Our Love To Admire

di Christa Mason
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bordi di ghiaccio ***
Capitolo 2: *** Una sala d'aspetto ***
Capitolo 3: *** Una stazione sciistica ***
Capitolo 4: *** Primo Appuntamento ***
Capitolo 5: *** Quarto Potere ***
Capitolo 6: *** Casa Mia ***
Capitolo 7: *** Un'auto d'epoca ***
Capitolo 8: *** Casa Sua ***
Capitolo 9: *** Padri ***
Capitolo 10: *** Non è Dio ***
Capitolo 11: *** É tutto quello che so ***



Capitolo 1
*** Bordi di ghiaccio ***


  Nulla di tutto quello che segue è vero, naturalmente. Julian Casablancas ha davvero frequentato un collegio in Svizzera, ma non negli anni in cui lo descrivo. Ho scritto un'altra fanfiction con il personaggio di Casablancas, la trovate nella sezione degli Arctic Monkeys in quanto narra un incontro con Alex Turner, due personaggi che amo immensamente e che sì, vorrei tanto vedere insieme. Sono anche abbastanza stupida perchè pubblico una storia in questa sezione, poco considerata perchè probabilmente gli Strokes hanno un pubblico serio che non scrive fanfiction. Non sono seria, raga. A presto!

  Mi stringo nel mio vecchio giaccone, nel tipico freddo svizzero. Sento l’odore che emana quel giaccone, era stato di mia madre prima che me lo cedesse: c’aveva visto i Rolling Stones con quel giaccone, continuava a ripeterlo, e in qualche modo ancora se ne poteva sentire l’odore. Le belle esperienze hanno sempre un odore che s’impregna nei vestiti senza mai disperdersi, e questo giaccone ha decisamente l’odore di un concerto dei Rolling Stone. C’è la mia sciarpa preferita, quella odora di un Natale a Zurigo, quando Hans, il più bel ragazzo della classe, aveva baciato me, me e nessun altra. Poi c’era il paio di jeans che avevo comprato un anno fa, quelli odorano del cibo di strada di Londra e dei pub affollati. Mi stringo nel mio giaccone perchè fa maledettamente freddo, le mie unghie si colorano d’una sfumatura azzurra, e fremo sperando che l’autobus arrivi il prima possibile. Un paio di auricolari mi isolano dal rumore del traffico, è un paio di giorni che non faccio che ascoltare Wild Is The Wind di David Bowie. Il vento della canzone è caldo e ballabile, ma è ben diverso da quello che sfreccia sulle strade e mi irrigidisce le guance. 
  Sbrigati, cazzo, maledetto autobus.
  C’è un complesso di case popolari oltre il lago, là dove d’inverno tutto è bianco e azzurro, nebbioso e asettico. Chi vive al di là del lago è invisibile, ed è lì che sto andando. Ricchi viaggiatori abitudinari passano i loro weekend a sciare, si muovono nelle loro auto di lusso, e dimenticano che c’è chi nella bella Svizzera ci vive, o almeno ci prova. Faccio tristemente parte di quelle persone invisibili, quelle che puliscono le camere degli alberghi e gli spogliatoi delle stazioni sciistiche, e che aspettano gli autobus che non arrivano. 
  Maledetta neve.
  Noto un gruppo di ragazzi che fanno gli stupidi sulla riva del lago. Li osservo senza sentire cosa si urlano. Quest’inverno ha fatto abbastanza freddo, il lago non è completamente ghiacciato, è troppo grande perchè questo accada, ma certamente una lastra di ghiaccio piuttosto spessa si è impossessata dei bordi. Quegli stupidi si sfidano a camminare sul lago, fanno uno o due passi per poi tornare indietro spaventati. No, ragazzi, qui sta già per cedere. Riconosco le sciarpe e le giacche bianche sotto i loro cappotti fin troppo eleganti: sono quegli stronzi dell’istituto Le Rosey, giovani viziati e sfacciatamente ricchi che riempiono la Rolle e le zone limitrofe durante i periodi scolastici, per poi sparire durante l’estate. 
  Uno di loro fa un passo più degli altri, stupido idiota, penso, il ghiaccio s’estende solo per un paio di metri, non di più. Non sembra curarsene. Gli altri lo incitano, David Bowie copre le loro voci e sembrano dei bambini saltellanti e muti, dei goffi ballerini che seguono un ritmo tutto loro che di certo non è quello della mia Wild Is The Wind. Sorrido finché non li vedo fermarsi. Nessuno di loro si muove più. Ci metto qualche attimo a capire che il più audace e il più stupido di loro è caduto nel lago, nell’acqua gelata che ora si starà infiltrando nei suoi calzini e rendendo i suoi piedi pesanti. Devono sbrigarsi se vogliono tirarlo fuori
  Mi alzo in piedi. Alcuni di loro sono già corsi via, hanno già messo in moto le loro belle auto parcheggiate per sparire nella nebbia. Due sono rimasti, uno s’è sdraiato urla qualcosa che non sento verso la superficie ghiacciata. Wild Is The Wind. Tolgo gli auricolari. 
  - Cazzo, cazzo… - dice quello rimasto in piedi.  - Tiralo fuori, Julian, tiralo fuori dall’acqua. Io chiamo l’ambulanza! - sembra aver preso in mano la situazione finché non lo vedo rovesciare una manciata di monete nella neve, dollari americani e franchi svizzeri. Gli tremano le mani. Prende un paio di franchi e corre verso la cabina telefonica del piazzale. Non so cosa fare. 
  - Mi serve un’ambulanza! - urla in inglese.   - No, non lo so dove cazzo siamo! - 
  - Losanna! Piazzale Ovest, alla fermata degli autobus! - gli suggerisco io.
  - Losanna. Piazzale Ovest, alla fermata degli autobus. - ripete lui con voce rotta, guardandomi. E questa da dove cazzo spunta? sembra voler dire. - No, io non lo so. Un mio amico, no non è un mio amico, è uno che conosco, è caduto nel lago. Credo si chiami Gary Simmons. - Non capisco perchè  sapere il nome di uno sfortunato individuo che è caduto stupidamente nel lago possa fare una qualche differenza per i soccorritori, ma il ragazzo al telefono lo disse come se fosse importante. 
  Julian, è riuscito nel frattempo a tirar fuori lo stupido che aveva fatto un passo di troppo avanzando sulla superficie ghiacciata del lago, tutt’altro che stabile. Sembra non farcela, è alto abbastanza ma il cappotto di Gary è impregnato d’acqua e lo rendono incredibilmente pesante. Corro verso di lui, cerco di aiutarlo a sollevarlo il corpo svenuto e dall’espressione bluastra di Gary.
  - Almeno un paio di minuti. É stato sott’acqua almeno un paio di minuti. - continua l’altro battendo colpi nervosi contro il vetro della cabina telefonica. Ai suoi piedi ancora gli spiccioli che aveva fatto cadere cercando i franchi per la telefonata. Tre minuti e trentatrè secondi. Wild is The Wild dura tre minuti e trentatrè secondi, penso io e quel Gary stupido stupido Gary, ha lottato con il freddo del lago di Ginevra per oltre tre minuti. 
  Gary ci sfugge dalle mani, è troppo pesante, cadiamo sulla neve. Julian mi osserva, E questa da dove cazzo spunta?, ha uno sguardo sicuro tradito da un paio d’occhi gonfi di terrore. Gary guarda il cielo con gli occhi socchiusi, s’intravedono le pupille bianche. Non sente Julian che urla il suo nome, che l’afferra per il cappotto, lo scuote e gli implora di svegliarsi. Le labbra di Gary hanno le stesso colore della lavanda morente che mia madre ha smesso di annaffiare sul nostro balcone. 
  Julian avvicina l’orecchio alle labbra violacee di Gary. 
  - Respira? - chiede l’altro che, conclusa la telefonata era corso verso di noi. 
  Nessuno dice niente. 
  - Julian, cazzo! Dimmi se respira! - 
  - Non lo so, non capisco. Fa’ un po’ di silenzio, Alex! - 
  Julian rimane con l’orecchio vicino alla bocca dell’amico, bluastro e immobile. Forse dovremmo togliergli i vestiti bagnati, fargli la respirazione bocca a bocca o una di quelle cose che si vedono fare di solito nei film, e io di film ne vedo parecchi, ma non oserei toccare Gary, e rimango immobile a fissare quei tre ragazzi che avrei volentieri continuato ad osservare dalla pensilina della fermata dell’autobus che nel frattempo ci supera senza fermarsi. Ho perso l’autobus.
  - Non sento niente. - conclude Julian. La sua voce sembra risuonarci nel torace come una sentenza di morte. Mi guarda senza dire una parola. Sentiamo le corpose sirene dell’ambulanza. 

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Capitolo 2
*** Una sala d'aspetto ***


