vita in quel modo avrei finito per perdere anche l'ultima traccia di Durza che era rimasta in Alagaësia.
E doveva esserci un numero limitato di traumi che una persona può subire prima di uscire completamente di senno.
Il bambino si mosse. Non lo faceva spesso e ogni volta il mio cuore sobbalzava con lui.
            Trovai Eragon la sera seguente. L'incontro fu un incredibile frutto del caso: avevo deciso di passare la notte ad Agrod'est perché ero stanca e avevo bisogno di un pasto sostanzioso e di un letto morbido dopo una notte all'addiaccio -e il conseguente mal di schiena- e Eragon era invece stato costretto ad entrare in città perché se avesse proseguito sarebbe parso sospetto, dato che qualcuno lo aveva visto. Sapevo che si trovava non troppo lontano da lì, lo avevo percepito dai sussurri degli alberi e dagli elementari pensieri degli animali, tuttavia fui sinceramente sorpresa quando me lo ritrovai davanti, nella sala centrale della locanda.
Il cavaliere a prima vista sembrava stare bene, ma capii da ciò che mi disse sul padre di Katrina, un certo Sloan, che in lui si agitavano conflitti di natura morale molto seri, che lo avevano portato a mettere a rischio la sua stessa vita pur di fare ciò che sul momento gli era sembrata la cosa più giusta. Gli risposi con una certa distanza, ma una parte di me condivideva il suo disgusto per l'ingrato compito che ci era stato affidato: quello di uccidere e perdere una parte di noi stessi in ogni vita stroncata.
La sensazione si era acuita in me da quando anche Durza aveva abbracciato il vuoto e, nonostante continuassi a ripetermi che ormai avevo superato il dolore, esso aveva cambiato una parte di me che tuttavia non potevo assecondare, non ancora.
Quando però, dopo un giorno di corsa e uno oscurato dallo scontro con una pattuglia ci fermammo per la notte, sentii le mie riserve vacillare. Forse era la stanchezza o forse il mal di schiena, ulteriormente peggiorato dopo un'altra notte all'addiaccio e le ore di corsa e di marcia veloce. Io potevo fingere che, nonostante aspettassi un bambino, nulla fosse cambiato, ma il mio corpo si era appesantito e avrebbe continuato a farlo anche nei mesi seguenti, fino a rendere impensabile l'impresa che avevo appena compiuto.
Le mie ossa scricchiolarono quando mi mossi e la testa mi si fece pesante. Capii che il mio corpo aveva bisogno di qualcosa di più nutriente delle misere radici che io e Eragon avevamo consumato negli ultimi giorni. L'indomani sarei andata alla cucina dell'accampamento dei Varden e avrei chiesto un sostanzioso pasto completo.
Quella notte però, nel silenzio totale e con le difese abbassate a causa della stanchezza, mi lasciai andare in confidenze che mai avrei pensato di poter fare a Eragon. Non gli dissi tutto ovviamente, anzi come al solito fui costretta a limitare i miei racconti a ciò che ufficialmente era accaduto, ma comunque fu la prima persona a cui parlai seriamente di Fäolin e di ciò che avevo provato per la sua perdita.
Nella mia incoscienza, scrissi anche alcuni frammenti della dodicesima verità nella sabbia. La ricordavo ancora alla perfezione dato che era rimasta un mistero per me, e gli ultimi accenni ai Ra'zac e all'Helgrind avevano rivangato i freschi ricordi che avevo della mia visita a Dras-Leona e agli Avvoltoi. Sembrava passato un millennio.
L'arrivo di uno stormo di spiriti mi salvò dall'amarezza e dalla tristezza, lasciandomi con una sensazione di beata malinconia quando mi coricai per prendermi qualche ora di scomodo sonno sulla terra dura. Il giglio che Eragon aveva fatto sbocciare per me e che gli spiriti avevano modificato con la loro magia sembrava splendere di luce propria, anche se doveva essere un effetto del fioco bagliore lunare.
Prima di addormentarmi pensai che, in un'altra vita, Eragon sarebbe potuto diventare per me ciò che era stato Fäolin: un amico sincero.
Come dodicesima Verità Egli proibì il contatto anche solo più lontano con l'Illusionista, l'enigmatico, il protettore dell'equilibrio, il multiforme che trova la vita nella morte e che non teme alcun male; colui che cammina attraverso le porte. Il dio che solitario che, alla deriva sul mare del tempo, vaga da sponda a sponda, custode delle leggi delle stelle.

Se quella notte i miei pensieri si erano distrattamente mossi alle settimane che avevo passato a Dras-Leona, qualcos'altro successe due giorni dopo, qualcosa che mi fece seriamente dubitare della posizione scettica che avevo sempre preso sulla concezione del destino.
Era pomeriggio e stavo tornando dal recinto dove avevo lasciato il mio cavallo elfico, quando passai davanti alle tende dei civili che si occupavano del mantenimento dell'esercito, quella che Nasuada chiamava “la guerra delle retrovie”. Erano cuochi, stallieri, fabbri, calzolai, artigiani, prostitute, lavandaie e molti altri, praticamente una piccola città.
Non era certo la prima volta che passavo in mezzo a loro e non era certo la prima volta che mi guardavano con sospetto e timore, ma quel giorno i miei occhi si posarono pigramente su una donna dai capelli neri, intenta ad affilare un pugnale, seduta su un ceppo davanti alla sua tenda.
I suoi occhi scuri si alzarono su di me non appena le passai accanto. Grandi, inquieti, indagatori. Sembravano occhi di un lupo braccato.
Hai uno strano accento.
Il cuore mi balzò in gola, ma riuscii a dominarmi abbastanza da non lanciare un grido. Mi affrettai a scostare lo sguardo e ad allontanarmi. Doveva essere una visione, o un'incredibile somiglianza. Non poteva essere vero, non poteva essere lei.
Lei era morta o forse fuggita. E in entrambi i casi non l'avrei mai più rivista.
Eppure..
Stavo diventando pazza?
«Tu!» esclamò qualcuno alle mie spalle.
Mi voltai, sentendo cadere su di me il peso incredibile di un piano già scritto, un libro del quale non conoscevo le pagine.
Augyra, la donna dagli occhi di lupo, quella che avevo lasciato a morire ai piedi dell'Helgrind, mi guardava palesemente sorpresa e sconvolta, forse anche spaventata. Quasi quanto lo ero io.
Mi afferrò un braccio. «Tu!» esclamò di nuovo.
Vidi chiaramente le cicatrici che le catene le avevano lasciato intorno ai polsi, scoperte dal vestito troppo corto. «Ci conosciamo?»
Mi scrutò in volto e fu chiaro che mi aveva riconosciuta e che non sarei mai riuscita a convincerla del contrario. Probabilmente qualche ricordo era riemerso dopo ciò che Durza le aveva fatto, e quel qualcosa non doveva essere piacevole. Inoltre si era rivolta a me prima di essere trascinata via in processione, mi aveva implorata di ucciderla e risparmiarle una dipartita ben peggiore. Sì, non era un fatto semplice da dimenticare, probabilmente comparivo ancora nei suoi peggiori incubi, quelli che ti fanno svegliare urlando e ti fanno gioire di vivere nella crudele realtà.
«Bitr. È così che ti facevi chiamare, vero?»
Bitr.
Cosa voleva fare? Denunciarmi a Nasuada e a tutti i Varden? Poteva farlo, ma nessuno le avrebbe creduto. Io ero l'eroina sopravvissuta sei mesi nelle grinfie di uno spettro, non un'ex monaca di Dras-Leona.
«Temo che tu mi abbia confusa con qualcun altro. Il mio nome è Arya, ambasciatrice degli elfi».
Tanto valeva darsi un po' di toni, magari l'avrei spaventata.
Vidi qualcuno fermarsi alle sue spalle e mi resi conto che il nostro scambio non era passato inosservato. Gli uomini intorno a noi continuavano le loro attività ma ci gettavano occhiate fugaci.
Riconobbi anche la giovane donna che sussultò sentendo le mie parole: era la giovane che avevo visto allontanarsi nella notte in direzione dell'Helgrind, la ragazza che Durza aveva incontrato e che aveva detto di essere un fabbro. Ad una prima occhiata ai suoi bicipiti, nessuno l'avrebbe contraddetta.
Mantenni la mia attenzione sulla donna dagli occhi di lupo, che incrociò le braccia al petto e indurì il viso, apparentemente per nulla spaventata.
«Non mi inganni. Ti riconoscerei tra mille. Non so cosa mi abbia fatto il tuo amico dai capelli rossi, ma è passato un mese prima che riuscissi a ricordarmi di voi, anche se ho precisa memoria di averti chiesto aiuto il giorno in cui mi hanno trascinata al loro altare sotto l'Helgrind. Mi avrebbero uccisa se Cantalama non fosse venuta a salvarmi». Annuì in direzione della giovane donna alle sue spalle.
Quelle due sembravano fantasmi, tornati dal passato per tormentarmi, tanto che per un attimo mi chiesi se non stessi sognando ad occhi aperti.
«Così sei un'elfa? Cosa ci facevi nella cattedrale? Sicuramente non eri parte di una fazione interventista del Surda, vero?» proseguì Augyra abbassando la voce.
Scossi la testa con espressione indulgente. «Ribadisco che stai sbagliando persona. Se non ti dispiace sono attesa altrove».
Mi sbarrò nuovamente la strada. «Dov'è finito il tuo compagno?»
È morto. «Non ho un compagno. Lasciami passare ora o dovrò fare ricorso alla magia. Stai farneticando».
La ragazza la strattonò per un braccio. «Ti prego Au.. Occhi di lupo! Prima il cavaliere, adesso lei, non puoi calpestare l'autorità di queste persone» le bisbigliò, ma ovviamente sentii nitidamente le sue parole.
«Ti ricordi dell'uomo dai capelli rossi di cui mi hai parlato, Cantalama? Quello che ti aveva spaventata?» chiese l'altra fissandomi negli occhi. «Era insieme a costei a Dras-Leona e stavano entrambi spiando i Sacerdoti. Ora vorrei capire perché».
Tacqui per qualche lungo istante e sciolsi la presa convulsa della sua mano, che era tornata a serrarsi intorno al mio braccio.
Augyra non mollò. «Ti prego, voglio solo sapere se hai scoperto qualcosa. Magari potrei darti qualche informazione in cambio» insistette.
Esitai, un po' troppo a lungo.
«Se mi giuri che proseguiremo ognuna sulla propria strada senza fare inciampare l'altra..» dissi, quasi di malavoglia.
I suoi grandi occhi si illuminarono di consapevolezza. «Te lo giuro sul mio onore» mormorò solennemente. «Ora seguimi, non è prudente parlare qui fuori».
Andai nella sua tenda. So perfettamente cosa mi spinse a farlo: curiosità, desiderio di riallacciare un contatto con quella parte della mia vita che avevo ormai perduto e anche prudenza. Non sapevo chi fossero quelle due, ma Augyra aveva dato prova di sapere come comportarsi con me e Durza, quindi non era una semplice popolana. Ed ero abbastanza sicura che nemmeno la ragazza fosse un semplice fabbro. Era il caso di accertarmi che quelle due non fossero pericolose per i Varden.
Non temevo un attacco da parte loro ed ero sicura che in ogni caso sarei riuscita a difendermi, così come sarei riuscita a metterle entrambe a tacere nel caso avessero mostrato il desiderio di parlare a qualcuno di troppo di ciò che era accaduto a Dras-Leona. Insomma non avevo nulla da perdere.
Augyra sedette su una stuoia a mi fece cenno di accomodarmi su un'altra, mentre la ragazza portava dentro il ceppo e si sedeva su di esso.
«Allora?» fece la donna dagli occhi di lupo, rompendo il lungo silenzio. «Cosa facevi a Dras-Leona?»
«Lavoravo per conto dei Varden» risposi immediatamente. Non era esattamente una bugia, stavo veramente agendo per la causa dei ribelli anche se ero in compagnia di uno Spettro.
«E cosa stavi cercando?»
«Una via per neutralizzare il potere di Galbatorix, ma nessuno dovrà sapere della mia missione o sarò costretta a uccidervi entrambe».
«L'avete trovata?» fu l'indifferente risposta.
«Purtroppo no e siamo stati costretti a lasciare la città con tutti i sacerdoti alle calcagna».
«Quindi avete rovinato la mia missione per poi fallire anche voi?» fece con una risatina amara.
Ignorai l'accusa. «Tu cosa stavi cercando?»
«Come te ho un nemico da sconfiggere, anche se meno pericoloso. Cercavo qualche documentazione che mi fornisse ulteriori informazioni sui Ra'zac» rispose, con palese reticenza.
«Avrai certamente saputo che i Ra'zac sono stati uccisi da Eragon Ammazzaspettri».
Le rughe sul suo volto si infittirono. «Purtroppo le persone per cui lavoro sono abbastanza convinte che Galbatorix e forse anche gli stessi Sacerdoti conservino ancora delle uova di quelle creature».
«Per chi lavori?» domandai a quel punto.
«Non posso dirtelo» fece severamente. «Siamo una specie di gruppo ribelle».
«Come i Varden» intervenne Cantalama.
«Ma combattiamo con la penna invece che con la spada» riprese Occhi di Lupo.
Feci un sorriso mesto, ricordando il modo in cui aveva premuto il coltello da cucina sulla gola di Durza.
«Qual'è la vostra posizione nei confronti dei Varden?»
«Per ora ci offrono protezione e questo ci basta. Ma non sarebbe la prima volta che uno di noi fornisce l'informazione giusta al momento giusto, permettendo ai Varden di fare progressi contro Galbatorix. Non siamo vostri nemici, anzi, in questo vogliamo aiutarvi».
«Quindi siete una specie di setta segreta? Perché mi dici queste cose se dovrebbe essere un segreto?»
Chi rivela segreti che non dovresti sapere di solito sa che non avrai modo di rivelarli a nessuno.
Augyra si morse le labbra. «Non lo so. Voglio essere sincera con te: nonostante ciò che mi hai fatto, mi ispiri fiducia. Il tuo amico no, non ispirerebbe fiducia neanche con una corona di fiori in testa, ma tu hai l'aria di qualcuno che sa quello che fa e lo fa responsabilmente. Magari potresti anche aiutarmi».
«Non so nulla dei Ra'zac e di un'eventuale collezione di uova, non vedo come potrei».
«I Varden arriveranno a Dras-Leona prima o poi, per questo io e Cantalama siamo rimaste qui» fece, massaggiandosi i polsi piagati. «I Sacerdoti me la pagheranno per ciò che hanno fatto. Una donna qui tra i Varden mi ha promesso il suo aiuto, ma non credo che sarebbe capace di fare molto contro di loro».
«Chi?»
«Angela l'indovina. Ha letto il futuro a me e a Cantalama su delle ossa di drago».
La ragazza sorrise con aria sognante, come se fosse un bel ricordo.
Io mi feci seria. Se la Venerabile aveva offerto il suo aiuto alle due donne sicuramente non le attendeva un futuro da lavandaie.
«Sarà un aiuto più prezioso di quanto pensi» finii per dire.
Augyra mi fissò nuovamente, soffermandosi qualche istante in più sulle mie orecchie. «L'avevo detto che avevi uno accento particolare. Non avrei mai sospettato che fossi un'elfa, ma avevi qualcosa di strano. Anche il tuo amico aveva qualcosa di strano. La notte che sono venuta a trovarvi nella cattedrale stavo morendo di paura».
«Avrei potuto ucciderti con un gesto» dissi, con studiata indifferenza.
«E lui?»
«Era un mago umano del Surda. È morto nella battaglia delle Pianure Ardenti».
La bugia salì alle mie labbra con estrema facilità. Sapevo che i capelli rossi erano una caratteristica comune tra gli uomini del Surda e sapevo di non poterle spiegare la vera natura di Durza senza scatenare il panico.
Sia lei che Cantalama trattennero un sospiro di sollievo, poi mi fecero le condoglianze di circostanza.
Gli occhi di Augyra mi attiravano come un magnete, ma mi sforzai di concentrarmi sulla ragazza, per una volta. Aveva un aspetto anonimo: altezza media, corporatura media, bellezza media. Persino i suoi capelli erano di lunghezza media e castani, un colore molto diffuso tra gli uomini. Avrei dovuto guardarla tre volte prima di notarla in mezzo ad una folla, dato che la sua unica particolarità erano i muscoli delle braccia.
«Tu chi saresti invece?» la apostrofai.
Lei quasi sobbalzò e le si imporporarono le guance, anche se rimase pacata nel tono e nell'atteggiamento, in uno scarso tentativo di autocontrollo.
«Il mio nome non ti direbbe nulla, ambasciatrice degli elfi, e non posso svelarti la mia identità o metterei in pericolo la mia stessa vita».
Era lo stesso che avevo fatto io tra i Varden nel nascondere la mia identità di figlia della regina, ma non riuscivo ad immaginarmi chi potesse essere la giovane.
«Io vi ho detto il mio nome e mi sono rivelata, sarebbe corretto che faceste lo stesso» osservai.
«Io mi chiamo davvero Augyra» fece la donna. «E lei si chiama Athala. Ma di noi non saprai nient'altro».
«Siete entrambe parte di quella setta?»
«Ho parlato di un gruppo, non di una setta, ma sì, ci siamo dentro entrambe. Cantalama è entrata dopo ciò che è accaduto a Dras-Leona, mentre io vi sono implicata da quando avevo non più di dieci primavere».
«Cosa è accaduto a Dras-Leona?»
Sospirò pesantemente. «Non te lo dirò».
«Allora temo di non poter fare nulla per voi» conclusi alzandomi con studiata lentezza.
Le due mi guardarono incerte. Non si fidavano di me, ovviamente, come io non mi fidavo di loro, ma c'era un ambiguo legame tra di noi. Eravamo schierate contro gli stessi nemici ed eravamo dalla stessa parte, ma su due sentieri separati. Ed era evidente che nessuna di noi sarebbe mai riuscita a rischiare di dire altro.
Mi inginocchiai davanti ad Augyra e le afferrai entrambe le mani. «Mi dispiace per ciò che hai dovuto subire a causa mia e del mio compagno. Abbiamo fatto tutto ciò che era necessario per portare a termine la nostra missione, credo che tu possa capire».
«Capisco» fu la secca risposta. «La vostra missione sembra più importante di quanto fosse la mia, tuttavia a causa dell'incantesimo del rosso ho fallito. E forse avrei potuto salvare parecchie vite se fossi riuscita a distruggere le uova di quelle creature. Forse a te non importa, perché sei un'elfa, ma noi umani temiamo i Ra'zac come la morte e ti reputo responsabile di ogni essere umano che finirà sotto gli artigli della loro prole, in futuro».
«Questo è un debito che non potrò mai saldare, non finché il mio primario obiettivo sarà realizzato. Alla morte di Galbatorix, se pensate di avere bisogno del mio aiuto, sarò lieta di fornirvelo».
Augyra fece un cenno di assenso. «Sono affari che riguardano noi e le persone per cui lavoriamo. Non potremmo mai coinvolgerti senza prima chiedere il loro permesso, ma sono certa che ce lo darebbero, una volta dimostrata la tua utilità».
«In ogni caso la sconfitta del re potrebbe avvenire anche tra anni, o non avvenire proprio» sentenziai, alzandomi in piedi.
«Sono certa che ci rivedremo, prima o poi. E allora ti ricorderò la tua promessa».
«Proposta» la corressi infastidita. «Mi prendo la libertà di poter cambiare idea. Nemmeno io so cosa mi attende, il mio futuro è una fitta nebbia impenetrabile».
Augyra annuì e Cantalama mi fece un timido cenno di saluto. Capii solo in quel momento quanto la mia presenza l'avesse imbarazzata, per l'intera durata del colloquio.
            Per un attimo pensai di presentarmi alla tenda di Angela e chiederle conferma del racconto delle due misteriose donne, oltre che a indagare sulla loro identità. Eppure sapevo benissimo che l'indovina non avrebbe mai accettato di condividere con me segreti che appartenevano ad altri, così rinunciai e andai a svolgere qualche posizione di Rimgar nella mia tenda.

Il giorno seguente, la cavalleria di re Orrin si scontrò con il primo drappello di quelli che da quel giorno in poi sarebbero stati chiamati “I morti che ridono”, ma io mi tenni lontano dalla battaglia, unendomi agli stregoni elfi che mia madre aveva mandato dalla Du Weldenvarden affinché proteggessero Eragon.
Di solito stavo alla larga da loro, sia perché avevano la scomoda abitudine di chiamarmi con l'epiteto Dröttningu, che mi rimandava inesorabilmente al mio lignaggio, sia perché temevo che qualcuno di loro potesse in qualche modo venire a sapere del mio bambino. Ero quasi convinta di averlo nascosto con tutti gli incantesimi necessari al caso, ma mi trovavo in compagnia di elfi molto più vecchi di me e di conseguenza molto più esperti nelle sottigliezze della magia. Non potevo mai essere certa che il mio segreto fosse al sicuro.
Lo scontro con Murtagh impiegò parecchie energie da parte mia e dei miei compagni, ma Eragon e Saphira non riuscirono a catturare il giovane e Castigo, purtroppo, ma solo a metterli in fuga, consegnando loro la preziosa informazione che anche il proprio vero nome può essere cambiato.
Mentre seguivo il matrimonio tra Roran e Katrina con un sorriso lieto e nostalgico sulle labbra, sperai che drago e cavaliere fossero in grado di volgere a loro vantaggio quella piccola, preziosa scoperta.
Nasuada aveva fornito una dote alla giovane sposa e il rito fu piuttosto semplice, anche se molto sentito. Dopo le terribili perdite subite nel pomeriggio, la cerimonia ebbe il potere di sollevare i cuori.
Chissà quanti dei presenti sapevano che Katrina era incinta. Chiunque avesse gettato un'occhiata appena più attenta al suo addome e avesse ampliato i suoni alle proprie orecchie avrebbe potuto facilmente intuire che il bambino doveva avere ormai superato i tre mesi. Secondo la tradizione degli uomini era considerato disdicevole per una donna giacere con un uomo al quale non fosse stata precedentemente unita in matrimonio e ai miei occhi fu evidente che l'affrettato sposalizio dei due aveva come scopo quello di preservare l'onore della ragazza, oltre che a sancire l'amore sincero che provava per Roran.
            Più tardi fui trattenuta nella tenda di Nasuada, la quale mi chiese se avessi informazioni sulla posizione dell'esercito di mia madre.
«Non ho notizie diverse da quelle che ti ho dato quattro ore fa, Nasuada» dissi con un pizzico di divertimento.
La figlia di Ajihad era rimasta molto colpita dall'incredibile rapidità con cui gli elfi si erano mossi a nord di Alagaësia. In poco più di una settimana Ceunon e tutti i villaggi dell'estremo nord erano caduti sotto il controllo del mio popolo. Un drappello era stato mandato ad impossessarsi di Narda, mentre il resto dell'esercito puntava a Yazuac e Daret, alle quali sarebbe seguita Gil'ead.
Il capo dei Varden sembrava temere che la guerra finisse prima ancora che il suo esercito riuscisse ad assediare le città del centro.
«Allora rinnovo il desiderio di essere tempestivamente informata di come procede l'esercito di Islanzadi» fece lei con un'espressione di finta colpa in volto.
Da quando gli elfi avevano abbandonato il cuore della Du Weldenvarden, lasciandosi l'incantesimo che la isolava alle spalle, avevo contatti quasi giornalieri con mia madre o con Däthedr, che mi tenevano aggiornata praticamente di ogni loro mossa e io restituivo loro il favore, facendo un rapporto sui movimenti dei Varden.
«In realtà ti ho chiamata per un'altra ragione. Vorrei conoscere la tua opinione in merito ad un piano che vorrei sottoporre ad Eragon domani».
«Prego» dissi, desiderando con tutto il cuore di potermi finalmente stendere dopo quella lunga giornata.
Nasuada mi parlò della sua idea di mandare Eragon alla Rocca di Bregan e poi nel Farthen Dur, ad assistere e possibilmente a influenzare l'elezione del nuovo sovrano dei nani, che si trascinava ormai da un paio di settimane dopo la brusca morte di Rothgar nella battaglia delle Pianure Ardenti. Il capo dei Varden sperava che Orik sarebbe riuscito ad ottenere il titolo, perché sicuramente avrebbe mantenuto il supporto dell'esercito dei nani ai Varden, ma temeva anche che un capoclan avverso alla nostra causa potesse prendere il potere.
«E vorresti il mio parere?» domandai dubbiosa. Nasuada non era il tipo che cambia idea facilmente.
La giovane annuì. «Se avremo una fortuna sfacciata Eragon potrà andare e tornare in poco più di una settimana, ma avrei bisogno di qualcuno che possa prendere il suo posto in groppa a Saphira nel caso Castigo e Murtagh comparissero di nuovo all'orizzonte».
Chiaro. «Da sola non avrò speranze contro quei due».
«Gli elfi non potranno seguire Eragon nel Farthen Dur o qualcuno sospetterebbe del suo allontanamento, quindi rimarrebbero qui ad aiutarti».
Alzai un sopracciglio. «Hai intenzione di nascondere ai Varden l'assenza del Cavaliere?»
«Non si potrebbe fare con la magia?»
«Sì, ma è inutile che ti dica che è un piano molto azzardato. Io sono abile con la magia ma non sono Eragon, non ho seguito il suo addestramento e non sarei altrettanto abile a volare con Saphira».
E non voglio uccidere mio figlio in uno scontro contro il figlio di Morzan e il suo drago.
«Dopo la sconfitta di oggi suppongo che Murtagh e Castigo non torneranno tanto presto. Se sei disposta a fare ciò che ti ho chiesto e se credi di non mettere in estremo pericolo la vita tua e degli altri stregoni, domani lo proporrò ad Eragon».
«Sono disposta, ma sono un po' preoccupata».
Assunse un'espressione determinata. «Temo che sia necessario».
«E allora hai il mio appoggio».
«Grazie infinite, Arya. Credo di aver perso il conto degli infiniti servigi che hai reso ai Varden».
«Spero solo che il tuo piano funzioni».
«Prima di lasciarti andare c'è un'altra cosa di cui vorrei parlarti..»
E mi raccontò di un vecchio che Eragon aveva incontrato poche ore prima. Un uomo apparentemente impazzito che sembrava aver assunto la strana capacità di vedere l'energia, sia quella vitale delle persone che quella contenuta nell'anello e nella cintura di Eragon.
Aveva poi aggiunto che Murtagh bruciava non di luce propria ma di una riflessa dall'esterno. Altri lo illuminavano.
«Altri lo illuminavano» ripetei confusa.
«Potrebbero essere i deliri di un vecchio ferito, ma è strano che quell'uomo abbia anche indovinato il legame di sangue tra Eragon e Murtagh. Credi che possa avere qualche capacità particolare?»
«Non ho mai sentito parlare di un fenomeno del genere» ammisi. «Ma potrei andare a trovare quell'uomo e chiedergli spiegazioni».
«Potrebbe alludere alla fonte del potere infinito di Galbatorix?» chiese Nasuada, non senza trepidazione.
«È possibile» concessi.
Certo avrebbe confermato quel poco che Durza era riuscito a dirmi sull'argomento. Mi aveva sempre fatto capire che la forza del sovrano non dipendesse da lui e, viste le capacità magiche di Murtagh, era plausibile che avesse condiviso il segreto con il suo nuovo servo.
Salutai Nasuada e mi ripromisi di approfondire la questione, il giorno dopo.
Tuttavia quando mi presentai alla tenda che mi era stata indicata dal capo dei Varden e chiesi del bizzarro uomo cieco senza la gamba sinistra, mi dissero che il poveretto era morto durante la notte.
«Una storia incredibile» mi disse la guaritrice. «Non riuscivamo a capire come fosse diventato improvvisamente cieco e come fosse riuscito a sopravvivere alle terribili ferite. Il nostro stupore è cresciuto ulteriormente quando ci siamo resi conto che l'uomo stava guarendo a velocità incredibile, senza l'aiuto di incantesimi. Poi stamane l'abbiamo trovato disteso sul suo giaciglio, con gli occhi spalancati sotto la benda e un sorriso beato in volto».
Ebbi un brivido gelido.
Misteriose guarigioni? Anche io avevo avuto un'esperienza molto simile, a Gil'ead, quando Durza aveva improvvisamente trovato il mio corpo sanato da graffi sanguinanti e lividi, però non ero morta misteriosamente il giorno seguente.
Non avevamo mai scoperto chi fosse il mio misterioso guaritore, ma poteva anche essere stata Alba, magari seguendo una sua contorta idea per eliminarmi. Però c'era anche la questione degli incubi..
Troppi misteri oscuravano ancora il mio recente passato, incluse Cantalama e Occhi di lupo, ma non potevo sprecare il mio tempo a rimuginare in ciò che non potevo risolvere, avrei solo aumentato esponenzialmente la mia irritazione.

Eragon partì accompagnato da Nar Garzhvog in direzione della Rocca di Bergan, come previsto da Nasuada.
I giorni della sua assenza furono ricchi di nervosismo e tensione. Ogni volta che si vedevano -o sembrava di vedere- Murtagh e Castigo all'orizzonte, il panico dilagava nell'accampamento e sopratutto tra me, gli elfi e Nasuada.
Non fummo attaccati ed Eragon riuscì nella sua missione, mettendo a rischio la sua vita, ma risolvendo la faida con l'Az Sweldn Rak Anhuin e portando Orik sul trono. Tutto sommato la campagna dei Varden procedeva con mosse avventate e insperati successi, non tanto per l'imponenza del suo esercito o l'abilità dei suoi guerrieri e strateghi.
Tuttavia non era ancora finita. Eragon e Saphira volarono in direzione di Ellesméra per parlare con Oromis e Glaedr di un qualcosa che a quanto pareva avrebbe permesso loro di capire l'origine del potere di Galbatorix e forse anche come privarlo di esso.
Sentivo un cerchio chiudersi ineluttabilmente intorno a me, come se i pochi avvenimenti dei sei mesi passati con Durza stessero tracciando qualcosa di molto più grande, come piccoli semi che crescono vertiginosamente in alberi imponenti. Sarei morta piuttosto che dirlo ad alta voce, ma avevo di nuovo paura. Tanta.
            Tre giorni dopo la partenza di Saphira e Eragon dal Farthen Dur, Nasuada diede ordine di muovere l'esercito in direzione di Feister, dove i due avrebbero dovuto raggiungerci il prima possibile. Speravamo prima che iniziasse l'assedio, ma in caso contrario avremmo attaccato senza di loro.
Con addosso la stanchezza dell'insonne, sommata a quella della gravidanza, mi accinsi a preparare i miei bagagli per la trasferta.
Riposi nello zaino i miei vestiti di ricambio e arrotolai le coperte, poi mi misi all'opera per smontare la tenda e raccogliere le varie componenti in una sacca.
«Puoi caricarli sul mio carro, ambasciatrice» fece una voce femminile dal pesante accento surdano alle mie spalle.
Mi voltai, reggendo lo zaino e le coperte in una mano e la sacca in un'altra, ma quando incontrai il viso della mia interlocutrice li lasciai cadere immediatamente a terra, afferrando repentinamente Ren al loro posto.
«Qualcosa non va, Principessa Arya?» mi chiese Alba con un sorriso serpentino, chinandosi a raccogliere le mie cose da terra e caricandole su un carro.
Un altro fantasma del passato tornava a tormentarmi. Forse era troppo tardi, forse ero già precipitata nel baratro della follia.
Mi tremarono le mani. «Cosa ci fai qui?» sibilai.
Alba si toccò i capelli biondi intrecciati sul capo e spense il sorriso in un'espressione di cupa minaccia. «Ti stavo cercando».



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Saaaaalve a tutti! :D
Anche in questo capitolo ho fatto le corse! Abbiamo superato gli eventi di Eldest e ormai siamo verso la fine di Brisingr!
Faccio un po' fatica a seguire un ritmo così incalzante, lo ammetto, non sono molto abituata xD
Come era ovvio, Arya si ritrova faccia a faccia con Cantalama e Occhi di lupo. I loro nomi -Augyra e Athala- li ho inventati, dato che nel Ciclo non erano neanche accennati (per caso si nota che mi piacciono i nomi femminili che iniziano per 'A'? :')
Comunque ho elaborato una mia teoria sull'identità delle due donne e ve la proporrò prossimamente, nel frattempo vi invito, se non l'avete già fatto, a leggere la lettera di Jeod inserita nell'edizione deluxe di Inheritance. La trovate tradotta qui → La vita di Alagaësia dopo Inheritance
Alba! La mia Alba! Non potevo ovviamente farla sparire nel nulla e per me è bello ritrovarla, spero non dispiaccia dato il ruolo non esattamente marginale che svolgerà nel futuro di Arya ^_^
Ultimo ma non da ultimo: ho appena iniziato a rileggere Inheritance. Ora, io sono notoriamente una mangialibri, ma non una scrittrice, quindi non sono sicura di riuscire a preparare il prossimo capitolo e al contempo mettermi in pari con la lettura entro domenica prossima. Ve lo dico per rispetto: rischio di ritardare la pubblicazione del capitolo di qualche giorno, quindi se domenica prossima non trovate il capitolo rassegnatevi al fatto che prima di martedì non lo vedrete ._______.
Vi avevo promesso che i ritardi erano finiti, ma preferisco farvi attendere piuttosto che tirare via tutto, scusate! >.<
Grazie per la comprensione, baci,
Lalli

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Capitolo 35
*** Arya Ammazzaspettri ***


Ciao
35. Arya Ammazzaspettri

Ti stavo cercando.
Sollevai la spada all'altezza delle sue clavicole, ma Alba la abbassò, spingendo le dita sulla parte piatta della lama, con una rapidità che l'avrebbe certamente smascherata se solo qualcuno si fosse soffermato a guardarci. Peccato che tutti fossero impegnati a prepararsi per la partenza.
«Sono disarmata», fece lei con pacatezza, «non sarebbe molto corretto da parte tua».
Strinsi la presa su Ren, ma la tenni puntata a terra.
«Cosa vuoi?» domandai, esausta e guardinga insieme.
Fece un cenno in direzione del carro alle sue spalle. «Ordina al tuo cavallo di seguire il carro e siedi con me sulla panca. Devo davvero condurlo io».
«Non mi fido di te».
«Non ti ucciderò e non ti farò del male, non oggi» disse, nell'antica lingua.
«Se qualcuno mi vedesse su un carro con una donna potrebbe farsi delle domande».
«Allora rinfodera la spada, lascia arco e frecce insieme alle tue cose e indossa un mantello con cappuccio, così se morirai di caldo non dovrò sporcarmi le mani» fu la replica grondante di bile.
Poi Alba si voltò e scomparve nella parte anteriore del carro.
Le gambe mi cedettero e caddi tremando nella polvere. Volevo scappare, andare il più lontano possibile e fuggire dall'elfa che mia madre aveva condannato alla rovina e che avevo creduto ormai fuori dalla mia vita.
Cosa voleva veramente?
Era venuta per avere finalmente la sua vendetta? Sapeva della sua morte?
Probabilmente sì. E probabilmente le dovevo almeno un racconto della dipartita di Durza, dato che nessuno meglio di me sarebbe stato in grado di rievocarla.
Conficcai Ren nel terreno asciutto e feci forza su di essa per alzarmi da terra, poi la rinfoderai e mi chinai a scrollare la terra dalle ginocchia. Il bambino scalciò e io raggiunsi la sua mente con immagini rassicuranti di ruscelli e giardini -piccole anticipazioni sul mondo- mentre il resto della mia mente sostava su visioni di sangue e cadaveri e morti che che tornano alla vita.
Alba non parve particolarmente sorpresa quando sedetti sulla nuda panca di legno accanto a lei, senza mantello e con la spada tra le mani, ma strinse la presa sulle redini, in un atteggiamento che tradiva tensione.
«Mammina come sta?» domandò con sarcasmo.
«Sai di lui?»
«Sì».
«Per questo sei qui?»
«Anche» rispose dopo parecchi istanti.
«Come lo hai saputo?»
«Voci. Per tutti questi mesi sono rimasta confinata in un luogo piuttosto isolato, tra le pianure ardenti e l'Helgrind, ma eserciti in movimento non passano inosservati nemmeno se stai giocando a fare l'eremita in un avamposto elfico abbandonato e alla fine ho lasciato quella vita. Volevo sapere cosa stava succedendo in Alagaësia, dato che pareva ovvio che Galbatorix fosse ancora sul trono. Così ho offerto da bere a dei soldati ad Agrod'est, un mesetto fa, e da loro ho saputo che un certo Eragon Ammazzaspettri, cavaliere di drago, era apertamente schierato con i Varden e stava dando filo da torcere all'impero». Fece una pausa e le labbra le tremarono. «Ammazzaspettri. Non sapevo dell'esistenza di altri spettri oltre a Durza, in Alagaësia».
«No, infatti» dissi, con la voce roca. Tossicchiai, a disagio per aver lasciato che il pianto mi toccasse la gola.
«Ho intuito che si trattasse di lui» concluse. «Ma le sorprese non erano finite perché poco più di una settimana dopo, quando ero ormai decisa ad allontanarmi da Edur Ithindra, ho visto un ragazzo avvicinarsi e aiutare Tenga nelle sue faccende».
Non sapevo che ci fosse un avamposto elfico in rovina in quella zona e decisamente non sapevo nulla del suo ormai unico abitante. «Tenga?»
«Questa è un'altra storia. Comunque ho sentito che il giovane doveva per forza essere un cavaliere. Gli alberi frusciavano, la terra cantava..»
«Ho capito». Doveva essere per forza Eragon, ma il ragazzo non mi aveva mai parlato di un eremita quando aveva fatto il resoconto del suo breve viaggio dall'Helgrind ad Agrod'est.
«Volevo seguirlo, ma ho capito subito che si sarebbe accorto di me e non volevo finire nei guai, non so come mi accoglierebbero gli elfi se venissero a sapere che sono ancora viva».
«Ho detto a mia madre che sei morta» dissi automaticamente.
Alba sollevò le sottili sopracciglia bionde. «A cosa devo la gentilezza?»
«Istinto di conservazione».
Rise. La carovana partì e lei sussurrò alcuni comandi nell'antica lingua ai cavalli che trainavano il carro, che si allinearono docilmente in fila dietro agli altri. La presa delle sue dita sulle briglie rimase convulsa.
«Sono venuta direttamente dai Varden e a quel punto ho visto te». Mi gettò un'occhiata di sbieco. «Parlavi e ti muovevi tra le alte sfere, poi un gruppo di stregoni elfici ti ronzava sempre intorno, quindi ho preferito non avvicinarti. Mi sono intromessa tra i servitori dei Varden e ho assunto qualche incarico in cucina, poi mi hanno assegnato il carro per questa zona, sotto mia richiesta». Scoppiò a ridere. «Insomma non vedevo l'ora di ritrovarti».
«Cosa vuoi?»
«Non è ovvio?»
«Se sei tra i Varden da almeno un paio di settimane allora saprai già alla perfezione gli eventi della battaglia del Farthen Dur».
«Se lo hai amato almeno un millesimo di quanto gli hai fatto credere, allora ricomincia il racconto. E fa' in modo che sia una storia capace di spezzare i cuori» comandò imperiosamente. E per un attimo mi parve di rivedere nei suoi occhi azzurri la stessa scintilla di follia che li aveva accesi il giorno in cui mi aveva affrontata a Gil'ead.
Mi scostai leggermente da lei e mi resi conto solo in quell'istante di avere la braccia strette addosso, quasi a voler proteggere il mio bambino dal crudo e spoglio racconto della morte di suo padre.
Spostai le mani sulle ginocchia e, ispirata una generosa boccata d'aria calda, feci un rapido resoconto dei piani miei e di Durza per sconfiggere il re e dell'intrusione inaspettata di Eragon, per passare infine alla morte inutile e sfortunata del mio uomo. Ovviamente non accennai neanche lontanamente al figlio dello Spettro.
Alba aveva gli occhi grondanti di lacrime, ma la sua voce non vacillò quando parlò. «Tutto qui? Dopo due secoli di tormenti e sofferenze gli hai dato l'illusione di avere trovato l'amore e la felicità e poi hai permesso che lo uccidessero sotto i tuoi occhi?»
«Non ho potuto fare nulla, è successo tutto troppo in fretta. Io stessa ho impiegato più di un mese per realizzare ciò che era accaduto» ammisi funerea.
«E adesso sei la guardia del corpo del suo assassino?»
«Inutile che ti spieghi che non è stata colpa di Eragon».
«E di chi sarebbe allora?» mi provocò, con l'ira di chi non può accettare ciò che ha sentito. «Tua? Mia? Di Durza?»
«Nessuno» gracchiai. Poi mi fermai perché mi sentivo sul punto di scoppiare nuovamente in lacrime ed ero certa che il mio cuore non avrebbe mai sopportato un'altra rottura.
Alba fece scivolare le dita sottili tra i capelli e rimase immobile, fissandosi i piedi, con la mascella serrata al punto che sentii i suoi denti scricchiolare.
Aveva sempre le sembianze di una giovane umana -non l'avevo mai vista con il suo vero aspetto- ma in quel momento sembrava così schiacciata dal dolore da dimostrare almeno duecento anni, nonostante il volto privo di rughe.
«Così.. così tutto nella tua vita è tornato come prima, come se lui non fosse mai esistito» sputò alla fine.
Non le risposi. Sapevo che la rabbia le stava ribollendo nelle vene e le stava avvelenando i pensieri, esattamente com'era successo a me subito dopo la battaglia del Farthen Dur. Sapevo che le sue parole erano dettate da essa e non corrispondevano alla verità, ma quella dura accusa mi colpì come una stoccata e una parte di me si riconobbe colpevole delle sue insinuazioni.
Effettivamente la mia vita era ricominciata esattamente dallo stesso punto in cui si era interrotta, senza cambiamenti visibili da chiunque mi guardasse dall'esterno, o almeno speravo.
L'unica differenza stava nel fatto che nel giro di poco più di tre mesi sarei diventata madre, se non fossi rimasta uccisa prima.
«Ho la mia missione» mi giustificai debolmente. «Se abbandonassi anche quella avrei perso l'ultimo antidoto alla disperazione».
«E funziona?»
«A volte» dissi vagamente.
Nei minuti seguenti Alba parve riprendersi. Il suo volto leggermente chiazzato di rosso riprese il regolare colorito, arrossato dal sole, e le lacrime si ritirarono dai suoi occhi, anche se rimasero leggermente lucidi. L'elfa drizzò la schiena e lasciò vagare lo sguardo intorno a sé.
«Rimango con i Varden» mi comunicò.
«Per uccidermi?»
«Forse più avanti. Ma l'unica cosa che posso fare per Durza ormai è collaborare affinché il suo più acerrimo nemico venga sconfitto».
«I morti non ti ringrazieranno per le tue azioni» osservai amaramente. «Lui non tornerà, non tornerà mai più».
«Cosa sai di me?» domandò di punto in bianco.
«Islanzadi mi ha detto tutto ciò che sapeva del tuo caso. E anche Durza».
«Allora sai cosa stavo facendo quando tua madre mi ha cacciata» disse, lapidaria.
«Non con lui, ti prego» la supplicai senza ritegno.
Alba mi guardò con serietà assoluta. «Dovevate passare la vita insieme se non sbaglio. O erano solo favole?»
Scossi la testa e sentii le lacrime lasciare i miei occhi e bagnarmi gli zigomi. «Sappiamo entrambe che non riusciresti mai a riportarlo indietro identico a com'era quando è.. quando è morto. Io non voglio la sua ombra, non voglio un'illusione, non voglio un frammento dell'uomo che era. Voglio tornare indietro nel tempo e spingerlo di quei pochi pollici che lo avrebbero salvato quando Eragon si è lanciato in avanti per colpirlo. Ma è un incantesimo fuori dalla mia portata, forse anche fuori da quella di Galbatorix e sarebbe..»
«Sbagliato?» suggerì lei pensierosa. «Molto elfico da parte tua».
«Non fare sciocchezze, d'accordo?» la invitai, asciugandomi le lacrime con un rapido movimento.
Non mi lasciò con la sicurezza di una promessa, ma scosse le spalle in un gesto di noncuranza. «Per ora mi basta non farmi ammazzare dagli elfi».
«Allora faresti meglio a tornare ovunque tu fossi prima di venire qui. I dodici stregoni che seguono Eragon sono i più potenti della Du Weldenvarden e nel caso ti individuassero probabilmente avresti parecchie domande a cui rispondere. Inoltre entro un mese l'esercito di Islanzadi si unirà ai Varden; mia madre è pentita di ciò che ha fatto, ma non credo che reagirebbe bene se ti vedesse viva e vegeta».
«Vorrei tanto sapere come ha reagito quando hai tentato di spiegarle che sei diventata l'amante di Durza lo Spettro» disse con sarcasmo; sapeva perfettamente che non avevo detto nulla a nessuno di quella storia. «In ogni caso non tornerò da Tenga. Credo che per il momento mi abbia insegnato abbastanza».
«Chi sarebbe costui?»
Fece un sorrisetto. «Non è facile indovinarlo suppongo. Vorrei avere una risposta certa, ma non ce l'ho. È abilissimo con ogni sottigliezza della magia e non ho mai conosciuto nessuno che fosse al suo livello, tuttavia sembra un innocuo vecchietto un po' fuori di testa; parla di secoli fa come se fossero passati appena pochi giorni e a volte è così concentrato nelle sue ricerche da dimenticarsi di mangiare. Credo che sia per quello che mi ha accettata volentieri come sua apprendista: gli serve qualcuno che lo riporti con i piedi per terra, ogni tanto».
Oh. Decisamente non era umano, ma non avevo mai sentito parlare di lui quindi sicuramente non era un'elfo.
Non ero certa di volere approfondire la questione, tutti i misteri che si addensavano nella mia mente mi stavano indisponendo. Mi sembrava che le mie certezze non fossero che deboli pretese, in confronto.
«Avrei una teoria, ma dovrei verificarla» proseguì Alba. «È in momenti come questi che mi mancano le biblioteche di Ellesméra, anche se darei un braccio per poter visitare quella di Galbatorix».
Mi irrigidii e Alba ne rise, sguaiatamente, riprendendo la luce folle negli occhi.
«Possibile che tu non abbia mai pensato di guardare oltre al tuo naso? Davvero Durza ha rinunciato a tutto per stare con una donna noiosa come te?» mi provocò, con risentimento.
«Durza non ha rinunciato a niente. Era con le spalle al muro e aveva appena scoperto di non potersi impossessare del potere di Galbatorix ma di doverlo distruggere. A quel punto pretendere il trono, osteggiato dagli elfi e da tutte razze mortali sarebbe stato un suicidio, quindi ha preferito l'idea di una fuga con un'algida principessa elfica, sì» risposi con altrettanto veleno. «Piuttosto..»
«Non so da cosa derivi il potere del re, se è questo che stai per chiedermi» mi anticipò.
Mi crollarono le spalle. «Ovviamente no» sospirai. Poi pensai ad Eragon e sperai che avesse risolto almeno quel mistero e che potesse mettermene a parte.
«Però il figlio di Morzan deve saperlo, giusto?» insinuò Alba.
«Murtagh? Suppongo di sì visto l'enorme potere di cui ha dato prova».
«Tra i Varden serpeggia la voce che il suo drago sia stato costretto a schiudersi con un sortilegio».
«Questo non lo so, ma è certo che Galbatorix ha agito sulla crescita di Castigo, accelerandola. E ha anche potenziato le capacità fisiche di Murtagh».
«Dare forza e agilità è relativamente semplice, agire sulla crescita carne è tutta un'altra cosa. Si dovrebbe conoscere l'anatomia di un drago meglio della propria».
«Galbatorix ha le conoscenze, allora».
I suoi occhi si accesero nuovamente di bramosia e capii che stava ancora pensando alla biblioteca del re.
«Se tieni alla tua vita faresti meglio a tornare alla torre di Tenga» la avvisai, desiderosa di non prolungare oltre quel colloquio.
«Vuoi liberarti di me? Non mi stupisce, ma non ci riuscirai».
«Dico sul serio».
«Anche io».
«Come preferisci. Ti saluto». Scivolai sulla panca, verso l'esterno, ma la mano di Alba si strinse sulla mia camicia, trattenendomi.
«Mi sembra inutile minacciarti, principessina, ma non si sa mai. Il nostro colloquio rimane un segreto, la mia esistenza rimane un segreto e a quel punto anche quello che è successo tra te e Durza rimane un segreto. Chiaro?» sussurrò minacciosa.
«Non prenderti gioco di me, non ce n'era alcun bisogno» ringhiai. «Ma te prova ad ostacolare i Varden o a fare del male a mia madre e vedrai che l'idea di dire al mondo che ho amato Durza lo Spettro non mi sembrerà così penosa».
L'espressione di Alba crebbe di intensità. «Io non dimentico. Forse per ora risparmierò la tua vita, perché non è poi così inutile per questa gente, ma se lo faccio è solo per permettere la sconfitta di Galbatorix e lasciare riposare Durza in pace, ovunque sia. Quando tutto questo sarà finito io e te avremo una faccenda da risolvere».
«Non vedo l'ora» risposi spavalda, mentre una fitta di preoccupazione mi attanagliava lo stomaco.
Recuperai i miei bagagli e il mio cavallo e mi allontanai dallo sguardo feroce dell'elfa, sperando con tutto il cuore che non facesse danni tra i Varden o avrei dovuto rivelare alla mia gente una parte della storia che avevo custodito per me fino a quel momento e che avrei voluto restasse un segreto per sempre.

