In to the woods

di kateausten
(/viewuser.php?uid=119143)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno ***


Giugno 1998
Il mondo aveva i denti e in qualsiasi momento ti poteva morsicare”.

Dean e Sam Winchester avevano imparato questa verità decisamente scomoda ad un’età in cui non si dovrebbe sapere nulla di morsi o di segni o di cicatrici.
Avrebbero dovuto sapere quanto era bello sbronzarsi al primo anno di college,-nel caso di Dean-, o quanto era faticoso ma gratificante prendere una A in chimica e poi godersi la partita di baseball della scuola, -nel caso di Sam-.
Quello che invece Dean e Sam sapevano era che i lupi mannari esistevano davvero e andavano uccisi con una pallottola d’argento dritta la cuore. Sapevano che le streghe ti aspettavano con sacchetti di incantesimi pieni di ossicini che ti facevano strozzare con il tuo stesso sangue finché tuo fratello o tuo padre non ti salvavano il culo; sapevano perfino cosa fare nel caso un vampiro (esatto, un vampiro) ti avesse attaccato alle spalle puntando alla vena che pulsava così invitante nel tuo collo.
E sapevano cosa fare nel caso una bambina, una bambina di nove anni, si fosse persa in un’intricata boscaglia che si estendeva per chilometri tra il New Hampshire e il Maine meridionale.

“Patricia McFarland, uhm?”, chiese Dean mentre leggeva l’articolo del giornale seduto comodamente nella poltrona della piccola baita che aveva affittato suo padre per quei giorni di lavoro.
“Esatto”, rispose la voce calma di John Winchester mentre puliva con estrema devozione la canna del lungo fucile.
“E perché dovrebbe interessarci, pà?”, chiese Dean finendo di leggere l’articolo. “Sembra solo il caso di una bambina persasi nel bosco. Nulla che faccia al caso nostro”.
John alzò lo sguardo distante, era sempre distante lo sguardo di suo padre, e Dean deglutì.
“Ci sono stati altri bambini che si sono persi in quella zona del bosco”, spiegò. “Patricia McFarland sarebbe la dodicesima”.
“La dodicesima?”, esclamò una voce dall’altra parte della stanza.
Dean rivolse uno sguardo tra il sarcastico e il divertito al suo fratellino sdraiato sul morbido tappeto d’orso, impegnato a scrivere qualcosa. Da quello che Dean riusciva a vedere, geometria.
“Ehi Sammy, perché non la pianti con quella roba?”, chiese con fare retorico mentre suo fratello gli lanciava un’occhiataccia.
“Perché non voglio diventare uno zotico caprone ignorante come te”, rispose rigirandosi verso gli esercizi che si era prefissato di fare quella mattina.
Dean incassò il colpo con una smorfia.
“Ti piacerebbe!”, replicò mentre chiudeva il giornale, decisamente non interessato alla vicenda.
Sembrava non ci fossero mostri orrendi e bavosi da fare a fette, ne ragazze con una quarta di reggiseno da salvare: praticamente era una vacanza.
Sam sbuffò e cercò di ignorare il fratello.
“Sai, almeno io rimorchio quando siamo a scuola”, continuò Dean, alzandosi dalla poltrona e avvicinandosi al fratello che era ancora impegnato a ignorarlo. “Tipo, se quella Leslie Sullivan mi avesse fatto gli occhi dolci per due settimane, io non me ne sarei stato con le mani in mano”. Adesso Dean si era abbassato sulle ginocchia per arrivare allo stesso pari di Sam. “Non gli avrei sorriso e basta, fratellino, agitando la manina quando la vedevo per i corridoi”. Sam aveva le guance rosse e lo sguardo fisso su un triangolo isoscele. “Io avrei..”.
John Winchester non seppe mai cosa avrebbe fatto suo figlio a Leslie Sullivan, perché il suo pargolo minore aveva deciso montare addosso al suo pargolo maggiore per tirargli un - leggero, si augurava- cazzotto nello stomaco.
“Ouh”, esclamò Dean facendo un verso indefinito di dolore.
“Piantala Dean!”, lo minacciò Sam con le mani strette al colletto della giacca di pelle del fratello. “Non una sola parola su Leslie, sulla scuola o su quanto bravo tu sia a portarti le ragazze nello stanzino dei bidelli”.
Dean fece un sorrisetto compiaciuto, misto alla smorfia di dolore che gli procurava il cazzotto e il peso di Sam spalmato sul suo corpo.
“Dovresti proprio tagliarti i capelli, fratellino”, replicò con il respiro pesante.
Sam alzò gli occhi al cielo sbuffando, mentre si alzava dal corpo di Dean e tornava agli esercizi di geometria.
