自由, Jiyu - amare, perdere, dimenticare.

di Mirin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Furyo no sainan, gli imprevisti accadono. ***
Capitolo 2: *** Kayaku, preparativi di guerra ***
Capitolo 3: *** Kie nai, primo passo. ***
Capitolo 4: *** Kurai hada, il passato non si seppellisce. ***



Capitolo 1
*** Furyo no sainan, gli imprevisti accadono. ***


PRESENZA DI LINGUAGGIO SCURRILE, uomo avvisato, mezzo salvato. Più avanti la storia tratterà di tematiche delicate come scienza e fede, matrimonio, razzismo ed infedeltà, quindi mi raccomando, siate molto attenti ad affezionarvi a questi dementi.
Il background della storia è ripreso dall’AW di Rinne – Your Other Self, long!fic sia AU che canonverse scritta da Kiarana con tematica fantascientifica. Consiglio a tutti di leggerla, perché questa pazza ha in mente cose turche che tutti gli amanti di una buona fanfiction dovrebbero apprezzare. (cioè, sentimi, IO, persona inutile che il fandom non si è mai cagato nella storia, faccio shoutout alla gente: stiamo proprio messi male, gente, MALISSIMO.)
 
Alla Ky, che oggi è il suo compleanno
e questa storia me l’ha praticamente tirata fuori dalle mani.
Alla Ky, che è stronza e lo sa bene, alla Ky che è incrollabile,
alla Ky che sopporto e mi sopporta praticamente tutti i giorni,
e che mi assilla lei e la sua baby face. No, Ky.
Alla Ky, che ho traviato sulla strada dello ShibiYosh, e con la quale
ho costruito SHIBI ABURAME, il nostro negrone preferito <3
Alla Ky, che probabilmente non gradisce le dediche,
ma a me nun me ne fott manc’ u cazz (L).
Auguri, old woman.

12 Giugno 2015, ore 12.34, Tokyo, Giappone sud-occidentale.


Il ticchettio dell’acqua che cadeva sul piatto della doccia aiutò Yoshino a rilassarsi mentre si svestiva degli abiti casalinghi che aveva indosso. Mormorò qualcosa di indistinto mentre si legava i capelli in una mezza crocchia disfatta, tra i denti reggeva qualche forcina per domare le ciocche ribelli del taglio scalato che sfuggivano all’elastico.
Appena l’acqua fredda iniziò ad accarezzarle la pelle sudata, la donna non poté impedirsi di imprecare. Odiava l’estate, odiava l’impossibilità di lasciar scorrere via i brutti pensieri assieme ad una cascata di vapore caldo, ma mai come in quel momento il suo odio raggiunse un picco decisamente alto.  Aveva bisogno di sbarazzarsi delle furiose elucubrazioni e delle faticose pene d’amore, aveva un discorso da preparare.
Se Shikaku fosse stato lì, le avrebbe detto che era troppo stakanovista per i suoi gusti, che avrebbe dovuto mollare tutta quell’ansia e farsi un bel bicchiere di sakè. D’altronde, se Shikaku fosse stato lì, probabilmente Yoshino non avrebbe neanche avuto motivazioni per essere così inquieta.
Era da un mese che quel fricchettone non faceva che parlare della convention a Los Angeles che avrebbe riunito milioni di studiosi di fisica teorica, nonché le più grandi menti della scienza moderna. Persino Shikamaru, che si stava laureando nella stessa branca del padre, non riusciva più a sopportare il fanatismo religioso con cui il Nara più vecchio si lanciava nelle discussioni assieme ai suoi due migliori amici nerd. Era da un mese che Shikaku non vedeva l’ora che arrivasse quel giorno, non vedeva l’ora di farsi tredici estenuanti ore di volo per atterrare poi con la testa gonfia a causa del jet-lag e farsi riempire la zucca di migliaia di teorie strampalate da centinaia di pazzi come lui.
Eppure, ieri era quasi ad un passo dal mandare in fumo tutti i suoi progetti. Yoshino aveva visto la fiamma dell’accendino esitare troppo vicina al fragile biglietto aereo, i suoi occhi neri come l’abisso ed altrettanto vuoti erano fissi sulla luce danzante del fuoco. Tutto a causa sua.
“Niente mi lega a te, niente può farti restare. E se me ne andassi, cosa ti vieterebbe di uscire dalla mia vita e non tornarci mai più?”
Ma nonostante tutto, quel dannato fricchettone psicopatico l’aveva lasciata a svegliarsi da sola quella mattina. Alle sei e mezza si era alzato, aveva preso la valigia, ed assieme al figlio degenere si era avviato verso la stazione della metropolitana, incontro al suo sogno americano geek. A lui non importava nulla di lei, maledizione, non gli importava. Non aveva mai lottato per tenerla accanto a sé.
Vaffanculo, vecchio bastardo.

 

Una settimana prima

5 Giugno 2015, ore 8.00, Tokyo, Giappone sud-occidentale


Lo squillo perforante della sveglia decise di assordare la famiglia Nara alle otto in punto quella mattina, proprio come tutte le altre mattine. Yoshino mugugnò nel sonno, scrollandosi di dosso le lenzuola bianche; o almeno tentando, dato che il braccio con cui Shikaku la stringeva al suo petto le impedì di muoversi, mentre l’altra mano dell’uomo tirava un bello schiaffo sul pulsante di rinvio dell’orologio-sveglia.
“Oh, Shika, ti prego, ho una causa stamattina” Yoshino tentò di opporsi fiaccamente, intrecciando la gamba destra con quella del compagno che ancora dormiva. La barba sulla mascella di Shikaku le pungeva le guance, i capelli sciolti dell’uomo le carezzavano la fronte ad ogni loro respiro, il sole caldo dei primi di Giugno le si infilava tra le ciglia arruffate con arrogante veemenza.
“Dai, scemo, lasciami andare.”
Le labbra sottili del fisico si tesero in un sorriso sghembo. “Oh, questa me la segno.”
La donna sospirò, scuotendosi di dosso le proprie coltri con un gesto indolente: sempre a fare l’offeso, quello Shikaku, sempre a piccarsi per qualunque stupidaggine le uscisse di bocca. Se non avesse prestato abbastanza attenzione a quello che diceva, quel dongiovanni incallito avrebbe potuto presentarle un’istanza con tutte le frasi che le erano scappate per reclamare la legittimità di andare a letto con un’altra donna. Non che Yoshino non lo avesse evirato prima.
“Ogni volta che parlo con te, mi sembra di non essere mai uscita dal tribunale” Yoshino sbuffò, cacciandosi via dagli occhi i ciuffi ribelli che erano sfuggiti alla pettinatura con cui era andata a dormire. Shikaku, che non era stupido, decise di aprire un occhio per controllare lo stato dei nervi della propria consorte. Oh, era decisamente irritata.
“E dai, non ti stizzire, Yosh” la voce roca e graffiata del suo compagno intervenne al suo orecchio, bruciandole col proprio respiro caldo la sottile conchiglia dell’orecchio, “sono certo che andrà tutto bene, vai e stendili. Sono settimane che ti prepari, dieci minuti e li terrai in pugno. Non vedo l’ora che tu torni a casa stasera… ho un bel regalino da farti per festeggiare la vittoria.”
La bocca di Yoshino si piegò in un ghigno intriso di malizia. “Oh, ma tu vuoi deconcentrarmi…”
Le mani di Shikaku si spostarono dalla sua vita ai suoi fianchi, poi sopra le sue cosce, mentre lei veniva spinta contro il suo bacino, una risata le scappò tra i denti. “Allora, che ne dici di un po’ di coccole liberatorie per farti scaricare tutta questa brutta tensione? Non riuscirai mai a dare il tuo massimo con una tale ansia sulle spalle…”
“Per quanto sono certo entrambi di voi sentiate il bisogno fisiologico di scatenare i vostri istinti primordiali i quali purtroppo o per fortuna hanno portato alla mia nascita, che in questo momento so tu stai maledicendo, papà” Shikamaru apparve sulla porta aperta di camera loro con un’espressione esasperata, già vestito di tutto punto, “devo chiedervi di posticipare il lieto evento ad un momento più consono: ti ricordo che hai deciso di guidare la mia macchina di ritorno dal bar con quei coglioni dei tuoi amici, e che la suddetta mi è stata sequestrata dalle autorità, quindi ne abbiamo una sola. Io devo andare a lezione e mamma a lavoro, quindi, dal momento che tu sei l’unico in questa famiglia che non serve nemmeno a pulire, cerca di non dare fastidio a noi gente lavoratrice.”
“Io lavoro, Shikamaru” il Nara più vecchio rispose, punto nel vivo, “solo che sono abbastanza intelligente da essermi trovato una mansione che posso tranquillamente svolgere da casa: pensare. E poi, ti suggerisco di non dare del coglione ad Inoichi, potrei sempre decidere di spifferargli quanto rumore fate tu ed Ino quando lei scappa di casa e viene a rifugiarsi da noi, e ti giuro che non ne sarebbe affatto contento.”
Yoshino si sottrasse alla presa del proprio uomo con un sorrisetto di sbieco, avviandosi verso il bagno comune del primo piano. Le solite scene della mattina presto: quei due potevano anche avere un quoziente intellettivo superiore a quello di Isaac Newton ed Einstein insieme, ma litigavano peggio di una coppia di vecchi sposi.
“E tu, in quarantaquattro anni di vita, potresti almeno imparare a tenere la porta chiusa quando hai in camera la tua ragazza!”

“Dannato moccioso” Shikaku rimuginò, dando uno scossone alle pagine del giornale per riavviarle. Shikamaru scosse la testa, dissimulando una risata, mentre poggiava una tazza di caffè di fronte al padre. Bambino troppo cresciuto.
“Shika, sei pronto?” la voce di Yoshino li distolse dalla personale gara di occhiatacce e li fece concentrare sulla sua persona: Shikamaru si sentì arrossire di vergogna, Shikaku -come ogni volta che la vedeva andare a lavoro- avvertì la gola improvvisamente secca.
Oh, quella donna era un miraggio. I capelli neri come l’ebano forbito erano raccolti in uno chignon elegante e perfetto sulla nuca, tenuto su da un bastoncino di legno scuro ondulato, soltanto una lunga ciocca dispettosa si era ribellata all’acconciatura in cui tutte le sorelle erano costrette, ed ondeggiava fino alla curva sinuosa dei seni di Yoshino, stretti in un reggiseno push-up per accentuarne la bella forma ed abbracciati dal lino bianco della camicia. Sulle spalle strette giaceva una giacca scura, che le dava un’aria seriosa, ma il lungo spacco della gonna corta al limite del concedibile gridava a tutti quale tigre si nascondesse dentro il corpicino da bambola sulle vertiginose Manolo Blahnik.
“Non avrai intenzione di presentarti in tribunale così” Shikamaru era esterrefatto, la sua espressione del tutto sconcertata mentre Yoshino, con estrema nonchalance, prendeva il proprio caffè rigorosamente amaro. “Non è molto professionale.”
“Non è nemmeno legale, se è per questo” Shikaku aggiunse, assottigliando gli occhi sull’orlo decisamente troppo sollevato della gonna della sua compagna, “maledizione, Yoshino, è almeno di tre centimetri più corta di quanto dovrebbe essere!”
“È perfettamente legale, Shikaku, so fare il mio mestiere” la donna lo fulminò con uno sguardo malevolo, la tazza di ceramica bianca sporca del suo rossetto rosso fuoco, “e questo basti come risposta anche a te, sapientino numero due: se l’avvocato si mostra piacevole e di bell’aspetto alla giuria, ne consegue subito la simpatia. E poi ho saputo da alcune fonti che i convocati sono per il quaranta percento maschi, quindi questo outfit mi aiuterà moltissimo durante la causa. È estremamente professionale.”
Shikaku non sembrava ancora convinto della cosa, soprattutto a causa del continuo svolazzo che gli permetteva una generosa visione del sedere rotondo e perfetto di Yoshino. Non che non apprezzasse la cosa, solo che gli dava un tantinello fastidio sapere che quaranta o più uomini in sala sarebbero stati a fissare quel bel fondoschiena per due ore di fila, in sostanza perché lui si sarebbe perso lo spettacolo.
“Ma andiamo, tu sei una grande avvocatessa, Yosh, non hai mica bisogno di questi espedienti per vincere ad occhi chiusi, vero?” Shikaku la prese in giro con un sorrisetto obliquo, dondolandosi sui piedi posteriori della sedia a gambe larghe.
La donna si chinò verso di lui leggermente, dandogli ancora una volta la superba vista del taglio ripido dei seni a coppa di champagne. “Tu non hai mica bisogno della calcolatrice per trovare la radice cubica di 12340097653, eh, cervellone? Ma la usi per risparmiare tempo. Mi preme ricordarti che vado ad accusare uno stronzo bastardo che ha tentato di stuprare la mia cliente e che grazie a Dio è stato fermato prima di riuscirci: voglio farlo marcire in galera per i prossimi trent’anni, e se devo mostrare il culo ad una trentina di voi giapponesi maschilisti, sta’ pur certo che lo farò, e con piacere. Ora scusami, ma devo andare a fare il culo a strisce a qualche testa di cazzo come te. Shikamaru, in macchina, subito!”

“Sai che ci è rimasto abbastanza male, vero?” Shikamaru rise sotto i baffi, slacciandosi la cintura di sicurezza con un gesto baldanzoso. Vedere la madre trattare il padre come si meritava era una delle cose che più lo ringalluzziva al mattino, specialmente in quei giorni dove Ino era tutta presa nella sua ‘run down the East Coast’ assieme a quei pazzi scatenati dei suoi compagni americani.
“Sì, lo so, ma mi ha fatta innervosire” si difese Yoshino, stringeva il volante di pelle forte tra le mani. Detestava quando Shikaku insinuava qualcosa sulla sua competenza come procuratore, anche ben consapevole della sua assoluta giocosità. Lei era un grande avvocato, una delle punte di diamante del diritto legale giapponese, eppure sentiva sempre la necessità di staccarsi dal grande nome che le aveva permesso di affermarsi come professionista in quel campo, ma in ogni occasione non poteva fare a meno di sentirsi accomunata, marchiata, relegata ad esso.
Sembra la classica segretaria che si fa sposare dagli avvocati. Soltanto grazie al suo attuale compagno, quella tragedia era stata sventata.
“Ehi, Sheesh?” Shikamaru la sfotté con il nomignolo affettuoso spesso utilizzato da Ino, che la considerava praticamente una madre, sebbene pronunciato da lui assomigliasse più ad un ‘siisciù’  “andrà tutto bene, davvero. Quello stronzo lo tieni per le palle, vedrai che si beccherà un paio di ergastoli entro le quattro di oggi pomeriggio.”
“Tu pensa a studiare, fricchettone” lo ammonì la madre con un buffetto scherzoso dietro la nuca, “non vorrai mica che Mister È-Meccanica-Non-Fisica-Quantistica debba spiegarti di nuovo il principio di indeterminazione.”
Shikamaru finse di rabbrividire. “Sarà, ma io come Heisenberg continuo a preferire Walter White.”
La donna rise, quindi il ragazzo scese dalla macchina con un saltello, dirigendosi verso l’istituto Sarutobi con la tipica borsa a tracolla da sfigato che scatenò le risa di parecchi ragazzi nel cortile. Yoshino impazziva per quella caratteristica di suo figlio: farsi scivolare tutto addosso come se niente fosse. Era un po’ una delle cose che l’avevano fatta innamorare tanto perdutamente di Shikaku, la sua capacità di restare impassibile riguardo qualunque cosa… e il suo modo di infiammarsi quando l’argomento cadeva su di lei.
Yoshino spinse sull’acceleratore, il tempo stringeva e non voleva assolutamente presentarsi con neanche un secondo di ritardo. Scelse automaticamente la via più breve per il tribunale, che passava obbligatoriamente di fronte alla sua vecchia università, l’istituto Senju.
Il contrasto con la Sarutobi era quasi ridicolo. Le mura sporche di polvere e nero erano sostituite da un alto edificio bianco, squadrato ed assoluto, immacolato nella sua perfezione geometrica, quasi da far venire i brividi. I pigri vestiti civili erano rimpiazzati da uniformi quasi militari nella loro integerrima serietà, nessun ragazzo bighellonava per il campus o tentava di sgattaiolare fuori dalle aule durante quelle ore di pesanti lezioni. Oh, che tempi, i tempi in cui pensava di avere una vita perfetta… quanto si sbagliava!
Ma le emozioni che aveva provato in quella costruzione così rigida, in quella struttura così fortemente gerarchizzata, in quella soffocante ed ingombrante aura di intoccabile magnificenza… quelle non sarebbero mai svanite.
Il parcheggio del centro era quasi pieno, ma grazie a qualche Dio Yoshino riuscì a trovare un posticino abbastanza vicino alla propria meta. Fedele ventiquattrore alla mano, in un momento di noia diede un’occhiata veloce alle macchine posteggiate nelle piazzole: una sola attirò il suo sguardo, una Porsche bianca  dall’aria estremamente lussuosa, il tipo di cose che Shikaku avrebbe disprezzato ma che lei non poteva fare a meno di considerare attraente nella sua assoggettante compiutezza. Chissà quale riccone era venuto ad utilizzare la propria carta di credito no limits in giro per Tokyo!
Dopo dieci minuti di camminata intensa che non intaccarono minimamente la sua acconciatura, Yoshino riuscì a raggiungere la sala dove si sarebbe tenuto il processo. Era di qualche minuto in anticipo, e fortunatamente il suo avversario doveva ancora presentarsi: la puntualità avrebbe giocato a suo favore.
“Avvocato Yukinohana” la salutò la propria cliente, Ichiraku Ayame, con un sorriso caldo e riconoscente che Yoshino non poté non ricambiare. Doveva essere più giovane di lei di almeno vent’anni, aveva su per giù l’età di suo figlio: un motivo in più per sbattere in cella quel bastardo che le aveva messo le mani addosso.
“Non preoccuparti tesoro, ce li mangeremo vivi.”
La giuria prese posto con lentezza e le previsioni di Yoshino furono rispettate: la maggior parte del collegio giudicante era composta da uomini tra i quaranta ed i sessant’anni, proprio il range di pubblico che si aspettava di colpire con quella gonna vertiginosamente corta. Sì, era sempre più fiduciosa.
“Avvocato Yukinohana Yoshino, favorisca gli atti” le mise fretta il notaio, al quale Yoshino presentò le prove cumulate contro l’accusato di turno. Furono valutate idonee, così la donna si presentò al banco del giudice -maschio anch’egli, di bene in meglio- le mani giunte dietro la schiena. Non c’era nervosismo nella sua figura, né un labbro morso, né delle dita irrequiete, era la perfetta maschera della calma, proprio come le avevano insegnato i suoi maestri.
“Avvocato per l’accusa: Yukinohana Yoshino.”
Il suo avversario ed il cliente ancora tardavano.
“Si faranno vedere?” sbuffarono i testimoni ai primi banchi, facendola sorridere. Già, forse non si sarebbero nemmeno presentati e le avrebbero lasciato decidere la sentenza in contumacia. Aveva la vittoria in tasca.
Il rumore di una porta aperta le fece saltare un battito. Oh no, ci aveva quasi sperato.
“Oh, finalmente!” proruppe la famiglia dell’accusato, sfibrata, al che molti si voltarono, ma non Yoshino. Doveva mostrarsi distaccata ed assolutamente neutra a qualunque cosa accadesse nell’ambiente circostante: poteva farli a fettine anche da presenti, non era di certo un problema. Quella causa era sua, era già vinta, non doveva far altro che interrogare i testimoni l’uno dopo l’altro e mostrare le prove nell’esatta sequenza che aveva stabilito nella propria mente. Era fatta, sì, era fatta, chi diavolo poteva mai mettersi tra lei e quella sentenza?
Sentì una persona dai passi pesanti fermarsi accanto a lei, lo scricchiolio di scarpe costose si arrestò sul pavimento di marmo, sostituito dal leggerissimo ticchettio di un orologio d’epoca. Un forte odore di dopobarba maschile saturò l’aria accanto a sé.
Non è possibile pensò la donna, scioccata. Non può essere.
“Chiedo scusa per il ritardo, signor giudice” una voce maschile sottile le fece tremare le gambe in maniera visibile, ma miracolosamente nessuno fu abbastanza veloce da notarlo, “avvocato per la difesa: Aburame Shibi.”

ladie’s a gentleman! (author’s corner).
N.B: un particolare ringraziamento alla Fra (Katherine White su EFP), che nonostante non apprezzi le coppie, mi sta a sentire quando sclero sulle trame perché HAHAHAHAHA, non so scrivere mai, io. In bocca al lupo per gli esami di nuovo, lampina! (L)

OLEEEEEE! LA LADIE SCRIVE DI NUOVO UNA FICTION CHE NESSUNO NEL FANDOM CAGHERA’ DI PEZZA OLEEEEEE!
Dove sono i Sasuke e i Naruto che si fottono nel culo come tutti aspettano? Dove sono le epiche sborrate nell’ano che lasciano l’uke incinto? Dove sono i personaggi con zero IC ma che sono KAWAII e quindi adorabili? Ah, non so proprio essere popolare.
Non sento neanche il dovere di spiegare nulla di questa storia, tanto nessuno la leggerà. Zero percento di zero, quindi sciao persone che non ci siete.
Amore imperituro ai lettori (sì come no) e venerazione per i recensori! (ma non ti recensiscono le ShikaTema, ti aspetti che recensiscano le SHIBIYOSHSHIKA? tu non stai bene, cara LadieBlue!)
Kiss,
la vostra raffreddata e fluffosa Ladie.