Nei due giorni seguenti sognai ripetutamente una serie di occhi: di Alba, di mia madre, di Nasuada, di Augyra, di Athala, di Eragon, del figlio di Morzan, del sommo sacerdote dell'Helgrind, dei monaci che avevo conosciuto, di Durza..
L'incubo proseguiva anche da sveglia: mi sentivo osservata, sempre e in ogni luogo, anche nella mia tenda. L'inquietudine che ne conseguiva mi rendeva ancora più nervosa e, unita alla preoccupazione per l'imminente assedio di Feister, scatenò a più riprese un principio di attacco di panico. Il più delle volte si limitò a palpitazioni che poi si placavano non appena riuscivo a raggiungere una momentanea calma nella meditazione, ma non era raro che riprendessero pochi minuti dopo, non appena la sensazione di serenità mentale si dissipava.
Forse mi avrebbe fatto bene il supporto di qualcuno, la mia solitudine stava diventando una condanna terribile e il fatto che fosse auto-inflitta la rendeva solo più insostenibile. Non sapevo quanto avrei retto, ma non volevo crollare fisicamente e psicologicamente nello stesso istante, non prima di avere messo fuori gioco Galbatorix.
            Nel giorno e mezzo di viaggio avevo più volte intravisto il volto minaccioso di Alba, ma l'elfa non mi si era più avvicinata e, dopo che l'accampamento fu stabilito alle porte di Feister, non la vidi più. Ne fui immensamente felice, ma la consapevolezza della sua presenza, così vicina a me, mi manteneva costantemente sull'attenti.
Triplicai le difese magiche intorno a me, al punto che avrei potuto fare da scudo umano a metà dell'esercito dei Varden. Ero diventata quasi paranoica, specialmente per quanto riguardava la salute e la protezione del mio bambino, in costante pericolo in mezzo ad un esercito in marcia. Lo portavo in grembo da ormai sei mesi e il suo peso cominciava ad essere un ingombro non indifferente per me, i movimenti delle braccia erano effettivamente più impacciati e i muscoli delle gambe faticavano di più a sorreggermi e a scattare nei movimenti. Con i miei incantesimi potevo dare agli altri l'illusione che il largo farsetto che indossavo aderisse ad un corpo snello, ma in realtà accarezzava una rotondità che si faceva sempre più prominente, tanto che fui spesso costretta ad indossare la cintura con Ren a tracolla, perché premeva troppo sul ventre.
Pensai e ripensai alla possibilità di andarmene e tornare dopo tre mesi, con un bambino al collo e il pieno possesso del mio corpo. A quel punto avrei potuto modificare il suo aspetto -se si fosse rivelato troppo appariscente-, affidarlo ad una balia e continuare ad esercitare il mio ruolo senza che nessuno ne venisse al corrente. Ma prima di tutto avrei dovuto trovare una scusa plausibile per i mesi di assenza, e poi ero certa che se avessi abbandonato i Varden, al mio ritorno li avrei ritrovati o vittoriosi per le strade di Uru'baen, o ridotti a pire di cadaveri ammucchiati nelle colline limitrofe.
L'azione dei ribelli si stava concentrando e stava diventando sempre più pericolosa per l'integrità dell'Impero; seguendo il piano di Nasuada, avremmo fatto in poche settimane ciò che ad un esercito umano -privo dell'aiuto di un drago- avrebbe richiesto mesi.
Non potevo andarmene, non ancora. Avevo scoperto di amare alla follia l'incognita che cresceva dentro di me, ma prima di essere una donna, un'amante o una madre, io ero un soldato. E non avevo alcun diritto di abbandonare il mio posto fino a che il mio giuramento non si fosse esaurito, anche se significava mettere in pericolo una delle troppe vite la cui distruzione mi avrebbe mandata in mille pezzi.
Dovevo rimanere, almeno fino a quando non sarei diventata più un impaccio che un aiuto prezioso. Avevo dato tutta la mia vita per la vittoria su Galbatorix, non sarei mai riuscita a lasciare il tutto nelle mani di altri, non quando il cammino sembrava proseguire finalmente in discesa.
            Forte delle mie nuove difese e delle mie vecchie convinzioni, mi arrischiai a muovermi in prima linea anche quando iniziò l'assedio di Feinster.
Avevamo tentato di aprire i cancelli per tre giorni, dapprima con un semplice ariete, poi anche con la magia, ma essi avevano beffardamente resistito ai nostri sforzi. Il tempo stringeva e il rischio che Murtagh e Castigo comparissero all'orizzonte di faceva sempre più reale, così non mi fu difficile convincere Nasuada a lasciare entrare in città me e uno degli elfi della scorta di Eragon per aprire la via ai Varden dall'interno. Chiesi a Blödhgarm -il più abile degli stregoni e anche il miglior combattente- di accompagnarmi ed egli acconsentì, forse al solo scopo di impedire che venissi uccisa e scatenassi nuovamente il folle dolore di mia madre.
Doveva essere una piccola e rapida incursione, ma ci imbattemmo in uno spiacevole imprevisto: tre stregoni, e anche piuttosto abili. In pochi minuti ci ritrovammo circondati da un infinito numero di soldati imperiali, costretti a dare il meglio di noi per sopravvivere al feroce assalto e decisamente incapaci di fare ciò per cui ci eravamo introdotti in città.
Il ruggito di Saphira e il rumore sordo del battito delle sue ali mi parvero un dono del cielo e il nodo di gelida paura che mi si era stretto in petto si sciolse. L'inaspettato e provvidenziale intervento della dragonessa e di Eragon, reduci dal rapido viaggio che li aveva portati ad Ellesméra, ci salvò dalla tragedia: i soldati fuggirono e io riuscii finalmente ad asciugarmi il sudore dalla fronte e scrollare le mani imbrattate di sangue.
Eragon era tornato con una nuova e formidabile spada e una notizia che lo rendeva molto felice e sicuro di sé: Brom era suo padre, non Morzan. Oromis e Glaedr gli avevano rivelato le sue origini e poi si erano uniti all'esercito di Islanzadi, che proprio quel giorno avrebbe attaccato Gil'ead.
Non credevo che una simile novità potesse influire tanto sulla serenità del cavaliere, ma quando lo vidi in battaglia capii immediatamente che qualcosa del ragazzo che più di un mese prima mi aveva assillata con le sue proposte si era spento, dando spazio ad una maggiore maturità e consapevolezza.
Dovevo ricordarmi più spesso che non ero l'unica a soffrire in Alagaësia, anzi.
Con l'aiuto di Eragon e Saphira riuscimmo ad aprire i cancelli e a permettere l'accesso ai Varden. Mi tenni un poco ai margini dello scontro per riprendere fiato, ma poi, quando Eragon e Saphira mi proposero di seguirli alla fortezza di Lady Lorana, acconsentii di slancio, ansiosa di mettere fine a quel massacro.
Mentre mi irrigidivo e mi stringevo ad Eragon e il mondo si allontanava vorticosamente sotto i miei piedi, fui colta da una forte sensazione di vuoto allo stomaco e mi girò la testa. Era la seconda volta che volavo sul dorso di Saphira e non ero ancora avvezza a simili operazioni, quindi impiegai parecchi istanti prima di rendermi conto che Eragon stava fissando il nulla. Quando chiesi se andasse tutto bene, Saphira rispose dicendo che Oromis e Glaedr stavano lottando contro Murtagh e Castigo, ma quando tentai di indagare su come facessero a saperlo, Eragon si limitò a dirmi che mi avrebbe spiegato più tardi.
Non era decisamente il momento adatto per insistere, così accettai la risposta evasiva e lo seguii nella torre della fortezza, dove trovammo Lady Lorana, che ci invitò ad avvicinarsi come se fossimo amici di vecchia data. La donna ci mise al corrente su quanto stava accadendo davanti a noi: un gruppo di quattro stregoni stava cercando di creare uno spettro nel corpo di uno di loro.
La notizia mi destabilizzò. Non avevo mai pensato che qualcuno potesse
creare uno spettro di sua spontanea volontà e solo per spargere il caos in un esercito nemico. Era una follia, una follia che sarebbe costata molte vite, forse anche le nostre se non fossimo riusciti a bloccare quei pazzi.
Aprii la bocca per dire ad Eragon che dovevamo sbrigarci, ma il giovane sgranò gli occhi e poi si afflosciò a terra. Mi chinai su di lui e lo chiamai, ma né il cavaliere né Saphira reagirono alle mie parole; rimasero immobili, come statue di marmo, senza battere le palpebre e respirando affannosamente. Il panico rischiò di sopraffarmi e a quel punto sfiorai la mente di Eragon, ricevendone immagini e impressioni di Glaedr. Il cavaliere tornò in sé e io lo tempestai di domande, sorpresa e insieme sollevata che nulla di male gli fosse accaduto.
Ma non c'era decisamente tempo per le risposte, non in quel momento: attaccammo uno stregone alla volta, con rapidi colpi, ma impiegammo parecchio per uccidere il primo. E gli altri non dimostrarono alcuna intenzione di smettere con il loro progetto.
Troppo lenti.. siamo troppo lenti.
Riuscimmo ad uccidere un secondo uomo, poi successe.
Vidi almeno una ventina di punti luminosi muoversi ferocemente in direzione dell'uomo inginocchiato a terra. Formarono un cerchio intorno a lui e si mossero vorticosamente.
L'uomo urlò e io mi lanciai disperatamente verso di lui, notando al contempo che sia Eragon che Saphira sembravano avermi abbandonata e giacevano nuovamente immobili, con gli occhi spiritati. Non ebbi il tempo di preoccuparmene: la strega si lanciò davanti all'uomo, intercettando il mio colpo. Ren si conficcò nel suo petto fino all'elsa e fui costretta ad usare entrambe le mani -rese scivolose dal sangue- per estrarla.
Alzai gli occhi, la spada in pugno, ed incontrai quelli cremisi di Durza.
Erano gli stessi occhi che mi avevano spaventata a morte, la prima volta che li avevo incrociati, gli stessi che mi avevano fatto desiderare di morire, di non doverli mai e poi mai rivedere. Gli stessi occhi grondanti di odio che si erano sciolti davanti a me.
Impiegai qualche istante di troppo per riconoscere il mio errore. Lo Spettro assestò un colpo deciso alla mia mano sinistra e Ren cadde a terra, tintinnando sul pavimento. Flettei i muscoli, con l'intenzione di scattare di lato e togliermi dalla sua portata, ma mi accorsi troppo tardi di aver sottovalutato i miei movimenti rallentati.
Lo spettro si scagliò contro di me e mi stordì con una gomitata sotto il mento, poi strinse le dita bianche intorno alla mia gola e capii con orrore che non si sarebbe fermato fino a che non mi avesse uccisa.
L'aria smise di fluire nella mia gola. Artigliai le mani della creatura e gli assestai una serie di calci frenetici e disperati, ma lui non vi fece caso, anzi cominciò a parlare con fare sicuro e minaccioso, come se i miei gesti non fossero più fastidiosi del ronzare di una mosca. Smisi di agitarmi quando mi resi conto che non avrei ottenuto nulla in quella maniera, anzi, avrei solo accelerato la mia fine. Il sangue mi pulsò alle tempie e i miei pensieri cominciarono ad annebbiarsi. In un ultimo lampo di lucidità, colpii il gomito di Varaug, indebolendolo per un istante e riuscendo a ispirare una frenetica boccata d'aria che mi bruciò la gola e i polmoni. Ma la stretta tornò, ancora più micidiale di prima.
Per qualche istante fui nuovamente invasa dal panico, poi riuscii a riprendermi in misura sufficiente da stringere con forza il suo polso e spezzarlo in più parti possibili, un'ultima disperata azione.
Lo Spettro mi lasciò e io mi afflosciai a terra, annaspando alla disperata ricerca d'aria e rotolando sul pavimento per evitare il suo calcio. Riuscii ad afferrare Ren, ma lo spettro si gettò su di me per sottrarmela, attaccandomi addosso il suo odore di fumo e sudore. Tremando e sentendo la testa scoppiarmi, afferrai Ren e la calai sulla sua testa con tutta la poca forza che mi era rimasta nelle membra.
Varaug fece per alzarsi, ma Saphira e il suo cavaliere dovevano averlo impegnato in un duello mentale, perché si bloccò in ginocchio.
Sentii Eragon gridare: «Ora!»
Mi scagliai in avanti alla cieca e lo colpii al centro del petto. Lo Spettro indietreggiò e io mi sentii morire alla vista dei cremisi occhi felini che mi fissavano, sgranati e smarriti. L'immagine del suo corpo che si disfaceva si sovrappose a quella di Durza e gli occhi mi si riempirono di lacrime. Provai ad articolare un suono, ma la voce non mi uscì, anzi, sentii il sapore di sangue in bocca che, insieme al groppo di lacrime, rese praticamente impossibile l'impresa di respirare.
Vidi nero e mi aggrappai al primo supporto che mi ritrovai davanti, fino a che Eragon non posò una mano sulla mia e pronunciò un incantesimo base di guarigione. Il gonfiore che mi stringeva la gola diminuì e riuscii a parlare e a ringraziarlo, anche se fiocamente.
Avevo appena recuperato l'energia sufficiente per stare in piedi senza reggermi allo schienale della poltrona quando Eragon mi comunicò la notizia della morte di Oromis e Glaedr. Ebbi la sensazione che il terreno mi fosse stato sottratto da sotto i piedi e mi sembrò di precipitare in un baratro nero senza fondo e senza vie d'uscita.
Non poteva essere.
Oromis e Glaedr rappresentavano tutto ciò che era rimasto del vecchio mondo, incarnavano gli ideali di libertà e sopravvivenza che avevano guidato gli elfi nell'ultimo secolo e sopratutto erano potenti e capaci oltre ogni dire. Non potevano essere stati spazzati via così, come secche foglie autunnali.
Mi resi conto di stare piangendo solo quando Eragon mi strinse a sé. Mi girai leggermente di sbieco e ricambiai automaticamente il suo abbraccio, con la sensazione che, se lo avessi lasciato andare, avrei perso ogni contatto con la realtà e sarei ineluttabilmente scivolata nell'oblio.
Restammo immobili per qualche istante e potei quasi sentire lo sforzo fisico che entrambi stavamo compiendo per non cadere nel vortice delle lacrime e della disperazione.
L'impresa di sconfiggere Galbatorix era sempre stata tanto difficile da superare i limiti del possibile, ma senza Oromis e Glaedr tutto sembrava ancora più lontano e più irraggiungibile.

Le spiegazioni arrivarono non più di mezzora dopo, nella cucina di una casa spoglia, in presenza di Nasuada.
E finalmente chiarirono un bel po' di misteri che da mesi mi tormentavano.
Non appena il discorso fu chiuso mi ritirai immediatamente e abbandonai l'ancora assediata Feinster, trascinandomi stancamente in direzione della mia tenda. Ero un guerriero, ma per quel giorno ne avevo avuta abbastanza.
Alzai barriere protettive intorno a me non appena mi abbandonai sulla branda e mi presi qualche minuto -e le mie ultime risorse di energia- per rimarginare qualche ferita e controllare che il mio bambino stesse bene. Mi resi conto con vergogna di non avere affatto pensato alla sua condizione mentre le dita dello Spettro si stringevano sempre di più intorno alla mia gola, troppo impegnata a cercare di proteggere la mia stessa vita. Non importava quanto Islanzadi mi avesse maltrattata in passato, sicuramente sarei diventata una madre dieci volte peggiore di lei, vista la mia incapacità di prendermi cura di mio figlio quando era ancora al sicuro nel mio ventre. Scansai vigliaccamente quei pensieri, sentendomi terribilmente inadeguata, e mi imposi di mangiare un po' di pane per reintegrare le mie energie magiche. Forse la mia gola non era del tutto guarita perché faticai a deglutire e dovetti abbandonare l'idea del pane a favore della frutta. L'indomani avrei chiesto a Blödhgarm di controllare i danni che lo Spettro aveva causato, per quel giorno mi sembrava già gravosa l'idea di restare distesa a pensare alle mille informazioni che dovevo riordinare.
Eldunarí. Cuori dei draghi.
Un uomo non può avere tutto quel potere dentro di sé. Io l'ho aiutato a piegare al suo volere il suo drago.
La spiegazione di Eragon aveva colpito il mio cervello come una scheggia, mettendo in atto una serie di collegamenti che avevano finalmente chiarito le criptiche osservazioni di Durza.
I draghi sono intrisi di magia.
Galbatorix sedeva sul suo trono, circondato da centinaia, se non migliaia di cuori dei cuori di drago, che gli fornivano il suo enorme e incommensurabile potere.
E Durza aveva avuto tra le mani la soluzione del problema, ma non aveva potuto dirmela. Ero tornata ad una sorta di punto di partenza, ma almeno sapevo quale fosse la fonte della superiorità del re.
Fino ad un giorno fa avevo intenzione di uccidere il re ed impossessarmi del suo potere, ma ora so che se voglio sconfiggerlo devo distruggere la fonte della sua magia e non avrò più possibilità di recuperarla.
Distruggere gli Eldunarí significava spegnere antiche e preziose coscienze: sarebbe stato un crimine terribile, pari solo a quelli commessi da Galbatorix. Durza non aveva potuto mettermi al corrente di cosa avrebbe dovuto fare per rendere inerme il re, ma se lo avesse fatto probabilmente avrei cercato di fermarlo. Come aveva potuto pensare ad una simile soluzione, così estrema e costosa? Davvero non vi erano alternative possibili?
Si trattava nuovamente di pesare delle vite su una bilancia: da una parte i draghi più antichi, dall'altra le razze che si opponevano a Galbatorix: i nani, gli elfi, gli urgali e buona parte degli uomini. Se nessuno lo avesse fermato, il re avrebbe spinto tutti i suoi oppositori sull'orlo dell'estinzione, ne ero certa, ma anche i draghi erano ormai una specie molto ridotta.
Annuii nella penombra nella mia tenda, tra me e me. Non valeva la pena rischiare la distruzione di tre razze pur di rincorrere i brandelli di una, anche se perdere definitivamente i draghi era davvero terribile, specialmente dopo averne appena scoperto l'esistenza.
In ogni caso non avrei potuto fare nulla finché non avessi trovato nuovamente l'incantesimo -se di incantesimo si trattava- che aveva letto Durza, la notte che eravamo fuggiti da Dras-Leona e ci eravamo amati per la prima volta.
Inevitabilmente, tornai a pensare ai morti. Le lacrime tornarono ad annebbiarmi la vista e un nuovo groppo mi si strinse alla gola.
Insinuai una mano tra i seni e strinsi nel pugno il medaglione dello Spettro. I sei raggi del sole mi punsero la pelle e mi chiesi se per caso sarei riuscita ad aprire delle ferite, se avessi aumentato la stretta.
Caddi in un sonno profondo e sognai i baci di Durza, le parole pacate di Oromis e la maestosa ferocia di Glaedr.

Il giorno dopo avevo la gola in fiamme e, per chiedere a Blödhgarm di guarirmi, fui costretta a parlargli con la mente. Lo stregone era decisamente più abile di me a manipolare la carne -viste anche le profonde trasformazioni che aveva imposto al suo corpo- e in pochi minuti riuscì a guarire i lividi e le ferite interne che avevo sbrigativamente rimarginato il giorno prima. Mi lasciò con il velato ammonimento di prestare più attenzione alla mia vita in futuro, forse temendo una nuova reazione disperata di mia madre.
Non mi mossi dall'accampamento per il resto del giorno. In città le truppe dei Varden terminavano l'assedio, ma la vittoria era già nostra e non ritenevo necessaria la mia presenza tra le mura di Feinster.
Chiusa nella mia tenda, protetta e isolata con i dovuti incantesimi, con un generoso pasto a portata di mano, cominciai a potenziare con la magia i muscoli delle mie gambe e delle mie braccia.
Ero giunta a quella soluzione dopo ore passate a rimuginare e alla fine mi era parsa la soluzione più intelligente per non farmi uccidere da avversari che potevano contare sulla stessa velocità degli elfi, come spettri e cavalieri di drago accompagnati da uno o due Eldunarí, ad esempio.
L'incantesimo era piuttosto complicato e sopratutto sottraeva parecchia della mia ancora scarsa energia.
Temendo di ritrovarmi improvvisamente con una forza che non sarei stata in grado di gestire in battaglia, proseguii per gradi, aumentandola un poco per giorno, fino a recuperare la mia antica agilità e superarla lievemente. Mi allenai con la spada ogni notte, nel deserto cortile del palazzo dove ero stata alloggiata con le alte sfere, fino ad assumete una certa dimestichezza con i nuovi cambiamenti imposti al mio corpo.
            Due giorni dopo la presa di Feinster, Nasuada diede ordine di muovere l'esercito in direzione di Belatona. Per evitare di incontrare Alba alla guida del carro, issai le mie cose sulla groppa del mio cavallo e affiancai Nasuada per tutto il tragitto. La donna parve sorpresa della mia improvvisa socievolezza, ma ne approfittò per lanciarsi in lunghe discussioni di strategie di attacco e di combattimento.
«È vero che tra gli elfi anche le donne partecipano agli scontri armati?» mi chiese, curiosa.
«Se tu visitassi ora la Du Weldenvarden la troveresti praticamente deserta» risposi. «Non siamo come gli umani e tendiamo a considerare allo stesso livello sia i maschi che le femmine, anche in combattimento».
Forse un poco del mio sprezzo filtrò dal tono della mia voce, perché Nasuada mi rispose severamente: «Non conosco molto bene gli elfi, ma per anni non ho visto che te come unica rappresentante del tuo popolo e confesso che da bambina ti avevo scambiata per un uomo. Ora che finalmente ho incontrato altri esponenti della tua razza credo di potere affermare che siete diversi da noi, sia nel fisico che nella mente, però ho notato che non vi è una grande differenza di corporatura tra i vostri maschi e le vostre femmine. Avete tutti circa la stessa altezza e le stesse proporzioni quindi ne deduco che condividiate anche la stessa forza, mentre le nostre donne hanno caratteristiche fisiche ben diverse dai loro uomini e quindi sono meno adatte alla violenza e allo scontro armato. Senza contare», continuò impietosa, «che noi siamo molto fecondi e non è raro che una madre si trovi circondata da due, tre o magari quattro figli. A quel punto cosa dovrebbe fare? Abbandonare i suoi bambini per cercare la morte in battaglia? Noi non abbiamo il tempo sufficiente per essere sia guerrieri che genitori. No, Arya, le nostre donne non rifuggono le battaglie perché sono vili e deboli, ma perché a loro spetta il compito di creare la vita, non di distruggerla».
Il lungo discorso del capo dei Varden, farcito di un buon tono di rimprovero, mi colpì più di quanto diedi a vedere. Non avevo mai considerato i fattori che Nasuada mi aveva appena esposto e mi vergognai della mia superficialità. Possibile che dopo anni che vivevo tra loro, non avessi ancora capito pienamente gli uomini?
«Ti chiedo perdono, non volevo apparirti scortese» mi scusai quietamente.
Nasuada parve nuovamente incuriosita. «Voi elfi siete circondati da un alone di mistero che inquieta i miei soldati e mi fa mordere le dita non appena vi voltate. Sembra che ogni vostro gesto e ogni vostra parola nasconda segreti arcani e inconfessabili».
«Avresti dovuto fare il menestrello, figlia di Ajihad. Le tue parole sono degne di un incantatore» la blandii, nel tentativo di allontanare i suoi pensieri dagli elfi e dai loro segreti.
Sorrise, il biancore dei denti in contrasto con la pelle scura, e abbandonò l'argomento, in un atteggiamento quasi condiscendente.
            In tre giorni arrivammo a Belatona e il giorno dopo attaccammo e prendemmo la città. Gli incantesimi che avevo applicato sulle mie membra funzionavano alla perfezione, così io, Arya di Ellesméra, ambasciatrice degli elfi, figlia della regina e Ammazzaspettri, partecipai all'assedio di Belatona, incinta di sei mesi e ridicolmente imbottita di incantesimi di difesa.
L'assedio terminò con rapidità sconcertante grazie alla presenza dei maghi elfici e di Eragon e Saphira, anche se costò parecchie vite umane e la dragonessa rimase ferita da Niernen, la prima Dauthadert che avessi mai visto e probabilmente l'ultima rimasta in Alagaësia dai tempi della Du Fyrn Skulblaka. In compenso però riuscimmo a tenere la lancia per noi, un possibile futuro aiuto contro Shruikan e Castigo.
Quello stesso giorno i gatti mannari strinsero un'alleanza con i Varden, un evento storico e memorabile che sembrava essere orchestrato da un dio crudele al solo scopo di riparare la ferita data dalla perdita di Glaedr ed Oromis. Glaedr rimaneva effettivamente chiuso in sé stesso e, al mio tentativo di entrare in contatto con lui, ne avevo ricevuto un flusso di dolore così intenso che per qualche minuto l'idea della vita aveva perso il suo fascino, a favore di un invitante oblio.
La sensazione si era dissipata quando, nelle ore seguenti mi ero impegnata ad assistere una donna originaria del villaggio di Eragon, alle prese con un parto difficile che si sarebbe certamente concluso in tragedia se non avessi segretamente usato un paio di incantesimi per guidare la sua bambina verso la luce. La chiamarono Speranza e il nome piacque immensamente a tutti, me compresa, e non riuscii a trattenere un'espressione che doveva sfiorare la commozione. La vita nella morte. Avrei dovuto trovare un nome altrettanto significativo per mio figlio, un giorno.

I Varden si istallarono nella conquistata Belatona, dove rimasero a riposo per un'intera settimana, per poi incamminarsi lentamente in direzione di Dras-Leona. Fu proprio durante quel viaggio che Glaedr, rinchiuso nel suo guscio di dolore, emise le prime poche parole dalla recente morte del suo cavaliere, per poi tornare nel suo isolamento. Il suo ritorno, seppur breve, diede a me e agli altri elfi la speranza che il vecchio drago dorato non si sarebbe lasciato sopraffare dal dolore
            Sia l'assalto a Feinster che quello a Belatona si erano rivelati meno complicati del previsto, specie perché né Murtagh e Castigo né i morti che ridono avevano fatto la loro comparsa, ma l'illusione di avere superato buona parte degli ostacoli che si frapponevano tra noi e Uru'baen sfumò non appena arrivammo in vista delle mura di Dras-Leona, dove trovammo il figlio di Morzan e il suo drago ad attenderci sulle mura, affiancati da alcuni Sacerdoti dell'Helgrind, che riconobbi immediatamente. Ci promisero che mai avremmo preso Dras-Leona la fangosa fino a che ci fossero stati loro a guardarla.
Non avevo alcun motivo di dubitare delle loro parole e loro non me ne diedero.

Nei giorni seguenti assistetti a diversi lenti movimenti: Nasuada si spegneva come una candela consumata davanti ai miei occhi, distrutta e frustrata dal fermo al quale era stato costretto il suo esercito; Islanzadi mi contattò per dirmi che Taurida era ormai nelle mani degli elfi e che, in capo ad una settimana, il drappello mandato a Teirm avrebbe preso la città; Orik arrivò dopo tre giorni, a capo dell'esercito dei nani, e fu costretto ad unirsi a noi nella frustrante attesa di una soluzione; e in ultimo Glaedr riemerse vigorosamente dal suo esilio, spronato dalle sventate e ammirevoli parole di Blödhgarm e io mi affiancai a lui nel proseguire l'educazione ancora incompleta di Eragon.
Il legame di affetto che mi legava al cavaliere si evolse in una traballante amicizia: da alcuni suoi atteggiamenti, Eragon sembrava ancora infatuato di me, ma in generale manteneva con me lo stesso atteggiamento che esibiva con Orik o con Nasuada. Accettai la situazione così com'era e mi impegnai a dare al giovane tutto l'aiuto possibile, anche se in certi momenti -come quando mi disse di essere riuscito a capire chi fossi o quando mi chiese cosa avessi intenzione di fare una volta terminata la guerra- avrei desiderato scappare via.
Ti vedo.
Eragon vedeva molti aspetti del mio carattere e della mia persona, indubbiamente, ma avrei preferito che non si spingesse oltre nella sua conoscenza.

Più di una settimana dopo il nostro arrivo alle porte di Dras-Leona, quando ormai il morale degli uomini strisciava sotto i loro talloni e le scorte di cibo cominciavano seriamente a scarseggiare, arrivò la tanto attesa soluzione.
Una soluzione chiamata Jeod Gambelunghe.
L'erudito parlò di gallerie, di fogne scavate sotto Dras-Leona più o meno ai tempi in cui mio padre Evandar era salito al trono nodoso. Guardai la mappa disegnata da Othman -autore umano che avevo già letto in passato- e l'immagine si sovrappose alle fitte linee rosse di quella che mi aveva mostrato Durza. Mentre quella dello Spettro rappresentava anche i più piccoli canali di scolo, quella che reggeva Jeod tracciava una semplice linea retta, che tagliava in due la città. Sapevo che i canali di scolo confluivano in un grande tunnel che si gettava nel lago e sapevo che quello stesso tunnel era arredato e colonizzato dai Sacerdoti nella zona sotto la cattedrale, ma non avevo mai sospettato -né la mappa di Durza aveva posto dei dubbi- che il tunnel cominciasse dall'esterno della città, come invece sosteneva Jeod.
Nasuada elaborò rapidamente un piano azzardato e incerto come quelle informazioni e io mi offrii prontamente come volontaria. La scusa ufficiale era che volevo proteggere Eragon, in realtà avevo anche intenzione di mettere a frutto le mie scarne ma forse essenziali informazioni sui Sacerdoti, sui loro ambienti sotterranei e sulle loro Ombre.
Mi rasserenai quando la Venerabile chiese di unirsi alla spedizione e mi dissi che avrei dovuto mettere a parte almeno lei delle mie conoscenze. Sarebbe stato più prudente che tutti sapessero tutto, ma io non potevo divulgare informazioni così preziose fingendo che fossero piovute dal cielo.
Così, non appena la riunione con Nasuada, Orrin, Orik ed Eragon e Saphira fu conclusa, andai alla ricerca dell'erborista, che aveva lasciato il padiglione appena Nasuada l'aveva accettata nell'impresa.
            Raggiunsi la tenda di Angela dopo una buona mezz'ora impiegata a chiedere dove si trovasse, dato che non era né vicina alle tende dei guaritori né alle cucine, dov'era stanziata solitamente.
Non percepii alcun suono filtrare dal tessuto, ma picchiai lo stesso contro il palo d'ingresso per accertarmi che non ci fosse nessuno.
La mente di Angela sfiorò la mia.
«Adesso sono impegnata, Arya».
La sua coscienza cantava un melodia squillante e insieme cupa e profonda, come un giullare che diventa assassino nella notte.
«Vorrei parlarti di Dras-Leona, Venerabile»
risposi. Era ovvio che doveva aver insonorizzato la zona in modo che i suoni non filtrassero all'esterno dato che non percepivo nemmeno il suo respiro.
Mi aspettavo che mi scacciasse o mi facesse entrare, così quando il triangolo di tessuto dell'ingresso di scostò di lato e trovai gli occhi celesti di Alba fissati nei miei, sobbalzai.
«Tu» sputai.
«Che vuoi,
Ammazzaspettri
Il nomignolo mi colpì. «Immagino che le voci viaggino veloci come il vento».
«Più del vento, temo. La bella impresa che tu e il cavaliere avete compiuto ha affascinato parecchio quei sempliciotti con cui lavoro alle cucine. Probabilmente la noia di aspettare nelle retrovie mentre l'azione si svolge altrove li sta logorando».
«Non mi pare di averti vista, né a Feinster né a Belatona» osservai.
«Sono una spia, non una combattente».
Angela le comparve improvvisamente accanto. «Entra Arya, vedo che non sarà necessario presentarvi».
La seguii, passando accanto all'elfa. «La conosci?»
Angela annuì compiaciuta. «Da circa due ore, ma la sua storia è parecchio interessante».
«Non c'è alcun bisogno di raccontargliela, la conosce alla perfezione» fece Alba con voce strascicata, chiudendo la tenda e accomodandosi su un piccolo sgabello che somigliava più ad un poggiapiedi.
La Venerabile mi fece cenno di prendere la sua sedia a dondolo, ed insistette quando rifiutai, scoccando un'occhiata significativa alla mia pancia e al cuscino posato a terra.
Finii per assecondarla, ma non mi sfuggì l'espressione perplessa di Alba nell'assistere alla muta discussione.
Angela sedette sul cuscino a gambe incrociate, ritta come un fusto. Era più bassa di me e anche di Alba, eppure, nonostante l'espressione svagata, emanava più autorità e saggezza di noi due messe insieme. E non eravamo esattamente due elfe qualunque.
«Ho intercettato una presenza interessante negli ultimi giorni, ma quando ho individuato la fonte non mi sarei mai aspettata di trovarmi faccia a faccia con un'elfa nera» fece lei allegramente. «Islanzadi non mi ha mai detto nulla riguardo a tutto ciò».
«Non l'aveva detto nemmeno a sua figlia» disse Alba, ricolma di disprezzo.
«E come vi sareste conosciute voi due?» indagò Angela vivacemente, gli occhi nocciola ardenti di curiosità.
Guardai Alba, impassibile, e lei mi restituì uno sguardo leggermente meno composto, quasi spaventato.
«Credo sia meglio non dirtelo, Venerabile» risposi per entrambe. «Ti basti sapere che il nostro incontro non è stato dei più piacevoli e che non scorre buon sangue tra di noi».
«Io la odio» puntualizzò la bionda.
«Non mi stupirei se diventaste buone amiche, un giorno» cinguettò Angela e parve quasi seccata quando si rese conto di aver abbandonato il lavoro a maglia sul tavolo accanto a me.
Glielo porsi, attenda a non sfilare l'operato dall'ago. «Venerabile, volevo che tu sapessi qualcosa prima di stasera, ma non parlerò di fronte a lei, non mi fido». E annuii in direzione di Alba.
L'indovina prese i ferri con piacere e iniziò subito a lavorare quello che sarebbe probabilmente diventato un copri-spalle, vista l'ampiezza dei punti. «Non credo che tu possa dirmi qualcosa che già non so, Älfa. Come ho già detto di fronte a Nasuada e agli altri, ho una faccenda di lunga data in sospeso con i Sacerdoti, specialmente con Abracham. Quelli come me proprio non gli piacciono» concluse con uno sbuffo seccato.
Sbirciai Alba, a disagio e preoccupata dalla sua presenza e da ciò che avrebbe potuto carpire sulla segretissima missione alla cattedrale. «Io ho incontrato brevemente Abracham, circa sei mesi fa» mormorai infine.
L'elfa si irrigidì e Angela parve sorpresa. «Conosci la struttura della cattedrale?»
«Una parte» ammisi cautamente. «Quella subito sotto l'altare».
«Nasuada ed Eragon lo sanno?»
«Ho preferito non dirlo per ovvi motivi».
«Ma lo dici a me».
«Tu sai più di chiunque altro, Venerabile».
Alba scattò in piedi. «Cosa significa tutto ciò?»
«Nulla di rilevante» fu la rapida risposta di Angela.
«Quando saremo là sotto faremo in modo che tu guidi la spedizione o mi dia indicazioni con la mente» aggiunse col pensiero.
«Era quello che ero venuta a proporti» assentii, sollevata. Prolungando il contatto con la sua mente, le trasmisi brevemente altre immagini: le Ombre, i cerchi di ametiste, i poteri dei Sacerdoti. Sentii stupore e anche soddisfazione provenire da lei, poi un odio antico e a lungo celato sfiorò i confini della mia coscienza, facendomi tremare di terrore.
L'indovina si ritirò e Alba mi tirò i capelli. «Cosa mi stai nascondendo, maledetta..?»
«Ferma lì!» esclamò l'erborista. «Le brutte parole sono insopportabili, non trovate? Ci sono tanti modi fantasiosi ed eleganti per offendere, senza dover ricorrere a banalità».
Parlò senza alzare gli occhi dal suo lavoro, con un certo brio, eppure riuscì in quel modo a fermare l'azione della mia nemica.
Scacciai la mano di Alba e riassestai la fascetta di pelle sulla fronte. «Vado a riposarmi» dissi, alzandomi in piedi.
«Tu rimani a farmi compagnia, Älfa?» domandò Angela candidamente.
«Hai detto che non avevi intenzione di ingannarmi, Venerabile» sibilò Alba bloccandomi la strada, con l'espressione di un animale ferito.
Non mi stupì il fatto che l'elfa conoscesse il nomignolo che la mia gente attribuiva all'erborista. Poteva negare di esserlo, ma era cresciuta tra gli elfi.
«E io non dico quasi mai bugie. Siedi: devi finire di parlarmi di quel pazzo scatenato di Tenga».
Approfittando della sua esitazione, superai Alba e guadagnai l'uscita della tenda.
«Scoprirò il tuo segreto, principessina» soffiò lei tra i denti.
Con il cuore che batteva accelerato contro le costole, corsi tra le tende fino a quando non mi fui allontanata di una distanza che reputai sufficiente. Una donna castana mi fissò con gli occhi accusatori di Alba, ma essi cambiarono colore -diventando di un pallido verde- non appena strizzai i miei.
Pazza. Stavo diventando pazza.
Raggiunsi i recinti dei cavalli e mi appoggiai alla staccionata con i gomiti, inspirando ed espirando lentamente dalla bocca. La terra sotto i miei piedi sembrava imbrattata di sangue ed impiegai qualche minuto per realizzare che si trattava semplicemente dell'ombra gettata dal legno. Serrai le palpebre.
Calma.
Rievocai i giardini di
Tialdarí, illuminati dalla luna e dai bagliori delle lucciole in una notte di mezza estate.
Poi cercai la coscienza di mio figlio e mi beai delle caotiche sensazioni e impressioni mentali che mi trasmise non appena presi a canticchiare una semplice nenia.
Quando riaprii gli occhi il sangue era sparito e nessuno sguardo minaccioso prese spazio nei volti delle persone che incontrai nel tragitto fino alla mia tenda.
Dovevo mantenere la calma e la lucidità. In poche ore, dopo sei mesi di gioie e sofferenze, sarei tornata alla cattedrale dov'era sbocciato l'amore tra me e Durza. E non avrei dovuto permettere a niente e nessuno di distrarmi dal vero obiettivo: aprire i cancelli di Dras-Leona e permettere ai Varden di conquistarla.

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Ehilà bbelle persone! ;)
Vi ringrazio per la pazienza e mi scuso per il ritardo! Adesso sono in pari con Iheritance e non dovrei più avere problemi!
Le solite note a pie' pagina: mi sono presa un momento per descrivere lo scontro con Varaug a Feinster perché mi sembrava significativo per Arya come persona, ma non mi sono dilungata eccessivamente ^_^
La discussione tra Nasuada e Arya durante il viaggio per Belatona mi premeva molto: durante il Ciclo l'elfa dice a più riprese che le donne umane sono deboli ecc. La cosa mi ha sempre irritata, quindi mi sembrava giusto dare a Nasuada il compito di difendere il suo popolo, alé!
Direi che non ho altro da aggiungere, ci vediamo domenica alla Cattedrale di Dras-Leona! :)

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Capitolo 36
*** Ritorno alla Cattedrale ***


