.: Eternal darkness :.

di _ A r i a
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dai larici ai ciliegi ***
Capitolo 2: *** La Raimon - pt.1 ***
Capitolo 3: *** La Raimon - pt.2 ***
Capitolo 4: *** Temporali improvvisi ***
Capitolo 5: *** La missione ***
Capitolo 6: *** Insonnia ***
Capitolo 7: *** Osaka~ ***



Capitolo 1
*** Dai larici ai ciliegi ***




Si ringrazia rie (endorphin) per il banner~


Lo Scettro della Notte


Non era stato facile accettare il trasferimento.

Mi trovavo bene ad Hartford, nel Connecticut, nonostante la mia solitudine e la mia innata timidezza, che mi era sempre stata d’intralcio nel fare nuove amicizie.

A volte nemmeno volevo farmene, di nuovi amici.

Avevo scoperto di stare bene da sola, in compagnia unicamente di me stessa. Tante volte, non riuscivo nemmeno a trovare conforto in me.

Poi venne il trasloco.

Mio padre era un astronomo, studiava la volta celeste ed i suoi innumerevoli fenomeni. Non era raro che un osservatorio astronomico richiedesse un valido scienziato presso la propria struttura per avvalersi della sua collaborazione. Solo che non avrei mai immaginato che mio padre, Jason Drake, avrebbe deciso di accettare una tra quelle numerose proposte di lavoro.

Mi sarei immaginata, che so, un posto in un qualche centro di controllo desolato, nel bel mezzo del nulla nel North Carolina, tuttavia mai la mia mente sarebbe riuscita ad immaginare un posto tanto lontano da Hartford, dal Nord America, né tantomeno dagli States stessi.

Giappone.

Francamente mi ero chiesta a lungo perché mio padre avesse scelto un posto tanto lontano da casa ma non mi aveva lasciato altra scelta che adeguarmi.

Sarei potuta rimanere ad Hartford, ormai avevo compiuto sedici anni ed ero indipendente da parecchio –era normale che mio padre non tornasse a casa per giorni, impegnato in rilevamenti cruciali all’osservatorio, così avevo imparato presto a saper badare a me stessa e la cosa non mi dispiaceva affatto- ma non me l’ero sentita di lasciar partire mio padre alla volta di un paese tanto lontano.

Il giorno della partenza me lo ricordo benissimo:avevamo trascinato le nostre pesanti valigie giù per le scale di casa e caricate difficoltosamente in macchina. Avevo provato un vago senso di malinconia osservando il cartello dell’agenzia immobiliare, il paletto conficcato nel piccolo giardino davanti all’abitazione, a segnalare che il luogo nel quale avevo vissuto per sedici lunghissimi anni era ora in vendita, alla mercé del migliore offerente, anche se, pure in quel momento, l’unica cosa che mi ero limitata a fare era stata tacere ancora una volta.

Ci eravamo lasciati alle spalle la nostra città natale, avevamo superato le distese boschive del New England e ci eravamo abbandonati alla frenesia di New York, per perderci tra le sue mille luci. Non a lungo, però, giusto il tempo di un check-in.


Volare era stata un’esperienza del tutto nuova, per me. Non che non avessi mai viaggiato prima di allora, peccato che i miei spostamenti fino a quel momento si fossero limitati a brevi viaggi in macchina con mio padre per raggiungere la meta delle nostre vacanze –nelle rare occasioni in cui ci concedevamo una vacanza- e la mattina in autobus, per andare a scuola.

Erano state ore lunghe, che passavano lentissime.

Mio padre ne aveva approfittato per dormire, al contrario io non c’avevo nemmeno provato.

C’erano troppe cose che catturavano la mia attenzione, come potevo rilassarmi?

La comoda pelle blu dei sedili, il buio della notte fuori dai finestrini, le nuvole che sfrecciavano sotto di me.

Certo, non saltellavo dalla gioia come una bambina di due anni ma decisi di mantenere un comportamento decoroso, quantomeno per non far fare una figuraccia a mio padre.

Una cosa nella quale avevo scoperto, parecchio tempo prima, di essere naturalmente portata era osservare le cose che mi circondavano con innata curiosità, anche se poi non ero altrettanto brava ad esternare i miei sentimenti –sempre a causa della mia timidezza-.

Mentre sorvolavamo il Pacifico l’aereo fu investito da alcune turbolenze, niente di grave ad ogni modo.

Non ne fui affatto spaventata nonostante fossi alla mia prima esperienza in aereo.

Forse avrei dovuto cominciare a preoccuparmi del fatto che non riuscivo ad essere preoccupata per niente.


Se avevo trovato frenetica New York, allora non avevo parole per poter descrivere al meglio Tokyo.

Era un brulichio di vita, una città in perpetuo fermento, un’infinita moltitudine di colori, immagini, profumi e sapori.

Ne rimasi affascinata, come se i ciliegi ed i loro fiori rosei fossero riusciti a stregarmi, rubandomi l’anima.

Cominciavo a credere d’aver preso la decisione giusta, scegliendo di seguire mio padre fino in Giappone.

La temperatura non era eccessivamente rovente ma camminare sui marciapiedi, in compagnia dell’interminabile folla degli abitanti del luogo e della sfilza di turisti non era affatto un’impresa facile, considerando anche che dovevo trainarmi dietro il trolley lilla con tutte le mie cose, che mi aveva seguita a partire da Hartford.

Ormai mi sembrava che tutto fosse già diventato un ricordo lontano, confuso nella mia memoria tra tutte le novità che avevo visto nelle ultime –più o meno- ventiquattro ore.

Non riuscivo a capire se fosse una cosa positiva o meno.

Mio padre fermò un taxi, che ci condusse fino al nostro appartamento. Modesto, nient’affatto appariscente, grazie al cielo.

Scelsi la stanza in fondo a sinistra, dalle pareti panna, un letto nuovo e comodo, pronto per lasciare che ci cadessi sopra a peso morto, la faccia schiacciata sul cuscino.

Ah, avrei dovuto dormire, in aereo.
Sperai che, almeno per quella notte, gli incubi non tornassero a tormentarmi.


* Angolo autrice *


Okay, lo ammetto, questo prologo/primo capitolo o come lo si voglia chiamare non ha nulla né di Inazuma Eleven né di Percy Jackson.

Avevo però bisogno di un’introduzione agli eventi veri e propri e questo è quanto di meglio sono riuscita a sfornare.

Vi ricordate quanto vi avevo detto riguardo alla storia ad OC per il fandom di PJO alla quale stavo lavorando? Ecco, come avevo previsto l’ho cestinata.

Però, visto che sono testarda ho cercato di scrivere qualcosa di simile:una AU per il fandom di IE dove i protagonisti scoprono di essere … semidei! Comprendo che non ci si capisca niente in questo primo atto della storia ma vi imploro umilmente di perdonarmi e per facilitarvi tale arduo compito ho deciso di farvi un regalo –se così lo si possa definire-:la storia prevede iscrizioni ad OC!

In pratica potrete essere dei semidei e delle semidee all’interno del mondo del nostro anime. Vi piace l’idea? Mi risparmiate? * faccia da cucciolo *

E no, niente, se vi va di partecipare fatemi sapere in recensione, qualora accetterete di partecipare provvederò a farvi avere tramite MP la scheda per il personaggio. Mi auguro che conosciate la serie di Percy Jackson, ad ogni modo. Bene, credo sia tutto, pertanto mi dileguo.

A presto (spero)

Aria_black

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Capitolo 2
*** La Raimon - pt.1 ***




Si ringrazia rie (endorphin) per il banner~


Lo Scettro della Notte


Speranza vana. Ovviamente.

Erano mesi che convivevo con quegli incubi, mi perseguitavano quasi ogni notte. Al mio risveglio ne ero talmente turbata da ricordarne ben poco, o perlomeno desideravo quanto prima dimenticare il terrore che m’incutevano.

Ogni notte, correvo, correvo ed ancora correvo, nell’oscurità di un bosco. Sapevo di essere inseguita, lo sentivo, per questo le mie gambe schizzavano veloci in avanti tra le foglie cadute a terra.

Erano viscide, perciò avevo timore di cadere un momento sì e l’altro pure. Come se tutto ciò non bastasse i rami degli alberi continuavano a ferirmi le braccia.

D’improvviso però i miei piedi s’incagliavano in una radice, che sembrava essere emersa dal nulla e che sporgeva pericolosamente fuori dal terreno, così caddi rovinosamente a terra.

Le ombre alle quali avevo cercato di sfuggire fino a quel momento ora troneggiavano inquietanti sopra di me. Una voce di donna, profonda e della quale non riuscivo a determinare la provenienza, commentò:-Fine della corsa, Phoebe Drake -.

Mi svegliai di soprassalto, per l’ennesima volta da quando avevo cominciato ad essere perseguitata da quelle terribili proiezioni del mio inconscio. Mi misi a sedere sul mio letto,le lenzuola che mi ricaddero pigramente sulle gambe. Mi passai una mano tra i capelli, poi la poggiai sulla fronte.

Era imperlata di sudore.

E dire che credevo di non riuscire a provare emozioni, giusto qualche ora prima, in aereo. Gettai uno sguardo in direzione del comodino accanto al letto e nella penombra distinsi a stento la sagoma della sveglia. L’afferrai, portandomela in grembo, quindi osservai il quadrante e per poco non sobbalzai di nuovo.

Era tardissimo!

Se non mi fossi sbrigata, avrei finito per far tardi già al primo giorno di scuola. Come se ci mancasse qualcos’altro a complicarmi l’esistenza …


Felpa bordeaux e jeans neri? Banale. Camicia a scacchi rossi e blu, sovrastata da un golf di lana bianca e gonna color sabbia? Dovevo andare al liceo, mica cominciare a seguire una serie di corsi ad Harvard! Lanciai il maglioncino dall’altra parte della stanza. Nemmeno mi piaceva, perché l’avevo comprato?

Ah, già. Non l’avevo comprato io.

In effetti, per vedermi andare a fare shopping doveva esserci una catastrofe nucleare alle porte, altro che una tormenta di neve, come dicono alcuni.

Fantastico, se prima era tardi ora ero veramente sul filo del rasoio degli orari!

Se lo avessi detto a mio padre probabilmente avrebbe stentato perfino a credermi:io, quella sempre puntuale … in ritardo? Incredibile!

Poi probabilmente si sarebbe arrabbiato.

Mio padre non era a casa. Doveva essere partito stamattina presto o forse addirittura stanotte, ad ogni modo mentre io dormivo:il suo lavoro gli impone orari …. particolari? Non so come definirli nemmeno io. Sta di fatto che, essendo un astronomo, si alzava nel cuore della notte per andare ad occuparsi dei suoi rilevamenti.

Chiaramente, le stelle si vedono meglio di notte.

Alla fine era così tardi che uscii di casa così com’ero –tanto per me è decisamente inutile pensare di fare una bella impressione-:felpa verde scuro, che tanto mi ricorda i boschi del Connecticut, jeans blu scuro e le mie inseparabili sneakers bordeaux. M’infilai la borsa a tracolla con i libri e, chiavi di casa alla mano, schizzai alla volta della scuola.


Paradossalmente, quando arrivai davanti all’istituto, scoprii che molti studenti  non erano ancora entrati. Al che le cose erano due:o non ero in ritardo come credevo, oppure Tokyo era piena di ritardatari. Decisamente molti più di quanti ne potessi immaginare.

Non sapevo per quale possibilità propendere.

Alcuni chiacchieravano a piccoli gruppi, altri restavano in disparte. Per un attimo mi sembrò di trovarmi nuovamente in un liceo americano:c’erano alcuni studenti vestiti di tutto punto, come se volessero ostentare i loro gusti modaioli (o forse sarebbe più corretto dire l’elevato status sociale delle loro famiglie). Interagivano facilmente tra loro ed ero abbastanza sicura che stessero comunicando le loro recenti conquiste, sia in fatto di moda che d’amore.

Non avevo niente contro quel genere di persone, solo che non ne facevo decisamente parte –come se non si fosse notato- e quando ero in America capitava non di rado che i pochi amici che avevo, che come me facevano parte dei ragazzi più introversi, venissero derisi dagli altri.

Qui sarà diverso, continuavo a ripetermi.

Mi avvicinai ad una delle colonne del cancello e socchiusi gli occhi, cercando di rilassarmi. Proprio nel momento in cui mi ero ormai convinta che forse le cose sarebbero potute andare per il verso giusto, sentii un click e l’aria si riempì di un fascio di luce.

Ma che cavolo …?

Aprii gli occhi di scatto e fissai sorpresa il volto di una ragazza. Sembrava avere la mia età. La osservai attentamente. Aveva degli occhi intensi, un blu scuro e rilucente così pieno di emozioni che quasi riuscì a stordirmi. I suoi capelli invece avevano la mia stessa tonalità color cioccolato, solo che mentre i miei erano lunghi fino alle spalle, quelli della ragazza davanti a me erano sistemati in un comodo e pratico taglio a caschetto, che le arrivava al collo. Ad ogni modo, non mi stava fissando. Sembrava concentratissima sull’oggetto che teneva tra le mani, gli occhi incollati al display. Doveva essere una macchina fotografica, ecco da cosa era stato provocato quel flash.

Mi avvicinai cautamente a lei. I miei piedi provocarono un lieve scalpiccio sulla ghiaia e la ragazza distolse improvvisamente lo sguardo dalla digitale, spaventata –tanto che sobbalzò appena, anche se cercò di far finta di niente-. Si strinse appena nel suo maglioncino, di un tenue rosa confetto, mentre mi affrettavo a puntualizzare:«Perdonami, non era mia intenzione spaventarti».

Mi chiedevo invece se fosse stata la sua …

Nah.

Lei mi fissò incerta, così ne approfittai per domandarle:« Cos’hai combinato? Poco fa, intendo …». I suoi occhi blu cobalto si puntarono nei miei, verdi come smeraldi e per un attimo mi sentii quasi annegare. Un attimo, certo, ma pur sempre un attimo terrificante.

Lei sembrò sorpresa che le avessi rivolto la parola, tuttavia poco dopo ammise:«Una foto».

Avrei voluto dirle che fino a lì ci ero arrivata ma all’ultimo momento decisi di sorvolare. Piuttosto non riuscii a non risultare sorpresa quando le domandai:«A me?».

Lei per un attimo indugiò e ero quasi sicura che non mi avrebbe risposto, tuttavia dopo un’abbondante manciata di secondi ammise:«Beh … eri in una buona posizione. La luce s’infrangeva su quella colonna in un modo a dir poco perfetto, creando punti d’ombra inimmaginabili. Ho provato con il filtro seppia ma in bianco e nero rende decisamente meglio. Guarda …». Mi si avvicinò di scatto e mi mostrò la foto.

Niente male, non c’è che dire.

Poi la ragazza si allontanò di scatto, come se si fosse ricordata solo in quel momento qualcosa d’importante.

Probabile che non socializzasse tanto facilmente con le persone.

Non diversamente da me, insomma.

Però decisi di provare comunque a continuare il discorso –non so perché ma sentivo che ne valesse la pena- così mi presentai:«Io sono Phoebe».

Stranamente, mi uscì uno dei miei migliori sorrisi gentili. Per qualche istante sembrò titubante ma alla fine allungò la mano in direzione della mia e la strinse cordiale.

«Nina» si annunciò a sua volta.

Nel frattempo due ragazzi, un ragazzo ed una ragazza, si avvicinarono a noi.

La giovane avrà avuto all’incirca la mia età e mi colpì molto:in particolare rimasi sorpresa dai suoi capelli. Il loro colore rosa era quantomai inconsueto e da lontano m’ispiravano una sensazione di morbidezza, quasi a ricordarmi lo zucchero filato che adoravo prendere quando io e mio padre andavamo in giro per fiere, quando ancora ci trovavamo in America. Le ciocche dei suoi soffici capelli erano acconciate in una treccia che le scendeva lungo la spalla destra. I suoi occhi, invece, erano blu come lapislazzuli.