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Capitolo 2
*** Kayaku, preparativi di guerra ***


ATTENZIONE: IN QUESTO CAPITOLO C'E' UNO SVILUPPO INTROSPETTIVO SU UNA VITTIMA DI STUPRO, ANCHE SE NON E' NARRATO NULLA DELL'ATTO. UOMO AVVISATO, MEZZO SALVATO.

5 Giugno 2015, ore 20.34, Tokyo, Giappone sud-occidentale.

Yoshino inchiodò alla fine del vicolo con violenza, Shikamaru fu spinto in avanti per inerzia e quasi si sarebbe schiantato contro il parabrezza, se la cintura di sicurezza non avesse frenato il suo movimento.
“Ma sei impazzita, donna?” l’apostrofò il Nara, tentando di riprendersi dallo spavento, il cuore nel petto gli batteva ad un miglio orario. Maledizione, quella vecchia arpia stava tentando di farlo fuori!
Yoshino parve sorda al suo mezzo impropero, si era già tuffata all’interno della propria capiente borsa di pelle nera per trarne fuori un curioso oggetto: il proprio portafogli. Sfilò da esso dieci banconote da mille yen e le porse al figlio senza neanche una parola.
“Oh-oh, la questione è seria” ridacchiò Shikamaru, temporeggiando in modo snervante prima di arraffare il denaro, “normalmente è il vecchiaccio che mi paga.”
“E sono certa che ti dia molto meno di così” ringhiò lei, fulminandolo con un’occhiata quasi assassina -seppure Shikamaru non ne rimanesse molto impressionato: dopo diciannove anni di un tale trattamento, ci si faceva il callo.
“Infatti adoro quando sei tu quella needy” sospirò il ragazzo, accettando i soldi che gli venivano offerti da una non-così-conciliante Yoshino, che sbuffò infastidita dalla sfrontatezza mostratale, “sei molto più generosa di Anan-Heisenberg.”
Yoshino si impedì di ridere per quel nomignolo insolente affibbiato al proprio compagno e si concentrò sulla propria irritazione; in men che non si dica, ogni traccia di solarità era scomparsa dal suo volto, sostituita da un’area funerea. “Chiama Choji, fatevi un giro insieme e rimani a dormire dagli Akimichi. Quei soldi ti servono anche a comprare anche una bottiglia di vino da dare a Chouza, quindi non spenderli tutti.”
“Addirittura tutta la not-” “-Nara Shikamaru, se non scendi immediatamente da questa macchina, le mani che ti hanno creato ti spediranno all’altro mondo.”
Il ragazzo rise di gusto, aprendo la portiera per sloggiare dall’abitacolo condiviso: quella donna quando ci si metteva era un vero spasso. Certo che però, per essere una vittoria quella che andava a festeggiare a casa con il vecchiaccio, sembrava piuttosto incazzata. Che avessero litigato? Magari la casa libera serviva per non fargli udire passivamente le grida… non che fosse un bambino impressionabile, ma comunque Yoshino sapeva che Shikamaru non era un grande fan dei litigi epocali. Lui era di gran lunga il tipo da preferire la tranquillità di un buon battibecco.
“Stai attento, idiota” lo salutò la madre, ripartendo con una sgommata nella sera grigia di Tokyo.
 
Shikaku Nara aveva il cervello bollito. Con il caldo che faceva e tutta l’acqua che aveva bevuto per combatterlo, non si sarebbe sorpreso se qualche parte del suo corpo si fosse cotta a bagnomaria. Era nella stanza più fresca della casa, il salone, seduto sul divano bianco con di fronte un plico traballante di fogli incolonnati alla rinfusa ed altri cento sparsi sul tavolino, pieni di formule matematiche ed algoritmi complicati. Stava inseguendo la sua solita fissa: la teoria dell’esistenza di universi paralleli; si chiese se, in un qualunque altro mondo speculare al proprio, un altro suo se stesso avesse avvalorato la sua teoria. Era questione di tempo, lo sapeva, era su una buona pista, doveva soltanto concentrarsi ed aspettare l’ispirazione. Yoshino, grazie a Schrodinger, era sempre fuori per lavoro (essere un procuratore distrettuale doveva essere una tale noia!) e Shikamaru, tra la nuova ragazza e l’università non aveva molto tempo da dedicare al suo vecchio, quindi Shikaku aveva tutta la calma e la tranquillità che gli servivano per correre dietro ai suoi folli progetti.
“Entanglement… ‘sollecitazione di una particella subatomica’… teletrasporto…” continuava a ripetere da ore, tracciando le costanti e i parametri atomici su un pezzo di carta di giornale. Nel retro della sua mente c’era una specie di ronzio che gli impediva di fissarsi completamente sui propri calcoli.
Perché Yoshino non lo aveva ancora chiamato? Lo chiamava sempre dopo essere uscita dal tribunale, che fosse andata bene o male; e perché sarebbe dovuta andare male? Era da settimane che preparava il discorso per la giuria, persino lui ricordava a memoria le parole della sua arringa. Dov’era, la bambolina di porcellana?
In quello stesso istante, la porta d’ingresso sbatté con un terribile fragore, facendolo sobbalzare.
“Ma che diavolo…?” imprecò, mentre si alzava in piedi per andare a controllare cosa fosse stato a provocare il rumore molesto. ‘Peccato’ che il suo movimento fosse stato bloccato dalla propria compagna, la quale gli si era letteralmente buttata addosso ed aveva preso a baciarlo furiosamente.
“Mph! Yosh…” tentò di parlare Shikaku, il cervello che da bollito gli si friggeva istantaneamente alla visione della gonna sollevata di Yoshino ed alla buona porzione di fondoschiena lasciata in mostra da questa.
“Sta’ zitto, sta’ zitto” mugugnò lei, le mani che si infilavano oltre la maglia slabbrata per toccare i dorsali allenati. Shikaku sorrise contro la sua bocca, ricordando le ore spese in palestra sotto lo sguardo scioccato dei suoi due migliori amici soltanto per irrobustirsi un po’ e piacerle di più… oh, quanto ne era valsa la pena!
“Tesoro, andiamo in camera da letto” sussurrò Shikaku, afferrandola per i fianchi che muoveva tanto bene sopra il suo bacino, “se Shikamaru torna e ci trova così…”
“Shikamaru non torna a casa stasera” sussurrò la donna, affannata, riempendogli il collo di baci e morsi in egual misura, “sei mio… sei tutto mio…”
Oh” seppe di aver impresso un po’ troppo compiacimento in quel monosillabo, ma con le labbra di Yoshino sul mento non gli riusciva proprio di restare calmo. Le sue mani callose salirono ad accarezzarle i seni, così lei non fu in grado di reprimere un brivido misto ad un gemito.
“Sarà che la materia è solo energia ed elettricità… ma senti qua…” sospirò Shikaku al suo orecchio, “senti che roba…”
“Non fare il nerd anche mentre facciamo sesso, Shika” si lamentò Yoshino, sciogliendogli i capelli che andarono a solleticarle le guance.
“Non fare finta che non ti ecciti, Yosh” Shikaku le mordicchiò un orecchio per dispetto, attirandola più vicina a sé, “ti piace quando faccio il nerd, è bello essere attratti dall’intelligenza.”
“Oh, risparmia il fiato Nara” lo riprese la consorte, sbottonandosi la camicetta con un sorriso a trentadue denti, “stanotte saprai dire solo ‘Yoshino’.”
Le predizioni di Yoshino si rivelarono autentiche: Shikaku quella notte finì davvero per urlare il nome della compagna durante l’orgasmo, più volte anche.
Yoshino boccheggiò un’ultima volta mentre il Nara le baciava lo stomaco nudo, entrambi affannati, le gambe le tremavano per il picco di piacere appena raggiunto. La donna gli gettò le braccia al collo e le loro labbra si incontrarono in un’interazione lussuriosa, piena di passione intensa e travolgente.
Shikaku ansimò contro le sua bocca, voltandosi supino e trascinandosela addosso, le mani che le accarezzavano la schiena morbida e liscia, le loro gambe intrecciate. Erano ore che andavano avanti, fermandosi solo per riprendersi dalla libidine appena consumata, Yoshino gli dava soltanto il tempo strettamente necessario a recuperare le energie e ricominciare, non c’era un attimo di respiro.
“Calmiamoci un attimo” le sussurrò, la voce roca era resa ancora più vibrante e graffiata dall’affanno. Percepiva il cuore di Yoshino contro il petto, batteva veloce come un piccolo uccellino in gabbia che tenti una disperata fuga attraverso le sbarre della sua cassa toracica. Stavano andando troppo di fretta, Yoshino non dava a nessuno dei due il tempo di godere delle loro azioni e non sopportava essere interrotta.
“Che hai, piccola?” Shikaku le baciò una guancia, i denti che andavano a segnare la pelle tenera e diafana della spalla, “stai pensando a me, o hai la mente altrove?”
“Certo che penso a te, stupido” Yoshino lo rimbrottò, le mani che si intrecciavano dietro la sua nuca e lo spingevano verso l’incavo del suo collo, dove la barba ispida di Shikaku la solleticava e le pungeva l’epidermide, “ne ho solo voglia.”
“E sarei felice di questo, in condizioni normali” Shikaku annuì, pizzicandole la guancia con le labbra arricciate in un ghigno canzonatorio, “molto felice, come tu ben sai. Ma non stai facendo l’amore per divertiti piccola, mi stai scopando e basta. Che è successo?”
La testa di Yoshino collassò sul cuscino accanto al suo. “Sei sicuro che non preferiresti essere scopato, Shika? Vuoi proprio parlarne adesso?”
“So che me ne pentirò, ma sì” il fisico teorico sorrise, la mano si mosse adagio tra i suoi capelli scuri e leggermente arricciati per il sudore di cui erano ricoperti. Cosa poteva mai essere accaduto di tanto terribile?
Yoshino scandì il nome seguente con lentezza, quasi come ad assicurarsi di sapere bene come si pronunciasse. Ogni sillaba scivolò sulla schiena di Shikaku con la stessa simpatia di un cubetto di ghiaccio gelido in pieno inverno, come stille di neve fredda sulla pelle nuda: glaciale ed incandescente insieme.
Shibi.”
La bocca gli si schiuse per lo shock: era da quasi vent’anni che non sentiva Yoshino mormorare quel nome, e grazie ad Heisenberg era la prima volta che lo sentiva dire in una situazione del genere.
Per alcuni secondi non si udì nulla nella stanza, nemmeno i loro respiri. Yoshino tratteneva il suo per paura della reazione dell’uomo, Shikaku semplicemente era troppo sconvolto per immaginare una possibile reazione da mostrare.
“Cosa è successo, Yoshino?”

Qualche ora prima, Tribunale minore di Tokyo.


“Avvocato per la difesa: Aburame Shibi.”
Yoshino ruotò la testa di scatto, incredula e sconcertata. Che diavolo ci faceva in un tribunale penale? Perché stava difendendo un criminale? E, ancora peggio, perché era dall’altro lato della barricata?
“Avvocato Aburame, è in ritardo” lo fulminò il notaio da sopra gli occhialini in equilibrio sulla punta del naso. Yoshino sapeva quanto detestasse non essere puntuale, ma anche il signore era stato piuttosto scortese: Shibi era di un quarto d’ora in ritardo, non così imperdonabile in fin dei conti.
‘È il colore della sua pelle, è soltanto il colore della sua pelle’ Yoshino strinse i pugni involontariamente, fulminando il vecchio notaio da dietro le spalle del proprio avversario. Una donna avvocato nella Tokyo misogina ed un hafu di colore nel Giappone razzista: almeno se la sarebbero giocata ad armi pari, pensò con una lieve punta di sarcasmo acido.
“Mi scuso per la mia distrazione” l’uomo si inchinò brevemente, l’attimo successivo era già in piedi davanti al banco del notaio a controllare le prove fornite dall’accusa.
Yoshino era confusa: l’eccitazione degli attimi prima del processo si era tramutata in orrore alla vista dell’uomo che avrebbe dovuto fronteggiare. Tra tutti gli avvocati del Giappone, perché proprio lui? Perché proprio il suo sempai, il suo maestro? Perché proprio… lui?
“Avvocato Yukinohana” la voce del giudice la riprese con disapprovata fermezza, risvegliandola dal torpore.
Maledizione, Yosh! Devi svegliarti! Quel tizio in un’aula giudiziaria è capace di schiaffeggiarti talmente forte da farti tornare a casa piangendo come una scolaretta! Concentrati!
“Prima di procedere con le altre fasi del processo, vorrei far notare un’incongruenza nelle prove fornite dall’accusa che sfavorisce il mio cliente” la voce sottile ma incisiva di Shibi era come il suono stregato di un flauto per la giuria, i loro occhi erano incollati sulla figura alta e robusta dell’avvocato come quelli di un serpente davanti al proprio incantatore.
“Incongruenze?” la frase di Yoshino schioccò come una frusta sul pavimento, non si rese nemmeno conto di stargli parlando per via diretta dopo più di diciannove anni dall’ultima volta. Le parve quasi di sentire il dondolio di una canoa sull’acqua del laghetto circondato dagli alti sempreverdi sotto i suoi tacchi a spillo.
“Incongruenze, avvocato Yukinohaha” confermò l’uomo con la pelle scura, i suoi occhi color pece risalirono lentamente la figura di Yoshino fino ad amalgamarsi nel suo sguardo nocciola, “false dichiarazioni, a dire la verità.”
“Potrebbe essere più preciso, avvocato Aburame?” la vista di Yoshino si assottigliò pericolosamente, mentre Shibi estraeva dalla tasca interna della giacca classica una busta chiusa. Sembrava pesante, e Yoshino presagiva già il contenuto di quella minaccia in filigrana costosa: fotografie compromettenti. Shibi era il maestro delle controprove, la donna lo sapeva bene.
“Il miglior testimone dell’accusa è, come tutti ben sappiamo, uno dei più noti rivali politici del mio cliente: Iburi Gotta, zio della vittima e quindi emotivamente coinvolto nel caso in più di un modo” Shibi camminava con calma attraverso l’ampia aula, Yoshino non aveva il coraggio né il fiato per interromperlo. Ayame la guardava come un naufrago perso nelle acque scure e schiumose del mare in tempesta, i suoi occhi erano presenti ma persi nel vuoto.
Quell’espressione la devastò tanto da spronarla a muoversi. “Questo non significa nulla, avvocato Aburame. Iburi-san ha promesso sulla bandiera di dire solo la verità, se iniziassimo a dubitare anche dei giuramenti solenni dei testimoni allora non ci sarebbe nemmeno ragione di iniziare un processo giudiziario. E noi di certo non vogliamo questo, o sbaglio?”
“Assolutamente, avvocato Yukinohana, assolutamente” Yoshino lo sentì trattenere un ‘not at all’ sulla punta della lingua, un sorriso conciliante per lei e la corte, “ma siamo sicuri che Iburi-san abbia realmente visto ciò che afferma di aver visto?”
“Si spieghi, avvocato Aburame” il giudice si stava spazientendo per il modo in cui Shibi ‘ostentava le sue credenziali’. Yoshino sapeva bene che l’atteggiamento di Shibi era ben lungi dall’esibizionismo: era una particolare tecnica oratoria, che si basava sulla ripetizione di alcune parole chiave e di determinati gesti delle mani. Maledizione, vederlo arringare era come riprendere in mano un libro della facoltà di giurisprudenza: quell’uomo era un avvocato dalla punta dei capelli scarmigliati a quella delle costose scarpe di pelle.
“Allora procedo. Chiedo che sia messo agli atti questo scontrino fiscale rinvenuto nella giacca indossata quella sera dal testimone Iburi Gotta-“ “-come l’ha avuta?”
Yoshino non riusciva a crederci. Quel bastardo stava veramente smontando la sua accusa? Lo sapevano entrambi che Tokuma Hyuga era colpevole!
“Al mio cliente è sembrato saggio ingaggiare un detective privato per indagare sulla famiglia della ragazza” Shibi replicò con aria seccata e tagliente, voltando il viso di qualche centimetro all’indietro per osservare Yoshino con la coda dell’occhio, “sarò lieto di mostrare a lei, avvocato, e a tutta la giuria il suo mandato.”
“Ora, come stavo dicendo” riprese Shibi dopo averla gelata sul posto, “questo conto è stato pagato con la carta di credito di Iburi Gotta, e reca il contrassegno fiscale del locale a luci rosse dove la signorina Ichiraku lavora. Secondo questo documento, il signor Gotta avrebbe consumato tre bottiglie di alcolici vari prima di allontanarsi dal bar all’ora dichiarata presso la polizia di Tokyo, nella quale dice di aver visto il mio cliente trascinare di peso la signorina Ichiraku in bagno.”
Dannato bastardo, dannato bastardo! Se Iburi veniva considerato un testimone non idoneo, tutta la loro linea d’accusa era mandata a puttane! Come poteva fare una cosa del genere? Maledetto figlio di puttana!
“Questi frame, invece” Shibi li mostrò alla giuria, prima di poggiarli sul banco del giudice, “sono stati estrapolati dalle registrazioni delle telecamere di videosorveglianza del night club. In questa foto, è ben visibile Iburi-san bere in compagnia di una ragazza, presumibilmente non ancora maggiorenne, molto più piccola di lui. Questo, signori della giuria, è reato di somministrazione di alcolici ai minori, non ché di ipotizzabile pedofilia. In ordine a ciò, ritengo che Iburi Gotta non sia idoneo a presiedere a questa udienza preliminare.”
“Ti hanno spostato il processo per mancanza di prove?” Shikaku non riusciva a crederci. In diciannove anni di carriera in cui la compagna gli raccontava ogni singolo particolare delle udienze a cui aveva partecipato, era la prima volta che sentiva una cosa simile: rimandata per mancanza di prove.
“Quel bastardo vuole costringermi a patteggiare” Yoshino era riversa prona accanto a Shikaku, la guancia schiacciata contro il cuscino, voltata verso la finestra accanto a sé da cui filtravano lame di luna argentea, “spareranno una cifra enorme che Ayame non potrà rifiutare per insabbiare l’accaduto, e quello stronzo di Tokuma la passerà liscia senza farsi neanche un giorno di galera.”
Yoshino sorrise contro il cuscino, “è stato clemente, glielo concedo; anzi, a dire il vero, sono stata io sfacciatamente fortunata. Se fosse arrivato al momento della consegna degli atti, probabilmente mi avrebbe fatto a fette e quello stronzo di uno Hyuga se la sarebbe cavata senza spendere un centesimo.”
“Oltre alla parcella dell’avvocato” le ricordò Shikaku, baciandole la spalla, “oh, avanti Yosh, non ti farai buttare giù da un Aburame qualunque! E poi insomma, dannazione, se quella ragazza è stata stuprata, ha ragione lei, no?”
La donna si voltò verso di lui, frustrata. “Ma allora non capisci? Nel mio lavoro, torto e ragione non significano nulla! Lecito ed illecito sono soltanto parole per definire cosa portare davanti ad una giuria e cosa no! Niente ha un vero valore nel mio mondo, niente! Le nostre parole, i nostri gesti, persino le nostre reazioni emotive, vengono analizzate ed interiorizzate da coloro che ci osservano e giudicate! Lui non fa mai un passo falso, sa controllare ogni minimo sbalzo umorale, potrebbe sorridere col cuore pieno di rabbia e scoppiare a piangere nonostante la gioia! Quell’uomo è una macchina ben oleata col solo compito di vincere, vincere, vincere, vincere! Mi farà a pezzi, capisci? E non è… non è giusto! Mi fa persino dubitare della reale innocenza di Ayame, lui ti entra nella mente e ti confonde, non riesci più a ricordare chi sei ma soltanto chi devi essere per Shibi Aburame. Quell’uomo è… è… disumano.”
“Oh, più che disumano, quello è un vampiro succhiasangue nero come il carbone venuto fuori dalla peggior fanfiction su Twilight” Shikaku si chinò ad abbracciarla, maledicendo ogni singolo dio del cielo per lo stato di angoscia in cui era stata gettata la sua bambolina di porcellana, “ma ricorda che tu sei distruttiva, impulsiva, forte e terribile come un lupo mannaro, mia piccola Yoshino Black. Lo sfilaccerai in tribunale.”
“Non è vero” bisbigliò lei contro il suo petto, “non è vero. Mi farà a pezzi, Shika, mi distruggerà…”
“Ehi, seccatura, devi stare calma” le sussurrò all’orecchio, accarezzandole la schiena con movimenti lenti e circolari, “guardami.”
“No.”
“Guardami, Yosh.”
La donna sollevò gli occhi lievemente lucidi per incontrare quelli del compagno, ansiosi, spaventati, smaniosi di conforto. Il respiro che le abbandonava le labbra era inghiottito da Shikaku in un gioco interminabile di dare ed avere, esattamente come era sempre stata la loro relazione; concedersi, donarsi, accettarsi, amarsi.
“Andrà tutto bene, piccola” Shikaku tracciò col pollice il contorno delle sue labbra morbide ma piene di tacche di morso, “non dubitare di te stessa. Io credo in te, Yosh, come Shikamaru, come tutti quelli che ti amano.”
“Perché tu mi ami, vero, fricchettone?” Yoshino si abbandonò con la fronte contro il suo petto, le iridi color nocciola erano ancora puntate nell’ossidiana di quelle appartenenti al consorte.
“Ogni giorno della mia vita, avvocata pazzoide” il pugno di Shikaku le sollevò il mento con garbo e grazia, facendola sorridere, “per ogni giorno in cui mi sveglio, sappi che tu sarai nella lista dei miei primi dieci pensieri.”
La donna rise. “Oh beh, tu pensi parecchio, quindi essere tra i primi dieci non è male.”
Sì, essere tra i suoi primi dieci pensieri non era affatto male. Shikaku aveva la mente costantemente occupata da idee, progetti folli, numeri, algoritmi, date, nomi… eppure in quel totale caos, esisteva una costante capace di riordinare ogni elucubrazione e confinarla nel proprio angolo: lei. Yoshino era il valore X della sua vita, il trucchetto algebrico col quale cavarsi d’impiccio da ogni situazione. Lei era il suo principio di indeterminazione, lei era l’indeterminata ed indeterminabile incognita sempre presente nella sua vita, ma mai compresa appieno nella sua indomabile concretezza. Yoshino era un’idea, un progetto, un sogno… una donna di diamante, robusta certo, ma soprattutto sfaccettata e dannatamente bella, brillante.
Shikaku scosse la testa. Dannazione, l’aveva fatto di nuovo: era andato in tilt per colpa di Yoshino.
“Che ne dici di essere il primo per un po’?” le mani di Shikaku si spostarono giù lungo la sua schiena, e Yoshino per tutta risposta sorrise maliziosa, fremente.
“Per una decina di minuti, Nara?” Yoshino scoppiò a ridere nel vedere la sua espressione ferita, baciandolo sonoramente sulla guancia sfregiata, “dai che scherzo, Brontolberg! Vieni qui… ho freddo…”
“A Giugno?” Shikaku sorrise, “poi sono io quello con le scuse patetiche per fare sesso!”
“Vuoi che ti mandi in bianco, fricchettone?”
“Oh santo cielo, no.”