Ciao
36. Ritorno alla Cattedrale

Partimmo a mezzanotte dall'accampamento, l'ora in cui le campane della torre campanaria suonavano e Wachter abbandonava la guardia per nascondersi con Delling nella dispensa. Chissà se quella notte avevano appuntamento o no.
I pochi elementi della squadra -io, Eragon, Angela e Wyrden- si avvolsero in mantelli neri per ripararsi dalla pioggia e scacciare il freddo notturno. Dopo circa un'ora di marcia, Wyrden individuò l'ingresso con un incantesimo e, prima di avventurarci al suo interno, non mancammo di notare che qualcuno ne aveva recentemente fatto uso.
Forse erano i Sacerdoti, che si muovevano fino all'Helgrind per adorare il loro Dio? O forse le Ombre che perlustravano i dintorni?
Non avevo percepito presenze durante la nostra marcia, ma ero certa che non avremmo mai potuto evitare uno scontro con le guardie, una volta scesi nelle viscere della terra.
Il basso tunnel in cui ci addentrammo proseguì linearmente per una certa lunghezza. Procedere china era terribilmente scomodo, specialmente per me, ma avrei accettato di buon grado il disagio se solo il passaggio ci avesse condotti direttamente sotto la Cattedrale, invece ci rendemmo ben presto conto che lì sotto si aggrovigliavano tra di loro una serie infinita di labirintici passaggi e corridoi.
La Venerabile mi scoccò diverse occhiate interrogative, ma io non potei fare altro che scuotere la testa. Non conoscevo quella parte sotterranea, tanto valeva proseguire alla cieca ed addentrarsi il più possibile nel cuore della struttura, per poi cercare una direzione con la magia.
Alla fine giungemmo ad una sala circolare, sulla quale si aprivano sette passaggi. Mentre Wyrden e Angela analizzavano il soffitto -che a quanto pareva descriveva la storia del famigerato vate Tosk, che mi era sempre rimasta oscura durante il mio breve periodo di noviziato- io mi spostai sull'orlo delle sette aperture e pronunciai un incantesimo di ricerca dietro l'altro per trovare gli ambienti della cattedrale che conoscevo: la cripta e le stanze di studio dei Sacerdoti. Avevo fatto bene ad accompagnare Eragon, potevo davvero aiutarlo moltissimo se solo avessi trovato la direzione giusta.
Giunta davanti al settimo ingresso, esortai i miei compagni a seguirmi, perché gli altri erano risultati vicoli ciechi. Ma non riuscimmo ad addentrarci nel cunicolo perché il miagolio agghiacciante di Solembum ci trattenne il tempo sufficiente da permettere ad una trentina di Ombre di fuoriuscire dalle loro insidiose aperture murarie. Gli uomini ci saltarono addosso senza un grido e ci impegnarono in un faticoso scontro.
Come ben ricordavo, le Ombre non sentivano dolore ed era necessario decapitarli o colpirli tra gli occhi per ucciderli rapidamente, inoltre erano immuni a quasi tutti gli attacchi diretti. Altri guerrieri uscirono dalle pareti e giunsero in aiuto dei loro compagni. Eravamo quattro abili combattenti e stregoni, ma persino le nostre azioni erano limitate contro un gruppo di uomini che erano immuni al dolore e protetti da buona parte dei nostri incantesimi più letali.
Costretta a fuggire oltre il settimo arco, fui testimone di un orrore dietro l'altro: dapprima la scomparsa della Venerabile oltre una parete, poi l'assurda morte di Wyrden ad opera di cristalli di ametista e infine della messa fuori gioco di Eragon, che perse i sensi non appena varcò un ampio cerchio di pietre violette che non esitai a riconoscere.
Nel preciso momento in cui il Cavaliere si afflosciò a terra, svenuto, mi bloccai sull'orlo del cerchio e scartai di lato, aggirando l'ostacolo. Ma fu presto chiaro che per me non c'era via di scampo: altri dieci uomini comparvero davanti a me e mi ritrovai sospinta all'interno dell'anello di pietre, costretta a fronteggiare diverse decine di Ombre, improvvisamente priva degli incantesimi di potenziamento che avevo applicato ai miei muscoli e anche delle protezioni e dei sostegni al ventre. La luce fatua che avevo sostenuto fino ad un attimo prima si spense.
Mi catturarono e mi stordirono con un colpo alla nuca. Vidi da lontano, come in un sogno, che mi assicuravano i polsi e le caviglie a robuste catene.
Quando la mia visione tornò più nitida, mi assalì un feroce attacco di mal di capo, seguito immediatamente dalla nausea. Sporsi il volto oltre la spalla e vomitai.
«Che schifo!» esclamò qualcuno.
«Io mi ricordo di te» fece una voce un po' gracchiante.
Qualcosa di indefinito mi fluttuò davanti, poi i contorni divennero sempre più chiari, fino a che non misi a fuoco un volto pallidissimo, che tuttavia non riconobbi.
Sputai a terra, ripulendomi la bocca. «Abracham» riuscii ad articolare. «Voglio parlare con Abracham».
«Tu sei quella che è venuta qui con Durza lo Spettro» constatò l'uomo, abbassando la benda nera che gli copriva la bocca.
Per un attimo pensai di mentire, poi mi dissi che probabilmente mi avrebbero comunque riconosciuta e che tanto non avrei avuto nulla da perdere o da guadagnare. «Sono io».
«Sarà il Sommo Sacerdote a decidere se riceverti o no». Poi aggiunse, a voce più bassa: «Non saresti dovuta tornare qui».
Le Ombre legarono il corpo inerte di Eragon a poche iarde da me, poi si dileguarono oltre una massiccia porticina a sinistra dell'altare.
Dopo qualche minuto si presentarono tre novizi, che si chinarono a terra e ripulirono ciò che avevo rigettato senza dire una parola, ma esibendo smorfie di disgusto. Non mi risposero quando chiesi loro dove fossero andate le Ombre e se qualcuno avesse detto ad Abracham che ero lì.
Finii per rassegnarmi al loro silenzio e digrignai i denti per la frustrazione quando sentii il forte movimento del mio bambino e mi resi conto di non poter né raggiungerlo con la mente, né perdermi a cantargli una canzone o a sfiorare l'addome per fargli sentire la mia presenza. Sicuramente non poteva passare inosservato il fatto che ero incinta, non quando gli incantesimi per celarlo si erano dissipati e le candele gettavano lievi luci su di me.
Se fossi uscita viva di lì lo avrei gridato ai quattro venti senza curarmi delle conseguenze.
Le Ombre tornarono e lo stesso uomo di prima si rivolse a me con durezza: «Il Sommo Sacerdote verrà a farvi visita più tardi, ma ha detto che non accetterà di parlare con voi. L'ultima volta che ha cercato un accordo con un intruso, tu e Durza lo Spettro siete fuggiti, uccidendo quattro di noi e portando con voi i nostri segreti. Egli non ripeterà l'errore. Mi ha ordinato di perquisirvi e di imbavagliarvi, nient'altro. Potrai cercare di sedurmi con le tue arti elfiche, donna, ma il mio Dio mi guiderà e io rimarrò sordo ai tuoi lamenti».
Effettivamente cercai di fargli cambiare idea, aggrappandomi ad ogni possibile promessa, ma, come mi aveva anticipato, l'uomo mi ignorò completamente, fino a che non soffocò la mia voce con un involto di stracci. L'impresa gli costò un morso sulla mano, ma mise anche fine alle mie inutili suppliche.
Ormai alla completa mercé di quegli uomini, non potei fare altro che divincolarmi inutilmente mentre mi sottraevano il fodero di Ren e la collana di Durza.
Il Cavaliere subì la mia stessa sorte e poi fummo lasciati nuovamente soli. Strattonai le catene con tutte le mie forze, fino a quando non mi sanguinarono i polsi, poi fui costretta a rinunciare anche a quell'impresa. Mi era difficile respirare, con le braccia sospese sopra la testa e lo straccio che mi ostruiva la gola rendeva l'operazione ancora più complicata. Se mi avessero lasciata lì per una settimana sarei morta lentamente, di auto soffocamento, mentre i muscoli delle spalle si indebolivano sempre di più sotto il mio peso.
Una fine terribile, che non ero assolutamente pronta ad accettare.
Forse due ore dopo Eragon si risvegliò e, sordo -anzi cieco- ai miei avvertimenti, tentò di usare la magia e di liberarsi con la forza, finendo poi per afflosciarsi, sanguinante e stremato.
Possibile che avessi nuovamente sottovalutato i Sacerdoti e il loro potere, dopo tutto ciò che già sapevo su di loro? Non avevo previsto tutte quelle trappole e forse avrei dovuto; ero stata troppo precipitosa e sciocca e la mia negligenza era costata la vita di Wyrden, forse anche quella di Angela.
Rabbrividii. Se la Venerabile fosse caduta nel vuoto sarebbe stata una perdita terribile per Alagaësia, privata a quel punto di uno dei suoi più importanti e longevi guardiani.
            I Sacerdoti si presentarono non molto tempo dopo, accompagnati da novizi che reggevano le campane che usavano per i riti all'Helgrind. Il Sommo Sacerdote indugiò su di me qualche istante in più di quanto avesse fatto con Eragon, gli occhi scuri luccicanti che lo facevano sembrare un gigantesco scarafaggio.
Mi dispiacque ferocemente che Sole, il pugnale di Durza, non avesse messo fine alla sua viscida vita, più di sei mesi prima.
Abracham però, parve riservare il suo odio per Eragon, più che per me. Ed in effetti il Cavaliere aveva ucciso i loro dei, un sacrilegio che non doveva avere uguali ai loro occhi. Mi chiesi come potessero continuare a credere in un Dio che sanguina e muore per mano dei suoi nemici, ma la risposta mi giunse più in fretta di quanto mi aspettassi, in tutta la sua orripilante presenza.
Due uova di Ra'zac furono abbandonate davanti a noi e i Sacerdoti si ritirarono prontamente oltre la porte a sinistra dell'altare.
No.
Già in passato avevo rischiato di diventare carne da macello per i Sacerdoti, ma ero comunque abile di muovermi e di combattere, di tentare in ogni modo di salvarmi la pelle.
E sopratutto ero sola, con la mia sola vita in gioco. Il mio bambino non poteva diventare il pasto di quelle creature. Non aveva ancora visto il sole con i suoi occhi e sentito gli odori della terra, non poteva morire divorato da..
Ebbi un conato, ma la bile fu bloccata dallo straccio e mi ridiscese lungo la gola, rischiando di soffocarmi.
No, no, no, NO!
La sua e la mia vita non sarebbero terminate per un così atroce scopo. Solo l'idea mi faceva inorridire e tremare le viscere.
Ispirando furiosamente dal naso, mi guardai intorno alla ricerca di una via di fuga che non c'era. Poi lo sguardo mi cadde sulle strette manette che mi serravano i polsi e mi fu subito chiaro quale fosse l'ultima disperata soluzione a cui potevo fare ricorso.
Il dolore che provai quando la mia mano destra scivolò oltre l'anello di metallo non aveva precedenti e non ebbe seguito in futuro. La sofferenza mi infiacchì le membra e distrusse la mia capacità di ragionare, così rimasi inerte per lunghi istanti, anche perché il solo pensiero di dover ripetere l'operazione per l'altra mano e poi per entrambi i piedi minava seriamente la fermezza delle mie intenzioni.
Accolsi con sollievo l'arrivo dello sciocco novizio che diceva di volerci liberare, ma la nostra fine sarebbe stata comunque ineluttabile se la Venerabile non fosse comparsa preceduta da Solembum, come un sogno bellissimo, dalle labirintiche gallerie che avevamo affrontato poche ore prima.
Mentre Angela rompeva il cerchio di ametiste, io mi lasciai cadere inerte, intontita dal dolore, a malapena cosciente del fatto che Solembum aveva appena ucciso una delle creature che si agitavano nelle loro uova.
Tornai in me solo quando l'erborista mi si avvicinò, nascondendomi in parte alla vista di Eragon e sussurrando qualcosa che non capii. Mi liberò dalle catene e a quel punto sentii la sua mente sfiorare la mia.
«Gli incantesimi per nascondere tuo figlio al resto del mondo, Arya, devi applicarli immediatamente».
Mi tolsi lo straccio dalla bocca ed eseguii automaticamente. Ma solo quando mi guarii la mano e il dolore scemò riuscii a recuperare un poco di lucidità.
Ormai infiacchita dai rapidi e terribili avvenimenti delle ultime ore, mi offrii di portare il novizio mentre gli altri mi aprivano la strada, così da potermi tenere alla larga dagli scontri armati, che sicuramente non erano ancora finiti.
Ed effettivamente venti guardie erano schierate dietro la porta di sinistra. Ebbi il tempo di pensare che forse potevano essere le stesse che io e Durza avevamo visto darsi il cambio alla seconda ora del mattino e che avrei potuto gettare il novizio addosso a loro e poi sottrarre una spada.. Angela pronunciò una serie rapidissima di parole nell'antica lingua, qualcosa che aveva a che fare con il tempo e il suo rallentamento. Poi tutti e venti gli uomini caddero a terra, con una ferita sanguinante sotto la gola, morti.
Per qualche istante regnò il silenzio.
«Venerabile come hai fatto?» domandai, esitante e anche intimorita.
L'erborista lasciò me ed Eragon con un'affrettata spiegazione a proposito di tempo, movimento e calore, poi ci sollecitò a proseguire ed io e il Cavaliere, dopo esserci scambiati un'occhiata avvilita, eseguimmo.
Già dalla prima stanza oltre alla porta, percepii un ambiente che mi parve familiare. Poi capii.
«Venerabile, ora dobbiamo passare oltre a sette stanze» dissi.
«Dimmi tu quale bivio devo prendere» replicò, alzando una sfera luminosa.
Mi guardai intorno, sistemando meglio il mio fardello sulle spalle. Dalle pareti coperte di libri e oggetti preziosi, si aprivano infinite aperture che non ricordavo dalla mia visita precedente e mi occorse qualche istante per realizzare di cosa si trattasse.
«Mantieni sempre una direzione centrale e arriveremo direttamente all'abside della cattedrale. Le aperture laterali portano a corridoi che si diramano paralleli e che forse proseguono in altre labirintiche gallerie. Non so dirti altro».
«Questo è più che sufficiente, per ora».
Eragon si mantenne in testa, ma fu la Venerabile ad intervenire nella scelta della direzione e in pochi minuti mi corsero sotto agli occhi tutte le lunghe sale che io e Durza avevamo sviscerato per settimane, alla ricerca di una soluzione che ormai era perduta.
Oltre all'ultima porta si apriva il breve corridoio sul quale si affacciavano le porte della sala dei tesori e della piscina di sangue, poi quella che ci avrebbe portato alle scale.
Come avevo promesso ad Angela, ci affacciammo direttamente dietro all'altare. La pala con i tre picchi dell'Helgrind non era ancora terminata perché il più piccolo, Teufel, rimaneva solamente abbozzato. Probabilmente la questione sulla sua sacralità era ancora aperta e il pittore era stato licenziato senza poter terminare la sua opera.
L'osservazione mi richiese pochi istanti, anche perché poi fui distratta dai gemiti di dolore dei miei compagni, che stavano affrontando un pugno di Ombre. Vista la luce naturale che filtrava dalle vetrate e il calice caduto in una pozza di sangue, dovevamo avere interrotto i Sacerdoti nel bel mezzo del loro rito del mattino, appena prima che bevessero il sangue del Sommo Sacerdote.
Cercai la mente di Eragon e di Angela, ma solo il cavaliere aprì la coscienza alla mia. Insieme, cominciammo a seminare il panico tra i ventiquattro Sacerdoti, fino a che un buon numero di loro non furono uccisi o fuggirono nella porta che dava sul chiostro. Uno di loro, ferito, barcollò fino alla porta opposta, che sapevo portare al campanile. Stavo per inseguirlo, ma mi dissi che non era il caso di abbandonare i miei amici.
Infine non rimase che il Sommo Sacerdote, che tuttavia ci diede più filo da torcere.
«Mio Dio, indebolisci il mio nemico» sputò ad un certo punto, nell'antica lingua.
Credevo che l'incantesimo fosse diretto a Solembum, che si stava giusto scagliando contro i novizi che reggevano la sua portantina, ma quando vidi Angela traballare sulle gambe realizzai che l'unica ad aver subito danni doveva essere stata lei.
«Venerabile, sei ferita? Posso..»
Non ebbi modo di terminare il pensiero perché un attacco furioso quanto disperato mi costrinse a concentrarmi su me stessa. Canticchiai mentalmente alcuni versi del
Du Silbena Datia, seguendo con la coda nell'occhio la massa dei ricci dell'erborista, che pareva l'unica capace di resistere alla mente di Abracham e al contempo di agire.
«Avresti dovuto conoscere la mia fama, lingua mozza», disse con voce terribile, dopo che l'assalto del Sacerdote fu domato, «in quel caso non avresti mai osato opporre resistenza. Lascia che ti spieghi..» Abbassò la voce ad un soffio, ma io ero abbastanza vicina da sentirla, «.. io appartengo a quella razza che la tua setta ha temuto e tormentato dall'inizio dei tempi. Noi siamo i guardiani dell'universo, padroni del tempo e dello spazio, coloro che mantengono gli equilibri». Le sue parole assunsero una cadenza trionfale, «Io sono il Dio solitario».
Il Sommo Sacerdote gridò terrorizzato e per poco non seguii il suo esempio, poi la Venerabile lo pugnalò e le campane iniziarono a suonare.
Egli proibì il contatto anche solo più lontano con l'Illusionista, l'enigmatico, il protettore dell'equilibrio, il multiforme che trova la vita nella morte e che non teme alcun male; colui che cammina attraverso le porte. Il dio solitario che, alla deriva sul mare del tempo, vaga da sponda a sponda, custode delle leggi delle stelle.
Avevo un'infinità di domande sulla punta della lingua, ma alla fine mi concentrai sulla gioia di poter stringere nuovamente Ren tra le mani. Con un breve incantesimo di recupero, la collana di Durza fluttuò nel mio palmo e io la indossai goffamente, impacciata dal peso dell'ossuto novizio su una spalla e dalla presa di Ren nella mano sinistra.
Mi liberai ben presto del mio fardello e continuai a correre in direzione dei cancelli, affiancata da Angela, Eragon e Solembum. Il boato terribile alle mie spalle testimoniava lo scontro senza esclusione di colpi che stava avvenendo tra Saphira e Castigo, che doveva servire da diversivo mentre noialtri aprivamo i cancelli.
Solo quando la terra tremò sotto i miei piedi mi voltai a guardare. Dove prima le guglie della Cattedrale spiccavano contro il grigio cielo autunnale, in quel momento si levava solo una fitta nube di polvere grigiastra.
I miei pensieri corsero in automatico ai monaci che in quel momento dovevano essere impegnati a preparare la colazione della carne di Dio.
Morti.
Probabilmente erano tutti morti.
            La vittoria dei Varden su Dras-Leona fu ineluttabile e si concluse con la cattura di Lord Tàbor, il governatore della città. Per un breve momento pensai che non saremmo mai riusciti a sconfiggere i soldati che ci bloccavano l'accesso al portone, ma Eragon decise di sacrificare l'energia custodita in Aren, l'anello di suo padre, per spostare le pietre che lo ostruivano, dando così campo libero all'esercito.
Intorno a mezzogiorno, mentre gli scontri proseguivano in città e io me ne tenevo lontana, vidi due donne correre come due ratti nella strada sotto le mura, dove mi ero ritirata per poter scrutare meglio le attività dell'esercito ed eventualmente intervenire a distanza con piccoli incantesimi. Riconobbi i lineamenti di Augyra e Cantalama e decisi di seguirle, incuriosita e sospettosa insieme.
Le due costeggiarono le mura difensive e infine entrarono in una bottega, che pareva abbandonata da mesi.
«Vi serve aiuto?» domandai loro, facendole sobbalzare.
In attesa di una risposta, gettai una rapida occhiata al piccolo locale, che aveva tutta l'aria di avere ospitato la bottega di un fabbro in un passato non troppo lontano. Memore delle parole di Durza e delle braccia di Athala, intuii che doveva essere la stanza in cui la ragazza aveva incontrato lo Spettro, mandato da Gagnsamr a reclamare la legna per la Cattedrale.
Augyra mi fronteggiò con un cipiglio feroce. «Sono affari che non ti riguardano, ambasciatrice degli elfi».
«Nemmeno se avessi qualche informazione sulle uova dei Ra'zac?» indagai stancamente, spostando il fodero con Ren dalla mano destra alla sinistra, dato che non avevo alcuna voglia di provare ad agganciarla in vita.
Le due si scambiarono un'espressione dubbiosa, poi la giovane si fece avanti. «Che genere di informazioni?»
Senza scendere troppo nei dettagli, raccontai loro di un altro accesso alle gallerie della Cattedrale e delle due uova che i Sacerdoti avevano posto davanti a noi.
«Siete sicuri di avere ucciso le pupe?» si accertò Occhi di Lupo.
«Uno dei piccoli è stato decapitato e l'altro arso vivo. A meno che non debbano essere colpiti in un punto particolare come gli spettri, cosa di cui dubito, allora sono morti».
Augyra mi stupì quando mi afferrò le spalle e mi scosse leggermente. «Ti ringrazio per ciò che hai fatto» disse, grata.
Feci un cenno di assenso, a disagio. In realtà io non avevo fatto un bel niente, impegnata com'ero a scarnificarmi la mano che ancora mi pulsava.
«Avete notizie di altre uova?» chiesi.
La donna parve dubbiosa e mi scrutò con sospetto. «Non credo di potertelo dire».
«Diglielo» intervenne dolcemente Athala.
«Abbiamo i nostri segreti, Cantalama. Non dipende da noi decidere se e con chi condividerli» fu l'aspro rimprovero.
La giovane le posò una mano sulla spalla, con gentilezza. «Lei potrebbe aiutarci e il nostro.. coordinatore è troppo lontano per potere approvare tempestivamente le nostre azioni. Forse dovremo fare un po' di testa nostra per poter liberare l'umanità dalla piaga dei Ra'zac».
Augyra scrollò la sua mano e le scoccò nuovamente un'occhiata aspra, che costrinse Athala ad abbassare lo sguardo. «Non dimenticare ciò che io e molti altri abbiamo fatto per te».
«Non lo dimentico» rispose flebilmente.
A quel punto decisi di intervenire. «Non vi sto chiedendo di mettermi a parte di tutti i vostri segreti, perché so già che non lo farete. Mi avete detto che siete membri di una sorta di setta che aiuta i Varden e, dato che finora non li avete mai danneggiati, vi credo e voglio aiutarvi. Mi basta sapere se sareste interessate a tornare alla Cattedrale o no».
«La Cattedrale è crollata».
«Ma le gallerie forse no» insistetti. «Ed è lì che volevi guardare tu quando ti sei inserita tra i novizi, giusto?»
«Dimmi ciò che sai», concesse Augyra, «ma poi non potrai accompagnarci».
«Avete qualcosa su cui scrivere?»
Le due scossero la testa e dovetti accontentarmi del pavimento di terra battuta, che incisi con uno stiletto che mi porse Cantalama. Disegnai una mappa accennata della parte delle gallerie che conoscevo e che conosceva anche Augyra, poi ripercorsi tutto il tragitto che avevamo compiuto nella notte, a ritroso.
«Non credo che vi convenga addentrarvi là sotto senza l'assistenza di un mago» specificai. «Secondo i miei calcoli restano in vita almeno una ventina di Ombre, forse anche di più, e loro sono ben addestrati e ben protetti, oltre ad essere immuni al dolore. Inoltre mi è parso di capire che molte gallerie non siano altro che spirali di trappole e trabocchetti per impedire agli estranei alla setta di percorrerle impunemente, nel caso trovassero l'ingresso a cui vi ho accennato. Forse potreste provare a guardare tra le macerie della Cattedrale, nella speranza che sia rimasto uno spiraglio, ma non credo, e anche in quel caso dovreste fare ricorso alla magia».
«Per fortuna che esisto io, allora!» fece una voce squillante.
A quel punto fui io a sobbalzare; non avevo sentito Angela arrivare, talmente ero concentrata sul mio discorso.
«Angela ti ho già detto che non possiamo accettare il tuo aiuto fino a quel punto» disse Occhi di lupo, con parecchio rispetto in più di quello che aveva riservato a me, e a ragione.
Guardai l'erborista, come sempre accompagnata da Solembum, e la trovai coperta di sangue e con i ricci ancora più arruffati del solito.
«Lo so, ma forse non ti ho mai detto una cosa, Occhi di Lupo: non c'è alcun bisogno di nascondermi nulla perché tanto so già tutto» rivelò spensieratamente, chinandosi sopra la mia spalla ad esaminare la mappa che avevo inciso nel terreno e approvandola con un cenno della testa.
Augyra e Athala si guardarono nuovamente, più spaventate che sorprese, e io tornai con la mente a poche ore prima, quando Angela aveva messo fine alla vita di Abracham. Gli umani tendevano a sottovalutarla per i suoi atteggiamenti frivoli, ma mi resi conto in quel momento di non essere stata da meno. C'era qualcosa che Angela non sapesse? C'era un'organizzazione, una setta, un'alleanza in cui non fosse coinvolta?
«Tu..?» balbettò Augyra.
«Conobbi il vostro più eminente scrittore, qualche decennio fa».
In una conversazione fatta di sottintesi, cominciai a sentirmi decisamente di troppo.
«Vi lascio sole» dissi, alzandomi faticosamente in piedi.
«Sì, faresti meglio ad andare a risposare» mi sollecitò l'erborista, strizzando amichevolmente un occhio.
«Seguirò il tuo consiglio, Venerabile».
«Perché, era un consiglio?»
Spiazzata, indugiai qualche altro istante sulla soglia, indecisa su come interpretare le sue ultime parole. Erano intese come un'offesa o come un gentile ordine?
Rinunciai a sciogliere la matassa che mi aggrovigliava il cervello e abbandonai le tre donne al loro confabulare. L'ultima parola che riuscii a cogliere fu il nome di una città: Kuasta.
Così, fuori contesto, non significava nulla per me.
            Nel primo pomeriggio abbandonai la tenda dove ero andata a rinfrancarmi dopo le fatiche e i traumi della notte per raggiungere gli stregoni elfici che avevano recuperato il corpo di Wyrden.
La cerimonia di addio fu molto breve e frettolosa. La sua era stata una morte così sciocca e così inaspettata che ancora non sembrava vera. Un po' come quella di Durza.
Io e i miei compagni elfi cantammo una quercia sul suo corpo, ma nessuno aveva avuto il tempo o l'ispirazione di comporre poesie o canti in suo onore e ci limitammo a intonare versi già conosciuti. Così Wyrden fu sepolto con la stessa rapidità con cui era caduto nel vuoto.
Era il terzo elfo che avevo visto morire sotto i miei occhi senza poter fare nulla, ma almeno mi fu concesso di presenziare al suo addio e piangerlo in cuor mio, come non avevo potuto fare con Glenwing e Fäolin.
            Nasuada ordinò ai Varden di lasciare immediatamente l'assediata Dras-Leona e, dopo un paio d'ore di marcia, piantammo un nuovo accampamento non troppo lontano dalla città. Al viaggio seguì una lunga riunione tra i capi delle varie armate. Vi partecipai in qualità di ambasciatrice e con un incantesimo permisi a mia madre di essere messa a parte delle vicende della giornata.
Per le ore che separavano il giorno dal tramonto, continuai a rivedere, con gli occhi della mente, l'espressione addolorata di Islanzadi alla notizia della morte di Wyrden e a sentire nelle orecchie il velato avvertimento che mi aveva lanciato quando avevo accompagnato Eragon ad Ellesméra: la nostra razza non era invincibile. Eravamo longevi e potenti come poche altre razze, ma nell'ultimo secolo avevamo subito molte perdite, perdite che non saremmo mai riusciti a colmare con la rapidità su cui potevano contare gli umani.
Il mio popolo sarebbe stato il più colpito da quella guerra, alla fine dei conti.
Non volli continuare a pensarci, perché su quell'onda di pensiero mi sembrava di avere sbagliato ogni cosa da quando ero venuta al mondo.
Blödhgarm -dopo avermi gentilmente guarito i tendini della mano- mi chiese se volessi tenere io la fiala di faelnirv di Wyrden.
«Credo che potrebbe farti bene, Arya Dröttningu».
Lo ringraziai, conscia che nella mia condizione avrei dovuto limitare l'uso di parecchio.
Vagai nell'accampamento, godendomi l'aria fresca della sera, monito all'imminente arrivo di un clima più rigido, fino a che non mi ricordai che da pochi giorni doveva essere caduto il centoduesimo anniversario della mia nascita. Le labbra mi si incurvarono in un'espressione amara. Non festeggiavo quella ricorrenza da quando avevo assunto il ruolo di ambasciatrice, settantuno anni prima. Solo Fäolin aveva continuato a regalarmi un fiore ogni volta che si avvicinava l'equinozio d'autunno, e quello era il primo autunno che passavo senza di lui.
Era davvero trascorso quasi un anno? Undici mesi da quando lui e Glenwing erano morti e io avevo desiderato esserlo a mia volta?
Fui travolta dalla tristezza e, svitata la boccetta che tenevo tra le mani, ne bevvi un piccolo sorso. Poi un altro.
Era una di quelle notti in cui ci si sente il peso del mondo addosso, una di quelle in cui è meglio non rimanere da soli, pena il rischio di farsi schiacciare.
All'altezza della tenda di Eragon, fui fermata da un paggio di Nasuada, che mi riferì una convocazione da parte della signora dei Varden per il mattino seguente, forse per discutere con me del futuro punto di ritrovo con l'esercito di mia madre, che doveva avvenire prima dell'arrivo ad Uru'baen.
Il cavaliere mi canzonò per il nomignolo “Ammazzaspettri” che ormai mi era riservato, poi mi chiese se per caso non dovesse chiamarmi principessa, a causa della mia parentela con Islanzadi. In qualsiasi altra situazione avrei ascoltato l'affermazione e risposto con leggerezza, ma quella notte mi sentivo pericolosamente fragile e il solo ricordo della voce di Durza che accarezzava quelle sillabe mi fece male.
Trovai in Eragon un gemello di coscienza, in quel momento, e gli proposi di condividere con me il faelnirv per scacciare l'angoscia. La sera sembrava tranquilla e io mi concessi qualche altro piccolo sorso del liquore, mentre il Cavaliere ne bevve così generosamente che in breve parve totalmente incapace di ragionare lucidamente e parlare con coerenza. Con la mente leggermente intorpidita mi permisi di ridere alle sue espressioni e ai suoi discorsi sconnessi, lasciando le preoccupazioni scivolare fuori dalla tenda.
Come la calma che anticipa la tempesta, ciò che avvenne dopo minò terribilmente la stabilità dei ribelli.
Un manipolo di soldati imperiali irruppe nell'accampamento dei Varden, accompagnati da Murtagh e Castigo. Ebbi il tempo di rendere lucidi me ed Eragon con un incantesimo, poi mi lanciai in direzione della mia tenda per recuperare Niernen, evitando i soldati imperiali che si erano sparsi tra le tende, come pecore indisciplinate, come se non fossero altro che.. un diversivo!
Arrivai troppo tardi alla conclusione. Murtagh strappò Nasuada dalla sua tenda e la portò con sé, alzandosi in volo su Castigo. Conficcai la Dauthdaert nella coda del drago, ma dopo un breve scontro la creatura riuscì a sbalzarmi via con violenza.
Il colpo mi prese sul seno e sulle costole, mozzandomi il respiro e scaraventandomi all'indietro. Prima di perdere conoscenza sentii una forza esterna alla mia rallentare la mia caduta e qualcosa di duro bloccarla definitivamente.
Tornai in me e trovai gli occhi castani di Eragon che vagavano inquieti sul mio viso. Non potemmo fare altro che guardare Murtagh e Castigo che si allontanavano nella notte, portando un preziosissimo fardello con loro: Nasuada, il capo dei Varden, coordinatore delle forze ribelli, mia amica e alleata.
            Eragon fu designato come suo successore, dato che la donna aveva avuto la pronta intelligenza di nominarlo tale ancora ai tempi della battaglia delle Pianure Ardenti. Mi assicurai che la discussione sulla nomina avvenisse nella tenda di Orik, che sapevo avrebbe certamente supportato la sua candidatura. Il consiglio degli anziani non fu nemmeno interpellato; tutti sapevano che aveva perso autorità da quando era cominciata la campagna militare contro l'Impero e Nasuada aveva assunto i pieni poteri e nessuno si disturbò di riunirlo per approvare la nomina di Eragon.
L'unico oppositore fu re Orrin, che dubitava delle capacità del giovane e temeva la sua inesperienza, ma le sue incertezze -dettate più dal vino di cui ultimamente abusava che da altro- furono rapidamente dissolte.
            Non era ancora sorto il sole e il cavaliere di drago aveva già rinunciato ad esercitare il suo ruolo di capo.
La storia che Eragon mi raccontò quella notte era assurda. Mi parlò del suo primo incontro con Angela l'indovina e delle misteriose parole che Solembum, il gatto mannaro, gli aveva rivolto, qualcosa a proposito di un misterioso aiuto che avremmo trovato quando tutto fosse sembrato perduto.
Di lì a poco si verificarono una serie di strani eventi. Si trattò principalmente brevi momenti di perdita di memoria, che coinvolsero sia me, che Glaedr, che Solembum stesso. Solo Eragon e Saphira sembravano esserne immuni, noialtri faticavamo a ricordare le parole dei due per più di pochi minuti.
Era una sensazione terribile non essere nemmeno padroni dei propri ricordi, ma non era finita lì.
Il gatto mannaro fu grottescamente usato da una forza a noi sconosciuta per indicarci le delle pagine del Domia adr Wyrda che Eragon possedeva. In quelle pagine si parlava di tutto ciò che negli ultimi minuti era sfuggito a noi e che da chissà quanti secoli sfuggiva ad altri.
La rocca di Kuthian o Volta delle Anime, era un edificio situato nel bel mezzo di Vroengard, la perduta dimora dei cavalieri, disabitata da un secolo a causa degli effluvi nocivi che la infestavano.
La nostra situazione era disperata, così Eragon, Saphira e Galedr partirono il giorno seguente, in direzione di Vroengard, incontro alla salvezza o ad una micidiale trappola, non lo sapevamo.
Ma era forse la nostra unica possibilità per poter veramente prevalere sul potere che Galbatorix custodiva ad Uru'baen.

Nei giorni seguenti affiancai gli stregoni comandati da Blodhgarm nel compito di creare e mantenere delle immagini-specchio di Eragon e Saphira che ingannassero sia i nemici che gli amici. Solo le alte sfere e pochi fedelissimi -come Roran, il cugino di Eragon- sapevano della partenza dei due e non potevamo permetterci che la notizia venisse divulgata o ci saremmo ritrovati prede facili per qualsiasi cacciatore del cielo.
In un momento come quello, avere Oromis e Glaedr con noi sarebbe stata una benedizione.
Io, Orik, Orrin e Jörmundur prendevamo le decisioni riguardanti i movimenti dei Varden e poi le comunicavamo ai diretti interessati tramite l'immagine-specchio di Eragon, dando l'illusione che gli ordini provenissero dal nuovo capo dei Varden.
            Le mie condizioni fisiche si fecero sempre più insopportabili. Avevo ripristinato gli incantesimi che sorreggevano il peso della gravidanza, ma esso sembrò aumentare esponenzialmente in pochi giorni e fui costretta a migliorare l'efficacia degli stessi incantesimi. E nonostante ciò il costante dolore alla parte bassa della schiena, forse causato dalle lunghe ore che trascorrevo in piedi, non voleva saperne di andarsene.
A questo si associarono presto altri numerosi e terribili incubi. Dovevo avere ucciso meno uomini nella battaglia di Dras-Leona rispetto ai precedenti scontri, ma i loro occhi e i loro sguardi feroci e terrorizzati mi assalirono come avvoltoi su un cadavere. Inoltre vi erano i monaci. Non li avevo uccisi io, non direttamente, ma li avevo conosciuti, avevo avuto il tempo di apprezzarne i pregi e schernire i difetti.
Ed erano morti tutti, schiacciati sotto il peso delle macerie. Anche loro visitarono i miei sogni, chiamandomi a loro con il nome che avevo assunto ai tempi del mio soggiorno a Dras-Leona: Bitr.
Non riposavo bene, vedevo i morti negli occhi delle persone che mi circondavano, ero preoccupata per la salute di Eragon e Saphira e per la misteriosa forza che aveva controllato la mia mente e i miei ricordi; temevo per la sorta di Nasuada e in cuor mio avevo la certezza che fosse già morta tra atroci tormenti. Di quel passo, non sarei nemmeno arrivata ad Uru'baen, figuriamo prendere in considerazione l'idea di partecipare alla battaglia.
Nascosi le occhiaie con la magia e mi sforzai di ignorare le macchie di sangue che vedevo nelle ombre gettate dal sole autunnale. Non erano reali, erano frutto della mia mente ferita e se mi fossi concentrata su altro sarebbero svanite.
Il più delle volte funzionava.

Il terzo giorno di viaggio, mentre consumavo una cena a base di pane e formaggio, seduta a terra nei pressi delle cucine, intravidi un volto noto tra la folla dei soldati in coda per ricevere la loro razione. Una giovane donna dagli occhi azzurri e dai capelli biondi, raccolti in una treccia composta che le incoronava la testa, mi fece un cenno di saluto e si avvicinò con passo sicuro e fluido.
Vidi metà degli uomini girarsi e -a differenza del timore e della curiosità che mi erano da sempre riservati- nei loro gesti e nelle loro parole lessi ammirazione e desiderio. Alba rispose alle provocazioni con un sorriso sfacciato, ma non interruppe la marcia nella mia direzione. Inutile dire che l'attenzione si spostò altrove non appena la bionda mi sedette accanto.
«Cosa vuoi?» domandai bruscamente.
«Tranquilla, Ammazzaspettri, nessuno degli elfi ci noterà. Sono tutti impegnati a seguire la finzione del cavaliere e del suo drago in una presunta battuta di caccia» disse in tono provocatorio.
Alba aveva sempre il viso liscio e la pelle splendente, ma era facile modificare il proprio aspetto esteriore e dalla cupezza che aveva negli occhi capii che qualcosa la preoccupava. Forse nascondersi ai controlli degli elfi e dei maghi del Du Vrangr Gata si stava rivelando più complicato di quanto avesse creduto. Non ero particolarmente felice di rivederla, e non avevo certo fatto mistero.
«Sono venuta a prendermi i ringraziamenti che mi devi» aggiunse di fronte al mio mutismo.
«Non ti devo nulla» la contraddissi di slancio.
«Io ho bloccato la tua caduta nel vuoto, una settimana fa». Sfilò una fetta di formaggio dal mio pane e la masticò di malavoglia, guardandosi intorno circospetta. Decisamente non era tranquilla come voleva farmi credere.
«Che sciocchezza».
Mi sorrise. «Puoi non credermi, ma io ero ovviamente sveglia quando il drago rosso ti ha scagliata via come una freccia partita dalle mani di un arciere maldestro. Ho capito che eri svenuta quando non hai fatto nulla per rallentare la tua caduta e allora l'ho rallentata, permettendo a Saphira di raccoglierti senza difficoltà».
Ricordavo la sensazione di essere bloccata da una forza estranea alla mia, ma sicuramente non avevo intenzione di farmi abbindolare dall'elfa. «Se è così ti ringrazio e rinnovo la domanda iniziale: cosa vuoi?»
Si fece repentinamente seria. «Voglio sapere cosa mi stai nascondendo e se questo qualcosa ha a che fare con Durza».
«Non ho nulla da nascondere».
«E io l'altra notte ho dormito con un urgali» sbuffò.
«Lo hai fatto?»
«No, ma dovrei provare prima o poi. Potrebbero rivelarsi amanti migliori di Durza».
Stavo per ribattere che Durza non era affatto un cattivo amante, ma realizzai appena in tempo che in quella maniera avrei solo assecondato le sue assurdità.
«Vattene, Alba».
«Se è questo il modo in cui ringrazi le persone che ti salvano la vita non mi stupisce che tu non abbia amici».
Lasciai che un sorriso seccato mi increspasse le labbra. «Quindi mi hai salvato la vita solo perché speravi che ti dicessi il mio fantomatico segreto?»
«Ovvio che sì» confermò. «E a questo punto l'unica che merita di ucciderti sono io, non un drago con dolori alle creste caudali».
«Mi hai già detto che hai intenzione di uccidermi, ma ancora non hai mosso un dito al riguardo».
«Prima il re, poi tu, poi tua madre. Ho sentito che gli elfi si aggregheranno alla scampagnata tra qualche giorno».
«È così». Finii l'ultimo boccone del mio pane. «Dovresti andartene» suggerii dopo aver terminato di masticarlo.
Sorrise di nuovo. «Non credo che riuscirei più a tornare da Tenga, non dopo le rivelazioni che la Venerabile mi ha fatto su di lui».
Se stava cercando di stuzzicare la mia curiosità ci stava riuscendo alla perfezione, ma non avrei messo a repentaglio l'esistenza di mio figlio per ascoltare dei pettegolezzi su uno sconosciuto intrigante.
«Allora forse dovresti chiedere a lei di rivelarti anche qualcosa su di me, perché puoi stare certa che io non ti dirò nulla». Mi alzai e le feci un cenno di saluto. «Atra esterní ono thelduin, Aiedail».
Il suo sorriso si fece feroce. «Tieni la fortuna per te, Arya Dröttningu, ti servirà per proteggerti da me. Ci vedremo prima di quanto vorresti, te lo assicuro».
Mi allontanai da lei, ma prima di ritirarmi nella mia tenda decisi di fare una breve visita ad Angela l'erborista, giusto per pregarla di non dire nulla ad Alba.
La trovai in compagnia di Jeod, lo studioso che aveva fornito ai Varden le informazioni necessarie per rubare l'uovo di Saphira e anche quelle per la recente intrusione a Dras-Leona.
I due discutevano animatamente di fronte alla tenda di lei. L’erborista aveva i piedi immersi in una tinozza d’acqua fumante e profumata e stava disegnando sul terreno bagnato con un bastoncino. Jeod, accovacciato lì accanto, indicava i disegni scuotendo la testa. Sentendo un tralcio della conversazione, mi avvicinai incuriosita.
«Come può la terra essere rotonda!» stava dicendo lo studioso. «Non ha senso, è contro ogni logica. Se fosse rotonda noi scivoleremmo lungo i suoi bordi!»
Angela sorrise «Quindi se fosse quadrata cadresti nel vuoto non appena sfiorato il bordo, come se fosse uno strapiombo, giusto?»
«Esatto».
«E ti pare sensato?»
«Più delle tue idee strampalate di sicuro».
«Oh, ciao Arya», disse lei a quel punto, «stavi origliando?»
Accennai un inchino, «Venerabile». Feci un breve saluto a Jeod, «I vostri discorsi mi hanno incuriosita, perdonatemi, se la mia presenza vi disturba me ne vado immediatamente».
«No, rimani!» mi fermò lei allegramente. «Forse qualcuno meno zuccone di costui potrà capire».
Jeod mi interpellò, supplichevole. «Sostiene che la terra sia rotonda! Come può essere rotonda?»
«Questa voce è piuttosto diffusa tra la mia gente» ammisi cautamente.
Lo studioso mi guardò stralunato. «E come sarebbe possibile muoversi sopra?»
«Perché», intervenne Angela, «c’è una forza al centro della terra». Si chinò sul disegno di un cerchio che aveva tracciato a terra e incise un puntino al suo centro. «Come una specie di calamita, magnete, presente due pietre che si attirano e blabla..? È quella forza che ci fa rimanere attaccati alla superficie della terra senza farci cadere». Disegnò un paio di uomini stilizzati, per rendere meglio l’idea.
Fissai il disegno. Sì, era sensato, ma sembrava incredibile.
«Che ne dici, Arya?»
«Che la tua idea mi sembra plausibile, Venerabile» risposi vagamente.
«Quindi se girassimo intorno a questa sfera, potremmo ritornare allo stesso punto di partenza?» chiese Jeod, improvvisamente rapito dall’idea.
«Ce ne hai messo per capire!» rise Angela. «Ma ora devo andare!» Si asciugò i piedi con uno straccio e li posò sulla polvere, sporcandoli daccapo. La guardai stranita. «Non temere, la mia intenzione era di rilassarmi, non di lavarmi» disse, prima di sparire nella sua tenda, sempre sorridendo.
Mi sentii immensamente stupida. Del resto parlare con Angela era sempre sconfortante. Gli uomini potevano permettersi il lusso di credere che fosse solo una povera svampita, io purtroppo sapevo che non era così e dovevo accettare di essere totalmente ignorante in confronto a lei.
«Non è umana vero?» Sussurrò Jeod annuendo in direzione della tenda. «Sa cose, pensa cose che nessuno si sognerebbe mai di prendere in considerazione. La prima volta che l’ho vista doveva essere una ventina d’anni fa, e da allora non è invecchiata di un giorno». Si grattò la radice del naso. «Beh, perlomeno non è una Nana, le dita dei piedi erano solo cinque». Feci un lieve sorriso. «Tu.. sai cos’è lei?»
Scossi la testa. «Dovresti chiederglielo direttamente».
«Mi risponderebbe?»
«No, non credo».
«Sembra che venga da un’altra dimensione» insistette. «Dovrò indagare».
E se ne andò, parlottando tra sé e sé, e senza nemmeno salutarmi. Ma ormai ero abituata all’istintuale maleducazione degli uomini.
Bussai timidamente alla tenda di Angela. «Venerabile, sei impegnata? Posso parlarti un istante?»
Si sporse bruscamente all'esterno. «Consideri dormire un impegno?»
Oh, beh.. «Volevo solo chiederti di tenere il mio segreto con Alba, nel caso venisse a chiedertelo».
«Alba» ripeté lei, soppesando la parola. «Perché quella ragazza non si è tenuta il suo vero nome ancora non lo so, era talmente bello! Comunque stai tranquilla, sono gelosa dei miei segreti e anche di quelli degli altri. Ora, se non ti dispiace, buonanotte!»
Mi ritrai, scuotendo la testa con rassegnazione.

Dopo sei giorni di lenta marcia, i Varden si accamparono a meno di due giorni da Uru'baen. Il giorno seguente, l'esercito elfico si sarebbe unito a noi e a quel punto le forze compatte si sarebbero mosse verso la città per scatenare l'attacco definitivo.
Forse avremmo indugiato qualche giorno, tutto il tempo concesso dai pochi viveri rimasti, ma poi se Eragon non fosse tornato, ci saremmo probabilmente lanciati in un attacco suicida. Non potevamo aspettare in eterno, il ragazzo poteva benissimo avere incontrato una morte orribile senza che nessuno di noi venisse a saperne nulla.
            Quella sera, quando mi coricai, doveva essere appena passata la nona ora della notte. Non avevo voglia di addormentarmi e precipitare le vortice di incubi che mi accoglieva sempre non appena chiudevo le palpebre, ma mi sentivo immensamente stanca.
Così giacqui sveglia per almeno un'altra ora, fino a che qualcosa accadde.
Una fitta, lunga e intensa, mi trapassò il ventre, ma sul momento non vi feci caso.
Poi, però, un'altra fitta si ripresentò un'oretta dopo. Poi dopo tre quarti d'ora, poi dopo mezzora.
«Barzul, no..» gemetti.
Feci un frenetico conteggio dei tempi. Trenta, forse trentuno settimane.
Era presto.
Era terribilmente presto.


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Salve ^_^
Sono un po' in ritardo a causa del mio internet mal funzionante, scusate!
Non credo di dovervi dire granché su questo capitolo: ho fatto una carrellata degli eventi della cattedrale perché in quel frangente scopriamo (o meglio non scopriamo) molte cose sulla nostra Angela e io avevo intenzione di riempire i "buchi" lasciati da Paolini, specialmente per quanto riguarda le parole dette al Sommo Sacerdote!
Poi da quello che succede sul finale immagino che capirete su cosa si concentra il prossimo capitolo ^-^
Vi saluto e vi ringrazio di tutto!
Baci,
Lalli

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Capitolo 37
*** Figlia del mattino ***


Ciao
37. Figlia del mattino

Scattai in piedi, ma una nuova fitta mi costrinse a reggermi ad un palo della tenda.
Con una strabiliante prontezza, datami forse dalla disperata certezza che mai e poi mai avrei partorito un cadavere dopo tutto quello che avevo passato, mi misi alla ricerca della sola ed unica persona che avrebbe avuto le capacità di aiutarmi, senza gettare al vento il mio segreto.
Dovetti ricorrere ad un incantesimo per rintracciare la tenda di Angela e quando la trovai mi bloccai sulla sua soglia, ansante e nel bel mezzo di una nuova contrazione.
La Venerabile uscì all'esterno prima di darmi il tempo di bussare.
«Arya? Perché ti trovo sempre sulla soglia della mia tenda?»
«Venerabile, ti prego aiutami» supplicai.
L'erborista ascoltò con gli occhi sgranati le mie affrettate spiegazioni.
«Quanto?»
«Non più di trentuno settimane».
«Maledizione!» sibilò.
«Puoi..?»
«Se posso? Certo che posso, ma non è il momento giusto per sprecare tutte queste energie con la presa di Ilirea così vicina» sbottò, usando l'antico ed elfico nome della città.
Poteva aiutarmi, poteva fare sì che mio figlio vivesse anche se la sua crescita non era ancora completa. Ma non era detto che lo avrebbe fatto, non con il rischio di dover sprecare su di me energie che invece le sarebbero state necessarie in una vicina battaglia.
Mi sentii mancare e caddi in ginocchio. «Se lo salverai avrai la mia eterna gratitudine, Venerabile. Farò tutto ciò che desideri».
«Ovvio che ti aiuto, secondo te lascio morire un bambino?» fece esasperata. Mi afferrò un gomito e fece per tirarmi in piedi, ma io feci in modo di non appoggiarmi su di lei o ero certa che avrei spezzato la minuta donna in due. «Andiamo via dall'accampamento però, anzi..» alzò un indice e si interruppe. «Aspettami» concluse poi, sparendo nuovamente nella tenda.
Spiazzata, rimasi immobile, sentendo movimenti caotici provenire da sotto al tessuto. Angela ne uscì meno di un minuto dopo, con una grande borsa a tracolla e la spada con cui mi aveva salvata nell'Helgrind stretta in mano e ben custodita nel suo fodero.
Mi accorsi di avere effettivamente lasciato tutte le mie armi nella mia tenda e di non essermi nemmeno presa il tempo di indossare gli stivali; mi ero a malapena buttata un mantello sulle spalle e i miei piedi erano gelati.
Uscimmo dall'accampamento dei Varden una buona mezzora dopo e superammo le sentinelle con un incantesimo di invisibilità che l'indovina mi pregò di applicare su entrambe.
«Venerabile, dove stiamo andando?»
Aggrottò la fronte. «Abbastanza lontano da non farci notare dagli stregoni del Du Vrangr Gata e dagli stregoni della scorta di Eragon».
Dalla tenda di Angela, camminammo per tre ore, anche se fummo costrette ad innumerevoli pause per permettermi di riprendere fiato tra una fitta e l'altra. Ci fermammo sulle sponde del fiume Ramr, sotto gli alberi spelacchiati dall'autunno.
«Come ti senti?» mi chiese lei.
«Non è troppo doloroso» riuscii a sibilare.
Davvero, non era più doloroso di molti altri tormenti fisici che mi erano stati inflitti in passato, tuttavia non era esattamente un buffetto sull'addome il dolore sempre più frequente che mi assaliva. Sapevo che se mi fossi rilassata sarebbe stato più facile, ma non vi riuscivo, non con l'idea del mio bambino in pericolo di vita.
Da un certo punto di vista me l'ero cercata. Non avevo voluto ritirarmi finché ero ancora in tempo, avevo sottoposto il mio corpo a sforzi che avrebbero condotto all'aborto qualunque donna umana e avevo rischiato la mia vita impunemente, ignorando quanto fosse in gioco. Non avevo trovato la forza di abbandonare i Varden, ma non avevo mai voluto perderlo.
«Suvvia non mi sembra il caso di piangere» mi rimproverò bonariamente la Venerabile, picchiettando una mano sulla mia spalla e facendomi cenno di sedere a terra.
Mi asciugai le mute lacrime che mi erano colate sul volto e obbedii, stendendo la coperta che mi porgeva sotto di me. A quel punto mi liberai degli incantesimi che celavano la mia gravidanza e mi tolsi il mantello.
Ciò che Angela si impegnò a fare per me e per il futuro del mio bambino esula tuttora dalle mie capacità di comprensione. Mi fece sollevare la camicia e, posate le mani sul mio addome, iniziò a mormorare frenetiche parole nell'antica lingua. Parlava di carne, di sangue, di tendini e muscoli, di cuore, di polmoni, di occhi, di ossa.. e infine parlò di tempo, di settimane perdute e di giorni che scorrevano.
Sentii le energie defluirmi dal corpo quando attinse da me per proseguire il lungo e dettagliatissimo incantesimo, poi l'erba e le piante intorno a me avvizzirono, ingrigendo un poco. Mi morsicai le labbra, ma avrei volentieri sacrificato un'intera vallata per salvare quella vita. Ero troppo egoista per sopportare la scomparsa di mio figlio.
L'indovina parlò per quelle che mi parvero ore, mentre le contrazioni si facevano ormai tanto frequenti da non lasciarmi il tempo di respirare e un liquido caldo mi bagnava le cosce. Mi impegnai a non emettere neanche un suono per non distrarla, ma non sempre riuscii nel mio intento.
Alla fine si staccò da me, fradicia di sudore, pallida come la morte e tremante come una vecchia.
Conficcò la sua spada nel terreno accanto a me e la affiancò alla borsa. «Fammi il sacrosanto favore di farlo uscire vivo di lì» disse fiaccamente. E poi cadde riversa accanto a me, svenuta. La sfera luminosa si spense.
La fissai basita, poi una fitta più forte delle altre mi strappò un ringhio.
Mi presi qualche istante per esaminare le condizioni della donna e, appurato che sembrava stare bene, tornai a concentrarmi su me stessa.
Creai una nuova sfera luminosa di una luce più fioca e dilatai la mente. I sentimenti tumultuosi del piccolo mi travolsero come una forte raffica di vento. Percepii il suo terrore, il dolore, il senso di soffocamento.
E come avevo fatto con Speranza, la figlia di Elain, riversai nella sua coscienza immagini del sole, della bellezza dell'aria fresca nei polmoni, della morbidezza dell'erba sotto le dita, del gorgheggio pacato di un ruscello. Poi guidai la piccola creatura fuori dal mio corpo e la separai da me.
Nella borsa dell'erborista trovai diversi panni morbidi e ve la avvolsi. La mia bambina nacque alla quinta ora del mattino e la prima cosa che vide furono le luci grigie dell'alba.
Le liberai le vie respiratorie con un incantesimo e la cullai al seno mentre emetteva qualche timido singhiozzo, nulla a che vedere con i vagiti disperati che solitamente accompagnano i nascituri.
Era più piccola di quanto sarebbe dovuta essere alla nascita, ma comunque più sviluppata di una bambina che ha a malapena raggiunto i sette mesi. Rivolsi uno sguardo ricolmo di gratitudine ad Angela e allungai un braccio nella sua direzione per trasmetterle un poco di energia. L'incantesimo doveva averla stancata un bel po'.
Decisi di lasciarla dormire ancora un poco e sedetti sulla riva del Ramr per lavarmi il sangue e il sudore di dosso e dai vestiti e ripulire anche la bambina.
Il fiume era gelido, così trattenni una bolla d'acqua sulla riva e la resi tiepida con la magia. Al primo contatto con il liquido la bimba iniziò a piangere, con gli strilli sonori dei neonati e io per poco non feci lo stesso, improvvisamente felice e stupefatta al limite della commozione. Mia figlia era viva, era bellissima ed era in salute, nonostante la mia sconfinata stupidità.
Accarezzai la testolina ricoperta da pochi e sottili capelli e seguii con le dita il profilo dei minuscoli tratti del suo volto, sentendo sotto i polpastrelli la delicatezza della sua pelle.
Le scoccai un bacio sulla fronte, ma smise di strillare solo quando le sfiorai la mente con la mia e la avvicinai al petto, dove la tenni stretta per lunghi minuti, beandomi del tepore del suo corpicino mentre si attaccava al mio seno.
Angela si risvegliò una mezz'oretta dopo, schiudendo gli occhi con un grugnito infastidito.
Si alzò a sedere e scrutò con un'ombra di soddisfazione la piccola rannicchiata tra le mie braccia.
«Non so come hai fatto», le dissi gravemente, senza sciogliere la delicata presa con cui cingevo mia figlia, «ma per questo hai la mia eterna riconoscenza e io ho nei tuoi confronti un debito che probabilmente non sarò mai in grado di saldare».
Angela sorrise e immerse un braccio nella sua borsa capiente, estraendo delle barrette di cereali. «Prima o poi potresti raccontarmi le tue disavventure tra i Sacerdoti, sarebbe un buon modo per cominciare a sciogliere il tuo debito» mi propose poi.
Annuii. «Lo farò».
«Mangia qualcosa» mi esortò, porgendomi un paio di quelle strane barrette, «la tengo io».
Le porsi la bambina quasi con timore e addentai il cibo come se non mangiassi da giorni.
L'erborista creò un nuovo globo luminoso, lo tenne sospeso sopra alla testolina della piccola -che riprese a piangere- e la scrutò a lungo.
«Ha i capelli di suo padre» mormorò restituendola alle mie braccia vuote.
Dopo qualche istante passato a cullarla, si placò, riconoscendo probabilmente il mio odore, la mia voce e il battito del mio cuore. A quel punto la guardai anche io, alla rinnovata luce fatua.
Sottili capelli rossicci le spolveravano la testa; le orecchie erano minuscole e terminavano con una punta, ma non erano allungate quanto quelle di un bambino elfico, somigliavano più a quelle modellate dei cavalieri di drago.
È un ibrido tra uno spettro e un'elfa. Ricordai a me stessa.
Era troppo presto per provare a giudicare i minuscoli tratti del viso chiazzato di rosso, ma gli occhietti socchiusi erano di due diverse tonalità di grigio: il sinistro era più scuro, quasi castano, il destro più acquoso. E le pupille sembravano rotonde, non verticali come quelle di un felino.
«Ha gli occhi diversi» osservai, un poco preoccupata.
Mossi un dito davanti alle iridi della piccola e lei parve reagire al movimento. No, non sembrava cieca.
«Alcuni neonati cambiano il colore dell'iride dopo qualche settimana dalla nascita e non è raro che gli occhi abbiano due sfumature leggermente diverse» fece Angela alle mie spalle. «Spera solo che non le spuntino denti appuntiti come rasoi, anche se ammetto che dopo anni di convivenza con Solembum comincio a capire e ad apprezzarne il vantaggio».
«Anche Durza mi disse una cosa del genere, un giorno» dissi distrattamente.
Lei si irrigidii e si sollevò da terra, dove si era chinata per ricomporre la sua borsa.
«Non credo che tu abbia bisogno di consigli, ma immagino che tu sappia bene cosa si prova a crescere senza un padre. Forse il tuo dolore e il tuo senso di perdita ti impediranno per lunghi anni, forse per secoli, di trovare consolazione con un nuovo compagno, ma nel frattempo tua figlia subirà le stesse carenze a cui sei stata condannata tu a causa delle scelleratezze di Galbatorix».
«Al momento non ho tempo per pensare a simili questioni». Tenni lo sguardo puntato sul volto addormentato della bambina. «Lei potrebbe essere costretta a crescere anche senza sua madre».
«Incontrai Durza una ventina d'anni fa» disse Angela di punto in bianco. «Stavo accompagnando Ajihad e la sua famiglia dalla dimora di Enduriel al Farten Dur quando lo Spettro ci sbarrò la strada. Non fui abbastanza svelta da salvare la vita a Nadara, la madre di Nasuada, ma riuscii ad aiutare Ajihad nello scontro contro Durza, che non appena realizzò che non ero esattamente un'umana qualsiasi, fuggì, sanguinante e con un graffio sulla lama».
Distesi i miei lineamenti in un'espressione di neutro disinteresse. «Me ne accennò, ma non avevo capito che l'aiuto misterioso dato ad Ajihad provenisse da te».
Fece un sorriso scaltro. «Non è facile riconoscermi o capire chi sono veramente. Sono brava a confondermi tra gli uomini».
«Ho sentito ciò che hai detto ad Abracham, alla Cattedrale» ammisi. «E so delle loro credenze sul Dio solitario».
Angela mi concesse un'espressione sorpresa. «Io e te dovremmo conoscerci meglio, Älfa. Eragon è il soggetto più interessante da monitorare in queste terre, ma tu non sei da meno, e neanche Elva e Aiedail» proseguì pensierosa.
«A volte sembri parlare di Alagaësia come se tutto ciò che fai qui non sia che una meta di un viaggio più grande, o una parte di una grande ricerca».
«E perché non dovrebbe?» fece con brio, imbracciando la borsa e rinfoderando Trillamorte, che mi ero premurata di lavare nell'acqua gelida. «Sono una viaggiatrice e fermarmi troppo a lungo nello stesso posto potrebbe rivelarsi noioso persino per me, specie quando non ci sono grandi catastrofi in vista. Non servo a nessuno quando non ci sono grandi catastrofi in vista».
Le sue parole, come al solito, finirono per confondermi ulteriormente. «Hai viaggiato anche oltremare?»
Rise e si incamminò lungo il corso del Ramr, un poco traballante. «Anche oltremondo, se è per questo, ma adesso dovresti occuparti di tua figlia, non di una vecchia come me». Si girò e indicò il fagotto stretto contro il mio petto, «Come la chiamerai?»
«Non lo so» sospirai dopo qualche istante. Ed effettivamente non ne avevo la più pallida idea. La nascita non era prevista così presto, o avrei avuto altri due mesi per pensare al nome, alla sistemazione, al futuro della bambina.
La grandezza di ciò che era accaduto in così poche ore mi piombò bruscamente addosso e mi resi conto di essere totalmente impreparata. Non avevo preso contatti con nessuna balia che potesse prendersene cura mentre io ero impegnata in operazioni militari, non avevo pensato al modo in cui avrei potuto introdurre l'argomento a mia madre, una volta che tutto fosse finito -e se fossimo sopravvissute-, non avevo pensato a chi affidare la creatura nel caso io fossi morta nell'imminente battaglia di Uru'baen.
Ero in balia degli eventi, di nuovo.
«Non lo so» ripetei.
Una piccola parte di me aveva sempre pensato -senza una ragione apparente- che avrei dato la vita ad un maschietto, che sarebbe stato identico a lui, che avrei potuto chiamarlo Carsaib e guarire con la sua nascita il dolore della morte di suo padre.
Accarezzai dolcemente la schiena della mia bimba e mi vergognai visceralmente di essere una madre così incapace e indegna dello splendido dono che mi era stato concesso. Mi era stato donato l'incredibile privilegio di vedere la mia creatura sopravvivere ad un parto che normalmente l'avrebbe spenta, eppure, mentre la tenevo tra le braccia, riuscivo solo a pensare a cosa fosse Angela veramente, a come avremmo aggirato le difese magiche di Uru'baen, a cosa avesse trovato Eragon nel suo viaggio, a come saremmo riusciti a sconfiggere Galbatorix.
«Potresti scegliere tu il nome per lei, Venerabile. Non avrebbe mai visto il mondo se non fosse stato per te» suggerii infine.
Angela sbuffò al mio fianco. «E privarti della fatica di sceglierlo tu? No cara mia, i nomi mi piacciono più di quanto riesca ad ammettere, ma non voglio semplificarti la vita. Fai solo in modo che non sia un nome banale e io mi riterrò soddisfatta».
            Tornammo all'accampamento quando il sole era già piuttosto alto. Io mi calai il cappuccio sul volto e mi strinsi addosso il mantello per nascondere gli indumenti neri che indossavo.
Appena immerse nel mormorio degli uomini in piena attività, Angela si congedò con un: «Buonanotte ad entrambe!» che mi fece sobbalzare e dimenticare le buone maniere.
Non tornai nella mia tenda. Mi diressi verso i recinti degli animali e vi rimasi per lunghi minuti, assumendo infine il viso e i capelli di Alba, che ormai conoscevo a sufficienza da poter replicare. Continuando a cantare nell'antica lingua, plasmai anche i lineamenti di mia figlia: arrotondai le orecchie e la forma già leggermente affilata del volto. Più che a Durza, sembrava somigliare a me, ma era ancora presto per dirlo definitivamente.
Poi vagai a casaccio per l'accampamento e chiesi ai primi umani che incontrai sul mio cammino dove avrei potuto trovare una balia per la neonata. Mi mossi per un'altra ora prima di trovare finalmente un donna divenuta madre da appena una settimana. Pensai che dovesse avere una trentina d'anni, così mi stupii quando lei mi disse che doveva essere nata circa ventitré primavere prima.
«Non che io sappia bene contare, ma le dita delle mani sono dieci e quelle dei piedi sono altre dieci, quindi io ho passato più anni delle mie dita, ma ho appena ricominciato a contarli in una mano».
Le sorrisi incoraggiante, ma mi chiesi al contempo se non avesse fatto qualche errore di calcolo nel frattempo o se fossero state le fatiche della vita a condurla ad un invecchiamento che mi sembrava precoce.
Alla fine ci accordammo perché lei badasse alla piccola tutti i giorni, tranne le notti, fino a quando non fosse iniziato l'assedio di Uru'baen.
La donna non voleva essere pagata in oro, ma in cibo. Sosteneva che le razioni fornitele dall'esercito erano drasticamente calate e che lei non poteva allattare due bambini con così pochi alimenti. Le chiesi se le andasse bene carne e pesce e lei rispose con entusiasmo, quindi mi dissi che da quel giorno in poi mi sarei dovuta ritagliare qualche minuto al giorno per andare a caccia e mantenere l'umana a cui avevo affidato mia figlia.
Abbandonarla alle sue cure fu una prova più dura di quanto avessi creduto. La bambina iniziò a singhiozzare non appena la staccai dal mio petto e a nulla valsero le dolci parole con cui Màthair la blandì. Solo il breve contatto della mia mente riuscì a placare un poco la sua disperazione, ma gli strilli ricominciarono daccapo non appena mi ritirai.
«Fanno tutti così», mi rassicurò la donna, «crede che tu la stia per abbandonare e purtroppo non c'è modo di farle capire il contrario. Comunque sei sicura di volermela già lasciare? Mi sembra molto piccolina e forse per i primi giorni dovresti tenerla tu».
«Non posso» dissi con voce tremante.
«D'accordo, d'accordo. Basta che tu non abbia intenzione di piantarla davvero in asso perché ti avverto che io non riuscirei a prendermene cura senza il dovuto pagamento. Se non vieni ogni sera con il cibo che mi hai promesso io proverò ad affidarla a qualcun altro e se nessuno la vorrà per sé, allora la lascerò a morire».
«Non ho alcuna intenzione di abbandonarla» protestai indignata.
Màthair si strinse nelle spalle. «Io ti ho avvisata».
«Tu prenditi cura di lei e vedrai che non mancherò un pagamento».
«Va bene. Come si chiama?»
«Ancora non lo so».
Mi guardò stranita. Avevo dimenticato la poca importanza che solitamente gli umani davano ai loro nomi. «Be' dalle un nome! Oggi tira vento, potresti chiamarla Brezza, oppure..» gettò un'occhiata al cielo, «Alba, o Rosalba».
Un brivido gelido mi pervase le membra. «Ti dirò il suo nome non appena lo avrò deciso» dissi, poi la salutai e abbandonai la mia bambina, piangente e disperata, per presentarmi alla tenda di Eragon, dove avrei aiutato Blödhgarm e gli altri elfi a realizzare un'immagine-specchio del cavaliere e di Saphira.
Quel giorno passò nel terrore.
            Era ormai mezzogiorno quando l'avanguardia degli elfi si avvicinò alle tende dei Varden. Una lieve acclamazione da parte dei soldati accolse il mio popolo e si trasformò in un vero boato non appena i primi guerrieri a piedi entrarono nell'accampamento per annunciare l'imminente arrivo di tutto l'esercito.
Mia madre arrivò circa un'ora dopo, fiera e ritta sul suo cavallo elfico, con indosso un vestito color bronzo dalle rifiniture verdi. Sembrava l'incarnazione dell'autunno.
Dopo una breve riunione tra i capi delle armate, si decise di mettersi in marcia in direzione di Uru'baen e di stabilire l'accampamento a portata di attacco.
Avevo le mani sudate e il battito del cuore impazzito e non avrei desiderato altro che assumere nuovamente l'aspetto di Alba e correre dalla mia bambina. L'avevo abbandonata nelle mani di un'umana indifesa. Poteva accaderle di tutto, poteva già esserle accaduto di tutto.
«È bello rivederti, figlia mia» mi trattenne mia madre, dopo l'incontro.
«Anche per me, madre».
La regina sembrava in buona salute, ma vidi il sangue nei suoi occhi e capii che i combattimenti l'avevano infiacchita quanto me. «Prendi il tuo cavallo ed unisciti a me in testa al nostro esercito. Vorrei parlarti e non so se avrò altre occasioni di farlo, una volta giunti ad Uru'baen» mi sollecitò.
Non potei fare altro che acconsentire. Andai a prendere il mio cavallo elfico dai recinti e tornai alla mia tenda per smontarla, poi assicurai il tutto sul dorso dell'animale, compresa la Dauthdaetr, ben avvolta in un panno scuro per celarla ad occhi indiscreti.
Alba mi passò davanti -alla guida del suo carro- mentre conducevo il cavallo tra gli uomini indaffarati a preparare la partenza e mi lanciò un ghigno sarcastico. Persino da una certa distanza, mi resi conto che era spaventata a morte dall'arrivo degli elfi. Le mani che reggevano le redini erano malferme.
Decisi infine di allungare il giro per controllare in che condizioni fosse mia figlia. Forse avrei dato un po' nell'occhio e vagare tra gli accampamenti dei civili, ma non avrei resistito fino a sera nell'incertezza.
Vidi Màthair salire su un carro guidato da un uomo con un braccio solo -probabilmente un ferito di guerra- con in braccio suo figlio e una specie di zaino di legno e pelli sulla schiena. Da quello zaino spuntava il visetto addormentato della mia piccola.
Alla luce piena del giorno mi accorsi improvvisamente di quanto fosse mortalmente pallida la sua pelle, salvo le chiazze rosse sul viso, che sapevo dovute al pianto. Dubitavo che il pallore fosse dovuto alla nascita prematura e mi dissi che quella sera mi sarei occupata di modificare anche il colore del suo incarnato.
Mi allontanai a malincuore, senza nemmeno tentare di sfiorarle la mente con la mia. Temevo di risvegliare le sue lacrime e non me la sentivo, dato che sembrava dormire così profondamente.
Tagliai in diagonale l'accampamento per raggiungere infine mia madre in testa alle scomposte fila dell'esercito elfico, ma prima di uscirne definitivamente feci un altro incontro che sul momento valutai insignificante, ma che mi tornò in mente più avanti.
Sotto allo sguardo diffidente della moglie, Jeod lo studioso discorreva animatamente con una donna alta dai capelli scuri legati in una severa treccia arrotolata sul capo. Dietro di lei, Athala si tormentava l'orlo del mantello con gli occhi bassi.
Abbozzò un sorriso gentile quando mi vide e le guance le si imporporarono. Strano a dirsi ma il suo imbarazzo mi metteva a disagio. Era più facie essere scettici e sospettosi nei confronti di qualcuno che ti affronta con durezza rispetto a qualcuno che pare intimorito da te.
Anche Augyra mi vide, ma fece finta di nulla quando passai loro accanto.
«Salve, Jeod» dissi piattamente.
Non conoscevo bene l'uomo; avevo discusso con lui del recupero dell'uovo di Saphira, vent'anni prima, ma da allora non ci eravamo praticamente più visti fino al giorno in cui ci aveva illustrato l'ingresso per i cunicoli di Dras-Leona. Però salutarlo non mi costava nulla.
«Oh! Salve a te, Arya!» rispose educatamente.
E si guardarono bene dal riprendere la conversazione fino a quando non mi fui allontanata a sufficienza da non poterli più udire.
Mia madre era in groppa al suo cavallo e sembrava impaziente di continuare la marcia. Accanto a lei, Däthedr scrutava con curiosità il caotico ammasso di uomini che si affannavano a caricare i propri averi in spalla o sui carri, rivolgendosi epiteti che avrebbero rovinato per sempre l'amicizia tra due elfi, ma che sapevo essere intesi in senso affettivo dalla loro razza.
«Piacere di rivederti, Däthedr» lo salutai con un sorriso a fior di labbra.
«Anche per me, Arya Dröttningu. Come va la tua ferita?»
Mia madre si accigliò. Entrambi conoscevano bene le dinamiche dell'assalto a Dras-Leona dato che era costato la vita di Wyrden.
Sollevai la mano destra e mossi le dita. «Molto bene, grazie all'intervento di Blödhgarm».
«Non ho visto né lui, né Laufin, né Yala, né nessun altro degli undici» intervenne Islanzadi, calcando dolorosamente in numero undici. Fino a poco più di una settimana prima si era parlato di loro come i dodici.
«Sono impegnati a mantenere le immagini-specchio di Eragon e Saphira. Credo che tra poco li vedremo volare in testa ai Varden, poi scompariranno per un qualche giro di ricognizione» li informai a voce bassissima.
«Ci sono stati problemi?» indagò lei.
«Con Eragon e Saphira? No, nessuno. Tuttavia non sappiamo nulla del loro viaggio. Eragon mi ha assicurato che sarebbero tornati il prima possibile, ma, stando a quanto mi ha detto Jörmundur, i Varden hanno gli approvvigionamenti sufficienti per altri quattro, massimo cinque giorni».
«E noi non potremmo sostenerli per più di altri due, nel caso finissero le scorte» osservò Däthedr.
«Quindi entro una settimana bisogna superare le mura di Ilirea» concluse mia madre per entrambi. «Ora io propongo di muoverci e di trovare il luogo giusto per accamparci stanotte. Gli altri eserciti ci seguiranno non appena saranno pronti e nel frattempo controlleremo che il luogo scelto non sia infestato di trappole magiche. Più ci avviciniamo ad Ilirea più c'è il rischio di imbatterci in simili stratagemmi».
Cercai la mente di Trianna e le comunicai la decisione di mia madre. La donna mi rispose che sarebbe andata immediatamente a riferire a Jörmundur e scivolò prontamente lontano da me. Non le piacevo affatto, anzi la spaventavo.
Alla quarta ora del pomeriggio il massiccio roccioso che sormontava Uru'baen era in vista tra i vuoti filari di viti. Mia madre mi aveva chiesto di darle qualche ulteriore ragguaglio circa la missione di Eragon, che non avevo potuto spiegare dettagliatamente nei brevi momenti in cui ci eravamo parlate tramite specchi magici.
Non potei dirle più di tanto, dato che l'unica cosa che ricordavo era che il cavaliere e il suo drago erano partiti per Vroengard con l'Eldunarí di Glaedr e che tutti noi eravamo vittime di un incantesimo della memoria.
«Come se la sta cavando il ragazzo?» mi chiese Islanzadi, con un pizzico di preoccupazione.
«Ti ho fatto rapporto praticamente ogni settimana da quando ho lasciato la Du Weldenvarden e mi sembrava di averti già detto che se la sta cavando molto bene».
«Ciò che ti stavo chiedendo è se secondo te sarà in grado di battersi alla pari contro il re nero» specificò.
«Non lo so, ma confido in lui. Eragon è stata una continua sorpresa, dalla sua nascita come cavaliere alla rapidità con cui è cresciuto come persona e come guerriero. Nelle ultime settimane è riuscito a fare notevoli progressi anche nel disciplinare la sua mente e credo che pochissimi altri sarebbero stati capaci di fare ciò che lui ha fatto in così poco tempo. Sarà anche un umano, ma non avremmo potuto desiderare cavaliere migliore come supporto contro Galbatorix».
Mia madre sorrise. «Ti sei affezionata a lui?»
«È davvero difficile non affezionarsi a lui, madre» ammisi.
Due ore dopo, gli elfi avevano piantato una serie ordinata di tende sul fianco dolce di una collinetta. Uru'baen era a poco più di mezzora di marcia da quel punto e presto si sarebbe ritrovata quasi totalmente circondata dai Varden e dai loro alleati.
«Puoi piantare la tua tenda accanto alla mia, se vuoi» mi invitò gentilmente Islanzadi.
«No, madre, credo che rimarrò nell'accampamento degli uomini, dove posso aiutare Blödhgarm e gli altri elfi» dissi. Ma in realtà non vedevo l'ora di andarmene di lì e stringere di nuovo mia figlia. Ero preoccupata e ansiosa e il battito scostante del mio stivale sul terreno doveva esserne una buona dimostrazione.
Mia madre si limitò ad annuire tristemente. «Pensi di partecipare all'attacco al loro fianco?»
«Credo che qualunque cosa succeda rimarrò con Eragon per proteggerlo. Adesso che non c'è più Wyrden manca un elfo alla sua scorta e potrebbe essere più vulnerabile. Inoltre mi sono allenata a maneggiare Niernen e potrebbe essere letale contro Castigo o contro Shruikan».
«Immagino che ne discuteremo il giorno dell'attacco. Nel frattempo vorrei consegnarti un mio dono». Mi fece un cenno e scomparve sotto la sue tenda verde scuro.
La seguii.
Islanzadi mi mostrò un corsetto di metallo, con elmo e bracciali abbinati, il tutto adagiato su una pila di abiti scuri ordinatamente piegati e che sembravano imbottiti e rinforzati nei punti giusti, come sui gomiti e le ginocchia.
«I bracciali, l'elmo e il corsetto li ha fatti Rhunön dietro mia richiesta e li ha già protetti con molti incantesimi che ti saranno utili in battaglia».
«Oh madre, non dovevi. Ti ringrazio molto» dissi, sinceramente stupita e sorpresa.
Mi chinai sul baule che conteneva il dono e sfiorai il corsetto. Era molto bello e decorato con parsimonia, con la semplicità che caratterizzava anche Ren e la mise che indossavo tutti i giorni. Da mia madre mi sarei aspettata qualcosa di più sfarzoso e impreziosito.
«Sono contenta che ti piaccia» disse Islanzadi con un sorriso. «So che non hai mai avuto una vera e propria armatura con te, se non una giubba imbottita, e mi sembrava giusto che arrivassi preparata alla battaglia definitiva».
«È un dono bellissimo, davvero».
L'espressione della regina si fece triste. «Non avrei mai creduto che un giorno ti avrei io stessa messo tra le mani i mezzi per partecipare ad uno scontro armato». Non le risposi e lei sospirò pesantemente. «Sono stanca, figlia mia. Ho partecipato a troppe battaglie negli ultimi secoli, ho preso troppe vite e ne ho perse altrettante e ora credo di avere bisogno di riposo. Non sono sicura di cosa attenda gli elfi dopo Uru'baen, non sono nemmeno sicura che sopravviveremo, ma temo che le perdite offuscheranno un'eventuale vittoria. Finora abbiamo avuto diversi morti, ma l'assedio più sanguinoso è stato quello di Gil'ead e Gil'ead non è nulla rispetto ad Uru'baen». Fece un cenno in direzione della città. «Le mura sono state ricostruite da quando dominavano i Broddring, e sicuramente saranno anche rinforzate con la magia. Non sarà facile nemmeno per noi. Non sarà per niente facile».
«Non credo di poterti contraddire» replicai desolata.
Si portò una ciocca di capelli neri dietro le spalle. Erano lisci e dritti, come quelli di Alba.
«Forse non è di buon auspicio parlarne adesso, ma vorrei che io e te stessimo un po' insieme, non appena tutto questo sarà finito. Non ti dico di rinunciare al tuo incarico, ma di prenderti almeno una piccola pausa e restare un poco ad Ellesméra come me».
Sobbalzai e il mio pensiero corse nuovamente a mia figlia. Islanzadi era diventata nonna e non lo sapeva, non ancora. Ma la vera domanda era: lo avrebbe mai saputo? Avrei mai trovato il coraggio di confessarle che le avevo nascosto la mia gravidanza? Avrebbe mai accettato una nipote figlia di uno spettro?
E sopratutto: come avrei potuto continuare il mio incarico con una bambina a carico?
Islanzadi dovette fraintendere il mio sobbalzo, perché quando tornò a parlare pareva un poco infastidita, oltre che esasperata: «Cosa devo fare per riconquistare la tua fiducia, Arya? Vuoi umiliarmi, denigrarmi, snobbarmi per il resto delle nostre lunghe vite? Dimmi cosa devo fare e io lo farò. Ti voglio bene, ti voglio un infinità di bene e sono pronta a tutto per ottenere il tuo affetto. Merito il tuo disprezzo per il mio comportamento. Ammetto di essere stata una madre terribile e distante e non pretendo che tu torni ad essere la piccola che ha vissuto la morte di suo padre prima di poterlo veramente conoscere. So che quel tempo è passato e non tornerà più, so che non avrò più l'occasione di aiutarti a crescere, ma speravo che almeno avrei potuto conoscere e apprezzare l'adulta che sei diventata, la bella persona che sei diventata. Ti prego, dammi una seconda occasione, io..»
«Madre», la interruppi con voce rotta, «io ti ho già perdonata. So che non puoi cambiare il passato e so che se potessi lo faresti volentieri. Apprezzo le tue parole e il tuo amore per me e lo ricambio».
La strinsi quando mi abbracciò. Da quando l'avevo lasciata ad Ellesméra erano successe molte cose, e in quel momento sentivo di capirla come non mai, perché a me era successo più o meno lo stesso che era accaduto a lei: avevo perso il mio compagno e mi ero ritrovata madre senza poter condividere il gravoso carico con nessuno. Le avevo rimproverato di essere stata una genitrice debole e incapace, ma io non ero stata da meno in quelle poche ore da quando era nata la mia bambina, e probabilmente sarei stata ancora peggiore nei giorni seguenti.
«Ti voglio bene» mugugnai contro la sua spalla. «E quando tutto sarà finito noi saremo una famiglia. Non sprecheremo degli altri anni».
Noi e la mia piccola. Gliela avrei fatta conoscere. Forse non potevo ammettere di avere amato Durza lo Spettro, ma non potevo condannare sua figlia all'oblio, non quando aveva l'occasione di vivere una vita felice. Avrei dovuto ammettere di avere subito una violenza a Gil'ead, ma Islanzadi avrebbe capito la mia ritrosia a liberarmi di una vita non appena avesse stretto la mia creatura tra le braccia, ne ero sicura.
Mia madre dovette asciugarsi le lacrime dal volto e ispirare profondamente per recuperare un po' di stabilità.
«Grazie, figlia mia».
«Grazie a te, madre».
Ci sciogliemmo infine dall'abbraccio e, non appena i Varden stabilirono il loro accampamento, mi allontanai con la mia nuova armatura sottobraccio, lasciando il mio cavallo insieme ai suoi fratelli elfici. Montai la mia tenda con la magia; non avevo alcuna voglia di perdere tempo nel lavoro manuale. Nascosi Niernen sotto la branda, lasciai Ren e il dono di mia madre a terra e uscii, lanciando un ultimo incantesimo per proteggere la tenda da incursioni indesiderate.
Poi cominciai a correre.
Mi calai il cappuccio del mantello sul viso e recitai le formule che avrebbero plasmato il mio volto, trasformandolo in quello di Alba. Mi fermai solo al carro delle salmerie, per rubare un po' di cibo con la magia, poi continuai la mia corsa.
Non avevo tempo di andare a caccia. L'indomani avrei pescato qualcosa e riparato al mio piccolo furto, ma in quel momento volevo solo rivedere mia figlia.
Màthair accolse con soddisfazione il cibo che le porgevo e mi disse che la piccola stava dormendo.
«Non ha fatto altro che dormire e frignare tutto il giorno!» mi informò, guidandomi all'interno della sua tenda.
Quando il dolce peso della mia bimba mi riempì le braccia e il suo torace si mosse contro il mio, al ritmo del suo respiro, fui sommersa da un sollievo così violento che sentii venirmi a meno le forze.
Scoppiai a piangere come una folle. Anche la bambina fu contagiata dalle mie lacrime, ma smise ben presto e si addormentò sul mio seno, esausta. L'avevo abbandonata e lei aveva pianto tutto il giorno, povera piccola.
Màthair mi fissò sconvolta per qualche minuto e io mi affrettai ad asciugarmi le lacrime con la manica del farsetto e a balbettare che sarei tornata il mattino dopo con la bambina.
La mia tenda era vicina a quella di Eragon e quindi a Blödhgarm e gli altri undici, non potevo tornarvi, ma non volevo nemmeno restare con Màthair nella sua. Forse avrei potuto chiedere ospitalità ad Angela, ma ero certa che avrebbe finito per guardare mia figlia con la curiosità che si riserva ad una pietra rara e che di conseguenza mi sarei sentita terribilmente a disagio in sua presenza.
Così camminai per l'accampamento per buona parte della notte, evocando un incantesimo per proteggere me e la piccola dal freddo e fermandomi di tanto in tanto a riposare e ad allattarla. Le parlai a lungo, le dissi cose che non poteva capire e le cantai canzoni che non avrebbe mai ricordato.
Non ero certa che sarei riuscita a dormire e in ogni caso non volevo. Quelli erano i primi, ma forse anche gli ultimi giorni che passavo con lei e volevo godermi tutto il tempo possibile.
Se dovevo incontrare la morte ad Uru'baen volevo farlo con il cuore straziato da dolore per non poter vedere crescere mia figlia; mischiato alla gioia profonda di averla avuta; di avere combattuto per lei e per darle un futuro migliore, un futuro da donna libera e non da schiava della tirannia.
All'alba ero inebetita dalla stanchezza, ma anche dalle terribili e bellissime sensazioni che avevo provato nel prendermi cura della bimba, nel toccare la sua mente piena di suoni e odori, nell'accarezzare i pochi capelli rossicci che le ricoprivano la testa.
Attesi ancora qualche ora prima di riportarla a Màthair e ne approfittai per modificare il colore della sua pelle in uno più rosato e circondarla di piccoli incantesimi di protezione, compreso uno che mi avrebbe avvisata se stesse subendo qualche dolore fisico.
Separarmi da lei fu penoso e in un attimo sentii tutte le mie intenzioni riempirsi di crepe e la mia fermezza vacillare. Una parte di me non voleva abbandonarla mai più, nemmeno per un istante.
Eppure mi costrinsi a farlo.
«Ci vediamo stasera, piccolina» le sussurrai all'orecchio.
Tornai nella mia tenda e indossai l'armatura e le vesti regalatemi da mia madre, poi afferrai Ren e raggiunsi Blödhgarm e gli altri dieci elfi.
In fondo non sarebbe stato così male vedere mia figlia ogni notte, non mi bastava, ma era comunque qualcosa.
Però quello stesso pomeriggio tornò Eragon e la breve e relativa stabilità che avevo appena creato andò a pezzi.