  Gary Simmons non è morto, ma l’acqua ghiacciata del lago gli è entrata nei polmoni stringendoglieli come in una morsa, e il fatto che non sia ancora morto non significa che presto non lo sarà. Ho provato a chiamare mia madre quando ci hanno portato alla stazione di polizia, credo sia normale in questi casi tirare in mezzo la polizia, ma non riesco a togliermi dalla testa lo sguardo dell’uomo che ci ha condotto in questa stanza triste e opaca ad aspettare che ci interroghino. Giacca e cravatta e un sopracciglio alzato, Questi ricchi teppistelli, che si ammazzino pure tra di loro. Vorrei fermarlo, dirgli che io abito oltre il lago, alle fottute case popolari, e che non so niente di questa storia, non conosco Gary Simmons, stavo solo aspettando l’autobus, vorrei fermarlo e dirgli che siamo dalla stessa parte, siamo della stessa gente, la gente che odia i ricchi figli di papà dell’istituto Le Rosey, vorrei dirgli tante cose e chiedergli di usare un telefono, ho bisogno di sentire la voce di mia madre. Vedendomi tardare mia madre si preoccuperà, pensando che io sia scappata, come l’ultima volta. Non dico niente. Mi lascio cadere su una vecchia sedia di metallo. 
  Il ragazzo che ha chiamato l’ambulanza ha detto ai poliziotti di chiamarsi Alex Watts, lo stanno interrogando in questo momento. L’ho visto percorrere il corridoio, una donna dalle belle gambe gli indica una stanza. Alex ci ha guardato abbozzando un sorriso. Cosa c’è da sorridere? 
  - Non farci caso. Sorride sempre, non può farne a meno. - noto l’altro ragazzo, Julian, seduto di fronte a me, il peso in avanti, un ginocchio che freme nervoso e una sigaretta tra le dita che non può accendere. Ha le mani sporche di inchiostro, come se avesse passato le ore a scrivere con una penna scarica, indossa un paio di Adidas luride la cui superficie sembra sgretolarsi al freddo di dicembre. 
  - Ok, non ci farò caso. - dico io. Lo guardo. Non sembra così ricco, non così tanto per avere addosso la ridicola sciarpa con le scritte dorate dell’istituto per figli di imprenditori e ex musicisti famosi che frequenta. Nell’agitazione si tortura i capelli. - Devi stare calmo. - gli dico io. 
  - Sei Gillian, vero? - chiede lui. Si ricordava il mio nome, ce li avevano chiesti appena prima di portarci frettolosamente, prima di farci accomodare, in quella spoglia stanza. 
  - Gil. - lo correggo io. 
  - Beh, Gil. - il suo tono si spezza in disprezzante sarcasmo. - Forse voi qui siete abituati a tirare fuori i vostri amici dal lago ghiacciato ogni venerdì sera e poi, fare quattro chiacchiere con la polizia, e poi andarvi a sbronzare a casa di amici, ma da dove vengo io… - 
  - Da dove vieni, tu? - lo interrompo. 
  - … da dove vengo io, - mi ignora - non siamo ci siamo ancora abituati a queste cose. Non dirmi di stare calmo. - si alza, il passo nervoso costretto in quattro mura lo fa sembrare un animale in gabbia. 
  - Va bene. - non voglio discutere. Lui si appoggia al muro. Ancora quella sigaretta spenta tra le dita, bramava la nicotina più della fine di questa storia. Non mi sono tolta il mio giaccone, né lui il suo cappotto, come se fossimo pronti ad andarcene il prima possibile. Il caldo della stanza ci cade addosso a scioglierci e liberarci dal vento freddo che s’era infiltrato sotto la pelle. Ci guardiamo, ma non cediamo e rimaniamo a stringerci nei nostri superflui strati di stoffa con le mani in tasca.  
  - Devo fumare. Perchè non si sbrigano? - lo dice a sè stesso più che a me, cerca qualcosa nelle sue tasche, sembra un gatto affamato che non può far altro che fare il giro della cucina ancora e ancora aspettando che qualcuno lo noti. Senza guardarmi in faccia, mi porge con imbarazzo una minuscola bottiglia, tipica da minibar di alberghi poco economici. La prendo, è scotch. Lui ne ha un’altra per sè che finisce in un solo bramoso respiro, come se non stesse pensando ad altro da ore. 
  - Potrebbero farci il test. - dico io. 
  - Che test? - 
  - L’alcol test, per capire se abbiamo bevuto. - 
  - Perchè dovrebbero? - 
  - Non lo so. Ma potrebbero. Nei film succede. - 
  Non so perchè dissi quella cosa stupida, nei film succede. So benissimo di risultare infantile, ma troppo spesso mi ritrovo a paragonare la vita sul lago a ciò che succede nei film. Ho una lunga lista di titoli che esaurisco quando non lavoro. Una vecchia videoteca a Zurigo mi manda per posta ciò che richiedo e da qualche mese non mi sembra di fare altro che guardare film. Ma m’ero ripromessa di concedermi espressioni come nei film succede, ed avevo appena fallito. Ciò che accade sul lago è niente, tutto ciò che conosco si limitava a una serie di videocassette noleggiate e a un viaggio a Londra con mio padre, che poi non aveva più chiamato. Nei film succede, avevo lasciato che Julian percepisse tutta la mia inadeguatezza e inesperienza nel mondo, quando lui probabilmente viaggiava da un oceano all’altro a mesi alterni. 
  - Quanti anni hai? - mi chiede.
  - Diciassette. - 
  - Dì loro che non hai bevuto, ti crederanno. - 
  - Mi crederanno perchè ho diciassette anni? - 
  Annuisce poco rassicurante. Dà l’idea di uno che ad aspettare in una centrale di polizia ci sia già stato. Rimango con quella bottiglietta di scotch in mano, mi domando dove l’abbia presa. Ne ho viste parecchie di quelle, vuote e abbandonate sulla moquette delle stanze d’albergo che mi ero ritrovata a pulire l’estate scorsa, scaraventate stupidamente, forse per scherzo, forse per rabbia, in mille schegge nei corridoi delle suite che rassettavo con frettolosa energia. I ricchi si vogliono distinguere anche quando si tratta di alcol. Nessuno dei ragazzi da me conosciuti prima di Julian mi avrebbe mai offerto dello scotch in una ridicola bottiglietta del genere. 
  Guardo Julian, le sue belle mani macchiate d’inchiostro che si rifugiano nervose e sprezzanti nelle tasche del suo cappotto. Appoggiato alla parete con lo sguardo altrove, la sicurezza di una parlata d’inglese madrelingua, ora silenziosa e triste, lo slang newyorkese di Bogart che non so se sia autentico o se faccia di proposito, in un riuscito tentativo di rendersi geograficamente interessante. In altre circostanze deve essere un chiacchierone, penso, e non so perchè nella mia mente si creino attenzioni del genere. Lo immagino scherzare con gli amici, bere avidamente con gli altri ragazzi che erano con lui al lago e crearsi intorno un gran casino, ora deve sforzarsi di essere solo gentile con la ragazza che aspettava l’autobus e che è stata attratta dal pericolo e dalla probabile morte di Gary Simmons, poi non la vedrà mai più. 
  - Julian Casablancas, Gillian Gessner… - dice una voce, s’apre una delle porte del corridoio e ritroviamo l’uomo che ci aveva condotti nella stanza, lo stesso che volevo implorare di concedermi una chiamata con mia madre.  - Abbiamo avvisato i vostri genitori che siete qui, dopo la vostra deposizione vi accompagniamo noi a casa. - fa per richiudere la porta. Fantastico, tornare a casa in una macchina della polizia, non immagino ritorno più trionfale di questo. 
  - Aspetti… - lo ferma Julian Casablancas. Il suo cognome che non avevo ancora udito distintamente ora mi attacca la memoria e non mi lascia più. Sembra il nome di un attore, un famoso jazzista, è il cognome che si darebbe ad un annoiato artista con uno studio nella soleggiata Los Angeles. - Avete parlato con mia madre, o con mio padre? - chiede, sinceramente preoccupato. 
  L’uomo si volta verso l’interno della stanza, bofonchia qualcosa a qualcuno che batte a macchina alle sue spalle, il tic tic dei tasti si ferma. 
  - Con tuo padre. - dice l’uomo in giacca e cravatta e la porta ci isola di nuova nella piccola stanza dalle pareti grigie e dal pavimento che solleva lievi nuvole di polvere ad ogni passo di Julian. Ora il suo volto s’oscura, si lascia cadere sulla sedia che aveva lasciato per muoversi nervosamente a destra e a sinistra. Cazzo, sussurra appena. 
 

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Capitolo 3
*** Una stazione sciistica ***


  Non conoscevo Gary Simmons, che no, non è ancora morto. Ho solo visto cosa è successo, ho cercato di dare una mano ma non sapevo cosa fare. No, non avevo mai visto né parlato con Alex Watts prima di allora, no, neanche con Julian Casablancas, mai neanche una volta. Vivo alle case popolari, ed è lì che voglio tornare. Ripeto le stesse cose tre o quattro volte, poi un taciturno agente mi porta a casa con un’auto di pattuglia. Non ho avuto modo neanche di salutare Casablancas, ma mi convinco che non importa perchè non lo vedrò mai più. Appoggio la testa al finestrino e vedo scorrere davanti a me la desolata visione del lago notturno. S’era quasi inghiottito quel Gary Simmons, e ora riposa tranquillo, come se niente fosse successo e come se fosse pronto a inghiottire qualcun altro. 
  Trovo la mia enorme e bellissima madre sul letto, il suo sguardo rivolto alla porta aspettando solo che tornassi. Non riesce a dimenticare quell’estate di due anni fa in cui non tornai più per una settimana, arrivai appena a Milano in autostop e poi la chiamai in lacrime. per ricevere i soldi per il treno di ritorno, e tornai tra le sue braccia. Mi chino su di lei, ci abbracciamo per qualche attimo. 
  “Pensavo te ne fossi andata.” mi dice. 
  “Lo so.”
 Mia madre a mala pena si alza da quel letto da cinque anni almeno. Vorrei quasi fosse per una malattia vera, invece è solo obesa. Non capirò mai perchè le cose cambiano per tutti tranne che per lei, ma non mi arrabbio mai con mia madre, noi non litighiamo. Ogni mese riceve il suo assegno d’invalidità che spende in cibo industriale (la spesa ci viene recapitata a casa ogni settimana dal supermercato sulla statale) e per la televisione via cavo, a tutto il resto penso io. A mia madre va bene così, le va bene aver dimenticato di esser stata la più bella ragazza che si vedeva da queste parti, e deve andare bene anche a me. Certe volte non so a cosa pensa, perchè il grasso le ha reso il volto buffo e inespressivo che un tempo ricordavo strapazzare, sfiorare e baciare con l’amore che solo i figli piccoli hanno per le proprie madri. Vorrei sapere se soffre, lei dice di no. 
   “Non volevo pensare che mi avresti lasciato, ma…”
   “Non c’è problema ma’, davvero… Ho visto un ragazzo cadere nel lago e…”
   “Me l’hanno detto quando mi hanno chiamata. Tu stai bene?” 
   “Benissimo. Sono solo stanca.” sorrido ma non ci credo. 
Chiudo la porta della mia camera alle mie spalle, un’occhiata ai piedi del letto, alla pila di videocassette che devo ancora vedere sul mio venti pollici. Mi sfilo il giaccone di mia madre, trovo in tasca ancora la bottiglietta da minibar di scotch che Julian Casablancas mi aveva offerto e che non avevo bevuto. La poggio sul comodino, pieno di spiccioli e due quaderni con le storie che non faccio leggere a nessuno e alcune lettere per Hans, che non ho mai ricopiato e non gli ho mai consegnato. Ora sono passati anni, e non lo amo più. Ogni tanto lo incrocio per strada, abbasso la testa e faccio finta di non vederlo. Il ricordo del nostro primo bacio e di quelli che sono seguiti mi riempie di imbarazzo e se ci parlassimo so che lui mi prenderebbe teneramente la mano e direbbe cose tipo Stavamo proprio bene insieme, vero Gil? Perchè non… Conosco abbastanza bene Hans da sapere che non finirebbe la frase e mi bacerebbe con quella sua irritante e completamente falsa timidezza. Non me ne accorgerei neanche e finirei a festeggiare ogni Natale a casa sua, e non riesco a immaginare niente di più terribile. 
  Fisso il soffitto, non dormo perchè penso al lago ghiacciato e a Julian che estrae Gary dall’acqua per poi cadere con me nella neve. Non so perchè penso a me e Julian che invece di essere spaventati per la sorte di Gary rotoliamo ridendo come degli scemi, e ci lanciamo la neve con la confidenza che non abbiamo e che non avremo mai. Mi addormento con il suono della risata di Julian. 
  Quando mi sveglio la testa mi fa male, le tempie sembrano voler esplodere. Mi risuona nei timpani il suono squillante della sveglia. Cazzo mi dico mentre mi alzo scuotendo il capo cercando un po’ di sollievo. Fino a dopo le feste lavorerò alla stazione sciistica, appena sopra Rolle. Il mio lavorerò è e  sarà sempre servire ai tavoli e pulire, cambierà solo il luogo, ma sono sicura che nel giro di tre anni avrò lavorato ovunque sia possibile in questa zona, e da allora la mia vita sarà solo un ripetersi di posti e datori di lavoro e colleghi che ho già visto e che si ripresentano non ricordandosi della piccola Gil che ha lavorato con loro solo quella settimana. L’acqua colpisce il mio volto e sembro vedere più chiaro, mi lego i capelli increspati e rovinati dal vento e dal freddo svizzero, ricordano la paglia che si intreccia e con cui si fanno le sedie da esterni. Fai proprio schifo, Gil. Mi guardo allo specchio mentre mi vesto, mi fermo a disegnare con le dita le mie costole sporgenti. Proprio schifo, Gil
  Lavorare al ristorante di una stazione sciistica è abbastanza facile. Non puoi truccarti o vestirti in modo troppo vistoso, e questo non è mai stato un problema per me, devi indossare un bel grembiule, saper prendere e comunicare le ordinazioni velocemente, fare silenzio e non fare telefonate durante le ore di lavoro. A differenza degli altri ristoranti, in una stazione sciistica non ci sono orari: la gente comincia a pranzare alle dieci di mattina, e continua fino a tarda sera. Non si fanno domande, e non si tengono le mance, e anche un idiota potrebbe riuscirci. I frequentatori abituali sono gli inevitabili studenti dell’istituto Le Rosey che i genitori non vogliono a casa durante le vacanze e ricche signore sportive che vengono in Svizzera a controllare i loro conti e i loro amanti. 
  Sputo nel lavandino il dentifricio. Esco di casa, mia madre dorme ancora: a portata di mano ha due pacchi di cereali, quelli che preferisce, e una confezione di quegli enormi biscotti americani con il cioccolato a scaglie che si fonde con la pasta frolla. Aspetto l’autobus, poi la funivia di collegamento. Wild Is The Wind, sempre Wild Is The Wild. 
  Un caffè, due caffè, un hamburger della casa, una torta di mele senza gelato, una torta di mele senza zucchero a velo, passo di tavolo in tavolo a prendere le ordinazioni e non penso a niente, mi aspetto da un momento all’altro una torta di mele senza mele. Comunico le ordinazioni in cucina con il numero del tavolo, qualcuno porterà i piatti, non sono ancora una cameriera a tutti gli effetti, lavoro qui da un paio di giorni, hanno paura che non sappia tenere due piatti in mano, hanno paura di doverne raccogliere i cocci e di doversi scusare con tutti i clienti, e siamo ormai un ristorante importante, una garanzia per tutto il cantone, non possiamo permetterci che questo accada. Per questo, Gil, limitati semplicemente a prendere le ordinazioni, andrà bene così. E limitarmi è una cosa che so di saper fare molto bene.
  Durante la pausa vado sul retro delle cucine, fumo la mia sigaretta giornaliera fremendo appena e combattendo il gelo della stazione sciistica, nessuno mi vede perchè sono solo una cameriera in pausa. Nessuno, neanche Julian Casablancas che si trascina un paio di sci in spalla con passo sbilenco rallentato dalla neve alta. Per un attimo gli vorrei dirgli ciao, ma lui non mi vede, tira dritto facendo il giro del ristorante, solo quando lo vedo dentro seduto a uno dei tavoli, circondato da una mandria di studenti del Le Rosey capisco che era diretto all’ingresso del ristorante. Accolto da fischi e abbracci, eccolo qua, Casablancas, brutto bastardo!, appoggia noncurante gli scii al tavolo, egli rivolgono frasi di scherno Pensavo fossi tu ad essere caduto nel lago, Casablancas! 
  Julian racconta i fatti della sera prima con i classici particolari inventati da narratore esperto. “Io vi giuro che per tirare fuori Gary da quel maledetto lago stavo per caderci pure io. Ci è mancato davvero pochissimo. Ma cosa dovevo fare? Voi coglioni ve n’eravate tutti andati come delle fottute puttane all’arrivo di una volante! Dovevo salvarlo. E volete sapere una cosa? La polizia credeva pure che io, io che l’avevo tirato fuori, ce l’avessi invece buttato in quel dannato lago. Davvero! Mi ha chiesto se per caso avevo dei problemi con Gary, se avevo qualche motivo per fargli del male…”
  Non ci credo. dicevano tutti.
  “Ve lo giuro.” conclude Julian, annuendo con quel suo modo da teatrante vagabondo di porsi davanti a un pubblico. 
  Rimango immobile ad ascoltarlo, non mi nomina neanche una volta. Non dice di aver incontrato una bella bionda, come invece immaginavo avrebbe fatto, una fottuta svizzera astemia
  “Gil…” mi dice la direttrice di sala. Ha un paio di ridicoli occhiali con la montatura anni Sessanta. Non la sento pertanto mi chiama ancora. “Gil…” 
  Mi volto. “Sì?” 
  “Fai il tavolo Dodici, non restare lì a far niente.” 
  “Sì, subito.” dico prima di rendermi conto che il tavolo Dodici è quello dove Julian Casablancas sta portando avanti il suo show sugli avvenimenti di ieri sera. 

