L'Adorabile

di Manto
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fuori dal Mare, dentro l'Uomo ***
Capitolo 2: *** Fiore del Desiderio ***
Capitolo 3: *** Elegia ***
Capitolo 4: *** Aeterna Vox ***



Capitolo 1
*** Fuori dal Mare, dentro l'Uomo ***


L'Adorabile




I - Fuori dal Mare, dentro l'Uomo




Il Re Errante sentì le lacrime rigargli le ispide guance e si ritrovò seduto sul letto, a piangere a dirotto senza saperne il motivo.
Nel palazzo tutto era immerso nel silenzio; il sonno dava ristoro a tutti tranne che a lui, così che solo soffriva, ancora, come quando era nell'isola dell'incantevole Dea [1] e sognava la sua povera casa, la sua povera vita. [2]
Si alzò, per non svegliare con i suoi singhiozzi l'amata moglie, e si perse nei corridoi del palazzo, dove le fiamme nei bracieri andavano via via spegnendosi con ultimi, esili sfavillii. Camminò a lungo, chiedendosi a cosa dovesse quella sua angoscia, quella sua nostalgia.
Andò con la mente lontano, ritornò nella piana di Troia, nella città di Ilio devastata dalle sue stesse mani, da quelle mani sacrileghe, al gigantesco eroe che aveva oltraggiato e portato alla morte [3], al suo compagno di avventure che vagava solo nelle terre della Morte. [4]
Pensò a loro, alla donna dai dolci occhi, la maga che comandava gli animali [5]; all'ingenua ragazzina, la gentile principessa che lo avrebbe accettato come sposo [6]; alla sua Dea, la Dea dagli occhi di cielo, la sua compagna di solitudine [7]. E infine, dopo tanto dolore, ecco le braccia della sua desiderata sposa, i sorrisi pieni di bellezza del suo adorato figlio e le lacrime di gioia dell'amato, vecchio padre.
No, non era per loro che piangeva. Non era di loro che doveva ricordare la storia.
In quel momento il Mare lo chiamò, e improvvisamente il Re seppe. Corse, corse a piedi nudi fuori dal palazzo, fuori dalle mura, giù, giù verso la spiaggia dove Lei lo stava chiamando.
Respirò forte, si sedette sulla sabbia attendendo che le placide onde gli accarezzassero i piedi, e seppe. Latente, dolce come una promessa d'amore, lei continuava a turbarlo sotto forma di un desiderio: il desiderio dell'Oltre, il desiderio del Poi. Ma di lei, lui ricordava solo la magnifica, dolce voce che aveva tentato di ghermirlo e dilaniarlo, che lo aveva quasi reso pazzo: come avrebbe potuto darle conforto, consegnare la sua storia al mondo?
Lascia che sia io a parlare, gli risposero le onde, e preparati ad un nuovo viaggio.
Ascolta la mia voce senza timore, perché io non posso più uccidere, solo piangere... come te.
Lascia che ti parli di me, che, per una notte soltanto, io sia ancora...

Parthenope.



NOTE

[1] La Dea è la Ninfa Calipso, l'isola Ogigia: da Omero essa viene definita “ombelico del mare”.
[2] Itaca è un'isola spoglia, e Odysseo uno dei sovrani micenei con minori ricchezze.
[3] Aiace Telamonio. Quando le armi di Achille erano state assegnate ad Odysseo, lui era impazzito di rabbia sterminando gli armenti; riavutosi, preso da una profonda vergogna si era suicidato. Odysseo lo rincontrerà nell'Ade, e qui gli chiederà perdono; tuttavia, il figlio di Telamone se ne andrà sdegnato, rinnovando per sempre il suo odio per il re di Itaca.
[4] Diomede. Nell'Iliade e negli altri poemi del ciclo troiano si legge come l'eroe di Argo sia legato a Odysseo e come spesso i due compiano azioni insieme. Dopo la distruzione di Troia, Diomede fece ritorno ad Argo, ma ne dovette fuggire per non venire ucciso da un inganno della moglie Egialea; il suo viaggio termina nelle terre di Esperia (la nostra Italia), che vengono definite dai Greci “Terre della Sera”: l'occidente dove dimora solo la Morte.
[5] Circe.
[6] Nausicaa.
[7] Calipso.