«Sono tornati» disse Blödhgarm, con la voce incrinata per l'eccitazione e il sollievo.
E mi riferì il desiderio di Eragon di incontrare me, mia madre, Orik, Orrin, Jörmundur e Roran in segreto, prima di presentarsi all'accampamento dei Varden.
«Vado ad avvertire Islanzadi» mi congedai frettolosamente, ansiosa di rivedere il cavaliere e scoprire cosa avesse trovato nel suo viaggio.
«Avverto gli altri e vengo con voi, Arya Dröttningu» mi disse Blödhgarm.
Circa mezzora dopo io, mia madre e l'elfo dalla pelliccia blu ci presentammo al luogo dell'appuntamento, dove trovammo Eragon e Saphira in buona salute e apparentemente nemmeno stanchi per il forzato viaggio appena compiuto. I due rifiutarono di darci spiegazioni e dovemmo attendere un'altra mezzora abbondante prima che cominciassero l'incredibile racconto.
«Aprite la mente» ci invitò Eragon con un sorriso raggiante.
Lo feci, cautamente, e una miriade di voci e immagini si riversò nella mia mente. Caddi a terra, stringendomi la testa.
Sentii le parole frettolose dell'incantesimo che avevo pronunciato la notte dell'imboscata e una forza misteriosa deviare l'uovo di Saphira dalla sua originaria meta, finendo ai piedi di un ragazzino castano con le guance arrossate dal freddo.
Vidi me stessa, distesa sanguinante nella mia cella a Gil'ead. Vidi le ferite della mia carne rimarginarsi dolcemente, i lividi sparire, e sentii l'energia fluire nelle mie membra.
Vidi gli occhi sgranati di Durza di fronte al mio corpo sanato e udii la sua voce imperiosa e gelida: «Come hai fatto?»
Sentii l'inquietudine delle coscienze che stavano sfiorando la mia alla vista dell'allarmismo dello Spettro e la conseguente ritirata, per timore di venire scoperte.
Vidi un nuovo avvicinamento, lo stupore di ritrovarmi viva, l'irrequietezza nel venire al corrente della mia alleanza con Durza.
Poi una maledizione compiuta con cento e più menti congiunte. Vidi immagini rivangate dai miei ricordi formarsi nella mia mente rilassata dal sonno e imprigionarmi in un'orribile visione.
Un avvertimento.
Non dovevi fidarti di lui. Lui voleva distruggerci, distruggere i nostri fratelli ad Uru'baen.
Mi scorsero davanti immagini di me stessa incatenata e sanguinante, mandate in sogno ad Eragon, e immagini rassicuranti del ragazzo, Saphira e Brom comparire nei miei occhi. Vivide, calde, rassicuranti.
Dobbiamo fare in modo che la portino via con loro.
Vidi Durza confessarmi i suoi piani e fare cadere la sua maschera, vidi me stessa allontanarmi da lui e riprendere il mio atteggiamento scettico, percepii l'approvazione delle cento menti. Poi di nuovo la loro rabbia nel vedermi con lo Spettro al Covo, il terrore nel vedere Durza leggere la pergamena fornitagli dall'uomo che aveva ridotto ad una macchina.
Dobbiamo fare un incantesimo di memoria..
Non sullo Spettro, se ne accorgerebbe.
Il ragazzo, usiamo il ragazzo.
Eragon arrivava a Gil'ead, e io svenivo davanti ai suoi occhi, Eragon affrontava Durza ed era quasi sconfitto, Eragon mi vedeva scendere con Saphira, Eragon era troppo debole, troppo..
Un torrente improvviso di energia, lo sforzo di alzarsi in piedi, il movimento del braccio, il cuore di Durza.
Doveva morire, sapeva troppe cose, aveva fatto troppo male. Non poteva distruggerci.
Gli occhi mi bruciarono di lacrime bollenti e un singhiozzo penoso scivolò tra le mie labbra.
«Lo avete ucciso!» gridai con la mente, con tutta la rabbia e il dolore che mi stavano montando nel petto. «Mi avete torturata per mesi con quelle orribili visioni, mi avete manipolata, avete manipolato Eragon.. Ucciso. Lo avete ucciso!»
«Era per il bene di Alagaësia, Älfa, lo sai anche tu».
Altre immagini e sensazioni fluirono nella mia mente. La malinconia di una razza in estinzione, di cui ormai restavano solo i ricordi, il dolore per coloro che Galbatorix aveva piegato. L'odio per Durza, che lo aveva aiutato.
Il disperato tentativo di impedirne la distruzione, la speranza di poterli salvare.
Sull'orlo di un attacco di panico e disperazione, mi separai da tutte quelle voci ed esse non fecero nulla per trattenermi.
Tutto quello che avevo scoperto era.. troppo grande, troppo bello e troppo terribile per poterlo reggere tutto in una volta. E inoltre sentivo anche di capire le azioni compiute dai cuori dei cuori, nonostante al momento fossi accecata dal dolore.
Mi asciugai le lacrime prima di rialzarmi in piedi e cercai gli occhi di Eragon. Solo a quel punto mi avvidi di quanto quel breve viaggio lo avesse cambiato.
Sembrava più vecchio, più saggio, più consapevole, più malinconico.
Forse gli Eldunarí avevano influenzato il suo essere, trasformandolo? Non lo sapevo ma volevo accertarmene.
Hanno ucciso Durza.
Scacciai il pensiero dalla mia mente. Non ancora, non ancora..
Mi sovvenne una frase biascicata dallo Spettro nel suo delirio, quando era tornato da Uru'baen.
«Tu lo hai aiutato a schiavizzare Shruikan!»
«Quello e molto altro, e molto peggiore, anche»
Gli Eldunarí. Aveva aiutato il re nelle sue azioni perverse e aveva pagato con la vita.
Mia figlia non aveva un padre perché loro avevano deciso che la vita di Durza non valeva abbastanza. La rabbia mi bruciò le membra.
Avrebbero potuto cancellargli la memoria di quelle poche righe lette. Avrebbero potuto fermarlo in qualsiasi altro modo, ma non ucciderlo. Durza lo Spettro non si era guadagnato la possibilità di redimersi, ai loro occhi.
Tu che avresti fatto al loro posto?
Le orecchie mi ronzarono e il mio cuore si scontrò ferocemente contro le costole. Intorno a me qualcuno stava parlando, ma io non lo sentivo.
Ispirai profondamente e cercai con tutte le mie forze di concentrarmi sul presente.
Eragon stava per illustrare il suo piano per attaccare Uru'baen e io non potevo assolutamente perdermene nemmeno un passaggio, perché volevo e dovevo parteciparvi pienamente.
L'idea non era complicata in sé: gli eserciti attaccavano le mura e affrontavano i soldati, mentre un gruppo di scelti sarebbe andato direttamente a fronteggiare il re. Era folle, azzardato e audace, come tutti i piani di assalto dei Varden. Così fantasioso che poteva anche funzionare, specie grazie alla nuova potenza dataci dagli Eldunarí di Vroengard.
Mia madre espresse la sua preoccupazione non appena resi chiara la mia intenzione di aggregarmi al gruppo che avrebbe accompagnato Eragon.
«Non morirò» le dissi, nell'antica lingua, con una convinzione che a tratti sentivo e a tratti no.
Prima che nascesse la mia bambina, avevo deciso che mi sarei semplicemente unita all'esercito di mia madre, così da non rischiare la sua e la mia vita in modo estremo. Ma ormai lei era una creatura separata da me e la sua vita e la sua morte non dipendevano più strettamente dalle mie scelte. Potevo tornare a rischiare senza il cieco terrore di dovere fare pagare a lei le mie decisioni.
E la mia scelta, dopo tutto quello che avevo speso contro Galbatorix, era alquanto scontata.
Tuttavia avrei dovuto prendere misure per assicurarmi che la figlia di Durza vivesse, indipendentemente da quanto fosse successo il mattino seguente.
Se avessimo fallito e il re avesse provato ad asservirmi, allora avrebbe comandato un cadavere. Se invece mi avesse uccisa, non si sarebbe posto il problema.
            Mi trattenni anche quando gli altri si ritirarono, per chiedere ad Eragon cosa lo avesse trasformato in quei pochi giorni.
Mi stupii quando rivelò di aver scoperto il suo vero nome e rimasi seriamente colpita quando disse di volerlo condividere con me.
Non sapevo se il suo gesto fosse stato dettato dall'incoscienza, da un residuo trasporto nei miei confronti o da sincera e disarmante fiducia nella mia persona, ma mi commosse quasi alle lacrime.
Rifiutai, com'era ovvio. Era rischioso per via dell'imminente scontro con Galbatorix e in tutta sincerità non ero sicura di volerlo sapere. Accettare la sua confessione -qualunque fosse il suo movente- mi sembrava sbagliato e anche ingiusto nei suoi confronti, sia perché non ero sicura che fosse totalmente consapevole dei lunghi anni che lo aspettavano e delle molte persone che avrebbe incontrato, sia perché poteva sembrare un incoraggiamento da parte di un'amante crudele che poi lo avrebbe rifiutato.
Dietro sua richiesta, gli raccontai di come avessi scoperto il mio vero nome, parecchi anni prima, poi mi congedai, dando voce a ciò che realmente provavo per lui: simpatia, affetto, amicizia e anche orgoglio per ciò che era diventato.
Mentre mi allontanavo in direzione dell'accampamento ripensai a quello che sapevo essere il mio vero nome. Non lo pronunciavo da anni e avevo avuto un'intuizione.
Me lo sussurrai tra me e me.
Niente, non provavo niente.
Quella era solo una conferma del dubbio: il mio vero nome era cambiato, da qualche parte nel mio recente passato.

Tornai nella mia tenda e mi disfai della mia tenuta da combattimento. Il giorno dopo avrei sputato sangue nella città del dolore, ma per il resto del giorno non avevo intenzione di fare nulla, se non passare ogni istante possibile con mia figlia.
Indossai i miei abiti neri e mi avvolsi nel mantello.
Il futuro della mia creatura mi stava a cuore più di quanto riuscissi ad ammettere a me stessa e se c'era qualcosa che poteva distogliermi dai miei intenti, era lei. Tuttavia sentivo di poter fare ciò per cui mi ero offerta meglio di qualunque altro guerriero e se fossi rimasta nascosta avrei finito per morire di impazienza e trepidazione. Era il punto di arrivo della mia ricerca, la meta per cui camminavo da anni. Se avessi assolto quel mio ultimo dovere, forse avrei finalmente trovato la pace per tutto ciò che avevo commesso.
Dissi a Màthair che forse non avrei avuto più bisogno dei suoi servigi e che, nel caso, mi avrebbe rivista all'alba, altrimenti quello era un addio.
La donna mormorò un «Buona fortuna», poi si affrettò a prendere la sua ricompensa -nuovamente un furto dalle cucine- e a tornare nella sua tenda. Probabilmente sperava di non vedermi mai più, doveva credermi una pazza.
Baciai la mia bambina sulla fronte e la strinsi tra le braccia, quasi nascondendola nel mio mantello. Dormiva, e il movimento non la disturbò.
Mi mossi alla ricerca dell'unica persona a cui avrei potuto affidare la vita di mia figlia, nel caso qualcosa fosse andato storto. Non era la più affidabile, non la più materna, non la più vicina a me, ma era la sola persona che conosceva il mio passato e condivideva il mio affetto per Durza.
Riacquistai il mio aspetto naturale e, giunta nei pressi delle cucine, fermai un uomo dagli spessi baffi neri, striati di grigio.
«Sto cercando una ragazza che lavora nelle cucine. Si chiama Alba, ha i capelli biondi e gli occhi azzurri». Se non usava un altro nome, ovvio.
L'uomo mi squadrò con sospetto. In quel momento ero di nuovo un'elfa. «Chi la cerca?»
«La sua amica di Gil'ead» improvvisai.
Alba uscì dal tendone delle cucine pochi istanti dopo, con la treccia di capelli biondi stranamente scompigliata.
«Che vuoi, principessina?» sibilò seccata. Poi i suoi occhi caddero al fagotto che stringevo al petto. «Cos'è quello?» indagò aggrottando la fronte.
«Questa», la corressi, «è il mio segreto».
Sul viso dell'elfa si rincorsero diverse espressioni in pochi istanti: confusione, incredulità, scetticismo, e altre che non riuscii a definire.
«Non è vero» soffiò. «È quello che penso?» aggiunse sconvolta.
«Non parliamone qui».
Indicò un punto alle mie spalle. «Quella è la mia tenda».
Entrammo e io mi premurai di insonorizzare l'ambiente.
Alba fissò con sospetto la mia piccola, come se potesse morderla.
«Lo sapevo che mi nascondevi qualcosa» disse, quasi distrattamente, «ma in effetti non avrei mai creduto che..» Tacque.
Non sapevo da dove cominciare, così restai in silenzio anche io, ma la mia pena doveva essermi stampata in volto.
«Ho frainteso o quella è la figlia di Durza?» azzardò infine.
«Non hai frainteso» dissi, svolgendo il mantello e rivelando il volto della bambina, che stava ancora dormendo.
La bionda parve improvvisamente sospettosa. «Perché mi avresti rivelato il tuo segreto? Stai cercando di incastrarmi in qualche modo per caso? Quella marmocchia è veramente di Durza o ne hai rapita una a caso per.. fare non so bene cosa?»
Guardai nervosamente il visetto della piccola. «Non ti sto ingannando, né mentendo, è davvero sua e mia» la rassicurai, nell'antica lingua.
Alba si sporse su di lei e il sospetto nei suoi occhi si intensificò. «Non gli somiglia. A parte i capelli, forse». Fece per allungare una mano, forse per sfiorarli, ma bloccò il movimento di scatto.
«E il colore della pelle» aggiunsi. «Adesso il suo aspetto è modificato, dato che l'avevo affidata ad una balia umana».
«Ancora mi sfugge il perché tu la stia mostrando a me».
«Domani», dissi con lentezza, «ci sarà l'assedio di Uru'baen e contemporaneamente un attacco al re. E io vi devo partecipare».
«Non vorrai..?»
«Devo andare. E non so se tornerò». La voce mi si ruppe.
Alba deglutì. «Io non posso badare a tua figlia fino a quando non potrà provvedere a se stessa».
«Sei l'unica che possa farlo».
«Non so come dirtelo, principessina: a me non piacciono i bambini. Piangono, sono impegnativi e sono da lavare e cambiare ogni ora. Non credo proprio che riuscirei a tenerne uno per più di tre ore senza resistere alla tentazione di soffocarlo, figuriamoci crescerlo».
«Allora lei morirà».
Fece un gesto spazientito. «Perché non la affidi a tua madre, per esempio?»
«Non ne sa nulla e domani sarà ad Uru'baen con me. La sua vita è in pericolo quasi quanto la mia, mentre tu non hai intenzione di combattere, giusto?»
Scosse la testa. «Non sono mai stata brava con le armi. E nemmeno ad uccidere, a dire il vero. Ma non sono nemmeno brava a fare la balia, credimi».
Le porsi la bambina. «Vuoi tenerla?»
Ridacchiò nervosamente. «Perché ho la sensazione che tu stia per raggirarmi? Una volta tenuta in braccio non riuscirò più a sopportare che muoia, non è vero?»
«È quello che spero» ammisi.
Allungò le braccia. «Non so nemmeno come si tenga una neonata» borbottò impacciata.
«Basta che tu le sostenga la testa» la istruii, sistemandola nelle sue mani.
La piccola si svegliò e iniziò a piangere. Alba le sfiorò il piccolo viso con leggerezza, come se avesse paura di rovinarla.
«Ha gli occhi diversi» osservò.
«Uno più chiaro e uno più scuro, lo so, ma immagino che si riassesteranno con la crescita».
«Come si chiama?»
«Non ha ancora un nome».
«Sei un'elfa. Dovresti conoscere l'importanza dei nomi» osservò con sarcasmo, ma la sua espressione era intenerita.
«Se tornerò viva gliene darò uno immediatamente, in caso contrario ti cedo il compito».
«Non ti ho ancora detto di sì». Prese a cullare mia figlia dolcemente, e lei parve calmarsi un poco. Capii che Alba aveva raggiunto la sua mente con qualche immagine o suono rassicurante, come avevo spesso fatto io già da quando era nel mio ventre.
«Ma acconsentirai».
«Come fai ad esserne sicura?»
«La piccola ti piace. E ti senti ancora in debito con Durza per averti salvata in passato».
«Vero» cedette. «Ma sono la persona meno adatta per crescere una bambina».
«Sei l'unica che sa di me e Durza, oltre alla Venerabile, ma non me la sento di affidarla a lei. Temo che la considererebbe una specie di esperimento, come quelli che fa con le sue erbe».
«E come credi che la considererei io?»
«Come la figlia di un tuo caro amico e come la sua ultima eredità su questa terra» risposi con sicurezza.
Alba fece una smorfia. «Sei più intelligente di quanto pensassi. Ora capisco perché sei venuta da me: perché conosco i suoi natali e saprei nascondere eventuali segni della sua discendenza da uno spettro e da un elfa, se dovesse rivelarsi necessario; perché sai che, nonostante odi te e tua madre, ho voluto molto bene a Durza e non avrei mai il coraggio di fare del male al sangue del suo sangue; perché sai che, se le cose si mettessero male, sarei abbastanza egoista da fuggire il più lontano possibile da Uru'baen, senza curarmi di coloro che lascerò indietro. Sei una codarda».
«Sì» la assecondai. «Non ho il coraggio di abbandonare la mia battaglia, nemmeno per mia figlia».
«Se accetterò lo farò per lei e per Durza, non per te» specificò.
«Questo mi basta».
«Non mi esporrò con tua madre per farle sapere che ha una nipote».
«Non lo pretendo».
«Le mie intenzioni nei tuoi e nei suoi confronti non cambieranno ora che so che siete rispettivamente madre e nonna» proseguì in tono di sfida.
«Non ho mai creduto che questo avrebbe cambiato le cose».
La sua aria irriverente si spense e i suoi occhi corsero di nuovo alla creatura che teneva ancora tra le braccia. La bambina aveva smesso di piangere.
Me la restituì. «Dovresti tenerla tu, almeno fino al sorgere del sole».
«Abbiamo un accordo?»
«Hai la mia parola» rispose nell'antica lingua.
Abbracciai la piccola e scoprii un seno per nutrirla.
«Se Galbatorix vincesse..»
«So cosa fare. Se invece vincerete, ormai sai dov'è la mia tenda».
Le lacrime tremarono sull'orlo delle mie palpebre e poi scivolarono dolcemente fino alla mascella. «Parlale di suo padre, se vuoi parlale anche di me. Dille che le volevamo bene e che non avremmo mai voluto abbandonarla, dille che..»
«Basta!» mi bloccò Alba. «Sei patetica». Ma la sua voce era arrochita.
Tacemmo per qualche minuto e le lacrime mi raggiunsero il mento.
«Puoi restare qui fino all'ora della partenza» disse poi. «Io credo che andrò a fare una passeggiata e a consolare con parole dolci i soldati che domani moriranno in battaglia».
«Elrun ono, Aiedail». Grazie, Aiedail.
Ebbe un tremito. «Non usare quel nome, quella non sono più io. È un nome che appartiene ai morti e che solo i morti potranno usare con me».
E se ne andò, nella luce soffusa del crepuscolo, lasciandomi sola con la mia bambina e la mia disperazione.


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Salve! ^_^
Allora partiamo in ordine: è nato, anzi nata la figlioletta di Arya e Durza. Inizialmente avevo pensato di fare nascere un maschietto, simile a Durza ecc.. ma ho voluto rendere un filo più amara la perdita di Durza con la nascita di una bambina che di lui ha ben poco. Insomma è lo stesso pensiero che ho messo in bocca ad Arya xD Per quanto riguarda il nome, sto prendendo tempo..
Direi che l'aiuto di Angela era abbastanza scontato, ma in realtà non vi erano molte alternative possibili!
Saltiamo direttamente agli Eldunarì: anche a questo forse ci si poteva arrivare un bel po' prima. Non c'era nessuna potenza in gioco capace di agire sulla mente di Arya, se non gli Eldunarì, e così abbiamo risolto anche il vecchio mistero dei suoi incubi a Dras-Leona: era una sorta di avvertimento, di punizione per essesi alleata con Durza u_u
Ultimo ma non da ultimo è la decisione di affidare la bambina ad Alba nel caso non dovesse sopravvivere ad Uru'baen. Avevo già accennato al fatto che Alba avrebbe avuto un ruolo nel futuro di Arya e questo non è che l'inizio ;)
Al prossimo capitolo proseguiremo con gli eventi di Inheritance, ma vi avviso già che per lo scontro con Galbatorix sprecherò solo poche righe, trovo già soddisfacenti e ben dettagliate le descrizioni di Paolini e non mi sento di alterarle!
Poi.. ehhm ehm! Insomma volevo informarvi che ormai siamo verso la fine di questa storia ç_ç Io credo che entro tre-massimo quattro capitoli avrò concluso e poi vi dovrò dire addio! Forse dopo mi prenderò un po' di tempo per scrivere un paio di appendici e mettervi a parte di qualcuno dei miei studi per scrivere questa storia, non so, magari a qualcuno potrebbe interessare ^^
Per ora mi limito a ringraziarvi per l'ennesima volta e augurarvi buona domenica!
Bacioni a tutti,
Lalli

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Capitolo 38
*** Orfana di madre, madre di un'orfana ***


Ciao
38. Orfana di madre, madre di un'orfana

Le luci grige del mattino schiarivano timidamente il cielo quando Alba scostò la stoffa della tenda ed entrò. La notte era stata tormentata, specialmente perché Shruikan si era fatto vedere in lontananza e io avevo temuto di dover correre nella mia tenda a prendere Niernen e abbandonare prima del tempo la mia bambina.
«Ti ho portato qualcosa da magiare» annunciò l'elfa con indifferenza, porgendomi un quadrato di tessuto annodato.
Lo presi con la destra e tenni la mia bimba con il braccio sinistro.
Era ben sveglia e muoveva le manine in modo sconnesso. Non piangeva, ma non sembrava tranquilla e io mi chiesi se per caso non fosse a causa della mia inquietudine.
Mangiai con lentezza il pane con miele che mi aveva dato Alba e la fissai negli occhi spenti dalla stanchezza. Io stessa non dormivo da tre notti, ma l'eccitazione e l'ansia per la giornata mi mantenevano sveglia e attiva, almeno per il momento.
Finito il pane, pronunciai qualche parola di potere e restituii a mia figlia il suo aspetto originario.
«Dalle l'aspetto che preferisci» dissi. «L'importante è nascondere..»
«..Le orecchie, lo so» completò per me.
Contrassi la bocca in una smorfia amara. Le avevo sempre visto l'aspetto di un'umana addosso, doveva sapere meglio di me quali fossero i dettagli da nascondere.
«Bene, allora».
«Devi andare adesso?»
«Sì. All'alba devo essere con Blödhgarm e gli altri in un punto preciso. Ho sì e no un'ora di tempo e devo ancora prepararmi».
Mi alzai in piedi, accarezzai le manine della bambina e le baciai ripetutamente, poi la baciai anche sulla fronte e la strinsi un'ultima volta.
«Sii forte, figlia mia» le dissi con la mente.
La avvolsi nel mio mantello e la depositai sulla branda dove avevo trascorso la mia notte di veglia, canticchiando nenie e parlando alla piccola di tutto ciò che mi passava per la mente, consapevole che nulla di quella conversazione sarebbe rimasto nella sua memoria.
«Tieni questa» dissi, sfilandomi la collana di Durza e porgendola ad Alba. «Impedirà a chiunque di divinarti».
Lei sorrise amaramente e la indossò. «Lo so».
«L'anello di ametiste non serve più a nulla, fanne ciò che vuoi».
I suoi grandi occhi, azzurri come il cielo estivo, si alzarono solennemente su di me.
«Torna, Principessina, io non sono capace».
«Tornerò» dissi con poca convinzione, «ma te fai lo stesso del tuo meglio».
«Ovviamente».
Avevo mille parole sulle labbra, ma me le morsi e me ne andai, dopo avere gettato un'ultima occhiata alla creaturina che si agitava sulla branda.
Corsi in direzione della mia tenda e quasi mi scontrai contro Angela l'erborista, che camminava insieme ai primi soldati che uscivano dalle loro tende, con la sua armatura verde indosso e il bastone a doppia lama serrato in una mano.
«Venerabile» ansimai.
«Arya!» esclamò lei. «Allora come procede?»
«Lei è con Alba».
«Ah sì?» I suoi occhi guizzarono di consapevolezza. «Non potevi fare scelta migliore».
«Era l'unica dopotutto» minimizzai.
«Vero anche questo. Ma cosa fai ancora qui? Dovresti andare a prepararti! Eragon e gli Eldunarí sono già in allerta su quella collina lassù e c'è anche Elva con loro».
Sobbalzai. «Tu sai di loro?»
«Certo che sì! Ne conosco parecchi. Ho realizzato una cosetta per loro, un centinaio di anni fa, una specie di uomo di metallo, ma non mi chiedere a cosa servisse perché al momento non me lo ricordo». Scosse la mano in un gesto frivolo. «Sto invecchiando. Io vado in battaglia con gli uomini, ci vediamo al più tardi domani, devi ancora parlarmi del tuo incontro con i Sacerdoti!» si congedò, con una tale allegria che per qualche istante fui totalmente sicura che sarei sopravvissuta.
«A domani, Venerabile» la assecondai.
E proseguii nella mia corsa, tuttavia le sorprese non erano finite.
Davanti alla mia tenda mi attendevano due donne. Entrambe indossavano una giubba imbottita e una di loro aveva una spada alla cintura, l'altra ne aveva addirittura due.
«Ambasciatrice» mi salutò Augyra.
Athala si dondolava sulla punta dei piedi alle sue spalle. Quella ragazza sembrava sempre desiderosa di scomparire dietro alla sua compare.
«Non ho tempo, devo vestirmi!»
«Noi no, siamo già pronte e ti stiamo aspettando da un'ora. Facci entrare con te, dobbiamo parlarti» insistette Augyra.
«Prego» borbottai, cogliendo lo sguardo interrogativo di Laufin, mentre passava accanto alla mia tenda.
Feci entrare le due donne e tolsi le mie cose dalla branda, così che potessero sedere su qualcosa di più comodo della nuda terra.
«Non posso concedervi più di pochi minuti» annunciai, afferrando gli abiti donatemi da mia madre e cominciando a cambiarmi rapidamente.
«D'accordo» disse Augyra, impassibile, «sarò breve. Non sappiamo come si svolgerà la strategia di attacco di oggi, ma supponiamo che il cavaliere e i suoi elfi guardiani vadano ad affrontare Galbatorix e che forse tu andrai con loro».
Allentai i lacci del corsetto e lo indossai. «Corretto».
«E vorremmo che tu facessi qualcosa per noi».
«Trattabile».
«Secondo le informazioni che abbiamo trovato nelle gallerie di Dras-Leona, il re custodisce quattro uova di Ra'zac nella sua stanza del tesoro. Ti stiamo chiedendo di distruggerle per noi, nel caso riuscissi ad arrivare fin lì, perché siamo certe che comunque finisca questa guerra noi non riusciremo ad averne accesso dato che saranno sicuramente protette con la magia».
Allacciai Ren a cintura e rivolsi alla donna uno sguardo severo. «La mia prima missione è occuparmi del re. Potrei fare ciò che chiedete solo dopo che avrò finito con lui».
«Certamente».
«E non è finita qui». Sentii un sorriso aleggiarmi sulle labbra. «Voglio sapere per chi lavorate».
Stranamente, nessuna delle due parve sorpresa alla mia richiesta, anzi, sembravano aspettarsela. Athala aveva un'aria quasi soddisfatta e Augyra sembrava in procinto di sputare una bacca acerba, tuttavia acconsentì: «D'accordo, ma voglio che tu giuri nella tua lingua che non riferirai quanto detto ad altri».
«E come fai a fidarti del mio giuramento se non conosci la mia lingua?»
«Cosa ti fa credere che io non conosca la tua lingua?»
Alzai un sopracciglio. «La conosci?»
«In parte. In misura sufficiente per sapere quali sono le parole necessarie per un giuramento».
«Allora sappi che mi impegnerò a mantenere il tuo segreto, ma con un limite: mi prendo la libertà di rivelarlo se dovesse risultare necessario per il benessere di Alagaësia».
Occhi di Lupo annuì e io pronunciai il giuramento, vincolandolo nell'antica lingua.
«Conosci il
Domia adr Wyrda?» domandò la donna.
«Sì, lo lessi qualche decennio dopo la morte di Heslant il monaco».
«Allora sai che Heslant faceva parte di una setta religiosa di Kuasta, Arcaena. Bene, anche noi» disse controvoglia.
«Arcaena esiste?» indagai, scettica.
«Certo che sì e ha dato parecchi impulsi ai Varden, negli ultimi decenni!» fu la secca risposta.
Scossi la testa lentamente, incredula, mentre il mio cervello cominciava a mettere insieme diverse tessere del mosaico. «Jeod. Anche Jeod Gambelunghe è dei vostri, non è vero?»
«Jeod ormai non è più pienamente coinvolto nelle nostre attività, ma è un amico prezioso e un grande studioso. E noi valutiamo la conoscenza al di sopra di ogni altra cosa».
Certo. E gli impulsi di Arcaena ai Varden era sempre avvenuti tramite l'uomo: le informazioni per intrufolarsi ad Uru'baen e anche quelle per entrare a Dras-Leona. E lo avevo anche visto discutere con le due donne, due giorni prima..
«Se valutate la conoscenza al di sopra di tutto, perché voi girate armate e cercate di portare una razza all'estinzione?»
«Perché i Ra'zac sono pericolosi per gli esseri umani» disse Augyra semplicemente. «E perché si possono assumere diversi ruoli all'interno della setta. Non abbiamo propriamente un Dio, come i Sacerdoti dell'Helgrind, noi crediamo nella ragione e nello sviluppo dell'intelligenza dell'uomo e ci operiamo affinché la società non sprofondi nella decadenza». Rabbrividì. «Un giorno il mondo come lo conosciamo finirà nel fango e se qualcuno non si premurerà di conservare memoria della civiltà, gli uomini non risorgeranno più dalla melma. Anche per questo combattiamo i Ra'zac e Galbatorix: per rallentare l'inesorabile avvicinamento della decadenza».
Rimasi impassibile, ma il mio scetticismo stava aumentando ulteriormente. Certo la loro religione sembrava molto più logica di molte altre, tuttavia aveva un fondamento di follia, come tutte.
«E se un giorno decideste che gli elfi sono pericolosi per gli uomini?»
«Cercheremmo di eliminarvi» disse, tagliente. «Ma non accadrà fino a che non ci farete esplicitamente del male».
Non credevo che sarebbero mai riusciti a sconfiggere gli elfi, non finché avevamo la Du Weldenvarden dove poterci rifugiare.
«Quindi voi due siete una specie di corpo armato, come le Ombre. E gli altri cosa fanno, se non hanno un Dio a cui rivolgere preghiere?»
«Noi non abbiamo un corpo armato», mi contraddisse lei, «noi abbiamo delle spie, degli Occhi e delle Voci, ci chiamiamo così. Ciascuno di noi fa ciò che riesce al limite delle proprie capacità: alcuni passano giorni e giorni in polverose biblioteche; altri si mettono al servizio di un nobile o di un generale, lo spiano per decenni e scrivono regolarmente rapporti per la sede centrale; altri si ritirano nel reliquiario in meditazione; altri trascrivono i rapporti e ne fanno dei libri; altri cercano la conoscenza annidata nei posti più nascosti; altri si impegnano con le armi per preservare la civiltà».
Augyra aveva fatto un po' di tutto, allora: aveva cercato le biblioteche segrete dei Sacerdoti, li aveva spiati e ormai era una cacciatrice di Ra'zac.
«Ancora non capisco che ruolo abbia lei, oltre ad essere un fabbro» insinuai, additando Athala.
La giovane non si fece avanti, ma mi rispose: «Io faccio parte di Arcaena da pochi mesi e in modo indiretto, Ambasciatrice. Augyra e il suo amico mi hanno salvato la vita e io non avevo alcun posto dove andare, mentre me la cavavo bene con le armi. Così ho deciso di accompagnarla nella sua missione senza fare troppe domande e dopo pochi mesi sono stata ammessa». Si bloccò, notando l'espressione ammonitrice della sua compagna.
«Chi sei?» domandai, guardandola direttamente negli occhi.
Lei scosse la testa e mi parve spaventata. «Oggi non è il giorno giusto per rivelarti questo segreto».
Decisi di non insistere, almeno per gentilezza nei suoi confronti.
«Grazie per le vostre confessioni» dissi invece.
Occhi di Lupo assunse la solita espressione di animale feroce e braccato. «Se rivelerai queste informazioni ad altri metterai in pericolo anche le nostre vite: abbiamo concesso ad Angela l'erborista di accompagnarci nei sotterranei di Dras-Leona e abbiamo dato nuove informazioni a te perché tu agisca a Uru'baen. Secondo le nostre regole, non era permessa la collaborazione di terzi e se qualcuno venisse a sapere che qualcosa di assurdamente simile ad un Inarë e un'elfa sono stati coinvolti nei nostri affari, verremmo nel migliore dei casi espulse dalla setta, nel peggiore avvelenate nel sonno».
Inarë?
Mi morsi la lingua per non tempestare le donne di ulteriori domande e allungai una mano per afferrare Niernen. Ero pronta per l'assalto di Uru'baen.
«Vi ho dato la mia parola e ovviamente la manterrò».
«Grazie» disse Athala.
«Grazie» le fece eco l'altra.
«Devo andare e mi pare che anche voi dobbiate partecipare agli scontri, vista la vostra mise. Che le stelle vi proteggano!»
«Pensi di tornare?» si accertò Augyra.
Se pensavo di tornare? Il sole stava sorgendo, il sangue mi ruggiva nelle vene, i muscoli si flettevano svelti ai miei comandi, Niernen roteava pigramente tra le mie dita, avevo una figlia, avevo amato Durza, avevo avuto Glenwing e Fäolin, avevo una madre, avevo amici come Däthedr ed Eragon e Galbatorix avrebbe almeno tremato, quel giorno. Ero viva, e amavo troppo la vita per pensare di potermene già separare.
«Certo che sì!» ringhiai, con rinnovata energia.
Quella notte, con mia figlia tra le braccia, avevo creduto che non l'avrei rivista mai più, ma in quel momento, forse grazie alla luce del sole, mi sentivo più ottimista.
«Che la tua spada resti affilata», mormorò Augyra, «e anche la tua lancia, effettivamente».
«Così come le vostre» risposi.
Raggiunsi Blödhgarm e accettai l'ultimo saluto di mia madre, che mi corse incontro e mi baciò la fronte con tale leggerezza che quasi non me ne accorsi. Poi, senza dirmi una parola, si allontanò per mettersi in testa all'esercito elfico.