Dean si alzò dopo qualche secondo, massaggiandosi lo stomaco con una smorfia e si avvicinò al padre, che aveva appena finito di pulire e lucidare il fucile. Lo passò a Dean, che lo guardò ammirato, prima di aggiungerlo alle altri armi che luccicavano sul tavolo.
Se qualcuno fosse entrato nella stanza in quel momento avrebbe pensato, nella migliore delle ipotesi, che John Winchester fosse un pazzo torturatore e che avrebbe avuto solo l’imbarazzo della scelta per farti fuori: spararti, squartarti o darti fuoco?
Sam intanto aveva abbandonato i compiti e si era avvicinato anche a lui al tavolo.
“Papà”, cominciò. “Pensavo che dato che non c’è nessun caso..”.
“Non c’è nessun caso?”, lo interruppe John. “Cosa te lo fa pensare, Sammy?”.
Sam arrossì e Dean stette male per lui: suo padre aveva usato una voce gentile, ma Dean aveva sentito il sottile e strisciante rimprovero avviluppato alla frase.
“Beh, Dean ha detto..”, bofonchiò Sam e Dean si sentì ancora più male. “Che forse non c’è nessun caso..”.
“Appunto. Forse”, replicò suo padre, sempre con la stessa voce pacata intrisa di rimprovero. “Non sarebbe meglio controllare, prima che un cacciatore di cervi ritrovi le ossa di una bambina di nove anni?”.
Sam abbassò lo sguardo, sembrando più piccolo dei suoi quindici anni.
“Sissignore”, sussurrò.
Dean si odiò appena un po’ di più.



“Guardie forestali di Boston?”, chiese abbastanza scettico il capo della guardia forestale dell’Appalachian Trail, Henry Bishop.
L’uomo doveva avere una cinquantina di anni e aveva la pancia. Sam notò anche le sue unghie sporche, il cappello verde, il brillante distintivo e le foto dei dodici bambini scomparsi e mai più ritrovati attaccate al muro di fronte a lui. La foto di Patricia McFarland era l’ultima a destra, proprio sotto quella dell’ottenne Timmy Robbins: era carina per essere una bimbetta, giudicò Sam, con quegli occhi azzurri e i capelli sottili e biondi. Aveva la faccia simpatica e un cappello dei Red Sox in testa.
John fece il suo sguardo di ghiaccio e inchiodò gli occhi della guardia forestale.
“La bambina si è trasferita nel Maine da Boston solo un anno fa. Forse la madre, dato i tre giorni di ricerche infruttuose, ha deciso di rivolgersi anche ad altri professionisti”.
L’interlocutore arrossì un po’ sotto la barba e si schiarì la gola.
“E quelli?”, chiese accigliato, indicando Sam e Dean alle spalle del padre.
“Sono i miei ragazzi”, rispose John con una scrollata di spalle.
“Vuole portare i suoi figli durante delle ricerche in un bosco? Ricerche probabilmente pericolose?”, chiese sbalordito.
“Sono in gamba, se la sapranno cavare. Inoltre mi pare che ci siano parecchi volontari qui, anche se minorenni”, replicò John. “Adesso, se non ha altre obiezioni che mi faranno perdere tempo prezioso..”.
Il rossore sotto la barba si intensificò e Dean ghignò. Decidendo che era meglio spedire l’uomo di Boston apparso dal nulla nella boscaglia invece di farsi continuare a prendere per il culo con sufficienza, Henry Bishop annuì e cominciò a dare loro le principali e uniche informazioni che possedeva.
“La bambina è scomparsa qui”, disse dispiegando sulla scrivania una cartina del bosco e indicando un punto. “La madre e il fratello si sono accorti della sua mancanza intorno alle ore…”.
“Si, si, questo lo sappiamo”, lo interruppe velocemente John e Dean trattenne un sospiro mentre ripensava alla visita che avevano fatto alla madre e al fratello della bambina scomparsa quella mattina.
Avevano lasciato Sam in macchina e Dean aveva ringraziato il cielo: Quilla Anderson e l’undicenne Pete erano semplicemente sconvolti.
“Stavamo litigando”, disse con voce tremante la signora Anderson asciugandosi gli occhi pesti, mentre il ragazzino se ne stava immobile e impietrito nella scomoda sedia accanto alla madre. “Io e Pete stavamo litigando e non prestavo attenzione a Trisha. Il mio ex marito ed io ci siamo separati un anno fa ed è un periodo piuttosto duro per i bambini, ma Trisha stava affrontando tutto così.. bene. E’ molto matura per la sua età. Molto calma”. La donna inghiottì un groppo alla gola. “Così, mi sono, mi sono.. Scordata per un momento, solo per un momento, che lei fosse li e adesso..”. La signora Anderson si prese la testa fra le mani e ricominciò a piangere. “Adesso non vedrò mai più la mia bambina ed è tutta colpa mia”.