5 Giugno 2015, ore 23.12, Tokyo, Giappone sud-occidentale.


“Otousan” mormorò stanco un ragazzo dai capelli scuri appoggiato contro lo stipite della porta del suo studio, “devi mangiare qualcosa. È da due giorni che digiuni.”
Shibi alzò gli occhi dalle carte, stranito. “Cosa? Io… l’ho dimenticato di nuovo, vero?”
Shino annuì, strofinandosi gli occhi per il sonno mentre trascinava un carrellino di legno all’interno della stanza. Su di esso trionfava una ciotola di zuppa tiepida, non uno dei pasti più fini che avesse mai consumato, ma di certo il migliore a cui potesse pensare per gli improvvisi crampi allo stomaco che lo avevano attanagliato non appena suo figlio aveva nominato la necessità di mettere qualcosa sotto i denti.
Posò la ciotola sulla scrivania, spostando per un po’ la miriade di fogli che aveva letto e riletto con avidità disumana. Immerse il cucchiaio nel liquido e ne portò una piccola quantità alla bocca: immediatamente, un senso di pienezza lo avvolse; solo in quel momento si rendeva conto di quanto era in effetti affamato.
“Com’è andata in tribunale?” chiese Shino. Una sedia scomoda giaceva nascosta in un angolo buio dello studio, così lui la spostò accanto alla scrivania del padre e vi ci sedette. Era stato tutto il giorno all’università, mentre Shibi era da poco tornato da un appuntamento di lavoro col padre di Hinata, Hiashi Hyuga: non si erano visti né parlati dal mattino, quando si erano fatti gli auguri reciproci per il buon trascorrimento della giornata.
“Tokuma non voleva presentarsi in aula, aveva troppa paura della sentenza, quindi ho dovuto passare tre quarti d’ora nel salone di mister Hyuga per cercare di convincerlo” sbuffò l’Aburame maggiore, facendo rimbalzare il cucchiaio di acciaio contro la ciotola di ceramica, “questo ci ha ritardati di parecchio, e quando siamo entrati...”
Shibi dovette inspirare ed espirare lentamente per impedirsi di lanciare tutto in aria. Potevano esserci decine di centinaia di procuratori distrettuali pronti a sovrintendere a quel processo, letteralmente; perché, perché, perché, perché doveva essere proprio lei la sua avversaria? Non appena l’aveva vista, quando era sulla soglia dell’aula, si era sentito mancare: erano più di vent’anni che non posava gli occhi su di lei, ed un’ondata di ricordi lo aveva travolto fino a stordirlo.

“Shibi-sempai! Ti prego, aiutami a superare quest’esame! È troppo difficile per me, non ne sarò mai capace! Ti prego, tu sei lo studente più brillante di tutta l’università, puoi farlo ad occhi chiusi! Ti prego, ti prego!”

“Ah, cosa… hai le mani fredde, Shibi-kun! No no no, ti prego, hai le mani… così…”

“Shibi, smettila! Dai, no, ti prego, sto malissimo in questa foto! E dai, non consumare una dannata polaroid solo per scattarmi foto in cui sai verrò uno schifo! La prossima ce la facciamo insieme, d’accordo? Tu però mi baci, caro mio!”

“Io… i-io credo… che… debba dirti qualcosa….”

Aveva sentito Hiashi ed altri uomini prorompere in esclamazioni sollevate ed era stato trascinato a forza nel presente. Quella non era più la sua Yoshino: se lo fosse stata, di certo non sarebbe stata dall’altro lato dello schieramento.
Era avanzato con forza lungo l’aula, la rabbia, il dolore, la vergogna lo rinvigorivano, ed era stato ad aspettare istanti che parevano vite eterne sotto il banco del giudice. Lei non si era mossa di un centimetro, stava dritta e composta al suo fianco come un fuso, gli occhi color nocciola dalle intense sfumature cioccolato erano fari puntati sul viso pallido e corrucciato del magistrato, il modo in cui vestiva, le scarpe che indossava, il dolce profumo Lancôme dall’intenso aroma fruttato che riempiva l’aria accanto a sé… oh, era rimasta la stessa di quando l’aveva lasciato.
“…ho fatto il mio discorso e sono riuscito a rinviare il processo.”
“Solo rinviarlo?” Shino ribatté, sorpreso, “erano settimane che ti preparavi… credevo volessi fare di più che rinviarlo…”
“Colpa delle tempistiche” spiegò Shibi, passandosi una mano sul volto dopo essersi tolto gli occhiali, “bastava presentarsi un quarto d’ora prima ed avrei chiuso i giochi in modo pulito, senza dover andare al patteggiamento…”
“Lo temi?” chiese Shino educatamente, piegando di poco la testa per analizzare le reazioni del padre: di norma, non era mai così sconfortato per un patteggiamento, vista la disponibilità economica dei suoi clienti; bastava limare il querelante fino a fargli sputare fuori dai denti una somma accettabile per cancellare tutte le tracce di quel processo, sborsare l’indennità richiesta dagli avversari e poi andare a riscuotere la sua quota. Shibi non aveva mai perso un processo, mai. Perché era tanto dubbioso con questo in particolare?
“Devo vedermela con una brutta gatta da pelare, questo è certo” annuì l’uomo, posando il cucchiaio nella ciotola vuota, “quindi faccio bene ad essere preoccupato. Spuntarla contro la Yukinohana non sarà affatto facile come mi aspettavo.”
“Hai vinto contro i migliori nomi della giustizia giapponese, otousan” lo rincuorò il figlio, cercando di non invadere lo spazio personale dell’uomo con la pelle scura, “hai vinto contro Hoshigaki, Hozuki, Hatake addirittura… non dovresti preoccuparti di una semplice donna avvocato.”
Shibi sorrise, provato dalla stanchezza. Le occhiaie rendevano i suoi occhi neri ancora più penetranti, donandogli un’aria consunta che incideva sull’aura da maledetto di cui era circondato: un hafu, un innominabile, un peccato di gioventù, un emarginato. Era questo quello che tutti pensavano non appena posavano lo sguardo sulle sue forme così anti-giapponesi, sul suo corpo massiccio, sulla sua carnagione color caramello: un uomo segnato, deriso dal fato, destinato ad una carriera da fotomodello o, se proprio gli fosse andata bene, da PR. Ma lui aveva contraddetto ogni singola persona che aveva sputato fuori quella sentenza: era diventato il migliore avvocato dell’intero arcipelago nipponico, consacrando una già ben nota famiglia di difensori legali all’immortalità. Grazie a lui, il nome Aburame non sarebbe mai scomparso dai registri, ognuno l’avrebbe pronunciato con reverenza, timoroso del potere irresistibile che esercitava nei tribunali pubblici e privati.
“Sì, Shino, non dovrei, ma la formazione professionale della Yukinohana è pressoché inespugnabile visto che tuo padre ha ceduto all'errore più comune che un uomo possa commettere: rivelare ad una donna i suoi segreti del mestiere.”

6 Giugno 2015, ore 8.16, Tokyo, Giappone sud-occidentale

“Sarutobi-san” lo chiamò stanco un suo sottoposto, distraendolo dalla placida sigaretta mattutina che stava consumando nel proprio ufficio contravvenendo a tutte le norme possibili ed immaginabili per la sicurezza e quant’altro. Santo Iddio, che noia mortale doveva essere, fare il legislatore? Sempre lì pronti a vietare, ad abolire, a negare… Cristo, quei frustrati del cazzo potevano anche smetterla di rendere la vita delle altre persone un totale inferno!
“Che c’è stavolta?” il poliziotto sbuffò il fumo fuori dai polmoni, guardando con disapprovazione il novellino dalla coda dell’occhio. “Vi siete fatti male con le forbicine di plastica? Porca puttana, voi reclute siete la seccatura più-” “-c’è una donna per lei.”
“Una donna?” Asuma ripeté sorpreso, spegnendo immediatamente la sigaretta nel portacenere, “dimmi com’è.”
“Capelli neri, pallida, piccola, trent’anni forse…”
“Fammi indovinare: tacchi a spillo? Coda di cavallo? Profumo costoso?”
Lo sbarbatello sorrise, imbarazzato. “Sì… il capo dovrebbe saperlo?”
Asuma lo fulminò con lo sguardo, togliendo immediatamente i piedi dalla scrivania quasi come in una reazione istintiva. Quella donna lo avrebbe sculacciato con il battipanni se lo avesse trovato in quel modo, stravaccato alla scrivania come un qualunque ubriacone dopo una notte di baldoria… e svuotò il portacenere dei sette mozziconi consumati in quelle ore mattutine. Non si poteva mai sapere.
“Fai poco lo spiritoso, pivello. Falla entrare.”
Quando Yoshino Yukinohana fece il suo ingresso, Asuma si sentì sudare, e non a causa del caldo, né a causa della tenuta allettante della signora di fronte a lui -maledizione, ma dove li nascondeva quei quarantadue anni? poteva tranquillamente passare per la sorella gemella di una delle sue amanti!-, ma per il timore che quella sventola gli incuteva. Maledizione, quella donna non solo era il demonio, era pure un avvocato! Cosa voleva quella volta?
“Asuma.”
“Miss Tacchi a Spillo.”
Gli occhi a mandorla di Yoshino si strinsero con disapprovazione. “Porta rispetto, Sarutobi. Ti ricordo che il mio compagno ti ha insegnato a raderti.”
“Ha ragione” sospirò l’uomo, schiaffandosi teatralmente una mano in faccia, “Miss Tacchi a Spillo-san.”
Asuma la vide bollire di rabbia, prima di decidere che il Sarutobi le serviva vivo, e che questi faceva le veci del nipote orfano e quindi il suo assassinio avrebbe buttato un bambino che aveva già perso una volta entrambe le figure genitoriali in mezzo ad una strada. “Ho bisogno di un favore.”
Asuma strinse le labbra, guardando Yoshino attentamente. La sua espressione, da bravo avvocato, non tradiva emozioni, ma sul fondo dei suoi occhi riuscì a leggere un piccolo barlume d’ansia. Era chiaro che qualunque cosa la Yukinohana puntava ad ottenere, non era facile da acquisire. E probabilmente nemmeno molto legale.
“Sentiamo allora” l’uomo incrociò le braccia al petto, accavallando le gambe. L’ennesima reazione istintiva che gli capitava: si era in automatico schermato dal possibile assalto della donna, il suo corpo si rifiutava di essere invischiato in simili questioni. D’altro canto, cosa poteva chiedergli Yoshino di tanto terribile?
“Ho bisogno che pedini una persona per me, Asuma” la donna si sporse sul tavolo, attirando i suoi occhi come una calamita, “ho bisogno di tutte le prove possibili di ogni illecito commesso da quel bastardo. Ti è chiaro?”
“Oh andiamo, miss Tacchi a Spillo, lavoro extra non retribuito? Così mi uccidi” Asuma sbottò in una risata incredula, “io sono della Omicidi, non della sezione ‘Buoni Samaritani che aiutano le donzelle in difficoltà’, chiedi a qualcun altro.”
“Hyuga Tokuma” Yoshino scandì quel nome lentamente, lo sguardo nocciola puntato nel castano scuro di Asuma, era come una pantera che non lasciava la presa sulla sua preda neanche da morta, “un mafioso figlio di puttana scagionato già da sette accuse, due proprio per omicidio di primo grado. So che anche tu vuoi sbattere in galera quello stronzo, Asuma… quante volte lo hai incriminato? Quante volte lo hai visto sfuggire alla giustizia? Dammi una mano, e ti giuro che lo sbatteremo in prigione per il resto dei suoi giorni.”
Oh, gli faceva gola, senz’altro. Coglierlo con le mani nel sacco, contribuire alla sua condanna… miss Tacchi a Spillo di sicuro sapeva il fatto suo in materia di convincimento. Maledizione, aveva promesso a Konohamaru di smetterla con le missioni sotto copertura in solitaria, avrebbe dovuto piantarla con quella merda, ore di appostamenti, notti passate fuori casa, sotto il sole, la pioggia, la neve, la tempesta… ma Hyuga Tokuma era un vero bastardo, uno di quelli che si meritava ogni tipo di soprusi, di malignità, soltanto per la tranquillità con cui perpetrava i suoi crimini.
“Tu sei una di quelle che ‘no’ non ha nemmeno idea di cosa significhi, eh, miss Tacchi a Spillo?” Asuma ridacchiò, scatenando un sorriso anche nell’amica, “allora fanculo, ci sto. Ma sappi che voglio una cena speciale alla fine del processo, con il tuo katsu kare segreto.”
“Sta bene. Ah, Asuma?” Yoshino si voltò poco prima di uscire dal piccolo ufficio che puzzava di nicotina, sul volto una strana espressione indecifrabile.
“Cosa c’è ancora, demone?” ragliò il poliziotto, stringendo un’altra bionda tra i denti. Quella donna era tanto sexy quanto rompiballe.
“Se hai tempo, trova anche qualcosa su un certo Aburame Shibi.”
“Aburame Shibi, hai detto? Il cioccolatino? L’avvocato?”
Yoshino sorrise, enigmatica. “Già. Non mi dispiacerebbe avere qualcosa anche contro di lui.”


La ragazza si teneva le mani sullo stomaco, vomitando gli ultimi pasti consumati di malavoglia al ristorante del padre. Tossendo, cercava di recuperare il fiato e la posizione eretta, ma le mancava qualunque forza nelle braccia. Giacque bocconi sul pavimento del bagno, la guancia schiacciata contro le piastrelle gelate, i capelli unti erano avvolti in secche spirali lungo la sua schiena, lo sguardo vacuo.
Oh, Aya-chan, sei così bella stasera…
Toglimi le mani di dosso! AIUTO, AIUTO!

Si mise a sedere di scatto, il cuore che le batteva forte nel petto. Sentiva una mano toccarle il viso, eppure sapeva che non era lì, era da sola, era sola. Nessuno poteva capirla. Il bassoventre le bruciava assieme allo stomaco, pieno di vergogna e ribrezzo. Aveva la tachicardia, non respirava nemmeno.
Tokuma-san, la prego, non mi faccia del male!
Shh, shhh, Aya-chan, va tutto bene. Il tuo unico scopo nella vita, piccola ingenua creatura, è quello di soddisfare gli uomini, persone degne di rispetto. Tu sei un esserino senza significato, dovresti apprezzare quello che ti sto offrendo…

Teneva gli occhi sbarrati, cercando di ritornare al presente, ma le memorie la inseguivano senza possibilità di scampo, nelle mani stringevano marchi arroventati che la segnavano come carne da macello. Lei era carne da macello, sacrificabile, inutile, senza scopo. No, non lo era. Sì, lo era. No, non lo era.
Ayame, guardami, io sono Yukinohana Yoshino, sono il tuo difensore legale per questo processo. So che sei confusa e non vuoi rivivere quella scena, ma è di vitale importanza che tu mi descriva esattamente nei minimi dettagli cosa è successo, così da impedire che una cosa del genere riaccada ad un’altra ragazza. Lo vuoi?
Tremori scuotevano la sottile epidermide come una bestia che lotti per liberarsi da pesanti catene d’acciaio. Deglutì, cercando di cacciare il magone sul fondo della gola. C’era qualcosa che la tormentava, che non la lasciava dormire, un’ansia, una preoccupazione, qualcosa di diverso dal perenne terrore di venire assalita che la costringeva a chiudersi in casa.
Chiudersi in casa… perché non l’aveva fatto anche ieri? Perché era andata al processo? Il giudice non le aveva dato scelta, “il protocollo” l’aveva chiamato. Quel verme strisciava proprio dietro il suo alto avvocato, un armadio a due ante nero come il legno invecchiato, tremava, pallido come un cencio. Brutto bastardo lurido schifoso infame, doveva provare quel terrore! Il terrore della legge, il terrore della giustizia!
Ma se le avesse ancora fatto del male? E se quegli occhi scialbi, argentei sotto la luce delle lampade al neon, iniettati di sangue, le avessero strappato i pensieri a forza dalla mente, come le sue sudicie mani avevano strappato i suoi vestiti?
NOOOOOO! NOOOOOO! NOOOOOOO! TI PREGO, LASCIAMI STARE!
Su, su, Aya-chan, non devi preoccuparti, a tutte le donne piace! Apri le gambe ora… APRILE TI HO DETTO!

La mano della giovane donna si infilò tremante tra le sue cosce per proteggere la sua intimità, sentendo i bozzi delle ferite che lui le aveva inferto sotto le dita. Sapeva che, se avesse indossato una gonna, divaricando le gambe i suoi occhi sarebbero stati colpiti dalla visione di estese e vergognose macchie viola, molte avevano i segni delle sue mani.
Cos’era, cos’era quella cosa? Perché non riusciva a capire cosa aveva così disperatamente bisogno di ricordare?
Per queste motivazioni, ritengo che Iburi Gotta non sia idoneo a presiedere a questa udienza preliminare.
Perché lo aveva fatto, perché? Perché aveva permesso che lui la passasse liscia? Perché l’aveva odiata così tanto da darle nuovi incubi, nuove manie, nuove follie? E se fosse entrato nella sua stanza mentre lei dormiva?
Questo drink te lo offre il ragazzo al bancone, Aya-chan, quello con i capelli scuri lunghi. È uno Hyuga, sai? Se si è interessato a te, ci tiri su bei soldi!
Il drink. Sì, Yoshino-san le aveva chiesto del drink. L’aveva bevuto? Sì. Era stato l’unico che lui le aveva offerto? Non lo ricordava. Aveva bevuto altro dopo? Non ne era sicura. I ricordi erano così confusi, lei non voleva riviverli ancora. Durante il sonno era già fin troppo difficile.
NOOOOO! TI PREGO, NOOOOO! COSA VUOI FARMI? COSA VUOI FARMI? SMETTILA, SMETTILA!
Maledizione, perché il Rohypnol non ha effetto?!

Rohypnol. Rohypnol. Una veterana del bar l’aveva citato una volta, ne era certa. Il Rohypnol. Rohypnol. Perché lo aveva nominato? Quando? Quando era entrata nella crew di ‘ballerine’ dello strip club, questo era certo. Lei e tutte le reclute avevano subito uno pseudo addestramento con i controfiocchi: niente sigarette, niente droghe e niente alcool che non fosse stato fatto controllare. Nell’alcool ci si può nascondere di tutto, aveva detto, ed aveva mostrato un piccolo flaconcino.
Rohypnol. Questo piccolo figlio di puttana qui è il peggior nemico di una donna: è droga da stupro. Questo stronzetto qui, con le sue belle pilloline bianche e blu, Dio ce ne scansi e liberi, potrebbe rendervi completamente fuori di voi: non ricordereste nulla del vostro aggressore, non riuscireste ad opporvi, sareste del tutto in balia degli stupratori. State attente, signorinelle, questo mestiere sarà anche il più antico del mondo, ma è e rimane uno dei più pericolosi.
Lui aveva detto che il Rohypnol non faceva effetto. Il Rohypnol doveva farle perdere coscienza di sé, doveva cancellarle la memoria. E se… se… se gliel’avesse effettivamente cancellata? Erano passate due settimane da quando lui le aveva messo le mani addosso… che lei stesse riacquistando nuovi ricordi? No, non voleva. Non voleva più pensarci, voleva scappare, voleva andare via, voleva annegare. Morire sarebbe stata una gran bella soluzione, morire per sempre, dormire, dormire per cancellare quella stanchezza cementata nelle sue gracili ossa di donna.
Oh, Aya-chan, oh, Aya-chan, Aya-chan! Aya-chan, sei così bella! Stai godendo, eh, puttanella?
Ayame, ti prego, ho bisogno che ti concentri per me. Chiudi gli occhi, ripensa a tutto quello che è successo. Ci sono buchi di tempo in cui non ricordi cosa è accaduto? Prima che il proprietario entrasse e ti togliesse Hyuga Takuma di dosso, è successo altro? È di importanza vitale per me saperlo, farebbe un enorme differenza. Riesci a dirmelo?