Tutti gli addii a cui mi ero dedicata quella mattina si rivelarono quasi totalmente inutili, dato che io sopravvissi indenne. La morte di Galbatorix, invece, fu rapida quanto la sua ascesa.
Alla fine l'uomo più potente di Alagaësia fu sconfitto da se stesso. Da quei demoni che albergano nel cuore di ogni essere che ha avuto la presunzione di stroncare una vita. E lui ne aveva stroncate tante.
Non realizzai immediatamente che il re nero era scomparso. Conficcai la Dauthdaert in profondità nell'occhio di Shruikan e restai a guardare attonita le macchie di sangue sfrigolante sui miei vestiti.
Poi tutto cominciò a crollare.
Realizzai che mi ero presa un impegno con Athala e Augyra e mi rivolsi a Murtagh. La mente del giovane sfiorò la mia e mi indicò tramite immagini il tragitto per la sala del tesoro, la fugace immagine di un grande scrigno e quella altrettanto fugace di quattro uova dal colorito malsano.
Corsi in quella direzione, evitando calcinacci e pietre, e riflettendo al contempo sulla solitudine e la sconfinata tristezza che avevo percepito nel breve contatto con il cavaliere che, in un modo o nell'altro, aveva permesso la sconfitta del suo aguzzino. Galbatorix doveva essere stato bravo a procurarsi alleati, ma non a mantenerli tali.
La sala a cui arrivai dopo aver abbattuto la porta a spallate era bassa, con il soffitto coperto da volte a crociera fortemente costolonate. Se fossi stata fortunata, se anche fosse crollato il palazzo, quella stanza avrebbe resistito.
L'intero ambiente era illuminato da poche torce, ma risplendeva di mille bagliori dorati. Non avevo mai visto così tante ricchezze ammassate tutte insieme.
Per prima cosa raggiunsi le uova di Ra'zac e le fracassai con quattro colpi ben assestati di spada, poi mi misi alla ricerca dello scrigno, mentre intorno a me si udivano rombi e forti tonfi e il terrore di morire sepolta tra le macerie prendeva piede nel mio cuore.
Trovai infine il prezioso contenitore e mi accertai del suo contenuto, poi lo presi sottobraccio e mi accinsi a cercare un'uscita. Peccato che la porta da dove ero venuta fosse ormai totalmente inaccessibile.
Trovai una scala di pietra umida che sembrava sparire nel ventre della terra e la imboccai, accendendo un globo luminoso per farmi strada. Camminai per diversi minuti prima di imbattermi in diversi respiri affannati. Cominciai a correre e non mi fermai fino a che non udii la voce quasi ringhiante di Blödhgarm gridare: «Arya!» Con un tale entusiasmo che dimenticò l'appellativo Dröttningu.
Mi accertai che tutti stessero bene e -mentre guadagnavamo faticosamente l'uscita tramite incantesimi per orientarci negli stretti corridoi, incantesimi per liberare passaggi dalle macerie e proteggerci dalla caduta di altre- ascoltai il loro racconto e loro ascoltarono il mio. Erano rimasti immobili, prigionieri dei loro stessi corpi, in una stanza sotterranea, fino a che la morte di Galbatorix non li aveva liberati dai vincoli magici. Poi si erano spostati a casaccio nella direzione dai cui ero venuta io e avevano recuperato tutti gli Eldunarí tenuti sotto il controllo di Galbatorix, che in quel momento fluttuavano davanti, dietro e intorno a noi.
Riemergemmo dopo un tempo che mi parve interminabile, sudati, ansimanti e coperti di polvere.
Eragon ci accolse con sterminato entusiasmo e, dopo aver visto il tesoro che tenevo tra le mani, raccontò a me e agli altri di avere trovato molte altre uova a Vroengard e che la rinascita dei draghi e dei loro cavalieri non era una possibilità così remota come si credeva.
Nel preciso istante in cui le parole di Eragon tacevano e le esclamazioni degli undici riempivano l'aria, vidi -dietro di Eragon- Murtagh e Nasuada. Erano molto vicini e i loro nasi quasi si toccavano. Il cavaliere stringeva delicatamente la punta delle mani di Nasuada e la fissava con una tenerezza e una vergogna che mi fecero sprofondare il cuore per la pietà.
«Tornerò, lo giuro» disse pianissimo.
Poi saltò in groppa a Castigo e spiccò il volo. Eragon lo seguì subito dopo e Nasuada reagì con orrore alla vista della consapevolezza che doveva brillare nei miei occhi.
Forse non ero un'esperta di questioni amorose, ma avevo riconosciuto l'espressione del volto di Murtagh: era la stessa che aveva avuto Durza prima che Eragon comparisse a Gil'ead, quando era costretto a farmi del male e l'idea di sfiorarmi anche solo un istante con le stesse mani con cui mi torturava lo nauseava.
E riconoscevo anche l'espressione sul volto della signora dei Varden perché rifletteva la frenesia e l'attenzione con cui avevo celato al mondo il segreto che condividevo pienamente solo con Durza. L'amore in qualche modo sbagliato che avevo provato per il mio carceriere.
Nasuada scostò lo sguardo e il momento di riflessione terminò.
All'improvviso realizzai che tutto era finito.
Blödhgarm -che dopo aver raccolto gli Eldunarí abbandonati da Murtagh si era immobilizzato in piedi accanto a me- sembrava stupefatto in ugual misura.
«Abbiamo vinto, Arya Dröttningu».
Galbatorix era sconfitto e io ero viva. Sarei tornata da mia figlia e non l'avrei lasciata mai più.
«Oh sì» soffiai, con la voce che vibrava di eccitazione. «Abbiamo vinto».
Gli altri elfi si ammassarono intorno a noi, gli occhi brillanti di gioia e stupore e i volti illuminati da sorrisi che brillavano più del sole.
«Abbiamo vinto!» gridò Yaela.
«Vittoria!» le facemmo eco gioiosamente, liberando una cascata di risate.
Mi unii al loro entusiasmo, ma colsi con la coda nell'occhio la figura di Nasuada, fragile e tremante al margine del mio campo visivo.
Mi avvicinai a lei e le presi una mano tra le mie. «Bentornata Nasuada. Sono immensamente felice di ritrovarti viva».
La donna rise nervosamente. «Non sono ancora sicura che sia davvero successo. Non è una visione, vero?» soffiò implorante. E i suoi occhi corsero al cielo vuoto, nella direzione in cui era volato Murtagh, in groppa al rosso Castigo. Sembrava aver dimenticato il nostro scambio di sguardi e si guardava intorno con la disperazione di chi sa che sta per svegliarsi nel bel mezzo di un sogno bellissimo.
Sentii di capirla ad un livello terribilmente profondo. Entrambe prigioniere di guerra, entrambe forti e insieme volubili, entrambe portate sul baratro tra vita e morte, salute e follia, entrambe innamorate del nostro aguzzino, entrambe costrette a vivere.. e morire lontano da lui.
Forse io e Nasuada saremmo guarite, prima o poi. Avremmo dimenticato gli orrori che ci eravamo lasciate alle spalle a ci saremmo costruite una nuova vita. Probabilmente lei sarebbe diventata regina del mondo degli uomini e io avrei continuato a essere l'ambasciatrice degli Elfi. Entrambe avremmo finito per accompagnarci ad un altro uomo, un aristocratico che ci desse potere, forse. Forse lei avrebbe avuto molti figli, io non ero per nulla certa di poter sopportare una seconda volto il terrore, il panico, la solitudine e la gioia che avevo provato nel mettere al mondo la mia. Ne sarei morta.
Questo pensavo, mettendo a confronto la mia vita e quella della figlia di Ajihad.
Ancora non sapevo fino a che punto le nostre esistenze fossero diventate simili.
La signora dei Varden iniziò a tremare e io mi permisi di stringerla delicatamente in un abbraccio. Era più bassa di me e sentii le sue lacrime colarmi sul petto mentre il suo corpo si scuoteva in pochi, profondi singhiozzi.
«Ti accompagno nella tua tenda, vuoi?» dissi morbidamente.
Lei annuì e recuperò il suo contegno con rapidità incredibile, anche se l'incertezza e il terrore rimanevano evidenti nei suoi occhi spalancati.
Dissi a Blödhgarm di occuparsi dei preziosi tesori che avevamo recuperato dal palazzo, presi Nasuada a braccetto e insieme ci incamminammo verso le mura esterne.
Non avevamo fatto più di un centinaio di iarde quando ci imbattemmo in Jörmundur e Däthedr.
L'uomo si illuminò di gioia e corse ad inginocchiarsi davanti alla sua signora, mentre Däthedr mi si fece vicino, con gli occhi arrossati dal pianto e un'espressione funerea in volto.
Disse poche parole, piano, quasi spaventato.
All'inizio decisi di non crederci, mi voltai dall'altra parte e mi tappai le orecchie in un gesto infantile che non mi s'addiceva.
Semplicemente non potevo accettarlo, era un dolore troppo forte da riuscire anche solo a
immaginarlo. Galbatorix era sconfitto, io non potevo passare la mia esistenza accanto all'unico uomo che avevo amato, ma non importava. Ormai andava tutto bene, le morti erano finite, nessuno doveva più morire. Saremo una famiglia, madre, ma adesso basta scherzi.
Ma la notizia mi fu ripetuta, più e più volte, con spietata crudeltà.
«Tua madre è caduta, Arya Dröttningu».
Mia madre è cosa? Avevamo detto basta agli scherzi e ai silenzi. Madre adesso ci dobbiamo volere bene, dobbiamo diventare una famiglia.
Qualcuno mi scosse delicatamente per le spalle.
NO, BASTA SCHERZI!
Non me ne resi conto, ma probabilmente urlai perché vidi i presenti scrutarmi con espressioni terribilmente preoccupate, già incupite in un'espressione contrita.
L
oro non sanno dello scherzo. Mi dissi scioccamente.
Nasuada fu la prima a riprendersi e mi tirò da parte, lontana dai due uomini. «Mi dispiace per il tuo lutto, so cosa si prova a perdere un genitore, hai tutto il mio appoggio e la mia comprensione» mormorò, la voce ancora incerta dal pianto.
Sarai un'ottima regina, Nasuada, la tua gente ti vorrà bene e tu la renderai felice e consolerai tutti per le loro perdite. Ma non me, ti prego, non di nuovo.
«Non mi importa» dissi invece, aspramente. «Lei non era mia madre. Mi ha odiata con tutta se stessa, mi ha considerata alla stregua di un oggetto atto ad abbellire la sua corona. In me vedeva solo la sua erede, un semplice strumento per proseguire la sua linea di sangue. Lei non ha mai sentito il minimo affetto per me. Mai. Nemmeno quando mi credeva morta. Era solo arrabbiata perché avevo fallito la mia missione e quando sono tornata a casa è stata quasi compiaciuta di rinfacciarmelo. Si è anche scusata con me, ma lo ha fatto solo per convenienza, per cercare di trattenermi a palazzo e proseguire con la mia educazione. L’unica aspettativa di me che ha avuto è stata vedermi sul trono di Ellesméra. Io non potrò mai perdonarla per ciò che mi ha fatto. Per colpa sua ho perso tutta la mia infanzia ed è un tempo che non tornerà mai più. Per questo.. per tutto questo io non sento dolore, non mi importa niente».
Avrei voluto vedere l’espressione di Nasuada, ma non potevo. I miei occhi erano appannati.
Mi tremarono le labbra. «Non è vero», gracchiai subito dopo, «non è vero niente». Le lacrime si riversarono sulle mie guance.
Mia madre è morta! Singhiozzai. Prima che ci fosse dato di volerci bene.. lei è morta! MORTA!
Mi coprii il volto con le mani e ispirai profondamente, cercando di dominarmi.
«I-io» balbettai.
Nasuada mi strinse una spalla, ma non disse nulla. Il gesto fece traballare ulteriormente le mie resistenze.
«Vado» riuscii a biascicare, e corsi via.
Corsi per le strade ricolme di sangue e morti, scudi spezzati e frecce ancora integre. Poi trovai una porta aperta e mi intrufolai all'interno, sbattendola alle mie spalle, lasciando la luce del sole dietro di me.
Caddi a terra con violenza, ferendomi le ginocchia.
Mia madre era entrata nel vuoto. La stessa madre che mi aveva sorriso, promettendomi comprensione e baciandomi la fronte con delicatezza, quasi con paura. La madre che era sempre stata poco più di un'estranea per me, che mi aveva lasciato intravedere un bagliore di comprensione, la possibilità di riaprire i rapporti ormai congelati.
Piansi amaramente le occasioni perdute, il tempo sprecato, i litigi frequenti e i pochi confronti. Cercai di rievocare un'immagine piacevole di Islanzadi, ma non potevo.
Perché il Fato, Dio, Destino, Caso o qualunque altra vigliaccata non mi avevano dato il tempo di crearmene una.
Maledetta. Dovevo essere maledetta. Le persone intorno a me morivano come fiori sradicati da una tempesta. Arrivavo a malapena a concedere parte del mio affetto a qualcuno che quello mi era subito strappato via. Era successo con tutti. TUTTI! Dovevo andare via per sempre o avrei ucciso altre persone innocenti, dovevo raggiungere mia madre e..
Mia figlia! Io avevo una figlia!
Appena raggiunta quella consapevolezza, il mio stomaco si ribellò a tutto ciò che avevo appena vissuto.
Rigettai in un angolo e il sapore acido mi pizzicò spiacevolmente la gola, lasciandomela secca e ruvida.
Menta.. Comprami anche delle foglie di menta, fresche mi raccomando!
Battei le palpebre e mi imposi di tornare alla realtà. Brutta, lurida, insopportabile realtà. In quel momento volevo essere chiunque tranne che me stessa, ma le persone che conoscevo non rappresentavano valide alternative di una vita migliore.
Tutte cose spezzate gli eroi di Alagaësia.
Digrignai i denti. Dovevo concentrarmi.
Mia figlia. Lei era viva, da qualche parte fuori da Uru'baen. Lei respirava e aveva i capelli di Durza.
Tornai a correre, evitando tutto e tutti, e non mi fermai fino a quando non raggiunsi la tenda di Alba.
L'elfa era sulla soglia, con le braccia incrociate sul petto e un'espressione lugubre. Doveva già sapere tutto, le voci arrivavano all'accampamento insieme ai feriti.
Non cercai nemmeno di asciugare le lacrime che mi imbrattavano il volto, scavando probabilmente una scia sulla mia pelle impolverata.
«Ti rimango solo io adesso» dissi, vibrando come una corda d'arco e percependo io stessa il tono ridicolmente pietoso della mia voce.
«I conti che avevo in sospeso con tua madre sono estinti, Arya Dröttningu» disse Alba passandomi accanto. «Mi dispiace per la tua perdita. La tua bambina è dove l'hai lasciata stamane».
E fece per andarsene.
«Ora non vuoi più uccidermi?!» gridai istericamente.
Volevo che ci provasse. Mi sentivo ricolma di orrore e disperazione e avevo assoluto bisogno di liberarmi di quelle orribili sensazioni. In quel momento mi sarei volentieri gettata in uno scontro all'ultimo sangue.
La bionda si voltò nella mia direzione e mi parve di leggere frustrazione nella sua espressione. «Io non ti avrei mai e poi mai uccisa, Principessina, probabilmente non sarei nemmeno riuscita ad uccidere tua madre. Io ho paura della morte, io odio vedere gli altri morire. Credi davvero che sarei mai stata capace di stroncare una vita? Io non c'ero cento anni fa, ad Ilirea. Ero troppo codarda per partecipare ad una battaglia, troppo debole per stare nel bel mezzo della mischia ed ignorare il dolore dei morenti, troppo ingenua per capire che Solus avrebbe potuto incontrare la morte in quello scontro!» Scoprì i denti in un'espressione feroce e mi puntò dolorosamente un indice al centro del torace. «Tu ora stai soffrendo e sei furiosa, ma non ti permetterò di usarmi per scaricare la tua rabbia. Non ti ucciderò né oggi né mai e se hai intenzione di aggredirmi e di pestarmi, allora sappi che mi lascerò ammazzare piuttosto che assecondarti».
Conclusa la sua sfuriata, ritrasse il dito -che mi aveva scavato un solco tra le costole- e batté rapidamente le palpebre per asciugare gli occhi umidi.
Dal canto mio, sentii la mia ira sgonfiarsi, subito soppiantata dalla sofferenza.
Ero una sciocca. Una sciocca patetica.
E non ero nemmeno andata a rendere omaggio al corpo di mia madre, accecata com'ero dall'enormità di ciò che era successo.
Un dolore martellante alle tempie mi fece barcollare. Alba mi afferrò prontamente un braccio e mi guardò con occhi duri come lapislazzuli, gli occhi limpidi di un guerriero.
«Va' da tua figlia e tienila tra le braccia. Tu non sei sola, tu hai qualcuno che ti aiuterà a superare anche questa perdita, hai qualcuno per cui vivere il futuro senza doverti necessariamente aggrappare al passato. Sotto questo punto di vista, sei stata più fortunata te di me».
«Alba io..»
«Odio le smancerie, quindi puoi evitare!» sbottò. Mi spinse leggermente in direzione della tenda. «Vai».
Rischiavo di emulare il terribile crollo emotivo che avevo subito quando ero arrivata ad Ellesméra, dopo la battaglia del Farthen Dur, e non era quello il momento. C'erano ancora mille cose da fare, anche se Galbatorix era morto.
Per l'ennesima volta, mi dissi che il momento per strapparsi i capelli e graffiarsi il volto sarebbe venuto poi.
Entrai nella tenda di Alba e il respiro della mia piccola mi riempì le orecchie. La strinsi fortissimo, fino a farla piangere. Poi le chiesi stupidamente perdono, tempestai la sua testolina di baci e le mormorai parole dolci per placarla, mentre nuove lacrime si scavavano una loro via sul mio volto.
Quando infine riuscii a calmare il battito furioso del mio cuore, mi sentivo a pezzi, esausta e al limite della sopportazione. Lasciai che la manina della mia piccola si stringesse con forza inaspettata intorno al mio indice e trassi conforto da quel semplice e rassicurante gesto.
Non doveva essere passata neanche un'ora quando tornai a rivolgere la parola ad Alba, che era seduta a terra al centro della sua tenda, a poche iarde da me, con lo sguardo perso nel nulla.
«Puoi tenerla per qualche altra ora?»
«Vai pure».
Cercai la mente di Blödhgarm, ma non la trovai. Intercettai Däthedr, invece.
«Däthedr ti chiedo perdono per il mio comportamento».
«Non devi chiedermi perdono, Arya Dröttningu».

Mi passò per la mente il pensiero che il titolo Dröttningu non mi era più dovuto, ormai. Cercai di tenere per me quella considerazione, ma dovette filtrare anche nella mente dell'elfo.
«Il corpo di Islanzadi Dröttning è stato portato nella sua tenda, insieme all'uovo verde, se desideri renderle omaggio». Sentii il suo cordoglio penetrare insieme alle sua parole.
«Ti trovo lì?»
«No, sono nella mia tenda. Tra poco avrà inizio un consiglio con i comandanti del nostro esercito. Sei la benvenuta, se ti senti di venire».

Andai al consiglio. I capi dell'esercito stavano discutendo dei futuri movimenti degli elfi e anche della posizione da assumere riguardo al futuro sovrano degli uomini. Sicuramente avevano il diritto di sceglierlo da sé, ma gli elfi dovevano almeno dire la loro.
Stabilirono che l'avanguardia dell'esercito si sarebbe messa in marcia già dal mattino seguente. Le nostre armate marciavano in maniera scomposta per non inaridire il terreno, quindi un ritorno in gruppo nella Du Weldenvarden era da evitare.
Rimasi in silenzio per buona parte del tempo e mi feci avanti solo quando chiesero il mio parere sull'integrità morale e fisica di Nasuada, assicurando loro che era la sola candidata che avrei mai potuto proporre come futura regnante.
Tutti mi trattarono con rispetto e delicatezza, ricordandomi in continuazione ciò che era accaduto a mia madre. La sua stessa assenza sembrava palpabile in quella tenda.
Quando la riunione era ormai terminata, Eragon si mise in contatto con me per informarmi degli ultimi sviluppi e mi trasmise un dolce pensiero di cordoglio.
Non riuscii a ringraziarlo.
Prima di presentarmi alla seconda e ultima riunione della giornata, restai per lunghe ore al capezzale di mia madre.
Era stata distesa nella sua tenda e ripulita dalle fatiche della battaglia. Aveva indosso un vestito rosso, come bacche di agrifoglio, e le sarebbe stato d'incanto addosso, se solo le sue labbra non fossero diventate così pallide. Le ciglia serrate ombreggiavano gli zigomi alti e i capelli erano sciolti sotto di lei, lisci e neri come un mantello di seta.
Era bella come lo era stata fino a poche ore prima, ma non respirava, il suo viso non aveva colorito e il suo cuore non batteva. Era un guscio vuoto, privato di energia e della coscienza che aveva fatto di lei ciò che era.
Sfiora la fronte di Islanzadi. Era fresca, ma non ancora gelida. Poteva sembrare addormentata.
Däthedr mi raggiunse e, dietro mia richiesta, mi raccontò di come fosse avvenuta la dipartita di mia madre.
Fui invasa da una furia selvaggia quando venni a sapere che era dovuta a Lord Barst, lo stesso deplorevole individuo che era venuto nella mia cella a Gil'ead, mesi e mesi prima.
Era morto, e forse era meglio così. Perché se mi fossi nuovamente imbattuta nella sua faccia, squadrata come quella di un urgali, non avrei resistito alla tentazione di ucciderlo, con molta lentezza e poca pietà.
No. Dovevo smettere di lasciare che simili pensieri mi prendessero. Se avessi continuato su quella via, il desiderio di vendetta avrebbe ucciso ogni briciola della mia umanità, com'era successo con Durza e con Alba, prima che entrambi rinunciassero -per un motivo o l'altro- alle loro pretese.

L'elezione di Nasuada avvenne all'unanime, ma Orrin tirò fuori gli artigli, mostrando infine un certo desiderio di occupare il trono appartenuto a Galbatorix. Nasuada riuscì a moderare le sue richieste e a spuntarla, ma non mi sarei stupita se il re del Surda avesse avanzato nuove pretese, in futuro. Forse avrebbe proposto a Nasuada di sposarlo, come contratto politico, ma la donna avrebbe certamente rifiutato, sapendo bene che la presenza di un marito avrebbe ridotto drasticamente il suo potere. Forse un'unione tra i loro rispettivi figli avrebbe finito per riunificare i due regni, e forse sarebbe stata una saggia soluzione per evitare futuri scontri armati.
Quando finalmente mi trascinai fuori dalla torre ero esausta e non vedevo l'ora di coricarmi. E i miei compagni sembravano condividere il mio stesso desiderio perché ci congedammo rapidamente, con pochi saluti e auguri di una felice notte.
Tuttavia il mio riposo doveva attendere ancora qualche tempo, come capii non appena vidi Athala, in piedi davanti alla torre, con le due spade ancora alla cintura, gli abiti sporchi di sangue e uno stretto bendaggio sulla fronte. La giovane si dondolava ancora sulla punta dei piedi e mi rivolse un esitante cenno di saluto.
«Vuoi che ti accompagni alla tenda, Arya?» chiese Däthedr premurosamente.
«No, ti ringrazio. Prima di coricarmi vorrei parlare con un'amica e riferire alla Venerabile la decisione della nomina di Nasuada. Suppongo che ci vedremo domattina».
L'elfo annuì. «Pensavo di portare ad Ellesméra il corpo di Islanzadi dopo la nomina di Nasuada, se sei d'accordo».
«Sei tu il reggente», gli ricordai senza malizia, «ogni tua decisione è legge».
«Devi decidere tu, si tratta di tua madre».
«Sono pienamente d'accordo con te, purché si attenda il mio ritorno per la cerimonia di addio. Credo che io rimarrò qui per qualche altro giorno, per accordare le ultime cose con Nasuada in qualità di ambasciatrice».
«Certamente».
«Allora bella notte, Däthedr».
«Bella notte, Arya».
Mi avvicinai ad Athala, che alzò infine gli occhi nei miei, ma non resse lo sguardo per più di qualche istante.
«Hai combattuto bene?» le chiesi piano.
Fece un cenno di assenso. «La ferita è una sciocchezza» si affrettò a spiegare, non appena vide i miei occhi fissi sulla sua fronte.
«Vuoi che te la guarisca?»
«No, ambasciatrice».
«Dov'è Augyra?» chiesi, ricordando di avere incrociato la donna mentre mi avvicinavo alla torre in vista della riunione. Mi aveva rivolto un gesto interrogativo e io avevo risposto con un cenno di assenso, chiarendo di avere eseguito ciò che mi avevano chiesto.
«Lei non sa che sono qui» disse Cantalama in tono supplichevole. «E spero che mai lo saprà, non approverebbe».
«Allora cosa posso fare per te?» chiesi, sentendo nuovamente un dolore sordo martellarmi le tempie.
Non dormivo da tre notti e in quel breve lasso di tempo era successo di tutto e di più.
«Chi è stato nominato sovrano di queste terre?» domandò tutto d'un fiato, come se avesse messo tutto il suo coraggio in quella domanda.
«Nasuada» dissi, laconica.
Athala parve compiaciuta. «Era l'unica a meritare quel titolo, sarà una buona regina». Mi parve che la giovane fosse sul punto di aggiungere altro, ma si morse le labbra e tacque.
«Come mai questo interesse per il nuovo sovrano?»
«Perché sarò un suo suddito, dato che..» Si morse nuovamente le labbra. «Puoi mantenere un segreto?»
«Mi sono già impegnata a non parlare di Arcaena, direi che ormai sono uno scrigno di segreti».
La mia asprezza non le piacque e si ritirò in se stessa come una chiocciola spaventata.
Sospirai. «Perdonami, sono solo molto stanca. Puoi dirmi qualunque cosa e io la porterò con me nel vuoto». Anche se non capivo perché dovesse confidare qualcosa a me.
«Non voglio che lo porti con te nel.. vuoto» replicò con inaspettata energia. «Voglio che tu ne parli a qualcuno, non appena io non ci sarò più, voglio che tutti sappiano chi sono quando ormai non potranno più nuocermi. Così almeno la mia famiglia non cadrà totalmente nell'oblio».
«E perché io?»
«Perché tu vivrai per molti secoli e hai l'autorità per essere creduta».
Annuii. «Sta bene. Mi impegno a mantenere il segreto fino alla tua morte, a meno che non si riveli dannoso per il benessere delle razze di Alagaësia». Non giurai nell'antica lingua, ma la giovane sembrava soddisfatta.
La sentii inspirare profondamente, prima di parlare: «Io sono l'ultima erede dei Broddring».
Diamine! «Davvero?»
«Davvero. La mia bisnonna aveva il mio stesso nome, Athala, ed era la sorella minore del re Angrenost, colui che Galbatorix ha deposto. Il tiranno non poteva permettersi che la mia stirpe sopravvivesse, nessuno poteva minacciare il suo potere, ma lasciare dei Broddring in vita era comunque un rischio che non valeva la pena di correre, così ci diede la caccia e ci sterminò. Athala però si trovava a Teirm, a quel tempo, ed era in procinto di combinare un matrimonio con un nobile della città. Le dame che la accompagnavano furono abbastanza pronte da sostituire la principessa con un'altra bambina di dieci anni e due di loro fuggirono con lei dalla città, fino a Kuasta. Lì vissero in segreto fino a che la natura non fece il loro corso e morirono, ma la principessa era ormai diventata un'adulta e, ormai sull'orlo della vecchiaia, decise di accettare la proposta di un povero pescatore. Non lo amava, ma aveva avuto notizia della morte dei suoi parenti e aveva intenzione di proseguire la stirpe. Mise al mondo un solo figlio, Dietfried, e morì un pugno di anni dopo, non prima di averlo segretamente educato sulle sue origini. Dietfried imparò il mestiere di fabbro e sposò a sua volta una popolana, una lavandaia, ed ebbe da lei tre figli: Ehren, Kerta e Ragnol. Il maggiore morì molto giovane, Kerta, la secondogenita, morì dando alla luce suo figlio, mentre Ragnol sopravvisse. Sulle sue spalle cadeva l'oneroso compito di portare avanti la linea di sangue dei Broddring, ma il peso del compito lo rese paranoico e, temendo di essere stato scoperto, si rifugiò a Dras-Leona. Qui si unì ad una donna chiamata Volga, mia madre, e la sposò. Da quell'unione nacqui io e fino ai quindici anni di età vissi con i miei genitori, imparando da mio padre il mestiere di fabbro. Poi Ragnol morì di febbri durante il duro inverno che corse quell'anno e Volga, dopo tre anni di vedovanza, sposò un altro uomo, il mio patrigno. L'uomo che tu immagino abbia visto a Dras-Leona». Il tono della sua voce si fece duro. «Lui era un pazzo ubriacone e non appena mia madre si lasciò sfuggire qualche parola di troppo sul conto mio e di mio padre si spaventò a morte.. Lui la ammazzò di botte».
Per parecchi minuti non trovai le parole per esprimermi su quella frettolosa storia. «Il tuo racconto è incredibile», mi decisi infine, «e anche terribile».
Athala fece un sorriso. Era bella, quando sorrideva, il suo viso si illuminava tutto. «Devo sembrarti una pazza».
«No, non credo che nulla potrebbe più sembrarmi folle». Non dopo aver perso tutte le persone che amavo per colpa di un folle, non quando l'unica famiglia che mi era rimasta era la figlia di uno spettro che avevo amato profondamente.
«Non posso darti la certezza assoluto che ciò che ti dico sia vero, ma credo che se si cercasse nelle genealogie si troverebbe Athala, sorella minore di re Angrenost. Io porto il suo stesso nome, che dovrebbe significare “di stirpe nobile”, o qualcosa del genere» quasi si scusò.
Ricordai il giorno in cui la giovane mi aveva detto di non potermi confessare la sua vera identità. Quel giorno avevo pensato che io l'avevo nascosta tra i Varden per non mettermi in pericolo, e incredibilmente lei aveva fatto lo stesso.
«Posso verificare, se vuoi, ma non ci sarebbe nessun motivo, da parte dei tuoi antenati, di inventarsi una simile storia. E per cosa poi? Per rischiare di essere perseguitati e uccisi da Galbatorix? No, non credo. Per quanto incredibile, il tuo racconto mi sembra reale» la rassicurai. «Tuttavia mi chiedo il perché della tua scelta. Sono certa che Nasuada ti accoglierebbe nella sua corte se le rivelassi la tua identità, non cercherebbe certo di ucciderti se non avanzerai pretese al trono -e neanche in quel caso, credo- e potresti vivere una vita agiata dopo tutte le fatiche che hai attraversato».
Athala sorrise di nuovo. Il sorriso sereno di chi sa di aver trovato il suo posto nella vita. «Questo inverno raggiungerò i venti anni. Quindici di questi li ho passati sotto le pressioni di un padre che riusciva solo a pensare alla stirpe, al sangue, al diritto al trono e al regno. Altri tre sono trascorsi sotto la tristezza di mia madre, prima e sotto le botte del mio patrigno, poi. Alla fine è arrivata Augyra, e lei mi ha strappato da quella vita che mi stava soffocando. Non voglio il regno, non voglio la corte e non voglio il mio titolo. Forse sarebbe il mio posto, per diritto di sangue, ma io non sono come i miei antenati, io sono una persona nuova, io ho dei sentimenti e dei pensieri che vanno al di là delle voci dei morti. Se diventassi regina non ne sarei mai capace e ne odierei ogni istante. Non ho l'attitudine al comando, non mi so muovere nella politica, non sono abile nelle sottigliezze di linguaggio e di pensiero». Si fermò e guardò le prime stelle che sorgevano in cielo. «Augyra proseguirà la sua caccia ai Ra'zac. Dobbiamo perlustrare ancora Gil'ead e Ceuron e allora forse avremo finito. Questa vita non è forse quella che la mia bisnonna aveva prospettato per i Broddring, ma a me piace, mi fa sentire viva e parte di qualcosa più grande. Arcaena non risolverà i problemi dell'umanità, ma ci prova, muovendosi a piccoli passi, e io sono fiera di farne parte».
La capii perfettamente. I suoi pensieri erano i miei. Stava traducendo in parole tutto quello che avevo provato quando avevo deciso di diventare ambasciatrice degli elfi.
Sollevai un braccio e le strinsi il polso quando lei serrò il mio. «Capisco il tuo punto di vista e lo rispetto. Sei una donna di grande valore, Athala, nonostante tu ti nasconda dietro una maschera di timidezza».
Arrossì. «Sei troppo gentile».
«Quindi Augyra ti ha salvata dal tuo patrigno?»
«Circa.. diciamo che lui aveva parlato alle persone sbagliate delle mie origini e aveva attirato l'attenzione di alcuni soldati. Augyra mi aveva consigliato di andarmene prima che il dubbio si consolidasse e così ho fatto, la sera in cui sono andata a scioglierla dall'altare sotto il monte nero». Ridacchiò. «In quel caso si è rivelato utile essere un fabbro».
Sentii un sorriso affiorarmi alle labbra, insieme ad una strana tenerezza per quella ragazza così giovane, così provata dalla vita eppure così positiva.
«Terrò fede alla mia promessa» rinnovai. «Ovunque tu vada, ti auguro buona fortuna».
«Ti ringrazio infinitamente» disse, con un nuovo sorriso. «Addio! E che la buona sorte assista anche te, ambasciatrice».
Lasciò la mia mano e fece qualche passo. Poi si fermò, come se avesse ricordato qualcosa all'improvviso, e parlò: «So che avete perso la vostra regina. Mi dispiace».
La gola mi si serrò. «Già, è una grave perdita per noi elfi, ma la supereremo».
Lei non sapeva che Islanzadi era mia madre o le sue condoglianze sarebbero state probabilmente più sentite, ma in un certo senso preferivo così. Sarei stata circondata da espressioni contrite per parecchi mesi a seguire e non ero certa di volerle sopportare.
Poi mi sovvenne una nuova rivelazione: ero viva.
Fäolin, Glenwing, Durza, Ajihad, Oromis, Glaedr, Wyrden, Galbatorix e mia madre erano morti. Ma io no. E nemmeno la mia piccola, la creaturina di pochi giorni che univa in sé il sangue di un'elfa e di uno spettro, che chiunque avrebbe temuto e disprezzato, se si fosse conosciuta la sua identità.
La guerra era finita e io potevo tornare a casa. Non con l'amarezza che mi aveva accompagnata dopo la battaglia del Farthen Dur, ma con la malinconia delle perdite che avevo subito e la lieve gioia di un futuro.
Casa. Persino quella parola sembrava dolce-amara.
Casa non è il posto dove viviamo, dove siamo nati noi o i nostri antenati, dove sono seppelliti i nostri morti, o dove troviamo successo e ricchezze. Casa è il luogo dove sono le persone per cui varrebbe la pena di vivere. E morire.
E io sarei stata a casa con mia figlia, come lo ero stata con Durza. Lei era lui, me, noi. Era la prova che si può risorgere dalle ceneri e sperare sempre in qualcosa, anche quando tutto sembra scivolare tra le dita. Era la mia famiglia, la mia piccola famiglia.
Forse guardandola crescere avrei recuperato la mia serenità.
Con questi pensieri rassicuranti, mi diressi verso la tenda di Alba e le chiesi ospitalità per la notte. Ma a dispetto di ciò che avevo appena constatato, i morti non mi abbandonarono nemmeno per concedermi un sonno sereno.
La mia notte fu funestata dagli incubi e addolcita dal pianto della mia bambina.

Non vidi più né Cantalama né Occhi di Lupo. Non sapevo se fossero alloggiate da qualche parte in città o se fossero già partite in direzione di Gil'ead, ma mi sembrava che con la loro scomparsa si fosse chiusa una grande fase della mia vita.
Tre giorni dopo la sconfitta di Galbatorix, Nasuada fu ufficialmente incoronata regina di.. dell'Impero? Più che un impero era ormai un regno, dato che una buona fetta era passata ad Orrin e la figlia di Ajihad non era intenzionata ad usare nessuna terminologia che rimandasse al secolo buio di Galbatorix.
Nasuada mi parlò della sua intenzione di sottomettere i maghi dell'intero regno. Capivo il suo timore e la sua incertezza al riguardo, ma ero altrettanto certa che non sarebbe mai riuscita ad applicare un controllo effettivo su tutti coloro che praticavano la magia.
Il giorno dopo la sua incoronazione, Däthedr condusse nuovamente gli elfi nella Du Weldenvarden. Portavano con sé i corpi di molti morti, compreso quello di mia madre.
            Il giorno seguente partirono anche Eragon e Saphira, ma io non ero certamente sola, dato che passavo buona parte della mia giornata con la mia bambina tra le braccia, affidandola ad Alba quando qualcosa di impellente richiedeva la mia presenza.
L'elfa era alloggiata con me in una stanza di un'ex caserma e continuava a lamentarsi dei continui piagnistei notturni di mia figlia, ma se fossi riuscita a farle un Fairth mentre guardava la bambina, avrei potuto ricattarla a vita. Non andavamo propriamente d'accordo e ci scambiavamo sì e no una decina di parole al giorno, ma qualcosa era cambiato dal momento in cui mi aveva praticamente consolata per la perdita di mia madre e aveva confessato di non volermi affatto uccidere.
            Non avevo intenzione di trattenermi più del necessario ad Ilirea, ma prima volevo assicurarmi che Blödhgarm e gli altri elfi fossero in grado di gestire gli Eldunarí che erano stati costretti a servire Galbatorix, poi volevo accordarmi con Nasuada circa il destino dell'ultimo uovo di drago, quello verde.
Il giorno che mi presentai al suo cospetto, nel ricco palazzo che aveva assunto come momentanea residenza, mi trovai di fronte ad una donna forte che celava negli occhi un'ombra scura di sofferenza sopita. Chissà se anche lei si svegliava in piena notte, zuppa di sudore gelido, con la sensazione dei ferri roventi sulla pelle. Avevo avuto quel genere di incubi, quando Durza mi torturava.
La figlia di Ajihad mi concesse senza storie di portare con me l'uovo, assicurandomi che gli elfi sarebbero stati ripagati per il loro aiuto non appena i tesori sepolti sotto il palazzo di Galbatorix fossero stati portati alla luce.
«Il vostro reggente aveva una gran fretta di andarsene» mi disse, un po' incerta.
«Lord Däthedr non aveva intenzione di offenderti» le assicurai. «Il mio popolo ha solo fretta di allontanarsi dal sangue e dalla sofferenza. Se devi trattare qualcosa con noi puoi rivolgerti a me, sono ancora l'ambasciatrice».
La regina parve rasserenarsi. «Mi avete già dimostrato la vostra amicizia quando mi avete sostenuta nella mia candidatura alla corona, e per ora non chiedo altro che essa sia forte e duratura».
«Lo sarà».
«Lasciateci» mormorò, rivolgendosi ai Falchineri in piedi intorno e dietro al suo modesto trono.
Loro eseguirono e Nasuada si alzò per venirmi incontro. Era ancora ben visibile la sua magrezza eccessiva, diretta conseguenza dei giorni di prigionia sotto le grinfie di Galbatorix. Le ferite erano state curate e le cicatrici cancellate da Trianna in persona, anche se mi aveva detto che la donna aveva voluto a tutti i costi mantenere quelle della prova dei lunghi coltelli.
«Come ti senti?» le chiesi automaticamente, prima di potermi fermare. Era ovvio che non stava ancora bene e che avrebbe impiegato mesi per tornare in piena forma, com'era ovvio che, per orgoglio, mi avrebbe detto che tutto andava alla perfezione.
«Vorrei che tu mantenessi per te ciò che hai sentito fuori dal palazzo di Galbatorix» disse invece. «Ciò che è accaduto tra me e Murtagh è qualcosa di strettamente personale e sarebbe meglio che non si sapesse in giro. Murtagh è malvisto da molti uomini e io non posso e non voglio mettere in pericolo la mia posizione».
«Puoi fidarti di me».
Forse si aspettava un rimprovero, o almeno delle domande, perché parve sorpresa alla mia pronta risposta.
«I cavalieri sono immortali, non è vero?» chiese infine, retoricamente.
«Sì» le dissi comunque.
Le tremò il mento. «Non tornerà mai più, non è vero?»
Esitai. «Ha subito violenze inimmaginabili. Più di quante ne abbia dovute subire Eragon o io o te. E inoltre la gente è lenta a dimenticare. Non posso dirti se Murtagh manterrà la sua promessa, Nasuada, ma temo che non lo vedrai tornare prima di un decennio».
«Non sono una debole», si affrettò a giustificarsi, «non lascerò che una sciocchezza come l'amore annebbi il mio giudizio e metta a rischio ciò che ho conquistato. Credo di poter essere una buona regina e so che per esercitare questo mio ruolo non potrei mai e poi mai sperare in un'unione con Murtagh».
«Non ufficiale, almeno».
Nasuada mi parve un poco scandalizzata dal mio commento, ma poi lo sconvolgimento lasciò spazio a nuovo dolore. «Io non mi sposerò mai, Arya. Mai. Forse mi priverò delle gioie che ogni donna anela, ma non voglio essere come tutte le altre. Ci sono avventure molto più grandi di quella di sposarsi e avere figli e io sarò sempre e prima di tutto una regina».
«Questa è una scelta che ti fa onore, ma fossi in te non sarei così precipitosa. Sei ancora molto giovane».
I suoi occhi scurissimi si socchiusero. «A volte ti invidio. Te e ogni altro elfo. Voi avete davanti l'eternità, a me sembra di avere così poco tempo a disposizione per realizzare tutto ciò che ho in mente. Io posso vivere una vita sola, con un'unica direzione, mentre voi avete anni e anni per potervi reinventare un'infinità di volte».
«Chi vive di più ha più tempo per soffrire» osservai.
«E più tempo per dimenticare».
Le regalai un cenno ammirato. «Hai ragione, ma sono sicura che riuscirai a fare grandi cose nei pochi anni che ti restano da vivere».
«E tu? Cosa farai una volta tornata ad Ellesméra?»
«Vorrei continuare a fare da tramite tra i due popoli, ma non è escluso che io mi prenda qualche anno di riposo. Sono settant'anni che corro incessantemente da un angolo all'altro di Alagaësia e credo di volermi fermare, per un decennio o due».
Così da crescere mia figlia adeguatamente, magari.
Aggrottò la fronte. «Mi piacerebbe che tu mi confidassi ciò che mi nascondi da mesi, prima o poi».
«Forse un giorno lo farò».
«Allora spero che il nostro prossimo incontro avvenga molto presto. Parti pure quando vuoi. E porta alla tua gente i miei ringraziamenti e i miei omaggi».
«Sarà fatto».
«Che le stelle ti proteggano, Arya» disse, ricordandomi all'improvviso che ero stata proprio io ad insegnarle le formule di saluto del mio popolo.
«Lo stesso per te».
            Riferii a Blödhgarm la mia intenzione di dirigermi a mia volta verso la Du Weldenvarden, poi andai alla ricerca di Angela, per salutarla. L'incontro finì per durare almeno un'ora, perché la Venerabile insistette affinché le raccontassi le mie disavventure tra i Sacerdoti.
Lo feci, ma mi concentra molto sugli aspetti della dottrina che avevo imparato da Gagnsamr e poco sulle persone che avevo conosciuto. Cercai di parlare il meno possibile di Durza e non accennai proprio ad Athala ed Augyra. Fui sul punto di chiederle se fosse un Inarë e nel caso di una risposta affermativa, cosa fosse. Ma poi mi dissi che avrei solo rischiato di mettere in pericolo Augyra e Arcaena, anche se l'erborista sembrava conoscere bene la setta, dato che aveva detto di conoscere il suo più eminente scrittore -che doveva essere Eslant. Mi fidavo del giudizio di Angela, ma temevo anche la sua ira, quindi mi cucii la bocca.
«Buon viaggio Arya! Fai la brava e non invischiarti in cose che preferiresti non fare».
«D'accordo» replicai, incerta. «Buona permanenza ad Ilirea».
«Le hai dato un nome, alla fine?» domandò scuotendo la selva di ricci.
«Non ancora, ma un giorno te la presenterò come si deve» promisi.
«Perfetto! A presto allora! Ah e salutami Alba, era molto allegra quando è venuta a trovarmi, ieri sera».
            Tornai alla stanza che mi era stata assegnata, nella vecchia caserma dei soldati imperiali.
«Sei pronta a partire, principessina?» fece Alba, con il suo solito tono annoiato.
Non so chi dei due avesse trasmesso l'abitudine all'altro, ma era un modo di parlare che aveva in comune con Durza.
«Partirò domattina. Ho chiesto a Däthedr di lasciarmi due cavalli elfici nelle scuderie» dissi, poi rimasi in silenzio, aspettando che l'elfa assimilasse l'informazione.
«Due» ripeté dopo un po'. «Ma la tua bambina non sa ancora andare a cavallo, che io sappia».
«Mia madre è morta e con lei il tuo esilio. So che hai covato rancore nei confronti degli elfi per decenni, ma in realtà nessuno di loro -a parte il Consiglio- è al corrente di ciò che hai tentato di fare. So che i membri del Consiglio avrebbero preferito una soluzione meno estrema per te e sono sicura che se tornassi non ti scaccerebbero, non dopo tutte le perdite che abbiamo subito in questa guerra».
Pensavo ad una simile soluzione dal giorno seguente alla sconfitta di Galbatorix. Oramai mi sentivo in debito profondo con Alba e anche ancora un poco in colpa per il trattamento che la mia defunta madre le aveva riservato. Ogni suo passato tentativo di farmi del male era dimenticato.
Tuttavia Alba non sembrava entusiasta dell'idea. «Mi stai parlando di “se” e “forse”. Non voglio rischiare assolutamente che si replichi ciò che mi è già accaduto in passato, quindi capirai che non posso accettare la tua proposta, non finché non avrò la certezza che non mi sarà fatto alcun male». Mi guardò di sbieco. «Io e te non siamo amiche, lo sai, vero?»
Accennai un mezzo sorriso. «Lo so bene di non piacerti. Ma da ciò che mi hai detto mi pare di capire che non ti disgusti l'idea di tornare ad Ellesméra».
«No» confessò, pettinandosi i capelli biondi tra le dita e cominciando ad acconciarli sulla testa. «Ma prima di tutto voglio tornare a far visita a Tenga, poi se mi dirai che posso tornare in tutta sicurezza, potrei anche pensare di raggiungerti ad Ellesméra». Alzò gli occhi su di me. «Immagino che diventerai regina».
«Alba io non diventerò regina, non voglio» spiegai, al limite della pazienza. Perché tutti sembravano tanto ansiosi di darmi il titolo che era appartenuto ad entrambi i miei genitori?
Si strinse nelle spalle. «Come vuoi tu. Pensi di riuscire a metterti in contatto con me?»
«Parlerò con Däthedr e gli chiederò di sottoporre la tua questione al Consiglio. Quando avranno emesso il loro verdetto ti manderò un messaggio con una barchetta d'erba».
«Ma davvero?» mi sfotté con una smorfia.
«Sono molto brava» mi difesi scherzosamente.
«Non ne dubito. Come farai con la bambina?» chiese annuendo nella direzione della piccola.
«Non la nasconderò, ma credo che continuerò a mentire. Dirò che mi occupo di lei, ma che non sono sua madre. Il racconto delle sue origini sarebbe troppo complicato e potrebbe costarle il futuro».
Alba legò l'estremità della treccia con un legaccio. «Sarà dura mentire dovendo parlare nell'antica lingua».
«Me la caverò».
«Il secondo cavallo elfico.. Posso usarlo?» I suoi occhi scintillarono. «Non ne cavalco uno da decenni».
Le feci cenno di accomodarsi. «È rimasto qui solo per te. Lo riporterai nella sua patria quando verrai ad Ellesméra».
«Allora sbrigati a mandarmi la tua fantomatica barchetta, Principessina». Rise.
Mi chinai su mia figlia e la strinsi a me. «Buon viaggio!»
«Aspetta, ho un regalo per te» mi bloccò, rovistando sotto al pagliericcio. Mi porse uno strano insieme di stecche di legno e pelle, poi lo aprì e capii finalmente di cosa si trattasse.
«Uno zaino per la bambina?»
«Così la porterai più comodamente. Gli umani sono geniali in queste cose».
«Grazie».
«Non voglio più nemmeno questa» bofonchiò sfilandosi la collana di Durza.
La riaccolsi con gioia e indossai addirittura l'anello di ametiste, che da mesi non mi cingeva più l'indice sinistro. «È bello riaverla».
«E trova un nome a quella marmocchia o lo farò io al posto tuo!»

Partii il mattino seguente, quando il sole non era ancora sorto e Aiedail brillava nel cielo. Avevo lasciato a Nasuada una lettera da consegnare ad Eragon e poi avevo deposto l'uovo verde in una bisaccia di pelle che mi ero messa a tracolla. Come facevo un tempo con quello di Saphira.
Speravo che il Cavaliere non considerasse presuntuosa la scelta di prendere con me l'uovo, ma ritenevo che il mio popolo avesse diritto al primo tentativo.
Usai lo zaino di Alba per trasportare la mia bimba e mi premurai di avvolgerla bene in coperte imbottite. L'inverno era alle porte e il freddo cominciava a calare. Entro un mese le prime nevi avrebbero coperto le regioni settentrionali di Alagaësia.
A quasi un anno dalla mia cattura da parte di Durza, la mia vita era totalmente rivoluzionata, ma ancora non era finita.
Era il tramonto del dodicesimo giorno di viaggio quando, dopo essermi occupata di mia figlia, misi sulle ginocchia l'uovo verde -come facevo ogni giorno- e lo sfiorai con la malinconia, saggiandone la superficie liscia sotto i polpastrelli.
L'intento era quello di rilassarmi un poco in vista della nottata che mi attendeva: gli incubi non mi avevano ancora abbandonata e spesso la piccola si svegliava nel bel mezzo della notte.
Quando l'uovo iniziò a tremare non riuscii a credere a ciò a cui stavo assistendo. Lo posai a terra, sbigottita, fino a che il tremito non divenne convulso, la superficie piana fu solcata da crepe e una testa serpentina emerse dai frammenti.



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Saaalve! Sono in ritardissimo, lo so! >_<
Ma almeno consolatevi con un capitolo un bel po' più lungo del solito ;)
D'ora in poi se avrò un imprevisto scriverò qualcosa in fondo all'ultimo capitolo pubblicato, quindi se domenica dovessi tardare a pubblicare il prossimo capitolo aggiungerò una scritta qui sotto!
Per quello di oggi non so esattamente che dirvi.. Ho dato la mia interpretazione di Occhi di lupo e Cantalama e capisco benissimo che può non piacere (Chissà cosa aveva in mente Paolini!) ma a me non dispiace così ^_^
Vi saluto e ci vediamo spero domenica!
Baci, baci,
Lalli

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Capitolo 39
*** La Regina e l'Elfa Nera ***


Ciao
39. La Regina e l'Elfa nera

La creaturina sputacchiò e si scrollò con un movimento vagamente simile a quello di un cane bagnato. Poi i suoi occhietti si fissarono nei miei, teneri e sicuri. Erano di un colore bellissimo e intenso, che ricordava vagamente quello dell'ambra, ma un poco più chiaro.
Incantata e sopraffatta dallo stupore, allungai automaticamente la mano sinistra nella sua direzione e il draghetto abbassò il capo, permettendomi di posarla sulla sua testa.
Una scarica elettrica mi percorse tutta, provocandomi dolore e profonda gioia allo stesso tempo.
Annaspai un poco e i miei occhi caddero sul mio palmo, dove un ovale argentato risplendeva brillante nella luce soffusa della sera.
Era accaduto tutto così in fretta che mi ritrovai a fissare le sue squame verdi con un'espressione che doveva incarnare la più pura stupidità.
I resti dell'uovo giacevano a terra e la creatura che aveva celato si muoveva incerta accanto al mio ginocchio.
L'uovo si era schiuso.
Io, cavaliere di drago.
Vidi la piccola coda del drago falciare l'erba e mi resi improvvisamente conto che mia figlia era adagiata a terra lì accanto. Proiettai il mio allarme all'esterno, con un grido mentale talmente potente che il draghetto schizzò via di qualche iarda e si accucciò a terra, spaventato a morte.
Mi accucciai vicino alla mia piccola e gettai un'occhiata guardinga al drago. Non aveva avuto intenzione di attaccarla per nutrirsi, vero?
Allungai un tentacolo mentale e percepii il suo spavento e la sua incertezza. Sembrava si stesse pentendo di avermi scelto come sua compagna, dopo la violenza con cui l'avevo respinto.
Il mondo gli era nuovo e si sentiva indifeso e affamato, ma mai e poi mai avrebbe osato attaccare mia figlia, dal momento che ormai sapeva quanto la sua vita significasse per me.
Era un cucciolo. E aveva paura del mondo e della vita quanta ne aveva avuta la mia creatura prima che io la stringessi al petto per la prima volta.
Gli trasmisi pensieri rassicuranti e, intenerita, lo raccolsi tra le braccia, accarezzandolo come avrei fatto con un gatto. Emise un mugolio che effettivamente ricordava delle fusa, i suoi muscoli si sciolsero e il suo spavento si dissipò, subito sostituito da una gioia vivace.

