L'assassino dai mille nomi

di ehijared
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Jon ***
Capitolo 2: *** Carl ***
Capitolo 3: *** Daniel ***
Capitolo 4: *** Thomas e Samantha ***



Capitolo 1
*** Jon ***


Mezzanotte. 
Jon decise di porre fine alla sua maratona di serie tv per uscire e divertirsi un po'. Prese la sua consumata giacca di pelle e varcò la soglia della porta. Pochi minuti dopo, era già intenzionato a tornare a casa sua (se un monolocale   con un arredamento scarno e un letto poteva definirsi casa), scoraggiato dai molteplici suoni che quel banale condominio gli offriva: bambini che piangevano, mogli che urlavano contro i propri mariti per qualche banale incomprensione, donne che parlavano al telefono con le proprie amiche di quanto fossero stupidi gli uomini, senza magari riflettere a quanto esse stesse potessero essere stupide. Stava per risalire le scale quando  sentì un campanello nella sua mente che gli ricordava che non si divertiva da un po'. Decise di assecondare le proprie voglie e si diresse per le deserte strade cittadine. Lo spettacolo non era dei migliori: essendo pieno inverno, le strade erano semi deserte, le uniche persone che si potevano trovare erano alcolizzati (perché, si sa, l'alcol non conosce stagione) e qualche ragazza solitaria in cerca di qualcuno con cui passare un paio d'ore. Indifferente alla massa, Jon si diresse nel suo bar di fiducia, speranzoso di trovare, tra un boccale di birra e un altro, qualche compagno di giochi. 
Sedette al tavolino e ordinò il primo boccale. Si guardò intorno ma, sfortunatamente, non trovò nessuno. 
Due ore e una decina di boccali dopo, entrò nel locale un ragazzo sulla trentina, molto affascinante. Era accompagnato da una donna che doveva essere sua coetanea, poco affascinante, agli occhi di Jon (che apprezzava più gli uomini). Il misterioso trentenne non sembrava molto preso dalla ragazza e nemmeno dal resto dell'ambiente che lo circondava. Prese la sedia affianco a quella di Jon con fare molto svogliato e ordinò un whiskey. «Roba forte» pensò Jon. Lo osservò meglio. Aveva i capelli scuri come la notte, tirati all'insù con un po' di gel, gli occhi verdi, gli zigomi alti e il fisico di chi è "magro per natura" (o graziato da Dio, come amava dire Jon). Notando il suo sguardo su di lui, il giovane disse: «mi chiamo Carl, posso offrirti qualcosa?» Jon, stupito dal fatto che gli avesse rivolto la parola (spesso molti erano timorosi di farlo) rispose dicendo che un alcolico forte non gli sarebbe affatto dispiaciuto. Complici gli alcolici e la rinomata capacità di intrattenere lunghe conversazioni di Jon, i due si trovarono a parlare per un paio d'ore. Verso le due Carl, con fare piuttosto disinvolto, chiese a Jon di uscire fuori. I due uscirono dal locale e vennero investiti dal gelido vento invernale. Poco dopo il trentenne chiese a Jon di dirgli qualcosa in più sul suo conto. «Non sono molto interessante» esordì Jon, «mi chiamo Jon, ho trentacinque anni e, beh, sono gay». Aspettò un paio di secondi per vedere la reazione di Carl, che rispose «l'avevo immaginato.» Il suo tono era privo di ogni tipo di emozione: non sembrava interessato, sorpreso o schifato. Continuarono semplicemente a camminare, per circa dieci minuti, quando Jon disse: « vuoi fare qualcosa di divertente?» Carl, ovviamente, rispose: «scontato, sto per addormentarmi»
«Bene», pensò Jon «la trappola ha funzionato.» 
Lo accompagnò nel suo scarno monolocale e lo invitò a fare come se fosse a casa sua. «Beh, staremmo un po' stretti se questa fosse anche casa mia, non credi?» fu il commento pungente di Carl, che però si sedette di buon grado. Il proprietario si sentì offeso da quella battuta, ma il suo divertimento veniva al primo post, quindi gli porse una birra e si sedette vicino a lui. Lo osservò bere, notando con piacere che i suoi occhi erano lucidi. Non sembrava molto felice di trovarsi in quel luogo, decise di metterlo a proprio agio. Si avvicinò alla sedia e gli poggiò una mano sui pantaloni. «Sai, anche io sono gay» disse Carl.