Lui non l’aveva stuprata. Lui non era entrato dentro di lei. Lui era stato fermato. Lei ricordava. Lui non era mai stato dentro di lei. Non c’erano tracce di lui dentro di lei. Lui non era mai stato dentro di lei. Lei ricordava.
Ayame, credi sia possibile che lui ti abbia drogata a tua insaputa? Magari mettendoti di nascosto qualcosa nel bicchiere mentre tu eri distratta? Non avere vergogna tesoro, non ci ascolta nessuno, ed io non dirò mai nulla ad alcuna persona. Ho solo bisogno che tu mi dica la più sincera verità. È possibile, Ayame?
Questo drink te lo offre il ragazzo al bancone, Aya-chan, quello con i capelli scuri lunghi. È uno Hyuga, sai? Se si è interessato a te, ci tiri su bei soldi!
È possibile che lui ti abbia drogata a tua insaputa?
Questo drink te lo offre il ragazzo al bancone, Aya-chan.
Rohypnol. Questo piccolo figlio di puttana qui è il peggior nemico di una donna: è droga da stupro.
Maledizione, perché il Rohypnol non ha effetto?!
È possibile che lui ti abbia drogata a tua insaputa?

“Yoshino-san” tossicchiò al telefono, lacrime calde e bollenti scorrevano sul suo viso freddo come il ghiaccio, il respiro corto sulle labbra, rannicchiata contro il muro, tremante, “Yoshino-san… la prego… ho paura… lui è qui. Lui è dovunque.”
“Calmati, Ayame, dove sei?” la voce della donna arrivò perentoria dall’altra parte della comunicazione, lei la sentì sterzare decisa, “rimani calma. Ci sono io con te. Arrivo presto.”
“Yoshino-san… lui era dentro di me.”
“No, Ayame, no, lui non ti ha mai toccata.”
“No, Yoshino-san, lui mi ha stuprata. Mi ha drogata. Non ricordavo, ma ora sì. Yoshino-san… lui mi ha sporcata.”

ladie’s a gentleman! (author’s corner)
Voglio aprire quest’angolo autrice con una correzione della versione beta fatta alla fic dalla Ky, che merita il premio Pulitzer per la genialità.
Contesto: flashback del tribunale. (il rosso è Ky.)
Dannato bastardo, dannato bastardo! Se Iburi veniva considerato un testimone non idoneo, tutta la loro linea d’accusa era mandata a puttane! Come poteva fare una cosa del genere? Come poteva difendere un uomo così sfacciatamente colpevole? (mi verrebbe da dire perché è stato pagato xD che fa, va con la lazio e dice che è colpevole il suo cliente? Mi inventerei qualche altro insulto!)
 
Non potrei aggiungere altro.
E invece lo faccio, perché devo spiegare due robe.
Yoshino ha avuto un periodo da Twilighter e se ne vergogna crudelmente, ecco da cosa deriva la battuta di Shikaku (oltre al paragone ovvio avvocato -> succhiasangue). Asuma nell’Alternative World di Rinne (in cui è ambientata questa fic) è un poliziotto della Omicidi, ed essendo Shishi un procuratore distrettuale si conoscono entrambi molto bene. Shikaku, assieme ad Inoichi e Chouza, è stato allievo di Hiruzen durante il suo percorso di laurea in fisica teorica, quindi si può dire che la famiglia Nara/Yukinohana sia pappa e ciccia coi Sarutobi.
Shibi, amore della mia vita, piccolo dolce negretto della mia esistenza <3 Oh, qual è il segreto che lega Shikaku, Yoshino e Shibi? Lo scopriremo solo vivendo <3
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi prego di farvi sentire nelle recensioni! <3
Amore imperituro ai lettori e venerazione per i recensori.
Kiss,
la vostra infiammata e dolorante Ladie.

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Capitolo 3
*** Kie nai, primo passo. ***


SOLITI AVVERTIMENTI: LINGUAGGIO SCURRILE, PRESENZA DI SCENE LIME, ECCETERA ECCETERA. PER LE FRASI IN INGLESE, PER I MENO ESPERTI, CREDO CHE GOOGLE TRANSLATE VI POSSA DARE RISULTATI ABBASTANZA SODDISFACENTI: NEL CASO PREFERISTE UNA PRESENZA MAGGIORE DI TRADUZIONI ALL'INTERNO DEL TESTO, FATEMELO PURE SAPERE IN UNA RECENSIONE!

6 giugno 2015, Aeroporto Internazionale di Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 9.58

Shikamaru tamburellò con le dita sul volante della sua Toyota di seconda mano, inspirando profondamente. Il parcheggio coperto era quasi pieno, l’unico posto che era riuscito a trovare era lontano dall’uscita, rivolto verso il muro grigio. C’era ombra, ma essendo interrato e costruito da asfalto e cemento armato, faceva caldo comunque. Lo avrebbe ucciso, sicuramente: ‘mi fai camminare per così tanto tempo su questi trampoli dopo dieci ore di volo con queste valigie enormi?!’
E non era solo per le valigie, per carità. Aveva sicuramente almeno una ventina di buste e pacchetti provenienti dai negozi più in della Città degli Angeli, di Sephora, Victoria’s Secret, Gucci, Micheal Kors… oh, sentiva già la schiena fargli male al solo pensiero di dover portare tutta quella roba su in casa.
Non gli riuscì di uccidere il sorriso che lentamente gli nasceva sulle labbra sottili, asiatiche. Quattro settimane. Quattro settimane senza di lei, che era scappata nella sua terra alla ricerca di nuove promesse da spezzare, nuovi fantasmi da esorcizzare. Ricordava di essere stato geloso, tanto tempo prima, di quelle sue fughe down the East Coast, dove si divertiva con i suoi amici attori, modelli, giocatori di football professionisti. Oh Dei, quanto avevano urlato entrambi a quei tempi, feriti, spaventati dalla grandezza del loro sentimento, inconsapevoli di quanto profondamente aveva inciso nelle loro vite. Alla fine, Shikamaru aveva imparato a fidarsi: lei lo amava, sia a Tokyo che a Miami. Non lo avrebbe mai, mai, mai tradito.
Aspettò una decina di minuti contro la colonnina, le braccia conserte, quel sogghigno che proprio non ne voleva sapere di andarsene. Fremeva.
Alla fine, fra la folla, comparve. Un delizioso cappellino di paglia poggiato sulla nuca, gli occhiali da sole modello aviator con montatura dorata e lenti marrone, un vestitino bianco di macramè, in equilibrio perfetto sugli zatteroni panna e beige che richiamavano la paglietta. Era così bella da riempire il cuore e la mente di Shikamaru. Non riusciva a pensare ad altro.
Lei aguzzò gli occhi da dietro i sunglasses alla ricerca del suo codino demodé. Quando finalmente lo individuò, le labbra rosa a cuore si incurvarono in un sorriso emozionato. Oh, sì, anche lui le era mancato.
Nessuno dei due corse dall’altro. Lei camminava dritta ed elegante, lui la aspettava senza muovere un dito. Era il loro modo di sfidarsi.
“Nara” lo salutò lei, fermandosi dritta davanti a lui. Era così dannatamente bella…
Airinu” ribatté lui. Non si degnò neanche di chiedere se volesse una mano con la valigia, o con il bagaglio a mano. “Airinu Noriko”.
“Oh, piantala con questo ‘Irene’, dumbass” la sua voce risentiva ancora del gradevole accento del Sud America. “Qui sono Ino. Ino e basta.”
“Ino” Shikamaru non cedette, il ghigno gli si allargava sul volto a vederla corrucciarsi sempre di più. “Bentornata nella patria del Sol Levante. Did you enjoy your stay?” ‘ti sei divertita?’
“Il tuo accento in inglese fa schifo.”
“Sono giapponese” Shikamaru rispose, come se quello risolvesse tutta la questione. Ed in effetti, era proprio così.
“Quanto ancora vuoi fooling around, giocare, Shikamaru?” Ino adorava giocare, ma odiava perdere. In quel momento, la voglia che aveva di saltargli addosso era palpabile, mentre Shikamaru stava gestendo tutto molto meglio di lei. Si sentiva messa all’angolo.
“Oh, ancora un po’” promise il Nara, dopo essersi caricato in spalla la borsa della ragazza. Come previsto, pesava almeno due tonnellate e mezzo. “Devo darti il bentornato.”
Il ragazzo uscì in retromarcia dal parcheggio, guidando nella luce del sole. Irene era nervosa, Shikamaru lo percepiva; era sempre così, ogni volta che tornava in Giappone. Era certa di poter scappare, ma alla fine, tornava sempre lì, nel posto che l’aveva accolta da bambina e che le aveva curato lo spirito, a costo della sua vita.
“Hai qualche incarico?” le chiese, cauto. Ad Ino non capitava spesso di avere la giornata libera, aveva sempre qualcosa tra le mani: un drama da girare, un copione da imparare, una pubblicità in cui fare da protagonista. I sacrifici imposti dalla vita di una idol così famosa come lei.
“No, no” rispose lei, sforzando un’espressione rilassata, “oggi sono tutta per te.”
“Ed è questo che ti fa innervosire?” Shikamaru domandò, senza inflessione particolare nella voce. Era sinceramente curioso.
“Un po’” confessò Ino a cuore aperto. “Ho aspettato tanto questo momento, ma… ora non so come comportarmi.”
“Non dovresti stare così sulle spine a causa mia, lo sai, vero?” Shikamaru ridacchiò. “Ci conosciamo da una vita, Aireen, e dopotutto sei sempre la mia ragazza.”
Questo la fece arrossire. Almeno ora pareva più tranquilla.
Shikamaru sapeva perché Ino era agitata: stavano insieme da quattro anni, da quando entrambi ne avevano quindici. Con il passare del tempo, la questione dell’intimità aveva iniziato ad essere un problema, sia per lui che per Ino. Tra i due c’era innegabile attrazione e chimica, i baci che si scambiavano erano infuocati, ma lei era riluttante a concedersi a lui; non perché voleva conservarsi, semplicemente non si sentiva pronta. E non si sentiva pronta perché anche quando lei e Shikamaru erano quasi sul punto di fare l’amore, lei non sentiva nessuna spinta da dentro che la guidasse o che almeno le suggerisse cosa fare. Non era ingenua: ogni altra coppia di diciannovenni separata per un mese, al ritorno si sarebbe chiusa in casa per almeno altrettanto tempo, ma lei proprio non riusciva a vedersi in quella situazione e Shikamaru non voleva metterle pressione. L’amava, e anche se quell’astinenza gli costava molto, l’avrebbe aspettata.
“Ci prendiamo un milkshake?” suggerì lei, con un sorriso più dolce. Avrebbe fatto di tutto per quel sorriso.
“Va bene.”

6 giugno 2015, Quartiere di Shibuya, Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 10.25

Oi, Mushi!” Kiba abbaiò al suo compagno incappucciato. Erano da poco scesi dalla Ginza Line, diretti verso la statua di Hachiko. “Non dovremmo aspettare Hinata?”
Mushi si girò indietro con la testa verso Kiba, senza smettere. “Ha mandato un messaggio mezz’ora fa. Ha un impegno con Hanabi-san e Neji-san, oggi non c’è.”
“Eh?” Kiba lo guardò con tanto d’occhi. “E che cazzo ci sono venuto a fare io qua?”
“Sei libero di andartene” Mushi -soprannome di Aburame Shino- lo freddò, punto nel vivo dall’osservazione dell’amico “tanto la gente non si ferma se tu fischi a tutte le belle ragazze. Anzi, in realtà sarebbe preferibile se tu mi lasciassi solo.”
“Oh, e dai, non fare il permaloso!” si lamentò l’Inuzuka, mugolando come un cane sgridato dal padrone, “sai che vengo per vederti ballare. Hinata è solo un bonus molto gradito.”
Hentai” Mushi scosse la testa, aggiustandosi gli occhiali da sole sul volto.
Questa sua seconda identità, Mushi, era la valvola di sfogo migliore che avesse mai escogitato nella sua vita. Gli permetteva di rifugiarsi dalla pressione di essere un Aburame, il figlio di una stirpe di avvocati di successo, il figlio del grande Shibi, il più affermato legale di tutto il Giappone.
Suo padre era a conoscenza di questo suo passatempo e non gli aveva messo limiti, a parte quello di non farsi intralciare negli studi. “Duty before pleasure” gli ripeteva spesso, “anche se il piacere è imprescindibile per svolgere bene il proprio dovere, non deve mai surclassarlo. Imponitela come regola d’oro, Shino.”
Seguendo il suo esempio, Shino era riuscito a rendere Mushi una delle parti migliori della sua vita. Perfezionandosi nell’hip hop durante ogni momento libero e impegnandosi a fondo nello studio, era riuscito ad ottenere risultati brillanti in entrambe le discipline. Ogni volta che si trovava tra le mani un libro della facoltà di Giurisprudenza, spremeva a fondo le sue energie mentali, in modo da ricavarsi del tempo per esercitarsi nel lazy vault. Ora, Shino era uno dei migliori allievi dell’Università Senju, mentre Mushi era nei trend giapponesi per tutto quello che concerneva hip-hop, breakdance e parkour, con quasi 5.000 followers su Instagram e Snapchat.
Arrivati sotto la statua del fedele cane Hachi, Mushi e Kiba iniziarono a montare l’attrezzatura. Fortunatamente, Shibuya era meno affollata a quell’ora del mattino, quindi nessuno si fermò ad osservare ciò che stavano facendo: i capannelli di gente attiravano la polizia e la polizia esigeva i permessi, che ovviamente non avevano. La Hachi no Sukuoddo -the Eight Squad, come si facevano chiamare- preferiva esibirsi in luoghi meno frequentati, dove si riunivano i b-boys ed i traceurs. Oggi però Mushi se la sentiva di rischiare: aveva bisogno di un’iniezione di adrenalina, visto il disastro combinato all’ultimo test scritto. Non se l’era sentita di confessarlo a suo padre, almeno non ancora. Voleva distrarsi, sentire il calore del pubblico, la stretta allo stomaco che solo la nudità del palcoscenico sapeva generare. Era nervoso all’idea che nulla, quel giorno, si frapponeva tra lui ed i suoi fans, nessuno schermo, niente camera angle.
“Hai fatto?” chiese a Kiba, che stava appunto collegando il suo MP4 alla cassa portatile, entrambi oggetti molto piccoli e facili da trasportare, ma anche molto potenti.
“Sì, è pronto” Kiba rispose con un ghigno ferale, facendo partire la Track 1. “Dacci dentro, Mushi.”

Ino stava sorseggiando il suo caramel latte, appoggiata sulla spalla di Shikamaru, che invece aveva optato per un matcha latte. Nella busta di carta al suo fianco c’erano le loro due classiche donuts, confettura alle more con glassatura al cioccolato per lui e ripieno al cioccolato bianco con copertura di ganache fondente colorata di rosa per lei. Seduti su una delle panchine più riparate del quartiere cosicché Irene non venisse riconosciuta dai fan, parlavano del più e del meno.
“Come sta Sheesh?” chiese la ragazza, guardando all’insù verso il Nara. “E Shikaku-ojiisan?”
“Mamma sta bene, un po’ stressata per via del lavoro” rispose Shikamaru, scostandole pigramente qualche filo d’oro dal volto con la mano che aveva attorno alle sue spalle, “e papà lo conosci, si lamenta sempre fino a quando qualcuno non gli dice di stare zitto.”
Lei ridacchiò. “E tu, stai bene?”
Shikamaru sorrise. “Meglio di ieri a quest’ora di sicuro.”
Ino scostò la cannuccia per dargli un bacio a fior di labbra, che Shikamaru, irrequieto, non tardò ad approfondire. I sapori nelle loro bocche si mischiavano alla perfezione, dolce e tipico quello sulla lingua di lui, esotico ed addictive quello che si assaggiava nel respiro di lei. Nonostante la voglia che avevano entrambi di prolungare quel momento, si staccarono dopo qualche secondo: erano in pubblico e non era educato baciarsi così sfacciatamente. Gli occhi di Irene brillavano mentre leccava via quello che rimaneva del matcha latte dalle sue labbra.
“Sakura mi ucciderà” si lamentò con voce leggermente arrochita, stringendosi di più al suo innamorato. “Avevo detto che l’avrei chiamata non appena fossi atterrata, ma mi sono scordata del tutto. Colpa tua.”
“Colpa mia?” Shikamaru ridacchiò. La voce era più profonda di prima, probabilmente perché ora era molto più eccitato. “Sei tu che hai il cervello di un pulcino, Aireen.”
Hey, you!” ribatté piccata, tirandogli uno schiaffo sul petto, “sei tu che hai la testa troppo grossa e piena di stronzate!”
Shikamaru rise, divertito, facendo sorridere anche lei. “Sei scurrile ed inappropriata.”
“Tu invece sei fin troppo polite” Ino lo rimbeccò con decisione, “troppo nipponico, ecco.”
“Io sono il purosangue meno nipponico che ci sia” Shikamaru rispose tranquillo, “e tu lo sai benissimo.”
Ino sospirò. Purosangue, già. Una parola scomoda, per lei, ma che purtroppo non poteva essere evitata: non quando esistevano persone come Irene Noriko. Purosangue, nel senso di nato da due genitori giapponesi… mentre lei invece era solo una hafu, nata da padre giapponese e madre americana.
Sua madre… una delle migliori attrici dagli anni novanta, bionda come il sole, due occhi blu come schegge di lapislazzulo. Perdita Santarelli, tre golden globe come migliore attrice in un film drammatico, una nomination agli oscar, protagonista di tanti film che avevano sbancato ai botteghini di tutto il mondo, che aveva fatto letteralmente impazzire suo padre da giovane e con il quale aveva avuto una figlia bellissima, Irene. Sembrava l’inizio di una paradisiaca favola, ma bastava precisare una sola, minuscola postilla, per smontare del tutto l’idillio: sua madre era afflitta da un grave disturbo psichico, noto come Cluster B o anche disturbo borderline della personalità. Il suo compulsivo desiderio di tenere vicini Inoichi ed Irene, la paranoia generata dal rapporto stretto che avevano i due durante la tenera infanzia della figlia, secondo la quale entrambi stavano tramando contro di lei, la gelosia, il gioco d’azzardo, le medicine, avevano guidato Ino lontana da lei, nelle braccia di un’altra famiglia, amici del padre.
Irene era cresciuta come una seconda figlia di Yoshino e Shikaku, amata dai due proprio come se fosse stata loro. Allontanatasi sempre di più da un Inoichi incapace di capire i bisogni della figlia, alla fine era diventata l’unica cosa possibile in quel mondo così austero come quello giapponese: una idol, strumentalizzata per il suo bell’aspetto e per i suoi tratti misti, su tutti gli occhi cerulei leggermente affusolati. Era una modella richiestissima in entrambe le sue patrie, ma nonostante il successo, non si sentiva bene con sé stessa. L’unico punto fermo in quella vita sempre così caotica, oltre alla sua famiglia adottiva, era proprio Shikamaru, insieme con il loro amico d’infanzia, Choji.
“Mi dispiace” Shikamaru si scusò, abbracciandola più stretta, “non avrei dovuto dirlo. Mi è scappato di bocca, io…-”
“Non importa, davvero” Ino lo fermò con uno splendido sorriso, un po’ distante, pieno di quella dolcezza riservata solo a lui. “So cosa intendevi. Sei di mente aperta e guardi all’Occidente non con diffidenza, ma con entusiasmo e voglia di scoprire. È quello che mi ha fatto prendere una sbandata così forte per te.”
“Non perché sono attraente ed ho un grande cervello?” il Nara la punzecchiò.
Lei finse di pensarci un attimo. “No, nemmeno un po’.”
“Oi!”
Ino rise forte, divertita dalla sua irritazione.
Continuarono a chiacchierare liberamente per almeno un altro quarto d’ora, prima che Shikamaru venisse distratto dal suono soffocato di bassi potenti. Alzando gli occhi da Irene, notò una ressa di ragazzi che aveva più o meno la loro età, intenti a schiamazzare e fare foto con il loro smartphone.
“E quello?” chiese Shikamaru, accennando alla stranezza in piazza.
“Non lo so, ma voglio vedere!” Ino era già esaltata. Lo trascinò per il polso a guardare lo spettacolo, nonostante gli sbuffi di Shikamaru su quanto fosse problematica e seccante l’intera faccenda.
Non appena Ino si fu affacciata per comprendere l’entità di tutto quell’entusiasmo, si lanciò in un gridolino. “Oh my God, Shika, it’s crazy! È Mushi!”
“Mushi?” ora Shikamaru doveva ammettere di essere molto sorpreso. Mushi, per quanto ne sapeva, non si faceva vedere spesso in pubblico, anzi era persino difficile da beccare in giro, nonostante fosse così popolare ultimamente. Lui non era un suo fan, non gli interessava quel mondo, ma era così tanto famoso da aver solleticato il suo interesse. Avesse fatto un vlog su quella giornata, avrebbe avuto un botto di visual.
La folla scandiva “Mu-shi! Mu-shi!”, in delirio per quel tizio con il cappuccio. Shikamaru si chiese cosa sarebbe successo se avesse tolto gli occhiali da sole ad Ino in mezzo a tutta quella gente, si sarebbero distratti dal b-boy per assalire la idol? Non ne era proprio sicurissimo.
Mushi chiuse con eleganza la traccia, finendo con un passo di break. Il suo compagno con i capelli corti allontanò il pubblico troppo vicino, facendo segno di lasciare spazio all’artista per farlo esibire.
Shikamaru diede un’occhiata all’orologio del suo cellulare, tirando poi il polso ad Ino. “Dai, dobbiamo andare.”
“Cosa?” Irene protestò, “siamo appena arrivati! Dai Shika, solo un’altra canzone!”
“Irene, sono già le undici e Chou ci aspetta per pranzo” lui fu irremovibile nella sua replica, accompagnandola via. “Nel frattempo che passiamo al tuo appartamento e ti sistemi, saremo già in ritardo. Forza, su, muoviti.”
“Va bene, va bene, arrivo!” si arrese lei con un sospiro greve, facendogli una linguaccia. Certe volte odiava che fosse così responsabile.
Shikamaru si voltò a guardare di nuovo Mushi, che nel frattempo beveva una bottiglietta d’acqua naturale. Si chiedeva chi fosse dietro quella maschera, se si assomigliassero. Cosa potevano avere in comune, due come loro? Forse il percorso di studi, forse solo l’età, forse soltanto quel desiderio di evadere dalla vita comune e diventare qualcuno di diverso, qualcuno che potesse essere ammirato. Non era per quello stesso motivo che aveva aperto il suo canale YouTube, insieme ad Ino e Chouji? E allora perché lui sembrava fare di tutto per nascondersi, per non farsi trovare? E perché proprio quel giorno aveva smesso di essere invisibile?
“Smettila di stare lì impalato, hai detto tu che dovevamo sbrigarci!”
“Ah, sì, hai ragione… andiamo.”