Due settimane dopo arrivai ad Ellesméra di notte, come una ladra.
La mia piccolina aveva più di un mese, aveva perso da tempo il laccio che l'aveva tenuta legata a me ed era cresciuta. A quel punto i suoi occhietti erano bene aperti, però mantenevano ancora i colori diversi. Erano un poco grottesche le sue iridi così colorate, ma quando la vedevo seguire con gli occhi i tratti del mio viso, riconoscerli e poi rivolgermi un sorriso sdentato, sentivo sciogliersi dentro di me un nodo che troppo spesso si formava all'altezza dello stomaco.
Persino i capelli rossi si erano un poco infoltiti ed era ormai chiaro che sarebbero diventati dello stesso colore di quelli di Durza, così come la sua pelle.
La bimba gorgogliava in mia presenza, si attaccava volentieri al mio seno e piangeva un'infinità di volte al giorno. Era la mia salvezza e io la adoravo e la amavo come non avevo mai amato niente e nessuno.
Anche il draghetto era già cresciuto dopo quelle poche settimane di vita. Ero stata costretta a cacciare un cervo per dargli della carne di cui nutrirsi ma confidavo che prima o poi sarebbe stato in grado di procurarsi il cibo da solo.
Era di un verde brillante, che si sarebbe facilmente confuso con il colore della foresta in primavera e i suoi occhi vivaci e insieme indomiti mantenevano il liquido colore ambrato. Aveva un carattere particolare, timido e giocherellone insieme e i pensieri che mi trasmetteva erano sempre di gioia e di stupore. Nonostante fosse nato dopo mia figlia, era già parecchi passi davanti a lei nello sviluppo.
Inutile dire che non lo lasciavo avvicinarsi a lei, non troppo perlomeno. Ero un po' troppo apprensiva nei confronti del mio sangue, ma mi proponevo di migliorare quella mia chiusura in futuro.
La notte che arrivai nella mia città natale, il cucciolo -che era un maschio- aveva già il suo nome: Fírnen.
Avevo passato un'intera mattinata a cullare la mia bambina tra le braccia e a sfilare una lista infinita di nomi, tutti quelli che mi venivano in mente tra quelli che avevo sentito da quando ero venuta al mondo. Aveva rifiutato Fäolin, Glenwing ed Evandar, per mio lieve disappunto, accettando infine il nome appartenuto ad un mio vecchio precettore. Era colui che mi aveva dato approfondite lezioni sulla storia dei draghi e dei loro cavalieri, quando ero ancora una bambina. Avevo saputo da Däthedr che aveva perso la vita a Gil'ead, ma, nonostante avessi un gradevole ricordo di lui, non avrei mai sospettato che il mio drago potesse affezionarsi al suo nome al punto da decidere di adottarlo come suo.
Non mi fermai in città quella notte. Invitai il mio cavallo a compiere un ultimo sforzo e lui mi assecondò docilmente. Doveva essere la seconda ora del mattino quando giunsi alla rupe di Tel'naeír e aprii la porta del capanno di legno di Oromis.
Inspirai l'odore di legno e resina, mischiato a quello di abbandono, poi raggiunsi il giaciglio che era stato del saggio dolente e mi coprii con le coperte che mi avevano accompagnata nel mio viaggio, stringendo mia figlia tra la braccia e sentendo Fírnen accoccolarsi ai miei piedi.
A un anno dalla mia cattura e dalla morte di Glenwing e Fäolin, sognai l'ultimo sguardo che mi aveva lanciato Durza, subito prima di morire. Al mio risveglio, avevo gli zigomi bagnati di lacrime
            Quando il mattino seguente Däthedr si presentò alla rupe e mi vide, con una bimba in braccio e un draghetto sulle spalle, al povero elfo per poco non venne un accidente.
Decisi di partire dal racconto della schiusa di Fírnen, perché nonostante tutto era la storia più facile da raccontare, poi passai a mia figlia. Restai sul vago: mi limitai a dire che era una mezz'elfa, che aveva sangue umano nelle vene e che mi stavo occupando di lei. Avevo modificato il suo aspetto e la sua pelle era ambrata e i suoi occhi azzurri.
Come quelli di Alba.
E fu proprio lei l'argomento successivo che sottoposi al mio amico, prima che potesse insistere ulteriormente sulle origini della bambina. Gli parlai dell'elfa che mia madre aveva esiliato e gli dissi di averla incontrata ad Ilirea pochi giorni prima della mia partenza dalla capitale degli uomini. Riferii che chiedeva di essere reintegrata nella nostra società e che era pentita di ciò che aveva fatto.
Däthedr mi ascoltò con molta attenzione e mi promise di proporre la questione al Consiglio il più presto possibile. Era ovvio che ricordava l'esistenza di Alba e che la questione era rimasta pesante sul suo cuore per tutti quei decenni.
Confidavo che nel giro di una settimana Alba avrebbe avuto il permesso di entrare nuovamente nella Du Weldenvarden, con probabili e dovuti limiti e precauzioni del caso.
Ma per il momento faticavo a capire chi, tra Fírnen e mia figlia, sconvolgesse di più il reggente degli elfi.
            Quello stesso pomeriggio avvenne la cerimonia di addio a Islanzadi.
Lasciai Fírnen al capanno di Oromis perché non attirasse troppi sguardi curiosi, ma già la presenza della mia piccola, adagiata sulla mia schiena nello zaino che mi aveva regalato Alba, era un ottimo elemento di distrazione. Un neonato non passava certamente inosservato ad Ellesméra, specialmente se sulle spalle dell'ambasciatrice, notoriamente non accompagnata e ancora più notoriamente impegnata nella battaglia contro Galbatorix fino a poche settimane prima.
Ringraziai mentalmente l'abituale discrezione del mio popolo e l'affetto profondo che in qualche modo li aveva legati alla loro defunta regina, che in quel momento occupava pienamente i loro pensieri.
La cerimonia durò parecchie ore, ma io mi allontanai ben prima. Era stata scavata una buca rotonda non troppo lontano dall'acacia che era stata piantata per Evandar, ai tempi della battaglia di Ilirea, e lì fu deposto il corpo senza vita di mia madre, ancora perfettamente conservato grazie alla magia di Däthedr.
Mi chinai su di lei e, portando le dita alle labbra, pronunciai parole d'addio, a voce sufficiente alta perché tutto il nutrito gruppo di elfi intorno a me potesse sentire.
Questa è mia figlia, madre. Aggiunsi nei miei pensieri. Nelle sue vene scorre il sangue di Evandar e del suo assassino e sono sicura che l'avresti amata con tutto il cuore. E sono cavaliere, adesso. Mi prenderò cura della nostra gente, come hai sempre fatto tu.
Ero la parente più stretta di Islanzadi, così fui io a scegliere che albero fare sorgere sui suoi resti, dopo che Däthedr ebbe annullato l'incantesimo che li preservava.
Così un salice piangente affiancò l'acacia e i rami dei due alberi si sfiorarono in una eterna carezza, la cui vista mi fece lacrimare nostalgicamente gli occhi.
Non pronunciai alcun discorso e non cantai alcuna canzone in memoria di mia madre. Non ero riuscita a dare voce al mio dolore e in fondo non mi sentivo degna di cantare la sua scomparsa, quando avevo goduto così poco della sua presenza, quando ancora viveva.
Lasciai ad altri il compito. Däthedr recitò una poesia che mi strinse il cuore dal dolore e anche la breve canzone di Rhunön -cantata con la sua voce roca- colpì duramente la mia coscienza ferita.
Poi la mia bambina si mise a piangere sonoramente nel bel mezzo dei dolci suoni della cerimonia e io mi allontanai cullandola gentilmente, per non disturbare ulteriormente la celebrazione.
Ascoltai il resto da lontano, dondolando pigramente le gambe dall'alto ramo di un albero e chiedendomi se per caso non dovessi dare a mia figlia il nome che un tempo era appartenuto a mia madre.
Mi risposi immediatamente: era meglio di no, o a quel punto sarebbe stato ovvio che era una creatura mia.
Alla fine tornai alla pacifica solitudine della Rupe di Tel'naeír e lasciai che la gaia coscienza di Fírnen mi circondasse come in un abbraccio.
Ero un'elfa adulta che trovava consolazione solo nella presenza di due cuccioli. L'idea mi faceva sorridere.

Cinque giorni dopo Däthedr si inerpicò fino alla Rupe per informarmi che il Consiglio avrebbe accettato il rientro di Aiedail solo se qualcuno si fosse preso il compito di tenerla d'occhio, almeno per qualche mese.
«Ho detto loro che sei già abbastanza occupata a crescere il tuo drago e a prenderti cura di una neonata, ma dato che sei stata tu a sostenere la sua causa hanno insistito perché sia tu a controllarla. Potrebbe farlo qualunque membro del Consiglio ma per le prossime settimane saremo impegnati per trovare il nuovo candidato al trono nodoso e non credo che riusciremo a permetterci distrazioni. Te la senti, almeno per un po'? In caso contrario potrei trovare qualcun altro che si assuma la responsabilità..»
«Non è di alcun disturbo» lo interruppi. «Potrà restare qui con me».
«E a tal proposito vorrei chiederti quanto a lungo hai intenzione di mantenere il tuo isolamento. Gli elfi hanno perso molto in questi ultimi scontri, ma nessuno ha perso tanto quanto te, e lo capisco perfettamente. Tuttavia la solitudine potrebbe finire per danneggiarti».
«Non devi preoccuparti per me, Däthedr. Ormai il ruolo di ambasciatore è passato a Vanir e io non devo più traghettare l'uovo verde, dato che ormai è schiuso. Mi piacerebbe restare qui e prendermi cura di Fírnen per un po', tutto qui. I fatti di Ilirea mi hanno sfinita e ho bisogno di un po' di riposo».
L'elfo parve sul punto di dirmi qualcosa, ma poi cambiò palesemente soggetto. «Se non sono troppo indiscreto vorrei chiederti cosa farai con la bambina che tieni con te».
«Ho promesso a qualcuno che l'avrei cresciuta con tutto il mio impegno e ho intenzione di mantenere la mia promessa». Certo che l'avevo promesso. A me stessa, e anche a lei.
Däthedr decise di non insistere, ma indugiò qualche istante sul volto paffuto della piccola. «Mi piacerebbe moltissimo avere un figlio» sospirò. «Ti lascio al tuo meritato riposo, Arya Dröttningu».
In quell'occasione l'errore fu palese e il mio amico si affrettò a fare un gesto di scuse, che ricacciai con un lieve sorriso che voleva essere noncurante.
«Manderò un messaggio ad Aiedail» lo informai.
E lo feci. La barchetta lasciò le mie mani non più di mezz'ora dopo e Alba giunse ad Ellesméra in due settimane. Non potei fare a meno di notare che, vista la rapidità con cui era arrivata, doveva essersi da tempo messa in viaggio in direzione della Du Weldenvarden.
Gilderien il Saggio era già stato informato del suo arrivo e le concesse facilmente il passo. E finalmente vidi Alba nella sua vera forma, anche se lei sembrava essere un po' a disagio nei panni di un'elfa. La sua altezza era invariata e rimaneva un poco più bassa di me, ma i capelli erano più chiari, del biondo lucente della mia razza e celavano malamente grandi orecchie a punta. Il più grande cambiamento era tuttavia nei tratti del volto: gli occhi rotondi erano obliqui, e il viso un tempo pieno più scavato e allungato.
Non ricevette propriamente una festosa accoglienza. I membri del Consiglio vollero riceverla immediatamente e la costrinsero a giurare nella nostra lingua che non avrebbe più tentato di compiere le nefandezze del passato.
Feci una smorfia nell'udire quell'ultimatum. Non disapprovavo totalmente la loro previdenza, ma se mi avessero avvisata in anticipo, avrei potuto comunicarlo alla diretta interessata prima che facesse il suo ingresso nella capitale.
Alba non disse nulla, ma la sua espressione era tormentata. «Non proverò mai più a resuscitare Solus» disse serenamente, e persino uno stupido avrebbe capito quanto le stava costando pronunciare quelle parole.
Non appena le mostrai il capanno di Oromis mi disse immediatamente che non avrebbe dormito in quella -parole sue- “topaia” e così le offrii la piccola dimora dove mi ero rifugiata per qualche tempo dopo la rottura con mia madre.
«Hai delle orribili occhiaie violette» mi disse, al posto di ringraziarmi. E, un po' per vendetta, un po' perché prima o poi avrei dovuto avvisarla della sua presenza, indussi Fírnen a saltarle alle spalle, spaventandola a morte.
Volle sapere da dove avessi pescato un drago e il racconto la lasciò a bocca spalancata. Ma poi si affrettò a dirmi che in fondo c'era da aspettarselo, vista la mia infelice abitudine di buttarmi a capofitto in azioni suicide pur di salvare gli altri.
«Il tuo drago ha pessimo gusto in fatto di persone, ma sarai un buon cavaliere».
E sapevo che detto da lei era un grande complimento.
Alba ebbe a sua volta la sua vendetta non appena venne a sapere che mia figlia non aveva ancora un nome. Inizialmente cominciò a chiamarla con il nome di Islanzadi, ma smise non appena la supplicai -in lacrime- di non farlo. A quel punto le affibbiò il nome che era appartenuto a lei: Aiedail, minacciando di continuare ad usarlo fino a che non mi fossi data una mossa a trovare qualcosa di meglio.
Sentendola rivolgersi continuamente alla piccola con quel nome, finii per farlo anche io, a più riprese, accettando infine quella soluzione temporanea.
«È provvisorio!» specificai, con l'intento di cancellare il ghigno sfottente dalle labbra di lei.
Passarono così una decina di giorni. Io vivevo nel capanno, giocavo con Fírnen e bevevo la sua allegria come fosse Faelnirv, crescevo la mia bambina e ricevevo regolari visite da Alba.
Le brutte fantasie della mia mente si erano un poco placate. Facevo ancora sogni orribili di morte e di morti, ma erano meno nitidi. Qualche volta vedevo ancora macchie di sangue nei posti più impensabili, ma mi bastava strizzare gli occhi per dissipare la visione.
Venne la neve e in pochi giorni ricoprì Ellesméra di uno spesso strato candido. Fírnen esitò a lungo prima di osare uscire dal capanno, ma alla fine lo fece e un pugno di muti dopo si stava rotolando spensieratamente in quel candore, trasmettendomi ondate di gioia così profonda che scoppiai a ridere. Reggendo la mia piccola tra le braccia, uscii a mia volta, non prima di averle coperto la testolina con un cappuccio di lana.
I fiocchi di neve volteggiavano lenti nei suoi occhi spalancati. Agitò le braccia e aprì e chiuse debolmente le piccole mani, cercando di afferrarli e sbuffando stupita quando questi si scioglievano a contatto con la sua pelle.
La solitudine, l'aria fresca dell'inverno, la prima neve di Fírnen e di mia figlia.. Sentivo calare su di me una pace pacata che probabilmente non avevo mai sentito in tutta la mia vita.

Poi un giorno arrivò Däthedr, accompagnato dagli altri anziani, e l'idillio si ruppe.
Con molte premesse e molti giri di parole, mi fece capire che la scelta degli anziani del Consiglio per il nuovo regnante era caduta su di me.
«Non voglio» dissi subito, più seccamente di quanto avessi intenzione.
Non volevo diventare la sovrana degli elfi. Era un ruolo che mi avrebbe assorbita completamente per decenni e decenni e per di più sentivo che non mi sarei mai trovata a mio agio in un simile status. Un po' come aveva detto Athala, preferivo lasciare il compito ad altri più capaci e decisamente più entusiasti di me.
Ma Däthedr e gli altri non si lasciarono abbattere dalle mie parole.
Tornarono ogni giorno per una settimana, riempiendomi la testa di suppliche e incoraggiamenti.
Finalmente capivo perché Däthedr mi era sembrato tanto preoccupato per il mio isolamento: mia madre aveva lasciato indicato me come suo successore. E il Consiglio non aveva trovato nulla in contrario alla mia candidatura.
Era vero che la mia casata era al potere da parecchi secoli, ma era anche vero che si erano sempre dimostrati buoni regnanti, motivo per cui altre casate potenti e antiche avevano facilmente rinunciato alle loro pretese sul trono nodoso.
Però non si trattava solo della sgradita eredità lasciatami da mia madre. A quanto pareva ero la candidata perfetta sotto molti punti di vista: la mia gente mi conosceva, conosceva il mio nome, conosceva le mie gesta e la mia fedeltà agli elfi, sapeva che ero sempre stata disposta a donare tutta me stessa per la causa che stavo servendo. La mia fedeltà era incisa ad inchiostro violetto nella mia carne.
Inoltre avevo viaggiato molto e avevo intessuto rapporti, anche personali, con le maggiori potenze di Alagaësia; ero amica del grande Eragon Ammazzatiranni, di Nasuada, conoscevo Orik e Orrin; Oromis era stato mio maestro e io stessa ero diventata cavaliere di drago.
Senza che me ne rendessi conto, ero diventata degna di rispetto e ammirazione tra gli elfi.
E non volevo. Non volevo assolutamente.
Ma la mia era una battaglia persa in partenza. Non ero il tipo di persona che lascia cadere le proprie responsabilità. E sapevo che, vista la mia nuova condizione, quella di diventare regina era ormai una responsabilità.
Altri avrebbero potuto raccoglierla per me, anche se probabilmente avrei passato anni e anni a mordermi le labbra, logorata dai sensi di colpa e dalla sensazione di non essere stata abbastanza.
Quello che il Consiglio degli anziani mi stava offrendo era una sorta di ricatto al quale non potevo non cedere.
Dopo una settimana di insistenze, accettai, legando per sempre il mio destino a quello della Du Weldenvarden e dei suoi abitanti. O almeno così credevo.
            L'incoronazione avvenne due giorni dopo e fu organizzata con una tale fretta che fui certa che tutti temessero una mia improvvisa fuga.
Quel mattino mi costrinsi ad affidare mia figlia e Fírnen ad Alba e mi recai al palazzo di
Tialdarí, dove ogni parete e suppellettile sussurrava qualcosa che io avrei certamente preferito non ascoltare. Parlavano di solitudine, di spensieratezza, di dura consapevolezza, di rabbia, di amicizia, di perdita..
La presenza di Islanzadi, o meglio la sua assenza, aleggiava nelle sale come aria velenosa, pronta a soffocarmi nella morsa dei ricordi e del dolore. Gli occhi neri di mia madre parevano fissarmi severi dal Fairth in cui era rappresentata a braccetto di mio padre Evandar.
Non scelsi nulla di troppo elaborato per la cerimonia. Mia madre era stata un modello di grazia ed eleganza per tutti e io non avevo intenzione di soffiarle il primato, anche perché non ne sarei mai stata capace. Così indossai un abito verde con ricami arancioni e dorati, mi feci aiutare per acconciare i capelli e unsi le ciglia per renderle più lucide. L'elfa che mi aveva aiutata nei preparativi mi dissuase dal portare Ren con me, e per i minuti che seguirono mi sentii completamente indifesa.
In piedi davanti al trono nodoso, ricevetti da Däthedr una semplice fascia dorata, che tenni tra le mani mentre gli anziani sfilavano davanti a me, uno ad uno, mormorando la formula di rito e sfiorando il monile con le dita.
«Il tuo popolo ti ha scelta come sua protettrice» dissero con voci solenni e melodiose.
E mentre mi passavano davanti sentivo il battito del mio cuore accelerare e raggiungere ritmi talmente selvaggi, che sicuramente lo avrebbe sentito re Orrin da Aberon.
All'improvviso non ero più tanto sicura di quello che stavo facendo. Potevo aiutare moltissimo gli altri, ed era mia dovere farlo, ma quanto di me stessa avrei dovuto sacrificare in quel ruolo?
Anche quello di ambasciatrice era stato un incarico serio e impegnativo per me, ma in fondo aveva sempre assecondato una parte fondante della mia natura: la mia curiosità, la mia sete di avventure e di scoperte, il mio desiderio di viaggiare e di libertà.
Poco di quello sarebbe rimasto mio se fossi diventata sovrana degli elfi. L'unico vantaggio che mi si presentava era che avrei potuto continuare ad agire sugli eventi di Alagaësia dall'alto di una carica ben più autorevole. E avrei potuto influenzare quegli eventi molto più profondamente che in passato.
Quando tutti ebbero parlato e toccato la corona, me la posai lentamente sulla fronte.
Non potevo tirarmi indietro. Sarebbe stata una vigliaccata. Diventavo regina per lo stesso motivo per cui avevo combattuto ad Uru'baen: avevo la presunzione di essere migliore di altri in quella situazione ed ero certa che con il mio intervento avrei potuto contribuire a migliorare il mondo in cui mia figlia sarebbe cresciuta e vissuta.
«E io scelgo il mio popolo» completai, dopo qualche istante di troppo di esitazione.
Lo stesso popolo che per un mese non aveva fatto altro che cantare piante sui cadaveri o disperdere ceneri, con dolci e strazianti lamenti di dolore.
Io avevo perso moltissimo, ad Ilirea, ma era il mio popolo ad aver perso una guida.
E da quel momento in poi io avrei dovuto soffrire per ciascuno di loro e per nessuno, non credere in niente perché ciascuno potesse credere a ciò che preferisse, fidarmi solo di me stessa ma fare ciò che consigliavano gli altri, avere un'identità forte ma dimenticarla nella massa.
Era un compito terribile e gravoso. Ma mia madre lo aveva retto. Lo aveva retto per più di un secolo, un lungo secolo difficile e travagliato. Non potevo essere da meno.

Nonostante mi fossi formalmente impegnata ad essere la nuova sovrana degli elfi, non assunsi immediatamente l'incarico. Chiesi a Däthedr di continuare a sostituirmi in qualità di reggente per qualche altro mese e di non dire nulla a Vanir, per concedermi di trascorrere tutto il tempo possibile con Fírnen e mia figlia.
Volevo occuparmi di loro fino a quando non sarebbero stati quasi totalmente indipendenti da me, almeno per quanto riguardava il cibo.
Per Fírnen fu una questione di pochi mesi. Era abile nella caccia quanto lo era Saphira, ma sembrava ricavarne meno piacere della dragonessa. Mancava della sua ferocia e della sua maestosità, mantenendosi invece più mite e riflessivo.
Forse poteva essere interpretato come un segno di debolezza da parte sua, ma per me Fírnen si rivelò il perfetto compagno di mente e cuore. Era capace di darmi serenità e voglia di vivere ad ogni tocco della sua coscienza e l'euforia che mi incendiò le vene quando finalmente riuscimmo a fare il primo volo con la sella che avevo fabbricato era pari solo a quella che avevo provato nel bel mezzo delle battaglie ormai lontane.
Con la sua crescita fisica si accompagnò ben presto anche una crescita cognitiva e pochi mesi dopo la sua nascita riuscivo già ad avere un fitto scambio di pensieri e opinioni con lui, che rese la mia solitudine meno estrema e per questo più piacevole.
Con la mia bambina aveva intessuto un rapporto particolare: sentivo che si scambiavano qualche pensiero semplice, di tanto in tanto, e ben presto mi ritrovai a dover mettere il mio drago al corrente di tutto ciò che inizialmente avevo cercato di celargli. Così gli mostrai i miei ricordi di Durza e discussi con lui dei rischi che correva la piccola, se si fosse saputo chi fosse il padre. Fírnen si lasciò sfuggire una nota di disapprovazione quando seppe che mi ero unita ad uno spettro, ma poi non mi giudicò e approvò tutte le mie scelte per il futuro della sua creatura, assicurandomi che non avrebbe mai divulgato ad altri i miei segreti.
Mia figlia cresceva invece a ritmi più lenti. Cominciò a reagire più prontamente ai movimenti e, se mi nascondevo il volto tra le mani, per poi svelarlo un attimo dopo, scoppiava a ridere. Amavo alla follia la sua risata sdentata.
Cominciò anche a cercare di afferrare e portare alla bocca tutto ciò che la circondava e, quando Alba le portò una rudimentale bambola di stoffa, la riempì in pochi minuti di saliva. Alba non parve turbata, non lo era mai quando si trattava della figlia di Durza.
L'elfa trascorreva lunghe ore in meditazione sotto le radici dell'albero di Menoa, ma era tutt'altro che serena. Sembrava evitare la compagnia e aveva addirittura riacquistato i lineamenti da umana, poche settimane dopo il suo arrivo; insomma sembrava sentirsi decisamente fuori posto. Fui più volte tentata di chiederle cosa la turbasse, ma sapevo che non mi avrebbe mai risposto.
Mi limitai quindi ad accettare la sua regolare visita alla settimana e a fare commenti blandi sul freddo, le stelle e le previsioni per la primavera.
Alba non aveva commentato la mia scelta di accettare la corona. Si era limitata stendere sul volto un sorriso saccente e a offrirsi di tenere mia figlia per la cerimonia e il banchetto che era seguito.
            Oltre a crescere i miei cuccioli, mi ritagliai anche qualche istante per me e in una delle lunghe riflessioni notturne, tra un sonno agitato e un altro, riuscii a definire nuovamente il mio essere, indovinando il mio vero nome.
Chiesi a Rhunön se per caso potesse forgiarmi una spada da cavaliere con lo stesso metodo che aveva usato con Eragon, ma l'elfa-fabbro mi disse che non aveva più riserve di acciaioluce, né sapeva dove trovarle.
Così finii per presentarmi a Lord Fiolr della casa di Valtharos, per chiedergli di modificare e avere in consegna la sua lama a tempo indeterminato. L'elfo era restio, ma alla fine acconsentì, pregandomi di curarla come una figlia.
Sorridendo tra me e me per il paragone, promisi che ne avrei avuto la massima cura e gli lasciai Ren come pegno della mia parola. Speravo con tutto il cuore di non dover mai macchiare Támerlein di sangue, ma chiesi delle modifiche a Rhunön per renderla adatta al mio stile di combattimento.
Mentre attendevo le tre ore che l'elfa aveva promesso di impiegare per la sistemazione della spada, mi diressi quasi distrattamente al palazzo di Tialdarí, dove vagai senza meta nelle stanze di mia madre -ormai mie- e nella camera dove avevo vissuto un'eternità prima.
Trovai i miei averi perfettamente in ordine. Sfiorai il dorso dei libri scaffalatati e le mie unghie corte rasparono sulla copertina ruvida del
Domya adr Wyrda, scatenando un brivido di fastidio lungo la spina dorsale.
Estrassi il libro dallo scaffale e lo sfogliai, perdendomi in pensieri su Heslant il monaco, Athala, Augyra, Arcaena, Inarë e Angela la Venerabile. Quando tornai al capanno di Oromis, portai il libro con me e quella notte -e quelle seguenti- regalai qualche ora al sonno per sfogliarlo pigramente.
Trova infine ciò che cercavo. In un capitolo sulle credenze popolari degli uomini, diviso in sottocapitoli per le varie zone di Alagaësia, trovai un breve trafiletto sugli Inarë:
La leggenda degli Inarë ha l'incredibile caratteristica di non avere una terra d'origine, ma di essere comune a tutte, motivo per cui la riporto al termine di questo capitolo.
Secondo le antiche credenze dei nostri avi, il mondo era principalmente governato da forze buone e forze malvagie. Il punto d'incontro di queste due realtà era dato da un creatura dal potere e dalle conoscenze senza limiti, antica come la vita stessa e
come essa immortale. Questo custode non aveva né sesso né aspetto prestabilito, ma poteva assumere qualsiasi forma desiderasse al fine di agire più liberamente su quanto lo circondava. Il suo compito era infatti quello di vigilare sugli equilibri e di mantenerli intatti, impedire la più totale distruzione del genere umano e delle altre razze di Alagaësia.
I suoi poteri erano vari come i suoi volti, ma per la sua abilità nell'agire sul tempo e sullo spazio, egli fu anche chiamato il Viaggiatore solitario. Viaggiatore, perché non era mai sazio di muoversi, scoprire e impedire catastrofi. Solitario perché ultimo -e forse anche primo- della sua specie.
Questo essere poteva squarciare i veli del tempo e dello spazio e muoversi tra di essi come più gli piaceva. La spada poteva ferirlo e anche ucciderlo, ma egli sarebbe inevitabilmente rinato, forse con un altro volto, ma integro nella propria essenza.
Riporto questo singolare mito perché mi sembra incredibile che possa vantare un'origine comune a tutte le regioni del regno, caratteristica che appartiene a questo soltanto. Ovviamente si tratta di una superstizione di sciocchi villici analfabeti, ma conserva un fascino che non ho riscontrato in nessun'altra credenza.
A chi non piacerebbe sapere che c'è un essere onnipotente che viene da altri mondi e da altre epoche, pronto a vegliare su di noi come solo un dio potrebbe?

Richiusi il libro, sentendo le mani intorpidite a causa della presa troppo forte che avevo applicato sulle pagine.
«Potrebbe trattarsi effettivamente di una superstizione» osservò Fírnen, con la sua voce profonda come il mare.
Gli mostrai alcuni lampi dei miei ricordi su Angela.
«Ammetterai che però sembra incastrarsi tutto alla perfezione».
Non mi contraddisse e nei giorni che seguirono cercai di togliermi dalla testa Angela e le supposizioni appena lette.

Quando arrivò il sesto mese di vita della mia piccolina, era ormai giunta la primavera e la lettera che Eragon mi aveva mandato con la magia cominciò a rovinarsi sotto le molteplici riletture che aveva subito.
Mia figlia aveva iniziato a mangiare anche cibi solidi e a bere del latte che non fosse quello fornito dal mio seno. Ormai potevo permettermi di lasciarla anche per qualche settimana, senza temere per la sua nutrizione e la sua salute, dato che Alba mi aveva assicurato che si sarebbe occupata di lei.
Era giunto il momento di prendere residenza fissa nel palazzo di Tialdarí, rendere ufficiale la presenza di Fírnen e presentare i miei omaggi ai sovrani delle altre razze di Alagaësia, oltre che informare Eragon di essere ormai parte del suo stesso ordine.
Partii un paio di settimane dopo essermi trasferita al palazzo di Tialdarí, dove mi ero spostata insieme ad Alba, che ufficialmente mi affiancava come mia cameriera personale.
Il congedo dalla mia bimba fu lungo e doloroso. Scrutai a lungo i suoi occhietti, che andavano definendosi in due colori completamente distinti. Il destro era verdino e sarebbe probabilmente diventato dello stesso tono dei miei, mentre il sinistro tendeva al color sangue, come quelli di Durza. Ed erano dello Spettro i capelli color fiamma e la pelle nivea.
Il nasino, invece, era sottile e tendeva leggermente all'insù, come quello di Islanzadi. Non avevo saputo definire le lievi macchie che erano comparse sulle guance della piccola e Alba era giunta in mio aiuto, informandomi che gli umani chiamavano quelle piccole macchie “lentiggini” e che probabilmente sarebbero aumentate con la sua crescita e con l'esposizione al sole, ma non erano segno di nessuna malattia.
Spinsi all'indietro i lisci capelli rossi della piccola e la baciai sulla fronte. Gorgogliò e spalancò la bocca in un sorriso, mettendo in mostra i primi dentini che le stavano forando le gengive.
«Abbi cura di lei» raccomandai ad Alba.
«Lo farò. Ma te torna presto» rispose lei, e mi parve un poco preoccupata.
«Non piange più come una volta. Adesso dorme parecchio la notte» dissi a mo' di scuse.
L'elfa sollevò le sopracciglia. «Non ho paura di una marmocchia».
«Andiamo?» intervenne Fírnen, impaziente.
Non aveva mai volato oltre i confini di Ellesméra e sopratutto non aveva mai incontrato un suo simile. L'idea di conoscere Saphira lo emozionava e le immagini di Alagaësia che aveva visto nei miei ricordi lo rendevano desideroso di esplorarla di persona.

L'incontro con Eragon avvenne pochi giorni dopo e fu più doloroso di quanto avessi creduto. Mi aspettavo di ritrovare lo stesso ragazzino entusiasta che avevo accompagnato ad Ellesméra un anno prima, dato che la tensione dello scontro con Galbatorix era ormai esaurita, invece mi ritrovai davanti un guerriero, un uomo responsabile pronto a sacrificare tutto se stesso per Alagaësia e per l'ordine a cui era a capo.
Il primo incontro tra Saphira e Fírnen, invece, fu folgorante per entrambi. Mentre la coscienza del mio drago grondava dubbi e timore, lo incoraggiai a lasciarsi andare, memore delle piacevoli occasioni in cui avevo diviso il letto con Durza lo Spettro.
Li guardai allontanarsi con un sorriso lieve sulle labbra, ragionando quanto fosse veloce il raggiungimento dell'età adulta nei draghi.
Alla loro partenza seguì uno scambio con Eragon. Quando il Fairth che mi rappresentava scivolò sotto i miei occhi, capii di avere sottovalutato i sentimenti che il Cavaliere provava per me. Forse fu per chiedergli perdono che decisi di rivelargli il mio vero nome, o forse per spiegargli la mia reticenza, non lo so. Mi fidavo ciecamente di lui, eppure gli avevo e gli stavo ancora nascondendo moltissimi segreti e sentivo il bisogno di condividere almeno una parte di tutto quello con lui.
Era un nome pieno di contraddizioni e chiaroscuri, il mio. Vi era la determinazione come principale ossatura del mio essere, accompagnata in parallelo da una fragilità che poteva apparire insignificante, ma che nasceva da una serie di crepe che costellavano il sentiero sul quale avevo camminato e che mi portava a continuarlo sul sottile baratro della follia.
C'era il vuoto di un'infanzia vissuta senza un padre; l'irrequietezza di chi non può restare a guardare con le mani in mano il mondo che si sgretola; c'era la rottura violenta con mia madre e la tristezza desolante di non essere mai riuscita a ricucire i rapporti; c'erano altri baratri, dovuti alle morti ravvicinate di Fäolin, Glenwing e Durza; c'era la paura, i nuovi amici e le nuove avventure; c'era la consolazione e la pace che avevo raggiunto nell'ultimo periodo e c'era l'incertezza per il mio futuro.
Eragon condivise con me il suo nome e io capii di lui molte cose che avevo sottovalutato e che lui stesso mi avrebbe dimostrato di lì a pochi minuti. Gli dissi di avere bisogno di tempo, gli confermai che provavo una certa simpatia per lui, ma che essa avrebbe impiegato anni prima di potersi trasformare in qualcosa di più profondo.
Ma il Cavaliere non aveva tempo.
Eragon e Saphira avevano deciso di lasciare Alagaësia, perché erano ormai troppo potenti. Eragon non mi spiegò le motivazioni della sua scelta nei dettagli, ma le intuii da me.
Aveva bisogno di un luogo dove proteggere gli Eldunarí e crescere i draghi al sicuro. Un posto del genere avrebbe potuto trovarsi in qualunque angolo di Alagaësia, ma avrebbe implicato pericolose interferenze dei draghi nell'equilibro della fauna del territorio. Un'altra scelta poteva essere Vroengard; ma liberare l'isola dagli effluvi nocivi e poi proteggersi dalle pericolose creature che si erano sviluppate sarebbe stato troppo dispendioso persino per gli Eldunarí e al momento era meglio mantenere le loro forze per proteggersi e proteggere i futuri cavalieri con i loro draghi.
Senza contare il peso politico che Eragon esercitava ormai su tutte le razze di Alagaesia. Era l'eroe delle nostre terre, l'Ammazzatiranni, colui che aveva mantenuto ogni promessa e esaudito le infinite aspettative che si avevano su di lui. Se avesse provato ad interferire nella politica degli uomini, Nasuada avrebbe dovuto ubbidirgli, o metà del suo popolo si sarebbe rivoltato contro id lei. E lo stesso valeva per il Surda e re Orrin.
Se Eragon avesse provato ad interferire nella politica dei nani e degli elfi, probabilmente pochi avrebbero seguito il Cavaliere, ma viste le sconfinate forze di cui disponeva, avrebbe potuto costringerci tutti a fare ciò che desiderava.
E come resistere alla tentazione di mettere a posto le cose quando esse sembrano andare per il verso sbagliato?
Era come chiedere ad un adulto di non rimproverare un bambino scorretto.
Capivo il timore di Eragon a tal proposito, ma mi sembrava talmente assurdo che lui e Saphira dovessero lasciare tutto perché ciascuno di noi fosse libero..
In quell'istante mi fu chiara la grandezza del giovane e lo sconforto per la sua vicina partenza mi punse acutamente il petto. Dopo tutti i morti e gli allontanamenti, avrei finito per perdere anche l'ultimo dei miei amici.

Prima di riprendere il viaggio fino ad Ilirea, Eragon mi rivelò il Nome dei Nomi. La sua era un decisione ponderata e disse che aveva voluto affidarmi quell'informazione affinché la impiegassi al meglio per il bene di Alagaësia. Il Nome mi mise per le mani un potere che non ero certa di poter capire fino in fondo, e ne ero un poco intimorita.
Nasuada costatò con sorpresa che il nuovo sovrano degli elfi ero effettivamente io. La regina non se lo aspettava e percepii un lieve cambiamento nel suo atteggiamento, che si fece meno aperto e più distaccato.
Certo, se all'amicizia si mischiava la politica, Nasuada era sempre pronta a tirare fuori gli artigli. Non ero più un'amica -quasi una confidente- ma la regnante di un popolo molto potente che sapeva fin troppo di lei e delle sue debolezze.
Fu organizzato un banchetto in mio onore e, mentre Fírnen si staccava dalla mia coscienza per condividere altri momenti con Saphira, io mi imbattei in Angela l'erborista, la quale mi chiese allegramente come mai fossi stata così stupida da accettare l'incarico di regnante.
«Perché è stato il mio popolo a chiedermelo» risposi guardinga, memore delle recenti letture sugli Inarë.
«E se ti chiedessero di buttarti giù da una rupe?»
«Lo farei, se potesse servire a qualcosa» dissi, asciutta, nascondendo a fatica il mio desiderio di andarmene.
L'erborista fece guizzare gli occhi nei miei, con un sorriso beffardo. «Mi hai scoperta, non è vero?»
Sentii le mie membra farsi di ghiaccio. Allarmata, cercai la coscienza di Fírnen, ma era troppo lontano per sentirmi.
«Non avere paura!» esclamò l'erborista, affabile. «Credo che tu possa conoscere questo piccolo segreto almeno per ora». Si strinse nelle spalle e sorrise. «Ma se lo riferirai ad altri allora dovrò uccidervi tutti, o cancellarvi la memoria.. Non so decidermi su quale sia il destino peggiore».
«Venerabile..» iniziai, ma lei marciò energicamente verso le stanze del palazzo, ignorandomi.
«Verrò presto a trovarti ad Ellesméra, Arya Dröttning. Nel frattempo salutami Aiedail». Mi strizzò l'occhio da sopra la spalla sinistra. «Tutte e due».
Annuii, il gelo ancora nelle ossa.
            Quella stessa notte sentii anche il contatto delle cento menti degli Eldunarí.
«Ti ringraziamo per il tuo contributo, Älfa» disse Umaroth con dolcezza. «So che alcuni dei nostri provvedimenti possono apparirti fin troppo spietati, ma siamo certi che con il tempo riuscirai a valutare le nostre azioni con più raziocinio e capirai che ciò che abbiamo fatto era per il bene di tutti».
«Lo capisco»
ammisi controvoglia. Ed era la verità.
La mancanza di Durza era ancora acuta in me, ma sapevo che chiunque si fosse preso il disturbo di giudicarlo avrebbe finito per condannarlo a morte.
Avevo sempre approvato quel genere di sentenza, quando ero ancora giovane e inesperta, perché ai miei occhi chiunque osasse spezzare impunemente vite umane e non umane doveva pagare con la stessa moneta.
Poi io ero diventata un'assassina e il provvedimento aveva cominciato ad apparirmi vuoto e privo di significato. Con la morte di Durza mi faceva semplicemente orrore. Lo Spettro doveva pagare per i suoi crimini, era giusto così, ma la morte era una soluzione troppo irreversibile e troppo crudele.
Forse, se fosse vissuto, Durza si sarebbe riscattato, avrebbe aiutato tante persone quante ne aveva uccise e alla fine avrebbe in qualche modo addolcito il carico di morti che portava sulle spalle.
Finché io fossi stata regina, nessuno sarebbe mai stato condannato a morire. Mai. Avevo la fortuna di governare un popolo dall'indole mite e ragionevole.
Però Durza non era stato sottoposto alla mia giustizia e capivo che per molti la sua morte poteva dare soddisfazione, anche se mi straziava il cuore.
«Avrei una domanda per voi» dissi, cambiando discorso.
«Chiedi pure, cucciola d'elfo».
«Nasuada mi ha parlato di un uomo che delirava, dopo la battaglia delle Pianure Ardenti..»
«Sì, si è trattato di un nostro sbaglio. Come ben sai abbiamo cercato di seguire gli eventi esplorando le menti degli abitanti di Alagaësia e in quel caso alcuni di noi si erano inseriti nella mente di un uomo, per seguire meglio le dinamiche della battaglia. Un colpo ha ucciso tutti coloro che gli erano intorno, ma il più giovane dei nostri, travolto dal suo panico e dal suo orrore, ha sostenuto la vita del vecchio, attingendo alle nostre energie. Purtroppo qualche cosa di troppo è filtrato in quel contatto e siamo stati costretti a fare addormentare l'uomo per sempre, perché non rivelasse tutto al momento sbagliato».
Trasmisi un pensiero di assenso. Se ripensavo all'intera vicenda, capivo che non potevano essere stati che loro a trasmettere simili capacità e informazioni al vecchio.
Era un altro mistero risolto.
Mi congedai dagli Eldunarí e mi ritirai per la notte.
Sognai di tornare ad Ellesméra, solo per scoprire che mia figlia era stata inghiottita dalle radici dell'albero di Menoa, diventando in tutto e per tutto simile a Linnea.
Mi svegliai in preda al terrore e non riuscii a riprendere sonno. A nulla valsero i pensieri consolatori di Fírnen.
«Era solo un brutto sogno, Arya. Torna a dormire».
Per non turbarlo eccessivamente, tenni per me la mia inquietudine, isolandola dai suoi pensieri.
Ma i giorni seguenti furono un eterno tormento per me e non mi diedi pace fino a che io e Fírnen non tornammo ad Ellesméra, accompagnati dall'ingombrante peso di Roran, Katrina e la loro figlioletta Ismira, di pochi mesi più piccola della mia.
Impiegammo quasi un paio di settimane perché prima dovetti presentarmi ad Orik nei panni di regnante, ma per mia fortuna il sovrano dei nani non mi trattenne per più di due giorni. Il tempo necessario per organizzare un banchetto in mio onore e rinnovare la sua dichiarazione di amicizia nei confronti degli elfi. Gli chiesi anche di poter legare il mio specchio incantato al suo, per poter comunicare più rapidamente con lui ed egli acconsentì con entusiasmo.
Svolsi il mio compito con pacatezza, ma dentro di me scalpitavo dal desiderio di tornare immediatamente a casa dalla mia piccola. E la continua vista di Ismira non mi aiutava a placare le mie ansie e i miei timori.
Durante il viaggio mi ritrovai mio malgrado a conversare con Roran e Katrina. Entrambi mi conoscevano come l'amica di Eragon e l'elfa che aveva aiutato Elain a partorire Speranza. Furono gentili con me, ma Roran era palesemente inquieto per il semplice fatto che io ero intessuta di magia. Katrina sembrava più rilassata sotto questo punto di vista e, saputo che avevo una conoscenza piuttosto profonda della vita, mi chiese anche dei consigli su come prendersi cura della sua bambina.
Quando riabbracciai la mia, ad Ellesméra, sentii un macigno immenso sciogliersi dal mio petto e non mi abbandonai in sciocche farneticazioni solo perché Alba era davanti a me e mi stava scrutando con attenzione.
Eppure mi ritrovai ad abbandonare nuovamente mia figlia, quando Eragon mi disse che sarebbe partito il giorno seguente. Alloggiava ad Ellesméra da due settimane e in quel breve lasso di tempo aveva compiuto un incantesimo che avrebbe rivoluzionato per sempre i Cavalieri e il loro ordine.
Avrei potuto salutarlo e addurre come scusa i miei impegni di regnante, ma in realtà ci tenevo davvero a passare gli ultimi istanti della sua vita in Alagaësia con lui. Forse avrei potuto continuare a tenere regolari contatti con il Cavaliere, tramite gli specchi magici, ma non sarebbe mai stato lo stesso, ovviamente.
Impiegammo tre giorni per arrivare al lago di Ardwen e da lì vi furono altre due settimane di navigazione sulla Talíta prima di giungere a Hedarth, dove Orik e il suo seguito ci tesero una sorta di agguato. Ci trattenemmo un giorno intero a banchettare con loro, poi la notte del giorno stesso, venne il momento dell'addio.
Non sarei mai riuscita ad andarmene dopo la prima ansa del fiume, se Fírnen non fosse sceso a portarmi via con sé.
Mentre seguivo dall'alto il lento percorso della nave e il ruggito addolorato di Saphira e Fírnen mi riempivano le orecchie, sentii un dolore sordo stringersi sul mio cuore.
Eragon e Saphira avevano lasciato Alagaësia per sempre. Dopo tutto ciò che avevano fatto per quelle terre, le abbandonavano per proteggerle ancora una volta, da se stessi.
Era tutto così ingiusto.
La desolante sensazione di perdita e solitudine che Fírnen mi trasmise rese ancor più pesante la mia pena.
Sarei stata felice se il tempo si fosse fermato, dopo, ma come al solito il suo scorrere mi costrinse a tornare prontamente alla realtà. Tornai a prendere Roran e lo trasportai ad Ellesméra con me, lasciando la mia scorta elfica indietro.
Dopo tutte quelle emozioni, mi sentivo sola e svuotata. Se non ci fosse stato Fírnen a condividerle con me e a sostenermi, non sarei mai riuscita a reagire con tanta energia alla partenza di Eragon e Saphira.
Roran stesso era molto triste per la perdita del cugino, che era stato come un fratello per lui, e non riacquistò il sorriso fino a che le braccia dell'amata non si avvolsero intorno alle sue spalle larghe.
Trovai a mia volta consolazione nel rivedere mia figlia sana e salva, intenta a compiere i suoi primi tentativi di gattonare per le stanze del mio palazzo.
A quel punto avrei dovuto chiedere a Fírnen di trasportare la famigliola fino alla Dorsale, ma l'idea di separarmi dal mio drago, anche solo per qualche giorno, mi gettava nel panico più totale. Da quando era nato, io e Fírnen avevamo trascorso ogni ora insieme, o al massimo a pochi minuti di distanza, e non ero sicura di volerlo lasciare andare e separarmi dal contatto mentale che rimaneva uno dei pochi baluardi della mia sanità mentale. Temevo per la sua sorte, e anche per la mia.
            In quella situazione, la chiamata di Nasuada, giunse al momento perfetto.
La regina degli uomini, mi disse che l'ex governatore di Gil'ead aveva raccolto intorno a sé un gruppo di uomini ancora fedeli a Galbatorix, che non accettavano il governo dei Varden. Non era il primo problema del genere che si presentava, ma era la prima volta che Nasuada si rivolgeva a me e parve terribilmente in imbarazzo.
«Non voglio darti l'idea di volerti sfruttare, Arya, ma ora che Eragon è lontano io non riesco ad intervenire tempestivamente in Alagaësia e..»
«Me ne occupo io» la rassicurai. «Ucciderò o catturerò i loro capi e lascerò a te il compito di disperdere le loro armate. È sufficiente?»
«Sarebbe un aiuto molto importante. Hai nuovamente la mia sconfinata gratitudine».
Dissi a Roran e Katrina che non avevo scelta e che avrei dovuto farli proseguire a cavallo. Roran grugnì, ma poi mi ringraziò per la mia gentilezza e lo stesso fece Katrina.
L'azione mi impegnò per non più di dieci giorni, ma mi portò ad un incontro incredibile.
Individuai immediatamente l'accampamento ribelle, nella tenuta un tempo appartenuta a Lord Barst, ma decisi di agire con una certa prudenza. Attesi la notte e mi avvidi che la sorveglianza era piuttosto scarsa, quindi mi intrufolai tra le tende, spostandomi fino a quelle più grandi. Fírnen mi attendeva a poche iarde di distanza, pronto ad intervenire se avessi subito un attacco fisico o mentale.
Quello che compii quella notte fu un piccolo massacro. Cinque erano le tende più grandi e cinque furono le mie vittime, colte tutte nel bel mezzo del sonno e uccise senza nemmeno svegliarle.
Quasi tutte. L'uomo nascosto nell'ultima tenda era sveglio e stava annotando qualcosa su un rotolo di pergamena. Faticai parecchio a riconoscere Hillr.
Gli occhi rotondi e sporgenti come quelli di un pesce erano rossi, incorniciati da rughe profonde che ricordavo molto più superficiali e la curva della bocca si era fatta più severa.
Gli andai alle spalle senza che lui si accorgesse di nulla. Sbirciai oltre la sua spalla e lessi alcune righe di quello che doveva essere un resoconto di ciò che stava facendo contro il governo di Nasuada.
Poi pronunciai alcune parole nell'antica lingua e vidi l'uomo portarsi una mano alla gola. A quel punto gli passai accanto e mi inginocchiai davanti a lui, portando gli occhi allo stesso livello dei suoi.
«Ti ricordi di me?» domandai flebilmente.
L'uomo sgranò ulteriormente gli occhi e per un attimo credetti che sarebbero usciti dalle cavità delle orbite. «Scrivi» gli dissi, indicando la pergamena. «E non provare a scappare, ti catturerei e ti ucciderei prima che tu possa avvertire qualcuno».
L'uomo provò ad urlare e a parlare, ma si arrese a riprendere in mano il calamaio quando si rese conto che la sua voce era fuori gioco.
“Credevo che fossi morta insieme al mio Signore” scrisse.
«No, non era ancora il momento giusto per me. Non dirmi che hai preso tu il suo posto al governo di Gil'ead».
Annuì.
«Quindi sei tu a guidare questa ribellione».
Annuì di nuovo.
«Perché?»
“Perché quella che si fa chiamare Regina ha preso il potere con l'aiuto di creature demoniache come te.” scarabocchiò con furia.
Trattenni la mia irritazione, e decisi di non rivelargli che Alba -sua vecchia alleata- era un'elfa ed era rimasta nella capitale degli elfi a prendersi cura della figlia di Durza al mio posto. No, sarebbe stata un'inutile crudeltà da parte mia.
«Durza mi ha detto tutto sul tuo passato» mormorai. «Mi dispiace per le tue perdite, ma la mia gente non è cattiva, è la tua ad essere troppo precipitosa nei suoi giudizi e nelle sue condanne». Feci una pausa e vidi i suoi occhi da pesce riempirsi di lacrime di terrore. «Se vuoi posso imprigionarti e lasciare che Nasuada ti giudichi. Sicuramente sarai condannato e impiccato pubblicamente. Se invece preferisci morire adesso, ti ucciderò in modo che tu non soffra».
L'uomo deglutì più volte, spaesato, poi raccolse la penna d'oca con mani tremanti.
“Uccidimi” vergò. “Ho paura della sofferenza” aggiunse dopo poco.
Sapevo cosa intendesse. Anche io avevo temuto ogni istante di vita, quando Durza mi aveva catturata. Avevo desiderato che tutto finisse il prima possibile, e allo stesso tempo che mi fossero concessi altri minuti e ore di vita.
«Deya» dissi.
E così finì Hillr il Siniscalco, figlio di Moira la strega.