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Capitolo 2
*** Fiore del Desiderio ***


II – Fiore del Desiderio




Non ebbi in sorte di essere regina, né Dea, eppure la mia presenza non era passata inosservata ai Numi.
Da quando ho memoria, ogni giorno della mia esistenza li vidi: lampi di luce, sospiri nel vento, l'aria che improvvisamente scintillava e mi costringeva a chiudere gli occhi. E voci, voci dentro il cuore, che mi parlavano già di te.
Quello era il tempo in cui gli Dèi iniziavano a confondersi con i mortali, ma questi ancora non potevano scorgerli; in quel tempo nacqui io, nella Frigia dalle molte torri [1], figlia di pastori, dotata del dono maledetto della bellezza. Ero bella, credimi, anche se della mia grazia mi è rimasta solo l'avvenenza del viso.
Dicevano che sarei dovuta essere la sposa di re, o di Immortali. Furono forse queste parole, audaci e portatrici di invidia, che scatenarono la mia disgrazia? Questa è l'unica cosa che mai potrò sapere.

I giorni si rincorrevano come si rincorrono i flutti nel fiume, e il mio dono aumentava: la mia pelle perdeva l'impurità della prima giovinezza, diventava sempre più luminosa e levigata; gli occhi si scurivano come lame d'ossidiana, tuttavia brillavano come il cielo notturno quando è ricolmo di stelle. Ma era nella voce, quella voce per cui sono diventata temuta, la mia vera bellezza.
Bastava che parlassi o cantassi, e ogni cosa mutava intorno a me, assumeva armonia, si caricava di dolce luce, si innamorava; e fu la mia voce, più che il mio corpo, a incantare tutti quegli uomini. Li incontravo mentre conducevo gli animali di mio padre ai pascoli: essi erano pastori, viandanti, principi. Io ignoravo i loro sguardi pieni di brama tutta carnale, e cantavo per farmi compagnia; allora loro si avvicinavano, mi prendevano le mani e mi imploravano di cantare ancora.
Li accontentavo, e allora li vedevo sospirare e piangere. Li guardavo allontanarsi, quando il giorno moriva, e sapevo che non sarebbero più tornati. Io avevo fatto smarrire loro la strada, già allora...
Solo qualcuno ebbe la forza di implorarmi di invecchiare accanto a lui, di essere amata nel suo talamo. Io non risposi mai a nessuna di queste preghiere, fissavo solo gli occhi del supplicante; l'ombra della Morte si agitava dentro di essi. Sempre.