6 giugno 2015, Quartiere di Shinjuku, Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 12.25

Yoshino si era appena fermata per riprendere fiato. Di norma, andava ad allenarsi al mattino presto, intorno alle sei e mezza, ma negli ultimi giorni gli impegni l’avevano tenuta fuori dai giochi. Si era ritagliata una parentesi di tempo solo quell’oggi, dopo essere stata da Ayame. Il racconto della ragazza le era ancora nella mente, spaventoso e terribile.
Secondo la sua versione, Tokuma l’avrebbe drogata con un potente sonnifero e poi trascinata in un bagno del locale, dove aveva abusato del suo corpo senza che lei potesse opporgli resistenza. Il fatto che lo Hyuuga non solo l’avesse effettivamente violentata, ma anche che le avesse somministrato Rohypnol a sua insaputa, avrebbe reso l’accusa ancora più grave. Come provarlo, però?
La famiglia Hyuuga era nota agli inquirenti per aver trafficato, almeno fino alla metà degli anni novanta, droga in tutto il Giappone. Il denaro veniva pulito attraverso una fitta rete di industrie varie di proprietà di vari membri della famiglia più stretta -la ‘Casata Principale’, o ‘Main House’, come la chiamavano i servizi segreti- mentre gli altri cugini e zii figuravano come azionisti all’interno di banche e business molto quotati in Borsa -la ‘Casata Cadetta’ o ‘Branch House’. Nonostante tutto, però, la polizia non aveva in mano niente per poter incriminare gli Hyuuga. Si erano infiltrati bene nella politica, avevano legami importanti con la Sumiyoshi-kai di Tokyo (uno dei più grandi gruppi Yakuza del Giappone) … nemmeno con l’aiuto di Asuma avrebbe potuto smontare gli Hyuuga. Tokuma, però, avrebbe pagato. Yoshino lo aveva giurato a sé stessa.
Corse sul posto, aspettando che il semaforo pedonale diventasse verde. Sentiva gli sguardi addosso di alcuni salarymen fermi dietro di lei: una bella donna con addosso leggings grigi e una canottiera sportiva non passava mai inosservata, soprattutto se non indossava la fede. Quelle occhiate la facevano imbestialire, si sentiva un oggetto in vetrina, una macchina di lusso che solo in pochi potevano permettersi.
Envy is something even the greatest man is prone to.” ‘La gelosia è qualcosa che anche il migliore degli uomini è propenso a provare.’
Sussultò al ricordo della voce di Shibi che le mormorava quelle parole nell’orecchio. Quando era successo, vent’anni prima? Sì. Parlava di Shikaku e di come lui le ronzasse troppo intorno.
Si domandava cosa avesse provato lui a vederla lì, in quella stanza, dopo vent’anni dall’ultima volta. Era felice? Arrabbiato? Confuso? L’aveva dimenticata? Lei era convinta di averlo fatto.
Quando era entrato, il giorno prima, aveva portato con sé una ventagliata del profumo della giovinezza di Yoshino. Lui sapeva di calore, di passione, di tormento, di trasgressione, di comprensione, di bellezza, di abbondanza, di fierezza, di carnalità, ed era ancora così affascinante. I giorni passati nelle sue braccia, sopra le sue labbra, le avevano annebbiato la mente per una frazione di secondo ed era stato troppo. Aveva preso il sopravvento e spinto lei da parte.
Non sarebbe più dovuto accadere. Quella nostalgia era comprensibile, gli anni con Shibi erano stati pieni ed importanti a modo loro, ma ora Yoshino viveva un’altra vita, non era più una ragazzina con tanti sogni, ma una donna con molti obiettivi. Non era più il suo snowdrop, il suo bucaneve.
Sorrise amara al ricordo: Yukinohana -bucaneve, appunto-, il suo cognome, era una delle prime parole che Shibi aveva imparato a pronunciare correttamente senza l’influsso pesante del suo accento americano. Ciononostante, lui preferiva chiamarla così, a modo suo, nella sua lingua amata.
Il verde scattò e Yoshino riprese a correre. Dopo avrebbe allenato gambe e braccia, poi un’altra sessione di jogging per tornare a casa. Stava proprio pensando a quello, quando il cellulare squillò.
“Yukinohana” rispose dall’auricolare.
“Yosh” era la voce di Shikaku. “Quando torni a casa?”
“Volevo finire di allenarmi” spiegò la donna, stringendosi la coda, “è successo qualcosa?”
“No, no, è che mi manchi” disse lui con la sua migliore voce suave. Ovviamente, Yoshino non ci cascò.
“Ti ho lasciato degli avanzi della zuppa di ieri in frigo, cretino.”
“Ah, davvero? Ho provato a farmi un po’ di quel ramen precotto, ma è troppo difficile!” si lamentò lui, “il tuo uomo è affamato.”
“L’acqua la devi bollire prima di versarla, Shikaku” perché era così intelligente e così stupido allo stesso tempo?, “ormai buttalo, non mangiarlo.”
“Certo, tesoro.”
“Lo hai già mangiato, vero?”
“Avevo tanta fame. La zuppa la posso riscaldare in microonde?”
“Sì, ma cambia il piatto, quello non va in microonde” si raccomandò la donna, a metà tra lo spazientito ed il divertito.
“Tu ne hai ancora per molto?” Yoshino sentì le molle del divano scricchiolare mentre Shikaku si alzava, “sei via da stamattina, mi sento trascurato.”
“Sono venuta a casa per cambiarmi” gli ricordò lei, giusto per il gusto di contraddirlo, “comunque, arrivo tra un’oretta. Lasciami un po’ di zuppa.”
“Ora stai pretendendo troppo.”
“Dai Shika, non fare l’idiota!”
“Sì, sì, non ti preoccupare” lui ridacchiò dall’altra parte del telefono, “a dopo.”
“A dopo” Yoshino non riuscì a non sorridere, mentre riagganciava. Quello era il suo presente; Shikaku, Shikamaru, Aireen: il suo compagno e i loro due figli, ognuno a modo loro. La sua famiglia perfetta che aveva curato con amore e dedizione per diciannove anni e che si era presa cura di lei in risposta. Con Shibi, quel sogno non si sarebbe mai potuto realizzare.
Correndo, avvistò lo Shinjuku Skyscaper District, l’area dei grattacieli del quartiere.
In lontananza, vedeva luccicare la Byakugan Tower, il simbolo indiscusso del potere degli Hyuuga, costruito con i loro soldi sporchi e che fruttava, lordo, almeno mezzo miliardo all’anno. Per capire quanto fosse esorbitante la cifra, bastava pensare che il Keio Plaza Hotel nella stessa zona, uno degli alberghi più cari di tutta Tokyo, faceva un miliardo all’anno. La disponibilità economica di quella famiglia era illimitata: cosa erano quei pochi spiccioli che spendevano per mantenersi un avvocato del calibro di Aburame Shibi? Nulla.
Yoshino promise a sé stessa che, se proprio non fosse riuscita ad abbatterli, sarebbe perlomeno stata una delle più grandi seccature legali accadute a quei mafiosi nell’ultima decade. Avrebbe incriminato Tokuma e gettato fango sulla loro reputazione, poco le importava se avesse dovuto spendersi giorno e notte per raggiungere quello scopo: Hyuuga Hiashi sarebbe caduto in ginocchio e lei avrebbe avuto la soddisfazione di imbarazzare uno Yakuza permanentemente. Aburame Shibi non le avrebbe impedito di raggiungere quello scopo.
Ringraziando il cielo, non era da sola in quell’impresa. C’era qualcun altro che l’aiutava nell’ombra e, proprio in quel momento, stava agendo silenziosamente.

6 giugno 2015, Quartiere di Ueno, Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 18.25

Era raro di Asuma che stesse in silenzio, i suoi colleghi avrebbero commentato con un sorriso sarcastico. Il gatto gli aveva mangiato la lingua? Doveva essere dura, visto quanto lavorava ad ogni ora del giorno.
La sigaretta tra le sue labbra pendeva, la cenere era in bilico pericolosamente. Stava consultando alcuni documenti che era riuscito a ‘prendere in prestito’ dall’ufficio riguardo alla famiglia Hyuuga, possedimenti, conti bancari, illeciti recenti che però non erano mai riusciti a passare oltre la fitta rete di canali giudiziari e politici da loro controllati.
Il traffico di droga gestito da Hyuuga Hiashi, il capo famiglia, era aumentato negli ultimi anni, triplicando i profitti su una vasta area. Sicuramente, non era in affari con i piccoli spacciatori controllati dalle famiglie Yakuza, ma a molti dei suoi parenti erano intestati locali a luci rosse, gestiti poi da membri della Casata Cadetta o da persone esterne, nei quali coca, ero, crack e meth erano facilmente vendibili. La discoteca più grande, Takamagahara, in Shinjuku, era affidata proprio a Tokuma, che la amministrava per conto di uno zio di Hiashi.
Quello sarebbe stato un buon posto per iniziare la sua caccia. A quell’ora del giorno, il Takamagahara era chiuso, ma si sarebbe presentato quella sera con una delle sue false identità. Conservava ancora il passaporto e il koseki di Shinohara Naoki, sarebbe andato bene. Il piano da lì in poi sarebbe stato improvvisato, come al solito. Asuma era un uomo a cui pensare faceva male, soprattutto perché gli era difficile rispettare un copione prestabilito; era un buon attore, ma era ribelle.
Per molti anni, aveva fatto l’agente sotto copertura alla PSIA -la Public Security Intelligence Agency, uno dei servizi segreti giapponesi- prima di passare alla polizia. Lì, un inconveniente sorto proprio con la famiglia Hyuuga ed il cioccolatino lo aveva portato agli affari interni; soltanto grazie all’aiuto di Miss Tacchi a spillo, Sarutobi era riuscito a mantenere il distintivo. Le doveva molto.
Asuma non aveva ancora parlato dell’incarico a Konohamaru. Da quando i genitori del nipote erano morti in un incidente d’auto, la custodia legale del pargolo era passata a lui, unico parente prossimo ancora in vita. Aveva venticinque anni quando il giudice aveva emesso la sentenza, praticamente ancora un ragazzino; Konohamaru non era mai stato un bambino difficile, ma Asuma non aveva voglia di giocare al genitore, soprattutto con la testa di merda che si ritrovava a venticinque anni. Non che ora, da trentacinquenne, si sentisse più saggio.
Il piccolo si era cresciuto da solo e, nonostante gli screzi occasionali, zio e nipote si volevano un bene dell’anima. Era stato proprio per Konohamaru che Asuma aveva rinunciato ad un lavoro pericoloso come l’agente sotto copertura, seppure gli piacesse molto. Ora, Yoshino gli stava chiedendo di rituffarsi in quel mondo, facendo immersioni in una delle famiglie più potenti di Tokyo. Konohamaru sarebbe impazzito dalla preoccupazione.
La sigaretta si era consumata. Frugò nella tasca posteriore dei pantaloni, prima di rendersi conto che aveva buttato il pacchetto vuoto poco prima. ‘Merda’.
Con uno scricchiolio di ghiaia, Asuma si incamminò verso la tabaccheria più vicina. Quello era il suo quartiere, dove con Hiruzen e suo fratello Aoi era diventato un ragazzino pieno di sogni. Era rimasto lì fino all’arrivo di Konohamaru, poi aveva optato per cambiare zona. Tokyo in generale non era una città pericolosa, ma Ueno di notte non era adatta ad un bambino di cinque anni, soprattutto visto che il suo unico genitore era sempre assente. Passò davanti allo zoo e ad uno dei parchi, dirigendosi lentamente verso una delle tabaccherie.
Distratto, non si accorse di andare addosso a qualcuno. I due si scontrarono ed Asuma perse i fogli che aveva rubato al distretto. “Porca-!”
Era pronto ad imprecare contro quell’idiota di un passante che non aveva fatto nulla per evitarlo, ma una folta chioma di capelli scuri lo dissuase. Era una donna l’oggetto delle sue ire e, seguendo la sua etichetta, non avrebbe potuto mai urlare contro una donna. La borsa le era caduta per terra e molte delle sue cose erano ora sparpagliate sul marciapiede.
“Oh, merda mi dispiace” si scusò Asuma, raccogliendo l’agenda della signorina e riponendola di nuovo all’interno della borsa di pelle bianca, “colpa mia, non stavo facendo attenzione. Ti sei fatta male?”
La donna raccolse i fogli cascati dalle mani di Asuma, impilandoli con gesti secchi delle mani. “No, non si preoccupi, avrei dovuto evitarla.”
Vedendola ordinare così celermente le carte, il detective si chiese che lavoro facesse. Poi con lo sguardo risalì le braccia magre, le spalle strette, e decise che non gliene importava nulla: quella era, senza la minima ombra di dubbio, la donna più sexy che i suoi dannati occhi avevano mai avuto il piacere di osservare. Portava Ray-Ban wayfarer tartarugate che impedivano di osservarla per bene in viso, ma gli zigomi alti da principessa, il viso a cuore e la messa in piega perfetta della folta chioma ebano scatenavano pensieri decisamente poco casti nella mente di Asuma. Le labbra rosso bordeaux erano leggermente dischiuse per lasciarla respirare e l’uomo avrebbe desiderato baciarla -o che lei baciasse lui, e più a sud della bocca.
“Signore?” lei lo chiamava, i suoi documenti -sporchi, maledizione- tesi verso di lui. Non sembrava contenta di essere ignorata. O forse, più probabilmente, si stava chiedendo contro che razza di decerebrato era andata a sbattere. Asuma stesso sentiva di essere diventato parecchio più impedito.
“Scusami” lui le porse di nuovo la borsa. “Normalmente, so essere più affascinante.”
“Non ne dubito” dalla sua espressione sembrava dubitarne alquanto, ma voleva essere gentile.
“Posso provartelo, se vuoi” lui le sorrise. Doveva recuperare in fretta, non poteva farsi sfuggire Sangurasu-hime. “Sei disposta a darmi una chance?”
“Purtroppo, sono impegnata” lei lo liquidò, cercando di non apparire troppo rude. Maledizione. Era stato avventato.
“Non c’è problema” lui incassò con eleganza, rialzandosi e dandole una mano a fare lo stesso. “Scusami ancora per l’incidente. Sei sicura di stare bene?”
“Sono certa” lei ripeté, “grazie per l’accortezza.”
“Figurati, è un dovere” Asuma sorrise ancora, a labbra strette. Non voleva apparire patetico, ma nemmeno rassegnarsi così alla svelta.
“Arrivederci” anche lei accennò un sorriso mentre si inchinava. Asuma piegò leggermente il capo.
“Posso sapere il tuo nome, o sei troppo impegnata anche per quello?” domandò l’uomo, cercando di fare il simpatico.
Lei ci pensò su un secondo. “Kurenai.”
Non gli aveva mica dato un nome falso? Sperava proprio di no.
“Allora arrivederci, Kurenai” Asuma la salutò con un cenno. Lei sorrise cordialmente, magari solo per liquidarlo alla svelta, tornando ad incamminarsi.
Dannazione. Che occasione sprecata. Certo, d’altro canto, quella sera ne avrebbe viste di belle ragazze che dimenavano i loro corpicini in pista, di dieci, tredici, quindici anni più giovani di lui. Il fatto che fosse in missione per conto di Miss Tacchi a spillo non gli impediva certo di divertirsi, no?

6 giugno 2015, Takamagahara Club, Quartiere di Shinjuku, Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 23.15

Shibi si rilassò contro lo schienale del divanetto di pelle imbottito mentre i bassi esplodevano. Il Takamagahara era pieno, come al solito; uomini e donne di tutte le età ballavano a ritmo della musica occidentale più cool del momento, dimentichi del loro presente, della loro estrazione sociale, persino del loro nome. Il beat della musica popolare pervadeva il petto, la schiena, le labbra, la pista era un’onda di braccia e gambe che si contorcevano e si agitavano, trascinate e possedute dalla melodia ipnotica che non spingeva, costringeva a ballare.
Era stato lui a suggerire il nome ‘Takamagahara’ quando il club era stato costruito. Takamagahara, il regno del Paradiso su cui regnava la splendida regina dell’Alba, Amateratsu, dove la notte rincorreva il giorno ed il giorno si accendeva di passione e desideri nel disco rosso fuoco che sorgeva dal mare, leciti solo alle prime luci.
I faretti del club vorticavano, cremisi, spettrali, rendevano viola intenso il completo blu scuro che indossava. Sorseggiò lo scotch che aveva ordinato nell’attesa di Hiashi, gli occhi fissi sulla platea folleggiante. Aveva già adocchiato qualche possibile preda per la caccia di quella notte, gli obiettivi erano leggermente diversi da quelli abituali dell’Aburame.
Quella che più di tutte aveva catturato la sua attenzione era una giovane ragazza giapponese di vent’anni appena, gli occhi castani da cerbiatta, un vestito sobrio che le stava d’incanto. Avrebbe potuto avere qualunque altro uomo in sala, magari persino uno che la portasse all’altare, ma Shibi l’aveva scoperta a guardarlo; non lo temeva, lo voleva. Perfetto, visto che in quella notte sarebbe stata sua.
“Chi non muore si rivede, eh, vecchio bastardo?” la voce del suo socio in affari lo distrasse dalla contemplazione di lei, facendogli sorgere un sorriso sulle labbra scure. “Credevo che dopo la figuraccia di ieri in tribunale non ti saresti mai più fatto vedere.”
It’s not like I fear you, Hyuuga” Shibi si alzò in piedi per stringere la mano di Hiashi, “non sei alto abbastanza per spaventarmi.”
Il proprietario del club schioccò le dita ed una cameriera si fermò, chinandosi verso di lui in attesa dell’ordinazione. “Un Mojito ed un Martini ghiacciato”.
Poco dopo, infatti, una bellissima donna asiatica si fece strada verso il duo. Era Kazue, la concubina di Hiashi, che a lui piaceva esibire in occasioni mondane come quella. Stretta in un abito a sirena indaco, era una delle donne più belle che Shibi avesse mai visto. Non la più bella, quel posto non le spettava, ma era senza dubbio una meraviglia per gli occhi.
“Aburame-san” lo salutò. Shibi, con delicatezza, le baciò il dorso della mano.
“Kazue-san, è sempre un onore incontrarti.”
Hiashi sospirò, scoccando un’occhiata inacidita al compagno mentre stringeva l’altra mano di Kazue. “Non mi piace quando fai lo splendido con la mia donna, negro, e lo sai.”
Shibi ghignò, astuto. “Se volessi rubartela, non avrei aspettato sei anni, Hiashi. Ora sarebbe già nel mio letto.”
“Non è per colpa di una donna che il mio Tokuma non è stato scagionato?” lo Hyuuga colpì dritto nel centro del bersaglio. Shibi si mise più dritto con la schiena, portandosi il bicchiere a tulipano contro la bocca.
“La Yukinohana non è un problema” asserì l’uomo con la pelle scura, “è un avvocatuccio. La schiaccerò non appena possibile.”
Hiashi sollevò le sopracciglia, palesemente scettico riguardo alle parole fin troppo audaci di Shibi. “Sarà, ma a me pare che lei ti tenga bello stretto per le palle, socio. È una che non demorde, è come un cane con l’osso.”
“Patteggiare non è un’opzione, no?” l’avvocato ribatté. “La fedina di Tokuma è sporca, Hiashi. Si è barricato in casa e non ne vuole sapere di parlare con me. Thanks goodness, la ragazzina non si è accorta di essere stata drogata, ma questa condizione cambierà in fretta. Tra qualche giorno, gli esami del sangue saranno disponibili e il Rohypnol salterà fuori.”
“Stai gettando la spugna?” Hiashi chiese. La cameriera gli servì il Mojito, mentre Kazue faceva dondolare il Martini on the rocks, attenta a cogliere le sue espressioni facciali.
“No. Sto solo dicendo che dobbiamo essere più cauti” Shibi prese un altro sorso del suo scotch. Gli bruciava la gola così bene…
“Questo caso sta iniziando a vendere bene per i media, Hiashi. Giornalisti, rassegna stampa, all these bullshits. Dobbiamo chiudere tutto, e anche molto alla svelta, se non vogliamo che la cattiva pubblicità ricada su di te e gli Hyuuga. Sei bravo in quello che fai, but you’re no Yakuza, e nemmeno Nishiguchi in persona garantirebbe per te dopo questo increscioso inconveniente.”
“Paghiamo la ragazza e facciamola stare zitta” propose Hiashi, spazientito da come il suo socio la tirasse per le lunghe.
“Non puoi” Kazue si intromise, sorseggiando il suo Martini, “la procura non ti permetterà di insabbiare tutto. Catturare un pesce grosso come Tokuma li permetterà di avvicinarsi alla Sumiyoshi-kai più di quanto abbiano mai fatto dalla riforma del ’95.”
Shibi annuì. “Per ora, dissociati dagli atti di Tokuma con un comunicato. ‘Siamo spiacenti per l’inconveniente sorto’, ‘un atto del genere non è condonato da nessun socio Hyuuga’, queste stronzate qui.”
“Io sono un mafioso, Shibi, non un politico” Hiashi lo fulminò con un’occhiataccia. “E non posso abbandonare la famiglia in questo modo. Non dopo quello che è successo a mio fratello.”
“Credevo fosse tuo interesse entrare nell’imprenditoria, appunto per smetterla di fare il mafioso” Shibi ribatté, calmo. “Sei troppo vecchio per questa vita, Hiashi. Neji prenderà il tuo posto, se non oggi, tra cinque anni. Tokuma sarebbe dovuto entrare in politica per permettervi di ammanigliarvi meglio nel governo della prefettura, ma that dumbass si è giocato ogni chance di fare carriera, se non di stare in libertà.”
“Ti rendi conto che questa cosa mi rivolterebbe l’intera Casata Cadetta contro?” Hiashi ruggì. Kazue lo ammansì con una mano sul petto. I due si guardarono, Hiashi prese un bel respiro e cercò di calmarsi per quanto possibile.
“Aburame-san agisce nel massimo del tuo interesse, anata” la donna lo coccolò con un tono di voce dolce e melodioso, “non dovresti arrabbiarti se le soluzioni da lui proposte sono in conflitto con il tuo orgoglio. Fidarsi di Aburame-san non ha mai portato male, sei d’accordo?”
“Sì” lo Hyuuga cedette, rivolgendo uno sguardo più ragionevole al socio di vecchia data. “Ma non posso mostrarmi troppo duro con Tokuma, non all’interno del clan.”
“Lascia che Neji mitighi la questione con la Branch House” Shibi gli consigliò, “si fidano di lui più che di te. Sono troppo ciechi per riconoscere che è la tua volontà che lo muove come un burattino.”
“Neji è il figlio di Hizashi, lui è parte di quella gente” Hiashi annuì. “Mi sembra una buona soluzione. Ma rimane aperta la questione di Yukinohana-san.”
“Tu lascia perdere Snowdrop” l’Aburame si mostrò più veemente su quel punto. “Me ne occupo io. Io sono l’avvocato, mia l’accusa.”
“Va bene, va bene” Hiashi non soppresse il sogghigno che gli nasceva sul volto. Sarebbe stato sicuramente divertente vedere Shibi lottare contro i suoi antichi spettri. “Vediamo come te la cavi con quella sventola.”