Restai anche per i giorni seguenti, quando si presentarono gli uomini mandati da Nausada, mettendo infine a tacere la sollevazione. Ma la regina sembrava intenzionata a spremermi fino all'ultimo finché mi trovavo fuori dalla Du Weldenvarden e mi chiese se io e Fírnen potessimo indagare per lei a proposito di un eremita che doveva trovarsi tra l'Helgrind e le Pianure Ardenti, un certo Tenga.
Accettai senza battere ciglio, perché ero veramente curiosa di conoscere finalmente lo stravagante vecchietto, ma la mia missione si rivelò un fallimento, perché egli era sparito e non riuscii a rintracciarlo con la magia. Trovai però i cadaveri dei quattro maghi mandati in precedenza dalla sovrana degli uomini.
Nasuada -quando le feci rapporto con lo specchio incantato- mi informò con disappunto che anche Angela l'erborista era svanita, poi mi ringraziò del mio aiuto e mi augurò buon ritorno ad Ellesméra.
Non vedevo mia figlia da pochi giorni, eppure una parte di me era certa che non l'avrei ritrovata mai più.
Fírnen non voleva tornare nella Du Weldenvarden. Avrebbe voluto volare fino ai confini del mondo e tenere impegnato il corpo per mettere la mente a tacere e spegnere i pensieri su Saphira.
Tuttavia ebbe il suo bel daffare a sostenere la mia, di mente. Le vite a Gil'ead erano le prime che prendevo da dopo la battaglia di Uru'baen e risvegliarono tutti i miei disturbi sopiti.
Il cibo che masticavo sapeva di carogne, l'acqua di sangue e l'aria era soffocante.
Non riuscivo a dormire e nel caso mi svegliavo sudata fradicia, con la visione del piccolo corpo della mia bambina immobile e gelido nella morte.
Preoccupato per la mia condizione, Fírnen non si permise che poche soste, al fine di arrivare ad Ellesméra il prima possibile e permettermi finalmente di accertarmi della salute di mia figlia.
Era viva, ovviamente, e rise forte quando la presi in braccio.
Alba non condivideva la sua allegria, anzi aveva un'espressione livida come una tempesta.
«Principessina c'è qualcosa che non va» mi disse senza mezzi termini. «Riguarda l'albero di Menoa».
«Cos'è successo?»
«Speravo potessi dirmelo tu. È da mesi che passo molte ore sotto i suoi rami, cercando di parlare con l'elfa che nasconde, ma senza risultati. Invece pochi giorni fa Linnea mi ha risposto e ha detto.. Di avere rubato qualcosa ad Eragon il Cavaliere».
Mi venne in mente l'orribile sogno in cui avevo visto la mia piccola scomparire sotto l'albero e, istintivamente, la strinsi più forte.
«Cosa gli avrebbe rubato?»
«Stando a quanto mi ha detto lei, il ragazzo aveva un debito nei suoi confronti. E per ripagarsi gli ha portato via la possibilità di avere una discendenza».
Gemetti. «Perché?!»
Fece un cenno vago. «Vendetta nei confronti degli uomini? Non lo so. Non ha voluto rispondermi e dopo si è ritirata».
Riflettei, indignata. Con che diritto l'albero di Menoa aveva sottratto ad Eragon un dono tanto prezioso? Poi ricordai che il Cavaliere aveva promesso “qualsiasi cosa” in cambio dell'Acciaoluce. E Linnea doveva averlo preso alla lettera.
«Dobbiamo avvertirlo!» esclamò Fírnen, addolorato.
«No!» replicai, proiettando i miei pensieri anche alla mente di Alba. «Eragon dovrà scoprirlo da sé. È inutile dargli un dolore tanto grande fino a che non lo interesserà direttamente. Forse a quel punto riuscirà anche a.. guarirsi, ma fino ad allora credo che starà meglio a vivere nell'ignoranza».
«Per quello che m'importa» sbuffò Alba. «Sella il tuo lucertolone un po' troppo cresciuto, piuttosto, devi partire».
Sollevai un sopracciglio. «Partire? Torno adesso da un viaggio di giorni! Vorrei che mia figlia si ricordasse il mio volto, almeno».
«Oh, ma dovrai portarla con te» disse, con una smorfia che pareva di dolore.
A quel punto ero piuttosto confusa. «Non porterei mai mia figlia in missione con me, potrebbe farsi male».
«Non è propriamente una missione. Diciamo che c'è una persona che vuole parlare con te e probabilmente vorrà vedere tua figlia per assicurarsi che sia davvero tu».
«Hai detto a qualcuno..?!»
«No, lo sapeva già» mi interruppe.
«Perché sono scettica al riguardo?»
«Perché sei te, Principessina».
«O forse perché sei te».
Sorrise, ma a fatica. «Fidati di me, solo per questa volta».
«Dimmi chi devo incontrare o non andrò da nessuna parte».
«Invece andrai» fece con sicurezza. «Si tratta di un viaggio di pochi giorni e in ogni caso sarai al sicuro fino a che ci sarà Fírnen vicino a te».
«Perché non puoi dirmi cosa mi aspetta?»
«Non posso e basta» bisbigliò tristemente. «Posso solo dirti che questo incontro ti cambierà la vita, spero in meglio».
Realizzai che stavamo parlando nell'antica lingua e che quindi le sue parole non potevano essere menzognere, o almeno non del tutto.
«Potrebbe succedere qualcosa di male alla mia bambina?»
«No, non le farei mai del male e lo sai».
«Dove devo andare?»
Un nuovo sorriso increspò le labbra della mia interlocutrice e i suoi occhi si macchiarono di nostalgia.



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Saaalve! :D
Nuovamente in ritardello, scusate davvero!
Direi che sono successe un bel po' di cose in questo capitolo, ma quella che credo abbia più bisogno di spiegazioni è Angela. Parto da una premessa: ho sempre pensato che Paolini avesse caratterizzato la sua figura ispirandosi al protagonista di una serie tv: il Dottore di Doctor Who e i vari indizi disseminati nei quattro libri non hanno fatto altro che confermare la mia ipotesi. Per gli Whoviani non ci sarà bisogno di spiegazioni, ma per chi non ne ha un'idea potrebbe essere utile sapere qualcosa.
La serie Doctor Who tratta delle avventure di un alieno (in forma umana, ma con due cuori) che si fa chiamare Dottore, un Signore del tempo, un essere che viaggia nel tempo e nello spazio con una cabina blu chiamata TARDIS, intervenendo negli eventi e risparmiando spesso catastrofi. Angela mette effettivamente in mostra simili abilità a Dras-Leona, quando uccide le venti guardie e fa ad Eragon quel discorsetto sul tempo, senza contare la somiglianza di carattere con il Dottore e l'interesse per le avventure che ha in comune con lui.
Ma l'ultimo e definitivo indizio è alla fine di Inheritance, quando Eragon la vede lavorare un berretto blu e bianco (i due colori del TARDIS) ai ferri, con sopra scritto Raxacori.. La parola si interrompe qui, ma in diverse puntate di Doctor Who si fa riferimento ad un pianeta chiamato Raxacoricofallapatorius.
Ora, non ho precisamente definito Angela una Signora del tempo, ma il termine Inare (citato nella lettera di Jeod) potrebbe benissimo essere abbinato ad una razza che nessuno può spiegare, come Angela. Spero di essermi fatta capire, in caso contrario chiedetemi e approfondirò ;)
Piccola parentesi sul nome di Fírnen: mi pare che Paolini non dica mai da dove venga il suo nome, quindi l'ho inventato. Nel caso mi fossi sbagliata fatemelo notare, grazie! ^^
E in ultimo: ciò che l'albero di Menoa ha sottratto ad Eragon non è mai stato specificato nei libri. Eragon, al momento del patto con l'elfa-albero, dice solo di sentire una fitta al basso ventre e sappiamo bene che lei gli dice di andare senza chiedergli nient'altro alla fine di Inheritance . Avevo letto questa teoria su un forum e tra tutte mi era sembrata la più plausibile, anche se la più crudele. Anche in questo caso mi piacerebbe tanto sapere quali fossero le reali intenzioni di Paolini, sigh è.é
Ci vediamo domenica con il prossimo -e ULTIMO- capitolo! :')
Baci,
Lalli

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Capitolo 40
*** Casa ***


Ciao
40. Casa

«A Tronjheim, sotto Ididar Mithrim».

Alba si era rifiutata di darmi ulteriori spiegazioni. Mi aveva semplicemente sollecitata a partire e portato due bisacce già cariche di cibo e qualche coperta leggera, insieme allo zaino per trasportare la mia bambina.
Aiedail non aveva mai volato e non ero certa di volerle fare provare già l'esperienza, avrebbe potuto soffrirne e non volevo che stesse male per.. Mi sarebbe tanto piaciuto poter sapere per cosa.
Tuttavia di fronte all'espressione grave dell'elfa e alla sua insistenza, cominciai a prendere seriamente in considerazione l'idea di assecondarla, anche se temevo per la mia salute e quella di mia figlia. Seguendo un filo di congetture, cominciai a credere che sarebbe stato Tenga la persona che dovevo incontrare. Era l'unico individuo plausibile con cui Alba poteva essere in contatto e che poteva avere qualcosa di interessante da comunicarmi.
Avevo ancora indosso il corsetto di metallo e gli indumenti regalatemi da mia madre, quando andai a cercare Däthedr per informarlo della mia partenza.
«Sì, Aiedail mi aveva già anticipato tutto» mi disse lui, ma era ovvio che non era stato sicuro di nulla fino a che non gli ero apparsa io di persona a confermarglielo.
Däthedr non aveva mai preso l'abitudine di aggiungere l'appellativo Dröttning al mio nome. Sapevo che avrei potuto considerarlo un segno di scortesia e di mancanza di rispetto, ma capivo la difficoltà dell'elfo nel vedere la sua regina sostituita, dopo tanti decenni passati al suo servizio. Inoltre non ero particolarmente ansiosa di sottolineare la mia carica, visto lo scarso entusiasmo con cui mi ci ero approcciata.
«Sarò di ritorno in non più di due settimane. Nel caso qualcosa andassi storto.. troverai un documento al mio scrittoio. Ho designato te come mio successore e sono certa che il Consiglio ti accetterà».
L'elfo sobbalzò e i suoi occhi cerulei -così simili a quelli di Alba- si colmarono di tristezza. «Non dovresti andare se la tua vita è in pericolo, Arya. Puoi almeno dirmi di cosa si tratta? Sia io che i consiglieri ne siamo all'oscuro e molti di loro avrebbero preferito che tu non accorressi così prontamente agli ultimi ordini di Nasuada. Tagliarci fuori dalle tue decisioni non è una mossa saggia».
Mi sforzai di sorridergli. «Nemmeno io so nulla di più, le mie sono solo precauzioni. Ti chiedo solo di sorvegliare un poco Aiedail nei prossimi giorni e ti prometto che al mio ritorno farò un rapporto dettagliato al Consiglio».
Däthedr mi parve molto incerto, forse anche un poco offeso, ma alla fine mi augurò buon viaggio e si ritirò per la notte.
Mancava un'ora alla mezzanotte. Ero ad Ellesméra da poco più di mezz'ora e mi preparavo a lasciarla di nuovo, senza nemmeno indossare per qualche ora la corona di regnante. Fírnen, dal canto suo, ne pareva felice, anche se non nascondeva la preoccupazione per le parole criptiche di Alba.
Avevamo scambiato anche un paio di opinioni riguardo a quanto ci aveva detto sull'albero di Menoa. Linnea non aveva risposto al mio appello e i pensieri di entrambi erano inevitabilmente caduti su Eragon e Saphira: forse saremmo partiti per le terre oltreconfine prima di quanto ci fossimo aspettati, anche solo per informare il Cavaliere di quanto era successo. L'idea quasi mi rassicurava.
Alba mi aiutò ad assicurare le bisacce alla sella di Fírnen e mi mostrò le nuove cinghie che aveva aggiunto allo zaino, che avevano lo scopo di evitare alla mia piccola cadute fatali. Non mi ero cambiata gli abiti e non avevo nemmeno avuto il tempo di concedermi un bagno caldo, quindi mi liberai del sudore e del sudiciume con un incantesimo efficace, ma decisamente meno gratificante, e creai sulla mia pelle un aroma di aghi di pino. Era il mio preferito da quando Durza mi aveva detto che l'odore era simile al mio naturale.
Nella radura ad un centinaio di iarde dall'albero di Menoa, Alba ci salutò.
«Hai un colore sempre più orribile, lucertolone» fece, rivolta ovviamente a Fírnen.
«Anche io ti trovo un'amica fantastica».
«Quello era sarcasmo?»
«Me l'hai insegnato tu. Arya non avrebbe mai potuto farlo».

Mandai un pensiero di rimprovero ad entrambi. Possibile che anche il mio drago si coalizzasse contro di me?
«Dovresti sbrigarti a salire in groppa al tuo lucertolone sarcastico, mia regina» disse Alba con un sorriso sbilenco. Poi si chinò sulla mia bambina e la baciò sulla testa. «Sé ono Waíse ilia» mormorò. Che tu sia felice.
Mi si chiuse lo stomaco. «Alba cosa stai..?»
«Puoi farmi un favore Principessina?»
«Cosa?»
Annuì in direzione della mia bimba. «Chiamala davvero Aiedail. L'ultima stella della notte e la prima del mattino, quella che consegna le tenebre alla luce del giorno, la speranza degli afflitti, la guida dei naufraghi. Mi sono sempre piaciute le stelle. Scontato, lo so, ma è così. Aiedail, mia regina, mi raccomando».
«Alba..» ritentai.
«Vai, Arya. Viaggia con calma se desideri, ma entro due settimane devi essere sotto Isidar Mithrim, a mezzanotte esatta, ricorda».
Socchiusi gli occhi. «Ho capito, ma non mi è chiaro cos'hai intenzione di fare tu qui ad Ellesméra».
«Non nuocerò al tuo popolo, stai tranquilla. Credo che andrò a riposarmi, invece» fece allungando le membra.
«Ci vediamo tra non più di due settimane» quasi ordinai.
«Certo» fu la sicura risposta.
Lentamente, con estrema cautela, presi in braccio la piccola e misi in spalla la sua culla. Poi mi avviai verso il punto in cui mi aspettava Fírnen.
Quando mi voltai in direzione di Alba trovai i suoi occhi puntati su di me. Persino da una certa distanza osservai che erano lucidi di lacrime e che l'elfa aveva le unghie conficcate nei palmi.
Stirò un sorriso tremante sulle labbra e poi alzò un braccio in segno di saluto.
Colta in flagrante, sollevai la manina della mia bambina e la agitai. Alba allargò il sorriso, poi mi diede le spalle e si incamminò in direzione dell'albero di Menoa, con la schiena curva come se reggesse il peso dell'intero mondo.
Per un lungo momento fui tentata di correrle dietro e di abbracciarla.
Il momento passò e alla fine mi costrinsi a lasciarla in pace e a preparare la mia partenza
«Fírnen, te la senti di viaggiare? Sarai molto stanco per colpa mia».
«Avevi bisogno di tornare da tua figlia e io sono abbastanza riposato per volare almeno fino all'alba».
«Vuoi mangiare qualche torta al miele?»
«Sai che non mi piacciono».
«Bugiardo».
«D'accordo»
si arrese.
Grondando gratitudine per l'immenso sforzo che aveva fatto per me, mi diressi verso le cucine e frugai nella dispensa, poi sedetti accanto al mio drago mentre inghiottiva una buona quantità di dolci, approfittando dei minuti guadagnati per legare bene la mia bimba nel suo zaino.
«Ma'!» borbottò lei all'improvviso, guardandomi con i suoi obliqui occhi elfici -momentaneamente azzurri- e scalciando.
Sfiorando la sua coscienza, seppi che il breve suono emesso non aveva alcuna relazione con la parola “mamma”, come avevo inizialmente creduto, ma mi portò comunque sull'orlo delle lacrime. Risi gaiamente, come non facevo da settimane, stringendo goffamente la piccola da dentro lo zaino rigido e riempiendo la sua testolina di baci.
Lei rise a sua volta e seppi all'improvviso che avrebbe provato a ripetere il monosillabo in futuro, sapendo quanto la cosa mi aveva rallegrata.
Fu proprio in quel momento di gioia totale che successe.
Una luce bianca esplose dal punto in cui si trovava l'albero di Menoa e mi accecò. Senza riflettere più di tanto, imbracciai lo zaino e scattai in quella direzione, sballottando malamente la mia piccola, che si mise a piangere.
L'albero di Menoa era sempre al suo posto, ma era un poco avvizzito, come se stesse appassendo. Mi avventurai alla ricerca di Alba, ma non impiegai molto a trovarla.
Era stesa a terra, sotto i rami dell'albero, con le membra rigide e il volto pallido. La luce della luna piena riempiva macabramente i suoi occhi azzurri spalancati. Vitrei. Il suo petto era immobile. Il suo cuore taceva.
I miei passi si affrettarono ancora, fino a che non divennero una corsa folle.
«Alba!» strillai raggiungendola e cadendo in ginocchio al suo fianco.
Mi rifiutai di accettare il fatto, ma non c’era più nulla che potessi fare per restituirle la vita e nascondermi all’orrore.
Le afferrai un polso e lo strinsi per ascoltare il battito del suo cuore, ma la mia mano era talmente malferma e le grida di mia figlia così forti che non vi riuscii. Allora mi chinai su di lei e posai un orecchio al centro del suo torace, ascoltando il silenzio che lo riempiva. Il suo petto non si sollevava e la sua coscienza non c'era più. Sparita. Come se non fosse mai stata.
Mi staccai da lei e la scossi. Più volte. Urlai il suo nome fino a perdere la voce. La supplicai di svegliarsi.
Il suo viso era contratto, trasfigurato da un terrore che non potevo comprendere. Gli occhi parevano incapaci di abbandonare totalmente la vita e restarono ostinatamente fissi, a rimirare le stelle alte e lontane. Luci indifferenti.
Aideail. L'ultima stella della notte e la prima del mattino, quella che consegna le tenebre alla luce del giorno, la speranza degli afflitti, la guida dei naufraghi. Mi sono sempre piaciute le stelle. Scontato, lo so, ma è così. Aiedail, mia regina, mi raccomando.
La prima luce del mattino, quella che non avrebbe mai più brillato nei suoi occhi vuoti.
No, Alba non era morta. Alba era una di quelle persone che sopravvivono a tutto. Non poteva lasciarmi anche lei dopo tutte le morti che avevo già dovuto affrontare.. Era troppo.. crudele.
«Arya si avvicinano altri elfi» disse Fírnen. La sua confusione era pari solo alla mia.
Dovevo arrivare ad Isidar Mithrim entro due settimane. Perché? Cos'era mai successo? Cosa o chi aveva ucciso Alba?
«Andiamocene o avranno timore di lasciarci partire!»
«Aspetta! Non possiamo lasciarla qui!» gridai, abbracciando il corpo vuoto di quella che negli ultimi mesi era diventata l'amica e la sorella che non avevo mai avuto. Non potevo abbandonarla, non quando lei aveva fatto così tanto per me. E poi era così fredda.. dovevo portarla al palazzo e accendere un fuoco per lei, metterle tra le mani un infuso bollente e dirle quanto profondamente la stimavo per quanto aveva dovuto sopportare, quanto ammiravo il suo amore per la vita, quanto apprezzavo i suoi rimproveri taglienti, quanto le ero grata per essersi presa cura della mia bambina, quanto sarei stata orgogliosa di darle il suo stesso nome..
Fírnen mi raggiunse e mi spinse con il muso in direzione del suo dorso, separandomi da Alba definitivamente e facendomi inerpicare fino alla sella. Poi spiccò il volo, mentre sotto di noi la radura si riempiva di volti sconvolti di elfi. Incrociai lo sguardo atterrito di Däthedr prima che la terra schizzasse lontano dai miei piedi e il pianto di mia figlia diventasse stridulo dalla paura
Gilderien il Saggio mi sfiorò la mente per informarmi che qualcosa di terribile era accaduto accanto all'albero di Menoa, che un incantesimo nefando era stato compiuto.
Non gli risposi, isolai la mia mente, mi strinsi il volto tra le mani, graffiandomi le guance, e lasciai che Fírnen mi portasse via nella notte.
Non ero propriamente svenuta, ma impiegai diversi minuti per riprendere il contatto con la realtà, nonostante il pressante richiamo di Fírnen.

«Cos'è successo?»
gli chiesi, supplichevole. Con lo stesso tono con cui mi ero rivolta a Fäolin, la notte dell'agguato.
«Abbiamo appena passato le difese di Ellesméra e adesso stiamo riprendendo quota» fu la pronta risposta di Fírnen.
«Alba!»
«Lei è morta»
mi ricordò delicatamente. «Ci ha detto che qualcosa ci aspetta nel Farthen Dur e poi è morta».
«Forse abbiamo fatto male ad andarcene così in fretta. Non ho idea di cosa ci aspetti laggiù e potrebbe essere pericoloso e inoltre..» Deglutii. «L'abbiamo lasciata sola».
Fírnen mi abbracciò con le mente e poi mi ricordò che mia figlia era ancora legata sulla mia schiena. Assicurai le cinghie delle gambe e poi abbracciai la mia piccolina, che stava ancora singhiozzando a causa della corsa folle ad Ellesméra, della mia pazzia e del primo volo compiuto a dorso di drago.
Toccando la sua coscienza, trovai solo terrore. Ritenni di stare agendo per il suo bene, quando la addormentai con una parola di potere.
Solo a quel punto Fírnen tornò a parlarmi.
«Secondo te si è uccisa?»
La domanda mi spiazzò.
«Perché avrebbe dovuto?»
«Non lo so. Ma hai visto anche tu che l'albero di Menoa era avvizzito, come se qualcuno avesse attinto dalle sue energie per.. fare qualcosa».
«O come se qualcuno avesse scagliato un incantesimo in quel punto, prosciugando tutte le energie di Alba e parte di quelle dell'albero di Menoa».
«E quella luce? Sono confuso».
«Anche io. Abbiamo decisamente sbagliato a scappare, così ci siamo resi colpevoli. A questo punto non possiamo fare altro che proseguire e tornare ad Ellesméra con una spiegazione».
«Allora mettiti comoda»
. E per una volta non percepii la solita giocosità che lo accompagnava ogni volta che si prospettava un volo.
Arrivammo a destinazione otto giorni e molte pause dopo.
Ero straziata dai dubbi e tormentata per la brusca fine di Alba. Continuavo a ripassare nella mia mente l'immagine dell'elfa, sciupata, pensierosa e stanca, ed ero convinta di essere stata incredibilmente stupida, o almeno in misura sufficiente da non capire che qualcosa stava accadendo in lei. Qualcosa che doveva averla spinta a fare un incantesimo, qualcosa che solo la famigerata persona con cui avevo appuntamento poteva spiegarmi.
Faticai a chiudere occhio e giunsi a destinazione al limite delle forze, sia fisiche che mentali.
Non seguii esattamente le istruzioni di Alba. Chiesi a Fírnen di aspettarmi fuori dal Farthen Dur, in modo da passare inosservati, e di dare l'allarme agli abitanti della montagna se non mi avesse vista tornare entro due giorni.
Portai Aiedail con me, ma non appena entrai a Tronjheim, con il cappuccio abbassato sul volto, cercai una balia a cui affidarla fino a mezzogiorno del giorno seguente. Se non fossi venuta, aveva il compito di portarla all'esterno del Farthen Dur, dove qualcuno -non dissi che si trattava di Fírnen- sarebbe venuto a prenderla.
La mia bambina non fu affatto contenta di separarsi nuovamente da me, specie quando la sua balia non era Alba, che aveva imparato a conoscere molto bene.
Quando ebbi pagato la nana in anticipo, con l'anello di ametiste che tanto amavo, mancavano una manciata di minuti a mezzanotte e mi diressi immediatamente sotto Ididar Mithirm, decisa a risolvere il mistero della morte di Alba e a farle giustizia.
Il luogo sembrava deserto, ma non appena abbassai il mantello sulle spalle, mi resi conto di non essere sola.
C'era un uomo incappucciato al limitare della piazza. Non riuscii a vederlo in volto, ma fui certa che mi stesse guardando perché staccò le spalle dal muro e mi venne incontro non appena vide che mi avviavo nella sua direzione. Tra le lunghe dita pallide reggeva una delle lanterne senza fiamma che illuminavano l'intero Farthen Dur
«Chi sei?» domandai cautamente, posando la mano sul pomolo di
Támerlein. «Sei tu la persona che devo incontrare?»
«Arya Ammazzaspettri» rispose egli con voce fredda, suadente, accarezzando ogni lettera. «Dovrò guardarmi da te d'ora in poi».
Un tremito mi squassò le membra. Conoscevo quella voce, la conoscevo alla perfezione; quante volte l'avevo rievocata, nel mio dolore e nei miei più insperati sogni?
Ma non era possibile, non poteva..
Mi sporsi in direzione dell'uomo, alzandomi quasi in punta di piedi, e gli abbassai il cappuccio, svelando un volto affilato, dal severo naso aquilino e dai piccoli occhi felini, rossi come sangue, incorniciato da lisci capelli scarlatti.
Durza mi scrutò come se potesse ingoiarmi e poi sorrise, snudando i denti appuntiti.


Avevo sognato una cosa del genere un milione di volte nell'ultimo anno: che l'uomo che amavo tornasse, che ci fosse concessa una seconda occasione, che una nuova vita potesse finalmente cominciare.
Eppure quando mi ritrovai a fissare il suo volto, la prima cosa che sentii fu la sensazione di non sapere più respirare. Mi allontanai bruscamente di un paio di passi, stringendomi le costole con una mano e annaspando alla ricerca disperata dell'aria che avrebbe dovuto fluire regolare nei miei polmoni.
Quando l'uomo mi seguì, tendendo le mani nella mia direzione, mi affrettai ad estrarre
Támerlein dal fodero e puntargliela alla gola. Solo allora si fermò, sollevando le mani in segno di resa e trasformando il sorriso in un'espressione ferita.
Restammo in quella instabile posizione fino a che la mia crisi di panico non fu passata. Conscia di avere le membra fradice di sudore gelido, strizzai gli occhi con tutte le mie forze per scacciare l'illusione e tornai a guardare di fronte a me, ma l'immagine che vedevo non era cambiata di un pollice.
Una furia cieca mi bruciò il petto.
Afferrai l'uomo per il mantello e lo sbattei violentemente contro la parete, avvicinando nuovamente la lama al suo collo.
«CHI SEI?» sbraitai, sentendo gli occhi riempirsi pericolosamente di lacrime e la voce inerpicare su quelle semplici parole.
I suoi occhi parvero svuotarsi di ogni luce.
«Arya» sussurrò con voce melliflua. «Non mi riconosci? È passato così tanto tempo da..?»
«T-tu non puoi essere qui» balbettai. «Io ti ho visto morire, io ti ho ucciso, io ho seppellito il tuo pugnale e assistito al rogo dei tuoi abiti, io ho passato mesi a piangere la tua scomparsa. Tu non puoi essere qui».
L'uomo sorrise con una malinconia profonda. «Non ho scelto io di tornare, Principessa» disse nell'antica lingua. «Ma non voglio farti del male, né farti soffrire, quindi se mi concedi qualche minuto ti spiegherò tutto ciò che so».
Abbassai l'arma lentamente. «Durza» gracchiai, incredula, sconvolta e spaventata.
«Sono io, piccola elfa».
«Tu sei morto» protestai, sull'orlo di una seconda crisi di panico.
«Vieni con me, ti spiegherò tutto davanti ad una tazza di vino. Sei pallida come un cadavere». E mi tese una mano bianca.
Cadavere.
La fissai così a lungo che l'immagine si sdoppiò sotto i miei occhi.
Poi ricordai in successione: mia figlia affidata a una balia, il mio drago, così lontano da non percepire nemmeno la sua presenza.. e Durza era morto, morto!
Non poteva.. Non poteva tornare dopo tutti quei mesi, uguale a come lo avevo lasciato, mentre io nel frattempo avevo attraversato di tutto. Non era reale, non era possibile e non era naturale.
A quel punto realizzai chi fosse il vero artefice di tutto: Alba. Ma ancora non sapevo il come o il perché. E volevo delle risposte.
Così posai la mano sulla sua, senza riuscire a fermarne il tremore. Riconobbi la ruvidezza della sua pelle quando me la strinse vigorosamente, accarezzandone il dorso. Le gambe non mi ressero più e sarei caduta a terra se l'uomo non mi avesse stretta a sé, sollevandomi tra le braccia come una bambina.
Mi parlò, ma io sentivo il sangue ruggirmi nelle orecchie e rimasi sorda alle sue parole, eppure il ritmo e il peso dei suoi passi li ricordavo alla perfezione, così come ricordavo l'odore della sua pelle.
Durza.
Sentii dita agili sciogliere i lacci del mio corsetto e liberarmi dalla sua morsa, ma tornai pienamente in me solo quando mi schiaffeggiò dolcemente in viso. Rughe di preoccupazione gli increspavano la fronte e io non riuscii a trattenermi: posai le dita sul suo volto e le spianai, toccandolo con una tale leggerezza che non dovette sentire più pressione di quanta ne avrebbe fatta una farfalla.
«Stai bene, Principessa?»
Annuii, sopraffatta dalla confusione.
Mi aveva adagiata su un grezzo sgabello di legno e mi stava sostenendo la schiena affinché non cadessi all'indietro. La piccola stanza comprendeva un camino, un tavolo, un letto e qualche scaffale, ma sembrava troppo spoglia per essere abitata.
Pochi minuti dopo sedevo eretta, con
Támerlein posata sul tavolo davanti a me, una tazza stracolma di vino tra le mani e Durza lo Spettro seduto, vivo e vegeto, su uno sgabello accanto a me.
Strinsi convulsamente la tazza e la prosciugai del suo contenuto. Durza me la riempì nuovamente e non smise un attimo di scrutarmi con gli occhi penetranti che ben ricordavo.
Restituii lo sguardo con intensità ancora maggiore, incapace di fissarlo su un qualunque punto del suo corpo per più di qualche istante consecutivo. Volevo guardarlo nella sua interezza eppure ogni dettaglio mi distraeva. Un po' come aveva fatto la cattedrale di Dras-Leona la prima volta che l'avevo osservata alla luce del giorno.
«Non è un sogno, vero?» mormorai. «O una visione? Non sei il trucco di qualche mago malvagio, qualcuno che vuole incastrarmi?»
Lo Spettro abbassò gli occhi con aria infelice. «Sono io in carne e ossa. E te lo posso provare; ricordo tutto quello che ci è accaduto prima che il cavaliere venisse a Gil'ead. La notte che ti ho catturata, le settimane passate a torturarti, la nostra alleanza, la prima volta che abbiamo fatto l'amore..»
E parlò per lunghi minuti, riesumando dettagli che solo il vero Durza poteva effettivamente conoscere. La mia diffidenza si dissipò, ma quando cercò di sfiorarmi la mente, mi rinchiusi categoricamente in me stessa, impedendogli l'accesso.
Visto il mio atteggiamento sospettoso, decise di passare al vero e proprio resoconto.
«Quel giorno, mentre mi scontravo con il Cavaliere, avevo lasciato un po' troppo spazio ai miei spiriti ed ero piuttosto coinvolto nella loro violenza. Il ragazzo era riuscito ad entrare nella mia mente e allora loro tre hanno fatto un incantesimo. Non credo di riuscire a capire cosa, ma quando l'ho colpito alla schiena, ho riversato nelle sue ossa una sorta di maledizione, qualcosa che lo avrebbe fatto soffrire a lungo».
Annuii, ricordando gli attacchi di dolore di Eragon.
«Il tuo arrivo con il drago mi ha distratto» continuò lui. «Sono tornato in me, ma ormai era troppo tardi. Ho a malapena visto l'ombra della spada del Cavaliere, poi mi sono sentito come tirare per il mantello e la lama mi è penetrata tra le costole, trapassando anche la placca di metallo, e perforandomi un polmone. Mi sono sentito strappare le membra in mille pezzi e tutto è finito nel nulla, com'era già successo a Gil'ead». Si strofinò le costole, un poco a disagio.
«Ti ha colpito al cuore» lo contraddissi, in un sussurro strozzato. «Ti ha colpito al cuore e tu sei morto. Ho visto i tuoi spiriti uscire da te e disperdersi nell'aria. Il tuo corpo è diventato polvere e..» mi interruppi. La mia voce si era spenta e la mia testa era piena d'aria. Temevo di svenire da un momento all'altro e mi concentrai per qualche secondo sul movimento delle mie, di costole, perché sembravo avere disimparato a respirare.
Durza fece l'espressione di qualcuno che è sul punto di vomitare. «Già. Deve essere quello l'ultimo ricordo che hai di me, ma non è andata così». Bevve una buona sorsata della sua tazza e io lo imitai. «All'improvviso ho sentito di nuovo dolore, un dolore atroce, paragonabile solo a quello che ho sentito quando mi sono rigenerato, a Gil'ead. È iniziato dalla testa e poi si è diffuso in tutto il corpo; ed era strano perché prima che il dolore le raggiungesse non ero certo di avere tutte quelle parti del corpo, come se comparissero mano a mano che scendeva. Per farla breve: mi sono ritrovato sotto a quella maledetta pietra a forma di rosa -di nuovo intatta-, solo e senza abiti. Mi ha recuperato un tale che sembrava passare di lì per caso. Non ha fatto commenti sul mio aspetto, mi ha dato il suo mantello e mi ha portato qui, a casa sua. Ha detto di chiamarsi Tenga, di essere in viaggio e di conoscere una persona che doveva essere mia amica e che si faceva chiamare Aiedail». A quel punto alzò gli occhi su di me, con fare interrogativo.
«Lei non c'è più» rantolai, sopprimendo un singhiozzo.
Durza si afflosciò su se stesso e chiuse gli occhi. «Lo so».
Si alzò in piedi, rovistò in un cassetto e tornò con un pezzo di carta così sgualcito da rendere indubbie le molteplici riletture che aveva subito. Stirai la lettera -perché di quello si trattava- con mani tremanti e iniziai a leggere.

Durza, amico mio, ti scrivo questa lettera per dirti un paio di cose che ti saranno necessarie per sopravvivere.
Primo: cambia la tua fisionomia e fa' in modo di poter essere scambiato per un umano.
Secondo: Non rivelare a nessuno la tua identità -Tenga sa già tutto- e rimani nascosto.
Terzo: Presentati ogni notte sotto lo Zaffiro Stellato e rimani lì da mezzanotte alla quarta ora del mattino. Quando arriverà la persona che stai aspettando sono più che certa che la riconoscerai, ma se non si presentasse nel giro di due settimane, scappa, vai più lontano che puoi e se gli dei esistono che abbiano pietà della tua vita infelice e della tua solitudine.
Quarto: Sono successe parecchie cose dall'ultima volta che hai camminato sul suolo di Alagaësia; Tenga potrà dirtene alcune, altre te le racconterà Arya, quando e se verrà.
Quinto: Non credo che ci rivedremo mai più e occupo questo ultimo punto per prendere finalmente congedo da te, in pace. Ti ho voluto molto bene, Durza, e per anni sei stato tutta la famiglia che avevo. Di questo ti ringrazio infinitamente, perché eri simile a me e perché mi sono davvero sentita a mio agio in casa tua.
Ho compiuto diverse ricerche negli ultimi mesi e, se tutto andrà come credo, entro breve tu avrai preso il mio posto. Tenga mi ha aiutata molto in tutto ciò e credo che senza il suo aiuto e quello della Venerabile non sarei mai riuscita ad elaborare il corretto incantesimo. Se ti stai chiedendo chi siano costoro: temo di non riuscire a risponderti completamente.
Tenga non parla mai di sé, nemmeno se incoraggiato a farlo, ma da quello che ho scoperto nei mesi passati con lui, posso supporre che egli sia forse l'ultimo esponente di una razza antichissima e potente: il Popolo Grigio. Conosce la magia ad un livello profondissimo e mi ha insegnato quasi distrattamente incantesimi che potrebbero portare rovina ovunque. Mi ha detto che saprà quando farsi trovare da te e che dopo se ne andrà, ma non so quale sarà la sua meta, né lui sembra intenzionato a condividerla con me.
In ogni caso, guardati da lui. Sembra un vecchietto un po' folle, ma è un essere pericolosissimo e sopratutto imprevedibile. So che sta cercando il Nome dei Nomi e non escludo che ci riesca prima o poi, come non mi stupirei se, in futuro, riuscisse a creare più problemi lui di quanti ne ha creati Galbatorix.
Riguardo alla Venerabile, so che adesso si fa chiamare Angela l'erborista, ma che in passato è stata Silvarì l'Incantatrice e che ancora prima aveva altri nomi. Dalle tue descrizioni, suppongo che sia la stessa donna che ti ha impedito di uccidere Ajihad e ti ha rovinato la spada, colei che mi hai detto essere stata per decenni, l'oracolo sotto Ilirea. Guardati anche da lei, perché è pericolosa quanto Tenga, anche se molto più saggia ed equilibrata.
Tornando al discorso originario: Angela mi ha suo malgrado fatto capire che il tempo e lo spazio possono essere plasmati e modificati a piacimento, anche se con un grosso dispendio di energie. Tenga mi ha messo tra le mani la soluzione finale: ora so come viaggiare nel tempo e come modificare avvenimenti passati, anche se io, con la mia sola energia, non potrei mai compiere grandi cambiamenti.
Non so se ricorderai il giorno della tua morte, Durza, ma sappi che se qualcuno ti avesse afferrato il mantello e ti avesse spostato di pochi pollici, il colpo del Cavaliere ti avrebbe semplicemente sfiorato il cuore, per poi permetterti di rigenerarti. E pensa se qualcuno fosse comparso al tuo fianco, ti avesse tirato di lato, avesse creato l'illusione della fuga degli spiriti dal tuo corpo, per poi tornare, dodici ore dopo la tua scomparsa, nel luogo della tua presunta morte, per trasportare il tuo corpo rigenerato in quello che per te sarebbe un futuro? Si tratta di fare piccoli saltelli nel tempo e in sé non sarebbe un incantesimo mortale, e potrei benissimo sopravvivere con l'energia che spero di ottenere dall'albero di Menoa, ma ho capito che ci sono regole che la natura stessa non permette di rompere. Una vita per una vita.
Mi sembra un prezzo piuttosto onesto.
Perché lo faccio?
Perché questo non è il mio posto, non più. Nonostante tutto l'affetto che mi avete dato tu, Arya e un'altra piccola personcina, una ferita dentro di me non si è mai richiusa: la morte di Solus mi ha distrutta e ha portato con sé un pezzo di me che non tornerà mai più.
Alla fine l'ho scoperto, il modo per farla tornare in vita. Ma poi ho realizzato che non si è mai trattato di lei, ma solo di me. Volevo riavere la mia gemella perché ero sola, questo era il punto, non si è mai trattato di volerle dare una seconda occasione, ma solo e unicamente di me stessa. Se l'avessi davvero riportata in vita l'avrei condannata all'infelicità, costretta in un'esistenza che avrebbe considerato sacrilega ed immorale, ogni istante sarebbe stato una sofferenza per lei e prima o poi si sarebbe privata di ciò che io ho cercato tanto a lungo di restituirle.
So che in parte comprenderai questo mio egoismo e l'idea mi consola, mi fa sentire meno smarrita per la decisione che ho preso. Un'altra speranza è che tu sia ancora lo stesso uomo che ho lasciato a Gil'ead, dalla morale elastica e dal cuore forte, perché altrimenti ciò che ti darò sarà una condanna almeno quanto lo sarebbe stato per Solus.
Ti prego, accetta il mio dono -o la mia maledizione- e vivi per me e la mia gemella. Qualcuno ha bisogno di te, in questo presente, costruisci la tua felicità con le persone che ami, perché senza di loro non sei
niente.
Per sempre tua amica,
Alba.
Ps: La mia scoperta morirà con me; credo che nelle mani sbagliate sarebbe troppo pericolosa, anche se suona molto ridicolo detto da me.
Pps: Ricorda ad Arya che mi deve un favore. Un altro piccolo pensiero egoistico, ma credo di meritarmelo. Ah e dille che, nonostante tutto, non è la frigida altezza reale che credevo. Le colpe di sua madre non sono le sue, e non mi deve nulla.

Riposi la lettera e una lacrima cadde dalle mie palpebre, andando a infrangersi contro la mia mano. Nel silenzio il suono fu quasi assordante.
«Mi ha riportato in vita» disse Durza con la voce che tremava. «Quando ho letto queste parole per poco non mi sono ucciso dalla paura».
«Progettava tutto da mesi.. Io l'ho aiutata senza saperlo, le ho suggerito di tirarti per il mantello, l'ho lasciata tornare da Tenga senza farle domande, non ho interpretato la sua malinconia, ho ascoltato le sue raccomandazioni distrattamente.. Io ho creduto che stesse impazzendo».
Lo Spettro alzò un sopracciglio. «Non vi ricordavo così amiche» osservò.
«Questa è una lunga storia».
«E io vorrei che tu me la raccontassi».
Scossi la testa lentamente. Alba era morta perché io non ero stata abbastanza intelligente da capire i velati indizi che mi aveva mandato a più riprese.
La promessa di non tentare di resuscitare Solus.. Mi era sembrata serena quando aveva pronunciato quelle parole. Era perché aveva già deciso di sacrificare la sua vita perché mia figlia potesse avere un padre.
Le lunghe conversazioni con Angela, le parole della Venerabile quando aveva ucciso le Ombre a Dras-Leona, quelle del suo incantesimo quando aveva salvato mia figlia.. Tempo. Era una soluzione semplicissima eppure dispendiosa.
E Alba aveva dovuto attingere all'albero di Menoa per realizzarla.
In quel momento mi era tutto chiaro. E la perdita di Alba era più amara che mai.
Alzai gli occhi dalla lettera e incontrai le iridi verticali di Durza. Ancora era tutto irreale, troppo irreale per poterlo prendere in considerazione.
Perché lui? Non era giusto che lui vivesse e altri mille no.
«Che avevi in mente il giorno in cui.. in cui sei morto?»
«Stavo cercando te. Il re mi aveva ordinato di inseguire il Cavaliere e io mi ero reso conto che il mio vero nome era cambiato, perché riuscivo ad oppormi ai suoi ordini. Così ho finto di ubbidirgli e sono venuto qui con l'idea di prelevare te, il cavaliere e il figlio di Morzan e portarvi con me ad Uru'baen, dove in qualche modo avrei trovato il modo di sconfiggere Galbatorix, una volta che fosse rimasto distratto da tre prede così interessanti. E a tal proposito..»
«Lo so».
«Lo sai?»
«So degli Eldunarí. Ce n'erano altri nascosti a Vroengard ed è con il loro aiuto che Eragon è riuscito a spingere Galbatorix al suicidio».
«Che fine ingloriosa» disse con disprezzo. «Se la meritava tutta. Ma che ne è stato degli Eldunarí? Nonostante i miei sforzi, non ricordo il metodo con cui avrei dovuto distruggerli e mi sento parecchio idiota».
Aggrottai la fronte. «Eragon ha lasciato Alagaësia e li ha portati con sé. Potrebbero aver lanciato un incantesimo di memoria, dato che lo avevano già fatto per nascondere la loro esistenza a Vroengard». Socchiusi gli occhi con sospetto. «Non starai pensando di riprendere in mano il tuo vecchio piano ed impossessarti degli Eldunarí, vero? Non funzionerebbe. Eragon ha dalla sua anche il Nome dei nomi, non credo che ci sia qualcuno, in Alagaësia o fuori, che sia in grado di batterlo».
Durza sorrise. «Vedo che in fondo non mi hai mai dimenticato. Non temere, non ho intenzione di commettere sciocchezze, ma vorrei farti ragionare sulle tue stesse parole: nessuno è in grado di battere Eragon. Ti ricorda niente?»
«Eragon non è Galbatorix. È una delle persone più moralmente integre che io abbia mai conosciuto e non si lascerà scivolare nelle tenebre» risposi con sicurezza.
«Hai conosciuto molto bene il mio assassino a quanto vedo..»
Alzai il mento. «Mi ha corteggiata per mesi».
Durza chinò il capo. «E tu?»
«L'ho respinto» ammisi. «Ero ancora legata a te. Su questo hai ragione: non ti ho mai dimenticato».
«Un ciclo» disse, assorto. «Siamo al ripetersi di un ciclo. Non vedi? Anche la tua vita è un ciclo: l'uomo che uccide il tuo amato è poi destinato a diventare il tuo corteggiatore».
«Smettila».
«Prova a prendermi sul serio, Arya. Eragon ha assunto il ruolo di Galbatorix, ed è un tiranno buono, d'accordo, ma immagino che prima o poi dovrà morire. Che ne sarà degli Eldunarí a quel punto? Passeranno al nuovo capo dei cavalieri dei draghi, suppongo, e così via, nei secoli e nei millenni, fino a che non capiteranno tra le mani di una creatura che coverà lo stesso seme di follia di Galbatorix. E allora?»
«Allora niente. Pace e guerra sono nel ciclo naturale delle cose e per quanto possiamo cercare di evitare la guerra, essa tornerà sempre, inevitabilmente. È una cosa che possiamo solo accettare».
«Tu hai sacrificato la tua vita per porre fine ad una tirannia che sai già che ritornerà?»
«Sì. Io ho speso tutta la mia vita in questo perché altrimenti la tirannia sarebbe stata eterna. Non dico che non ritornerà, ma almeno con le nostre azioni abbiamo regalato un momento di pace. È come salire e scendere una scala, all'infinito. Tutto ciò che ha fatto la ribellione è stato salire di un gradino».
Aggrottò la fronte. «Abbiamo sofferto così tanto per un gradino?»
Annuii. «Temo di sì».
Si riempì nuovamente la tazza di vino. «Diamine, preferivo non saperlo».
«Che suggerimento avresti? Riguardo al troppo potere di Eragon, intendo» indagai.
Scosse la testa. «Non ne ho. Distruggere gli Eldunarí sarebbe sciocco credo, non si sa mai quali forze superiori esistano oltre al mare. E se qualcuno minacciasse Alagaësia, suppongo che Eragon interverrà per il meglio, almeno per ora. Ma credo che sarebbe un bene che il Nome venisse dimenticato dopo la morte del Cavaliere, è troppo pericoloso».
Non gli dissi che anche io possedevo quell'informazione. «Non ti ricordavo interessato al benessere generale».
«Sono vivo e dovrò viverci, in queste terre, quindi vorrei campare un paio di secoli in pace» disse, guardandomi con espressione indecifrabile. «Immagino che i nostri progetti non siano più validi».
Tremai.
«Ora sei regina, cavaliere di drago. Hai un sacco di responsabilità e ruoli importanti» proseguì, scostando lo sguardo. «Nessuno dovrebbe essere costretto a mantenere le promesse fatte ai morti».
Tacqui.
«C'è un altro uomo?»
«Non essere ridicolo» ribattei con asprezza. «Ti ho già detto di no».
Incassò la testa nelle spalle. «Dunque che ne sarà di noi adesso?»
«Non posso fingere che gli ultimi mesi della mia vita non siano mai passati, Durza. In confronto, quei tre mesi di felicità che io e te abbiamo speso insieme sembrano di una tale piccolezza..»
Lo Spettro annuì bruscamente. «Forse Alba avrebbe fatto meglio a lasciarmi nelle ombre».
«Non voglio che tu..»
muoia di nuovo. «Ho bisogno di tempo per capire cosa sta succedendo qui» finii per dire.
Fece un gesto vago. «Salvo nuovi imprevisti dovrei avere parecchi secoli».
Non fugai i suoi dubbi, non sapevo nemmeno io cosa sarebbe accaduto da quel momento in poi, ma ero certa che c'era almeno un particolare che avrei dovuto confessargli.
«Devo dirti una cosa. Riguarda la promessa che ho fatto ad Alba».
Gettò uno sguardo fugace alla lettera abbandonata sul tavolo. «Riguarda anche me?»
«Me, te.. Alba ha dato la vita perché a noi tre fosse concessa una seconda possibilità, quindi direi che le dobbiamo almeno un favore».
Annuì. Poi parve ripensare alle mie parole e i suoi occhi si strinsero nel dubbio, poi si dilatarono nella consapevolezza. «Tre?»
Le labbra mi tremarono quando le separai per sorridere. «Ha i tuoi capelli. Avrei dovuto dirtelo quando siamo tornati a Gil'ead, ma non ne ho avuto la forza. Ho creduto che sarebbe cresciuta senza un padre, e io non potevo abbandonare la mia battaglia, così ho fatto del mio meglio, ma finora non sono stata migliore di mia madre».
Mi interruppi quando mi resi conto che Durza aveva smesso di respirare, l'intero volto deformato in un'espressione sconvolta. «Noi..?»
«Il favore che devo ad Alba riguarda lei. Non volevo darle un nome, non sapevo decidermi e così lei ha preso a chiamarla Aiedail, sostenendo che era un bel nome da dare ad una bambina e che le dava speranza. Quindi immagino che ora.. Nostra figlia si chiami Aiedail».
Durza imprecò oscenamente, poi deglutì e infine mi guardò negli occhi.
«Non è vero» sentenziò. «Diamine! Ho perso così tanto» aggiunse subito dopo. «Dov'è?» balbettò infine.
Non ci avrebbe creduto fino a che non l'avesse vista con i suoi occhi, e forse nemmeno allora. Deve essere dura addormentarsi, svegliarsi all'improvviso e ritrovarsi -nel giro di poco più di una settimana- con tutti gli equilibri sconvolti e una figlia che non sapevi di avere concepito.
«L'ho affidata ad una balia, non sapevo chi avrei dovuto incontrare e volevo lasciarla al sicuro».
«Ah».
«Posso portarla qui se vuoi» gli proposi dolcemente.
Scosse violentemente la testa. «Aspetta. Aspetta un attimo». Si massaggiò le tempie.
«Arya non voglio apparirti rude o idiota, ma ho bisogno che prima tu mi racconti tutto. So che ho perso molte cose e Tenga ha già provveduto a raccontarmi i fatti principali avvenuti in Alagaësia, ma ora voglio sentirlo da te, tutto quello che hai fatto dopo Gil'ead, inclusa la parte in cui diventi una cacciatrice di Spettri». E concluse la frase con un sorriso abbozzato.
Così gli raccontai tutto. Quasi tutto. C'erano segreti che avevo promesso di mantenere e non li avrei mai offerti a nessuno, se non fosse stato necessario, nemmeno a Durza.
Parlai fino all'alba e poi fino a mattino inoltrato. Lo Spettro si alzò solo per andarmi a prendere dell'altro vino e idratare la mia gola secca per il lungo parlare, poi sedette nuovamente sullo sgabello accanto a me.
Quando finalmente chiusi la bocca, Durza aveva l'espressione confusa di chi ha ricevuto troppe informazioni tutte insieme e sta cercando disperatamente di riordinarle nella propria mente.
«Mi dispiace tanto» disse alla fine.
«Per essere morto?»
«Per essermi fatto sconfiggere come un idiota e averti lasciata da sola ad affrontare tutte quelle difficoltà».
«Me la sono cavata, no?» mi difesi.
«Splendidamente. Molto meglio di quanto sarei mai riuscito a fare io» disse.
Tacemmo per lunghi minuti, ognuno immerso nei propri rumorosi pensieri, poi la presenza dello Spettro mi risucchiò come un vortice e le mie riserve si sciolsero un poco. E se mi fossi risvegliata all'improvviso? Avrei potuto sopportare un simile dolore? Forse era meglio mettere subito fine all'illusione.
Allungai una mano e gli accarezzai la nuca, facendo scivolare le dita tra i suoi corti capelli rossi. Durza non scomparve, e mi sfuggì un sospiro di sollievo.
Mi sfiorò il braccio, guardandomi con tenerezza mista a pietà e ammirazione.
«Posso baciarti, Principessa?» domandò stupidamente.
Mi chinai in avanti sullo sgabello, fino a portare il viso all'altezza del suo, poi mi spostai di pochi pollici e toccai le sue labbra. Erano sottili, screpolate e sapevano di menta. Non sapevo se scoppiare a ridere o a piangere.
Lo Spettro socchiuse languidamente gli occhi e rispose al mio bacio, assecondando l'esasperante lentezza con cui assaporavo la sua bocca, con la prudenza di chi ha paura di rompere un oggetto prezioso.
Feci scivolare i polpastrelli sul suo volto, saggiandone la concretezza. Percorsi la linea delle folte sopracciglia, il naso severo, la curva decisa della mascella e della mandibola. Poi li spostai sul suo collo. Durza rabbrividì e io sentii il corpo accendersi di scintille.
Il suo calore e il suo odore mi avvolsero completamente e il tocco incerto delle sue mani sulla mia vita mi fece tremare.
All'improvviso volevo afferrare i suoi capelli rossi e baciare le sue labbra sottili con più violenza di quanta ne avessi mai messa in tutte le battaglie da me combattute, affondare le dita nella sua pelle e stringere a me il suo corpo nudo, fino a distruggere quel bellissimo sogno o togliere ogni dubbio sul fatto che non fosse fatto di ombre del passato, ma di carne e sangue.
«Mi sei mancato immensamente» ansimai, stringendogli la testa tra le mani, senza fiato per lo sconvolgimento che si agitava dentro di me.
«Anche tu» soffiò, quasi stordito.
Tornai a baciarlo, leccando le sue labbra e invitandolo a separarle. Mi graffiai la lingua contro la punta dei suoi denti e il sapore di sangue si mescolò a quello di menta, mentre i suoi occhi si spalancavano su di me, cupi e indagatori. Un vuoto mi scavò lo stomaco.
Lo Spettro mi strinse come per abbracciarmi, ma non era un abbraccio che volevo. Lo tirai giù dallo sgabello e entrambi scivolammo a terra.
Mi staccai dalle sue labbra e gli strappai la casacca di dosso, con malagrazia. Durza mi restituì un'occhiata perplessa e un poco preoccupata, vagamente simile a quella che aveva avuto la nostra prima notte a Dras-Leona, eppure, quando gli sbottonai la camicia, lui scosse bruscamente le spalle, facilitandomi nell'impresa e facendola scivolare via. Nessuna cicatrice spiccava sulla sua pelle pallida, non c'era alcun segno del punto in cui Eragon lo aveva colpito. Lo toccai, poi mi sporsi a baciarlo di nuovo, per nascondere il tremito delle mie mani.
«Arya non è necessario» mi informò lui, insinuando al contempo le mani sotto il mio farsetto e sfilandomelo faticosamente dalla testa.
«Ti desidero» replicai, premendo una mano contro il suo petto, spingendolo all'indietro sulla schiena e spogliandomi a mia volta. Lo Spettro non rimase ad aspettare che finissi da sola.
Sorrise alla vista del medaglione a forma di sole che mi pendeva tra i seni e, dopo aver attorcigliato la catenella tra le dita, finì per lasciarlo dov'era.
Le sue mani vagarono leggere sulla mia pelle e a quel tocco io mi sentii rinascere, come se effettivamente tornassi a vivere dopo mesi di mera sopravvivenza. Riempii le sue spalle di baci frettolosi, poi il viso, il collo, il torace; assaggiai voracemente il sapore della sua pelle.
Ma non avevo il tempo, la pazienza, il bisogno di esitare oltre in quelle tenerezze.
Sentii un lieve bruciore quando lo guidai dentro di me. Sussultai, ma il fastidio scemò prima che riuscissi a lamentarmene.
Durza strinse le dita sui miei fianchi fino a farmi quasi male alle ossa e gettò il capo all'indietro, gemendo scompostamente e strisciando i capelli rossi nella polvere.
Mi mossi su di lui, puntellando le mani a terra e baciando talvolta la sua gola scoperta e le sue labbra, spegnendo i suoi gemiti contro la mia bocca.
Precipitai in una voragine di emozioni, dove tutto svaniva a favore di Durza, che finì per incatenare gli occhi sgranati ai miei, per non lasciarli più andare. Persi totalmente la percezione di me stessa nelle spire cremisi delle sue iridi, che grondavano di gioia feroce, e il piacere che mi invase fu talmente intenso che fui costretta a premermi una mano sulla bocca per non gridare.
Lo Spettro scoprì i denti aguzzi e si abbandonò con un singulto. Mi sciolsi da lui e gli caddi addosso, tremante di soddisfazione
.
E a quel punto realizzai diverse cose tutte insieme: che il corpo aderente al mio era rovente, che il cuore che lo irrorava di sangue batteva irregolare -come un tamburo colpito distrattamente- sotto il mio orecchio, che le dita ruvide che giocavano con i miei capelli e disegnavano pigri cerchi sulla mia schiena nuda mi erano familiari almeno quanto le mie, che l'odore di menta del suo respiro mi invadeva prepotentemente le narici.
Avevo appena giaciuto con Durza. E Durza era vivo.
Una strana sensazione mi si strinse alla gola, al punto di farmi sentire sopraffatta. Era un’emozione incontenibile, una via di mezzo tra tenerezza e commozione. Un singhiozzo mi scosse le spalle, poi un altro, poi gli argini del mio orgoglio si ruppero e scoppiai definitivamente a piangere, inondando in suo petto di lacrime.
Lo Spettro mi avvolse completamente nelle sue braccia. «Io ti amo» bisbigliò.
E me lo ripeté all'infinito, come una dolce litania, fino a che le parole non persero il loro significato e i miei singhiozzi lo contagiarono.
Così ci ritrovammo a piangere come due sciocchi, aggrappati l'uno all'altra, quasi temendo che una voragine improvvisa potesse aprirsi sul grezzo pavimento di terra, separandoci una seconda volta.
Durza era vivo. Forse avrei faticato ad accettarlo, ma era così. E non ero né inorridita né disgustata.
Avevo passato infinite sofferenze, ma non avevo mai smesso di amarlo e in quel momento stavo semplicemente scoppiando di gioia e di incredulità
Durza era vivo. Avrei potuto baciare infinitamente le sue labbra e ridere di nuovo alle sue sciocchezze. Mia figlia avrebbe avuto un padre a crescerla e io un compagno a darmi affetto.
Durza era vivo, per il Wyrda di Alagaësia, Durza era vivo!