«L'avevo immaginato» rispose Jon, aggiungendo una risatina. La sua risata era piena di vita, si sentiva.
«Mi piacciono i tuoi capelli biondi, e i tuoi occhi grigi, e le tue labbra» aggiunse poi, guardando Jon. I due si avvicinarono, poi si alzarono quasi contemporaneamente ed iniziarono a spogliarsi, travolti dalla passione accesa probabilmente dall'eccesso di alcol. Jon buttò Carl sul suo letto singolo, gli si sedette sopra e, avvicinandosi all'orecchio, gli sussurrò «vuoi ancora divertirti?» «Ora più che mai» rispose Carl. Gli tolse le mutande ed iniziò a baciarlo, sentiva il suo membro gonfiarsi, il suo respiro diventare più veloce e le sue mani graffiarlo. In quel momento, tra le mani di Jon, scintillò qualcosa, era un piccolo coltello, dalla punta molto affilata e sottile. Si alzò e legò la sua preda al letto, che scambiò il tutto per un preliminare, quindi non fece storie. Poco dopo, Jon era di nuovo su di lui, gli diede un bacio sul dorso pallido e poi, col suo coltellino, fece un taglio non molto profondo (altrimenti il divertimento sarebbe durato poco) nel punto preciso in cui l'aveva baciato. «Sei matto!» esclamò Carl, ormai più impaurito che eccitato. «Sh» sussurrò l'altro, che gli baciò le labbra, tagliandole subito dopo. 
Proseguì con lo stesso metodo sulle braccia, sulle guance e sul collo, poi, Jon decise che era stanco, non voleva più divertirsi, voleva solo andare a dormire. Gli disse di guardarlo negli occhi. Carl era più spaventato, che eccitato. Jon amava quel senso di paura. Continuò a guardarlo negli occhi. «Puoi dormire ora, Carl» gli sussurrò. Guardandolo negli occhi, gli infilò la lama nella gola (uccideva sempre nello stesso punto) e vide Carl spalancare gli occhi, lo udì urlare, un urlo contenente terrore allo stato puro, sentì le forze abbandonarlo, poi morì.
Jon si alzò, soddisfatto del suo lavoro: il sangue gocciolava a terra, disegnando un motivo astratto. Prese il coltello e incise sul cuore una “J”. Dalla pelle lacerata non uscì sangue. Si sa, la ferita sanguina solo se il cuore batte ancora, e il cuore di Carl non batteva.
Quella sera, si era guadagnato un po' di divertimento e un nuovo nome: Carl.
 

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Capitolo 2
*** Carl ***


“Carl, sono le sette, alzati!”
Fu questa la sveglia di Carl, come si chiamava ora. L’assassino, che non aveva ancora completamente immagazzinato l’informazione che il suo nome era Carl, si alzò, prese dal cassetto della biancheria pulita e si avviò sotto la doccia.
“Che idea geniale, quella di prendere il nome delle mie vittime” pensò. “Il problema potrebbe manifestarsi se avessi un lavoro o degli amici, dato che non saprebbero come chiamarmi ma, fortunatamente, non ho né amici, né un lavoro.” L’unico impegno di Carl era mantenersi in forma, cercare qualcuno di interessante, ucciderlo e prendere i soldi che la vittima aveva in tasca.
Uscì dalla doccia, si vestì e si mise di fronte allo specchio, osservando il suo riflesso. Era alto circa un metro e ottanta, il fisico asciutto e abbastanza scolpito, i capelli biondi (ricci per natura, lisci per volontà del padrone), occhi grigi e labbra non molto carnose ma ben definite. Il suo naso sembrava quasi scomparire nel complesso del suo viso, tanto era piccolo. Osservò le guance per vedere se gli fosse cresciuta la barba, ma, essendo per l’appunto bionda, non si notava affatto. Passò, dunque, allo scegliere cosa indossare. Doveva andare a correre, quindi la scelta fu ovvia: una tuta nera, felpata all’interno, considerata la temperatura esterna.  Fece colazione (caffè amaro accompagnato da un cornetto alla crema, come suo solito) e uscì.
L’aria, come al solito, era pesante, complici le infinite automobili che circolavano in quella strada. In realtà, il mondo esterno lo annoiava. Pieno di persone tutte uguali, prive di una personalità propria e amalgamate alla massa. L’ambiente,inoltre,  non era dei migliori. La città era sommersa da palazzi, case e aziende, lasciando poco spazio al verde. L’aria invernale dava al tutto un colore cupo, spento.