Nella mia mente riaffiora, come l'alba che incalza le ultime stelle, il primo ricordo che ho dell'amore.
Quella sera tutte le montagne erano in festa, perché una guerra sanguinosa e terribile era finalmente cessata, gli uomini ritornavano alle loro case e nuove famiglie si formavano; quella stessa notte si sarebbe sposata la figlia del capo villaggio, e già le risate riscaldavano l'aria.
Mia madre aveva venduto tutti i nostri agnelli perché avessi un vestito che fosse degno del mio aspetto: era morbido come una carezza e la stoffa rossa sembrava aver intrappolato i raggi di Elio, poiché ad ogni movimento un'onda di luce la attraversava.
Con quella veste mi confusi tra la folla che si riuniva nella modesta piazza, recando il silenzio e la contemplazione.
Iniziai a cantare, aprendo il corteo nuziale, e... e le parole mi sorsero come se fossero sempre state dentro di me, e mentre io stessa venivo intrappolata dal loro incessante scorrere vidi una distesa di acqua immensa, scintillante. Il Sole la rendeva dorata, e io regnavo su di essa, regina di anemoni, animali mostruosi e uomini morti affascinati da un canto maledetto e celestiale: il mio.
In quel momento mi parve di conoscere tutto. I desideri, le passioni, i dolori, le preghiere, le lacrime; ogni Destino, ogni Morte. Io sapevo, io vedevo: vedevo te, dai capelli dorati, dagli occhi d'opale, uguali a quelli degli Dèi che tutto vedono e sanno, e cercavano il limite dell'impossibile, incontrando alla fine i miei. Il tuo sguardo cangiante incendiò le tenebre che mi proteggevano il cuore e mi ritrovai a singhiozzare, tanto tu mi bruciasti.
Smisi di cantare, ma nessuno lo notò: ormai tutti stavano facendo sentire la loro voce gioiosa, erano troppo presi dall'euforia per badare a me.
Io, scossa e stanca per quello che avevo provato, mi allontanai verso un bosco poco distante per riprendere possesso di me stessa; e non ero ancora giunta là che sentii un fruscio, e subito qualcuno mi afferrò il braccio.
Mi girai, balzai indietro: un giovane, dai lunghi capelli neri come gemme notturne e dagli occhi tentatori, mi fissava.
Io cercai di sottrarmi, ma lui mi trasse a sé, mi cinse la vita con le braccia. “Dimmi il tuo nome, perché con esso possa iniziare ogni mia preghiera... mia Dea.”
Deglutii. “Non paragonarmi ad un'Immortale, sono solo una donna. Il mio nome è Parthenope.”
Il giovane mi prese il viso, lo tenne fermo; mi guardò per qualche istante, poi mi afferrò per i fianchi e mi gettò a terra, mi intrappolò sotto il suo peso. Mi baciò fino a togliermi il fiato, mordendomi le labbra con desiderio, poi la sua bocca scese sul collo, sulla pelle delle spalle che la veste non copriva.
Reso ancora più audace dai gemiti che non riuscivo a trattenere e dalla mia mancanza di resistenza – ero come pietrificata –, le sue mani bramose afferrarono la veste e la strapparono sul seno, scoprendolo.
Sobbalzai quando le sue labbra si chiusero intorno ad uno dei capezzoli e iniziarono a torturarlo con i denti, ma lo feci ancora di più quando pensai, al contrario di quello che il mio corpo stava iniziando a sentire, che tutto quello era sbagliato e non lo volevo.
Armandomi di questa sensazione trovai abbastanza lucidità per dare un ordine alle mie mani e spingere via il mio audace tormentatore; ma in risposta alle proteste che la mia bocca prese a mugolare le sue mani scesero sulle mie cosce, scivolarono sotto il ginocchio e vi fecero presa.
Mi aprì le gambe con rapidità e in quell'istante, mentre il suo sguardo si tingeva di una luce folla, animale, ebbi la certezza che lui non era diverso dagli altri uomini che mi avevano tentato. “No. Ti prego”, sussurrai allora con forza disperata, prendendogli con forza il volto.
I nostri occhi si incontrarono nell'oscurità, e i suoi rifulsero di rabbia. Senza una parola e disprezzandomi, con uno strattone si staccò da me e se ne andò, scomparve nella notte lasciandomi sola con il mio pianto di sollievo e timore.