Il ragazzo che la seguiva era più alto di lei. La sua carnagione era molto chiara ed i capelli, al contrario, erano corvini. Inoltre erano lunghi quasi fino alle spalle e gli sfuggivano in ogni direzione. Alcuni erano perfino finiti davanti ai suoi occhi ma con un po’ di sforzi riuscii ad intravedere due occhi intensi e verdi come smeraldi.

Solo che non erano come i miei.

Non so, c’era qualcosa che non mi tornava in quegli occhi. Sembravano freddi, attenti, calcolatori, uno di quei paia d’occhi al quale non sfuggirebbe neppure il minimo particolare, abituati a catturare pure i dettagli minuscoli.

Mi sorpresi non poco quando ci raggiunsero. Non credevo che a qualcuno interessasse attaccare bottone con due ragazze che apparentemente avevano cercato di isolarsi dal resto del mondo fin dal primo istante.

Ad ogni modo, la ragazza dai capelli confetto ci smentì in pieno.

«Ciao!»ci salutò dopo averci raggiunte.«Siete nuove? Piacere di conoscervi! Io sono Chieko Miura, del terzo anno, lui invece è Sora Buki, del quarto».

Il ragazzo allungò la mano nella nostra direzione.«Piacere»commentò.

A turno, io e Nina gliela stringemmo, meravigliandoci non poco della forza a dir poco poderosa del suo palmo.

In quel  momento giunse il suono della campanella e Chieko commentò:«Beh, che aspettiamo? Entriamo!».


Le lezioni trascorsero in modo abbastanza gradevole, più che altro perché non accadde nulla di particolarmente rilevante.

Io, Nina e Chieko eravamo in classe insieme –visto che avevamo la stessa età- insieme a diversi altri ragazzi e ragazze dei quali ancora continuavo ad ignorare l’esistenza –ed il nome- e francamente dubitavo che questo sarebbe cambiato in fretta.

Chieko, essendo estremamente socievole, non ebbe difficoltà a trovare posto. Probabile che quei ragazzi che per me erano estranei lei li conoscesse già alla perfezione.

Io e Nina ci accomodammo vicine, in terza fila. Non parlammo molto, preferimmo concentrarci sulle lezioni.

Durante l’appello mi sembrò in imbarazzo ma feci finta di non accorgermene e lei non diede segno di aver notato che me ne ero accorta.

A ricreazione decidemmo di affidarci a Chieko –anche perché non conoscevamo praticamente nessun’altro- e la seguimmo in corridoio. Lì ci fermammo quasi subito, perché Chieko sembrò notare qualcuno in lontananza e, con un grande sorriso stampato in volto, chiamò:«Rin!».

La ragazza in questione si voltò nella nostra direzione e si esibì in un sorriso ancor più ampio di quello di Chieko.

Era bassa e forse avrà avuto un anno meno di noi. Eppure, anche semplicemente fissandola –seppur da lontano- provai un senso di allegria e giovialità.

Aveva i capelli cortissimi, quasi come quelli di un ragazzo, di un raggiante color arancio. Anche lei, proprio come me, aveva dei grandi occhi verdi, luminosi come foglie di magnolia irradiate dal sole.

Ci sorrise ed allungò il braccio, ricoperto da una maglietta di cotone beige a maniche lunghe, agitando la mano verso di noi. Il giubbino senza maniche dalla trama mimetica che indossava si mosse con lei.

Ci raggiunse poco dopo, non appena venne a capo della fila nella quale era stata imbottigliata fino a quel momento, ai distributori automatici. Scartò in fretta la barretta al cioccolato e nocciole che aveva acquistato, dopodiché ne morse un pezzetto un attimo prima di trovarsi esattamente davanti a noi.

«Ciao, Chieko!»salutò la ragazza accanto a noi «come va?».

Chieko sorrise appena e rispose:«Oh, non c’è male, grazie! Rin, loro sono Phoebe e Nina, sono nella mia stessa classe».

Rin non sembrava riuscire a stare ferma per più di dieci secondi, infatti, per tutto il tempo in cui Chieko aveva parlato, non aveva smesso un attimo di frugare nelle tasche del suo giubbotto mimetico. Quando la ragazza dai capelli confetto ebbe finito di presentarci, l’altra si sfilò rapidamente le mani dalle tasche e ci porse la destra, esclamando:«Piacere di conoscervi, ragazze!».

Per un momento mi sembrò che, dalla sua mano sinistra, chiusa a pugno, sbucassero alcune molle e dei bulloni.

Che diamine …?!


Cominciavo a credere che, andando avanti di quel passo, per mezzogiorno avrei conosciuto mezzo istituto.

Grazie al cielo, non avevo considerato la ferrea disciplina delle scuole giapponesi. Qui, infatti, l’intervallo durava decisamente meno che nei licei americani.
Ricordavo ancora che alcune volte, nella mia vecchia scuola ad Hartford, alcuni ragazzi rimanessero fuori dalle aule anche dopo il suono della campanella che indicava la fine della ricreazione.

Qui, invece, rientrarono tutti in classe all’istante. Dubito che qualcuno abbia raggiunto la propria aula anche un minuto dopo il suono della campana.

Per pranzo io e Nina, ritenendo di aver conosciuto fin troppe persone in un giorno solo –perlomeno per quanto riguardava i nostri standard- decidemmo di rintanarci all’esterno dell’edificio, evitando per quanto più possibile la sala mensa gremita di studenti, finendo così a rifugiarci nei giardini della scuola.

Sedute all’ombra su una panchina sotto un albero parecchio frondoso, ci rilassammo mentre un vento leggero attraversava l’aria e mangiavamo il nostro cibo giapponese –del quale all’epoca ancora ignoravo l’etimologia perché … ehi, ero arrivata in Giappone solo il giorno prima!-.

Proprio nel momento in cui stavo cominciando a credere che saremmo riuscite a passare almeno quel momento e stavo per decidermi di chiedere a Nina per quale ragione mi fosse sembrata imbarazzata durante l’appello di quella mattina –sempre che non fosse stata una mia impressione ed allora sarei stata io ad essere in imbarazzo- sentii uno scalpiccio sulla strada ricoperta di sassolini che correva davanti alla nostra panchina.

«Ehi!»gridò qualcuno, poco lontano.

Subito io e Nina ci voltammo in direzione di quella voce e restammo non poco sorprese di scoprire che chi aveva parlato si rivolgeva proprio a noi.

E tanti saluti alla tranquillità.

Ad aver parlato era stata una ragazza. Avrà avuto all’incirca dodici, tredici anni al massimo anche se a guardarla da lontano non lo si sarebbe detto. Era alta e formosa nonostante il fisico magro, gli occhi chiari e delicati come ghiaccio ed i capelli neri, lisci e lunghi fino alle scapole. Aveva un sorriso allegro in volto e poco dopo ci raggiunse, sorprendendomi ancor di più.

Era un po’ affaticata per la corsa, così prese alcuni respiri profondi prima di esordire:«Ciao! siete nuove, vero? Direi di sì, non vi ho mai viste in giro prima! Io sono Susan Light, piacere di conoscervi!».

Allungò la mano nella mia direzione, così gliela strinsi e ricambiai:«Phoebe Drake, piacere. In effetti sì, sono nuova, sono arrivata qui giusto stamattina! Mi sono trasferita dall’America …».

Mentre Susan stringeva la mano di Nina, che ammise di essere arrivata alla Raimon solo qualche giorno prima e che si era a sua volta trasferita ma non dall’America, bensì dalla Russia, una ragazzina spuntò da dietro la corvina e mi domandò:«Dall’America? Sul serio? Il mio ragazzo vive lì!».

Avrà avuto un paio d’anni meno di me. Era alta e magra ed aveva dei capelli particolarissimi:erano lilla, sfumati in alcune parti di nero, legati in una treccia. I suoi occhi erano di un azzurro limpido e cristallino come il cielo.

Mi sorrise allegra e si presentò:«Mi chiamo Miriam Star, piacere!».

Nel frattempo mi accorsi che c’erano altre due ragazze. La prima avrà avuto anch’essa all’incirca la mia età e rimasi parecchio colpita da lei, a partire dai suoi occhi, di un color ambra caldo ed intenso. Anche i suoi capelli erano particolari:all’inizio, vedendola in piedi davanti a me avevo pensato che fossero azzurri, tuttavia quando si era inchinata per stringermi la mano –ero ancora seduta sulla panchina, già- i suoi capelli erano ondeggiati ed erano comparsi da dietro la sua schiena, rivelando una chioma fluente, lunga fino alla fine della schiena, con una sfumatura acquamarina decisamente più chiara della parte superiore. Della stessa tonalità era una piccola ciocca, acconciata a mo’ di treccia, che le pendeva da un lato del viso.

«Rachel Sasaki, piacere» mi salutò cordiale.

La maglietta verde menta, in cotone e con le maniche lunghe, oscillò lungo il suo bracciò quando mi allungò la mano affinché potessi stringergliela. In quel momento mi accorsi che, stretta alla sua gamba, c’era un paio di braccia sottili.

Per poco non morii dallo spavento quando mi accorsi che, in effetti, avevo visto due ragazze e me ne si era presentata solo una di loro.

L’ultima era decisamente più piccola delle tre ragazze che mi si erano presentate. Aveva dei lunghi capelli biondi, gli occhi grigi e tempestosi come il mare in burrasca e la carnagione rosea, come d’altronde le sue labbra a cuore. Era abbastanza alta ma si era piegata tutta, aggrappandosi alla gamba di Rachel e nascondendocisi dietro. La turchina, accorgendosi che stavo fissando la ragazzina attaccata a lei, mi spiegò: «Oh, lei è Lilian. Non preoccuparti, è che è molto timida e di solito è chiusa. Ha solo undici anni».

La ragazzina mi fissò ed io accennai un lieve saluto con la mano. Lei sorrise appena.

In quel momento, non troppo lontano, si levarono alcune grida. Susan si lasciò sfuggire un sorriso a trentadue denti e commentò:«Venite! Sono arrivati!».

Lei, Miriam, Rachel e Lilian corsero nella direzione dalla quale erano spuntate fuori. Per un attimo io e Nina ci fissammo ma alla fine decidemmo di alzarci e seguirle a nostra volta, sebbene camminando normalmente e non correndo come avevano fatto le altre. Avevo una sola domanda in quel momento.

Ma chi ha deciso che io non debba pranzare, oggi?!


* Angolo autrice *

Salve, mondo!

Anzitutto chiedo clemenza se sono quasi dieci giorni che non mi faccio viva ma devo essere sincera, scrivere questo capitolo mi ha messa a dura prova!

Avendo ricevuto sedici (e sottolineo SEDICI … grazie davvero ragazzi, non pensavo che la mia storia vi fosse piaciuta tanto! Mi sento lusingata!) ci ho messo un po’ a raccogliere tutte le schede, organizzare il cervello e chi più ne ha più ne metta! :)

Ad ogni modo, vi chiedo scusa anticipatamente se in questo capitolo non sono presenti tutti gli OC e quelli che ci sono forse non sono descritti in modo sufficientemente dettagliato ma ho pensato di dividere il capitolo in due parti (di cui chiaramente questa è la prima) per poter presentare i personaggi in due tranche da otto. Chiaro, no?

No. Affatto.

Ad ogni modo, questo è il risultato. Spero che vi piaccia!

Mi impegno a pubblicare la seconda parte del capitolo quanto prima, anche perché il bello arriva adesso!

Chi avrà provocato quel frastuono? Aspetto i vostri commenti!

A presto (spero)

Aria_black

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Capitolo 3
*** La Raimon - pt.2 ***




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Lo Scettro della Notte


Degli idioti.

Ecco chi aveva decretato che rinunciassi a pranzare, quel giorno. Almeno così credevo.

Non ero riuscita a capire chi avesse provocato tutto quel baccano, finché non mi ero ritrovata davanti un capannello di gente e beh, tutto mi fu decisamente più chiaro nell’arco di cinque secondi.

Notai, un po’ più nelle retrovie rispetto alle altre persone –che si erano accalcate sull’’orlo di un piccolo dirupo e che quasi facevano a spintoni l’una con l’altra, pur di accaparrarsi il posto migliore- Chieko, che osservava la scena quasi con aria divertita. Il mio sesto senso mi consigliò di avvicinarmi a lei, forse anche perché era una delle poche persone che conoscessi non solo di vista, se così si può dire.

Sembrava osservare attentamente la scena davanti a sé, come se vedesse uno spettacolo invisibile a tutti gli altri. Mi accorsi di un dettaglio che non avevo notato in tutto il resto della mattinata –ed in effetti lo notai per puro caso-:le sue dita stavano giocherellando con un ciondolo, che pendeva da una catenina che portava al collo.

Mi chiesi come avessi fatto a non accorgermene prima.

Il ciondolo era un gufo, dal colore bluastro. Era davvero bello.

Le misi una mano sulla spalla. Lei si voltò subito a guardarmi, nonostante sembrasse dispiaciuta di essere stata distratta dalla scena che stava contemplando.

Mi sorrise e commentò perspicace:«Immagino che ti starai chiedendo cosa sta succedendo».

Io non potei che commentare:«E … già».

Una voce precedette quella di Chieko.

«Come, non lo sai?»sentii infatti domandare dal centro della folla.

Per un attimo rimasi sbigottita, tuttavia, l’istante successivo, dal mare di folla sbucò la testa di una ragazza. I lunghi capelli castani la investirono da dietro, facendo così che sembrasse sbucata da una nuvola di boccoli. Gli occhi, invece, erano di un penetrante blu cobalto, contornati da lunghe ciglia scure. Mi studiò attentamente, dopodiché le sue labbra rosso fragola si aprirono in un sorriso e la ragazza considerò:«Ah,  già … devi essere nuova. Marina Sapphire, piacere. Quanto al trambusto, siamo state noi a provocarlo. Perché? Oh, molto semplice!».

Stavo per strozzare Marina e sbottare qualcosa tipo Come “Siete state voi”? Io stavo pranzando! ma prima che potessi dire qualsiasi cosa, la sentii afferrarmi per il polso e trascinarmi nel bel mezzo della folla.

Sussurrai una decina di “scusate” mentre Marina continuava a trainarmi, costringendomi a rifilare involontari spintoni a destra e a manca.

Per poco non caddi quando mi ritrovai con le punte delle All Stars sull’ultimo centimetro di terreno, prima di una ripida discesa di un paio di metri.

Non molti, d’accordo, però non ero poi così entusiasta alla prospettiva di ruzzolare giù, lungo un ammasso di terreno alquanto instabile.

Evviva.

Per fortuna le mani di Marina si erano posate saldamente sulle mie spalle, puntando il mio corpo verso il basso, aiutando la forza di gravità a tenermi ben ancorata al suolo. Non potei che essergliene riconoscente.

«Ammira» mi sussurrò Marina.

Al che probabilmente mi sarei dovuta esibire in un repertorio di gridolini adoranti pur di soddisfare le aspettative delle persone attorno a me. Eppure non riuscivo a trovarci niente di tanto eccitante.

Erano solo … ragazzi.

Ragazzi che rincorrevano un pallone su di un campo polveroso.

E quindi? pensai, non riuscendo a capire dove fosse la meraviglia in tutto ciò.

«Non ho capito» ammisi, con aria affranta.

Marina mi osservò basita ma prima che potesse dire qualsiasi cosa, un’altra ragazza sbottò:«Davvero, ragazzina? Non mi pare che fosse una cosa tanto difficile da capire!».