Dean, con un disagio quasi mai provato, fece vagare lo sguardo per la camera dell’albergo in cui erano momentaneamente accampati i due membri della famiglia in attesa dell‘arrivo del padre: il pianto della madre era semplicemente straziante.
“Signora Anderson, faremo il possibile per ritrovare sua figlia”, disse John ma la donna non alzò lo sguardo e si limitò ad annuire mentre ancora singhiozzava.
Mentre guardavano il punto sulla cartina a Sam venne in mente una cosa.
“Avete mai ritrovato gli altri bambini? Almeno potremmo farci dare informazioni utili”, cominciò, ma la sua voce si spense vedendo l’espressione imbarazzata dell’uomo.
“No”, rispose guardando ovunque tranne che dalla parte di John. “Non abbiamo mai ritrovato nessuno di loro”.
“Oh”, fece Sam.
John sospirò e trasse a se la cartina.
“Bene. Direi che è ora di andare. Abbiamo del lavoro da fare”.
Henry Bishop parve preso alla sprovvista.
“Cosa?”, balbettò. “Andate adesso?”.
John gli lanciò l’ennesima occhiata di ghiaccio.
“Vuole per caso aspettare altro tempo? Così magari la bambina muore veramente”.
“Ma.. Ma sono le due del pomeriggio, fra quattro ore comincerà a fare buio e non siete pratici della zona. Non voglio avere altri tre dispersi sulla coscienza!”.
Dean sbuffò, guardandolo con disprezzo.
“Siamo abituati a situazioni difficili”, affermò.
“Ma..”.
“Ci rivedremo tra qualche giorno. Con la bambina, mi auguro”, disse con noncuranza John.
Il guardia caccia era rimasto a guardarli imbambolato, mentre una parte del suo cervello urlava di fermarli, di farsi dire chi in realtà fossero.. Ma poi si ricordò delle occhiate lanciategli dal tizio tutto muscoli e li guardò uscire.
“Arrivederci”, disse gentilmente Sam, prima di sbattersi la porta alle spalle, lasciandolo solo tra le foto di bambini che non sarebbero mai stati più ritrovati.


Dean non aveva mai visto Patricia- Trisha- McFarland prima di quel giorno, ne sapeva nulla di lei. Ma in quel momento si sentiva straordinariamente affine alla sua situazione prima della scomparsa.
Quilla e Pete avevano detto di aver lasciato la bambina indietro mentre loro due erano occupati a litigare; Dean sospirò e guardò John e Sam davanti a se, che litigavano senza sosta.
“Non capisco perché non puoi lasciarmi da zio Bobby a settembre. Solo per fare un anno di liceo normale. Uno solo, poi tornerò con te e Dean a cacciare. Cosa ti costa?”.
La voce di Sam, che solitamente Dean amava sentire, era come un martello pneumatico.
Perché non mi lasci da zio Bobby? Perché non possiamo travestirci ad Halloween come tutti gli altri? Perché non vai mai a parlare con i professori? Perché, perché, perché?
Dean chiuse gli occhi all’ennesima risposta sterile di John e per un attimo, li odiò entrambi. Li odiò così tanto che fu tentato di tornarsene indietro e lasciarli li, e che litigassero pure quanto volessero.
Prima o poi Sam li avrebbe abbandonati. Dean lo sapeva nel profondo di quel suo stupido cuore che mancava un battito quando pensava all’opzione di poter vivere senza il suo fratellino. Non era fatto per quella vita, il suo piccolo nerd, non era fatto per il sangue, per le cicatrici, per le scampagnate nei boschi paludosi.
Lui ormai, alla tenera età di diciannove anni, si sentiva segnato. Ma Sam no, poteva ancora salvarsi.
Camminarono per tre ore in direzione nord seguendo le tracce, quando videro la prima cosa che forse li avrebbe portati alla risoluzione del caso.
“E questi si fanno chiamare guardie forestali?”, chiese Dean mentre si spiaccicava una zanzara sul collo. C’era da impazzire, tra moscerini, zanzare e tutti quegli insetti che sinceramente detestava.
John si avvicinò all’albero, la cui corteccia era stata scorticata da una tre lunghe artigliate. Lo osservò bene e ci passò le dita sopra.
“Non sarà un orso?”, chiese Sam, avvicinandosi anche lui.
“No”, rispose John. “Non è un orso”.
Si guardò intorno, mentre la luce del pomeriggio si faceva meno calda e più dorata.
“Avanziamo ancora un’ora, poi accampiamoci”.
Dean annuì compito mentre Sam sospirò e ricominciò a camminare. Dean lo seguì con una piccola stretta al cuore, perché sapeva cosa suo fratello stava pensando: “Quanto non vorrei essere qui”.