Asuma teneva il braccio allacciato alla vita della ragazza che gli ballava praticamente addosso. L’aveva conosciuta mezz’ora prima al massimo, ma era già palese dove lei volesse andare a parare. Era carina, un sette e mezzo di viso e di corpo. Ma, cosa più importante, era una Hyuuga ed una bella chiacchierona.
“Andiamo a prenderci qualcosa” disse, la musica lo stordiva. Erano anni che non andava in discoteca, si sentiva decisamente troppo vecchio per quella merda. Le tonalità elettroniche erano accolte da un grido dalla folla, che sembrava adorare il disc jockey di quella sera.
Lei annuì. “Per me un Cuba libre!”
Asuma si accomodò su uno dei divanetti vicino al mostruoso bar, lei invece gli si sedette direttamente in braccio.
“Vuoi assaggiare?” chiese maliziosamente, avvicinando il bicchiere alle labbra dell’uomo. Lui prese una generosa sorsata, guardandola negli occhi.
“Allora, piccola” Asuma le accarezzava la schiena con movimenti lenti e studiati, “è tuo questo posto?”
Lei ridacchiò, palesemente alticcia. Non si sarebbe ricordata nulla di quella serata. “Stai scherzando, vero? Mio padre non ha nemmeno i soldi per comprare questo locale! No, questa è roba di Hiashi, tutto suo.”
“Il grande capo in persona” Asuma le sorrise, e lei a lui. “Non è troppo impegnato per mandare avanti tutto questo? Immagino che essere il padrino degli Hyuuga gli occupi parecchio l’agenda.”
“Oh, infatti lui non lo gestisce, a volte ci viene solo per controllare che sia tutto okay, tipo come ora” lei indicò con gli occhi la balconata, dove ad uno dei tavolini quadrati sedeva Hyuuga Hiashi assieme a nientepopodimeno che Aburame Shibi. Due piccioni con una fava, Asuma non credeva di essere così fortunato.
“Lo sanno tutti che il Takamagahara lo fa girare Tokuma-kun” continuò lei, giocherellando con il pizzetto del detective, “lui organizza gli eventi migliori. Alcool a fiumi, musica strepitosa, qualunque cosa vuoi, la trovi al Takamagahara.”
“Mh, sì?” Asuma si dimostrò interessato, afferrando il fondoschiena della giovane. “E dove è adesso, questo Tokuma-kun? Vorrei stringergli la mano per avermi fatto passare la serata migliore della mia vita.”
Lei rise. “Non lo troverai qui. Tokuma-kun sono settimane che non esce di casa, dopo il casino che è successo! Ne avrai sentito parlare, no, di quella sciacquetta che dice di essere stata violentata da lui?”
Asuma annuì, greve.
“Balle!” lei scosse le spalle, poco impressionata. “Tokuma-kun non ha certo bisogno di violentare una puttanella per scopare! Secondo me si è inventata tutto solo per avere qualche centesimo del suo patrimonio!”
“E perché Tokuma dovrebbe nascondersi se è innocente?” Asuma incalzò.
“I giornalisti lo assaltano di continuo con questa storia, poverino! Non ha più un minimo di privacy” lei espose in tono commiserevole. Asuma avrebbe voluto dirle che non era Tokuma ad avere bisogno di pietà, ma la povera ragazza che aveva assalito e a cui aveva tolto ogni momento di pace, sia durante il sonno che nella veglia, che continuava a visitare quel luogo nei suoi peggiori incubi, che vedeva il suo riflesso in tutti gli specchi, ma si morse la lingua. Era lì anche per fare giustizia ad Ayame.
“E ora chi è che manda avanti il Takamagahara se Tokuma non c’è?” chiese lui, curioso.
“Suo fratello, Minoru” lei gli fece cenno verso un altro ragazzo dal taglio emo. Era alto e magro e pareva non aver dormito per giorni, ma nonostante tutto Asuma percepiva quanto fosse sveglio in realtà. “Secondo papà, è una benedizione che Tokuma non sia più negli affari degli Hyuuga, ma quel Minoru… non ha proprio l’aria da festaiolo, mh?”
Asuma si sforzò di ridere. “Non esattamente. Noi due però sappiamo divertirci, non è così?”
“Decisamente…” mormorò lei, lasciando il bicchiere sul tavolo per poterlo baciare. Asuma la strinse a sé, ricambiando l’intensità della ragazza ma ritagliandosi lo stesso un angolino per pensare.
Hyuuga Minoru, fratello di Hyuuga Tokuma ed erede della sua quota nell’attività illecita gestita dal clan. Di primo acchito, sembrava molto più serio del suo predecessore e qualcuno che sarebbe stato molto più difficile cogliere con le mani nel sacco. Ne avrebbe parlato a Miss Tacchi a spillo, quella scoperta era decisamente importante.
“Naoki-kun?” lo richiamò lei, indolente.
“Scusa, piccola” Asuma la baciò a fior di labbra, “le chiavi le ho in tasca. Andiamo a casa tua?”
“Non aspettavo altro” rise lei.

7 giugno 2015, Quartiere di Shinjuku, Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 3.18

La bocca di Shibi era fusa in quella di Aimi -questo il nome della ragazza incontrata al club. Le mani di lei erano sul petto nudo di lui, lui le stringeva la schiena sudata. Avevano appena finito di fare l’amore, ad Aimi mancava ancora il respiro.
“Aburame-san” lo chiamò lei con la voce giovane piena di dolcezza. Avrebbe potuto essere tranquillamente la figlia di Shibi, ma non era ingenua: sapeva che quella era solo una notte di passione torrida e che domattina avrebbe dovuto lasciare quel letto ad un’altra donna. “Posso rimanere qui stanotte?”
Sure” lui acconsentì, alzandosi alla ricerca dei pantaloni del completo. “Potrei dovermi alzare presto domani, chiamati pure un taxi quando ti svegli.”
Lei annuì.
Lui trovò il pacchetto di Marlboro nella tasca e sfilò una sigaretta, lasciando il resto della confezione sul comodino. L’accendino Zippo d’argento era già nel cassetto, pronto per quella occasione. Trovava che il sesso ammorbidisse deliziosamente il gusto del fumo, rendendo il momento della prima boccata paragonabile -se non addirittura migliore- a quello dell’orgasmo.
“Posso farle una domanda indiscreta?” chiese lei poi, curiosa come la sua natura di studentessa le imponeva.
“Solo se posso scioccarti con la mia risposta” ribatté lui con un sorriso, guardando il riflesso della ragazza sul vetro. Dio, Dio, le assomigliava da impazzire: avevano la stessa pelle di marmo, gli stessi capelli castani, la stessa forma allungata degli occhi, ma nonostante gli sforzi dell’avvocato, non riusciva ad ignorare le differenze. Quel sorriso non era così perfetto, la forma del collo non era elegante come la sua, il portamento non aveva niente a che fare con la regalità intrinseca che pervadeva ogni suo gesto. Le assomigliava abbastanza da illuderlo, ma non abbastanza da convincerlo.
“Lei è uno Yakuza?”
“No.”
“Allora perché ha quel tatuaggio?” Shibi chiuse gli occhi, un sorriso amaro sul volto.
Il lungo stelo di un bucaneve segnava il corso della sua spina dorsale, il fiore sbocciava tra le scapole, lo stame giallo trionfava sulla terza vertebra. Gli aveva fatto un male di inferno quando se l’era tatuato, ma tuttora non se ne pentiva.
“È un segno di quanto dolore possa provocare l’amore” rispose lui. Per un secondo, l’immagine di Aimi ballò sul vetro della finestra, sostituita da quella di una Yoshino molto più giovane che lo osservava dal suo lato del letto, poi da quella di una Yoshino più matura, persino più bella, che lo osservava sotto il banco del giudice.
“Un dolore che non sparisce, un dolore indelebile. Come l’inchiostro sotto la pelle.”

Ladie’s a gentleman! (note dell’autrice):
Quattordici mesi sembrano pochi a confronto del terribile spettro dell’abbandono, eh? No? No?? Ok.
Che dire, lettori (se ce ne sono), è tardi, è notte e domani non avrò il tempo di pubblicare, ma l’hype è troppo grande per aspettare due interi giorni, quindi diciamo che ve lo metto stanotte con il rischio di dimenticarmi di spiegare qualcosa. Ma dopotutto, “con uno stile di scrittura così, le note possono accompagnare solo” [semiquote, soprattutto se si pensa alla figura di merda che fa il tizio un attimo dopo].
ALLORA, gentaglia. SHIKAINO MADE IN LADIEBLUE, dopo tipo otto mesi (???) dall’ultima volta. Io non muoio mai. Irene Noriko è Ino, su questo voglio che siamo tutti d’accordo, anche perché, se non fosse abbastanza ovvio: I-rene NO-riko. Io e la Ky optammo all’epoca per un nome giappo-murrico che rispecchiasse le sue origini hafu.
La storia entra nel vivo, con le prima indagini di Asuma e l’entrata in gioco di Hiashi Hyuuga, mentre nel frattempo diventa sempre più misterioso il legame di Shibi e Yoshino. Non preoccupatevi, vi ci torturerò ancora un po’. Nel prossimo capitolo (spero, spero che ci sia) ci si immergerà ancora di più nei fatti e sì, Shibi e Yoshino si fronteggeranno ancora. Credo che da questo punto in poi, almeno una scena di loro due insieme ci sarà sempre, in ogni capitolo, dopotutto sono due dei protagonisti.
Spero abbiate apprezzato l’accenno KibaHina/AsuKure, due delle ship che mi hanno sempre interessato. Più avanti nella storia ci saranno anche accenni Neji/Ten e forse Kanku/Saku *porge il tovagliolo alla Ky, che già starà sbavando*, oltre ovviamente all’onnipresente Shika/Ino e al triangolo Shikaku/Yoshino/Shibi.
Che dire, gente, spero che abbiate apprezzato la lettura, decisamente corposa come comeback, no? <3
Amore imperituro ai lettori e venerazione per i recensori!
Kiss,
la vostra finalmente diciottenne Ladie.

 

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Capitolo 4
*** Kurai hada, il passato non si seppellisce. ***


GLI AVVERTIMENTI VALGONO SEMPRE, QUINDI PROCEDETE CON CAUTELA, EH?
 

7 giugno 2015, Quartiere di Shinjuku, Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 9.18


“Dimmi che hai un po’ di tempo per me” attaccò Asuma, perentorio, dall’altro capo della comunicazione.
Yoshino roteò gli occhi. “Ti bastano dieci secondi?”
Era fuori dalle doppie porte del Tribunale minore. La difesa di Tokuma aveva richiesto un incontro con il pubblico ministero -ovvero lei- per discutere delle prove rimaste all’accusa. Ovviamente, l’avvocato sapeva che il tutto era solo una tattica di Shibi per temporeggiare: aveva ancora il coltello dalla parte del manico e questo non poteva non farla sentire deliziosamente esaltata.
“No, bambolina” Asuma sbuffò, “vediamoci al distretto. Ti va bene per pranzo?”
“Sì, penso di riuscire a liberarmi per mezzogiorno” rispose lei. “Mi porti fuori, vero?”
“Certo, e ti offro pure champagne ed aragosta se poi ti fai mettere a novanta, miss Tacchi a spillo.”
“Perché devi sempre rovinare ogni nostro momento?”
“Perché sei una delle poche donne che sta al gioco.”
La Yukinohana non poté non sorridere. “È comunque una battuta di pessimo gusto. Ci vediamo dopo.”
Asuma la salutò di rimando, riagganciando. Forse stava ridacchiando anche lui.
La signorina attese qualche minuto il direttore del proprio ufficio, Nakajima Tarou. Quel caso contro gli Hyuuga era importante per la procura ed anche se lei si era occupata delle indagini assieme alla polizia, non aveva potuto compiere un passo senza la stretta sorveglianza del suo jyuuyaku, il coordinatore.
Tarou-san era un brillante avvocato, ma ormai aveva fatto il suo tempo e preferiva occuparsi della criminalità da dietro le quinte: gli piaceva indulgere nel cibo greasy e nel gioco e, dopo la morte della moglie, era un cliente abituale delle donnine allegre. Era un uomo buono, fondamentalmente, ma un po’ troppo vizioso per i gusti di Yoshino. D’altro canto, il suo gusto per le belle ragazze l’aveva portato a sviluppare quel senso di protezione che ora provava per lei, quindi non poteva lamentarsi.
Si vide raggiungere a piedi da un ometto grasso col fiatone, quindi sorrise. Eccolo là.
“Tarou-san” lo salutò lei, porgendogli la mano. “Trovato traffico?”
“Sì. È incredibile quanta gente ci sia per strada a quest’ora” rispose l’uomo, burbero, stringendole le dita di rimando. “Aspetti da molto?”
“No, si figuri” Yoshino zittì le sue scuse con un gesto conciliante della mano, “entriamo?”
“Certamente” lo sguardo castano di Tarou si affilò. Lo spirito di giustizia che lo animava era una delle cose che Yoshino più ammirava di lui, nonostante i suoi parecchi difetti. A differenza della sua kohai, però, Tarou era più esperto nella messa in pratica della regola ‘buon viso a cattivo gioco’; questo, nella sua carriera all’interno del sistema giuridico, lo aveva aiutato parecchio, mentre l’impulsività di Yoshino le aveva sempre remato contro.

La donna si prese un secondo per osservarli da dietro il vetro. Un uomo che lei immaginava fosse Hyuuga Hiashi, in piedi dietro al suo avvocato, indossava un appariscente completo grigio perla opaco, scarpe di camoscio ed un orologio d’oro che sembrava più un lingotto sciolto sul polso. Nel complesso, Yoshino doveva ammettere che non stava male, era semplicemente troppo chiassoso per i suoi gusti.
Shibi, invece, era vestito di una giacca grigia scura abbinata a pantaloni stretti dello stesso colore, camicia bianca ed una cravatta scarlatta. Era seduto dietro al tavolo della stanza, le scarpe italiane di pelle nera erano appoggiate saldamente al pavimento, mentre le dita cariche di anelli -due sulla mano destra e tre sulla sinistra- sostavano intrecciate davanti al volto. Sembrava estremamente concentrato, cosa che non sorprese Yoshino: anche lei aveva raccolto tutta la sua attenzione nel cammino dalla strada all’ufficio.
Tarou le aprì la porta con fare da gentiluomo e Yoshino, dopo avergli rivolto un cenno con la testa di ringraziamento, entrò.
“Buongiorno, Hyuuga-san, Aburame-san” esordì lei con atteggiamento spigliato e voce squillante, “io sono l’avvocato Yukinohana Yoshino e presiedo al caso Ichiraku. Lui è il mio supervisore, Nakajima Tarou.”
Hiashi strinse la mano a lei, mentre Shibi -in piedi- era occupato a stringerla al suo capo. Nel medesimo istante, Yoshino si rese conto che in pochi secondi avrebbe dovuto porgere la mano anche al suo avversario. Sentì una stretta allo stomaco, ma la nascose perfettamente.
Allungò il braccio verso l’altro avvocato, uno sguardo di sfida, come a sussurrargli ‘vediamo se ne hai il coraggio’. Shibi, d’altronde, non esitò nemmeno un momento: il contatto fu breve, ma Yoshino percepì tutta la sua forza. La Yukinohana flesse il bicipite, imprimendo tutta la sua sicurezza in quel gesto. Si guardarono negli occhi per tutto il tempo, cercando un segno di debolezza, ma non ce n’erano. La donna si chiese se quello sfioramento non lo turbava per davvero o se fosse un così bravo attore.
Si sedettero tutti e quattro, i due avvocati l’una di fronte all’altro, mentre i rispettivi accompagnatori stavano alla loro destra.
“Come saprà, miss Yukinohana-”
“Chiedo scusa, avvocato Aburame, ma preferisco che mi ci si rivolga come avvocato Yukinohana.”
Shibi acconsentì con un gesto del capo. “Mi perdoni, avvocato Yukinohana. Come stavo dicendo, io ed il mio cliente abbiamo richiesto questo consulto alla pubblica accusa per valutare la situazione attuale del caso.”
“Potrebbe spiegarsi meglio?” Yoshino fece la finta tonta. Sapeva bene dove Shibi voleva andare a parare.
“Perdoni la franchezza, avvocato” l’uomo allargò le braccia, cercando di apparire ancora più dominante, non solo con le parole ma anche attraverso la propria gestualità, “ma senza Gotta la vostra linea d’accusa non regge. Il vostro migliore testimone è stato sfortunatamente dichiarato non idoneo a presiedere all’udienza preliminare e senza di lui le vostre prove sono circostanziali e dunque irrilevanti ai fini del processo.”
Yoshino sentiva la pressione che Shibi stava esercitando su di lei con il suo discorso. Le stava mettendo ansia, ricordandole che in quel momento aveva poco o nulla per incriminare Tokuma. Le analisi del sangue di Ayame avrebbero rilevato la presenza di una dose di Rohypnol nel suo sistema circolatorio, ma se nessuno aveva visto Tokuma versarlo nel suo drink, non poteva di certo provare che fosse stato lui a somministrarglielo. Le telecamere di sicurezza purtroppo non avevano registrato nulla di compromettente, mentre il barista che era intervenuto a separare Ayame dal suo aggressore, l’unica altra persona che aveva visto i fatti, non aveva voluto testimoniare contro gli Hyuuga.
Il sorriso di Yoshino si allargò, schiacciando ogni suo timore al momento. ‘Mostrati sempre sicura delle tue capacità, Snowdrop. Questo farà innervosire i tuoi avversari e gli farà credere che sarai sempre tu ad avere la posizione predominante.’
“Il pubblico ministero si preserva i prossimi giorni per rielaborare la propria linea d’accusa” Yoshino spiegò educatamente, “quando sarà il momento, ci premureremo di informare la difesa. È tutto?”
“Veramente no” lo Hyuuga si intromise, una mano poggiata sul tavolo, il corpo di poco sporto in avanti, “nel caso in cui non aveste prove per incriminare il mio… parente… le accuse sarebbero ritirate, è esatto?”
“Senza dubbio” confermò la donna avvocato, “il processo sarebbe archiviato e Tokuma-san scagionato.”
“E della sua fedina penale?” chiese ancora Hiashi, lo sguardo penetrante fisso su Yoshino. Il suo accento era molto più pulito di quello del suo difensore legale ma, nonostante tutto, non possedeva la sua eleganza nel parlato. Era una differenza che nessuno se non un avvocato poteva notare, ma Hiashi era più rozzo, più indelicato, meno sottile: il suo corpo parlava ed esprimeva la tensione del momento, voleva avvicinarsi ai due magistrati in cerca di risposte chiare, misurandosi con loro in un campo meno pericoloso di quello della dialettica. Shibi, al confronto, era una statua.
“Fino a quando non sarà dichiarato colpevole, non correrà rischi riguardo a questo processo” chiarì Tarou, catturando l’interesse di Hiashi.
“Se mai venisse dichiarato tale” aggiunse Shibi in tono casuale. Gli occhi di Yoshino si ridussero a due fessure.
“Le probabilità non sono così scarse quanto crede, avvocato Aburame” ribatté con asprezza, “un processo può sopravvivere anche senza un testimone oculare.”
“Senza dubbio” accondiscese l’uomo dalla pelle scura. I suoi occhi brillavano di una luce divertita che le faceva venire i nervi a fior di pelle. “Ma i casi sono molto rari ed inoltre si suppone che l’accusa sia in possesso di prove davvero schiaccianti, cosa che al momento non risulta.”
“Crede che questa sua aria proterva possa aiutarla nel corso del processo, avvocato Aburame?” Tarou le lanciò un’occhiata ammansente, che Yoshino ignorò.
“Temo che questi non siano affari che la riguardano, avvocato Yukinohana” Shibi mise insieme una falsa espressione contrita, “piuttosto, se mi è concesso darle un consiglio, fossi in lei mi concentrerei sul cercare delle prove degne di questo nome… e da un punto di vista professionale, evitare di dare in escandescenze davanti alla giuria.”
Dannatissimo schifoso figlio di puttana! “Dare in escandescenze? Non sono mai stata così calma.”
“Eppure ha il collo proteso, gli occhi lucidi” lui analizzò, quel suo sorriso mellifluo ancora al suo posto, “il respiro leggermente accelerato e la mano serrata attorno all’avambraccio. Sembra che qualcosa la irriti profondamente. Forse, proprio questa mia… mh, come l’ha chiamata?... ah sì, aria proterva?”
“Lei è davvero molto bravo a leggere gli altri” Yoshino gli riconobbe. Cercò di sciogliere il più possibile la sua postura, accavallando le gambe. “Eppure, se mi permette, nemmeno lei è così rilassato come ci tiene ad ostentare. La sua mascella si contrae quando è in silenzio e l’ho vista deglutire almeno cinque volte nell’ultimo minuto. Gola secca?”
Le iridi nere dell’avvocato sembravano più profonde mentre si fissavano in quelle nocciola del suo avversario. Il ghigno lezioso cedette per un istante, poi ricomparve. “Fa molto caldo oggi” spiegò, “e purtroppo questi vestiti non sono affatto comodi. Credo che Nakajima-san possa comprendere la situazione, non è così?”
“Allora è il caso che vi liberiamo in fretta da questo impiccio” Yoshino si alzò in piedi, seguita dal suo superiore che si aggiustò la cravatta, “non credo che ci siano altre questioni aperte, mi sbaglio?”
“Assolutamente” chiarì il legale dalla pelle nera. “Buona giornata.”
Hiashi uscì per primo, scuro in volto. Tarou-san si avviò verso l’uscita davanti a Yoshino, prima che Shibi la richiamasse: “avvocato Yukinohana, ancora una parola, per favore.”
Yoshino si voltò indietro, Tarou la imitò. Vedendo che Shibi non accennava a parlare, il procuratore mandò avanti l’altro uomo. I due si scambiarono una serie di sguardi, parlando silenziosamente: Tarou le intimò di non fare niente di avventato, Yoshino lo rassicurò che non c’era nulla da temere. Non aveva forse dimostrato di saper tenere testa al suo avversario?
“Prego, avvocato Aburame” la donna lo invitò a riprendere il discorso, avvicinandosi alla scrivania in equilibrio sui tacchi a spillo. Mentre osservava il suo volto squadrato, mascolino, la travolse la consapevolezza del fatto che erano soli per la prima volta dopo anni. Si sentiva estremamente a disagio in quella situazione, ma cercò di non farlo notare a lui: avrebbe potuto usarlo a suo vantaggio.
“Se avesse bisogno di contattarmi in merito a qualunque cosa riguardante il caso, non esiti a chiamarmi” lui trasse da una delle tasche interne della giacca un biglietto da visita. Il profumo ricco ed intenso del suo dopobarba colpì le narici di Yoshino mentre prelevava il cartoncino dalle sue mani di velluto scuro.
“Su tutti i biglietti da visita segna il suo numero privato?” lei lo stuzzicò, sollevando un sopracciglio. “Immagino che sarebbe sommerso di telefonate, se fosse così.”
“Solo se desidero essere costantemente informato riguardo alla materia in questione” il suo sorriso ora era molto meno artificioso, più caldo. “E lei, zelante com’è, non ha la stessa sensazione?”
“Ammetto che mi succede” Yoshino si morse il labbro. Che diavolo stava facendo? Non stava mica flirtando con Shibi?
“Se mi desse il suo numero, la comunicazione sarebbe molto più agevole” Shibi azzardò. Da come teneva le spalle contratte, Yoshino dedusse che fosse parecchio sulle spine nonostante il tono disteso.
“Ha quello del mio ufficio, no?” il sorriso che gli scoccò era languido mentre gli voltava le spalle, “e, a proposito, avvocato Aburame, sta continuando a deglutire. Ipotizzo che la gonna corta le faccia sempre lo stesso effetto.”
Shibi rise. “È ancora una brillante deduttrice, avvocato Yukinohana. Ma lei si è accorta di quanto le tremano i polsi ad osservarmi le mani?”