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Capitolo 4
*** Primo Appuntamento ***


Poche cose veloci. Grazie per le recensioni, non pensate che passino inosservate... anzi. Ricambierò leggendo le vostre storie il prima possibile, ogni recensione verrà ricambiata perchè meritate il mio tempo. Grazie mille!   

  Sarebbe troppo facile dire che è Julian Casablancas ad intimidirmi, perchè non è questo: è il fatto che non mi riconosca, il fatto che mi sia sfuggito senza notare il mio sguardo, scii in spalla e una sigaretta in bocca, ho paura che mi osservi interrogativo Io e te non ci siamo già visti da qualche parte? non ricordando neanche il mio volto, mentre io ricorderò per sempre il suo, con quello di Alex Watts, disperato alla cabina telefonica, e quello di Gary Simmons, violaceo steso sulla spiaggia innevata. Mi avvicino cauta al tavolo, aspettando che mi dicano cosa vogliono. 
  “Tre, quattro, no cinque caffè americani, grazie” dice uno di loro. 
  “… e portate una bottiglia della vostra migliore sambuca!” dice Casablancas sbattendo la mano sul tavolo, con fare capriccioso da grand attore. Non mi neanche ha guardata. 
  “Non serviamo alcolici a quest’ora.” dico io. 
  “Avanti, solo per correggere i caffè…” dice lui disinvolto ridendo con gli altri. Si volta e mi vede, mi vede per la prima volta. Il suo sorriso si smorza appena per poi rinnovarsi quando finalmente mi riconosce. “Gillian!” urla davanti ai suoi amici, i ragazzi ricchi di Le Rosey che un attimo prima pendevano dalle sua labbra. Sussulto appena. Indossa una giacca di pelle, consumata e troppo stretta. Sembra non aver dormito un gran che perchè ha delle occhiaie scavate, una pessima cera, e sembra più agitato di quanto lo era la sera prima, lo immaginavo a bere un caffè dopo l’altro per mantenersi sveglio. “Gillian…” mi chiama di nuovo col mio nome completo, s’alza dal tavolo, con fare da galantuomo prende la mia mano “… è una ragazza di qui che mi ha eroicamente aiutato a tirar fuori Gary dal ghiaccio…” 
  “Sono Gil, nessuno mi chiama Gillian.” cerco di dire.
  “… e che ha un vero problema con l’alcol.” conclude Julian. Nessuno sa davvero cosa voglia dire, ma ridono tutti ugualmente. Perchè questo Julian Casablancas è così, fa ridere, semplicemente. Immagino che quando dice un problema con l’alcol si riferisca al fatto che m’ero preoccupata che ci facessero un test per capire se avessimo bevuto, la sera appena passata. Non lascia la mia mano. 
  “Non ho nessun problema con l’alcol.”
  “Allora portaci la sambuca.” mi sorride, spavaldo e stupido. Lascio la sua mano irritata. Mi prendeva in giro, lui che faceva della brutta storia di Gary solo un bell’aneddoto, una storiella per intrattenere i suoi amici davanti a un caffè, e ora mi trattava non diversamente da come ci si aspetterebbe che qualsiasi ragazzino viziato possa trattare una cameriera, ed io sono solo una cameriera. 
  “Vi porto i caffè.” faccio per andarmene.
  “Gary s’è svegliato, sai.”
  “Mi fa piacere.” esito.
  “Puoi venire a trovarlo, con me.”
  Sento lo sguardo degli altri su di noi, è come una dimostrazione che Casablancas non ha nessuna intenzione di fallire. Ma cosa dovrei rispondere? No Julian, non vengo a trovare il tuo amico che alla fine non è morto, in ospedale, con te. Immagino la mia visita in ospedale, Gary che mi guarda scrutandomi non potendo neanche sapere chi sono. 
  “Non lo conosco neanche Gary, e lui non conosce me.”
  “Possiamo andare da un’altra parte, insieme?” gli altri ridono, ma lui è serio. 
  “Non conosco neanche te.” la mia voce non è sprezzante, ma sincera, perplessa. Sono fuori luogo, devo sembrare una vera stupida agli occhi dei ragazzi del tavolo Dodici. 
  “Gil…” mi dice infine. S’inchina ai miei piedi, attira l’attenzione anche degli altri clienti del ristorante, una coppia sta per entrare e si ferma sulla soglia a guardare. Tutti ci guardano, anche la direttrice di sala con gli occhiali anni Sessanta. Che prova da grande attore, idiota. “Vorresti cortesemente accettare il mio invito, uscire con me per una birra? Dimmi a che ora finisci.”
  Silenzio.
  “Alle sei.” cedo senza neanche rendermene conto.
  “E allora portaci cinque caffè americani e una bottiglia di sambuca, Gil. Ci vediamo alle sei.” 
  Rimasi immobile, i commenti di tutti, partì addirittura un cenno di un applausi. I ragazzi del tavolo Dodici riaccolsero Julian tra di loro con fare camerata. Fantastico Julian, nessuna ti resiste. Ma perchè questa cameriera, puoi fare di meglio, molto meglio. 
  Lascio l’ordinazione al bar, torno a fare il giro dei tavoli, la paffuta donna con gli occhiali con la montatura anni Sessanta mi guarda, non dice niente anche se vorrebbe. Cerco di non guardare Julian, ma continuo a guardarlo. Continua a parlare al suo tavolo, agitando le sue mani macchiate di inchiostro. Vedo che gli hanno concesso la sua bottiglia di sambuca, il cui contenuto continua a versare nel suo bicchiere. Per un attimo lo immagino ubriaco che sfascia tutto il locale, ed io che provo a spiegare che non è un mio amico, che non è nessuno e che non è colpa mia se è un irresponsabile ubriacone che ha deciso di demolire un ristorante. Fortunatamente non succede niente del genere, comunque. Quando se ne va, Julian mi saluta con la mano. A dopo mima con le labbra. Ed esce sbattendo la porta a vetri del ristorante, attira qualche sguardo e sparisce nel bianco paesaggio. Ricambio il saluto e realizzo che sto per uscire con uno dell’istituto Le Rosey. 
  Sono le sei quando mi guardo allo specchio. Sono nello spogliatoio destinato allo staff del ristorante, osservo il mio viso anonimo e stanco, i miei capelli sfibrati e senz’anima. Già vedo il fallimento della serata. Casablancas che mi aveva invitato ad uscire solo per continuare il suo spettacolo davanti agli altri, passa il tempo in silenzio a fissare una birra, guarda me, Julian, guarda me almeno una volta, penserò io. Lui desidererà qualcosa di più pesante della birra che finirà in fretta, per poi salutarmi educatamente, e mi lascia, senza farsi più vedere. 
  Mi tolgo il grembiule, esco dallo spogliatoio, mi ritrovo in sala e lo vedo lì, sperduto nell’ingresso che osserva le foto sulla parete. Appendono su quella parete le foto di attori, cantanti più o meno famosi che si fermano alla stazione sciistica e mangiano al ristorante. Le avevo guardate anche io quelle foto, riconoscendo a mala pena un paio dei volti raffigurati. Raggiungo Julian, infilandomi il giaccone di mia madre, quello che odora del concerto dei Rolling Stone
  “Perchè mi hai invitato ad uscire, Julian?”
  “Ciao…” dice lui, e sembra sinceramente sorpreso della mia domanda. “Perchè voglio prendere una birra con te, o una qualsiasi altra cosa, se tu hai davvero un problema con l’alcol.”
  “Non ho un problema con l’alcol.” ribadisco. 
  “Allora è perfetto.” 
  Lui odora di sigarette scadenti, perchè non ti puoi comprare delle sigarette decenti, Casablancas?, la sua pelle trasuda la sambuca che s’è bevuto questa mattina. Sono brava con gli odori, e Julian odora di disastro, ha l’odore che aveva mio padre quando se n’è andato per sempre. 
  “Dove andiamo?” chiedo io. Lui apre la porta e lascia che esca prima io. 
  “Non ne ho idea, non conosco questo posto. Dimmi tu.” 
  Camminiamo sulla neve senza meta. 
  “C’è un solo bar nel mio quartiere, ma non so se…” sto per dire ma non se uno come te lo farebbero entrare, poi guardo Julian e mi convinco che di ricco ragazzino viziato non ha proprio niente. Porta ancora quelle Adidas luride e la sua giacca di pelle troppo stretta, sembra un patinato Sid Vicious, con la bocca chiusa potrebbe passare inosservato mi dico. 
  “Ma non so se…?” 
  “Niente, andiamo.”