Io e Marina ci voltammo in direzione della voce che avevamo sentito. Era una ragazza alta, dai lunghi capelli color del grano, una ciocca verde pistacchio che le scendeva da dietro l’orecchio destro. Gli occhi erano a dir poco stupefacenti:di un delicato color lavanda, con sfumature blu lapislazzulo, tutt’intorno ad essi fitte e lunghe ciglia nere erano disposte a raggiera. La carnagione era rosea e delicata, i lineamenti del volto dolci e morbidi. Indossava un giacchetto di pelle bianca, sotto il quale spuntava una maglietta a mezze maniche, in cotone bianco, con impressa la stampa di un infinito nero all’altezza del seno, un jeans grigio perla con  qualche strappo modaiolo qua e là,  ed un paio di All Stars nere.

Osservare il suo fisico perfetto –sembrava quasi una modella- mi fece venire non pochi complessi d’inferiorità, considerando quant’ero magrolina. Un raggio di sole le illuminò il volto, facendo scintillare il brillantino sulla narice destra, gli orecchini ad anello dal diametro considerevole ed il bracciale che aveva al polso –entrambi gli accessori erano dorati- brillarono d’una luce accecante.

Marina fissò con aria di biasimo la ragazza davanti a lei e spiegò:«Vanille, è nuova … a proposito, come ti chiami?».

Impiegai qualche istante per capacitarmi che si riferisse a me.

Scossi la testa nel tentativo di dissipare il torpore che si era impadronito del mio corpo mentre mi costringevo a rispondere:«Phoebe Drake, p-piacere».

Non so perché ma mi sentivo quasi in soggezione. Poco dopo avvertii dei passi dietro di me ed un’altra ragazza sopraggiunse. Scansò le mani di Marina dalle mie spalle per poi porre, in modo meno deciso, il palmo della propria mano destra poco sopra la mia clavicola sinistra. In un certo senso, mi sentii più sollevata. Era alta quanto me, aveva i capelli neri e mossi lunghi fino ai gomiti e gli occhi verdi come smeraldi, proprio come i miei. La carnagione era chiara, seppur non troppo.

Sorrise conciliatoria e notò:«Ragazze … credo che la stiate spaventando. Phoebe, io mi chiamo Lyssa Foster, è un piacere conoscerti».

Cercai di sorriderle a mia volta, anche se non riuscii a formare sul mio volto un’espressione appena accennata.

Lyssa sembrò sinceramente felice di notare quell’accenno –minimo- di sorriso sul mio volto, come se le avessi mostrato un abbozzo d’incontenibile felicità, così propose:«Vieni, ti presento le altre!»

Feci appena in tempo a pensare No, aspetta … quali altre? che Lyssa mi aveva già accompagnata davanti ad altre due ragazze.

La prima aveva gli occhi rossi come il fuoco –cosa?!-, le labbra morbide e carnose e lunghi e lisci capelli neri come la pece, che le scendevano lungo tutta la schiena, fino ad arrivarle ai fianchi. Era alta, magra e con le forme prosperose –di nuovo a disagio-.

L’altra aveva una folta chioma di ricci biondi, sfumati in alcuni punti con un’intensa tonalità violacea. Era abbastanza alta, decisamente di qualche centimetro in più rispetto a me ed i suoi occhi grigio-azzurri parevano risplendere di una luce intensa. indosso aveva una camicia dalla fantasia a scacchi rossi e blu, jeans di un azzurro deciso e sottobraccio portava una giacca di pelle, che doveva essersi sfilata.

Lyssa non smise di sorridere nemmeno per un momento mentre me le presentava:«Phoebe, loro sono Nomiko Kiyama e Sophia Sanders, entrambe del terzo anno».

Nomiko allungò la mano nella mia direzione, così gliela strinsi.

«Benvenuta, novellina» commentò.

Sophia mi rivolse a sua volta lo stesso gesto che mi aveva rivolto in precedenza Nomiko, seppur mi sembrasse un po’ riluttante nel farlo.

«È un piacere conoscerti» affermò, anche se non sapevo se ci credesse sul serio.

Poco dopo mi accorsi che, dietro Sophia, riuscivo ad intravedere un’ennesima ragazza. Ma quante erano?

Aveva dei capelli castani, che sembravano essere alquanto ribelli, lunghi fino a metà schiena di un castano molto chiaro, le punte arricciate. L’incarnato abbronzato, la corporatura proporzionata, era alta e magra. Gli occhi per un momento mi apparvero neri ma, quando la luce li illuminò, scoprii che erano invece di un blu molto scuro ed intenso.

Lyssa sembrò averla notata solo in quel momento, così mi spiegò:«Oh, lei invece è Yume Okinori, sempre del terzo anno!».

Non ci raggiunse, bensì si fermò qualche passo prima, mettendosi ad osservarmi. Sulle prime pensai che fosse un tipo scorbutico, tuttavia capii che probabilmente doveva trattarsi solamente di una ragazza molto introversa.

Allungai la mano nella sua direzione e ripetei per l’ennesima volta per quel giorno:«Phoebe Drake».

«Yume Okinori» si limitò a replicare lei, mentre mi restituiva una stretta non molto convinta.

Nel frattempo, le altre ragazze esultarono entusiaste.

Lyssa fissò con aria divertita la mia espressione smarrita e mi spiegò:«Oh, tranquilla Phoebe, non è successo niente, probabile che Endou Mamoru, il portiere dell’Inazuma Japan, la squadra che ha vinto i mondiali, abbia parato un tiro o qualcosa del genere».

Oh, sì certo, adesso avevo capito tutto.

Poco più in là, mi accorsi della presenza delle ultime due ragazze. Non sembravano essercene altre nei paraggi, anche perché le due erano le più distanti dai restanti presenti.

Erano accanto ad una staccionata. Una delle due aveva i capelli castani, leggermente mossi e poco più lunghi delle spalle –più o meno come i miei- mentre gli occhi erano difficilmente identificabili:uno era di un acceso color smeraldo, mentre l’altro era coperto da una benda. Era alta, la sua carnagione era delicata e rosea ma la cosa che mi colpì maggiormente di lei fu il cappello di lana a forma di panda che aveva in testa.

Stava con gli avambracci poggiati ad una delle stecche di legno della staccionata e fissava i ragazzi impegnati nella partita di calcio con aria annoiata.

L’altra invece le gironzolava attorno, un sorriso allegro stampato in volto.

Era alta e magra, aveva il volto dalla forma ovale e la carnagione rosea. Gli occhi erano a dir poco particolari:ricordavano molto quelli dei gatti ed erano di due colori diversi, il sinistro nero come la notte ed il destro azzurro come il cielo. I capelli erano corti e di un biondo dorato, una piccola treccia le scendeva sulla destra.

Mentre continuava a muoversi intorno all’altra ragazza, notai che il collo della maglietta era un po’ più ampio sul petto e lasciava intravedere un tatuaggio. Era una scritta.

I’m alive.

Essendo americana, non ebbi difficoltà a tradurlo:io sono viva.

Dopo aver mormorato un rapido “scusa” a Yume, mi affrettai a raggiungere le due curiose ragazze.

«Ciao!» le salutai, cercando di apparire quanto più allegra possibile.

La ragazza con il tatuaggio mi sorrise e si presentò:«Ciao! Diantha De Nobili, piacere!».

Sorrisi e ricambiai:«Phoebe Drake, piacere mio».

La ragazza alla staccionata fissò intensamente, come se volesse arrivare a vedere fin negli angoli più profondi della mia anima prima di presentarsi a sua volta:«Kimberly Takishima».

Nel frattempo notai che, a pochi passi di distanza da me, Nina si stava arrampicando su di un albero, sotto lo sguardo attento e severo di Sora.

«Da qui riuscirò a scattare una foto davvero ‘intrigante’!» esclamò la ragazza.

Sora si limitò a scuotere la testa, al limite dell’esasperazione –o forse della preoccupazione-.

Solo in quel momento mi accorsi che, all’improvviso, il sole era scomparso, sostituito tempestivamente da dei nuvoloni scuri e preoccupanti. Mentre Susan guidava un altro coro d’incitamento per quell’Endou, la boccata d’aria che trassi mi sembrò carica d’ozono.

In questo temporale c’è qualcosa che non va, mi dissi.

In quell’esatto istante un tuono di dimensioni pazzesche scoppiò nell’aria, provocando un sobbalzo a non poche persone, me compresa.

La pioggia cominciò a cadere con uno scroscio assordante, in modo continuo e così fitta e violenta che mi ritrovai bagnata dalla testa ai piedi in ben meno di un battito di ciglia.

Presto tutti i presenti scomparvero, correndo in ogni direzione pur di sottrarsi alla forza della tempesta.

Perfino Nina, che era capitombolata giù dall’albero al sopraggiungere del tuono –per fortuna non si era fatta niente, Sora l’aveva afferrata prima che toccasse suolo- ora era sparita, rinunciando così alla sua preziosa foto.

Nonostante avessi le sopracciglia inondate dalle gocce di pioggia, che mi costringevano così a ridurre a dismisura il mio campo visivo, mi accorsi della presenza di una figura, immobile sotto la pioggia, al centro del campo di calcio.

Era di spalle, perciò le uniche cose che notai, seppur sfocate, furono una coda di dreadlock ed un mantello, rosso come il sangue.


* Angolo autrice *

Eccomi di nuovo qua! u.u

Wow, non credevo che ce l’avrei fatta, anche perché mi sto tipo squagliando dal gran caldo!

Finalmente, tutti gli OC sono stati presentati, spero che le mie parole siano alla loro altezza!

E niente, credo sia tutto ma prima di lasciarvi vi pongo l’ormai consueto interrogativo di fine capitolo.

Cosa (o chi) si cela dietro la tempesta?

In un certo senso vi sto già dando un indizio, ammettendo che non è a cause naturali che va attribuito lo scoppio del temporale.

Una cosa però ve la voglio dire:la risposta non è affatto scontata!

Attendo con ansia le vostre ipotesi e più in generali, le vostre impressioni sul capitolo.

A presto (spero)

Aria_black

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Capitolo 4
*** Temporali improvvisi ***




Si ringrazia rie (endorphin) per il banner~


Lo Scettro della Notte


Era lì, immobile e non sembrava avere alcuna intenzione di muoversi per lasciare la sua posizione.

Il che, a mio parere, era una cosa alquanto idiota.

Andiamo, ci mancava poco che non scendesse pure il cielo, tanto era intenso e devastante quel temporale!

Allora perché restare fermi, sotto quella pioggia fitta e scrosciante?

A meno che tu non sia uno svitato, certo.

Eppure, qualcosa continuava a non tornarmi.

Ecco perché, fondamentalmente, ero a mia volta ancora lì, sotto quel diluvio universale, intenta ad osservare quella figura immobile nel bel mezzo del campetto da calcio, anziché seguire l’esempio dei ragazzi presenti sul luogo poco prima dello scoppio del temporale e correre a cercare riparo per non ritrovarmi bagnata dalla testa ai piedi, stile biscotto inzuppato nel latte.

Invece no, da brava ragazza intelligente che non ero altro, mi ero immobilizzata sul posto pure io, dedicando tutta l’attenzione del mondo ad osservare il ragazzo più strano che avessi mai visto in vita mia.

Che, a quanto pareva, aveva appena deciso di prendersi una broncopolmonite.

Si tirò su il cappuccio rosso, coprendo la coda di dreadlocks.

Davvero una gran protezione dal temporale più forte al quale avessi mai assistito prima.

Mosse dei passi, incerto, avanzando a stento seppur non avesse percorso che pochi centimetri, lungo il campo, che si stava ormai trasformando in una palude acquitrinosa ricolma di fango in piena regola.

Non potei che considerare la situazione ancor più paradossale:aveva, a pochi passi di distanza alle sue spalle, l’erba appena inumidita della striscia di terreno che precedeva il campo.

Non avrebbe dovuto far altro che voltarsi, raggiungere il prato e lì avrebbe trovato le scale di cemento che lo avrebbero ricondotto ai cortili della scuola.

Una volta lì, gli sarebbe bastato percorrerli finché non avesse trovato riparo, oppure, qualora abitasse nelle vicinanze dell’istituto, avrebbe potuto benissimo correre fino a casa sua, dove avrebbe potuto certamente trovare una doccia calda e vestiti asciutti.

Eppure lui rimaneva lì, a lasciarsi lavare pure l’anima dalla pioggia.

Ragazzo incoerente. Già, già.

O forse stupida io che stavo ancora lì a fissarlo nonostante tutto.

Però continuavo a ripetermi che c’era qualcosa che non andava in quel ragazzo e per quanto fosse forte in me il desiderio di farmi i fatti miei e di correre al riparo nel mio caldo appartamento del centro cittadino, qualcosa m’imponeva di restare lì, l’attenzione totalmente rivolta alla mia muta contemplazione di quella scena che superava decisamente i limiti dell’assurdo.

Si mosse ancora, stavolta acquisendo maggiore padronanza del suo corpo e del terreno instabile che lo circondava.

Proprio come temevo, da bravo incoerente quale si stava rivelando, prese ad attraversare il campetto nel senso della larghezza.

Ringraziai il cielo che perlomeno non avesse optato per quello della lunghezza:si sarebbe scelto il percorso decisamente peggiore.

Forse, allora, un briciolo di sale in zucca gli era rimasto.

Percorse tutta la linea bianca di centrocampo, attraversandone il cerchio come tracciandone il diametro.

Era preciso, questo era poco ma sicuro.

Solo che continuavo a non capire quale fosse il senso di quel suo gesto, a mio parere a dir poco assurdo.

Risalì il fianco della collinetta dalla parte opposta alla mia, dopodiché s’incamminò per i cortili della scuola.

Forse aveva deciso che avevo ragione io –nonostante non ci fossimo parlati affatto- e che la scelta migliore fosse rintanarsi in casa propria e bersi una bella tazza di tè.

Certo, come no.

Mi legai i capelli castani in una leggera coda di cavallo, dopodiché non persi un minuto oltre e cominciai a seguire il ragazzo.

 
Principalmente, le domande che mi posi furono due.

La prima:per quale motivo un ragazzo sano di mente dovrebbe mettersi a camminare a passo lento lungo il centro cittadino di Tokyo, mentre intorno imperversa un temporale da brividi ed in giro non c’è un’anima viva?

La seconda:ma per quale assurda ragione mi sentivo tanto in dovere di seguire quel tipo che aveva decisamente ben poco di normale?
Inutile dire che non trovai risposta a nessuna di quelle due domande.

Mi strinsi nella mia felpa verde bosco – del – Connecticut, visto che ormai avevo deciso di chiamarla così, quindi continuai ad avanzare guardinga dietro quello strano ragazzo.

Non trovai molto conforto nei miei indumenti, giacché erano ormai irrimediabilmente fradici tanto quanto me, così mi limitai a battere silenziosamente i denti.

Stavo facendo quanto meno rumore possibile pur di non farmi notare, eppure i miei sforzi erano pressoché inutili, poiché la pioggia cadendo provocava un rumore talmente scrosciante che era in ogni modo impossibile sentire un rumore qualsiasi oltre al ruggito dei tuoni ed al ticchettio delle gocce d’acqua a terra.

Almeno per quell’occasione ero tutelata da eventuali rumori provocati involontariamente.

Di solito ero una frana nel fare azioni di nascosto. Tipo seguire tizi assurdi, in effetti.

Finiva sempre che, in un modo o nell’altro, mi facevo scoprire; la prassi voleva che, proprio nel momento cruciale del “fare qualcosa senza essere visti”, provocassi un rumore per sbaglio –inciampare nei miei stessi piedi, andare a sbattere contro un lampione, far cadere inavvertitamente a terra il cucchiaio con il quale stavo sgraffignando quantità improponibili di crema alla nocciola nel cuore della notte … giuro- e così venivo puntualmente scoperta.

Perciò, se un vantaggio si poteva trarre dal ritrovarsi zuppi dalla testa ai piedi stile pesce fuor d’acqua, doveva essere il fatto che si potesse seguire qualsiasi persona senza essere notati, tanto i tuoi passi erano coperti dal frastuono della pioggia.