Il bosco cominciava ad oscurarsi e pian piano perdeva quell’atmosfera gioiosa e magica che aveva avuto per tutta quella lunga giornata di giugno.
Mentre suo padre finiva di raccogliere la legna, Dean cercava di dare fuoco ai rami che aveva davanti.
“Guarda che così non prenderanno mai fuoco, scemo!”, esclamò Sam con ilarità sedendosi accanto a lui su un tronco mezzo marcio ma solido.
Dean non replicò e continuò a punzecchiare con un bastone sottile e lungo i rami più grossi.
“Dean? Cos’hai?”.
Il ragazzo incrociò lo sguardo del fratello e poi distolse lo sguardo.
“Niente, Sammy. Non preoccuparti”.
Il viso di Sam quasi trasfigurò dalla rabbia e Dean per un momento ebbe paura di suo fratello.
“Dite sempre così, tu e papà“, esclamò con voce alterata ma bassa per non farsi sentire da John. “Niente, Sammy. Nulla di cui tu debba preoccuparti. Mi sono rotto, Dean. Stamattina non avete neanche voluto che entrassi con voi da quella famiglia!”.
“Era una brutta situazione”, mormorò Dean.
“Col cavolo. E adesso dimmi cos’hai!”.
Dean sbuffò e guardò il cielo. Si stava scurendo rapidamente, ma era talmente bello, così trapuntato dalle prime stelle che Dean per un attimo si dimenticò dove era.
“Se io fossi stato al posto di quella bambina”, disse Dean a bassa voce, eludendo la vera questione. “E tu e papà litigaste come sempre. Te ne accorgeresti se mi perdessi?”.
Sam stette un attimo zitto, con lo sguardo troppo serio per la sua età.
“Dean”, disse. “Io so sempre quando non sei accanto a me”.
Dean tacque per un momento, ascoltando gli scricchiolii e il frinire delle cicale attorno.
“Sam”, sussurrò. “Te ne andrai?”.
Il fratello lo guardò, muovendosi a disagio sul tronco.
“Ragazzi”. La voce del padre li fece sobbalzare e la misera cortina di fumo che veniva dalle legna svanì. “Ho trovato questo vicino al torrente”.
I due ragazzi balzarono in piedi.
“Dici che è della ragazzina?”, chiese Dean osservando il pezzo di impermeabile giallo tutto sfilacciato che suo padre teneva in mano.
John annuì.
“Nella descrizione degli oggetti dello zaino della bambina si parla anche di una mantella gialla”.
“Come mai i guardia caccia non l’hanno trovata?”, chiese Sam perplesso. “Ormai questo è il terzo giorno di ricerche”.
John chiuse la mano e mise il pezzetto di impermeabile dentro la tasca.
“Credo che pensino che una bambina di nove non possa essersi spinta tanto in qua”, rispose. “Ma dannazione, se cammina così svelta è un guaio per noi. Ha tre giorni di vantaggio”.
“E’ una ragazzina”, disse Dean scuotendo la testa. “Non potrà aver fatto più di qualche chilometro”.
“Non avete mai avuto a che fare con ragazzini di nove anni? Non dovete sottovalutarli”, disse John sorridendo. “Se avessi lasciato voi in questa zona del bosco a nove anni, domani sareste già stati in Canada”.
Sam e Dean si scambiarono un sorrisetto e non commentarono. Dean guardò il fratello stendersi su un letto di foglie con la pistola stretta nella mano destra: l’atmosfera era più distesa, ma una parte della sua mente era ancora sul tronco marcio, in attesa di una risposta rassicurante che non era arrivata.

A cinque chilometri di distanza, Trisha McFarland, si stava sorreggendo al tronco di un albero mentre vomitava a causa dell’acqua non potabile del ruscello che aveva bevuto.
Mentre la cosa speciale la stava guardando.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo Due ***


A Dean dispiacque che Sam e suo padre dormissero ancora, ma non pensò neppure per un attimo di svegliarsi.
Se ne stava disteso nel giaciglio di foglie ormai umido e guardava il sole fare capolinea pian piano nel cielo, dipingendolo di un azzurro così pallido da far quasi male al cuore. Secondo il suo orologio erano le cinque e mezzo. Era l’alba.
In quel momento gli sembrò di essere l’unico essere umano al mondo, privilegiato rispetto a tutti gli altri nel vedere quello spettacolo; era tranquillo e sensazione stranissima, a causa della vita che conduceva, sereno.
Pensò a Patricia, se fosse ancora viva e soprattutto se avesse visto quello spettacolo anche lei.
“Che pensiero stupido”, si disse un po’ imbarazzato da se stesso.
Si stiracchiò piano, ascoltando il respiro calmo di Sam e quello più pesante di suo padre e decise che era ora di svegliarli.
Tum.