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Capitolo 5
*** Quarto Potere ***


  Julian parla di tante cose prima che io lo porti al Quarto Potere, squallido e unico bar del quartiere delle case popolari. Ogni tanto ci suona qualche band mai sentita nominare, la musica è così pessima che si preferirebbe l’imbarazzo del silenzio. Mi dice che non tornerà a New York per le vacanze, è newyorkese doc e il suo accento non è camuffato, perché suo padre è non so dove a fare non so cosa e sua madre è in viaggio per salvare gli orfani di non so quale paese. Ha due fratellastri e una sorellastra e vorrebbe essere il più figo della famiglia, facendo qualcosa di più che scegliere un campo dove investire i soldi. Parla di un mondo che non mi appartiene e che non capisco, mi limito ad annuire e segretamente spero che passeremo il resto della serata a baciarci timidamente su un tavolo in un angolo buio, perchè non saprei tenere una conversazione con lui, di nessun tipo. Mi domando se lui ne sia consapevole. Non fa commenti sul bar deserto e malinconico, lo apprezzo. Un paio di operai concludono la loro giornata silenziosi sul bancone, un paio di studenti, nati nelle case popolari ma aspiranti a qualcosa di meglio, che sono tornati a casa per Natale commentano su quanto sia fantastico il mondo fuori da quel bar. Tendo un’orecchio alle loro conversazioni. 
  “Allora questo è il tuo famoso quartiere.” dice Julian interrompendo i miei pensieri. 
  “Il lato povero del lago, non c’è niente di più che le palazzine popolari e questo bar.”
  “E ci sei anche tu.” ha già finito la sua prima birra, e non conto quelle che vengono dopo. 
  “E ci sono anche io.” confermo. 
  “Cosa fai nella vita, Gillian Gessner?” riesce a mala pena a pronunciare il mio nome. Gli sorrido perchè credo sinceramente che stia facendo di tutto per sembrare gentile, vorrei dirgli che non deve, può lasciarmi andare, che il nostro incontro non deve essere per forza memorabile.
  “Lavoro dove mi hai incontrato, a volte pulisco le stanze degli alberghi.” 
  “Mi piacciono gli alberghi.”
  “Che vuoi dire?”
  “Vivo in un albergo, quindi direi che mi piacciono.”
  Lo guardai come si guarda una scena madre di un thriller, aspettando il primo colpo di una sparatoria. Vorrei chiedergli delle spiegazioni, ma rimango a guardare mentre beve la sua birra. Sul nostro tavolo si accumulano i bicchieri che svuota ad una velocità incredibile. “Almeno…” precisa, “… vivo in un albergo quando sono in Svizzera. A mio padre non piacciono i campus, pensa io possa mandarli a fuoco, uccidere qualcuno perché non mi fa dormire, cose del genere.”
  “In che albergo vivi?”
  “Al Westfield, dalla parte opposta del lago.”
  “Potrei aver pulito la tua camera. L’estate scorsa ho lavorato lì.”
  “Ti auguro di no.”
  Scoppio a ridere, la birra mi scalda lievemente e comincio a sciogliermi e lasciarmi andare all’allegro ritmo tutto americano che Julian porta con sè, mi sorride spesso e quando arrivo al fondo del mio bicchiere finisco per ricambiare, qualche volta. 
  “Mio padre è così, capisci? Si aspetta da un momento all’altro che combini un casino. Per questo sono qui, letteralmente dall’altra parte del mondo. Il Le Rosey è fatto per questo, è una prigione per teppisti ricchi, mascherato da college prestigioso. Ieri sera dovevi sentirlo. Julian, ti prego, dimmi che non l’hai buttato tu quel ragazzo nel lago, ti prego giurami che non è così. Ed io che cercavo di dirgli che non aveva capito proprio un cazzo. No, papà! Non ho buttato nel lago quel ragazzo, tutt’altro cazzo, sarebbe morto congelato se non fossi rimasto.
  In qualche modo tutti sembravano credere che Gary fosse finito nel lago per uno scherzo finito male e non perchè si fosse comportato in modo completamente stupido. 
  “Perchè siete rimasti solo tu e Alex?”
  “Se Gary fosse morto, il nome dei ragazzi presenti avrebbe fatto il giro del mondo e sarebbe stato un bel casino per tutti. Vuoi un’altra birra?” non aspetta neanche una mia risposta che è già andato a prenderla. Torna trionfante con due birre scure, ondeggiando con il suo passo ubriaco. Ha già cominciato a blaterare, straparlare. Conduce da solo una conversazione altalenate, rivela i pensieri annebbiati di chi sta per svenire sbattendo la testa sul pavimento. Agita le mani quando parla, ride a sproposito e ci sono attimi in cui s’oscura e sembra sparire. 
 “E insomma, forse sarei dovuto andare via anche io, lasciare che fosse Alex a tirare fuori Gary. Ma se l’avessi fatto oggi non sarei qui con te. In questo bar meraviglioso.” dice lasciando le birre sul tavolo, una per me e una sè. Preferisco le birre chiare, ma non è questo che voglio dirgli. 
  “Non devi fingere che ti piaccia il bar o che ti piaccia io.”
  “Ma mi piace il bar.” ci stiamo trasformando in una di quelle patetiche coppie che si ritrovano in tutti i film americani: lui fa gli occhi dolci a lei, lei l’asseconda, lui comincia a bere troppo ma proprio perchè ha bevuto troppo dice qualcosa di magico, che non potrebbe dire da sobrio. Prego perchè non faccia niente del genere quando si sporge verso di me. “E mi piaci anche tu.” 
  Sarebbe il momento in cui lui bacia lei, immagino quel bacio e ci vedo tristi e senza la passione cinematografica che Casablancas porta invece con sè senza fingere. Non sono la ragazza per lui, e non potrebbe essere il momento migliore per dimostrarlo. Aspetto che lui mi baci, ma non lo fa. Cade invece per terra con un tonfo, completamente ubriaco, gli occhi profondi e persi nei vortici alcolici che si trascina dietro da stamattina. E poi sarei io ad avere un problema con l’alcol. Scoppia ridere come un selvaggio, attirando lo sguardo del barista, il povero signor Waltz, e dei pochi presenti. Julian Casablancas attira sempre tutti gli sguardi. Fa per rialzarsi ma non ci riesce. Mi chino verso di lui. 
  “Cazzo…” dice. 
  “Alzati, Julian… Usciamo di qui, ci guardano tutti.”
  “Sì, è che mi gira la testa.” appoggia una mano sul tavolo, ondeggia appena. 
  “Gil…” questo è il signor Waltz che mi chiama dal bancone, sta pulendo i suoi bicchieri. Mi conosce da sempre, e mi ha visto diventare un’assidua frequentatrice del Quarto Potere quando ero una quindicenne e sapevo apprezzare la compagnia degli altri ragazzi delle case popolari, così come la musica scadente. “Non vogliamo ubriachi qui, lo sai.”
  “Lo so, lo so. Ce ne stiamo andando.” prendo Julian, lasciando che il suo braccio s’appoggi alle mie spalle, mi rendo di quanto ridicoli sembriamo. Julian sbatte contro una sedia facendola cadere. Socchiudo gli occhi sperando che non dica niente di troppo stupido, di quella stupidità donata dall’alcol che è irritante più che divertente. Per fortuna, rimane in silenzio. Siamo quasi fuori quando entrano tre ragazzi nel bar. Uno di loro è Hans, gli altri di quelli che si conoscono dalle elementari e che si continuano a salutare educatamente per strada, senza ricordarne il nome. Naturale che sia Hans, non c’era altra persona che potessi incontrare in questa situazione. Cazzo. E siamo troppo vicini per non riconoscerci, troppo perchè io possa abbassare lo sguardo e sfuggire come al solito.
  “Gil…” dice lui. Muore dalla voglia di chiedermi chi è lo stravagante individuo che sto trascinando fuori dal bar, il nostro bar, ma non vuole sembrare geloso. 
  “Ciao, Hans.” dico io. Muoio dalla voglia di mostrare Julian Casablancas come un trofeo, la prova che posso avere un compagno, un amante, che non sia Hans, il fidanzatino che secondo i vicini, mia madre e quella di Hans avrei dovuto sposare a vent’anni. E sarebbe meraviglioso se solo Julian non si presentasse come un caso disperato e patetico. Julian è ancora appoggiato su di me, a stento lo sorreggo, la sua altezza mi è di intralcio e i suoi passi sono lenti e incerti.
  Appena fuori dal bar cadiamo nella neve. 
  “Cazzo, cazzo…” continua a ripetere lui. Ci guardiamo per un attimo, assicurandoci che non ci siamo fatti male. Julian Idiota Casablancas, alzati penso mentre lo tiro per il braccio, cercando di rialzarlo. 
  “Aspetta, Gil, aspetta.” mi ferma. 
  “Cosa?”
  “Sto per vomitare.” la sua faccia non lascia dubbi.
  “Fantastico.” gli lascio il braccio, lasciando che provi a rialzarsi scivolando nella neve, per poi rinunciarci del tutto. 
  “Lasciami qui.” è la sua sentenza.
  “Ho già impedito ieri sera a un ragazzo di Le Rosey di morire congelato, sta diventando un’abitudine. Coraggio, alzati.” lo aiuto a rialzarsi di nuovo. “Ti porto alla fermata dell’autobus. Riesci a contare fino a cinque? Devi fare cinque fermate. Julian, ascoltami.” non mi ascolta. 
  “Quando passa l’ultimo autobus?”
  Guardo l’orologio. Cazzo. 
  “Mezz’ora fa.”
  “Grandioso.” 
  “Non hai una macchina? Sei ricco sfondato, come fai a non avere una macchina?”
  “Ce l’ho una macchina, ma è ancora al lago.” la sua voce è una sequenza di lamenti ubriachi, e non lo sopporto. Mi rivedo com’ero con Hans, mano nella mano a passeggiare guardando il tramonto riflesso nell’acqua e baciandoci al chiaro di luna dopo un concerto al bar. Non funzionava più perchè tutto era diventato monotono, cristallizzato, in una maledetta routine. Mia madre ingrassava ed io mi costringevo a diventare la moglie di Hans, ma ero troppo giovane, sono troppo giovane, e ancora spero di poter girare il mondo con uno stipendio da cameriera e una madre obesa chiusa in casa. Adesso vorrei che Hans fosse uscito dal bar per aiutarmi con Julian, ma non l’avrebbe fatto perchè sono stata piuttosto stronza con lui ultimamente. 
  “Ce l’hai un divano per me?” chiede infine Julian, interrompendo i miei pensieri. 