7 giugno 2015, Quartiere di Shinjuku, Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 10.16


“Regola numero sette dell’Istituto Sarutobi: è vietato introdurre all’interno delle aule, degli uffici e dei Dipartimenti bevande alcoliche di qualunque tipo” recitò Inoichi, scribacchiando furiosamente su un foglio di carta.
“Allora brindiamo al nostro problema di alcolismo!” gridò Chouza festoso. Sollevò in aria il proprio bicchiere e colpì con un rumore secco di vetro quello del compagno biondo, poi quello di Shikaku.
“Brindiamo anche alla Diciannovesima Conferenza Mondiale sulla Fisica Teoria di Los Angeles” aggiunse Inoichi con un sorriso. “Tra pochi giorni abbandoneremo i nostri letti vuoti-”
“Parla per te.”
“Già, infatti.”
“-per respirare l’aria frizzante di scienza e sperimentazione!” lo Yamanaka non si fece abbattere dai commenti dei suoi due migliori amici e colleghi. Certo, sapeva che Chouza era sposato da un ventennio e Shikaku, dal canto suo, conviveva con la sua compagna da altrettanto tempo, ma lui dopo l’esperienza con Perdita aveva deciso di lasciar perdere le donne. L’unica donna della sua vita era la sua Irene, ma lei sembrava preferire la sua assenza, ed Inoichi poteva capirla: non era mai stato bravo quanto gli altri due a fare il padre.
“Ancora una volta senza niente tra le mani” specificò un po’ amareggiato Shikaku, gettando il capo all’indietro contro lo schienale alto ed imbottito della sedia girevole.
“Non dire queste cose” lo esortò il compagno paffuto con una forte pacca sulla spalla, “siamo solo stati sfortunati quest’anno. E poi parli proprio tu, che hai avuto quella sovvenzione ridicola dall’Università dopo la tua ultima equazione!”
“Quattro anni fa” precisò il Nara.
Si versò un altro bicchiere di sakè, Inoichi e Chouza si scambiarono uno sguardo: c’era di sicuro qualcosa che turbava Shikaku. Fino a qualche giorno prima, non poteva chiudere bocca riguardo a quanto strafiga sarebbe stata quella convention, di quanto si meritassero una pausa dal lavoro, di quanto orgoglioso sarebbe stato mostrando a Shikamaru parte del loro mondo in cui lui si accingeva ad entrare.
“Hai sentito?” l’Akimichi si rivolse al padre di Irene, “pare che uno dei team della California Institute of Technology stia lavorando a qualcosa di grosso che presenterà alla Conferenza. Dannati americani, sempre un passo davanti a noi!”
L’esca era stata tirata. Se c’era un’occasione che Shikaku non si lasciava mai sfuggire era quella di inveire contro gli abitanti del Nuovo Continente. Giapponese fiero e orgoglioso com’era, la xenofobia faceva parte del suo patrimonio genetico: uno dei motivi per cui lui e Yoshino spesso si trovavano a litigare. ‘Se parteggi per quelli là non sei una vera giapponese!’ biascicava lui, parecchio ubriaco, al che la sua donna lo mandava a spezzarsi la schiena sul divano.
Dopo il secondo minuto di silenzio tombale, Inoichi si piazzò davanti a lui.
“Okay, parliamone” poggiò un piede sul bordo della sedia del Nara, inclinandola verso di lui, “sono pronto a giurare sui miei capelli tinti che sia successo qualcosa a casa tua. Qualcuno sta male?”
Shikaku scosse il capo. “Dai Ino, lascia perdere.”
“Non lascia perdere un cazzo!” sbottò Chouza, “amico, non ti vedo così da quando la nazionale giapponese ha perso contro la Cina a basket nei Giochi Asiatici dell’anno scorso. E tutti in questa stanza sanno quanto hai pianto nel tuo fazzoletto i settemila yen che avevi scommesso contro Zhou del Dipartimento di Storia.”
Inoichi inclinò la testa, cercando di leggere l’espressione di Shikaku. “A me sembrano pene d’amore. Ricordo che avevo la stessa faccia quando Dita mi ha cacciato di casa la prima volta.”
Shikaku sospirò. Odiava quando quel coglione di Inoichi iniziava a parlare di Perdita, gli veniva una stretta al cuore per la pena. Certo, ormai tirava fuori l’argomento ‘Dita’ ogni volta che voleva scansarsi un fosso -fosse una cena con il resto del Dipartimento o un incontro con i suoi genitori ad Osaka- e la stessa Yoshino lo prendeva a calci nel sedere fino al luogo da lui evitato, ma nonostante tutto Shikaku ricordava bene la sofferenza di Inoichi quando, tornato di nuovo in Giappone con la piccola Irene, l’aveva affidata alle cure sue e della sua consorte. Non poteva negargli nulla, non con quell’immagine stampata in testa.
“È successa una cosa con Yoshino” confessò lui, evitando lo sguardo degli altri due.
“Avete litigato?” chiese Chouza, poco convinto. Quei due litigavano di continuo, l’altro non sarebbe così demoralizzato per un semplice battibecco. Certo, nel corso della storia della loro coppia c’erano stati scenari parecchio distopici, con Yoshino che se n’era andata di casa per qualche giorno, ma ne avrebbe sentito parlare da Shikamaru quando era andato a stare da lui un paio di giorni prima.
“No, affatto” Shikaku prese un bel respiro, “riguarda la sua ultima causa. Ve ne ha parlato, no? Il processo contro la famiglia Hyuuga.”
“Sì, ne ho letto anche sul giornale” Inoichi annuì, “sembra una cosa bella tosta. Ma che c’entra il suo lavoro, scusa? Dici sempre che è una manna il fatto che ti lasci la casa libera!”
“Sì, ma il suo avversario… l’altro avvocato, cioè…” una ruga profonda incise la fronte dell’uomo “…è quel negro bastardo.”
“COSA?”
“NON FARAI SUL SERIO!”
Le facce di Inoichi e Chouza dicevano abbastanza dei trascorsi del trio con il primo fidanzato della sua compagna. Quel pomeriggio di ottobre di ventidue anni prima era marchiato a fuoco nelle menti di tutti loro -e non solo nella mente, nel caso di Shikaku. Gli amici erano in disaccordo su diversi argomenti, il che era normale, non potevano di certo concordare su ogni cosa, altrimenti quell’amicizia non sarebbe sopravvissuta trent’anni; ma l’unica cosa su cui le loro idee convergevano era sull’astio comune contro Aburame Shibi.
“Chi pensava che avremmo mai sentito parlare di Tuentiiuanu-shi dall’ultima volta?” Inoichi era seduto all’indiana sulla scrivania di Shikaku, le braccia conserte e l’aria seria sul volto.
“Non chiamarlo Tuentiiuanu-shi, Mr. Twentyone, mi fai venire i brividi” Chouza lo guardò male, versandosi altro sakè, “chiamalo col suo nome: negro bastardo.”
“E Yoshino? Nel senso, lei com’era quando l’ha detto?” il tono di Inoichi era di partecipazione nei confronti del compagno con i capelli neri, “era tipo: ‘sai, il mio avversario è Tuentiiuanu-shi’ o tipo ‘sai, il mio avversario è Tuentiiuanu-shi’ ?”
“E quale sarebbe la differenza?”
“Che il secondo è più malizioso!”
“Ma che cazzo hai nel cervello, la segatura? E ti ho detto di non chiamarlo Tuentiiuanu-shi!”
“Me l’ha detto a letto” rivelò Shikaku, “dopo che avevamo fatto sesso. Non che volesse farlo, l’ho costretta io. Era frustrata e volevo sapere perché… e lei se ne esce sussurrando il suo nome.”
Inoichi e Chouza si scambiarono un altro sguardo. Doveva essere stato un bello shock per l’uomo con il volto sfregiato, venire a sapere in una situazione così intima il ritorno di un nemico che aveva creduto sconfitto per molto tempo. Sinceramente, fosse stato Chouza in quel casino, si sarebbe precipitato nudo a casa di Shibi per spaccargli la faccia ed intimargli di stare lontano dalla sua donna. C’era anche da dire che Chouza era parecchio più alto di Shikaku, che dall’alto del suo metro e settanta non poteva competere col metro e novantacinque di quel bastardo.
“È solo un bastardo, Shikaku” Chouza fece per afferrargli la spalla, poi si rese conto che il compagno non avrebbe gradito, “un hafu. Senza offesa, Inoichi.”
Inoichi fece una smorfia come se avesse succhiato un limone, ma invitò a gesti Chouza ad andare avanti.
“Tu e Yoshino avete superato cose peggiori di questa. Un bastardello negro con gli occhi a mandorla non te la porterà via. Lei è una madre di famiglia, una donna responsabile e cavolo, Shikaku, è persa per te. Lo ha già lasciato una volta per stare con te. Credi che dopo vent’anni tornerebbe con quello?”
Shikaku lasciò che un sorriso mozzo curvasse le sue labbra sottili. “No. Non se è sana di mente.”
Ovviamente, tutta quella sicurezza di cui faceva sfoggio era minata alla base dalla consapevolezza di quanto Yoshino fosse fuori di testa, all’epoca, per quel fottuto negro. Yoshino era innamorata di lui, innamorata persa, e lui di lei. Era passato tanto tempo, tanto abbastanza da considerare quel passato morto e sepolto, ma aveva visto con i suoi stessi occhi l’ansia che l’aveva assalita durante il suo racconto degli avvenimenti in aula. Altri avrebbero creduto fosse paura di lui come avvocato, ma non il compagno che aveva vissuto con lei per due decadi: Yoshino era terrorizzata dal fatto che, contro di lui, non sarebbe riuscita a dare il massimo. Perché? Perché, nonostante quello che Shikaku aveva ipotizzato fino alla settimana prima, i ricordi della sua vita precedente erano ancora vivi e vegeti. Ed anche quelli di Shikaku.

 

24 giugno 1994, Campus dell’Istituto Sarutobi, Tokyo, Giappone sud-occidentale.


“Ti sei divertita stasera, Yoshino-chan?” Shikaku era alticcio, ma abbastanza in sé per riaccompagnarla a casa, nel suo mini appartamento all’Università Senju, in mezzo ai ricconi ed agli snob. Lei non era ricca di famiglia, si manteneva grazie alle borse di studio ed ai lavori che svolgeva presso la sede della ‘azienda legale’ del padre del suo fidanzato, quel negro di Aburame Shibi. Questo la rendeva ammirevole agli occhi di Shikaku… e per questo ancora più dannatamente desiderabile.
“È stata una serata parecchio piacevole” Yoshino gli sorrise, il rossetto della sua migliore amica Tsume le macchiava la guancia destra. “E grazie per esserti offerto di riaccompagnarmi, se fossi andata via con Tsume forse non ci sarei nemmeno mai arrivata, alla Senju.”
Shikaku si perse mentre la guardava. Cazzo, cazzo, era così bella. Come era riuscito quel tizio a beccarsi una perla così rara, così pura?
“Shikaku-sempai.”
“Eh?”
“Devi ancora mettere in moto.”
Shikaku scosse la testa. “Già, già… è che sei davvero stupenda stasera, Yosh.”
“Grazie” rispose lei, cortese, allacciandosi la cintura di sicurezza. Era educata, ma fredda.
“Non avrò mai una chance, non è così?” Shikaku lo disse in tono leggero, ma si sentiva davvero male. Era la prima volta che soffriva per una donna, e quella donna era una studentessa dell’università rivale che stava da anni con un hafu di colore. Non riusciva a crederci.
Lei sospirò. “Shikaku-sempai, con te mi diverto molto, è bello… quello che abbiamo.”
“Ma?”
“Ma sceglierò sempre lui. In qualunque occasione, a qualunque bivio, io sceglierò sempre Shibi. Lui è quello che voglio e quello che ho sempre desiderato. Non riesco ad immaginarmi la mia vita senza di lui.”


 
Ancora a distanza di anni ricordava quella frase, quello sguardo smarrito che lei aveva ogni volta che parlava di lui, l’aria innamorata dipinta sul suo volto quando lui la stringeva a sé. Chiunque avesse visto Shibi e Yoshino da ragazzini avrebbe detto che avrebbero passato l’intera esistenza assieme; eppure Yoshino era con lui, aveva scelto lui. Non avrebbe dovuto preoccuparsi di nulla, date le circostanze.
Shikaku sapeva, però, perché era così odiosamente in pena. Dopo vent’anni, Shibi aveva ancora un vantaggio su Shikaku, un vantaggio che lui stesso era inconsapevole di avere: il vantaggio costituito da una bugia troppo grande per non essere fermentata in una bomba ad orologeria.

7 giugno 2015, Quartiere di Ikebuko, Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 12.21


La Miss aveva detto di non potersi fermare a pranzo, quindi si stavano concedendo un veloce aperitivo al chiuso in un angolo del bar, sotto al condizionatore.
“Allora, quali sono queste novità importanti?”
Asuma stava bevendo con calma la sua soda all’uva. Adorava quella roba, era una delle poche bevande spazzatura che davvero gli piaceva. Era aspra e dolce allo stesso tempo, frizzante in bocca, e poi sapeva abbastanza di uva da ricordargli un po’ il vino. Certo, la mancanza di alcool era un grosso problema, ma per uno che si stava disintossicando era l’unica cosa che potesse permettersi. Già quel sorso di Cuba Libre la sera prima lo aveva fatto sentire in colpa per ore, non era proprio il caso di sgarrare.
“Prima di tutto, Miss Tacchi a spillo, sono dispiaciuto di informarti che in questo locale non servono aragosta ed è troppo presto per lo champagne” Asuma ghignò, “quindi rimanderemo la nostra piccola seratina di divertimento alla prossima.”
“Dai, Asuma, non ho tempo da perdere, muoviti” la signorina sembrava irritata. Asuma immaginava ci fosse qualcosa che avesse pestato la coda alla piccola cerbiattina, quindi decise di non inimicarsela per quell’oggi.
“Poi, ho delle novità su Tokuma” aggiunse. “Pare che il nostro caro vecchio amico si sia chiuso in casa e non accetti di vedere nessuno. Secondo un mio informatore-”
“Perché sento che sei andato a letto con questo informatore?”
“Hai detto tu di spicciarmi, no? Questo non è un dettaglio importante” il Sarutobi si diede un certo tono, sollevando un sopracciglio. “Il dettaglio importante, piuttosto, è che è un altro a gestire la sua fetta di profitti nel clan, un certo Minoru. Alla Omicidi non se n’è mai sentito parlare, tu ne sai qualcosa?”
Yoshino scosse la testa. “Non mi dice niente. Andrò a vedere in archivio, ma ho già controllato tutti i reati commessi dagli Hyuuga negli ultimi cinque anni e Minoru non è mai stato schedato.”
“Mh, fallo comunque, potrebbe portarci verso altre piste” suggerì Asuma. “Oh, tra l’altro, il grande capo ed il cioccolatino si sono visti ieri.”
“Davvero?” chiese Yoshino, interessata. “E di che hanno parlato?”
“Di questo non ne ho la più pallida idea” confessò Asuma, alzando le spalle, “li ho solo visti conversare al Takamagahara ieri notte. Ero troppo lontano per sentirli e non ho voluto farmi notare.”
“Mh, hai già fatto abbastanza per adesso” l’avvocato fece schioccare le labbra, sorseggiando il suo Aperol Spritz. “Qual è la prossima mossa?”
“Ho intenzione di spiare un po’ la vita di Minoru” il detective disse, “qualche appostamento, un’indagine un po’ più approfondita. Sono riuscito a scoprire dove vive, è già un bel passo avanti.”
Yoshino annuì, soddisfatta. “Credi che questo ci aiuterà a trovare delle prove contro Tokuma?”
“Ci darà sicuramente modo di capire in che giri fosse invischiato” Asuma le rispose, “ho come la sensazione che non tutte le illegalità di Tokuma partissero da ordini del grande capo. I reati che ha commesso… sono troppo appariscenti per uno Hyuuga, anche per uno della Casata Cadetta. Per me, Tokuma aveva altro tra le mani.”
“Potrebbe darsi” Yoshino non voleva entusiasmarsi troppo per le deduzioni del poliziotto. Non aveva mai conosciuto un uomo più capace nel suo mestiere, sì, ma in quel momento l’ultima cosa di cui aveva bisogno era distrarsi dal suo compito principale. “Fai in modo di raccattare più informazioni possibile. Devo sapere da dove viene il Rohypnol, Asuma, devo sapere da chi l’ha comprato e come provare che sia stato lui a darlo ad Ayame.”
“Di questo me ne occupo io” garantì lui. “Tu cerca di tenermi quel rottweiler rognoso fuori dai piedi, d’accordo? Troverebbe di certo un modo per allontanarmi dalle indagini, se venisse a conoscenza del mio coinvolgimento.”
Il rottweiler rognoso doveva essere Shibi. Pensando alla forma del cane, Yoshino non poté non ammettere di vedere la somiglianza. I rottweiler, però, avevano un sorriso molto più simpatico.
“Consideralo fatto. Chiamami se hai altre dritte, d’accordo?”
“Certo. Ah, Miss Tacchi a spillo?”
“Che c’è ancora?”
“Adoro il tuo profumo.”
Yoshino si voltò bruscamente, allontanandosi senza nemmeno ringraziare. Quello che indossava era il suo preferito, lo Chanel n° 5… che era anche il profumo che Shibi e Shikaku in assoluto più amavano.