Piansi per giorni, in preda alla confusione, mentre ogni istante, dovunque fossi, vedevo quel giovane guardarmi da lontano, sapendo che non avrebbe mai cessato di desiderarmi.
Piangevo perché per lui, come per gli altri, ero solo un corpo di bellezza immensa e nient'altro: un corpo da usare, non da amare... non da conoscere, non da stringere e comprendere.
Infine, una notte, spinta dalla disperazione afferrai la piccola falce di mio padre e mi tagliai i capelli, poco prima dell'alba fuggii dalla mia dimora e dalla mia terra; me ne andai per sempre, per porre fine ai tormenti e cercare un luogo dove potessi vivere in solitudine.
Raggiunsi la Troade, vidi il suo mare; alle sue placide onde gettai le mie chiome in dono, quindi entrai nell'acqua.
Fermati.
Spaventata da quella voce che sembrava scaturire dalle onde stesse, mi immobilizzai.
Un'ombra sorse dalle acque, torreggiò su di me prendendo le sembianze di una gigantesca, splendida donna il cui peplo si intrecciava alle rose e alle spine, così come la rappresentavano gli umili simulacri lignei della mia gente: Afrodite.
Mi inginocchiai sulla riva, tremante, e chinai il capo.
Tu rifiuti l'Amore. I principi si consumano di desiderio per te, i loro talami ti attendono, e tu li sfuggi.
Fa male abbracciarti, sei circondata di spine: così si sussurra tra i monti di Frigia, così si piange tra le sue tombe. Quindi non mi temi, Parthenope? Non hai paura della mia ira?
, gridò la sua voce, piena di furia.
“Ti temo, mia Dea; ma non sarò amata da nessuno. Io apparterrò sempre a me stessa.”
Davvero?
Il mare si ingrossò e mi frustò le gambe mentre le mani di Afrodite si chiudevano su di me, bruciandomi la pelle. Urlai per il dolore, iniziai a piangere mentre la Dea torturava il mio corpo trascinandomi verso la follia. Dimentica la tua bellezza, diceva intanto la sua voce, dimentica ciò che sei. Tu, bellissimo mostro, toglierai il ritorno a chiunque ascolti la tua voce, gioirai di mille morti.
E tu, tu che non ami nessuno... che tu non venga amata da Nessuno.

Svanì, e io gridai il mio orrore invano mentre le braccia si ricoprivano di piume nere, le gambe si accorciavano e i piedi lasciavano il posto agli artigli di un'aquila. Solo il petto e il viso rimasero quelli di prima, ancora più belli... ancora più desiderabili.

Cessata la mia metamorfosi mi librai in volo, la tristezza che mi dilaniava il cuore. Volai, volai fino a che vidi sotto di me la terra degli Achei, e superandola scorsi dal cielo quell'isola lontana e piena di fiori [2], così simile alla mia perduta Frigia, e lì scesi per dimorarvi... in attesa.




NOTE


[1] Così Omero definisce la Frigia.
[2] Secondo alcuni, l'isola delle Sirene sarebbe Antemoessa, nei pressi di Sorrento.
Lo stesso Omero ci dice che gli affascinanti mostri – in numero di due, nell'Odissea – abitassero su di un'isola e attendessero gli sventurati naviganti su un prato pieno di fiori.

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Capitolo 3
*** Elegia ***


III - Elegia




Non rimasi a lungo sola in quella prigione profumata di viole, baci mai scambiati e lacrime che si confondevano con il mare; la Dea aveva maledetto anche un'altra giovane donna come me, e un mattino la vidi giungere, coperta di bianche piume, fatta eccezione per il viso e i capelli, un'onda di puro oro.
Ci guardammo a lungo, mostri con la Bellezza nel volto, e poi io iniziai a cantare. L'altra rimase per qualche tempo ad ascoltarmi, quindi la vidi chinarsi tra l'erba ed afferrare con le ali un oggetto che mai avevo visto prima, cavo e pieno di fori, e soffiare all'interno.
La mia voce si mozzò, quando udii quale meraviglia riusciva a far sgorgare da quell'inanimato tesoro. Fu come udire il canto agognato e sospirato di mille donne che accolgono i mariti dalla guerra. Mi unii a lei, e al suono della nostra musica l'isola si sollevò tra le onde e si ricoprì di pallida nube.
Sorridemmo. “Il mio nome è Ligeia. E anche se non ti ho mai conosciuto... provo per te i sentimenti di una sorella”, disse.
Annuii. “Mi chiamavano Parthenope, quando ero un'umana. E ricambio ciò che senti”, risposi.
Fissai lo strumento che teneva stretto. “Un Dio ti ha insegnato a suonarlo? Non ho mai udito niente di più dolce, e triste.”
Ligeia sorrise. “Forse non odi la tua stessa voce. Ha la profondità della tempesta, di un sogno.”
Silenzio; un sospiro, un respiro, un grido di allarme che si perdeva tra la nebbia.
Sospirammo anche noi. Era giunto il momento.