Dean si alzò fulmineamente a sedere e guardò verso la boscaglia.
Tum.
Si alzò in piedi e lentamente, senza fare nessun rumore, avanzò verso il suono che aveva sentito. Sembravano dei passi, quindi poteva essere un animale ma anche qualcosa di molto, molto meno simpatico. Dean aggrottò le sopracciglia avanzando e fermandosi al limite della boscaglia, girandosi verso John; non sarebbe stato molto felice di non trovarlo al suo risveglio, ma Dean non poteva perdere tempo nello svegliare lui e suo fratello.
Magari quello che aveva sentito era la cosa che aveva rapito Patricia e gli altri bambini; si sarebbe spinto solo un po’ più in la, pensò prendendo il suo fucile, solo per controllare bene.
Mentre imboccava un sentiero che sembrava portare a una fitta rete di arbusti, Dean provò una vergognosa sensazione di sollievo nell’allontanarsi da Sam e suo padre per un po’.
Camminò per un po’ seguendo gli scricchiolii che sembravano provenire da tutte le parti: per due volte si girò verso destra, convinto di aver visto qualcosa di enorme, gigante, qualcosa che sinceramente sperava di non dover vedere con chiarezza (ma chi voleva prendere in giro, si sarebbe trovato quello schifo, qualunque cosa fosse, davanti alla faccia prima di mezzogiorno, se lo sentiva).
“Insomma”, borbottò mentre si spiaccicava l’ennesima zanzara sul collo.
Forse doveva fermarsi, pensò mentre le gambe continuavano però ad avanzare. Sembravano esserci solo alberi, foglie, insetti e fango. Soprattutto insetti.
Guardò i fasci di luce che riuscivano a passare dalle fitte foglie degli alberi sopra di lui e si fermò in attesa; adesso il silenzio nel bosco sembrava totale e invece di rassicurarlo, questa cosa gli stava facendo stringere violentemente le viscere.
C’era qualcosa, lo sentiva. Non sarebbe riuscito a spiegare cosa fosse esattamente quello che lo spiava fra gli alberi, ma era sicuro che fosse una cosa che non aveva mai incontrato.
John, la sera prima, aveva elencato ai figli tutto ciò che secondo lui non era il mostro che rapiva i bambini: vampiro, strega, lupo mannaro, mutaforma.
Forse era un Wendigo, aveva detto, e Dean aveva sorriso come se l’alternativa lo avesse reso felice invece di averlo terrorizzato a morte.
Aveva appena deciso di tornare alla base, quando un movimento attirò la sua attenzione. Al movimento seguì uno straziante grido di animale e poi più niente.
Dean deglutì, mentre il sudore gli imperlava la fronte e caricò il fucile, muovendosi lentamente verso il punto dove era sembrato provenire il grido.
Spostò con la mano destra un robusto cespuglio che gli oscurava la visuale e quasi vomitò la cena della sera prima. Un cervo, o quello che ne rimaneva, era sbudellato davanti a lui.
Dean abbassò il fucile, troppo nauseato e stupefatto da ciò che stava vedendo, per avere qualche reazione e fece qualche passo in avanti. Sembrava quasi messo li a posta, quel povero animale, con tutte quelle cose viscide che gli spuntavano fuori dallo stomaco; sembrava messo li proprio per far vomitare, per farti avere paura, per farti provare la sensazione “Ecco cosa posso farti”.
Doveva tornare indietro, suo padre avrebbe sicuramente saputo con che mostro avevano a che fare grazie a quei due elementi: prima gli artigli sulla corteccia, poi il cervo.
Si girò per fare un velocissimo dietro front, ma si bloccò subito senza quasi osar respirare: davanti a lui, con un cappellino sporco dei Red Sox, un faccino smunto ancora più sporco e jeans evidentemente troppo grandi, stava immobile quella che doveva essere Patricia McFarland.
La bambina e Dean si guardarono negli occhi per un tempo che parve infinito.
“Sei vero?”. La voce della bambina era un sussurro vischioso e rauco, ma ebbe il potere di scuotere Dean dalla sorpresa.
“Sono vero, si”, rispose serio.
La bambina continuò a guardarlo, senza manifestazioni di sollievo o felicità.
“Hai visto, Tom?”, disse girandosi verso destra. “Qualcuno è arrivato”.
Dean guardò stupefatto il punto dove la bambina guardava ma ovviamente non vide nulla.
“Ehm.. Piccola, tu sei Patricia giusto?”, chiese per distrarla un attimo da quella che sembrava in tutto e per tutto un allucinazione.
La bambina lo guardò nuovamente, stavolta con un piccolo sorriso.
“Trisha”, lo corresse sempre con quella voce rauca. “Mi chiamano tutti così”.
Anche Dean sorrise e si avvicinò, piegandosi sulle ginocchia.