Chissà perché ma avrei decisamente preferito scoprire una cosa del genere in tutt’altre circostanze.

La cosa assurda?

Mentre io sembravo essermi appena fatta un tuffo nell’Oceano Pacifico, il tipo davanti a me sembrava perfettamente asciutto.

Non sapevo sinceramente se ridere o piangere.

Camminava imperturbabile per le strade di Tokyo e sembrava che la pioggia non fosse in grado di colpirlo in alcun modo.

Probabile che avrei avuto un crollo di nervi da un momento all’altro.

A differenza mia, sembrava possedere una perfetta padronanza delle strade che percorreva.

Tante grazie, ero arrivata a Tokyo giusto il giorno prima.

Al che valutai che, probabilmente, se avessi perso di vista quel misterioso ragazzo, mi sarei ritrovata nel bel mezzo del nulla in una metropoli all’apparenza deserta e difficilmente sarei stata in grado di tornare sui miei passi e trovare la strada per trovare casa mia.

Fantastico.

Forse, a quel punto, mi sarei dovuta fermare, fare mente locale, cercare dei punti di riferimento –segnali stradali, semafori, punti strategici della segnaletica insomma, che avevo adocchiato quella mattina mentre correvo verso la mia nuova scuola- e trovare comunque un modo per tornarmene a casa.

Invece no.

C’era qualcosa che mi attirava verso quel ragazzo, una sensazione che mi portava ad andare avanti, a proseguire dietro di lui, alla volta dei percorsi che intraprendeva.

Suona abbastanza assurdo, eppure è così.

Per me, in quel momento era estremamente necessario andare dietro ad un perfetto sconosciuto.

Caspita, suona davvero male.

Ad un certo punto, completamente all’improvviso, lo vidi svoltare in una via laterale che non avrei notato nemmeno mettendomi d’impegno.

Vi svoltai a mia volta e rimasi non poco perplessa quando mi resi conto che era un vicolo cieco.

Ma siamo seri?

Unica consolazione:la stradina era così stretta che i due palazzi in mezzo ai quali sorgeva erano così vicini che quasi si toccavano, creando una sorta di riparo dalla pioggia.

Tanto l’unica che continuava a rimanere bagnata ero io, no?

Il ragazzo era ancora di spalle, immobile, a pochi passi di distanza da me.

Non so bene come feci a resistere all’impulso di saltargli addosso e gridargli sono zuppa dalla testa ai piedi a causa tua, razza di genio!

Ah, già, probabilmente non lo feci perché, altrimenti, avrei infranto in un secondo la mia copertura.

Stavo attenta perfino a respirare, avevo il timore di causare un rumore eccessivo.

Eppure, a quanto pareva, tutti quei miei sforzi erano stati semplicemente inutili.

Il ragazzo col mantello sospirò e commentò:«So che sei lì».

Inizialmente pensai pure che non si stesse riferendo a me, magari, nell’oscurità del vicolo, si celava qualche brutto ceffo.

Certo, non credo avesse motivo per andare in un vicolo cieco ad incontrare brutti ceffi ma questi sono dettagli.

Rimasi lì, in attesa che succedesse qualcosa, un avvenimento qualsiasi.

Eppure, l’unica cosa che accadde, fu il ragazzo che si voltava nella mia direzione, abbassandosi nel frattempo il cappuccio rosso del mantello, mostrando così nuovamente la coda di dreadlocks castano chiaro che mi era sembrato di intravedere in precedenza.

Quando ci ritrovammo faccia a faccia, notai una serie di dettagli uno dietro l’altro, in un vortice di novità che m’impiego qualche istante per essere decifrato del tutto.

Anzitutto rimasi un po’ sorpresa di non trovare un paio d’occhi ad attendermi su quel volto, anche perché, generalmente, gli occhi erano la prima cosa sulla quale mi focalizzavo in una persona.

Non che non avesse gli occhi, eh. Solo che, sopra di essi, si trovava un paio di occhialini d’aviatore, l’elastico azzurro che ruotava tutt’intorno alla circonferenza della sua testa.

Le lenti erano scure come quelle di un paio di occhiali da sole e non riuscii in alcun modo ad intravedere ciò che si celava sotto di esse.

La carnagione era così candida da sembrare nivea e fragile.

Sembrava che mi stesse osservando con lo stesso sguardo inquisitore che stavo adottando io su di lui, eppure non potevo dirlo con certezza visto che i suoi occhi erano nascosti da quegli assurdi occhialini.

Non mi rimase che intuirlo dal suo sopracciglio inarcato verso l’alto, unico accenno di un’espressione dubbiosa e concentrata su mille riflessioni che comparve sul suo volto.

L’altra cosa che notai era che indossava una divisa calcistica, il che continuava a non motivare il mantello.

D’accordo, magari giocava nel club di calcio della scuola al quale aveva accennato Lyssa, eppure come spiegarsi un ragazzo che gioca a calcio con un mantello rosso sangue?

La cosa suonava sempre più assurda.

Senza perdere la sua espressione dubbiosa, mi domandò con aria saccente:«Allora? Hai intenzione di parlare o dovrò toglierti le parole di bocca in qualche altro modo?».

Probabilmente avrebbe dovuto optare per la seconda, visto quanto ero persa nel contemplarlo.

Lui sospirò amaramente, dopodiché riprese a fissarmi. Sembrò essere stato come colto d’improvviso da qualcosa, un dettaglio che non aveva notato prima, forse.

Seguendo la traiettoria del suo sguardo, notai che stava fissando la coda di cavallo nella quale avevo sistemato i miei capelli, ora caduta sulla mia spalla destra.
Con un rapido gesto della mano la spostò, facendola ricadere sulla mia spalla sinistra.

Il suo fu un movimento talmente veloce che quasi non ebbi il tempo di accorgermene, né tantomeno di irrigidirmi per quell’improvvisa vicinanza della sua mano al mio volto.

Probabilmente se fosse stato più lento o goffo me ne sarei sicuramente resa conto e con una rapido passo all’indietro sarei riuscita a scansarmi, evitando così che i nostri corpi si sfiorassero minimamente.

Invece quel tipo era indubbiamente veloce, questo dovevo senza dubbio attribuirglielo.

«Molto meglio» commentò, con evidente riferimento alla coda, ora sulla mia spalla sinistra.

Non capivo l’apparentemente inesistente motivo che lo portasse ad affermare cose che, tra l’altro, non condividevo affatto, o meglio, proprio non le capivo.

Quale differenza avrebbe mai potuto fare una coda sul lato sinistro del corpo, anziché su quello destro?

Magari erano stupide superstizioni giapponesi, tuttavia ne dubitavo fortemente.

Scossi la testa e mi decisi a domandare:«Chi sei?».

Il ragazzo sorrise scaltro prima di chiedermi a sua volta:«Ha poi molta importanza?».

A quel punto non sapevo più cosa avesse o non avesse importanza, tuttavia di una cosa ero certa:non avevo seguito quel ragazzo sotto quell’assurdo temporale per non ricevere poi nemmeno un’informazione tanto banale come il suo nome.

Prima che potessi ribattere qualsiasi cosa, il giovane precisò:«Ad ogni modo, il mio nome è Kidou Yuuto, piacere».

Rimasi perplessa per un breve istante, come scioccata che mi stesse lasciando vincere quella battaglia, dopodiché allungai la mia mano in direzione della sua, che aveva steso in senso di saluto, così gliela strinsi e replicai:«Phoebe Drake, piacere … ma non ci siamo già visti, io e te?».

Lui scrollò le spalle e commentò:«Probabile che tu mi abbia visto questo pomeriggio, al campo da calcio. Faccio parte della Inazuma Japan».

Plausibile, pensai. Dopotutto, anch’io ero lì mentre quei ragazzi si allenavano. Inoltre, Kidou aveva ancora indosso la divisa di gioco, quindi sì, era tutto decisamente probabile. Senza contare poi il fatto che, essendomi trovata sul luogo, dovevo aver inconsciamente lanciato un’occhiata in direzione del campo, scorgendo il ragazzo. Ecco dove lo avevo visto!

Lui sorrise e commentò:«Devi essere nuova. Non ti avevo mai visto alla Raimon, prima».

Quel dialogo sembrava surreale, soprattutto per il fatto che si stava tenendo tra due perfetti sconosciuti, per di più sotto la pioggia scrosciante.

Alzai le spalle ed ammisi:«Sono a Tokyo da ieri, oggi è stato il mio primo giorno di lezioni. Mi sono trasferita dall’America».

Sembrò sorpreso, visto che alzò un sopracciglio, lasciando così che quell’espressione dubbiosa che era campeggiata sul suo volto fino a poco prima si riformasse nuovamente sul suo viso.

Sorrise appena mentre concludeva:«Ci rivedremo molto prima di quanto tu possa immaginare, Phoebe Drake».

Non sembrava tuttavia intenzionato ad aggiungere null’altro, così poco dopo lo vidi cominciare ad allontanarsi nuovamente, in direzione stavolta dell’uscita del vicolo.

Mi dava le spalle, così per attirare nuovamente la sua attenzione fui costretta ad esclamare:«Ehi!».

Lui tornò a volgersi verso di me, osservandomi attentamente.

Per un attimo lo fissai anch’io, prima di domandargli:«La pioggia … sembra quasi fermarsi prima di raggiungere il tuo corpo. Perché?».

Lui mi rivolse un mezzo sorriso, dall’aria un po’ amara, mentre valutava:«Forse non ci tiene a sfiorarmi nuovamente, come se non volesse ferirmi ancora una volta … non trovi?».

Detto ciò, svoltò l’angolo che lo immise di nuovo sulla strada principale e sparì, tra le gocce di pioggia sempre più intense che, a quanto pareva, non avevano la minima intenzione di bagnare il suo corpo.


L’indomani il sole sembrava essere tornato a squarciare i nuvoloni pesanti che aleggiavano sopra Tokyo.

Non avrei saputo se si fosse trattato di un bene o di un male, visto che solitamente amavo la pioggia e quando ero ad Hartford non perdevo mai un’occasione, ogni qual volta si verificasse un temporale, per abbandonami a lunghe passeggiate sugli umidi marciapiedi della mia città natale, mentre la musica che ascoltavo grazie alle mie cuffie mi trasportava via, attraverso ogni genere di pensiero mi assillasse in quel momento.

Eppure, il temporale del giorno precedente continuava a sembrarmi insolito:la sua origine mi sembrò tutto fuorché naturale.

Era mai possibile una cosa del genere?

Ripensai a Kidou, alle parole che mi aveva rivolto poco prima di sparire, il pomeriggio precedente, riguardo a quell’improvviso temporale.

Forse non ci tiene a sfiorarmi nuovamente, come se non volesse ferirmi ancora una volta …

Ci avevo pensato su tutta la notte, a quelle parole, dormendo così ben poco.

Perché avevo la netta impressione che non si stesse riferendo solamente alla pioggia?


Giunta a scuola, ero ormai arrivata alla conclusione che glielo avrei chiesto.

E sapevo pure dove trovarlo:sul campo di calcio, intento negli allenamenti mattutini, insieme agli altri suoi compagni di squadra.

Non avevo immaginato che, tuttavia, gli allenamenti mattutini della Inazuma Japan potessero essersi trasformati in un’invasione di campo da parte del loro “fan club”.

Già, le ragazze erano scese in campo, tutte intente a coccolare i loro fidanzati.

Non potevo credere che le ragazze che avevo conosciuto il giorno prima fossero le fidanzate dei giocatori della nazionale che aveva vinto i mondiali.

Chieko si strinse ad un ragazzo dai capelli turchini, mentre Rachel giocherellava con le dita della mano di un giovane dalla chioma color pistacchio.

Uno dei pochi rimasti da soli, in un angolino, era proprio Kidou che, all’ombra sotto un alto albero, fissava la scena con aria quasi disinteressata.

Non era fidanzato?

Mi ritrovai a riflettere che fosse strano, rimproverandomi un secondo dopo per averlo pensato.

Valutai inoltre che quella poteva essere una buona occasione per parlargli, perlomeno per cercare di porgli delle domande riguardo alle parole enigmatiche con le quali mi aveva congedata, la sera precedente, approfittando proprio del fatto che era da solo.

Cominciai a scendere giù per il fianco del piccolo dirupo e rimasi sorpresa di essere ancora in piedi anziché aver effettuato una rovinosa caduta, cosa che invece succedeva alquanto spesso, considerando pure la mia perenne goffaggine.

Neanche a dirlo, non appena arrivai in fondo alla discesa, inciampai in un sasso.

Sarei caduta a terra, se un ragazzo non mi avesse prontamente afferrata per un braccio.

Cercai di ricompormi in un modo quanto più dignitoso possibile mentre sentivo domandare accanto a me:«Va tutto bene?».

Mi voltai in direzione della voce che mi aveva rivolto la parola e per poco non svenni.

Gli occhi, di un intenso acquamarina, finirono per stregarmi all’istante.

La carnagione albina era decisamente nivea ed i capelli, di un inconsueto colore bianco-grigiastri, gli ricadevano morbidi ed eleganti sul volto.

Arrossii per l’imbarazzo –e pure per l’emozione, a dir la verità- mentre mi sorrideva bonario.

«Fubuki Shirou» si presentò, con estrema disinvoltura, che non fece che mettermi ancor di più in imbarazzo.

Perché stavo reagendo in quel modo?

«P - Phoebe Drake, piacere» balbettai.

Non ci fu tempo di dire altro.

Delle grida si levavano dal campo, mentre degli strani simboli luminosi si alzavano sulle teste di vari presenti.

Corsi in avanti per cercare di capire cosa stesse succedendo, ritrovandomi involontariamente ad affiancare Kidou.

«Che cosa …?» cercai di domandare, semplicemente esterrefatta.

In quel momento, prima che chiunque potesse dire qualsiasi cosa, una voce provenne dalle nostre spalle, mentre Kidou si irrigidiva sospettosamente.

«Oh, credo proprio di potervi essere utile» commentò la voce sconosciuta.


* Angolo autrice *

E ce la fa! Sì!!! * piovono coriandoli *

Anzitutto chiedo venia per il ritardo madornale di questo capitolo ma vuoi il tour dei paesini al confine tra Lazio e Toscana con i miei domenica (ed io
solitamente aggiorno la domenica per poi pubblicare il lunedì, non so se avete notato, vuoi per il fatto che mi è morta la batteria del computer (giuro!) questo capitolo giunge con un ritardo colossale rispetto agli altri.

Imploro pietà!

{anche perché io, fossi in voi, mi riterrei parecchio fortunata, visto che sono capace anche di ritardi peggiori * risata sadica *}

No, torniamo seri.

Grazie davvero per la pazienza, spero che il capitolo non abbia deluso le vostre aspettative!

Bene, direi che è arrivato il momento di chiudere, prima però, come ormai di consuetudine, l’indovinello di fine capitolo:

Chi è la voce misteriosa che conclude questo capitolo?

Allora, vi ho lasciato un po’ di indizi disseminati nel testo di questo aggiornamento, spero riusciate a trovarli! Vi do un indizio sugli indizi:due sono mentre Phoebe parla con Kidou, l’altro è poche righe prima della fine del capitolo stesso.

Chissà se qualcuno indovinerà, stavolta! Ne dubito, faccio indovinelli del cavolo con indizi del cavolo! -.-“

Un'altra cosa:vi piacciono Phoebe e Shirou?

Bene, è arrivato il momento in cui io mi dileguo, visto che il mio computer sta per morire nuovamente!

A presto (spero)

Aria_black

P.S.:Ah, già, quasi dimenticavo! Stavo pensando di scrivere il prossimo capitolo dal POV del mio amato Kidou, anziché da quello di Phoebe. A voi farebbe piacere? Anche perché, eventualmente, a quel punto aggiungerei altri capitoli in futuro scritti dal POV di Kidou. Fatemi sapere!