Furono loro, quegli ignari pescatori, i primi che spingemmo alle nostre rive. Bastò solo cantare di una casa che li aspettava, di una famiglia che li amava, e loro abbandonarono la ragione; e poi la vita.
Ma furono soltanto i primi: moltitudini, eserciti interi abbiamo straziato senza piangere lacrime, senza provare alcuna pena per loro. La Dea ci aveva tolto ogni sentimento, e noi vivevamo solo quando quegli uomini ci davano loro stessi e morivano, il cuore ancora palpitante, che loro stessi si strappavano, tra le mani.
Guardavamo quegli occhi smarriti, mentre i loro Spiriti si inabissavano verso un nuovo viaggio al cospetto di Ade e la loro carne rimaneva a galleggiare tra le braccia del mare, e mai smettemmo di incantare e uccidere.
Noi eravamo i piaceri mai realizzati, lo struggimento della carne e la follia delle pulsioni più animalesche, i nostri occhi divenuti d'opale [1] sapevano ciò che le nostre prede volevano ancor prima di scorgerle, e glielo concedevamo per un istante, un istante soltanto, prima di serrare gli artigli intorno alle loro gole.
No, noi non provavamo nulla, che fosse umano... eppure, a volte mi chiedevo perché l'angoscia cogliesse la mia voce mentre guardavo un giovane appoggiare il capo tra le mie ali, morto, e un vecchio saggio piangere silenzioso, ultimo fra tutti, mentre già lo ghermivamo e lui non era più nulla.

Un giorno incantammo Giasone e gli Argonauti.
Noi sapevamo già di te, Odysseo, e di quello che ci avresti fatto; come sapevamo del tuo nobile, affettuoso padre, re Laerte. Fu a lui che si diresse la mia voce mortifera, suoi gli occhi che volevo intrappolare, il bel corpo che volevo straziare e il cuore che volevo divorare.
Sapevo che niente di questo sarebbe successo, perché Orfeo [2] era con loro e tutti avrebbe salvato; sapevo che tu avresti riabbracciato il re tuo padre all'ombra della pietrosa Itaca, ma questo non mi distolse dalla brama di vedere il suo volto turbato dalle mie parole di miele.
Mentre Ligeia confondeva i suoi compagni con maestria e crudeltà, io entrai nel cuore del grande Laerte e instillai in lui la lussuria per me; risi mentre lo vedevo sporgersi dalla nave parlante, la bella Argo, e la potenza della mia voce aumentò mentre mi cercava tra le nebbie dell'isola.
Gli feci tremare il cuore, quasi cancellai in lui ogni ricordo di te e della sua sposa, ma Orfeo cantò, calmando la nostra furia e sottomettendoci a un amaro giogo di silenzio, permettendo a tuo padre di ritornare... con il ricordo di me.
In una notte piena di stelle mi conoscesti, Odysseo, tramite il suo racconto, e diventai subito ogni tuo desiderio e respiro.
Io lo so, che è da quel momento che hai iniziato ad amarmi.