Carl iniziò la corsa, cambiando percorso, e si abbandonò ai suoi tre chilometri di allenamento quotidiano. Tornando a casa si fermò in un piccolo bar, chiese se fosse possibile prendere due pezzi di pizza, la barista disse che doveva attendere altri cinque minuti per la seconda sfornata della giornata. Decise allora di sedersi e leggere il quotidiano. La prima pagina, come al solito, era occupata maggiormente dalla politica, salvo un piccolo trafiletto in basso che parlava di un “assassino in fasce”: la polizia aveva ricevuto tre denunce di scomparse e le persone non erano ancora state ritrovate. Carl sorrise, da quando si era trasferito nella nuova città aveva ucciso tre persone.
Intanto, la pizza era pronta: la prese ed uscì. Torno nel suo monolocale e decise di accendere il PC e tornare alle sue amate serie TV. Dopo un paio d’ore di completo isolamento dal mondo esterno, decise di pranzare. Aprì lo scatolo contenente la pizza e addentò il primo pezzo. Finito di mangiare, tornò a sentirsi annoiato, quindi decise di programmare la sua serata. Di solito non faceva pronostici sulle sue serate, dato che spesso seguiva il suo istinto, ma la  noia regnava sovrana. “Questa sera voglio una donna” pensò. In realtà a lui non interessava il sesso della vittima, si dichiarava omosessuale o eterosessuale in base a ciò che aveva di fronte.  L’unico problema delle donne era prendere il loro nome (sarebbe stato imbarazzante chiamarsi Margareth), quindi prendeva il nome del loro padre, solitamente.
 Vide l’orologio: le sette. Quella sera si sarebbe avviato prima, aveva voglia di divertirsi, tanta. Decise di portare i capelli al naturale, quindi mise un po’ di acqua sulle punte in modo tale che, grazie all’umidità, potessero diventare ricci. Passò poi all’abbigliamento: prese una maglia nera dei Metallica con il collo a V e un pantalone aderente nero. Le scarpe erano le solite: delle Nike Air completamente nere, le sue preferite.  
Lavò i denti, mise del profumo e attese le otto per uscire. Appena fuori dall’edificio, trovò una coppietta che si scambiava delle effusioni  vicino al muro. “Chissà perché farlo in pubblico, poi” fu l’unico pensiero di Carl.
Decise di cambiare bar (doveva essere poco ordinario, se non voleva essere scoperto) e andò in un locale chiamato “Dark Moon”. Scelse quel bar  solo perché gli ricordava l’album dei Pink Floyd, ammise a se stesso.
Entrò e fu abbastanza deluso dall’accoglienza: non c’era nessuno che gli interessasse.  “Sono le otto, arriveranno dopo” pensò, quindi si sedette e ordinò un panino.
 Mentre mangiava (o meglio, cercava di mangiare quel maledetto panino senza sporcarsi) entrò una donna sola, molto interessante. Aveva i capelli rossi, gli occhi verdi e il nasino all’insù. Indossava un maglione grigio e dei collant neri, con delle Nike, anch’esse nere. Sembrava, però, difficile da adescare, ma Carl amava le sfide. Con la sua non-chalance, si sedette al suo tavolo, chiedendo il permesso di sedersi quando, ormai, era già seduto. La ragazza (si notava che fosse abbastanza giovane) lo guardò, con uno sguardo piuttosto disinteressato e gli disse “prego, sono sola”.
Detto ciò, seguì un silenzio tombale di circa venti minuti. Carl azzardò un paio di domande, chiedendole come si chiamasse e da dove venisse. Lei rispose che era della città, si chiamava Chiara.  “Bel nome, Chiara!” disse Carl.
“Beh sì, piace anche a me. Lei come si chiama?”
“Diamoci del tu. Io sono Carl, piacere. Vengo anche io da questa città, ma non ti ho mai vista.”
“Beh, nemmeno io ti avevo mai visto. Come mai sei solo?”
“Io sono un solitario cronico”-rise-“e tu, piuttosto? Sei così bella!”
“Io sono sola perché le persone mi annoiano.”
“Grave problema! Ma io sono interessante, sai. Sono un serial killer”
Chiara rise, aveva una bella risata, pensò Carl.
Ordinarono da bere e passarono un paio d’ore a parlare di tutto e di niente (una delle specialità di Carl, parlare per ore senza dare informazioni sulla propria persona all’interlocutore).