  

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Capitolo 6
*** Casa Mia ***


 Ciao ragazzi. Cose veloci. Grazie mille per le vostre recensioni, ricambierò piano piano tutto. Purtroppo esami, amici che stanno pubblicando libri e mi mandano altre cose e viaggi mi impediscono di fare di EFP una priorità. A presto!

  S’appoggia a me mentre facciamo i tre piani di scale che sembrano infiniti per arrivare all’appartamento nel quale ho sempre vissuto e dove non ha messo piede nessun estraneo che non fosse Hans, e lui non si può neanche considerare un estraneo. Julian cade, più volte. E le sue cadute risuonano per i piani della silenziosa palazzina. Cerco di sollevarlo, ma è lui a decidere. 
  Ancora un piano, cazzo. 
  Entriamo il più silenziosamente possibile in casa, ma i passi di Julian sono pesanti e i miei si trascinano sul pavimento. Mia madre è abbandonata sul divano con il telecomando in mano e la televisione non più sintonizzata. Il grigiume frizzante dello schermo illumina la stanza. Mia madre aveva passato la sera prima a preoccuparsi pensando che fossi scappata per sempre, e ora dormiva senza aspettarmi. L’ho odiata per un attimo, solo perchè ti ho assicurato che non me ne sarei andata, non significa che sia vero. Odio me per quello che sto pensando. Realizzo che Julian avrebbe visto mia madre, non subito perchè è troppo ubriaco per notare qualsiasi cosa, ma l’avrebbe vista appena sveglio. Non voglio che la veda, enorme e triste, chiusa in casa e borbottante. Mia madre rappresenta una parte di me, la più imbarazzante, la più segreta che nessuno deve conoscere. Sono passati un paio d’anni da che Hans non mette piede in quest’appartamento, un paio d’anni da che qualsiasi essere umano che non sia io mette piede in quest’appartamento: e due anni sono stati abbastanza per permettere a mia madre di raddoppiarsi, e i suoi preoccupanti cento chili sono diventati duecento, e la sua immobilità parziale è diventata totale. 
  “Di qua.” dico a Julian sottovoce indicando la porta della mia camera. 
  Siamo in camera mia, finalmente lascio andare Julian sul letto, con il suo peso fa cigolare le molle del materasso. É sveglio, ma è come se non lo fosse. Si contiene le tempie doloranti. Sembra trovarsi a suo agio, si appropria del cuscino e non fa domande. Vado in bagno e mi guardo allo specchio, le occhiaie scavate dalla stanchezza, dal lavoro e da Julian Fucking Casablancas. Solo un’altra fottuta complicazione che s’è presa il mio letto. Esco dal bagno con una maglietta dei Rolling Stone che mi arriva alle ginocchia, un pigiama che odora di sonno arretrato e di film da weekend. Trovo lo spettacolo pietoso di un Casablancas abbandonato al sonno, con addosso la sua giacca di pelle troppo stretta e le sue Adidas luride. Gli sfilo le scarpe, che lascio cadere sonoramente sul pavimento. Non voglio pensare a mia madre, a Julian che la vedrà quando si sveglierà ondeggiante e alcolico non ricordando neanche dove si trova, non voglio pensare all’americano al fianco del quale mi concederò un sonno senza sogni. Mi stendo al suo fiancovedo le sue palpebre chiuse e le narici che si allargano al ritmo del suo respiro sento il suo odore e Julian Casablancas, odori proprio di disastro.
  Mi sveglio rannicchiata in un letto vuoto, realizzo in fretta che Julian non c’è. Già lo immagino al ristorante dove lavoro, con il suo gruppo di amici entusiasti dei suoi racconti, lo vedo che descrive il mio appartamento umido e grigio, lo sento che prende in giro mia madre e mi indica. Sua madre, è una cazzo di balena, dovete credermi, anche se ci sarebbe da non crederci. Non esce di casa da dieci anni perchè è troppo enorme. Potete crederci? Mi infilo i jeans più in fretta che posso, voglio fermarlo, impedirgli di fare della mia vita un altro dei suoi inutili show. Afferro il mio giaccone e mi precipito nell’altra stanza. 
  “Gil.” mi saluta lui. 
  É seduto per terra, mia madre lo guarda dall’alto, ancora seduta sul divano come l’avevo lasciata la sera prima, ma è sveglia, allegra come non la ricordo da troppo tempo. Sorridono entrambi come se fossero appena scoppiati a ridere e io li avessi interrotti. Julian ha in mano una ciotola di cereali annacquati in un latte che spero non sia scaduto. Sta facendo colazione. Sta facendo colazione con mia madre. E non c’è niente sul suo volto, né la superiorità buonista di chi dentro di sè pensa Sto facendo una buona azione perchè sto parlando con una balena svizzera senza ridere, né il disgusto che avevo visto nella mia fantasia di lui che parlava di mia madre ai suoi amici. 
  “Grazie per ieri sera.” mi dice. 
  Accenno un sorriso imbarazzato.
  “Non c’è di che.” rispondo guardando mia madre, poi guardo Julian: i suoi capelli sono unti e spettinati, ha uno sguardo distrutto. 
  Perchè mia madre non è arrabbiata? Perchè non mi sta guardando come si guarda una figlia che ha appena portato a casa un americano ubriaco? Ora mia madre starà pensando che Julian sia un fidanzato, una cosa del genere, forse non è arrabbiata perchè sa già quanto è ricco, forse già è felice per un amore fortunato che ci porterà lontano dalle case popolari. 
  Due cucchiaiate voraci e Julian ha finito la sua ciotola di cereali. Pensavo che gli studenti del Le Rosey non mangiassero cereali. Si alza da terra con la sua ciotola. Non ha niente del traballante Julian Casablancas che si trascinava passo dopo passo e che era affondato nel mio letto come se non dovesse più riemergerne.  
  “Dia a me.” dice a mia madre prendendo anche la sua. 
  “Grazie, Julian.” risponde lei. 
  Julian va in cucina, comincia a sciacquare le tazze con la confidenza casalinga che non avevo potuto vedere in nessun altro. Lo seguo. 
  “Cosa stai facendo?” gli chiedo, sottovoce perchè mia madre non possa sentirci. 
  “Lavo queste ciotole.” mi risponde lui, semplicemente. 
  “Intendo con mia madre, cosa stai facendo con mia madre?” mi scaldo.
  Mi guarda come se non sapessi di cosa io stia parlando, come se desse per scontata quell’intimità che sembra farlo muovere in casa mia. Sento il volume della televisione che si diffonde nell’appartamento, è mia madre che comincia la sua giornata fatta di programmi televisivi e cibi scadenti.
  “Io adesso me ne vado.” conclude, deluso della mia reazione poco gentile.
  “Cosa le hai detto, Julian? Cosa hai detto a mia madre?” penso ancora al Julian che parla della mia patetica casa e della mia patetica madre ai suoi amici del Le Rosey, nel ristorante dove non posso neanche tenermi le mance. Non posso che essere arrabbiata con quel Julian. 
  “La verità, Gil. Non ti scaldare.” lascia le ciotole sciacquate nel lavandino, so che poi sarò io a rimetterle nella credenza. Senza chiedermi il permesso entra in camera mia, tira su le sue scarpe, le Adidas che sembrano sul punto di distruggersi da un momento all’altro. 
  “Quale verità?” divento ostile. 
  “La verità e basta, Gil.” s’infila la sua giacca di pelle, torna in soggiorno. Continuo a stargli dietro esasperata. Ignoriamo mia madre, incollata alla televisione. “Che abito dall’altra parte del lago, che siamo usciti insieme e che sono stato male.” chiarisce sussurrando. 
  Non aspetta un congedo formale e esce di casa. Mia madre lo vede uscire e pronuncia un gentile Ciao, Julian, torna a trovarci. E l’aveva detto con tutta la sincerità che c’era da aspettarsi. M’erano bastate meno di ventiquattro per trovare mia madre, timorosa dell’esterno e delle persone, che invitava a tornare a trovarci niente poco di meno che Julian Casablancas. Continuo a seguire Julian, giù per le scale, è più veloce di me. 
  “Che eri completamente sbronzo glielo hai detto?” 
  “Non c’è bisogno di fare così, Gil.”
  “Julian, fermati…” gli imploro, e lui, incredibilmente si ferma. Siamo sulle scale del primo piano, m’aspetta. Ci guardiamo. “Giura che non lo dirai a nessuno.”
  “Cosa non devo dire a nessuno?”
  “Di mia madre?”
  “Di tua madre cosa, Gil?”
  “Di mia madre, del fatto che è enorme.”
  “Enorme?” chiede come se non l’avesse notato.
  “Giuralo, giura che non racconterai a nessuno di mia madre.” cerco di trattenerlo.
  “Lo giuro.”
  “Grazie.”
  “Dovresti voler bene a tua madre.”
  “Gliene voglio. Ma non è facile, e tu non puoi capire.”
  “Perchè non posso?”
  “Beh, perchè non hai idea di cosa significhi volersi male tanto da diventare così.”
  “Tua madre è ok, Gil.” si volta e continua a scendere le scale. 
  “Ciao, allora.” dico io.
  “Ciao.” dice neutro, gira l’angolo e sparisce. 
  Mi sento una stupida perchè Julian sembrava davvero a suo agio con mia madre, e non so perchè ho pensato che la sua presenza potesse farle del male, gli avevo fatto giurare una cosa che probabilmente non avrebbe fatto comunque. Torno in camera mia e sento il suo odore, birra del Quarto Potere, inchiostro e la sua aria disastrosa e euforica tipica del solo Julian Casablancas. Penso che adesso tornerà al suo albergo e si farà una doccia cercando togliere l’alcol dalla sua pelle, forse dormirà meglio di quanto abbia dormito qui. Mi butto sul letto ancora disfatto e sento la sua presenza sulle lenzuola. Mi sento in colpa e non so neanche perchè, di Julian Casablancas non me ne importa proprio niente. 