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Capitolo 5
*** La missione ***




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Lo Scettro della Notte


“Sono le cose che amiamo di più a distruggerci”
[Hunger Games:Il Canto della Rivolta - Parte 1]

Il respiro che si chiude in gola.

Un brivido che corre lungo la schiena.

Il cuore che, sebbene tu non riesca a spiegarti perché,smette per un momento di battere, per poi accelerare di colpo nell’arco di un paio di secondi.

Una sensazione familiare, il panico.

Certo, non lo provavo da due anni a questa parte, diciamo però che nel corso del tempo ho avuto modo di averci a che fare.

Mi pare il minimo.

Lo so, sembra un paradosso.

Io dovrei essere quello imperscrutabile, impassibile, nulla dovrebbe essere in grado di turbarmi.

La situazione mi fa quasi ridere per quanto sfiori l’assurdo:incredibile che io riesca a perdere la mia abituale calma solo quando c’è di mezzo chi, in fin dei conti, mi ha insegnato ad assumere tale atteggiamento di ragionata pacatezza, quella salda freddezza di nervi, talvolta così intensa da poter sembrare quasi cinismo, necessaria per poter analizzare fin nel minimo dettaglio pure i momenti di maggiore criticità.

Però non rido. Ci mancherebbe altro.

Perché, per quanto ridicolo possa sembrare tutto ciò –perché sì, è inutile, checché se ne dica questo esatto frangente è semplicemente ridicolo- sento, inevitabilmente, qualcosa che si spezza dentro di me.

Crack.

Non è un’immensa parete come mi sarei immaginato, visto che fino ad ora credevo di essermi rifugiato dietro di essa, pur di sfuggire alla dura verità della realtà.

No, è qualcos’altro, qualcosa di più fine, di più sottile.

Vetro.

Di colpo mi torna in mente un ricordo lontano, sfocato, che credevo di aver definitivamente relegato nel profondo della mia memoria.

Invece no, prepotentemente sembra voler tornare a galla, fare a pugni con la mia stessa coscienza pur di avere la meglio.

Così eccolo qui, proprio davanti ai miei occhi, un bimbo di sei anni che vede un vaso di cristallo cadere dal davanzale ed infrangersi in mille pezzi, a terra.

Non avrebbe dovuto lasciare la finestra aperta, si riprende. Avrebbe dovuto pensarci prima:una folata di vento sarebbe potuta arrivare in qualsiasi momento e buttare giù quel vaso.

Ricordavo fin troppo bene il rumore che il vaso aveva provocato, schiantandosi sul pavimento.

Crack.

Un rumore fin troppo familiare, ripensandoci.

Il rumore di qualcosa che va in frantumi, di nuovo, ancora una volta, l’ennesima ad essere sinceri.

La consapevolezza che ormai quel che è stato fatto è fatto, che non si può più evitare il danno, l’impatto … la distruzione.

È così che, ancora una volta, la mia vita andava in frantumi.

Con quel semplice, insulso ed inutile crack.

Due anni, due anni buttati al vento.

Due anni passati a cercare di andare avanti nonostante tutto, di farsene una ragione.

Nonostante quanto facesse male, sopportando tutta quella sofferenza, evitando di pensare a quanto fosse orribile tutto ciò che ti circondava.

Tutto inutile.

Il vetro s’era infranto un’altra volta, ne ero certo.


Eppure, fui il primo a voltarmi.

Avevo bisogno di conferme o forse solamente di sapere.

Fu una realtà spiazzante e tutta nuova quella che mi ritrovai davanti.

Tuttavia, in qualche modo, era quasi confortante.

Sapere che, in qualche modo che non riuscivo a spiegarmi, ci fosse rimedio a qualcosa di tanto definitivo.

La morte.

Un timido sorriso fece per affacciarsi sul mio volto ma lo respinsi prontamente indietro.

Prima le risposte, ricordai a me stesso.

Era bello. Averlo di nuovo lì, intendo.

Stranamente confortante, a volerla dire tutta.

Mi rivolse uno sguardo incuriosito, addirittura quasi sorpreso, un’espressione vagamente divertita in volto.

Come biasimarlo, in fondo?

Kageyama Reiji era tornato.


Nessuno degli altri si era ancora voltato.

Il che era semplicemente assurdo, anche perché ero assolutamente certo che, perlomeno per quanto riguardava i miei compagni, conoscessero bene quanto me la sua voce.

Le loro ragazze … ne dubito.

Quel fastidioso sciame di api ci ronzava intorno da quando avevamo cominciato il liceo.

Dopotutto, essendo i giocatori che avevano vinto il prestigioso Football Frontier International, intorno a noi si era creata una sorta di cerchia di ammiratrici.

Alquanto asfissianti, per la verità.

Uno dei pochi che era riuscito a non cadere in quel vortice di adulazione, in effetti, ero stato proprio io.

L’altro era Shirou.

Sfortunatamente, la lista non era poi tanto lunga.

Lui come scusa aveva il fatto di avere un carattere schivo, che generalmente lo portava ad evitare complimenti o smancerie d’altro genere.

Io, invece, avevo cercato di mostrarmi sempre distaccato, impegnato a pensare a tutt’altro.

Generalmente usavo la scusa dell’essere troppo preso dalle questioni della squadra per pensare a faccende tanto futili come l’amore.

Ma la verità, lo sapevo bene, era ben diversa.

In quei due anni non avevo cercato di far altro che farmene una ragione, capacitarmi di una morte tanto improvvisa.

A quanto pareva, non ci ero riuscito, non del tutto perlomeno.

O meglio, se quello era l’effetto che continuava ad avere su di me nonostante fosse passato tutto quel tempo, allora ero abbastanza certo che i miei sforzi non avessero avuto la benché minima utilità.

Poi ci pensai e realizzai che, forse, se gli altri non si erano ancora voltati, era perché volevano dare del tempo, ad entrambi.

Ma che cosa carina, pensai, a metà tra il sorpreso ed il disgustato.

Decisi che, perlomeno, la mia squadra si meritava un ringraziamento degno di essere definito tale.

«Kageyama Reiji»sibilai, uno strano quanto spaventosamente familiare senso di perfidia che si avvolgeva intorno al mio cuore, sotto forma di volute di vapore.

«Direttamente dall’espresso Inferno – Tokyo solo andata»ironizzò lui, un sorriso beffardo sulle labbra.

Così dannatamente seducente …

Cielo, perché doveva sempre complicare tutto?

Non ci pensai due volte e cominciai ad avanzare minaccioso nella sua direzione.

«Tu»sbottai, lasciandomi trascinare dall’accesso di bile che d’improvviso aveva invaso il mio corpo.

Mi ritrovai di fronte a lui e per un breve –seppur fin troppo lungo- istante, avvertii il mio stomaco stringersi in una morsa d’acciaio, dopodiché puntai con rabbia e violenza l’indice contro il suo petto.

Lui arretrò di un passo, se spaventato o colto di sorpresa non saprei dirlo.

Continuai a puntargli quel dito contro ed a premerglielo sul petto ad ogni parola che pronunciavo.

Così eruppi con quel rimprovero, se lo si sarebbe potute definire tale.

«Razza. Di. Povero. Idiota. Come. Osi. Presentarti. Qui. Dopo. Due. Anni. Comparendo. Dal. Nulla?!» strepitai.

L’unico essere vivente presente su questo pianeta in grado di farmi venire una crisi isterica, già.

La cosa paradossale era che, nonostante stesse letteralmente camminando all’indietro a causa della mia ira, non stesse incespicando minimamente.

Mi fermai, perlomeno per riprendere fiato. Accidenti, non credevo che le mie emozioni potessero essere tanto intense e distruttive.

Alzai gli occhi, rendendomi conto che, durante tutta la mia sfuriata, non lo avevo guardato, nemmeno per un momento.

E rimasi non poco sorpreso nel notare quella sua espressione sorpresa e vagamente divertita.

In un momento avvertii qualsiasi tipo di forza o rancore abbandonare il mio corpo, al che mi chiesi se tutte quelle spiegazioni, così affannosamente inseguite in quei tormentati due anni, fossero davvero necessarie.

La cosa spiazzante è che non trovai risposta alcuna a quella domanda.

«Kidou»sussurrò, quella maledetta nota di sorpresa ora presente anche nella sua voce e non più solo sul suo volto.

E la razionalità andò a farsi benedire.

Invaso dai sensi di colpa per essere stato tanto sciocco, gli gettai le braccia al collo.

Potei solo che immaginare le espressioni sorprese sui volti delle persone alle mie spalle ma francamente in quel momento non me ne importava poi molto.

Il mio mondo aveva deciso di crollare ancora una volta ed io, in quel momento, avevo solo bisogno di un po’ di sostegno.

Lo sentii poggiare una mano alla base della mia schiena e sebbene arrossii fino alla punta delle orecchie -detestavo il contatto fisico, mi metteva in imbarazzo, perciò cercavo di evitarlo per quanto più mi fosse possibile- non lo rifiutai di certo, limitandomi ad affondare ancor di più il volto dalle gote imporporate contro la sua giacca, affinché nessuno notasse quel rossore.

«Ti odio»brontolai, seppur la mia voce tradisse tutta la mia emozione.

«Oh, mi sei mancato anche tu, Kidou»replicò lui, la voce leggermente divertita.

In quel momento ci sarebbero state così tante cose da dire ed al tempo stesso nessuno di noi due ne sentiva veramente il bisogno.

Forse perché qualunque parola sarebbe stata inutile per descrivere quel momento.

In fondo andava bene così.


Mi ero ormai rassegnato alla prospettiva di dover passare l’ora successiva –e forse pure la settimana a venire- a giustificare la mia reazione a quanto era appena avvenuto ai ragazza.

Mi sbagliavo pure quella volta.

Alle mie spalle avvertii una strana energia irradiarsi per tutto il campo.

Qualcosa, forse istinto di sopravvivenza, mi suggerì che sarebbe stato decisamente meglio non voltarsi, così mi limitai a stringermi ancor di più al corpo di Kageyama.

Lui, d’altra parte, aumentò la presa sulla mia schiena. Quasi potevo sentire le sue dita entrare nella mia carne, scivolare dentro di me.

Per quanto potesse fare impressione, era al contempo stesso anche abbastanza rassicurante.

L’energia sembrò scemare, così mi sistemai meglio col busto per poter voltare la testa in direzione del punto in cui l’avevo sentita generarsi.

E ci trovai una donna.

La cosa, stranamente, m’inquietò alquanto, forse soprattutto per il fatto che apparentemente non avevo motivo di ritrovarmi innervosito dalla presenza di una donna esattamente al centro del nostro campetto da calcio.

Se non per l’inquietante particolare dell’energia che avevo avvertito prima di voltarmi.

Che l’avesse generata lei?

Cominciai a rimettere insieme i tasselli, forse per abitudine o forse perché quel briciolo di razionalità che avevo perso quando avevo abbracciato Kageyama era tornata ad albergare nel mio corpo.

Degli strani simboli luminosi erano comparsi sulle teste di alcuni dei miei compagni e di alcune delle loro ragazze, un sole luminoso sopra Endou, un cinghiale su per il ciuffo punk di Fudou –non ci stava neanche poi tanto male-, delle fiamme tra i capelli di Gouenji.

Sobbalzai quando, lanciando uno sguardo verso l’alto, notai la presenza di una civetta azzurra sopra i miei dreadlocks.

Kageyama, avvertendo il mio movimento improvviso, mi strinse maggiormente a sé ed io ne approfittai per affondare ancor di più il volto nel suo petto, spaventato.

Ne riemersi poco dopo, avevo tutte le intenzioni di scoprire cosa stesse succedendo.

Ero convinto che tutto fosse legato a quella donna, apparsa dal nulla a centrocampo.

Lei lasciò correre lo sguardo su tutti noi. Quando scivolò su di me, mi concentrai al meglio per analizzarne ogni dettaglio.

Lunghi capelli neri, leggiadre vesti bianche.

Anche se, forse, ciò che mi colpì di più furono i suoi occhi.

Infatti, sul volto candido come neve, spiccavano le labbra rosse come petali di rosa, le lunghe ciglia nere e poi quegli occhi.

Scintillanti ed intensi come smeraldi.

Avevo già visto quegli occhi ma non riuscivo a capire dove.

Poi, come colto da un ricordo improvviso, la mia mente fu invasa dalle gocce di pioggia copiose del temporale del giorno precedente.

Allora ne ebbi la certezza.

Quegli stessi occhi verde smeraldo.

Phoebe Drake.

Lei, la nuova arrivata della Raimon, la giovane venuta dall’America, colei che mi aveva seguito fin in quel vicolo sperduto, nemmeno ventiquattr’ore prima.

Spostai il mio sguardo dalla parte opposta del campo, ricordandomi d’improvviso che la ragazza si era avvicinata a me, poco dopo la comparsa degli strani simboli luminosi e che era poi rimasta lì, proprio dove l’avevo lasciata, dopo che mi ero allontanato in direzione di Kageyama.

La vidi subito e compresi che anche lei doveva essersi resa conto che quella donna venuta da chissà dove aveva i suoi stessi occhi, vista l’espressione che aveva in volto, un misto tra stupore e terrore.     

Tornai a fissare la donna e le chiesi con voce –stranamente- insicura:«Chi sei?».

Mi rimproverai subito dopo per quanto stupida suonasse quella domanda.

Lei si voltò nuovamente a guardarmi, dopo che come me aveva concentrato la propria attenzione su Phoebe, quindi esordì:«Semidei!».

C’era qualcosa che continuava a non tornarmi:perché quella donna si stava rivolgendo ai ragazzi presenti sul campo chiamandoli “semidei”?

Una volta, per motivi di lavoro, avevo seguito il mio genitore adottivo in Europa. Una volta lì, avevamo soggiornato per varie settimane nelle diverse nazioni del continente.

Sarebbe anche potuta essere una vacanza, anche perché era estate, certo, peccato che mio padre fosse troppo impegnato dai suoi affari.

Quando arrivammo in Grecia, cercai di godermi al meglio possibile il luogo, cosa che feci, oltre che visitando le spiagge dalle acque cristalline ed incontaminate ed i vari siti archeologici delle vicinanze, leggendo un sacco di libri ed informandomi sulle leggende del posto.

Così, mentre mio padre era impegnato in una full-immersion nel suo lavoro, io passavo le mie giornate in compagnia di dei ed eroi e proprio leggendo di questi ultimi ero venuto a conoscenza dei cosiddetti semidei, uomini e donne nati dall’unione tra un dio ed un essere umano.

Generalmente avevano grandi poteri oppure erano dotati di una forza sovrumana, come Eracle, uno dei più famosi semidei.

Ciò tuttavia continuava a non spiegare perché quella donna si fosse rivolta ad un gruppo di giovani giapponesi come se si trovasse in presenza di eroi dell’antica Grecia.

D’improvviso i miei ragionamenti furono interrotti da una voce, che squarciò il silenzio che era calato sul campo.

«Scusi … com’è che ci ha chiamati?».

Non ebbi difficoltà a riconoscerne il proprietario:Endou, il mio capitano.

Per quanto sciocca potesse sembrare in un primo momento la sua domanda, non potevo che essergli grato per averla posta:dopotutto, non era anche ciò che mi chiedevo io?

La donna si voltò e per un momento pensai che avrebbe ignorato la domanda di Endou, proprio come aveva fatto con la mia d’altronde, invece, inaspettatamente, tornò ad indirizzare lo sguardo nella mia direzione e rispose ad entrambi.

«Il mio nome è Artemide e sono la dea della caccia, nonché rappresentazione della Luna»spiegò la donna «e sono qui perché ho una missione per voi. Giovani uomini e donne, vi sarà ormai chiaro che non siete come i vostri coetanei:voi siete diversi, speciali oserei dire. I simboli divini sopra le vostre teste ne sono la prova».