Quando il locale iniziò a riempirsi, Chiara esclamò “bleah! Si sta riempiendo di persone con l’alito così pieno di alcol che è vietato ai minori di 18!” Carl rise, ma pensò “che battuta triste”.
Uscirono all’aria aperta ma, sfortunatamente, Chiara non sembrava affatto brilla. Carl decise, quindi, di essere carino con lei, quindi le diede la giacca e le offrì una crêpe alla nutella. Non appena vide che Chiara era a suo agio, decise di chiederle:”qui fa freddo, il mio appartamento è molto più caldo, vogliamo andare?” Chiara, inizialmente, sembrò dubbiosa ma infine accettò.
Giunti nel monolocale, Carl cercò un modo per dare davvero inizio al divertimento. Chiara, però, non sembrava molto propensa a divertirsi con lui, quindi decise, a malincuore, di sacrificare un pezzo della sua scorta personale di alcolici. “Quanto sai reggere l’alcol?” chiese a Chiara. “Più di quanto immagini” fu la risposta della ragazza. Carl allora gli propose di provare uno dei suoi cocktail e lei accettò. Il cocktail era più che altro una bomba alcolica (ma non abbastanza forte da farla svenire, voleva averla relativamente vigile). Glielo porse e Chiara disse “come si chiama questo cocktail?” “il bacio della morte” rispose Carl.
Dopo aver bevuto, Chiara si appoggiò alla spalla di Carl. Lui le iniziò ad accarezzare il collo e il viso (più che  altro voleva vedere dove colpirla) e lei si avvicinava sempre di più. Carl si alzò all’improvviso, tra le proteste di Chiara, e andò vicino al suo letto. Tornò poco dopo da Chiara e le si mise sopra, baciandole il naso, le guance, la bocca e il collo. Chiara gli accarezzava i capelli, aveva le mani così morbide. Subito dopo Carl le alzò il maglione e iniziò a darle dei piccoli morsi. Tornò alle labbra e, tra un bacio e l’altro, le chiese “come si chiama tuo padre?” Chiara, con la voce rotta dall’emozione, rispose “cosa c’entra? Daniel, comunque.”
“Bel nome” pensò Carl, ma non glielo disse. Riprese a baciarla, le abbassò i pantaloni, abbassando anche i suoi.  “Aspetta” disse Chiara, facendo adagiare Carl sul divano e mettendosi a cavalcioni su di lui.
Mentre Chiara gli baciava il torace, Carl prese la lama e, con un gesto fulmineo, le tagliò la gola.
Subito dopo averla uccisa, Carl (o meglio, Daniel) la adagiò sul divano e la guardò pensando “era una bella ragazza”.
Purtroppo, però, nessuna emozione provata da Daniel era tanto forte quanto quella di uccidere, quindi, dopo essersi lavato, andò a dormire.

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Capitolo 3
*** Daniel ***


Caffè caldo rovesciato sul pavimento appena lavato. Così poteva descriversi il lunedì mattina di Daniel.
Particolarmente nervoso, si alzò ed andò a prepararsi del latte caldo con una goccia di caffè dentro.
Non sapeva spiegarsi il perché del suo nervosismo mattutino: diede la colpa al tempo, ma in realtà il tempo era invariato da quindici giorni, poi la diede ai suoi coinquilini chiassosi, ma in realtà quella mattina (stranamente) c’era un silenzio tombale, concluse, quindi, pensando che era semplicemente il suo carattere: fortemente lunatico.
Nuovo giorno, nuovo lavoro: prima di tutto doveva abituarsi al suo nuovo nome (era la parte più difficile del suo lavoro, poiché i nomi erano tanti e la sua memoria poco buona), in seguito doveva trovare un nuovo percorso da fare durante la sua corsetta mattutina, poi doveva trovare un modo per racimolare qualche soldo, infine doveva preparare la serata. La ragazza della notte scorsa, Chiara, non aveva molti soldi con lei, quindi doveva arrotondare facendo qualche altra cosa.
Dopo aver fatto una bella doccia calda ed essersi vestito, Daniel uscì. Camminando a passo svelto, si addentrò nella città, svoltando nelle strade che gli sembravano sconosciute. La città, pensò, sembrava una giungla, con le sue mille strade, stradine, curve, vicoli ciechi eccetera. Anche quella mattina gli abitanti della città erano dannatamente noiosi e rumorosi: coppiette di liceali che si baciavano sui muretti, bambini dell’asilo che piangevano, mamme che urlavano contro i propri figli, ragazzini delle medie che si scambiavano le figurine, tutti così ordinari nelle loro giacche che, alla fine, erano tutte uguali.