 

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Capitolo 7
*** Un'auto d'epoca ***


  Di Julian Casablancas non me ne importa assolutamente niente, ma sono all’istituto Le Rosey e mi muovo per il labirintico cortile tra gli studenti. Le lezioni sono sospese per le vacanze ma sono comunque tutti lì, a fumare spavaldamente contro i muri. Hanno alcuni libri in mano quasi a dire Hey, siamo qui a studiare sodo, e ridono energicamente per qualsiasi cosa, con le loro sciarpe blu e le loro giacche bianche. Si direbbe siano le comparse di un film ambientato in college inglese. Cerco Casablancas perchè negli ultimi due giorni non ho fatto che pensare a quanto sono stata stronza con lui, che con ogni probabilità non desiderava altro che rimediare alla pessima figura e al fatto che l’ho aiutato a salire tre piani a piedi, completamente ubriaco con alito di zolfo e paprika. 
  Non ho idea di come io possa trovare Julian, né cosa possa dirgli una volta trovato. Forse potrei proporgli di guardare un film insieme, un silenzio davanti a un film può risolvere qualsiasi cosa. Mi guardo intorno non riconoscendo nessuno, neanche uno dei ragazzi del bar. Potrei passare per una studentessa forse, se non fosse per la mia aria smarrita e non oso neanche entrare all’interno dell’edificio. Ricordo di aver sognato Julian la scorsa notte, mi baciava e poi mi spingeva nel lago ghiacciato, poi mi salvava come aveva salvato Gary Simmons, mi baciava nuovamente e mi ributtava nel lago ghiacciato. Non ricordo com’era il bacio, ma essere gettata nel lago ghiacciato era terribile. 
  Vedo Gary Simmons, sembra essersi ripreso del tutto. Il suo volto non è per niente bluastro e rigido come l’avevo conosciuto e ricordato. Voglio andare da lui, chiedergli di Julian, per un attimo dimentico che non ha idea di chi io sia. 
  “Ciao.” gli dico. Lui mi guarda stranito. 
  “Ciao.” risponde imbarazzato, e sparisce tra le giacche bianche di un gruppo di altri studenti. 
  Fantastico. Mi sto per rassegnare quando sento qualcosa, qualcosa di familiare. Una melodia appenna accennata, una chitarra acustica che si eleva sopra il blaterare dei ricchi e viziati studenti de La Rosey. Noto Julian seduto di spalle su un muretto che dà su un roseto dalla bellezza spenta dal freddo. Somewhere along the way my hopefulness turned to sadness. Somewhere along the way my sadness turned to bitterness. Somewhere along the way my bitterness turned to anger. Allungo una mano, vorrei che si voltasse, che mi guardasse e mi sorridesse come se l’ultima cosa che mi avesse detto non fosse un Ciao di rabbia e delusione, come se non fossi stata solo una ragazzina delle case popolari che non sa cosa sia l’educazione, che è aggressiva e irascibile esattamente come ci si aspetterebbe. Gli tocco la spalla. Lui si volta, mi sorride. 
  “Guarda guarda chi si è infiltrata al Le Rosey.”
  “Ciao, Julian.”
  “Ciao, Gil.”
  “É tua la canzone che stavi suonando?” dico la prima cosa che mi viene in mente.
  “Spero di sì.” sorride e mi ricordo improvvisamente com’era il bacio del sogno della notte appena passata: sapeva di sigarette scadenti ed era come Julian, trasandato e un po’ triste, un’esperienza d’euforia turbolenta. Mi chiedo come ho fatto a dimenticare una cosa del genere. 
  “Mi piaceva la canzone che stavi suonando.”
  “Beh, non so suonare in realtà…” dice alzandosi, porta la chitarra con sè. 
  “Volevo scusarmi per l’altra sera, non volevo essere così… ostile” 
   “Non devi scusarti.” mi rassicura.
  “Vorrei avessimo avuto una normale serata al bar.”
  “Oh per me lo è stata, credimi.” 
  Oh per me non lo è stata, credimi. Le sue parole mi risuonano in testa e lo immagino svenuto ogni sera in un bar diverso della piccola Svizzera. Prima straparlante e euforico, poi disteso su un pavimento sporco, ignorato da tutti. Julian legge i miei pensieri sul mio viso. 
  “Scherzavo.” mi dice. 
  “Ho visto Gary, era qui.” cambio discorso. 
  “Sì, non mi parla più. Sembra convinto che sia stato io a buttarlo nel lago. Fortuna che tu e Alex avete visto come sono andate le cose.”
  Tutti sembravano convinti che Julian potesse buttare qualcuno nel lago.
  “Alex, come sta?”
  “Se ne è tornato in Scozia. Vuoi fare un giro in macchina con me?”
  Fece quella proposta improvvisa, la cosa più naturale da dire quando si comunica che un tuo amico se ne è appena tornato in Scozia. Realizzo in questo momento che Alex è scozzese: il suo accenno di barba incolta rossastra e il suo accento che si liberava nella sua voce quando s’agitava. 
  Mi ritrovo nell’auto di Julian Casablancas, verde bottiglia, una vecchia e apparentemente ridicola MG che guidava sicuro lungo l’autostrada. Mi chiede se c’è un posto che desidero raggiungere, ma lo prego solo di premere l’acceleratore e di partire, la nebbia e la neve rendono indistinguibile qualsiasi paesaggio, mi basta sentire la velocità sotto i miei piedi. I brividi che di certo non può dare un autobus che fa il giro del lago ogni sera. Rimaniamo qualche attimo in silenzio, il vento s’infiltra nella vettura, i nostri sguardi si incrociano complici nello specchietto. Ci tradiamo in un sorriso. 
  “Mi sarebbe dispiaciuto se le cose fossero finite così.” dice Julian.
  “Anche a me, tanto.”
  “Allora perchè siamo stati così stronzi?”
  Ride libero, e quasi non mi accorgo che mi poggia una mano sul ginocchio. Sento il palmo largo e le sue dita stringere appena attraverso i jeans. Mi guarda per un pericoloso lungo attimo, brama un mio consenso. Quell’auto mi fa sentire in un film degli anni Cinquanta. Possiamo essere due amanti in un’auto d’epoca, certo che possiamo, Julian. 
  Mi piacciono le sue mani, il sorriso che continuamente non riesce a trattenere, i capelli che sembrano testimoniare una dura battaglia notturna con il cuscino, da cui Julian ne esce perdente tutte le mattine. Mi piace il fatto che Julian sia ricco, non so ancora per quale strana causa regalata dalla sorte, ma che si vesta come se fosse appena sfuggito da un pub della periferia di Londra, mi piace il suo accento alla Bogart, autentico. Improvvisamente mi piace tutto di Julian, così come il fatto che dedichi uno sguardo alla strada sempre dritta per qualche chilometro e uno a me, mi bacia con la sicurezza di un ragazzo americano. Ci sporgiamo appena, uno verso l’altro. Non esita a cercare la mia lingua. Vorrei che fermasse l’auto e mi prendesse il viso con entrambe le mani per continuare a baciarmi. La sua mano sale lungo la coscia. 
Interrompe il bacio, la macchina continua a sfrecciare nella nebbia. 
  “Ti faccio vedere casa mia, ti va?” chiede.

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Capitolo 8
*** Casa Sua ***


 
  Tiene la mia mano mentre percorriamo i corridoi del Westfield Hotel, ci accompagna una felicità euforica, i suoi sorrisi contagiano i miei, ci baciamo fermando il tempo e poi proseguiamo fino alla sua camera. Apre la porta e mi fa entrare con fare da galantuomo: “Prego, signorina.”
  La sua camera è invasa di luce bianca, pulita e neutra. Il disordine di vestiti sparsi sul pavimento, una bottiglia di Jack Daniel’s abbandonata ai piedi del letto. Non c’è nulla che già non sappia di Julian Casablancas in quella stanza, ma ancora non so niente di lui. Chi sei Julian? Dimmi che non sei il ragazzo che mi complicherai una vita già complicata, perchè è esattamente quello che stai facendo. Ridiamo mentre ci baciamo ancora, continuiamo a ridere baciandoci. Siamo ridicoli e bellissimi, completamente aromantici. Penso alle mille domande che gli vorrei fare: Com’è tua madre? Com’è tuo padre? Com’è casa tua, la tua vera casa? Chi sei, Julian? Sento improvvisamente pesante il mio giaccone che sa di Rolling Stone, il mio odore che si fonde con il suo, odore di viaggi oltreoceano, vestiti troppo larghi o troppo stretti, di scarpe da ginnastica mai lavate, canzoni sussurrate e nascoste, un animo trasandato e positivo. Desidero le sue mani, che si intrecciano con le mie. 
  “Scusa per l’altra sera.” mi bacia. 
  “Scusa per l’altra sera.” lo bacio io. 
  Ci guardiamo in silenzio, conquistati dalla nostra nuova complicità, improvvisa, timida e discreta. Poi ci buttiamo sul letto, le mani sul ventre e lo sguardo al soffitto. Scopro che piacciono anche a me le camere d’albergo, non per pulirle, per viverle. Voglio baciarlo di nuovo, scoprire la forma della sue scapole e affondare il viso nella piega del suo collo. Voglio conoscerlo, potergli fare almeno una delle mille domande che vorticosamente s’accumulano in testa. 
  “Parlami di te, Julian.” continuo a guardare il soffitto. 
  “Cosa vuoi sapere?” anche lui continua a guarda il soffitto. 
  “Di cosa parla quella canzone, quella che suonavi?”
  “Non è una canzone. Ho scritto solo un paio di versi, quelli parlano di mio padre, del fatto che mi delude e mi rende inquieto, poi arrabbiato, poi non lo so ancora… Sai cosa voglio dire? Somewhere along the way my hopefulness turned to sadness. Da qualche parte lungo la strada, la mia speranza si trasforma in tristezza. I versi che verranno dopo forse parleranno d’altro, forse parleranno di te.”
  “Non scrivere di me, Julian.”
  Mi avrebbe catturata in una canzone che avrebbe canticchiato una volta tornato a New York, magari in un’altra metropoli, avrebbe preso la sua chitarra e cantato quei versi che non avrebbero significato più niente, perchè io sarei rimasta in questa dannata Svizzera. 
  “Scrivo di quello che mi pare, Gil.”
  É su di me. Mi bacia, le nostre lingue si scontrano. Non c’è il riguardo e la gentilezza dell’amore di Hans. Non so neanche se sia amore. Il mio giaccone cade per terra, lui si sfila la giacca di pelle troppo stretta, sento le sue mani suoi miei fianchi, ci stringiamo e baciamo come se volessimo divorarci. Non ci sono le premure dei bravi ragazzi che non vogliono correre e che ti chiedono se tu sia pronta. Non voglio niente del genere, comunque. Le mie mani scivolano sul suo collo, sento le mie pupille dilatarsi e attendere pazienti. Gli slaccio i jeans, lui sfila i miei. Ci rigiriamo nelle lenzuola, interpretiamo la parte di due amanti spensierati, ci concediamo i sorrisi sereni di chi è esperto di sesso occasionale. I suoi occhi sono un caldo rifugio che si specchiano nei miei, vitrei come il lago ghiacciato. Entra dentro di me, lo stringo a me con una gamba. Non sfuggirmi, Julian, non adesso. É un ritmo di doloroso piacere, un modersi maliziosamente il labbro ad amplificare le sue spinte. Sento l’odore della sua pelle, che è come il mio: ci sono le sigarette scadenti, i Rolling Stone, l’alcol di un primo appuntamento andato male, la neve della stazione sciistica, la sua canzone. Le mie dita stringono le lenzuola. Sì, Julian. Non c’è timidezza tra di noi, accetto che accarezzi il mio corpo. 
  Sono su di lui, tiene i miei fianchi. I miei capelli si riversano sulle mie spalle, onde di libertà selvaggia, e ci è concesso di venire insieme, in un silenzio soffocato. 
  Cado al suo fianco, m’avvolgo nelle lenzuola. La sua pelle candida gli dà un’aria più innocua, Julian è finalmente privo dell’aggressività dal sembrare sempre un trasandato poveraccio.
  “Cazzo, Julian.” dico, libera. 
  “Cazzo, sì.” si infila tra le labbra una sigaretta. 
  “Questa mattina ti ho cercato solo per scusarmi di come ti avevo trattato, e adesso…”
  “É un bel modo di scusarsi.” sorride. 
  Scoppio a ridere. Quanto sei stupido, Julian. 