“Bene, io sono Dean. E adesso ce ne andremo da questo posto, che ne dici?”.
Trisha annuì, sempre in silenzio e poi guardò verso destra con un espressione sorpresa.
“Oh”, disse triste. “Tom se ne è andato nuovamente”.
“Chi è Tom?”.
Trisha lo guardò e per la prima volta a Dean parve scorgere un lampo di lucidità negli occhi della ragazzina.
“Tom Gordon”, disse. “Il giocatore più forte dei Red Sox”.
Dean sorrise.
“Non seguo molto il baseball ma se dici che è il giocatore più forte mi conviene crederci”.
“Oh, lo è”, affermò Trisha convinta. “Mi ha fatto compagnia da quando mi sono persa”. Poi incontrò lo sguardo di Dean. “Da quanto sono qui? Perché nessuno mi ha cercato?”.
Rincuorato dal fatto che la bambina sembrasse sempre più lucida, Dean si alzò in piedi.
“Quattro giorni, Trisha. E ti hanno cercato, ti stanno ancora cercando, ma non credevano che una piccoletta così si fosse spinta tanto in profondità”.
“Ho nove anni”, protestò Trisha quasi con vivacità. “Quasi dieci e sono alta per la mia età”.
“In effetti diventerai una sventola, piccola”, annuì convinto Dean, strappandole un altro sorriso e un po’ di rossore sulle guance piene di punture di zanzare. Una palpebra era gonfia e aveva piccole escoriazioni ovunque.
“Sei una guardia forestale?”, chiese la bambina tirandosi su i pantaloni.
“Non esattamente“, rispose Dean.
“E allora perché tu mi hai trovato?”.
“Perché.. io sono una guardia un po’ speciale”.
La bambina annuì, sembrando trovare quella risposta perfettamente sensata.
“Mamma sta bene?”, chiese poi e gli occhi le diventarono lucidi.
Allarme rosso. La bimba non poteva lasciarsi andare proprio ora.
“Starà meglio quando ti rivedrà, piccola”, disse Dean. “Che ne dici di tornare a casa, eh?”.
Trisha annuì, tirando su con il naso e alzò lo sguardo. Lanciò un urlo che mutò in un violento attacco di tosse e Dean si maledì per essersi scordato del cervo alle sue spalle.
“Ehi, andiamo, Trisha..”, balbettò nervosamente Dean, mentre la tosse sembrava calmarsi.
“E’ stata la cosa”, riuscì a biascicare la bambina.
“In che senso?”, chiese Dean lentamente. “Hai visto qualcosa?”.
Trisha scosse la testa, mentre gli ultimi accenni tosse si placavano.
“Mi spia da quando sono arrivata qua. Mi ucciderà prima o poi”, disse con voce atona.
“Non credo proprio”, affermò Dean e Trisha lo guardò in silenzio. “Adesso ci sono io”.
Un rumore lieve di foglie li fece trasalire e Dean si voltò verso la bambina.
“Andiamo piccola, su”, disse con un sorriso. “Prima arriverai a casa, prima potrai farti un bell’hamburger”.
“Oh, si”, sospirò Trisha chiudendo gli occhi, mentre pregustava l’idea.
Non si mosse però, e Dean la guardò sorpreso.
“Allora?”.
Trisha lo guardò in imbarazzo.
“Potresti.. Potresti portarmi in braccio?”, chiese con un sussurro. “Sono un po’ stanca”.
Dean fece un gran sorriso, ricordandosi i tempi in cui era solito a portarsi     Sammy in braccio ovunque andasse.
Posò un attimo il fucile a terra e prese la bambina sotto le ascelle mentre lei gli cingeva la vita con le gambe come se fosse un piccolo koala magro.
Dean si chinò, riprese il fucile e iniziò a camminare abbastanza velocemente.
“Tutto perché dovevo fare pipì”, gli mormorò Trisha all’orecchio.
“Uhm?”.
“Mi sono allontanata dal sentiero perché dovevo fare pipì e mamma e Pete litigavano e non mi ascoltavano”.
“Si”, commentò Dean. “Conosco la sensazione”.
“Davvero?”.
“Si”.
Trisha gli strinse ancora di più le braccia al collo.
Forse quella cosa, si disse Dean mentre continuava a camminare, aveva desistito dall’intento di attaccarli. Magari martoriare la povera bestia era stato il suo ultimo atto di depravazione.
Mentre mancava un chilometro al suo piccolo accampamento, Dean si fermò; c’era un’altra volta troppo silenzio.
“Cosa c’è?”, chiese Trisha con la voce piena di panico. “Cosa?”.
“Shh”, gli mormorò Dean. “Sta tranquilla”.
Qualcosa colpì Dean alla schiena improvvisamente, mozzandogli il respiro e facendogli cadere Trisha dalle braccia.