Dopo aver percorso un paio di chilometri, si scontrò contro una ragazza: doveva avere all’incirca ventidue anni, capelli scuri come la notte tagliati a caschetto, con una frangia che le copriva gran parte della fronte, occhi celesti e labbra carnose. Sembrava diversa dalle altre che lo circondavano, ma quella sensazione non durò per più di cinque secondi, la ragazza passò avanti e lui continuò per la sua strada. Magicamente, dopo aver svoltato a destra, si ritrovò esattamente di fronte a casa sua. Affianco a lui, c’era una vecchietta che cercava, con scarsi risultati, di attraversare la strada. Daniel decise di aiutarla. La situazione lo fece sorridere: un assassino senza scrupoli che uccideva persone per il semplice gusto di farlo, che aiutava un’anziana ad attraversare la strada. La vecchietta si mostrò riconoscente e diede al “giovanotto” (così l’aveva definito) 10 euro.
Tornato  a casa, decise di darsi alla cura del suo corpo: fece delle serie di addominali, alcune flessioni, degli esercizi per le gambe e, alla seconda pausa, notò un gran trambusto sul suo pianerottolo. Più scocciato che incuriosito, decise di affacciarsi. Una donna con un piccolo bambino stava per trasferirsi lì. Dannazione! L’habitat naturale di Daniel (silenzio e totale assenza di vicini curiosoni) sarebbe stato compromesso per sempre. Donando lo sguardo più ostile che riuscisse a fare al bambino e alla donna, tornò nel suo monolocale.
Guardò l’orologio: l’una. Sentì lo stomaco brontolare, quindi scese e prese un pezzo di pizza nella pizzeria sotto al suo palazzo.
Il pomeriggio lo passò a pensare a quella donna incontrata la mattina. Perché lo  aveva colpito? Aveva un viso familiare, le solleticava dei ricordi molto remoti, ma non riusciva a venirne a capo. Aveva un’aria diffidente, come se non volesse avere a che fare con nessuno se non con se stessa. In fondo, pensò Daniel, era uguale a lui.
Quando l’orologio indicò le diciannove, decise di prepararsi: fece la doccia, prese un jeans strappato, una maglia nera (l’armadio ne era così pieno che ormai sembrava un unico grande pezzo di stoffa nero che si estendeva per tutto il cassetto) e le sue Nike Air. Sistemò i capelli con l’uso della mano, ed uscì.
Non appena aprì la porta si trovò un paio di occhi enormi e marroni a fissarlo. Era il nuovo baby-vicino. “Come ti chiami? Io sono Lucas, piacere!” disse con voce squillante il bambino. “Sparisci, moccioso” fu la fredda risposta di Daniel. Al “come ti chiami” non sapeva rispondere.
Aperto il portone del palazzo, una folata d’aria fredda lo investì. Si diresse verso un bar che aveva intravisto quella mattina. “Dark Shadow” doveva chiamarsi. Dopo un paio di traverse, lo trovò: era un piccolo locale abbastanza scuro, come suggeriva il nome. Entrò e fu accolto dal solito scenario: era semivuoto.
Ordinò da bere e da mangiare, spulciando tra le cose più economiche, e perse tempo guardando la TV. Più o meno alle ventuno, il bar sembrò riempirsi d’improvviso.  Daniel cercò qualcuno di interessante e, dopo pochi minuti, la trovò: la misteriosa ragazza. Era seduta sola al tavolo, da sola, con un bicchiere contenente qualcosa di azzurro e lo sguardo perso tra la folla. Sembrava cercare anche lei una preda.
Daniel decise di alzarsi e andare verso di lei.
“Buonasera.” Disse lui.
“Ciao.” Fu la risposta di lei.
“Ci siamo incontrati questa mattina, entrambi stavamo correndo.”
“Sì? Non mi ricordo di te.”
Si istaurò, così, un dialogo che durò per  circa cinque minuti. Le risposte di lei erano circoncise e fredde, emerse che si chiamava Samantha, aveva ventidue anni (proprio come aveva immaginato Daniel) ed era terribilmente annoiata.
“Vuoi divertirti con me?” rispose Daniel, guardandola dritto negli occhi.