E nel sole del Mezzogiorno... nel sole del Mezzogiorno, dopo tanto tempo, guardai con trepidazione la tua nera nave che si avvicinava.
Sapevo già ogni cosa, prima che tutto avvenisse; eppure non ti risparmiai niente.
Io dovevo essere tua, solo tua, e mi diedi a te. La tua chioma brillava al sole, la pelle riluceva mentre ti dimenavi legato all'albero della tua nave, e imploravi i tuoi compagni di slegarti, di permetterti di raggiungerci.
Piangevi, quanto piangevi, mentre narravamo dei compagni scomparsi, delle vite che tu avevi rovinato, del cavallo di legno che lacrimava sangue e rabbia sulla spiaggia dell'odiata città di Priamo [3]; e infine, apristi gli occhi. Occhi folli, che vedevano l'infinito, Dio tra gli Dèi, uomo dalle mille vite.
Tu mi guardasti, mi vedesti veramente, e mi entrasti dentro. Io smisi di cantare, la voce mi si mozzò... e mi smarrii.
Sapevo che quella sarebbe stata la mia fine, eppure allungai le ali verso di te e ti implorai di restare.
Ti prego, resta, implorai, resta per me, con me. Non mi lasciare.
Ma già la nave correva veloce, come una nube di tempesta, e tu eri già lontano.
Odysseo, Odysseo, perché non mi hai raggiunta?
Odysseo, Odysseo, perché non mi hai voluta?
Perché mi hai costretto a ergermi in volo, salire sempre nel cielo che aveva lo stesso colore degli abissi e lasciarmi cadere, seguita dalla mia sventurata sorella? Lo sai, lo sai, che quando toccammo l'acqua ritornammo fanciulle?
Innocenti spose delle onde, fiori che mai nessuno riuscì a cogliere. Fu il Mare ad amarci, a prendersi la nostra verginità... ma io l'avrei donata a te.
Tutto, io avrei ceduto a te: corpo, sapienza, la mia stessa vita.
Ma tu non potevi sentirmi; tu eri distante, perso per sempre, amore mio, e noi eravamo solo tristi ombre di regine, la nostra voce un'elegia inascoltata, disperata come la nostra Sorte.


NOTE

[1] Per i Greci, l'opale era la pietra della preveggenza e della comunicazione con gli dèi, e spesso era associata all'acqua per le sue sfumature cangianti capaci di ricordare le onde del mare.
[2] Nella mitologia si dice spesso che il primo a sfuggire alle Sirene fu Odysseo, ma in verità furono gli Argonauti con Orfeo, il canto del quale era così potente da ammansire persino queste creature.
[3] Seconda un'interessante teoria, le Sirene cantavano ai naviganti o il loro passato e quello che non sapevano riguardante alle loro persone care, o assumevano la voce di chi amavano; nel caso di Odysseo, cantarono ciò che più di ogni cosa lui desiderava sapere: il ritorno da Troia e le vicende degli altri re.

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Capitolo 4
*** Aeterna Vox ***


IV – Epilogo: Aeterna Vox




Odysseo... cosa ti ha dato il Mare?
Sofferenza e Memoria, stelle sempre più distanti, ombre sempre più nere.
Ma il tuo Destino si deve ancora compiere: avrà la sua fine lontano da qui, in una terra che l'acqua salata non bacia, dove il tuo remo verrà scambiato per ciò che non è e la maledizione di Poseidone avrà fine [1]; oppure non sarà così, e il canto delle onde ti chiamerà sempre a sé.
Perché questa è la verità Odysseo, Spirito Errante: io sono sempre con te.
Come la notte che cavalca furibonda dall'Oceano copre e colma ogni cosa, io ho riempito il tuo Spirito, e sono io a spingerti lontano, alla fine di questo mondo, dove il Sole sorge nero e tu puoi essere di nuovo con me, senza menzogne e senza ostacoli.
Piangi per me, ricordi la mia voce, perché sono diventata parte di te; e io ti imploro, cercami, osa ancora guardarmi come solo tu hai fatto.
Io ti attenderò dove il cielo termina, dove ci sarà solo un Mare infinito e una nave che ti attende, pronta a salpare verso l'ignoto: perché tu non puoi vivere senza di lui e le sue meraviglie;
perché sei tu, Odysseo, il Mare.



NOTE

[1] Secondo una versione del mito, per far cessare l'ira di Poseidone nei suoi confronti, Odysseo dovette intraprendere un viaggio verso un luogo oltre le Colonne d'Ercole, lontano dal mare e dove gli uomini non mangiavano cibo condito con sale, e si sarebbe dovuto fermare solo quando un viandante avrebbe scambiato il remo che il re portava in spalla per un ventilabro, uno strumento agricolo per ventilare il grano.
Allora avrebbe dovuto piantare il remo al suolo e sacrificare a Poseidone, quindi avrebbe potuto fare ritorno in patria.

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