Cercai di fare mente locale, dunque osservai:«Le fiamme … sono il simbolo di Efesto. Il sole, invece, rappresenta Apollo, dio del sole, della medicina e protettore delle arti. Quanto al cinghiale … credo sia l’animale sacro di Ares. Devo averlo letto da qualche parte, un tempo …».

Sentii una ventina di paia d’occhi puntarsi su di me, così mi ritrovai di nuovo in imbarazzo.

Artemide sorrise affabile e commentò:«Credo che non dovrei esserne poi così stupita. Dopotutto, la civetta che è apparsa sopra la tua testa è un chiaro segno che tu sia figlio di Atena».

Mi resi conto di quanto potesse sembrare assurda la situazione, quindi domandai:«Ma com’è possibile? Voglio dire, la mitologia greca risale a circa tremila anni fa, come potremmo credere di essere figli di … dei?».

Vari mugolii di approvazione si levarono intorno a me e seppi di aver colto il nocciolo della questione.

Artemide mi guardò e sembrò quasi divertita mentre replicava:«Beh, credo che questo potrebbe spiegartelo anche il tuo amico».

Mi sentii nuovamente in imbarazzo quando mi resi conto che con “amico” Artemide si stava riferendo a Kageyama, anche perché il nostro rapporto era la cosa più lontana esistente dall’essere definita amicizia.

Mi voltai comunque verso di lui, che si limitò ad alzare le spalle con aria vaga mentre aggiungeva:«Ecco, non è così semplice da spiegare. Per quanto ridicolo possa sembrare, la divina Artemide ha ragione:la mitologia greca non sono solo favole inventate dagli antichi per spiegarsi fenomeni naturali o l’origine dell’universo, tutti eventi ai quali non sapevano dare una giustificazione. Io stesso ne sono venuto a conoscenza quando, in seguito all’incidente dopo il quale mi avete creduto morto, gli dei mi hanno salvato, risparmiandomi la vita».

Di colpo fui colto da un sospetto, qualcosa che avevo solo ipotizzato ma che ora aveva un senso ben diverso.

«Il temporale di ieri pomeriggio, dunque … non aveva origini naturali»valutai.

Lui sorrise ed ammise:«No, affatto. Sono stato io a generarlo».

Per un istante rimasi perfino sorpreso, poi pensai che stavamo parlando di Kageyama Reiji e che quindi cercare di dare un senso a quell’affermazione sarebbe stato tutto, fuorché logico.

A quel punto le mie parole e tutte le mie ipotesi ebbero finalmente un senso, così ripresi:«Ecco perché la pioggia non mi sfiorava … eri tu che non volevi che arrivasse al mio corpo! Solo … come diavolo è possibile che tu sia in grado di provocare un temporale?».

Lui sorrise ancora, dunque si voltò in direzione del cielo, stendendo il braccio in avanti, quasi proteso a toccare le nuvole.

Subito l’atmosfera sembrò incupirsi, grosse nubi bigie s’addensarono sopra di noi.

Un tuono rombò nell’aria, diffondendo quel rumore assordante per tutta l’area circostante.

I miei occhi tornarono a puntarsi su Kageyama, che mi sorrise comprensivo mentre concludeva:«Mio padre è Zeus, re del cielo e signore degli dei».

Un brivido mi corse lungo la schiena ed avvertii di nuovo l’odore di ozono che avevo percepito il pomeriggio precedente, poco prima dello scoppio del temporale.

Mi resi improvvisamente conto di essere tra le braccia di un uomo potente, incredibilmente, immensamente potente, volendo essere precisi.

Un tempo gli avrei attribuito l’aggettivo “potente” con tutto un altro significato, eppure adesso …

Marina, una ragazza che come me frequentava il terzo anno, domandò allora:«Divina Artemide. Lei ha parlato di una missione. Di cosa si tratta?».

La dea si voltò in direzione della ragazza che le si era rivolta, dunque rispose:«Oh, giovane Marina Sapphire, figlia di Atena anche tu … purtroppo ho delle spiacevoli notizie da darvi, semidei:qualcuno ha rubato lo scettro di Nyx, la dea della Notte. Nyx è una divinità primordiale, ben più antica e potente di noi dei dell’Olimpo ed il suo scettro è in grado di generare le tenebre eterne:se ciò accadesse, il mondo per come lo conosciamo non esisterebbe più e saremmo costretti a brancolare nell’oscurità per il resto dei nostri giorni. Se, come temiamo, lo scettro è caduto in mano a dei mostri o, peggio ancora, ad entità malvagie ben più potenti di questi, per chiunque, umani, semidei e dei sarebbe la rovina. Il vostro compito è quello di ritrovare lo scettro e riportarlo in salvo prima che sia troppo tardi».

Calò di nuovo il silenzio. Da come l’aveva descritta Artemide, la situazione era tutt’altro che rosea:un folle sembrava aver rubato un potentissimo scettro, in grado di gettare il mondo intero nelle tenebre senza fine.

La cosa peggiore era che, a quanto pareva, toccava a noi rischiare la vita per fare in modo di non passare il resto dei nostri giorni in una specie di cecità permanente.

Incredibile, com’è che ricevo sempre belle notizie?

Mi schiarii la voce, attirando l’attenzione di tutti i presenti su di me, dunque chiesi:«Divina Artemide, non vorrei sembrare insolente ma come può aspettarsi che una ventina di persone, che oltretutto hanno appreso neanche mezz’ora fa di essere discendenti di antiche e potenti divinità greche, possano recuperare un preziosissimo scettro, peraltro appartenente ad una dea, senza nemmeno sapere da che parte iniziare? Insomma, non ho mai ricevuto nessun genere di addestramento per questo, come può aspettarsi che sappia cosa fare in una situazione del genere, vale a dire totalmente estranea a me come del resto a chiunque su questo campo, senza contare poi il fatto che ci ritroveremo di fronte ad imprevisti di qualsiasi tipo che magari neanche sapremo spiegarci con nulla che possa aiutarci?».

La dea mi sorrise risoluta e commentò:«Oh, per quest’ultima parte credo proprio di potervi essere utile».

Artemide si esibì in un ampio gesto della mano ed in un battito di ciglia ognuno di noi aveva, tra le mani o fermata in vita, un’arma.

Notai subito la presenza di una cintura che mi fasciava i fianchi ed appesa ad essa si trovava l’elsa di puro argento di una spada, lunga all’incirca una novantina di centimetri.

Il fodero era di pelle nera lucente, adornata qua e là da delle borchie argentate.

Afferrai l’elsa ed estrassi cautamente l’arma, osservandola con estrema attenzione.

Dove l’impugnatura incontrava la lama, l’argento era di un nero brillante, mentre la parte tagliente del lungo strumento era d’acciaio lucente.

Nonostante sembrasse estremamente sofisticata, era oltremodo leggera e maneggevole.

Peccato che non avessi minimamente idea di come si utilizzasse:a volte si finisce per cadere nel banale cliché che i figli di uomini ricchi imparino fin da piccoli l’uso della spada giocando a scherma.

Non esiste niente di più errato.

Certo, mio padre adottivo era un ricco imprenditore, tuttavia mai aveva espresso il desiderio che mi fossero impartite lezioni di scherma.

Quindi, per quanto bella e preziosa potesse essere quell’arma –non ero poi stupido al punto di non riconoscerne il valore- non ero di certo in grado di maneggiarla.

La dea, come leggendomi nel pensiero, spiegò:«Essendo la dea protettrice della caccia, conosco bene l’utilizzo delle armi. Queste sono le più adatte in base a corporatura, forza e velocità, oltre a rispecchiare la vostra personalità. Sono abbastanza sicura che, ora come ora, pressoché nessuno di voi sappia come utilizzarle ma vedrete che, al momento opportuno, l’istinto di sopravvivenza avrà la meglio su di voi, così saprete quale sarà la cosa giusta da fare».

Rinfoderai la spada ed i miei occhi caddero su Phoebe, che era esattamente davanti a me, dalla parte opposta del campo:aveva ricevuto in dono dalla dea un arco e delle frecce.

Dubitavo che sapesse cosa farsene.

Artemide lasciò nuovamente correre il suo sguardo smeraldino su ciascuno di noi, quindi concluse:«L’ultima cosa che posso dirvi, semidei, è che dovete dirigervi verso meridione:lì troverete il vostro primo compito e se lo svolgerete correttamente, avrete un passaggio assicurato verso la vostra meta successiva».

La dea non aggiunse altro, eppure avevo già cominciato a ragionare sulle mie supposizioni. Meridione …

Artemide ora mi rivolgeva le spalle, gli occhi puntati sulla giovane davanti a sé.

«Phoebe Drake … avvicinati, cara»ordinò la dea.

A Phoebe non restò niente da fare se non assecondarla, una nota evidente di riverenza nei suoi movimenti.

Quando si ritrovò di fronte alla dea, a pochi passi da lei, questa stese il braccio in avanti, il palmo della mano rivolto verso l’alto.

Poco dopo, sopra la testa di Phoebe –sulla quale, fino a quel momento, non era apparso nulla- s’illuminò una luna piena, di un bianco perlaceo lucente, alcune candide e soffici nuvole a danzarle intorno.

Phoebe sussultò, terrorizzata.

La dea invece sorrise soddisfatta mentre annunciava:«La luna è il mio simbolo, un satellite che da migliaia di anni rischiara le notti buie sulla terra. In quanto mia figlia, Phoebe, sarà tuo dovere tenere alto il mio nome, così che si continui a venerarmi come un’appartenente di diritto al pantheon greco, formato dalle dodici divinità più potenti dell’antichità. Il tuo compito è arduo, figlia mia ma so per certo che non mi deluderai».

Detto ciò, la dea si tramutò in una cerva dorata e scomparve, dirigendosi verso dei boschi non molto distanti dietro il campetto di calcio.

Ed io rimasi lì, con una spada che non avevo la minima idea di come utilizzare, due dozzine di ragazzi e ragazze per metà dei armati di tutto punto ed un figlio della più potente divinità del mondo antico, che sarebbe dovuto essere morto e che invece, a quanto pareva non lo era affatto, in grado di generare tempeste e tornato direttamente dal regno degli Inferi.

Proprio una situazione normale, già.


* Angolo delle spiegazioni (?) *

Ed eccomi di nuovo qua, ragazzi!

Allora, anzitutto prima di venirmi a dire che ho messo una parte di capitolo al presente ed una al passato, lasciate che vi spieghi:la prima parte del capitolo, infatti, è molto generale, quasi vago oserei dire, giacché non ha una collocazione ben precisa all’interno della storia.

È più un momento “lirico” se così vogliamo definirlo, estemporaneo alle vicende della storia vera e propria –seppur non del tutto- ed ha la funzione di spiegare lo stato d’animo di Kidou in quel determinato momento.

A proposito, vi è piaciuto il capitolo sotto il suo POV? In teoria anche il prossimo dovrebbe essere scritto in prima persona da lui, quindi fatemi sapere! Ho pensato inoltre che, nei capitoli dal punto di vista di Kidou, inserirò delle citazioni, per distinguerli da quelli di Phoebe. Vi piace l’idea? E la citazione che ho scelto per questo?

Poi, altre spiegazioni random generali:in questo capitolo gli OC non sono presenti (e temo non lo saranno neppure nel successivo):questo succede perché ho deciso di portare parallelamente avanti due storie, raccontate per l’appunto tramite due POV differenti, quello del mio OC Phoebe e quello di Kidou.
Pertanto vi chiedo anticipatamente scusa e vi tranquillizzo:tra due capitoli tornerà (credo) il POV di Phoebe e saranno presenti tutti i vari OC, con le diverse coppie che interagiranno tra loro.

Contenti? Me lo auguro per voi, eh.

Che altro c’è da dire? No, niente, volevo chiedervi se in generale vi sta piacendo la storia e se vi aspettavate quanto è successo.

Chiudo con l’ormai consueto indovinello di fine capitolo:secondo voi, cosa intende Artemide con “meridione”?

Aspetto di sapere i vostri pareri – a tal proposito, scusate se ve lo chiedo ma mi farebbe molto piacere ricevere un vostro riscontro tramite recensione, almeno per sapere se il capitolo fa poi così schifo. So che è estate, fa caldo e praticamente a nessuno va di mettersi a scrivere una recensione chilometrica ma ve l’assicuro, bastano poche righe per riempire di gioia il cuore di un’autrice.

Un’ultima cosa prima che me ne dimentichi:avete preferenze per le armi? Avevo pensato a spade, archi, pugnali e lance, cose così insomma. Sarei per attribuire una determinata arma al vostro personaggio in base alle caratteristiche di questo ma ripeto, se ne volete una piuttosto che un’altra non esitate a farmi sapere.

A presto (spero)

Aria_black

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Capitolo 6
*** Insonnia ***




Si ringrazia rie (endorphin) per il banner~


Lo Scettro della Notte


“Nei miei incubi di solito ho paura di perdere te.
E sto bene quando mi accorgo che ci sei”
[Hunger Games:La ragazza di Fuoco]


Mi svegliai di soprassalto, tanto che per poco temetti di essere così vicino al letto sopra il mio che ormai battervi la testa sarebbe stato inevitabile.

Il respiro era affannoso, la fronte imperlata di sudore.

Vi passai una mano quasi in automatico, cercando di cancellare perlomeno le tracce evidenti che l’ennesimo incubo aveva lasciato su di me, nonostante fossi pienamente cosciente che le ferite, quelle dentro di me, non se ne sarebbero andate mai del tutto.

Ogni cosa era buia intorno a me e per quello che ne riuscivo ad intuire nella penombra della cuccetta del treno, tutti e tre i ragazzi che dormivano con me, si trovavano ancora beatamente tra le braccia di Morfeo.

Poi però mi ricordai quello che avevamo scoperto negli ultimi quattro giorni –le divinità dell’antica Grecia esistevano davvero ed un potentissimo scettro stava per distruggere il nostro mondo– perciò decisi di sorvolare su quell’ultimo paragone.

Nel letto sopra il mio c’era Endou e non avevo bisogno di vederlo per avere ulteriori conferme:il suo ronfare pacato mi bastò per capire di non averlo affatto svegliato.

Nonostante avessi appena rischiato di dare una forte zuccata contro il suo letto. Come poteva essere così tranquillo?

Dalla parte opposta intravedevo appena Gouenji e Fubuki, rispettivamente il primo sopra e l’altro sotto in quella stramba accozzaglia di tubi che formavano i nostri letti a castello, entrambi apparentemente mi sembravano essere scivolati in un sonno profondo.

Gouenji era voltato verso la parete, così che non ne potessi vedere il volto ma a giudicare dal regolare sollevarsi ed abbassarsi delle sue spalle stava trascorrendo sogni tranquilli.

Fubuki aveva un’espressione beata in volto, le mani raccolte sotto il cuscino ed il respiro leggero, così intuii che pure lui non era tormentato dagli incubi.

Insomma, come al solito toccavano tutte a me.

Mi misi silenziosamente in piedi per non svegliarli e barcollai a causa del sonno fino alla mia valigia, rintanata in un angolino in fondo alla cabina, prendendovi i primi vestiti che trovai ed infilandomeli completamente alla cieca, visto che mi riusciva perfino difficile tenere gli occhi aperti nonostante avessi avuto quell’incubo ed ora fossi decisamente più sveglio che addormentato.

Da una parte quasi lo capivo:quegli ultimi quattro giorni erano stati un susseguirsi continuo ed instabile di eventi, che avevano confuso perfino me.

Dopo il ritorno di Kageyama e la scoperta della nostra parte semidivina il mondo sembrava aver preso a ruotare più velocemente.

Artemide ci aveva dato una missione, per la quale nessuno sapeva cosa fare.

Dopotutto, meridione poteva dire qualsiasi cosa.

In realtà la soluzione ci era quasi stata generosamente offerta quando, il pomeriggio seguente, avevamo ricevuto una telefonata da Okinawa.

Tsunami, ovviamente.