“Chi lo dice che ci riuscirai?” fu la risposta di Samantha.
“Tu lasciami provare” disse infine Daniel.
Samantha, prendendola per una sfida, accettò.
Daniel era combattuto: voleva tenere lucida Samantha, per divertirsi davvero con lei, ma temeva che lasciandola lucida potesse diventare tutto più difficile. Daniel, però amava le sfide.
“Scegli un compagno.” Disse a Samantha. Lei, inizialmente, lo guardò sospettosa ma poi si convinse e decise di assecondarlo.
Si avviò e tornò, dopo pochi minuti, con una ragazza esile e pallida, con i capelli biondi e l’espressione abbastanza sveglia. “Bei gusti” pensò soddisfatto Daniel. Con un sorriso complice, i due andarono verso la porta, per uscire dal locale e andare a casa di lui.
Daniel già gustava il divertimento imminente, il sapore del sangue  e delle due donne.
Giunti a casa, Samantha baciò la ragazza, che aveva detto di chiamarsi Giselle, e le infilò in bocca una pillola. La ragazza, dopo averla ingoiata, sembrò leggermente stordita. Samantha passò a Daniel: provò a far ingoiare anche a lui quella strana pillola, ma lui la sputò, mise Samantha contro il muro e le sussurrò:”con me non funziona, ragazzina.”
Poco dopo,  i due passarono alla dolce Giselle, completamente stordita dalla droga di Samantha. La spogliarono, Daniel le baciò le labbra, mordendole fino a farle sanguinare, il sapore del sangue lo eccitò molto. Le baciò anche i seni, mentre si concentrava su Samantha, che stava spogliando lui. “Aspetta” le disse Daniel, quindi Samantha si dedicò a Giselle. Quando la giovane bionda sembrava all’apice del piacere, Daniel la prese in braccio, dirigendosi verso il bagno, e disse a Samantha di prepararsi.
Abbandonata la misteriosa ragazza, prese la sua amata lama e andò in bagno. Stese Giselle a terra e le disse di guardarlo negli occhi. La ragazza rideva.
Daniel le affondò il coltello nella gola, vedendo la luce della vita che, insieme alla sua risata divertita, si spegneva nei suoi occhi verdi.
Quella era la parte più bella, secondo Daniel. Si diresse nella camera, gustando Samantha. La trovò nuda sul letto. Le si fiondò addosso, iniziò a baciarla, le baciò tutto il corpo, Samantha lo guidava con una mano, l’altra la teneva dietro la testa.
Mentre la penetrava, la ferì su un fianco.
Credeva di averla ferita bene, quasi a morte, ma lì accadde qualcosa di inaspettato: Samantha gli saltò addosso, gli si mise sopra, aveva una lama tra le mani, gli poggiò il coltello sulle labbra e disse “nessuno ferisce Samantha Smith.”
Gli tagliò il labbro inferiore, succhiandone poi del sangue.
Samantha faceva scorrere la lama sul corpo nudo di Daniel, facendo dei tagli dove le capitava. Per la prima volta ebbe paura. Paura di aver perso, di aver finito tutto, di veder spegnere la sua, di luce vitale negli occhi.
Samantha gli puntò il coltello sulla gola, sembrò affondarlo nella pelle dell’uomo quando gli chiese:”così ti diverti?” Daniel, confuso, le rispose “sì”
“voglio divertirmi anch’io con te.”  Disse Samantha.
Daniel ci pensò su: se le avesse detto di sì, avrebbe continuato a vivere, certo, ma poteva fidarsi di lei? Mentre decideva, la osservò meglio. Aveva un’espressione imbronciata ma divertita, gli ricordava qualcuno … ma certo! Era uguale a sua madre! Stessi occhi, stesso carattere forte, stessa espressione.
Come poteva non fidarsi di una persona che somigliava a sua madre?
“Certo” rispose Daniel “divertiti con me”.
Daniel, in seguito, gli raccontò il suo stile di vita, il fatto di cambiare nome prendendo quello della vittima o del padre della vittima, di non avere schemi precisi, di non fare amicizia.
“Ho dimenticato di chiedere a Giselle come si chiamasse il padre. Decidi tu un nome.”
“Thomas.” Disse con aria sicura Samantha.
Daniel rise, Thomas era il suo vero nome, quella ragazza avrebbe cambiato molte cose.