L’impatto con il suolo erboso non fu dei più delicati, ma il pensiero del ragazzo andò alla bimba, sdraiata scompostamente vicino a lui.
“Dean”, riuscì a dire, mentre tossiva pesantemente e indicò qualcosa di fronte a loro.
Dean si alzò in piedi barcollante e guardò il punto indicato da Trisha.
Eccolo, finalmente.
Non sapeva cosa fosse: sembrava un orso nero, ma ovviamente non lo era. Aveva orbite nere al posto degli occhi, artigli al posto delle zampe e quando aprì la bocca per un mostruoso ruggito, Dean vide le zanne macchiate di verde e delle vespe che sembravano aver fatto il nido nella sua gola.
Prese il fucile e sparò con precisione al cuore della creatura, che non sembrò minimamente scalfita dal gesto. Dean sentì il cuore galoppare furiosamente: se i proiettili d’argento non funzionavano, doveva prendere Trisha e scappare più velocemente possibile da li.
La bambina intanto, ancora sdraiata in terra, gemeva terrorizzata e il mostro la guardò interessato. Sembravano collegati, come se entrambi non potessero staccare gli occhi l’uno dall’altro.
“Era ovvio che venisse”, disse tremante Trisha e il mostro lanciò un altro ruggito.
“Cosa vuoi dire?”, esclamò Dean, tenendo sotto controllo la bestia con il fucile.
“Se ti perdi nel bosco qualcosa di orrido ti ucciderà”, affermò cominciando a piangere, ma alzandosi in piedi.
“Vieni vicino a me, Trisha. Stammi dietro”, sussurrò Dean e la bambina eseguì l’ordine barcollando.
Il mostro si alzò su due zampe e Dean deglutì, sparandogli un’altra volta.
Neppure il secondo colpo gli fece nulla, anzi, sembrò pronto a attaccare. Dean percepiva che lui era solo un ostacolo per il mostro: il vero obiettivo era Trisha.
“Beh, non l’avrai”, pensò Dean, puntandogli il fucile a dosso per la terza volta. “E se l’avrai, dovrai vendere cara la pelle, figlio di puttana”.
Si preparò a sparare, quando una voce lo fece sobbalzare violentemente.
“Allontanati da mio figlio”.
Dean si permise di girare lo sguardo e con enorme sollievo vide John e Sam sbucare dalla boscaglia dietro di loro.
“Cos’è, papà?”, chiese terrificato Sam, anche lui con un fucile in mano.
“Non ne ho idea”, mormorò John con l’arma  puntata su di l’orso.
Si affiancò a Dean.
“I proiettili non funzionano”, disse Dean, mentre sentiva tremare Trisha dietro di se.
“Lo immaginavo”, rispose John, sparando e mirando alla testa che esplose in nugolo di vespe per poi ritornare allo stato originario.
“Cazzo”, imprecò Dean.
Il mostro sembrò stanco di aspettare e con l’ennesimo ruggito balzò velocemente a dosso a John, disarmandolo e poi a Sam, che aveva cercato di portare via Trisha.
“Sam!”, gridò Dean, vedendolo immobile contro un albero l‘albero contro cui aveva cozzato. “Figlio di puttana, il mio fratellino!”.
Trisha urlò, quando vide che il mostro puntava verso di lei e Dean si mise in mezzo scaricandogli il caricatore alla testa. Aveva notato che anche se non moriva, il fatto di dover ricomporre la testa dava loro qualche secondo di vantaggio.
Improvvisamente, a Dean tornarono in mente le parole che Trisha aveva pronunciato poco prima. Guardò sbalordito la creatura che sbuffava vespe e poi Trisha, rannicchiata accanto a lui.
“Papà”, urlò sperando che John non avesse perso i sensi. “E’ un tulpa!”.
Vide John rialzarsi con un po’ di fatica e strisciare verso l’arma.
Dean si girò verso Trisha.
“Trisha, ascoltami attentamente”, disse febbrilmente. “Questo mostro non esiste. E’ un pensiero dato dalla tua paura”.
“Ma.. Ma voi lo vedete”, rispose Trisha tremando.
“Si, perché tu lo hai creato nel momento stesso in cui ti sei persa e hai avuto talmente paura che ci fosse qualcosa che automaticamente questo qualcosa si è materializzato”, rispose Dean, sentendo altri spari dietro di lui.
Trisha lo guardava ad occhi sbarrati.
“E’ colpa mia”, mormorò.
“No”, rispose con decisione Dean. “Non lo è. Ma adesso devi essere forte e sconfiggerlo. Hai capito? Il mostro esiste solo nella tua testa”.
Trisha non rispose e respirò pesantemente.
“Ghiaccio nelle vene”, mormorò poi, chiudendo gli occhi e sospirando.