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Capitolo 9
*** Padri ***


Mio padre trasporta qualsiasi cosa, dal tonno in scatola ai computer destinati alle aziende, su grandi camion e furgoni lucidi di fabbrica. Mio padre spariva per giorni, perchè viaggiare su grandi veicoli da trasporto merci è il suo lavoro. Due anni fa mi portò a Londra con sè, nella grande, caotica e meravigliosa Londra, solo per tre giorni che furono i più belli della mia vita, semplicemente i più belli. Quando tornammo in Svizzera fui felice per un po’, anche la mamma sembrava felice, finché mio padre non uscì di casa per uno dei suoi viaggi senza più tornare. Ho smesso di aspettarlo. 
  “Forse gli è successo qualcosa, qualcosa di grave intendo.” dice Julian. 
  “Continua lavorare, ci fa avere dei soldi. Usa la sua carta di credito, compra canne da pesca di buona qualità. Non fa altro che comprare canne da pesca. Abbiamo chiamato chiunque per cercare di rintracciarlo, quando sembrava l’avessimo trovato, lui spariva di nuovo, cambiava città. Semplicemente non vuole più avere a che fare con noi, non vuole più a vedere a che fare con me. Se ci fossimo conosciuti due anni fa, forse ti avrei detto che mi dispiaceva, oggi non lo so.”
  Ci passiamo uno spinello. Facciamo oziose gite in macchina quando finisco di lavorare, osserviamo le piccole luci cittadine che si accumulano ai piedi delle montagne, nell’oscurità notturna ci scaldiamo bevendo Jack Daniel’s. Julian beve ed esagera, esagera sempre. Facciamo l’amore nella sua MG d’epoca, ancora e ancora, ci amiamo finché i finestrini non diventano tutti appannati per freddo di dicembre. Scriviamo stupidaggini sui vetri opachi. Dormo nella sua camera d’albergo, mi sveglio con l’immagine di Julian Casablancas dormiente, sereno tra le pregiate lenzuola del Westfield. Corriamo tra i vicoli di Rolle, ridacchiamo calciando la neve. Ci chiamiamo stupido e stupida e facciamo lunghe chiacchierate sul nulla. Julian fuma, beve e mi desidera senza moderazione. 
  “Anche mio padre è sparito. Mi paga la stanza al Westfield, ma niente di più.”
  Suo padre non era scomparso, era solo lontano. Julian non lo capiva.
  “Quella notte, quando abbiamo tirato Gary Simmons dal lago, avevano chiamato tuo padre, ricordo che l’avevano fatto. Tuo padre c’è, Julian, è rintracciabile. Potresti parlarci quando vuoi.”
  “Forse non voglio, e non credo voglia neanche lui.”
  “Sei proprio uno stupido, Casablancas.”
  “Sono bloccato qui, no? 
  “Che vuoi dire?”
  “Che non posso tornare a casa, Gil. Mio padre mi tiene qui, in questa fottuta Svizzera.”
  “Vorresti tornare a New York?”
  “Ogni tanto.”
  Desidero che si corregga, che dica che vuole restare in Svizzera per sempre, perchè è qui che sono io. Io ti amo Gil, e resterò con te per sempre. Ma mi rendo subito conto che non siamo così, non ci dichiariamo amore eterno, e sappiamo entrambi che presto ci abbandoneremo. Julian a volte  mi viene a trovare al ristorante della stazione sciistica, mi solleva cogliendomi di sorpresa Eccola, la mia Gil. Non si vergogna di mostrare il suo interesse per me con i suoi amici. Lasciami, Julian, mettimi giù. Io rido e penso a lui tutto il giorno, ma non penserò a lui per sempre. Mi ha detto un giorno che sua madre era stata la donna più bella di tutta la Danimarca, aveva vinto un concorso nazionale di bellezza quindi la cosa era stata ufficializzata, e mi sento strana se penso a mia madre, incredibilmente grassa e bloccata sul divano. Immagino un incontro tra sua madre e mia madre, ridicolo. Niente di quello che condividiamo potrebbe mai funzionare.
  “Deve essere bellissima, tua madre.”
  “Lo è, tantissimo.”
 Ritorniamo al Quarto Potere, beviamo e ridiamo di tutto. Julian mi dice che dopo le vacanze frequenterà un corso di storia del teatro, sorrido perché non ha l’aria impostata che avrebbe uno studente che ama questo genere di cose, è troppo americano persino per questo. Non mi curo di quante birre ha bevuto, la sua testa ciondola sul tavolo, mi guarda senza interesse, si sforza di mantenere la conversazione. Mi sento una stronza perchè dovrei desiderare che smetta di bere, che non si distrugga il sangue a forza di bere alcol, ma non desidero niente del genere. Mi piace Julian e basta, ed è anche per questo che mi rassegno al fatto che non siamo fatti l’uno per l’altra. Vorrei così tanto desiderare di salvarlo, di cambiarlo, di amarlo per quello che potrebbe essere senza l’odore di disastro che si porta dietro come un’ombra, ma io non sono così, noi non siamo così. 
  “Andiamo a casa, Jules?” lo chiamo Jules senza neanche rendermene conto, un diminutivo intimo che non ho mai sentito usare da nessun altro. L’ho fatto mio. 
  “Intendi a casa tua?” dopo quella volta non ha più dormito a casa mia. 
  “Sì, a casa mia. A dormire.”
  Annuisce distante. Si rende conto del fatto che il fatto che gli permetta di dormire a casa mia non sia qualcosa che concedo facilmente. Avrei almeno evitato che guidasse ubriaco, l’avrei stretto a me come se non volessi lasciarlo andare, il volto appoggiato sulla sua schiena, ci saremmo abbandonati esausti sulle molle cigolanti del mio letto. 
  “Andiamo, allora.” 
 Alzandosi Julian fa cadere uno dei bicchieri vuoti che erano abbandonati sul nostro tavolo, uno scroscio di mille schegge di vetro attira l’attenzione di tutti. É sabato sera, il bar è pieno di operai stanchi e ragazzi che non hanno dov’altro andare. Un solo fottuto locale in tutto il quartiere. Noto Hans, gli stessi amici con cui era entrato l’altra sera, lo stesso sguardo orgoglioso: vorrebbe chiedermi come sto, chi è lo straniero che mi porto al nostro bar. Ci guardiamo, ci riconosciamo ancora. S’appoggia ad una stecca da biliardo, lui e i suoi amici hanno conquistato il tavolo più grande e tirano a turno esultando. Lui sorridi falsamente disinvolto. Lo immagino che si avvicina coraggiosamente e mi dice che siamo destinati a stare insieme: siamo due ragazzi delle case popolari, il nostro è stato il primo lungo amore per entrambi. Gil, ci saremmo sposati, sarebbe stato meraviglioso, perchè hai mandato tutto a puttane? Prima di Julian, me lo chiedevo tutti i giorni anche io.
  Prendo il viso di Julian e lo colgo di sorpresa, mi allungo sulle punte dei piedi e lo bacio. Perplesso, sento il suo sguardo guardarsi intorno. Un bacio passionale, esagerato. 
  “Per cos’era questo?” mi chiede.
  “Per te.”
  Non è vero, il bacio non era per Julian, era per Hans. Per dimostrargli stupidamente che non sono mai stata la ragazza che conosceva, che sono uno spirito libero, che non sono mai stata la sua Gil. Hans ci ha visti, so che ci ha visti, abbassa gli occhi grattandosi la testa, saturo di imbarazzo. Esco con Julian dal Quarto Potere, d’animo leggera come poche altre sere. 

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Capitolo 10
*** Non è Dio ***