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Capitolo 4
*** Thomas e Samantha ***


Come tutte le atre mattine, Thomas si svegliò ben presto, ma c’era una novità nel suo letto. A dormire con lui, infatti, c’era Samantha.
Era distesa,  con ancora una macchia di sangue sul collo, con un’espressione leggermente imbronciata e il respiro lento e regolare.
Ma chi era Samantha? Non avrebbe dovuto fidarsi, insomma, l’aveva conosciuta solo il giorno precedente, lui non era un tipo da lavoro di coppia, non aveva mai avuto una relazione stabile e,francamente, era un po’ spaventato dall’amore in generale. Dipendere da una persona, pensare per due, coinvolgere qualcun’altra nella propria vita era, semplicemente, troppo complicato.
Inghiottito dai suoi pensieri, non si era quasi reso conto che la ragazza si era svegliata, e lo stava guardando.
“A cosa pensi?” chiese lei, con voce assonnata.
“A te.”-fu la risposta di lui-“Tu chi sei?”
“Vuoi sapere qualcosa in più su di me? Il nome e l’età li conosci, ho origini californiane, mi sono trasferita qui per cercare un brivido. Mi annoio facilmente, di persone, di oggetti, di emozioni. La mia famiglia è molto ricca, ma io sono la pecora nera della famiglia, quindi non mi accettano e io non ne faccio un dramma.”
Thomas rise. “Cerchi un brivido e vieni in questa città? Sarebbe come cercare un’avventura oltre i confini dell’immaginabile nel cortile di casa.”
Samantha si giustificò dicendo che non sapeva il mortorio che era la città e la conversazione scivolò sul cosa preparare a pranzo.
Presero due hamburger lì vicino e pranzarono in casa.
“I corpi dove li nascondi? Questa mattina non l’ho trovato.” Chiese Samantha.
“Verso le tre e mezzo/quattro vado in un cantiere in periferia e li getto in delle fosse, nessuno se ne accorge.” In realtà, non era così. Li gettava in mare, con un peso legato alle gambe (di solito del cemento che prendeva in un cantiere poco distante), ma di Samantha ancora non si fidava completamente.
Samantha credette alla menzogna di Tom, e continuò a mangiare il suo hamburger.
“Senti, ragazza che vuole provare dei brividi, hai intenzione di restare con me?” Chiese Tom. Non sapeva cosa voler sentire come risposta. Era vero che non amava il lavoro di coppia, ma lavorare con lei rendeva il tutto più divertente. Decise di affidarsi alla sua scelta.
Lei ci pensò un attimo, poi disse:”se non ti creo problemi, perché no”. Il suo tono era così sereno che rendeva tutto semplice come bere un bicchier d’acqua, quindi accettò.
Durante il pomeriggio, Samantha chiese:”come scegli le tue vittime?”
Quella domanda lasciò Tom un po’ sconcertato. Nessuno sapeva il suo segreto, nessuno aveva mai chiesto di dare una spiegazione all’apparente caos che lo circondava. Decise, però, di dirglielo.
“È per gli occhi.” Disse.
Samantha gli chiese delle informazioni in più, ma Tom non rispose, gli aveva detto la verità, ed era già troppo.
Poi, alle diciannove circa, decisero di iniziare a prepararsi per uscire. Differentemente dalle previsioni di Tom, Samantha impiegò pochissimo tempo per lavarsi. Uscì dalla doccia, raccolse i capelli in un turbante, mise una canottiera e andò vicino alla finestra.
L’uomo fece la doccia, si vestì e uscì dalla doccia. Trovò la ragazza di spalle e non potette fare a meno di notare che aveva un tatuaggio, sotto alla clavicola. Era  una piccola forca, quasi invisibile, con delle fiamme rosse, sbiadite forse dal tempo. Sam si accorse che l’altro le stava guardando il tatuaggio e disse svogliatamente “non chiedermi il significato, non lo so.”
“Che cosa stupida” pensò Tom, ma non lo disse. A volte era meglio che i pensieri restassero tali.
Terminati i preparativi, i due uscirono.
Lei, vestita con un jeans attillato e un maglione largo nero e lui, con una felpa abbastanza larga con scritto “Motorhead” e il suo solito jeans nero. In fondo si somigliavano.
Quella sera i due decisero di non andare in un locale, era mercoledì e nessuno di interessante sarebbe andato in un bar. Volevano passare la loro prima serata insieme in un modo diverso.
Presero un bus di città e andarono nel lato nord della città, piena di ville con persone piene di soldi.