Si alzò e si girò verso il mostro, proprio mentre scagliava a terra John. Dean guardò Trisha e il mostro che si fronteggiavano con lo sguardo, immobili.
Trisha era così pallida che Dean aveva paura che svenisse, ma aveva una luce febbrile nello sguardo e non osò parlare.
“Vattene”, sibilò la ragazzina. “Tu non esisti, quindi sparisci. Tu e le tue stupide vespe”.
Il mostro ruggì e si alzò nuovamente su due zampe, pronto per colpire. Ma Trisha fece due passi verso di lui.
“Mi hai sentito?”, urlò. “Tu non esisti, quindi vattene! Vattene, vattene, SPARISCI!”.
L’orso che non era un orso si mise gli artigli nel luogo in cui probabilmente c’erano le orecchie e fece un lungo lamento straziante, mentre Trisha continuava a urlare con la sua voce rauca.
Girò su se stesso, come impazzito e infine, semplicemente, esplose. Come se non fosse mai esistito.
Dean guardò la bambina che respirava pesantemente, tossiva e guardava di fronte a se nel punto dove un attimo prima c’era la sua paura maggiore.
Crollò sulle ginocchia e Dean si precipitò da lei.
“Sei stata fantastica, piccola”, mormorò sommessamente. “Sei stata una forza. Non ce l’avremmo mai fatta senza di te”.
Trisha sorrise, continuando a tossire. Dean le accarezzò leggermente la schiena, sentendo Sam che si cominciava a muovere dietro di se.
“Ghiaccio nelle vene?”, sussurrò Dean a Trisha mentre la tosse si placava.
“Papà lo dice sempre su Tom Gordon”, mormorò lei, chiudendo gli occhi.
Dean sorrise.
“Viva Tom Gordon, allora”.


Dean non sapeva quale fosse stato il momento più bello del ritorno. Se il leggero peso di Trisha sulle spalle, ferrea nel non volersi staccare da lui (non che lui volesse lasciarla andare) o lo sguardo sbalordito del capo dei guardia caccia quando sbucarono dal bosco con la bambina.
Probabilmente, fu il viso dei genitori e del fratello della bambina quando erano accorsi all’ospedale incapaci di credere che la figlia stesse dormendo sedata in quel letto asettico; sporca, piena di lividi e punture e con l’inizio di una polmonite ma indubbiamente viva.
“Grazie”, gli aveva mormorato quella bimba bionda prima di addormentarsi e Dean non le aveva lasciato la mano fino a quando non fu sicuro che fosse scivolata in un sonno profondo.

“Secondo papà anche gli altri bambini sono stati vittima di un tulpa”, disse Sam mentre attendevano che John finisse di parlare con i genitori di Trisha. “O almeno, quasi tutti”.
Dean annuì, improvvisamente stanco. Non vedeva l’ora di mangiarsi il menù di un fast food e farsi una dormita.
“Sei stato bravo”, disse poi Sam, quasi bruscamente. “Ad aver trovato la bambina e ad aver capito che si trattava di un tulpa”.
“E’ stata lei ad aver trovato me, Sammy”, affermò Dean con uno sbadiglio. “Per il tulpa, ho semplicemente avuto intuito”.
Sam lo guardò accigliato.
“Sei stato bravo e basta. Lo ha detto anche papà”.
“Davvero?”, chiese Dean compiaciuto.
Sam annuì con un lieve sorriso.
Stettero in un silenzio piacevole, a sedere nella deserta sala d’aspetto e Dean stava per assopirsi quando suo fratello parlò.
“Quando mi sono svegliato e ho visto che non c’eri mi è quasi preso un infarto”, mormorò e Dean stette in silenzio. “Me ne sono subito accorto che non c’eri”.
Dean stiracchiò le labbra in un sorriso e guardò il fratello.
“Non me ne andrò, Dean”, disse Sam e il cuore di Dean si riscaldò. “O almeno, non adesso”.
“Lo so”, rispose Dean.
Certo che lo sapeva; Sammy non era fatto per quella vita. Si sarebbe laureato, avrebbe trovato un lavoro, una moglie e fatto dei bellissimi bambini.
Lui sarebbe stato lo zio strano che avrebbe vegliato a distanza sulla nuova famiglia di Sam.
Non poteva chiedere più di questo.
“E’ stata forte quella ragazzina, vero?”, disse poi Sam. “Sopravvivere nel bosco, da sola per quattro giorni”.
Dean sorrise lievemente.
“Ghiaccio nelle vene”mormorò, prima di addormentarsi.


La foresta è reale. Se doveste andarci in gita, portatevi una bussola, portatevi buone carte topografiche… e cercate di rimanere sul sentiero.

(Stephen king, La bambina che amava Tom Gordon)

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3164786