  Fare l’amore con Julian nella mia stanza è qualcosa che mi ha fatta sentire sicura come nessun’altra cosa prima della scorsa notte. Le sue mani tremanti e alcoliche mi hanno presa, stretta, amata come nessun altro. Abbiamo riso incitandoci a fare silenzio, abbiamo graffiato la nostra pelle accolta dalle lenzuola, e ci siamo addormentati uno sull’altra, esausti e vuoti. Siamo aggressivi e arrabbiati quando ci amiamo, poi dormiamo, poi siamo allegri e volgari finché non ci spogliamo di nuovo. Non c’è nient’altro che desideri, tranne che tutto ciò non finisca mai. Conosco Julian da appena poco più di una settimana, e già temo la prossima estate, la sua partenza, e il suo inevitabile ritorno. Lo immagino così bene mentre rimette piede in Svizzera dopo un’estate a New York, cambiato, irriconoscibile, mi ha dimenticata, mi sorpassa senza notare la mia presenza. Gli accarezzo i capelli e mi sforzo a non pensare a queste cose, ma non ci riesco, mi addormento stringendo Julian a me perchè non sfugga, perchè non se ne torni a New York. 
  Mi sveglio e lui è ancora addormentato, di quel sonno leggero destinato a rompersi al primo rumore, un orecchio ad ascoltare i miei respiri. Julian, svegliati e fuggiamo e iniziamo l’anno nuovo in un posto che non sia questo. Fuggiamo e basta, Julian, svegliati. voglio dirgli, vorrei così tanto, e so che la sua risposta sarebbe un mugugnare stanco e affermativo. 
  “Julian, svegliati e fuggiamo.” gli dico.
  “Dove?” mi chiede, ancora gli occhi chiusi, immobile.
  “Dove vogliamo.” esito “Parigi.” propongo. 
  “Ci servono soldi per andare a Parigi.” 
  Sono delusa dal fatto che la sua risposta non è affatto un mugugnare stanco e affermativo. Julian è bloccato in questa fottuta Svizzera molto più di quanto lo sia io, bloccato dai soldi che è abituato ad avere e che non avrebbe in una ipotetica fuga con me, bloccato da un padre che lo vuole solo lontano, diplomato e lontano. Non me l’ha più detto, ma io so che Julian ama poter pensare che se tiene la testa bassa potrà tornare a New York. New York è tutto ciò che desidera. E a New York non c’è spazio per me.
  “Potremmo partire e basta.”
  “Devo finire l’anno al Le Rosey, Gil.”
  Deve finire l’anno al Le Rosey, naturalmente.  
  “Tuo padre ha un’agenzia di modelle, Jules.” gli dico stronza. Mi alzo, levandomelo di dosso con fare sbrigativo. Mi infilo i jeans lasciati cadere per pavimento la notte prima con più eccitazione di quanto non siano stati adesso raccolti. Non possiamo litigare, siamo troppo diversi per litigare, non ci capiremmo, ma possiamo evitarci per qualche ora. Dobbiamo evitarci per qualche ora, esattamente come devo andare a lavorare al ristorante della stazione sciistica. Mi infilo una felpa e vorrei solo non aver tirato fuori quella stupida storia di Parigi. 
  “Perchè tiri fuori mio padre, adesso?”
  “Niente. Volevo ricordarti che non è Dio.”
  Ci mettiamo le scarpe in silenzio, Julian raccoglie le sue cose, gli dico di sbrigarsi, sono in ritardo. Esce di casa con le sue Adidas slacciate, colto da brividi di freddo si infila la sua maglietta bianca mentre scendiamo le scale, infine la sua giacca di pelle troppo stretta. Penso che gli servirebbero dei guanti. 
  “Ti do un passaggio?” mi chiede indicando la macchina, la bella MG d’epoca che mi farebbe fare una figura che pochi avrebbero dimenticato. Immagino il mio arrivo alla stazione sciistica. Gillian, la piccola cameriera delle case popolari che arriva al lavoro a bordo di una MG.
  “No, prendo l’autobus.”
  “Okay.”
  Facciamo per andarcene freddamente. Ma sono pochi attimi prima che entrambi ci voltiamo, inevitabilmente attratti l’uno dall’altra.  Diciamo qualcosa, qualsiasi cosa, prima di andare.
  “Ci vediamo, dopo?” mi precede.
  “Sì.” dico pronta.
  “Fantastico.” sorride.
  Ci allontaniamo entrambi soddisfatti, trionfanti oserei dire. No, Julian. Non possiamo litigare.
  Ed è solo al suo sorriso che penso mentre giro tra i tavoli, mentre accolgo i clienti che non sembrano neanche notarmi. Sono invisibile, ma non per lui. Me lo vedo, spettinato che si veste di fretta scendendo le scale, la maglietta sgualcita e quel suo stupido modo di camminare, sicuro e sbilenco. Mi basta pensare al suo sorriso, per tradirne uno dei miei. Devo sembrare una vera stupida. Ricordo il suo inchino plateale al tavolo Dodici, l’inizio di tante cose proprio dove adesso siede un’innocua famiglia tedesca. Strano come è il tavolo Dodici a ricordarmi il primo incontro con Julian, il vero Julian, più di quanto non faccia la visione quotidiana del lago ghiacciato, che quella sera quasi ci aveva fatto assistere alla morte di Gary Simmons. La direttrice di sala, con quei suoi occhiali ridicoli, mi sollecita ad andare a destra e a sinistra. Svegliati un po’ ,Gil. 
  Le ore passano, i rumori si fanno ovattati e i movimenti come passati alla moviola, filtrati nei miei pensieri. Non vedo un film da una settimana, ne sento appena la mancanza. Immagino una commedia romantica americana su noi due, sorrido pensando alla notte appena passata. Sì, Gil, sembri proprio una stupida. Amo Julian nello stesso modo in cui si ama un’ispirazione, nello stesso modo infantile e passionale in cui si ascolta mille volte la stessa canzone, avrebbe potuto essere Paul Newman, un attore americano di cui non si fa altro che fantasticare per giorni, finché tutto non passa, naturalmente, e non fa male. 
  Sono le quattro di pomeriggio, la fine del turno, quando lo vedo attraverso la vetrata dirigersi verso l’ingresso. Una macchia che affonda passi nella neve. Mi sento innamorata, persa nei nostri ricordi condivisi, avida e bramosa di crearne degli altri. Si trascina dentro, come fosse distrutto. 
  “Julian!” lo saluto. Tra le labbra tiene una sigaretta ancora spenta che si toglie tremante dalla bocca, la mette in tasca facendomi un cenno. Ha un aspetto orribile, ben lontano dal ragazzo che avevo tenuto tra le braccia quella notte. Le occhiaie scavate e la pelle lucida. Che cazzo hai fatto, Julian? 
  “Julian, stai bene?” mi avvicino. 
  “Sì, sì…” 
  “Sei ubriaco.” concludo. 
  “Adesso passa.”
  “Julian…” non so neanche io cosa vorrei dirgli, forse volevo provare a litigare. Julian mi interrompe cadendo tra le mie braccia. Mi sfugge e cade sonoramente a terra. Un tonfo disperato. Due spasmi e le pupille bianche. Chiamo il suo nome, non mi sente. Svegliati, Julian, svegliati. Il signore del tavolo Dodici mi allontana, vuole aiutare, io piango, urlo e neanche me ne accorgo. Forse gli fa un massaggio cardiaco, forse capisce che Julian Casablancas è solo un ubriacone e non fa niente. 

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Capitolo 11
*** É tutto quello che so ***


  É successo tutto in fretta. Jules con i suoi occhi vitrei e un corpo che affondava nella neve dirigendosi verso il ristorante della stazione sciistica, affondava stanco come io adesso affondo nel mio letto, nelle nostre bianche lenzuola illuminate dal sole. 
  L’avevano portato via. L’ambulanza non sarebbe mai arrivata alla stazione sciistica, così ci invase il vento provocato dall’elica di un elicottero: un elicottero l’avrebbe portato in ospedale. Sembrava  proprio di vivere in uno di quei film, uno di quelli con i finali in tragedia. Un uomo mi ha preso per un braccio, non con la dolcezza consolatoria di chi avrebbe dovuto dirmi Andrà tutto bene, ma con la prepotenza di chi conosce bene quei ricchi ubriaconi figli di papà del Le Rosey. 
  “Hai un numero di un parente, qualcuno da chiamare?” mi chiedeva quell’uomo, distinto nel vociare affollato che si accumulato fuori dal ristorante. Vedevo Julian sparire su un elicottero e quell’uomo mi parlava, come se potessi ascoltarlo veramente. Portava la rossa divisa dei paramedici che lo faceva sembrare un serial killer nella neve, di un rosso così rosso che mi feriva come fosse stato sangue di Julian. 
  “Io non lo so.” dicevo esasperata. “Si chiama Julian Casablancas. É tutto quello che so.”
  É tutto quello che so. Queste mie parole mi feriscono e mi torturano. Cerco di abbandonarmi al sonno, sperando che lo svenimento di Julian non sia niente di grave, ma le ore passano ed è sempre più difficile. Mi chiamerà, so che lo farà, sarà la prima cosa che farà quando si sarà svegliato. Non si è svegliato ancora, evidentemente. Alzo lo sguardo verso la finestra, incrocio una bottiglietta da minibar sul comodino. Poche dita di scotch che Julian mi aveva regalato la prima volta che c’eravamo mai parlati, quella volta in cui Gary Simmons era riuscito a non morire congelato, grazie a Julian. Sembra passato tanto di quel tempo, tempo che abbiamo passato a sfiorarci il naso e a sorriderci, tempo che sembra essere stato solo una delle più dolci fantasie, perchè di Julian Casablancas non saprei cosa raccontare, se non che lo amo. É tutto quello che so. 
  Un clacson risuona fastidioso nel silenzioso quartiere delle case popolari. Non c’è mai traffico qui, eppure c’è qualcuno che sembra aver da ridire. Ancora quel clacson. Scivolo brontolante sotto le coperte, Non voglio sentirvi, per un po’ non voglio sentirvi più. Pensavo a Julian, al fatto che non riuscivo ad odiare nessuna parte di lui, neanche quella così oscura che l’aveva ridotto senza sensi ad affondare nella neve. Ancora, questo maledetto clacson! 
  Gillian. 
  Penso di essermelo immaginato, quel qualcuno che chiama il mio nome. Ma quella voce, stridente, so american, so angry, continua a risuonare nella mia testa, fondendosi con il prepotente clacson di qualcuno che a tutti costi vuole attirare l’attenzione. No, non è la voce di Julian che sto sognando.
  “Gillian!” questa volta non me lo sono immaginato. 
  Mi sporgo alla finestra, due spalle minute che affrontano il freddo svizzero di dicembre. C’è un ragazzo che non ho mai visto, fuori da una bella auto, una massa disordinata di capelli e una faccia da stronzo. Chi sei? Perchè mi stai chiamando? Si guarda intorno, poi mi vede. 
  “Sei tu, Gillian?” mi chiede. 
  “Sì, chi sei tu?”
  “Diamine, ti ho cercata ovunque.”
  “Perchè?”
  “Sono Albert.” mi dice come se questo spiegasse ogni cosa. Come se avessi dovuto dire Ah quel famoso Albert che deve fare quella cosa. Ma la verità è che non conoscevo nessun Albert, neanche di nome, e non ero dell’umore di continuare una conversazione con lui. Non ero dell’umore di fare o chiedermi qualsiasi cosa riguardo quell’Albert e me ne sarei tornata a torturarmi nel mio letto il prima possibile.
  “Ok.” dico semplicemente, chiudo la finestra. 
 Albert suona ancora il clacson senza lasciarmi andar via. 
  “Cosa c’è?” gli urlo, esasperata. 
  “Sei la ragazza di Julian, vero?”
  “Non lo so.” non mento. 
  “Dove l’hanno portato? Ho cercato in tutti gli ospedali qua intorno.”
  “Non è qui, l’hanno portato via in elicottero… è a Zurigo.”
  “Cazzo…” batte la mano sul tetto della macchina con la sincera frustrazione di chi ha passato delle ore a cercare Julian Casablancas in tutti gli ospedali del cantone. É uno di quegli amici a senso unico, penso io, e immagino che Julian debba averne parecchi: convinti che Julian passi le ore a parlare di loro, ma Jules non parla mai di nessuno. No, non ho mai sentito parlare di questo Albert, ma mi sentivo rassicurata dal fatto che lui sapesse chi sono e dove cercarmi. 
  “Vai da lui?” gli chiedo. 
  “Per forza.” sta entrando in macchina. 
  “Non credo sia niente di grave, un calo di zuccheri, forse.” gli urlo, non lo penso davvero.
  “Ma quale calo di zuccheri. Vieni con me?” 
  “Sì.” dico senza esitare. 
  Inciampo cercando le mie scarpe, infilo la prima maglietta che trovo accartocciata sul letto, testimone di chissà quali avventure, portatrice di chissà quali odori urbani, infilo di corsa il mio giaccone. Albert dà un altro colpo di clacson, come a dirmi di sbrigarmi. Sento il mio viso scolpito dal freddo, fragile, stanco. Non penso, non reagisco. Scendo di corsa le scale. 
  Albert è un compagno di viaggio di quelli che non smettono di parlare, di quelli che vogliono essere sicuri di risultare interessanti a tutti costi, agita le mani come un pazzo e un paio di volte ho paura che il controllo della macchina possa sfuggirgli. Forse è solo il suo modo di reagire a quello che è successo a Julian Casablancas. Io mi astraggo dal mondo, lui vuole farne parte a tutti costi. 
  “Perchè non sei salita sull’elicottero?”
  “Non c’era posto, suppongo.”
  “Giusto.”
  Parole di due che non si conoscono e che si intrecciano a fatica. Osservo le sua mani, nervose e frementi. I lineamenti pesanti  di una carnagione olivastra quella massa di capelli che ogni tanto si scuoteva insicuro. Dice di essere un amico di Jules, anche lui lo chiama Jules, e sembra di conoscerlo più di quanto lo conosca io, e fa male, dal momento che ho realizzato di non sapere niente di lui solo poche ore fa. 
  “Perchè Jules non ragiona…” dice “… è estremo in tutte le cose che fa. In questo momento sarà con un tubo ficcato in gola mentre cercano di fargli una lavanda gastrica, credi a me.”
  Rabbrividisco. 
 “Ti parlava di me, Jules?” cambio discorso.
  “Continuamente.”
  “Eri tra i suoi amici, quel giorno al ristorante, quando si è inginocchiato chiedendomi di uscire?”
  “Cavolo, sì.”
  “Non mi ricordo di te.”
  “Non puoi ricordarti di uno come me, non se c’è Julian Casablancas.”
  

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