Scesero e si trovarono lungo un grosso viale, illuminato da molti lampioni che lo costeggiavano.
L’aria sembrava molto più pulita, le persone molto più benestanti e, unica pecca, l’ambiente troppo luminoso per uccidere.
Tom diede uno sguardo al suo portafoglio: poco più di trenta euro. Aveva bisogno di soldi. Decisero di entrare in una pizzeria e addentare qualcosa. 
All’interno c’era un solo cliente, completamente solo, con l’espressione preoccupata, era sul punto di piangere.
“Un assassino per psicologo” sussurrò Sam all’orecchio di Tom, che accettò l’idea di Sam.
I due, quindi, si avvicinarono con non-chalance al tavolo del loro nuovo “amico” e chiesero di sedersi.
I due iniziarono a parlare tra di loro, facendo dei riferimenti al loro lavoro di psicologo e psicoanalista, a come erano riusciti ad aiutare molte persone e, mentre addentavano un pezzo di pizza, chiesero al malcapitato se stesse bene.
Il ragazzo (non poteva avere più di diciannove anni) rispose:”beh, no, nella stessa serata ho scoperto che la mia ragazza mi tradiva e che lo faceva con il mio migliore amico.”
“Che dolce disgrazia! Sarà una grande fonte di guadagno, questo giovane.”
Samantha, che si era perfettamente calata nella parte della psicologa, gli chiese se avesse bisogno di parlare, lui, ovviamente, accettò, quindi passarono alla seconda fase: capire se fosse ricco o meno.
All’apparenza sembrava uno di quei ragazzi che cercavano di nascondere la propria ricchezza, aveva la pelle ben curata, camicie semplici ma di marca, pantaloni stirati a dovere e fatti per essere calzati solo da lui.
Dato che, però, sbagliarsi su questo tipo di cose era facile, decisero di avere delle prove concrete.
“Purtroppo, però, l’aiuto ha un costo, voglio dire, siamo professionisti!” disse Tom, che fino ad allora si era limitato a pensare.
“Oh, certo, le darò questo assegno in bianco, potrete completarlo voi, non chiederete più di 2000 euro, vero?”
“2000? Potrei svenire.” Pensò Samantha.
“È decisamente ricco.” Fu il pensiero di Tom.
Dopo altri venti minuti, riuscirono a farlo uscire dalla pizzeria. Era un osso duro.
Con  la scusa della discrezione lo attirarono in un vicolo molto stretto, scarsamente illuminato e poco abitato.
“Oh, ma lei come si chiama? Noi siamo Thomas e Samantha”
“Rick, piacere.”
Bel nome.
Samantha, evidentemente più portata nei rapporti umani, intratteneva Rick. Thomas, invece, preparava la lama. L’aveva nascosta in un taschino supplementare, cucito da lui stesso sopra la federa della manica sinistra del suo cappotto, poiché era mancino.
Ah, aveva gli occhi verdi, ottimo.
Samantha lo guardò negli occhi, fu uno sguardo fulmineo, durò pochi secondi, ma i due si capirono: era ora.
Samantha lo bloccò con le mani ferme dietro il busto, mentre Tom si avvicinò con la lama.
Stava per prenderlo, lo aveva in pugno quando…tutto degenerò.
Rick, con gli occhi pieni di terrore, ebbe la lucidità di colpire Samantha col piede e, nei pochi secondi di distrazione, di liberarsi dalla presa e scansarsi dalla traiettoria di Rick, che colpì Samantha su un fianco, procurandole soltanto un taglio superficiale.
Rick scappò. Corse più veloce che poteva.
I due lo inseguirono.
Thomas aveva il cuore in gola. “ È finita.” Continuava a pensare. “Mi hanno scoperto. Parlerà.”
Correva con tutte le forze, noncurante del vento gelido che gli tagliava le guance, noncurante di Samantha, che arrancava a causa della ferita, correva per se stesso, per la sua salvezza.
Purtroppo, però, la paura di Rick gli diede la forza di correre più veloce.
Samantha, ferita e delusa, convinse Thomas a tornare a casa.
Deluso e, soprattutto, amareggiato, Thomas tornò a casa,bendò Samantha e andarono a dormire.
Quella notte, però , Thomas non riusciva a dormire. Aveva gli occhi semi aperti quando vide Samantha alzarsi, vestirsi ed uscire.
Dove andava? Ad incontrare qualcuno, di sicuro.

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