Anche lui, a quanto pareva, era un semidio, per la precisione figlio di Poseidone.

Avrei dovuto pensarci, a dir la verità.

Ad ogni modo, era stato contattato da altre nostre vecchie conoscenze in giro per il mondo, che avevano a loro volta scoperto di essere figli o figlie di qualche divinità greca tramite quei simpaticissimi segnali luminosi sopra le loro teste.

Così avevano tutti deciso di raggiungere Tsunami ad Okinawa ed a noi non era toccato far altro che adattarci e partire a nostra volta in direzione dell’isola, nel bel mezzo del Pacifico.

Peccato che fossimo semidei e ciò comportasse che, per noi, nulla fosse mai semplice.

Un viaggio in aereo sarebbe stato impraticabile, soprattutto considerando che contro avevamo nemici tanto potenti da sottrarre lo scettro di una delle più potenti e primordiali divinità mai esistite sulla faccia della Terra.

Come se tutto ciò non bastasse già di per sé –e bastava, eccome– la rotta aerea Tokyo – Okinawa era decisamente troppo lunga, il che avrebbe incrementato  non poco il rischio di essere attaccati da mostri o chissà cos’altro.

Così avevamo deciso di raggiungere per via ferroviaria Osaka e poi, una volta lì, decidere di conseguenza come proseguire.

Anche perché, se avessimo preso l’aero, come avremmo potuto sperare di superare i controlli ed i metal detector con tutte quelle armi che ci portavamo dietro?

Il treno era stata, pertanto, la scelta più giusta.

Inutile dire quindi che tale decisione non si fosse raggiunta per mio merito.

Mi risultava paradossale infatti pensare che, ancora una volta, la mia vita fosse nelle mani di Kageyama e la cosa ancor più assurda era che, per quanto potessi continuare a ripetere a me stesso di odiarlo e che non avrebbe fatto altro che condannarci tutti alla rovina, fino a quel momento mi era sembrato l’unico in grado di prendere lucidamente una decisione che non ci vedesse tutti morti su un fondale marino.

Ovviamente avevo cercato di trovare una risposta alla domanda che continuavo a ripetermi, vale a dire che ci guadagnava lui ad aiutare un gruppo di ragazzini incapaci a non rimetterci la pelle a causa di un branco di mostri, eppure per quanto ci pensassi – all’incirca ogni momento della mia giornata da quattro giorni a quella parte – non ero ancora riuscito a darmi una risposta.

Dopo che Artemide, sotto le sembianze di una cerva dorata, si era dissolta scomparendo nella boscaglia, era stata indetta una riunione d’urgenza a casa mia.

Lì per lì mi ero pure chiesto perché proprio casa mia ma ero giunto alla conclusione che il mio salone fosse l’unico posto in grado di contenere così tante persone senza troppe ristrettezze.

Non avevo comunque esternato le mie perplessità con nessuno, giungendo da solo alla soluzione:non volevo apparire tanto superfluo in un momento del genere.

Una volta lì era stato pressoché impossibile gestire su per giù venticinque persone in preda al panico od allo stupore.

Erano tutti presi ad osservare le loro nuove armi, io stesso ammetto di essermi perso buona parte della discussione poiché ero ipnotizzato, totalmente perso nel fissare con espressione impassibile l’elsa argentata che avevo ricevuto in dono nemmeno mezz’ora prima.

Per quanto mi desse fastidio, dovevo perlomeno riconoscere a Kageyama il merito di essere riuscito a tirare le fila di quei discorsi senza capo né coda.

Erano tuttavia ancora tante le cose che continuavano a non tornarmi e temevo che non mi sarei dato pace finché non vi avessi trovato delle risposte.

M’infilai una felpa nera, un paio di jeans e delle sneakers nere, quindi mi legai in vita la fascia con la spada, dalla quale ormai non mi separavo praticamente mai –giacché oramai vivevo nel costante terrore di un improvviso attacco da parte dei mostri– quindi mi avvicinai quanto più silenziosamente possibile all’uscita della cuccetta, scivolandovi fuori con un rapido scatto.


Nei giorni precedenti alla partenza, alcuni di noi avevano subito degli attacchi da parte di mostri, il che ci aveva portati a convincerci che partire quanto prima sarebbe stata la soluzione migliore.

Io stesso un pomeriggio, mentre tornavo a casa dagli allenamenti insieme a Sakuma, ero finito vittima della battuta di caccia di un’arpia.

Ci eravamo salvati praticamente per un colpo di fortuna, giacché avevo agitato la spada con la prima mossa che mi era venuta in mente, infilzando così l’arpia con un solo movimento.

Quella era praticamente esplosa, ricoprendoci di una strana polverina giallastra.

Quando lo aveva saputo, Kageyama era andato su tutte le furie, esprimendo apertamente il suo disappunto in merito a due ragazzi soli ed inesperti costretti a difendersi dall’attacco di un’arpia … con cosa? Praticamente niente.

Era strano vederlo preoccupato per me, tanto che per un momento avevo avvertito qualcosa di caldo diffondersi nel mio petto.

Per un momento, eh.

In seguito agli attacchi che, quello stesso giorno, altri di noi avevano subito, avevamo preso la repentina decisione di metterci in viaggio verso Osaka quanto prima.

Era pur sempre una specie di meridione, perlomeno rispetto a Tokyo.

Stando a quanto aveva detto Artemide, una volta giunti presso la nostra meta avremmo trovato ad attenderci un compito da svolgere e qualora fossimo riusciti ad adempiervi avremmo guadagnato un passaggio assicurato per proseguire in quella sorta di missione suicida.

Avevamo avuto poco tempo per preparare i bagagli e trovare una scusa abbastanza plausibile per giustificare alle nostre famiglie quella nostra partenza improvvisa.

Non che non fossero abituati a vederci salvare il mondo, solo che stavolta saremmo stati ben più del solito, oltre al fatto che il pericolo con il quale dovevamo confrontarci non era minimamente paragonabile a nulla di quanto avessimo affrontato finora.

Stavamo parlando di dei e magia, dopotutto.

L’unico grande punto interrogativo che avevo per quel viaggio –oltre al sottogruppo di tanti dubbi minori, s’intende– era, come al solito, Kageyama.

Potevamo fidarci di lui?

Purtroppo le circostanze quasi me lo imponevano, eppure avevo perfino proposto ai miei compagni di organizzare dei turni di veglia per tenerlo sott’occhio.

Paradossalmente, nessuno di loro aveva trovato di alcuna utilità controllarlo.

D’accordo, forse avevano ragione loro e non riuscivo a fidarmi di lui solo a causa dei nostri trascorsi, senza contare che, in fin dei conti, era stato l’unico fino a quel momento a darci una mano, nonché con ogni probabilità –per quanto detestabile potesse sembrarmi l’idea- l’unico altro semidio in circolazione che avesse un briciolo di esperienza disposto –o forse sarebbe più corretto dire costretto– ad aiutarci.

Eppure nulla avrebbe potuto impedirgli di ingannarci tutti e trarci d’improvviso in inganno, gettandoci metaforicamente parlando nella fossa dei leoni.

Alla fine però, da bravo idiota quale non ero altro, mi ero lasciato come al solito trascinare dal tono convincente di Endou, che mi aveva ricordato che, d’altronde, ero stato io stesso ad infondere nella mia squadra fiducia in quell’uomo quando gli avevo gettato le braccia al collo, su quel campetto da calcio.

Me l’ero chiesto, perché lo avessi fatto e neppure in quel caso ero riuscito a trovare una spiegazione per quel mio gesto.

Detestavo non avere delle risposte e tanto per cambiare, in presenza di Kageyama non c’era una volta che ne avessi una.

Scrollai con decisione la testa, cercando di levarmelo –inutilmente– dai miei pensieri.

Tentai piuttosto, nonostante già sapessi che fosse del tutto inutile, di concentrarmi sul monotono quanto rassicurante dondolio del vagone del treno che avevamo occupato interamente, talmente tanti eravamo.

Per quanto potessi negarlo era stato a dir poco terrorizzante dovermi scontrare con quell’arpia, per non parlare di quanto, negli ultimi tempi, la mia vita avesse cominciato a cambiare troppo in fretta per i miei gusti.

Ero in effetti alquanto recidivo ai cambiamenti repentini.

Tipo la morte di Kageyama … possibile che dovessi essere sempre così ripetitivo?

Guardai fuori dal finestrino, meravigliandomi con quanta facilità cambiasse il paesaggio oltre di esso.

Di colpo fui spaventato da un rumore improvviso e mi accorsi che la porta in fondo al vagone, che dava su un piccolo terrazzino –possibile che dovessimo viaggiare su un treno tanto vecchio e lento? Di sicuro quella locomotiva apparteneva ai primi anni del secolo precedente– era socchiusa.

Con ogni probabilità il rumore proveniva da lì.

Avvolsi la mano attorno all’elsa della mia spada:meglio essere sicuri, non si sa mai, in caso di un altro attacco da parte dei mostri … certo, il treno era rassicurante proprio perché, da quando avevamo cominciato a viaggiarvi, non avevamo più ricevuto attacchi, tuttavia decisi che fosse decisamente più saggio essere pronti a qualsiasi evenienza e mai dire mai.

Mi avvicinai guardingo alla porticina, cercando di fare quanto meno rumore possibile.


Per poco non passai a fil di spada Kageyama. Già.

Quando fui ormai con la mano sul pomo della porta la spinsi avanti con un rapido gesto ed estrassi la spada, puntandola alla mia sinistra, dove avevo intravisto una sagoma scura.

Peccato che a causa della mia eccessiva prevenzione –o forse sarebbe più corretto dire della mia smisurata fifa– di lì ad un paio di secondi mi ritrovai con la punta della spada appena premuta alla gola di Kageyama.

Sobbalzai, indietreggiando di un paio di passi per la sorpresa.

Idiota, mi rimproverai subito dopo.

Lui in un primo momento mi aveva osservato con un’espressione sorpresa, dopodiché aveva cercato di tornare impassibile come al solito quanto prima, così che non mi accorgessi di quel, seppur minimo, mutamento.

Però io l’avevo notato.

«Hai intenzione di uccidermi?»mi domandò subito, cogliendomi impreparato, una lieve nota di cinismo nella voce.

Per un istante, forse fin troppo lungo, indugiai, talmente spiazzato e preso in contropiede da quella domanda, dopodiché mi affrettai a replicare:«N – no … certo che no».

Mi rivolse un sorriso, che tuttavia sembrava così crudele, mentre mi faceva notare con aria sagace:«Allora per quale razza di motivo mi staresti tenendo sotto tiro?».

Non so perché ma mi resi pienamente conto solo in quel momento che gli stavo puntando ancora la spada contro.

Arrossii –perché stavo arrossendo?– mentre mi affrettavo  rinfoderare la mia arma.

Non capivo perché, eppure in un certo senso avvertivo di dover giustificare quel mio gesto, così ammisi: «Credevo ci fosse un mostro».

Lui mi squadrò e mi ammonì:«Oh, così hai ben pensato di sfoderare un’arma semidivina in direzione del primo venuto senza prima accertarti che si trattasse realmente di un mostro o di uno dei tuoi compagni, oppure che so, di un altro qualsiasi dei passeggeri di questo treno. Davvero una mossa intelligentissima, i miei complimenti».

Le mie mani si strinsero in pugni per la rabbia che d’improvvisò avvertii invadere il mio corpo, le braccia rigidamente distese verso il basso a causa della tensione che percepivo scorrere tra noi due.

Ero così infuriato che sbottai:«Ho avuto paura, dannazione!».

La sua espressione tornò sorpresa e quando mi resi conto di aver realmente detto quella frase spostai immediatamente lo sguardo, puntandolo a terra per l’imbarazzo.

Perché avevo detto una cosa del genere!?

Per qualche secondo calò il silenzio, un silenzio decisamente opprimente, colmo di così tante parole che non uscirono dalle labbra di nessuno dei due.

Lo sentii avvicinarsi a me ed istintivamente mi scostai.

Compresi che le nostre menti, come al solito, avevano percorso lo stesso sentiero e che dunque avesse intuito che quel mio improvviso accesso di preoccupazione era stato causato dall’attacco che avevo ricevuto giorni prima, da parte di quell’arpia.

Sapevo che aveva intuito che, nonostante la mia prontezza di riflessi e per quanto gli altri potessero lodarmi per aver disintegrato un mostro con una singola mossa, ero rimasto profondamente traumatizzato da quanto era avvenuto.

D’altronde, come l’aveva chiamato Artemide?

Istinto di sopravvivenza.

Ecco, se ero ancora vivo era solo grazie al mio istinto di sopravvivenza, non ad una mia particolare abilità nel maneggiare la spada o cos’altro.

Per questo avevo paura.

Non ero riuscito a non chiedermi cosa sarebbe successo se, un giorno, quell’istinto di sopravvivenza fosse venuto meno:avrei decretato la mia morte e quella dei miei amici?

Lanciai un rapido sguardo a Kageyama e mi meravigliai non poco di notare, dipinta sul suo volto, una disperata espressione di dolore e rimorso.

«Cielo, Kidou, perdonami. Non era mia intenzione turbarti»sussurrò.

Per un istante non riuscii più a respirare. Cosa stava succedendo? Perché ora mi diceva quelle cose?

Credeva davvero di poter tornare all’improvviso, dopo due anni durante i quali non avevo fatto altro che crederlo morto e di colpo rigirare tutta la frittata e diventare il buono di turno?

Si avvicinò di nuovo e stavolta gli permisi di raggiungere il mio corpo.

Lo avvertii circondarmi la vita con un braccio, mentre una mano si poggiava delicatamente sulla mia guancia, perdendosi in una svogliata carezza.

Stupido cuore che decide di accelerare quando gli pare.

«Vuoi parlarne?»lo sentii bisbigliare.

Non mi chiese nemmeno se ci fosse qualcosa che non andava, tanto ormai era ovvio che fosse così.

Cercai di spostare il mio sguardo su qualsiasi cosa, purché fosse lontana da noi, così mi misi ad osservare con estremo interesse i binari che scorrevano silenziosi sotto di noi.

«H – ho fatto un incubo»confessai, seppur non di buon grado. Perché la mia voce tremava così pericolosamente, come se fosse sul punto di spezzarsi?

Lui sospirò appena mentre affermava:«Ne avevamo parlato già prima della partenza, ricordi? È normale per i semidei essere perseguitati dagli incubi».

In quel momento avrei voluto che Ade, il dio dell’oltretomba, avesse aperto una voragine sotto i miei piedi e mi avesse risucchiato nel suo regno d’oscurità.

Invece non successe niente, così mi trovai costretto a dover ammettere:«La verità è che ho sognato di perderti … di nuovo».

Sentii il suo respiro bloccarsi in gola, il ritmico alzarsi ed abbassarsi del diaframma d’improvviso interrotto e capii di averlo stupito di nuovo.

Era diventato decisamente più semplice sorprendere Kageyama, dopo il suo ritorno.

Deve essere una cosa dovuta all’essere tornato indietro dagli Inferi, anche perché mi risultava che mai nessuno prima di lui ci fosse riuscito.

All’improvviso, non sapevo bene come, mi ricordai di quella riunione a casa mia e di come, mi ero accorto, Kageyama non mi avesse mai tolto lo sguardo di dosso neppure per un momento, fissandomi perfino mentre parlava.

Come se fosse, in qualche modo a me sconosciuto, felice di rivedermi dopo tutto quel tempo.

Temevo che, per qualche istante, avesse ritenuto possibile che fossi un miraggio, che non fossi realmente lì, che non l’avessi abbracciato davvero e che magari fosse tutto frutto della sua immaginazione oppure una qualche specie di tortura che gli era stata inferta negli Inferi prima di essere salvato dagli dei, tipo mostrargli cose che non avrebbe più potuto avere.

Come me, in fin dei conti.