Ci alzammo dal pavimento solo quando i nostri corpi cominciarono a raffreddarsi. Ci rivestimmo e restammo abbracciati ancora per lunghi minuti, mischiando capelli, lacrime e respiri.
«Credo sia ora di presentarti qualcuno» mormorai infine, schiudendo le labbra in un sorriso.
La mia bambina gorgogliò di gioia quando mi rivide arrivare e tese le manine per farsi prendere in braccio. La condussi con me alla casetta dove mi aspettava Durza, cullandola dolcemente e sussurrandole qualcosa a proposito del padre che stava per conoscere.
Lo Spettro era seduto sullo sgabello dove lo avevo lasciato e si stava asciugando i palmi delle mani sui pantaloni.
Gli sorrisi, intenerita dal suo atteggiamento teso e dall'espressione emozionata che assunse non appena posò gli occhi su sua figlia.
«Lei è Aiedail» mormorai.
Durza tese le mani e io gli misi la bambina tra le braccia.
Lo Spettro scrutò il visetto pallido di Aiedail a lungo e lei lo guardò con i suoi speciali occhi diversi, con curiosità. Era tranquilla e una scintilla di consapevolezza sembrava accendere il suo sguardo, come se in qualche modo sapesse perfettamente chi la stesse tenendo.
«Ciao piccolina» disse poi Durza, scompigliando i sottili capelli della bambina, rossi come i suoi. «Sono tuo padre. Sei uguale alla tua mamma e sei bellissima».
Rise deliziato quando Aiedail borbottò imbronciata, poi alzò la testa e mi guardò, gli occhi sgranati, smarriti, commossi.
«Arya», gracchiò,
«è..»
Mi sporsi a baciarlo sulle labbra. «Lo so».
Restammo seduti al tavolo per lunghi minuti. Se io non riuscivo a smettere di guardarlo e toccarlo per accertarmi che fosse reale, Durza pareva incapace di staccarsi da Aiedail. Se ne era innamorato, indubbiamente.
Poi alla fine la piccola si addormentò e lo Spettro la depose gentilmente nella sua culla. Lo sguardo adorante che mi rivolse poco dopo lo conoscevo, lo avevo visto sui volti dei monaci, quando invocavano il loro dio a Dras-Leona, nei gesti che si scambiavano Roran e Katrina, nel sussurro disperato di Murtagh quando aveva lasciato le mani di Nasuada..
«Arya» bisbigliò Durza, posando le mani sulla mia schiena e attirandomi a sé.
Mi abbracciò, mi sollevò da terra e mi depositò sul basso pagliericcio a poche iarde di distanza.
Sentii la pelle fresca della sua mano quando mi aprì il farsetto e mi strinse un seno da sotto la fascia, baciando al contempo le mie labbra. Poi spostò la bocca all'altezza del mio orecchio e mormorò una serie di sfacciate e sensuali promesse che mi fecero fremere di desiderio.
Una scia di baci scivolò sul mio collo, sul petto, sullo stomaco.. Lo Spettro non si fermò e i suoi capelli mi solleticarono le cosce. Mi ritrovai con entrambe le mani strette sulla bocca, nel goffo tentativo di bloccare i sospiri.
Prima che il sole salisse a picco per il mezzogiorno, facemmo l'amore altre due volte.
Durza posò la testa sulla mia spalla e chiuse gli occhi, asciugando con il suo respiro affannato il sudore che mi velava il collo. Esausta e ancora incerta su quanto fosse reale e quanto parte di un bellissimo e crudele sogno, voltai il viso a guardare i capelli rossi della mia bambina, mentre quelli del padre mi scivolavano tra le dita della mano destra.
Le mie due fiaccole.

[Durza]
Non appena si mosse per rivestirsi sentì la schiena bruciargli per i segni sanguinolenti che dovevano avergli lasciato le unghie della sua amante. Possibile che, con quelle unghie corte e rovinate, fosse riuscita a graffiargli la pelle a tal punto?
Li avrebbe cancellati con la magia, ma il lieve dolore portava con sé piacevoli ricordi, quindi preferì tenerseli. Rievocò gli occhi lucidi di Arya, i suoi capelli di tenebra che lo coprivano come la notte mentre era chinata su di lui, la stretta convulsa delle sue mani, la forza delle sue labbra mentre le premeva sulle sue, la voce arrochita che mormorava il suo nome e lo supplicava di prenderla di nuovo.
All'inizio aveva pensato anche di fermarla, perché più che desiderio, lo sguardo smarrito dei suoi occhi scatenava la sua pietà. Avrebbe voluto cullarla dolcemente, non stringerla nella presa della passione. Eppure lo aveva toccato e baciato con abbandono, bella come una dea, e alla fine lui aveva ceduto completamente al bisogno di averla sua.
Non lo aveva mai amato con così tanto ardore, mai.
Per lei sei morto un anno fa, idiota. Si rimproverò spietatamente.
Ma era la verità. Per lui era passata poco più di una settimana da quando aveva visto Arya l'ultima volta, invece erano trascorsi mesi su mesi. Un anno intero.
E in quell'anno era successa un'infinita quantità di cose, ovviamente. Il tempo non si era fermato per lui, lo aveva semplicemente buttato fuori e poi recuperato un po' più avanti, come se nulla fosse mai stato. Era tornato alla vita, ma era rimasto indietro.
Non aveva visto la propria donna per otto giorni e, quando era tornata da lui, l'aveva ritrovata fragile e provata, spaventata e profondamente cambiata.
E aveva una figlia. Non l'aveva vista nascere, non l'aveva vista crescere, non era stato vicino a sua madre mentre la portava in grembo.
Quando aveva visto Arya avvicinarsi sospettosa a lui, la notte precedente, aveva riconosciuto nelle sue movenze e nei suoi atteggiamenti la stessa donna che aveva lasciato per farsi un viaggetto tra i morti. Il suo primo istinto era stato quello di stringerla tra le braccia e affogare nell'odore della sua pelle, ma non appena lei l'aveva respinto aveva immediatamente capito che non poteva essere così facile come aveva sperato.
L'elfa aveva vissuto e sofferto senza di lui e, in confronto, il tempo passato insieme era una bazzecola insignificante.
Aveva ascoltato il racconto delle sue peripezie con la bocca spalancata dallo stupore, chiedendosi come una persona sola potesse sopportare tante pressioni. Certo, c'erano cose che Arya si era guardata bene dal rivelargli, lo aveva percepito.
«Ci sono segreti che ho promesso di mantenere e rivelare solo in caso di estrema necessità. E questo non è un caso di estrema necessità» aveva replicato freddamente, non appena glielo aveva fatto notare.
Certo. In fondo era sempre lei.
Il suo più grande timore era che non riuscisse ad accettarlo mai più nella sua vita, dato che il suo ritorno era opera di un incantesimo di magia nera. Non voleva dirle addio e non voleva dire addio a sua figlia.
Al suo risveglio sotto alla pietra a forma di rosa, aveva effettivamente creduto di essersi rigenerato dopo un colpo stranamente deviato.
Poi era arrivato quel bizzarro ometto di nome Tenga, gli aveva gettato un mantello addosso e lo aveva intimato di seguirlo. Lo aveva assecondato, troppo spaventato e confuso per potersi rifiutare.
L'uomo non aveva speso molte parole con lui, aveva detto di chiamarsi Tenga, di avere fatto un favore ad un'amica e che doveva assolutamente ripartire per una meta che si rifiutò di rivelare. A quel punto Durza aveva chiesto spiegazioni e l'uomo ne aveva fornite. Secche e raggelanti.
«Tu sei morto da un anno. Un cavaliere e un drago hanno ucciso un re e adesso c'è una donna sul trono. E nessuno che voglia dirmi il Nome! Bah!»
Aveva provato ad insistere, ma era palese che l'uomo non sapesse granché. Sembrava aver vissuto per anni nel più totale isolamento e non sapere nemmeno con certezza chi fosse Galbatorix.
Gli aveva messo distrattamente nelle mani una lettera e poi se n'era andato, per non tornare più. Dopo aver letto le parole di Alba, lo Spettro era inorridito ed era andato nel panico più totale.
Era rimasto chiuso in quella casa per un giorno, fino a che non si era deciso ad uscire nella notte per rubare qualche vestito e qualcosa da mangiare. Aveva presto realizzato che era circondato da nani e che di umani ce n'erano ben pochi, così aveva impiegato altre due notti di pellegrinaggio prima di trovare dei vestiti, anche se corti per lui, in una casa che pareva abbandonata.
Poi aveva cominciato a raccogliere informazioni. Piano, piano, discretamente, sfiorando qualche ignara mente qua e là.
La gente raccontava la scena della sua morte ad opera del grande Cavaliere, la scomparsa di Ajihad e la guida assunta da sua figlia, il tradimento del figlio di Morzan, le campagne militari, l'alleanza con gli Urgali, l'uccisione dei Ra'zac, Roran fortemartello, l'attacco ad Uru'baen, la scomparsa di Galbatorix, la nuova regina, la nuova regina degli elfi..
Alla fine aveva saputo tutto.
E non sembrava possibile che qualcosa di simile fosse avvenuto mentre lui era semplicemente scomparso.
Aveva riletto la lettera di Alba infinite volte. Aveva pianto, vergognandosi di sé come mai prima, perché non piangeva da quando era un ragazzo e si era ripromesso di non rifarlo mai più.
Quello che la sua amica aveva fatto sembrava incredibile e impossibile allo stesso tempo: era tornata indietro, lo aveva spostato dalla traiettoria dell'arma del Cavaliere e poi si era spostata di una dozzina d'ore, prelevandolo dal passato e portandolo nel presente. Un ultimo sforzo che le era stato fatale.
Le spiegazioni complete erano venute con Arya. Era lei che aveva aspettato per il resto della settimana, aggrappandosi disperatamente alla piccola scritta del suo nome, nella lettera di Alba.
Avevano giaciuto insieme, ma lei non gli aveva dato il beneficio di nessuna garanzia per il loro futuro. Era diventata una donna potente e influente e non poteva e non voleva pretendere che si allontanasse da tutto solo per poter giocare alla famigliola felice con lui.
Durza sentì le lacrime pungergli gli occhi e si infuriò con se stesso, perché sapeva di non averne alcun diritto. Non aveva il diritto di soffrire, non aveva il diritto di piangere il passato perduto, non aveva il diritto di temere il futuro. Non aveva nemmeno il diritto di guardarla, non dopo tutto quello che aveva dovuto affrontare.
Se solo non l'avesse abbandonata nella sua cella, quella notte..
Se solo non si fosse lasciato trascinare dall'odio e dai sussurri degli spiriti, durante l'attacco al Farthen Dur..
«Oh, Durza» lo rimproverò Arya dolcemente. «Smettila o impazzirai».
Sarebbe stato il momento perfetto per fare una battuta sarcastica, ma non gli riusciva. Aveva a malapena la forza mentale per impedirsi di scoppiare in singhiozzi.
Ormai completamente rivestito, sedette di nuovo accanto a lei e la strinse, accettando di buon grado che lo sfiorasse con mani tremanti, quasi ad accertarsi che fosse ancora reale e non fosse sul punto di sparire.
«Ti amo» le disse. E avrebbe voluto dirglielo altre mille volte, perché le fosse chiaro quanto dolorosamente profondo e reale fosse lo struggimento che provava nei suoi confronti.
Arya crollò come un muro di vetro sotto un deciso colpo di martello.
Ascoltò le sue parole.
Le ascoltò, ma sapeva già tutto. Lo aveva visto sin dal primo istante, quando gli aveva abbassato il cappuccio del mantello e puntato la spada verde alla gola, aveva visto che qualcosa in lei si era spento e spezzato.
Ma la amava. La amava forse più di quanto l'avesse amata in passato.
L'amava e voleva aiutarla, voleva sostenerla, voleva colmare i suoi vuoti e recuperare il tempo perduto, renderlo una piccolezza di fronte ai lunghi decenni passati insieme; voleva baciare la sua bocca seria e asciugare le sue lacrime; voleva vederla sorridere alla loro bambina e sentirla dargli dell'idiota.
Questo.. e molto altro.
Ma non era affatto certo che anche lei avrebbe voluto.

[Arya]
Quando Durza mi ripeté quelle due piccole parole, sentii nuovamente qualcosa dentro di me crollare.
«Io sono malata» confessai.
«E non possiamo fare nulla per guarirti?» chiese allarmato.
Scossi la testa e gli occhi mi si colmarono di lacrime. «Sono malata qui dentro» specificai, ticchettando l'indice sulla fronte.
Durza parve confuso e anche un po' spaventato. «Cosa significa?»
«Sono pazza. Fuori di testa, instabile, matta come un cavallo. Vedo cose orribili dove spuntano i fiori; ho paura di dormire; sento le grida degli uomini che ho ucciso e rivivo il loro terrore e il loro dolore; trovo macchie di sangue nel più candido dei lenzuoli e sotto alle mie unghie, anche se le ho appena ripulite; il cibo ha il sapore di carne in putrefazione e ogni volta che mi allontano dalla mia bambina mi viene da vomitare perché sono certa che non la rivedrò mai più».
Sputai fuori tutto, come un torrente che rompe gli argini, facendo però attenzione a non lasciare cadere le lacrime sul mio viso.
Durza mi guardò dapprima sconcertato, poi inorridito, poi pietosamente e infine con tenerezza.
Mi baciò tra le sopracciglia. «Io ti amo».
«Tu ami la donna che hai lasciato un anno fa».
«E tu sei la stessa donna».
«No» negai con sicurezza. «Non riuscirai a nascondermi la mia condizione, non sono così mal ridotta da non accorgermene da me».
«Sei malata» disse con semplicità. «E io ti aiuterò a guarire».
«Troverò il modo di farti stare accanto a tua figlia senza che tu debba prenderti il carico gravoso di assistere una folle».
«Amo Aiedail, ma amo anche te e le tue non sono che scuse per nascondermi la verità. Lo so che hai i tuoi impegni e i tuoi doveri, ma per una volta potresti lasciare agli altri il compito di risolvere i problemi di tutta Alagaësia. Non voglio forzarti a lasciare la tua vita per me, Principessa, ma ti prego: permettimi di starti accanto, di scacciare i tuoi incubi e gli orrori, di condividere il tuo dolore. Permettimi di prendermi cura di te, anche nell'ombra, anche di nascosto se preferisci. Alba mi ha riportato in vita e non sprecherò questa mia seconda occasione lontano da te a meno che non sia tu ad ordinarmelo». Parlò con passione e con sicurezza, gli occhi puntati nei miei ricolmi di affetto disarmante.
Ma ciò che mi proponeva era irrealizzabile. Io avevo dei doveri verso me stessa, ma ne avevo prima di tutto verso il mio popolo. Non sarei mai e poi mai riuscita a farlo entrare di nascosto nella Du Weldenvarden; i Guardiani avrebbero percepito la sua presenza e quella degli spiriti che trascinava con sé. Forse avrei potuto trovargli una sistemazione a Ceuron o a Gil'ead, e passare con lui ogni notte, ma quanti anni o anche solo mesi sarebbero passati prima che qualcuno si accorgesse che c'era qualcosa che non andava? Se Durza fosse stato scoperto, sarebbe stato ucciso. Se fossi stata scoperta io sarei stata espulsa per sempre da Alagaësia o forse condannata insieme a lui. E a quel punto che ne sarebbe stato di nostra figlia?
Stavo per dirgli tutto questo quando la mia piccola iniziò a piagnucolare.
E mi colpì una rivelazione. Forse i doveri che avevo verso il mio popolo erano più alti di quelli che avevo nei miei confronti, ma erano davvero più alti di quelli che avevo verso mia figlia?
Lo Spettro si alzò prima che potessi farlo io e sollevò la bambina dalla sua culla, mormorandole parole rassicuranti.
Risi piano, quasi temendo che il mondo esplodesse al suono della mia risata.
Durza mi guardò con aria di sfida, sollevando un sopracciglio e inarcando le labbra sottili. «Non sbattermi in faccia la tua superiorità in materia, Elfa».
«Ha solo fame» lo informai candidamente.
Sedette di nuovo sul giaciglio e me la porse. «Come non detto, pensaci tu».
Aiedail si lasciò imboccare il cibo che avevo con me nella bisaccia e si calmò.
Durza mi strinse una mano e la baciò con devozione.
Io guardai prima lei, poi lui e poi sorrisi di nuovo.
Dopo tanto vagare, finalmente ero a casa.

Cara Nasuada,
Ieri siamo arrivati sul mare e Aiedail ha provato a mangiare un pugno di sabbia. Dovrò tenerla d'occhio finché staremo qui. È la prima volta che vedo il mare e nessuna descrizione o Fairth è riuscito a rendergli pienamente giustizia. Durza, invece, lo aveva già visto in passato, ma mi ha confidato che non gli è mai piaciuto più di tanto, quindi suppongo che la malia che io provo nei confronti di questo luogo sia scritta nel mio sangue.
Come avrai intuito, è stato Fírnen a portarci fin qui. Non appena ha toccato la mia mente, al mio ritorno da Tronjheim, ha capito immediatamente. Così come io ho capito, non appena ho toccato la sua.
Come drago e cavaliere, noi due siamo un'accoppiata perfetta -e non potrebbe essere altrimenti- ma stare insieme significa rinunciare ad una fetta di felicità che per il momento non ci sentiamo di abbandonare, dato che sarà di breve durata. Se io non mi godrò mia figlia adesso, non lo farò mai più, così come Fírnen dovrà godere della passione per Saphira fino a che essa non si sarà spenta. Il ché, dato che i draghi sono molto più soggetti all'istinto e in genere non hanno un compagno per la vita, potrebbe avvenire prima che sia riuscito a viverla veramente.
Mi vergogno infinitamente, ma ammetto di essere io la vera causa della nostra separazione e della mia fuga. Sono troppo debole e provata per essere regina, eppure, se rimanessi in Alagaësia, non riuscirei a farmi da parte. In questo, la mia partenza è del tutto simile a quella di Eragon e lascia le nostre terre completamente sguarnite da draghi e cavalieri. Non so se sia un bene o meno, Nasuada, ma molti sono scettici riguardo alla rinascita dell'ordine, visti i molti problemi che ha portato, al mio popolo prima di tutti.
Forse ciò che sta facendo Eragon è un anacronistico tentativo di recuperare qualcosa che non può più rispondere alle esigenze di Alagaësia, o forse no.
Suppongo che solo il tempo ce lo dirà.
Quanto al tuo controllo sui maghi, credo di poter capire il tuo timore, anche se ai miei occhi è inconcepibile un mondo in cui si deve chiedere il permesso per usare la magia. È comprensibile la tua diffidenza nei confronti di qualcosa che non sai gestire, ma con i tuoi provvedimenti finirai per uccidere la magia nel mondo degli uomini, visti gli ostacoli che imponi per utilizzarla. Sii molto prudente con le tue scelte.
Per quanto riguarda gli elfi, sono quasi sicura che Däthedr prenderà il mio posto.
Non aspettarti eccessivo trasporto dal mio popolo; un nostro grande difetto, che io ho in parte superato solo diventando ambasciatrice, è quello della nostra superbia nei confronti delle razze mortali. Fino a che non li provocherete, gli elfi non vi nuoceranno, ma nemmeno usciranno dalla Du Weldenvarden o vi inviteranno ad entrare. Cerca di non indisporre il mio popolo, o temo che a quel punto, nonostante siamo ormai in pochi e le nostre nascite siano sempre meno, solo Eragon potrà salvarvi dal massacro.
Come ti ho già accennato in apertura, ciò che è successo ad Alba e all'albero di Menoa sarà probabilmente imputato a me e Fírnen. Sta a te scegliere a quale versione affidarti. Dal canto mio, non temo per la mia salute fino a che sarò lontana e non temo per quella del mio drago, fino a che sarà con Eragon e riuscirà in qualche modo a giustificare la mia assenza.
Forse ti starai chiedendo che ruolo avrà Durza in tutto questo, ed eccoti la risposta: sarà il mio compagno e il padre di mia figlia, almeno fino a quando lei non avrà più bisogno di noi. Non so dirti cosa accadrà allora.
Una parte di me continua a rifiutare l'idea che Durza viva. Su questo credo di avere una sorta di conflitto di interessi: vorrei ucciderlo, perché la sua vita è innaturale e sputa in faccia a tutte le morti irreversibili a cui ha portato questa guerra, ma al contempo sono certa di amarlo ancora, di un amore che potrà solo crescere in futuro. Forse Alba ha compiuto il più sacrilego degli incantesimi, ma non smetterò mai di esserle grata per avermi restituito l'uomo che ogni notte mi scuote dai miei incubi e ogni giorno mi sommerge di commenti sarcastici e gesti premurosi.
Inoltre ho un dovere verso la mia piccola. Non potrei mai guardarla negli occhi, un giorno, e ammettere di avere ucciso suo padre una seconda volta perché “era giusto così”. Quindi mi tengo il mio Spettro e mia figlia e mi allontano per qualche decennio da Alagaësia. Posso solo dirti che non andrò ad est, perché gli Eldunarí vorrebbero certamente disfarsi del mio uomo, se sapessero che è tornato.
A questo punto credo di dovermi reputare fortunata per il fatto di essere un'elfa, dato che avrò il tempo di vivere la vita banale e forse noiosa di madre e compagna, ma potrò sempre tornare ad essere cavaliere e riabbracciare il mio Fírnen, un giorno, o chissà, magari spiegherò agli elfi che è stata tutta colpa di Alba e tornerò ad essere la loro regina. Solo con questi pensieri nella mente ho trovato il coraggio di abbandonare le mie responsabilità, questo e perché sento di avere un dovere più alto nei confronti di Aiedail. Se fossi stata solo io, probabilmente avrei finito per rifiutare momentaneamente Durza per mantenere i miei impegni, anche se non sarei mai riuscita ad ucciderlo. Invece ho capito che se voglio vivere una parte della mia vita con lui e con la nostra bambina, allora devo farlo adesso, senza ulteriori indugi.
Un giorno tornerò, Nasuada. Non posso prometterti che ci rivedremo, vista la brevità della vita umana alla quale sei condannata, ma sono sicura che tornerò.
Ti consiglio, se dovessi nuovamente trovarti faccia a faccia con Angela l'Erborista, di fingere di non sapere nulla di lei, o rischieresti la vita.
Riguardo a Tenga, non so più di quanto ho già scritto, ma temo che possa rivelarsi pericoloso se scoprirà il Nome dei Nomi. Non mi farò problemi a scriverti, se venissi a sapere dove si è nascosto lo stregone.
Con questo chiudo questo mio interminabile rapporto. Ti lascio in custodia i miei ricordi, alcuni di Durza e altri di Hillr, scivolati nella mia mente prima della sua morte. Ammetto che tutto questo ha principalmente lo scopo di giustificarmi a tuoi occhi, in modo che tu possa prendere seriamente i miei avvertimenti e non perdere la fiducia nella persona che sono.
Se hai o hai avuto un minimo di rispetto per me, distruggi queste pagine senza parlarne a nessuno, ti prego. Abbi cura di te e trova la felicità in ciò che fai,
Arya.



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Cari lettori,
Che dite? Due lettere in un solo capitolo sono già troppe? Oh be', ormai che l'ho iniziata..
Ci tengo molto a ringraziare ciascuno di voi per il tempo che ha dedicato a leggere questa storia, recensirla, aggiungerla tra i seguiti, preferiti, ricordati. Se ho portato a termine questa piccola Odissea lo devo a ciascuno di voi.
Ammetto che quando ho iniziato a pubblicare la fanfiction -più di due anni fa- non avevo la minima idea di dove sarebbe andata a parare. Avevo una passione per la coppia Durza/Arya, un'amore sconfinato per il personaggio di Durza, adorazione per i libri di Paolini e un po' di amarezza per i misteri lasciati aperti dall'autore al termine di
Inheritance, il tutto condito da un caotico insieme di supposizioni.
Se ora tornaste a rileggere il primo capitolo e la prima lettera a Nasuada, vi accorgerete che sembro descrivere una visione mezza apocalittica e in tutta sincerità non ricordo cosa avessi progettato come finale, quindi credo che a breve modificherò la lettera introduttiva per addolcirne i toni. Di certo l'interruzione di un anno non ha giovato a rendere la storia migliore, ma credo di essere riuscita a prenderla in mano abbastanza decentemente, nonostante nel frattempo sia cambiata io, il mio modo di scrittura, i miei pensieri sulla vita e le mie supposizioni sul
Ciclo dell'eredità.
Per quanto riguarda questo lunghissimo capitolo conclusivo, capisco benissimo che alcuni di voi avranno storto il naso di fronte al ritorno dello Spettro. Credo di aver fatto capire che Arya avrebbe potuto benissimo vivere e morire senza di lui, ma che lo accetta nuovamente nella sua vita perché le si è presentata l'occasione e perché ama lui e la loro bambina, non per altro. Non nascondo che il destino scelto per lei da Paolini non mi ha mai entusiasmata, altrimenti non avrei mai cercato di cambiarlo.
Mentre la partenza di Eragon era amara, ma insieme esaltante, la prigionia di Arya nel ruolo di regina degli elfi mi ha davvero fatto sprofondare il cuore. Per una come lei, dal carattere indomito, solitario, intraprendente, quello di costringerla sul trono è stato davvero un colpo basso. È vero che la fedeltà alla sua gente e il suo senso del dovere sono molto radicati in lei, ma dopo tutto ciò che ha passato in guerra, merita un futuro di serenità e di libertà, non altri secoli di sacrifici per gli altri.
Questo è ovviamente il mio umile parere di lettrice appassionata, ma ciascuno di voi avrà il suo e io li rispetto tutti!
Sarà triste per me non scrivere più di questi personaggi, mi ci ero davvero affezionata e mi sembra di avere lasciato una parte minuscola di me in ciascuno di loro, nessuno escluso. Questa è la prima fanfiction scritta da me e devo dire che l'esperienza mi è piaciuta e che probabilmente tornerò a scrivere qualcosa sul
Ciclo dell'eredità in futuro. Magari qualcosa sui rinnegati, magari la vita di Athala, i segreti di Arcaena, o la storia di un Urgali.. O forse scriverò una storia fantasy originale e pubblicherò anche quella.. Chissà!
Vi invito a lasciarmi commenti perché sono curiosa di sapere cosa pensate di tutto (:
E niente! La storia è conclusa, ma prima di chiudere totalmente inserirò un paio di appendici nei prossimi mesi (con mooolta calma) sui nomi dei personaggi che ho inventato, sul futuro della religione dell'Helgrind (un piccolo racconto che volevo inserire nella storia, ma sarebbe risultato fuori dai tempi, quindi vi ho rinunciato), un punto di vista di Alba quando sceglie di sacrificarsi per Durza e con qualsiasi altra cosa che mi verrà in mente nei prossimi giorni.

Grazie per essere stati con me. Sé onr sverdar sitja hvass!
Baci,
Lalli

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Capitolo 41
*** Appendice 1: Studio dei nomi e fine del culto dell'Helgrind ***


Studio dei nomi

I nomi dei personaggi -sia quelli inventati da me sia quelli di Paolini (che in ben quattro casi sono senza nome!)- hanno sempre avuto un loro perché. Premetto che non sono una linguista, quindi mi sono basata spesso e volentieri su dizionari online e le mie ricerche non saranno precisissime, siate pietosi! ^^

*Hillr
(Antico Norreno)= Leale. È buffo perché in realtà la scrittura corretta sarebbe “Hollr” ma devo avere avuto una grande svista al momento della prima scrittura e mi sono resa poi conto che il suono mi piaceva di più, quindi l'ho mantenuto.
Nadua = Questo è il nome che ho inventato per lo spettro sconfitto da Laetri l'elfo -dato che Paolini non ce l'ha mai detto- ma non ha un significato. È semplicemente un rimaneggiamento del nome “Nuada”, re della mitologia irlandese. Altre info qui ---> Nuada
*
Praéll (Antico Norreno)= Vittima. È l'uomo incontrato da Durza a Taurida, quello che gli da le informazioni e che lui uccide azzannandogli la gola.
Bitr (Antico Norreno)= Coraggiosa. Nome scelto da Durza per Arya, in modo da viaggiare in incognito a Dras-Leona.
Natt (Antico Norreno)= Oscuro. Nome scelto da Arya per Durza, in modo da viaggiare in incognito.
*
Svella = Rimaneggiamento di Vesall (Antico Norreno), che significa “miserabile”. È la donna che accompagna Arya da Gamall l'erborista.
*
Gamall (Antico Norreno)= Vecchio. È l'erborista incontrato da Arya a Dras-Leona e poi condannato dai Sacerdoti.
*
Gagnsamr (Antico Norreno)= Utile. Come dimenticare l'amico Gagnsamr, il monaco che inizia Durza e Arya al culto dell'Helgrind? Mi sembra incredibile che un nome tanto astruso significhi semplicemente “utile”. All'arrivo dei nostri eroi, l'uomo ha cinquantatré anni.
*
Fuilteacha (Gaelico)= La sanguinosa. Qui era da intendersi come “La persona sanguinosa”. È il nome assunto dal Sacerdote che viene accolto nel culto la sera in cui Durza e Arya si appostano all'esterno della Cattedrale per origliare i suoni della cripta. Il nome apparteneva ad un adepto del culto famoso per aver sacrificato tutto se stesso al suo Dio, fino a morire.
*
Helsa (Finlandese)= Dedicata a Dio. È la monaca dall'aria infelice che fugge dalla Cattedrale. Abbandonata dai genitori -che avevano fatto voto di donare a Dio la seconda figlia se il primogenito fosse sopravvissuto- la giovane entra nel monacato all'età di dodici anni. Ormai sulla soglia dei trent'anni, riceve l'ultima visita di sua madre, che riesce a dirle che suo padre è morto di stenti e suo fratello in un incidente in un cantiere, per poi spegnersi a sua volta tra le sue braccia. Tre anni dopo, Durza e Arya arrivano alla Cattedrale e la giovane mostra ben presto la sua fragilità e la sua insofferenza nei confronti del dio crudele che non ha saputo salvare la sua famiglia, nonostante il suo sacrificio, finendo per fuggire per la disperazione.
*
Gefion (Finlandese)= Colei che dona ricchezza. Originaria di una famiglia di ricchi carpentieri, riceve una buona educazione. Unica figlia della coppia, che aveva a lungo cercato di avere un figlio, invano, rifiuta diversi pretendenti ed entra nel Culto all'età di ventuno anni, fiera e convinta della sua scelta. Vista la sua buona educazione, conosce alcuni rudimenti della cura con le erbe.
*
Elin (Finlandese)= Dio è la mia luce. Figlia di primo letto di un consigliere alla corte del governatore Tàbor e della figlia di uno speziale, viene presto esclusa e denigrata dai figli che il padre ha con la seconda moglie. La matrigna è ben contenta di incoraggiare il suo fervore religioso e la ragazza entra nel Culto prima di raggiungere l'età da marito. Non ricorda molto della madre, ma ha letto molti dei suoi libri e dei suoi appunti e conosce il mestiere dello speziale.
*
Delling (Finlandese)= Affascinante. Il padre è uno spaccapietre, la madre si occupa della casa, ma spesso vende il suo corpo per esigenze economiche. Maggiore di quattro fratelli e una sorella, Delling finisce per diventare a sua volta prostituta. Ha ventidue anni quando prova ad adescare un monaco, Gagnsamr, non riconoscendolo per ciò che è. Il vecchio la porta alla Cattedrale e le parla di Dio e del suo disegno, incantando la giovane donna. Tornata a casa dalla famiglia, li informa che ha deciso di farsi monaca e li lascia a cavarsela da soli, abbracciando il culto dell'Helgrind. Due anni dopo trova un membro delle Ombre nella dispensa, mentre torna dalle latrine, in piena notte. Dopo mesi di innocenti incontri, i due finiscono per diventare amanti. Delling è davvero innamorata di Wachter, che invece sembra più attratto dal suo aspetto, ma che comunque la rispetta.
*
Wachter (Tedesco)= Guardiano. L'Ombra amante di Delling che sventa i piani di Augyra e che riferisce i sospetti dell'amante su Durza e Arya al Sommo Sacerdote.
*
Tove (Finlandese)= Buona. Il padre era un macellaio, la madre intrecciava e vendeva cesti di vimini. Si sposa giovane, all'età di quindici anni, ma il marito muore stupidamente: una baracca di legno della periferia di Dras-Leona gli crolla addosso mentre cammina per la strada. Tove mette al mondo un figlio, che tuttavia muore dopo poche ore e, dopo mesi di lacrime, trova consolazione in Dio e nei suoi compagni monaci.
*
Broder (Finlandese)= Fratello. Ultimo figlio maschio di un'antica famiglia nobiliare, decaduta dopo l'ascesa di Galbatorix. Originario di Uru'baen, viene in contatto con la religione sin dai vent'anni, ma ne attende altri cinque prima di recarsi a Dras-Leona, il tempo necessario per assicurarsi che le tre sorelle abbiano trovato un buon marito e conducano una vita felice. Benché né ricchi né nobili, i suoi genitori sanno leggere e scrivere e fanno i banchieri, non gli trasmettono il mestiere, ma la capacità sì.
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Elof (Finlandese)= Erede. Il padre è un vassallo di Lady Alarice e come d'uso lascia tutto in eredità al figlio maggiore, benché totalmente incapace. Il secondogenito fugge di casa indignato e trova una dignitosa soluzione nell'entrare nel culto dell'Helgrind.
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Gillis (Finlandese)= Bambino. Vive in un minuscolo villaggio sul lago di Leona con la sua famiglia. I genitori osteggiano fortemente la sua scelta di entrare nella chiesa dell'Helgrind, ma alla fine il giovane lascia la casa paterna e si dedica finalmente a Dio. È il più giovane dei monaci.
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Mikell (Finlandese)= Simile a Dio. Cresciuto in un orfanotrofio, non ha mai conosciuto i suoi genitori e si vergogna molto delle sue radici invisibili. Sa che l'unica gloria che potrà mai avere sarà al servizio del suo Dio e questo fa di lui un fedelissimo, ma dopo trent'anni al servizio del Culto, ancora non è riuscito a prevaricare su Gagnsamr ed è molto geloso di lui, per quanto lo rispetti.
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Rasmus (Finlandese)= Amato. È il secondo più giovane dei monaci e non ha ancora venticinque anni. Di bell'aspetto e cordiale, era un famoso rubacuori a Belatona, sua città di origine.
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Stian (Finlandese)= Vagabondo. La madre era del Surda ed è fuggita con suo padre, che ha sposato ad Arughia. Hanno avuto tre figli, Stian è il mezzano, ma se ne va non appena il padre prova ad imporgli di imparare il suo mestiere di calzolaio, per poter ereditare la bottega, un giorno. Ha l'incredibile capacità di inventarsi storie e di convincere gli altri che sono vere. Con questa capacità è sopravvissuto un annetto, vagando per la parte meridionale di Alagaësia, poi ha saputo del culto dell'Helgrind ed è riuscito a diventare monaco e a togliersi dalla strada. È il meno credente di tutti, è visceralmente attratto da Helsa, anche se è uno dei pochi fatti che non racconta in giro, e talvolta frequenta qualche prostituta, pagandole con le offerte che rubacchia dall'altare.
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Trygg (Finlandese)= Affidabile. Come Broder, ha quarantadue anni quando Arya e Durza arrivano alla Cattedrale. È figlio di contadini, e particolarmente disponibile e responsabile.
Augyra (Antico Norreno) = Auga [occhio] + Heyra [orecchio]. Ho inventato un ruolo all'interno di Arcaena e un nome per la donna che Paolini ci presenta come Occhi di Lupo. Le parole “occhio” e “orecchio” sono un riferimento alla sua attività di spia.
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Bidelia (Irlandese)= Esaltata. La sacerdotessa che si strappa un braccio all'altare dell'Helgrind e viene poi uccisa da Durza e Arya con il Fricai Andlat, dopo avere colto i due mentre lasciavano gli ambienti sotterranei, in piena notte.
Abracham (Irlandese)= Padre di una moltitudine. È il Sommo Sacerdote dell'Helgrind, detto anche monco o lingua mozza, ucciso da Angela nell'assedio di Dras-Leona. Il nome, come si può ben facilmente intendere, è un derivato del nome “Abramo”.
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Solus (Antica lingua di Paolini)= Sole. Stiamo parlando della gemella di Alba, identica a lei sotto ogni aspetto e morta nella battaglia di Ilirea a causa di un colpo di spada al costato. Sul suo corpo fu cantato un salice piangente, lo stesso albero che Arya sceglierà per Islanzadi, pur non sapendo che Alba aveva cantato lo stesso sul corpo della gemella. Mi piaceva il gioco notte/giorno che creavano i due nomi accostati, infatti Aiedail è una stella, visibile sopratutto di notte, ma è anche quella che sopravvive abbastanza da incontrare il giorno, e quindi il sole.
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Damali (arabo)= Bella visione. Nome dato alla madre di Durza.
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Urien (irlandese)= Nascita privilegiata. Nome dato al padre di Durza.
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Rahi (arabo)= Primavera. Nome dato alla sorellina di Durza.
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Ziya (arabo)= Splendore della luce. Nome dato al fratellino nato morto di Durza.
Geerten (Irlandese)= Abile con la lancia/ Fortelancia. Il capitano inviato a Gil'ead da Galbatorix, con precise istruzioni di catturare Eragon e Saphira, se gli si fosse presentata l'occasione.
Athala (Antico Germanico)= Nobiltà di stirpe. Il nome, come anche il ruolo di ultima erede dei Broddring, sono una mia invenzione. Paolini ci aveva solo fornito una descrizione fisica e il misterioso nome di Cantalama.
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Màthair (Irlandese)= Madre. È la balia che si prende cura della bimba di Arya e Durza, i giorni immediatamente successivi alla sua nascita.
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Dietfried (Tedesco)= Protettore del popolo. Nome dell'unico figlio di Athala, sorella minore di re Angrenost.
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Ehren (Tedesco)= Onorevole. Figlio maggiore di Dietfried, morto a nove anni.
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Kerta (Tedesco)= Guerriera. Secondogenita di Dietfried, morta a diciassette anni con il figlio che portava in grembo.
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Ragnol (Tedesco)= Saggio. Terzogenito di Dietfried, nonché unico dei tre figli sopravvissuto. Ha una sola figlia, Athala/Cantalama.
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Volga = Gioco di parole con “volgo”, da intendersi come “popolana”. È la madre di Athala/Cantalama, uccisa dal secondo marito dopo avergli rivelato qualcosa sulle origini reali della figlia.

*Personaggi inventati da me.

Ho dimenticato nessuno? Spero di no, ma nel caso fatemelo notare, Grazie ^_^





La fine del Culto dell'Helgrind

Il crollo della Cattedrale di Dras-Leona colpì un po' tutti coloro che si muovevano entro le mura della città. I non credenti si videro mancare un pezzo molto importante dell'ambiente cittadino: un punto di orientamento e anche uno per fare affari. I credenti faticarono effettivamente ad accettarne la distruzione.
Avevano visto un drago scontrarsi contro creature orribili sulla montagna sacra al loro Dio, solo pochi mesi prima, e da allora i doni e i sacrifici non erano più stati reclamati dalla divinità. Già era difficile vedere il proprio Dio sanguinare e mantenere intatta la fede, ma il crollo dell'edificio che ospitava il suo culto, la chiesa madre.. Non era uno spettacolo che si accetta senza mettere in dubbio nemmeno per un istante l'esistenza del Dio che avrebbe dovuto reggere la baracca.
Inoltre, dalle macerie della cattedrale, furono estratti solo cadaveri. E come si poteva pensare di mandare avanti il culto, senza sacerdoti che celebrassero i riti?
Cero, tre dei monaci erano sopravvissuti, ma di sicuro non sarebbero stati in grado di ricostruire il credo, dato che ignoravano gran parte dei suoi misteri, e non si poté attingere agli archivi scoperti nei tunnel sotterranei perché i documenti furono quasi totalmente distrutti dal crollo e dai scellerati soldati Varden. I pochi scritti sopravvissuti, vennero venduti dai monaci per sopravvivere e un uomo li portò con sé a Kuasta, anche se nessuno seppe mai cosa intendesse farne.
I tesori custoditi dai Sacerdoti divennero parte della cassa reale e furono usati per riparare alcuni danni di guerra e le gallerie furono ristrutturate e adeguate alla loro funzione originaria: fognature.

Il giorno del crollo, Gagnsamr aveva accompagnato Elin e Stian al mercato. Vi andava raramente, perché le sue vecchie ossa lo preferivano seduto in preghiera su una scomoda panca, piuttosto che in giro tra la folla a prendersi gomitate sulle costole e a farsi pestare i piedi ossuti.
Tuttavia quel mattino era avvenuto un piccolo incidente in cucina: Tove, un poco distratta, aveva totalmente carbonizzato il pane destinato alla colazione dei Sacerdoti e ovviamente non c'era stato il tempo necessario per farne lievitare dell'altro entro l'ora del pasto, quindi si erano avventurati in città alla ricerca di qualche pagnotta calda, poco prima che i Sacerdoti entrassero in chiesa per il rito del mattino.
Poi avevano visto i draghi. Gagnsamr aveva una paura terribile di quelle creature e dei loro cavalieri. La loro stessa esistenza era un insulto e una minaccia al potere del suo Dio.
Le due bestie avevano cominciato a scontrarsi e la folla del mercato si era caoticamente dispersa tra grida di terrore. Stian era riuscito a trascinare via lui ed Elin dalla folla impazzita e tutti e tre erano rimasti ad assistere da lontano alla distruzione della loro chiesa, pietrificati.
Erano riusciti ad avvicinarsi alle macerie solo quando era calata la sera, ed Elin vi si era gettata sopra, urlando, piangendo e spaccandosi le unghie contro le pietre, mentre scavava alla disperata ricerca dei propri compagni. Qualcun altro aveva cominciato già ad estrarre i primi corpi da sotto le massicce pietre che avevano sorretto l'edificio, tutti coordinati da un gruppo di soldati Varden e surdani.
Il primo Sacerdote fu ritrovato tra i resti del campanile, gli altri nella navata centrale, colti sicuramente dai loro nemici nel bel mezzo del rito del mattino e massacrati senza pietà.
Gagnsamr capì che non avrebbe più rivisto nessuno dei suoi compagni nel momento stesso in cui gli riferirono che l'altezza della cattedrale era crollata verso la parte sinistra dell'abside. Il muro di mattoni rossi che aveva delimitato il chiostro era stato sepolto dalle macerie.
Completamente.
Se anche qualcuno fosse sopravvissuto, lì sotto, non sarebbero mai riusciti a tirarlo fuori prima che morisse soffocato o di stenti.
Lui, Elin e Stian si operarono insieme ai cittadini per sgomberare la grande piazza. Impiegarono settimane, ma alla fine recuperarono tutti i morti, tranne il Sommo Sacerdote. Di Abracham non vi era traccia, come se si fosse volatilizzato.
Seppellirono i corpi fuori dalla città, ai piedi dell'Helgrind e lì vi trovarono solo desolazione e abbandono. Se un Dio aveva abitato in quella montagna, ormai non ve n'era più traccia.
Nel frattempo, Alagaësia sembrava come impazzita: il re Galbatorix era stato ucciso e una donna, il capo dei Varden, aveva preso il suo posto. I tesori che le gallerie segrete avevano contenuto erano stati portati via dai guerrieri dei Varden, buona parte degli scritti bruciati dagli stessi soldati, travolti dall'euforia della notizia della sconfitta del re nero. Alcuni dei cavatori impegnati nello sgombero delle macerie avevano consegnato a Gagnsamr alcuni manoscritti sopravvissuti, contenuti in delle casse. Il monaco li aveva concessi ad un uomo di Kuasta, il quale gli aveva detto di essere un amante della conoscenza e di poter conservare gli scritti in un luogo sicuro.
Con il denaro ottenuto, lui e gli altri due sopravvissuti tirarono avanti per i mesi seguenti. Il giorno che Elin gli chiese, tra i singhiozzi, cosa ne sarebbe stato di loro, Gagnsamr non seppe rispondere o darle consolazione.
Già altre persone si erano rivolte a lui, chiedendogli di rifondare la chiesa e di parlare loro di Dio, ma il vecchio non ne era stato capace.
Dove prima c'era il suo Dio, in quel momento vi era solo il vuoto. Dio non aveva protetto la cattedrale, non aveva protetto Broder, Delling, Elof, Mikell, Gefion, Rasmus, Gillis, Tove, Trygg..
Loro erano stati i figli e i fratelli che lui -abbandonato dai genitori- non aveva mai avuto. Ed erano perduti.
Dio era stato ucciso, o peggio, non era mai esistito.
La nuova certezza lo gettò in una crisi profonda, che si protrasse per tre lunghi mesi. Lui, Elin e Stian avevano trovato asilo nella sede dei mastri scalpellini, che li ospitavano per pura pietà, in cambio di qualche semplice lavoretto e del poco denaro che potevano offrire, quello ottenuto dall'uomo di Kuasta.
Ma nessuno dei tre fu in grado di rievocare un canto a Dio, e per mesi, non appena si accennava ad uno dei compagni scomparsi, lacrime di dolore rigavano i loro volti sconvolti.
Quando un giorno, ormai vicino alla primavera, sentì Elin gridare, Gagnsamr si precipitò all'esterno della sede degli scalpellini e la vide abbracciata in lacrime ad una donna dalla pelle abbronzata, con corti capelli tra il biondo e il rosso e gli occhi color sabbia tremanti di incertezza, come anche le mani arrossate che stringevano la schiena di Elin.
Quando finalmente riconobbe Helsa, Stian era già corso incontro all'ex monaca, l'aveva sollevata da terra e, ridendo come un bambino, l'aveva baciata più e più volte sulle labbra.
Quello fu l'inizio di una vecchiaia lieta, per Gagnsamr. I quattro si stabilirono nella casetta di Helsa e trovarono un impiego.
L'altezzosa Elin prese in custodia la piccola bottega di un erborista, un certo Gamall condannato a morte dai Sacerdoti più di un anno prima; Stian si unì ai cavatori e Gagnsamr divenne precettore di alcuni ricchi rampolli di mercanti. Helsa faceva la lavandaia da quando era fuggita dalla Cattedrale, e Gagnsamr non si sarebbe stupito troppo se, prima della fine dell'anno, avesse unito la mano a quella di Stian.
Tutti insieme, rievocavano i compagni perduti e, lentamente, cominciarono ad accettare la loro dipartita, per quanto dolorosa.
Non erano più monaci ormai, le macerie della Cattedrale erano ordinatamente ammucchiate e venivano trasportate fuori città. Ciò che aveva avuto per tutta la vita era scomparso, ma finché lui insegnava loro a leggere e scrivere, Elin preparava buon cibo per tutti, Stian cantava ballate e raccontava storie e Helsa sorrideva con l'espressione di chi non crede alla propria fortuna, Gagnsamr poteva definirsi il vecchio più felice di Alagaësia.

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Finisce qui la prima appendice, la seconda, con POV di Alba e bibliografia/sitografia, arriverà sempre nei prossimi mesi ;)
Grazie a tutti coloro che negli ultimi tempi hanno aggiunto questa storia tra i preferiti/ seguiti/ ricordati e lasciato adorabili recensioni, sono lusingata!
Baci,
Lalli

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