Yoshino diede un’occhiata al suo orologio da polso. Segnava le quattro e mezza, quindi mancavano solo trenta minuti prima che potesse tornare a casa. Aveva bisogno di una lunga doccia rilassante lontano da ogni fonte di stress.
Quella era senza ombra di dubbio la mezza giornata più spossante che aveva avuto nell’ultimo periodo: tra la normale stanchezza che il lavoro le procurava, la tensione dell’ultimo caso, quella continua altalena emotiva alla quale era sottoposta da quando si era scoperta avversaria di Shibi, Yoshino avrebbe tanto voluto dormire per tutto il giorno e svegliarsi lontano da quell’enorme casino che era diventata la sua vita da qualche giorno a quella parte.
Non che la situazione a casa fosse meglio, per carità. Shikaku era diventato nervoso, Yoshino lo percepiva. Si sforzava per non mostrarlo, ma lei sapeva che c’era un tarlo a rodergli il cervello. Forse era solo eccitato per la convention che si sarebbe tenuta tra cinque giorni, eppure lei non ne era del tutto convinta.
Irene sarebbe passata a cena ed almeno questo la rallegrava. Era un mese che non vedeva la sua figliastra/nuora ed aveva sinceramente voglia di distrarsi con uno dei suoi racconti assurdi. Il tutto dopo aver fatto la sua doccia rilassante, senza dubbio.
Qualcuno bussò alla porta del suo ufficio. Era la persona che Yoshino meno voleva vedere in quel momento.
“Avanti” disse a Tarou con un sospiro profondo.
L’uomo si sedette sulla sedia di fronte alla sua scrivania, soppesando le parole da dire. Yoshino intuiva che fosse alla ricerca di un discorso per riprendersi ai suoi occhi, ma che poi ci avesse rinunciato. Già dopo l’incontro con il difensore degli Hyuuga, lui e la sua sottoposta avevano avuto una discussione. La materia del dibattito era ciò che aveva reso Yoshino così irritabile per tutto il resto della giornata.
“Senti, lo so che non è nel tuo stile” mise in chiaro il suo capo. “Va contro la tua etica e tutto ciò in cui credi, la parità dei sessi, il valore di una donna.”
“Mi fa piacere che lei lo abbia compreso, Tarou-san.”
“Ciononostante” lui piegò la testa mentre ammetteva quella variabile nel suo sermone, “tu hai un’arma contro di lui, un’arma che nessun altro in questo ufficio ha. Fosse stato gay, persino io avrei fatto lo smorfioso.”
“L’avvocato Aburame non è stupido” Yoshino ribatté, cercando di trattenere un ringhio, “di certo non si farebbe infinocchiare in questo modo.”
“Yoshino, io sono un uomo” Tarou si inclinò verso di lei, gli occhi scuri, non particolarmente belli, brillavano, “ed un uomo non guarda così tutte le donne. Una bella donna la si fissa, ci si compiace della sua fisicità, ma lui era… ipnotizzato da te.”
L’avvocato batté le palpebre e distolse lo sguardo. Sapeva benissimo di cosa parlava il suo jyuuyaku, conosceva quell’atteggiamento di Shibi. Tarou insisteva col dire che anche quella mattina l’aveva fissata a quella maniera, ma lei non se n’era minimamente accorta.
“Non ti sto dicendo di fartelo” Nakajima chiarì, “certo, se tu volessi arrivare fino in fondo-…”
“Tarou-san, la prego.”
“Quel cioccolatino pende dalle tue labbra. Tutto quello che devi fare è fargli credere che lui abbia una chance: escici insieme, fatti portare in un posto carino, fai la preziosa. Ammorbidiscilo fino a quando non diventa creta nelle tue mani, poi schiaccialo al processo.”
“Lei vuole che io lo seduca” Yoshino tradusse, un cipiglio da falco inaspriva la dolcezza orientale dei suoi connotati. “Lei vuole che io giochi con lui come il gatto col topo.”
“Esattamente” l’altro era persino più convinto di quanto lo fosse alla mattina, “è ciò che ti consiglio di fare. Non c’è in gioco il tuo onore, Yoshino, non sei sposata e quindi non c’è nessun marito che tradiresti facendo un po’ di scena con quell’hafu.”
“Shikaku non è mio marito, è vero” Yoshino sbuffò, “ma sto con lui da vent’anni e di certo si sentirebbe tradito se io iniziassi ad uscire insieme ad un altro uomo!”
“Tu esci con altri uomini continuamente!” Tarou era allibito.
In parte era vero. Yoshino era una delle poche donne della sua età che andava senza problemi a pranzo con i suoi colleghi maschi, li vedeva anche fuori dal lavoro, e non solo loro. Aveva alcuni amici uomini e Shikaku non aveva mai fatto una grinza: la sua fiducia in lei era cieca. Shibi, però, era tutto un altro paio di maniche.
“Aburame è un discorso diverso.”
Lo sguardo a mandorla di Tarou si assottigliò, indagatore. “C’è stato qualcosa tra voi?”
“Questi non sono affari suoi, Tarou-san” il sibilo che emise Yoshino avrebbe fatto accapponare la pelle persino ad un serpente. Il coordinatore si ritrasse, impaurito. Ora capiva cosa intendessero i suoi sottoposti quando dicevano che Yukinohana sapeva essere spaventosa.
“Senti, Yoshino, io non posso certo costringerti a fare quello che non vuoi” lui si alzò, incamminandosi verso l’uscita del cubicolo, “ma voglio che tu sia consapevole di quanto aiuterebbe la tua causa fingere di essere interessata ad Aburame Shibi. Porterebbe giustizia ad una ragazza innocente e spezzerebbe una delle centinaia di gambe della famiglia Hyuuga, un obiettivo a cui molti prima di te hanno aspirato e che nessuno mai è riuscito a portare a termine. Ostinarsi a perseguire degli ideali astratti invece che raggiungere uno scopo concreto, un sogno… ne vale davvero la pena?”

7 giugno 2015, Quartiere di Roppongi, Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 22.21


Alla fine, Yoshino e Shikaku erano riusciti a convincere Irene a passare la notte lì.
“Ma ho tutti i vestiti a casa…”
“Non dire scemenze, Ino, l’armadio di camera tua è pieno.”
“Domani avrei lezione…”
“Ti accompagna Shikamaru, tanto lui deve andare in università comunque.”
Non era stata un’operazione particolarmente difficile. Irene non vedeva l’ora di svegliarsi di nuovo con i suoi genitori adottivi, quindi, dopo aver dato una mano a Yoshino per sparecchiare, si era fiondata nella sua vecchia stanza con Shikamaru. Ora i due stavano ridendo sul letto, indicando le migliaia di figurine attaccate sotto la mensola. Erano membri di boyband coreane e giapponesi della sua pre-adolescenza, con quei tagli di capelli assurdi e i vestiti da anime.
“Hanno l’eyeliner più dritto del mio!” commentò la ragazza, aveva riso così tanto che le colavano le lacrime. Shikamaru non riusciva nemmeno a respirare.
“Manteniamo lo spettacolo adatto alle famiglie, mh?” Shikaku si appoggiò allo stipite della porta con le braccia incrociate. Stava sfruttando tutta l’aria tenebrosa che gli donava il proprio volto sfregiato per terrorizzarli come faceva quand’erano bambini, “conoscete le regole.”
“Sì, papà” Shikamaru non sembrava tanto impressionato mentre abbracciava Ino. “Ce ne staremo qui, tranquilli tranquilli, mentre tu e mamma fate sesso in camera vostra.”
L’uomo annuì. “Sono felice di sentirtelo dire. E tu dopo tornatene nella tua stanza, intesi?”
Il Nara più giovane roteò gli occhi. “Sì, sì, non preoccuparti. Ti dispiace?”
Shikaku non riuscì a trattenere un sorriso mentre chiudeva la porta.
All’inizio, non ammetteva che loro stessero chiusi dentro da soli con le luci spente, ma dopo un po’ ci aveva fatto l’abitudine. Era stato difficile ricordare che, nonostante l’affetto che provasse per la piccola Irene, lei non era figlia loro. L’avevano cresciuta fin da bambina, aveva mangiato ogni giorno alla loro tavola fino a diciassette anni, l’avevano mandata a scuola, ma la biondina era un membro esterno della loro piccola famigliola felice.
Il fatto che lei e Shikamaru alla fine si fossero innamorati l’uno dell’altra non era così scandaloso come all’inizio non poteva fare a meno di pensare: non erano fratelli, anzi, erano stati compagni di vita fin dalla tenera età. Sapevano prendersi cura l’uno dell’altra, si conoscevano a menadito e se c’era qualcuno a cui lui avrebbe affidato ad occhi chiusi quell’idiota di suoi figlio, quel qualcuno era proprio Irene.
Un hafu, un giapponese… due mondi diversi che si miscelavano l’uno nell’altro… quella chimica inespugnabile… oh, sì, gli ricordava un’altra storia.
“Siete incorreggibili, tutti e due” sussurrò Yoshino, ridacchiando al sentire le mani di Shikaku scorrere lungo i suoi fianchi. Lui le posò un bacio sul collo, senza dire nulla.
“Lasciami finire i piatti, aspettami a letto.”
Il compagno fece come gli era stato ordinato, poggiandosi sul letto matrimoniale con le braccia a sostegno della nuca. Non era particolarmente voglioso, non quella sera, voleva solo che lei gli dedicasse delle attenzioni. Il lavoro le prendeva la maggior parte della giornata, quando tornava a casa aveva solo voglia di riposare e Shikaku la capiva: anche lui, certe volte, non vedeva l’ora di mettersi a dormire. Quella notte, però, voleva coccolarla ed essere coccolato. Tra qualche giorno sarebbe partito ed avrebbe passato quattro giorni senza di lei… doveva fare il pieno di Yoshino.
La sentì svestirsi piano, cercando la camicia da notte a tentoni sotto il cuscino. La seta frusciò contro la sua bella pelle, poi contro il copriletto di cotone, infine contro gli abiti di lui. Lui le circondò le spalle, si voltò su un fianco per guardarla. Avvolta in quel color porpora, la luce della luna che esitava sui suoi zigomi e le illuminava le labbra, era una visione. Era più bella in quel momento che in quella sera del ’94, perché ora era sua e di nessun altro.
“Un penny per i tuoi pensieri” disse, accarezzandogli la bocca con un dito.
“Sei bellissima” lui bisbigliò. Lambiva la sua guancia con la mano libera, le spostava i capelli via dal volto.
“Che hai?” lei cercava i suoi occhi, dubbiosa, si stringeva a lui in cerca di una risposta più esauriente. “Perché lo dici con questo tono così… malinconico? È successo qualcosa?”
“No, no” mentì lui. “Ti lamenti sempre che non ti faccio mai un complimento e quando cerco di essere romantico mi chiedi se c’è qualcosa che non va?”
“Non è il complimento che mi turba” Yoshino lo baciò con delicatezza sul mento, poi nella piega del collo. Shikaku l’attirò a sé con un braccio attorno alla vita. “È il modo in cui lo dici. Sei strano negli ultimi giorni, da quando…- ah.”
La consapevolezza la colpì come un fulmine a ciel sereno. Certo, come poteva essere stata così stupida? Non c’erano altre spiegazioni.
“Sei geloso?” gli domandò piano. Shikaku si prese del tempo per pensare, per analizzare il proprio stato d’animo.
“No” decise infine, premendo le labbra contro la sua fronte, “non sono geloso. È che quest’idea di te e lui… mi spaventa, Yosh.”
“Da quando in qua sei così insicuro, mh?” Yoshino tracciò il contorno delle cicatrici sul suo volto, il tono soffice di quando cercava di rassicurarlo su qualcosa. Anche quel gesto, quello di sfiorare i suoi sfregi, era un rito: serviva a ricordargli che loro stavano insieme nonostante quell’ostacolo, nonostante quella sofferenza. “Nemmeno quando mi facevi la corte eri tanto tentennante, e a quell’epoca…”
“È appunto per questo” Shikaku ribadì, abbracciandola più forte. I suoi capelli odoravano di vaniglia, l’essenza del suo balsamo, e sul collo percepiva una goccia del suo profumo francese. A volte si sorprendeva di cosa il destino avesse riservato ad uno come lui, ad un piccolo topo di biblioteca; sentiva di meritarselo appieno, ma anche sapendolo, non riusciva a scacciare quel sentimento selvaggio e primordiale di gioia. “Tu avevi perso la testa per lui.”
“E poi l’ho persa per te” Yoshino gli afferrò i lati del viso, portandolo alla sua altezza, “Shikaku, avevo diciotto anni quando mi ero fidanzata con lui, ero ancora una bambina. Io l’ho lasciato per vivere la mia vita, per inseguire il mio mondo perfetto, al fianco di un uomo che mi considerasse sua pari, divisa senza problemi tra una famiglia che amo ed il lavoro che ho sempre sognato. Tu hai permesso che il mio sogno si avverasse. I litigi vanno e vengono, ma io e te abbiamo resistito a tante cose ben più gravi di una mia vecchia cotta.”
Shikaku sorrise. “Sì, hai ragione. Non so cosa mi sia preso, sarà questa allergia estiva…”
Yoshino gli diede un buffetto dietro alla nuca. “Non vuoi perdermi. Questa me la lego al dito, Nara.”
“Mi rubi anche le battute, adesso?” il sorriso era diventato giocoso, “sono io che me la lego al dito.”
La risata di Yoshino esplose mentre lui la schiacciava sul letto, baciandole la gola. Le molle del materasso cigolarono in protesta, ma entrambi le ignorarono. Lei fece scorrere le mani sulla sua schiena, tirandolo di più a sé mentre i suoi baci salivano a caccia della sua bocca. Si baciarono intensamente, prima di sentire battere sul muro dietro di loro.
“Cerchiamo di mantenere lo spettacolo adatto alle famiglie, eh, ragazzi?” la voce di Shikamaru li riscosse.
“Ora lo uccido” Shikaku sembrava infuriato.
Yoshino continuava a ridere mentre lo spingeva giù al suo fianco. Posò la guancia sul suo petto, godendosi la sensazione del pizzetto del suo uomo che le grattava sulla cima della testa. Anche Shikaku si arrese con un sospiro, riconoscendo che la magia fosse finita, ma senza rinunciare a tenerle un braccio dietro la schiena.
“Ti amo” mormorò lei, poggiandosi con il mento proprio sopra il suo cuore. Gli occhi nocciola dalle intense sfumature color cioccolato non erano mai stati più dolci di quel momento, più sinceri. Shikaku non poteva dubitare, non quando lei gli parlava così.
“Lo so.”

8 giugno 2015, poco fuori Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 2.34


Quella giornata di lavoro era stata estremamente intensa. Era stanco, spossato, stressato e non vedeva l’ora di mettersi a dormire.
Il getto di acqua tiepida scorreva lungo il suo corpo, incanalandosi nelle piccole fosse dei suoi muscoli contratti. Poggiato con le mani sulla parete di marmo beige, si stava godendo quella carezza rigenerante prima del suo terapeutico bicchiere di scotch irlandese. Era solo, del tutto solo.
“Ti dispiace se mi unisco?” una voce maliziosa, di provocazione, di sfida. Ad occhi chiusi, sorrise.
Did I ever say ‘no’ to you?” ribatté l’uomo con la pelle scura, voltandosi a guardare la sua visione.
Che viso stupendo. Che corpo meraviglioso. Non poteva non sentirsi attratto da quella dea di puro alabastro.
Lei si mosse adagio, facendolo impazzire con quella sua camminata elegante, il suo passo felpato da pantera. Lui non spostò mai gli occhi da lei, la osservava, la scrutava, voleva che si sentisse desiderata, posseduta. Lei era completamente sua.
Gli allacciò le braccia attorno ai fianchi, il seno soffice premuto sotto i suoi pettorali. Era piccola e deliziosa come un bignè, uno di quelli che lei adorava gustare nei bistrot francesi che avevano visitato insieme quando erano più giovani. Neanche in punta di piedi sarebbe riuscita a baciarlo, ma a lui andava benissimo così: adorava tutto di lei, la sua statura, le proporzioni del suo corpo, i capelli di seta, la grana elastica e morbida della pelle, il suo profumo, la sua voce. Se esisteva un sinonimo di perfezione, quello era il suo nome.
“Che stai aspettando, sweetheart?”
Shibi si svegliò tutto d’un colpo, sudato ed ansante. Un sogno erotico alla sua età… maledizione! Dannata gonna, dannato testosterone, dannata Yoshino! Quella donna era proprio come il vino, più invecchiava e più diventava prelibata.
Chiuse gli occhi per cercare di trattenere le immagini, ma ogni volta che riusciva a catturarne una, questa diveniva sfocata. L’unica cosa che si stampò nella mente era il ricordo caldo delle sue braccia chiare che lo stringevano, che lo abbracciavano… lo aveva desiderato a lungo, troppo a lungo.
Hiashi non era stato contento dell’esito dell’incontro con l’accusa, ma Shibi gli aveva fatto notare che quelle cose le sapevano già di per loro anche senza l’intervento del pubblico ministero. Se le indagini non fossero andate più in profondità, sarebbero stati coperti contro ogni evenienza.
“Non hanno niente tra le mani” gli aveva assicurato l’avvocato, “se pure trovassero quella droga nel sangue della ragazza, non possono provare che sia stato Tokuma a dargliela. La ragazzina ha bevuto decine di cocktail quella sera e nessuna camera di sorveglianza ha ripreso niente… è stato furbo, quel coglione, glielo concedo. Abbiamo già… convinto… il barista a non testimoniare al processo, siamo anni luce avanti a loro. Piuttosto…”
Hiashi si era fermato con il bicchiere a mezz’aria quando Shibi lo aveva fulminato con un’occhiata eloquente.
“Sei proprio sicuro di non volerti interessare degli affari di Tokuma?”
“Non ci sono altri affari” lo Hyuuga sottolineò la frase con tono duro, stringendo la presa, “mi fido dei membri del mio clan.”
“Fa’ come ti pare” Shibi aveva alzato le spalle, sconfitto, “ma quel coglione deve averla pur presa la droga da qualche parte, no?”
Hiashi non aveva risposto. Shibi conosceva il perché: il suo socio sapeva bene che lui aveva ragione, ma purtroppo aveva le mani legate. Mettersi a scavare nella vita professionale di uno della Casata Cadetta sarebbe stato un suicidio per la sua immagine di fronte alla famiglia. Nel caso in cui non fosse stato abbastanza veloce a trovare un fondamento dei suoi sospetti, i membri più anziani avrebbero voluto la sua testa su un vassoio d’argento… letteralmente.
Era certo che Yoshino si stesse muovendo di nascosto a tutti loro, cercando indizi, prove, qualunque cosa. Hiashi non aveva torto su una cosa e cioè che quando Yoshino si impuntava su qualcosa, la otteneva ad ogni costo. Era inarrestabile, una vera forza della natura. Persino all’università si era dimostrata l’alunna migliore della sua generazione, nonostante le sue discendenze poco consone a quel tipo di studi.
Era attratto da lei in maniera inconcepibile. Non era solo il suo aspetto esteriore, era la sua personalità, era il suo essere così poco convenzionale, così inaspettata, come un’oasi nel deserto o una pioggia torrenziale dopo una secca. L’atteggiamento professionale poteva andare a farsi fottere, con Yoshino intorno; non riusciva a resisterle e, giù nel profondo, sentiva che per lei era la stessa cosa. I loro sguardi bruciavano l’uno per l’altra, le mani fremevano.
‘Che cosa stai aspettando, sweetheart?’ gli aveva chiesto lei nel sogno con un sorriso provocante. Shibi non poteva che darle ragione: che stava aspettando? Non aveva niente da perdere a giocare la sua partita con lei, sia dentro che fuori dal tribunale.
Era certo di poter vincere in entrambi i campi. In ogni caso, però, sarebbe stato il match più interessante che gli fosse mai capitato di disputare.


Ladie’s a gentleman! (note d’autrice):
Forgive me Lord, for I have sinned.
No, scherzi a parte, gente, adoro che in questo capitolo ci sia un sacco di Shibi. Ruota praticamente tutto intorno a lui ed è MERAVIGLIOSO, ma abbiamo ancora tanto da scoprire.
Tirando le somme:
A) Yoshino e Shibi stavano insieme durante il periodo universitario ed erano anche parecchio presi.
B) Shikaku gli ha rubato Yoshino.
C) Shikaku ha nascosto per moltissimo tempo una cosa a Yoshino, una cosa che potrebbe far tremare il loro rapporto dalle fondamenta.
Il prossimo capitolo (spero, spero che ci sia [per scaramanzia]), ve lo anticipo, sarà un po’ più poliziesco, con le indagini di Asuma e un piccolo zoom sugli Hyuuga più giovani. Guest star? Ovviamente, la mia donna preferita, Tsume Inuzuka! <3
Grazie a tutti quelli che sono arrivati fino a qui, spero che questa storia vi stia prendendo tanto quanto ha preso me!
Amore imperituro ai lettori e venerazione per i recensori!
Kiss,
la vostra decisamente troppo accaldata Ladie.

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