Mi sentii un essere orribile, specie se pensavo a quello che aveva dovuto soffrire lui.

Tuttavia sentii la sua mano scivolare delicatamente ancora una volta lungo la mia guancia mentre mi tranquillizzava:«Kidou … non me ne vado più».

Non so perché, eppure quell’affermazione mi rassicurò in modo preoccupante, così mi sistemai meglio con la schiena contro il suo petto, fissando di nuovo il paesaggio che sfrecciava intorno a noi.

Per un attimo mi concessi addirittura di sentirmi sollevato, stretto tra le sue braccia, eppure le immagini dell’incubo di poco prima, che fino a quel momento avevo cercato di escludere dalla mia mente, tornarono ad invaderla prepotentemente.

Così eccoci di nuovo lì, sull’orlo di quel buio burrone, il mio corpo a penzoloni su quello strapiombo e la mia mano stretta nella sua, ultima ancora alla vita che mi fosse rimasta.

Eppure le forze abbandonavano di colpo il mio corpo, nonostante le sue esortazioni a resistere, a credere che sarebbe andato tutto bene ed all’improvviso mi sentivo precipitare verso l’abisso eterno, senza più via di scampo.

Era solo un incubo, certo, eppure era così terribilmente reale e terrorizzante.

Ridicolo, eppure una volta ero così razionale … probabile che la razionalità smetta di esistere al cospetto delle divinità, no?

Cercai di cancellare nuovamente quelle immagini dalla mia testa e fallii ancora, tuttavia finsi che non fosse così e gli domandai invece:«Tu, piuttosto … perché sei qui?».

Mi decisi a lasciar tornare il mio sguardo su di lui, così mi confessò:«Avevo bisogno di prendere una boccata d’aria fresca. Comunque, giusto perché si sappia, non ti avrei minimamente biasimato se, prima, il tuo desiderio fosse stato veramente quello di uccidermi. In fondo l’avrei capito:dopo tutto il male che ti ho fatto, sarebbe il minimo».

Trasalii al solo pensiero.

Come poteva anche lontanamente credere che, nonostante tutto, avrei potuto desiderare ucciderlo?

Doveva aver avvertito il brivido che di colpo mi aveva scosso, visto che aveva sciolto la presa attorno al mio corpo.

Per un attimo desiderai che mi abbracciasse ancora.

Poi, per l’ennesima volta, mi diedi dello stupido.

«Ad ogni modo, non lo farei mai»mi costrinsi ad ammettere«potresti tornarci utile. Inoltre, che motivo avrei avuto per farlo?».

Mi resi conto solo in quel momento di quanto mi sentissi stanco, così scrollai rapidamente le spalle e mi voltai in direzione della porticina, spiegando:«Credo che sia arrivato il momento che me ne torni nella mia cuccetta».

Lui, alle mie spalle, convenne:«Sono d’accordo. Cerca di riposarti, ci aspettano giorni intensi».

Come se non me ne fossi già reso conto, valutai.

Raggiunsi la porta, ormai convinto che nessuno dei due avrebbe aggiunto altro.

Tuttavia, quando ormai la mia mano si era già poggiata sulla maniglia, sentii le dita di Kageyama stringersi attorno al mio polso mentre sussurrava:«Kidou, aspetta!».

Mi voltai subito, colpito dal suo tono d’urgenza e rimasi a dir poco sorpreso quando avvertii le sue labbra poggiarsi sulla mia fronte.

Arrossii di colpo mentre lo sentivo allontanarsi dal mio corpo e concludere:«Buonanotte».

Nonostante il mio cuore avesse momentaneamente deciso di farsi un giro sulle montagne russe, mi obbligai a ripetere:«Buonanotte».

Mi voltai, tornando nel vagone e chiudendo quella porta alle mie spalle, nonostante sapessi di aver appena lasciato un pezzo di me su quel terrazzino.


* Angolo autrice *

{ma che carino questo capitolo. Sìsì}

Salve, gente! Come va?

Come avevo predetto in questo capitolo niente OC perché … beh, volevo spiegare un attimo che sta succedendo e francamente non so quanto io ci sia riuscita visto che per tre quarti di capitolo mi sono persa a parlare dei miei personaggi preferiti …

Non diversamente dal solito, certo.

Comunque, bando alle ciance! I nostri ragazzi sono in viaggio, accettando così la missione affidata loro da Artemide e dirigendosi verso sud. A proposito, vi faccio i miei complimenti perché avete indovinato quasi tutti la risposta alla domanda che vi avevo lasciato alla fine dello scorso capitolo, perciò … bravi, chapeau!

Tornando a noi, ho deciso di utilizzare questo capitolo un po’ come un ponte di transito tra la prima parte della storia, ossia quella che è servita un po’ da presentazione e quella che comincerà a partire dal prossimo aggiornamento, vale a dire la missione vera e propria.

Detto questo, stavolta non ho un vero e proprio interrogativo da porvi perché … beh, come dicevo in questo capitolo non ci sono stati sostanziali sviluppi della storia, quanto piuttosto qualche spiegazione generale.

Potrei anche chiuderla qui, prima però ho una comunicazione importante per voi:non so se la prossima settimana riuscirò ad aggiornare regolarmente la storia perché sarebbe pure ora che mi mettessi a studiare, i compiti delle vacanze non si fanno mica da soli!

{maledetto greco!!!}

Niente, mi farebbe piacere ricevere le vostre opinioni in merito alla storia, così, giusto per sapere come sto andando – non fate i timidi, alias recensite!

A presto (spero)

Aria_black

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Capitolo 7
*** Osaka~ ***




Si ringrazia rie (endorphin) per il banner~


Ci si aspetterebbe che fossi crollata a dormire come un sasso, finalmente al sicuro nella cuccetta di quella vecchia locomotiva, circondata da amiche e persone delle quali mi fidavo.

Invece no.

Come avrei potuto dormire?

Ero arrivata in Giappone nemmeno una settimana prima e nel frattempo avevo scoperto di essere la discendente di un’antica divinità greca –che, guarda caso, per quanto potessi dubitarne, esisteva sul serio- e del resto lo era praticamente chiunque mi circondasse, comprese le tre persone che erano con me, in quell’esatto momento, nel mio stesso scompartimento notte in quel treno, che consideravo amiche nonostante l’unica cosa che attualmente ci unisse fosse quel disperato senso di terrore.

Nina era sotto di me, stando alle posizioni che ci eravamo date per quegli assurdi letti a castello.

Farla dormire sopra sarebbe stato un suicidio:nei giorni precedenti alla partenza, infatti, mi ero accorta che, a modo suo, sapeva essere imbranata.

La sua determinazione infatti la portava spesso e volentieri ad essere così concentrata quando faceva qualcosa da farla quasi apparire come una persona con la testa perennemente tra le nuvole; non che ci fosse sul serio, solo che era così concentrata da dimenticarsi di ciò che c’era intorno a lei.

In parte le ero grata perché, qualche giorno prima, mi aveva praticamente salvato la vita.

Uscite da scuola stavamo camminando insieme, dirette verso le nostre reciproche abitazioni, quando una ragazza abbastanza alta ci aveva avvicinate con una scusa apparentemente stupida –chiederci informazioni- e noi l’avevamo seguite in un vicolo che solo dopo ci eravamo rese conto essere cieco.

La scusa sarebbe pure potuta essere realistica:non aveva tratti orientali, sembrava piuttosto essere, come me, americana, al massimo comunque occidentale, considerata la carnagione lattea, i capelli biondi e gli occhi di un colore chiaro, tra il verde e l’azzurro.

Verde acqua, ecco; mi sembrava di ricordare il nome di un colore simile.

Solo che, una volta in quel vicolo buio, la ragazza si era rivelata per ciò che era realmente:i lunghi capelli dorati si erano tramutati in lingue di fuoco, la pelle sembrava vecchia di millenni ed avvizzita, gli occhi pari a due tizzoni ardenti.

Non aveva gambe, quella definizione sarebbe stata troppo clemente.

Una aveva le fattezze equine, il vello quanto di più simile avessi mai visto a quello di un vero asino, mentre l’altra sembrava essere di nientemeno che bronzo.

Ero terrorizzata, incapace di muovermi, se non fosse stato per Nina sarei morta.

«I tuoi capelli vanno a fuoco»aveva fatto notare a quella creatura mostruosa, una punta di ovvietà nella voce.

Aveva attirato così tutta l’attenzione del mostro su di sé e mi era sembrato di rendermi conto solo in quel momento quanto fosse in pericolo la mia amica ed io ero lì, che non riuscivo a muovermi od ad esserle d’aiuto in nessun modo, bloccata in quell’impasse di terrore misto a stupore che congelava qualsiasi idea di movimento potesse passarmi per la mente in quell’istante e mi lasciava lì, gelata sul posto.

Fu allora che mi sorprese.

Vidi qualcosa di piccolo e sottile attraversare l’aria, fenderla come una piccola scia argentea, da Nina al mostro.

Quell’oggetto –che ancora non ero riuscita ad identificare- si era conficcato nel fianco del mostro.

In un primo momento quell’essere sembrava essere rimasto perfino più sconcertato di me, tuttavia ben presto la sua sorpresa si era tramutata in rabbia quando si era reso conto che ora era totalmente incapace di muoversi.

«Veleno paralizzante»spiegò Nina, come se il solo fatto che avesse appena lanciato con mira perfetta un microscopico aghetto intriso di veleno paralizzante nel fianco di un mostro fosse la cosa più naturale ed ovvia del pianeta.

Dopotutto, era di Nina che si stava parlando.

Era stato solo allora che ero riuscita a risvegliarmi da quella sorta di stato di trance.

Avevo estratto il pugnale da caccia che mia madre mi aveva donato insieme all’arco –preferivo di gran lunga il pugnale all’arco, visto che intralciava meno i miei movimenti- e mi avvicinai alla creatura.

Non sapevo per quanto ancora il veleno di Nina avrebbe avuto effetto sulla creatura, perciò mi resi conto che avrei dovuto agire al più presto possibile per non finire affettata.

Non che fossi entusiasta all’idea di pugnalare un mostro, diciamo però che l’istinto di sopravvivenza del quale aveva parlato mia madre ebbe la meglio:considerando che morire sbranata da un mostro non era di certo la vocazione della mia vita, infilai il pugnale senza pensarci oltre nel petto della creatura.

Quello era praticamente esploso, rivestendoci da capo a piedi di polvere giallastra –essenza di mostro, avremmo scoperto poi-.



Quello stesso pomeriggio, eravamo stati tutti convocati per una riunione d’emergenza presso la residenza dei Kidou. Di nuovo.

Non era infatti la prima volta che capitava:subito dopo la visita di mia madre –e la conseguente scoperta di essere semidei- ci eravamo ritrovati tutti lì, nella grande e lussuosa villa del ragazzo strano e misterioso che avevo conosciuto giusto qualche giorno prima.

Fondamentalmente avevamo scelto casa sua come punto di ritrovo strategico e provvisorio per un unico motivo:era l’unica sufficientemente grande da poter ospitare tutti noi senza troppe ristrettezze.

Ad ogni modo, anche altri ragazzi spiegarono di essere stati vittime di attacchi di mostri, lo stesso Kidou era tra questi.

Sulla strada di casa lui ed il suo amico Sakuma erano stati attaccati da un’arpia:grazie al cielo lo stratega della Inazuma Japan era riuscito a liberarsene con un solo colpo di spada.

Sembrava però restio a vantarsene e non credevo lo facesse per modestia:non lo conoscevo, d’accordo, eppure potevo vedere da chilometri di distanza il suo tormento che mi fece intuire che doveva esserci qualcosa di più, che stava evitando di dirci.

Fu Kageyama a zittire una volta i suoi tentativi di distogliere l’attenzione da sé, commentando:«Per quanto tu possa cercare di sminuirti, Kidou, non hai comunque nessun modo per cancellare ciò che hai fatto».

Il rasta aveva deviato rapidamente la direzione del suo sguardo, dimostrandosi improvvisamente disinteressato alla conversazione; non mi era comunque sfuggito il piccolo accenno di rossore sulle sue guance.

Era pressoché impossibile definire l’influenza di Kageyama nella vita di Kidou, seppure quest’ultimo continuasse ad insistere che non avesse più peso alcuno da molto tempo.

Inutile, c’era qualcosa che non mi tornava in come il figlio di Zeus non riusciva a staccare per un istante lo sguardo dal suo ex allievo:era come se, anche se in un modo tutto loro, continuassero a cercarsi, dopo tutti quegli anni, se per rimettere insieme i cocci o meno del loro rapporto non avrei saputo dirlo.

Eppure non ero riuscita a non chiedermelo:era possibile rimettere insieme i pezzi di un rapporto tanto travagliato, per giunta dopo tutto quel tempo?

Kageyama non riusciva a sopportare l’idea che il figlio di Atena si fosse ritrovato sotto attacco, senza avere la minima idea di come potersi difendere.

«Dobbiamo andarcene da qui»aveva annunciato«gli attacchi che stiamo subendo sono la prova tangibile che i mostri emissari dei nemici ci hanno accerchiati. Sanno dove viviamo, conoscono le nostre abitudini. Chi altro è stato attaccato oggi?».

Quasi tutti alzarono la mano.

Quando toccò a me spiegare da parte di cosa avessi subito un attacco, cercai di fornire una descrizione quanto più dettagliata possibile.

«Un’empusa»dichiarò senza troppe difficoltà il figlio di Zeus.

Quando tutti ebbero raccontato le proprie difficoltà giornaliere, Kageyama riprese:«Capite cosa intendo adesso? Siamo troppo esposti qui. Come se tutto ciò non bastasse, finché non recupereremo lo scettro gli attacchi non cesseranno, mettendo in pericolo anche persone innocenti. Pertanto, sarà meglio partire quanto prima, tanto dovevamo comunque recarci ad Okinawa per raggiungere gli altri sull’isola. Ora dobbiamo solo trovare il modo per arrivare lì, possibilmente vivi».

Capii al volo che Kageyama, oltre ad essere un uomo estremamente pragmatico, era anche dotato di ottime capacità retoriche.

Così era venuto fuori che saremmo partiti di lì a pochi giorni, in treno, verso Osaka.

Mio padre non era tornato a casa in quei giorni ed al telefono non era mai raggiungibile:all’osservatorio astronomico c’era un pessimo segnale.

Gli lasciai un messaggio sul tavolo della cucina, cercando di apparire quanto meno preoccupata possibile nell’annunciargli che avevo preso parte ad una ricerca scolastica che mi avrebbe portata fuori città per parecchi giorni.

Evitai di inserire la parte che spiegava che stavo praticamente prendendo parte ad una malata sorta di missione suicida che implicava la presenza di divinità greche, magia e mostri:ci mancava l’allarmismo di mio padre ed il quadro sarebbe stato completo.



Così eccomi qui, nella mia cuccetta, sveglia in seguito all’ennesimo incubo da semidea mentre mi rigiravo inutilmente tra le lenzuola.

Mi decisi a scendere lentamente giù dal mio letto, facendo molta attenzione a non svegliare le altre che dormivano con me.

Atterrata in punta di piedi mi guardai attorno:Nina, nel letto sotto il mio, dormiva come un sasso; quanto al letto a castello di fronte al nostro, Chieko –nel letto in basso- riposava tranquilla, mentre Rin –nel ripiano più alto- agitava di continuo le mani, perfino nel sonno.

Normale per un figlio di Efesto, dio dei fabbri –abituati ad avere le mani continuamente in fermento, alle prese con viti, bulloni e quant’altro- e soprattutto per i semidei, perennemente affetti da iperattività, che li rendeva incapaci di stare fermi anche solo per un secondo.

M’infilai solo le scarpe:vantaggio di dormire vestita, in caso di qualsiasi evenienza e sgattaiolai quanto più silenziosamente possibile fuori dalla cuccetta.



Ero felice delle mie compagne di stanza.

Nei momenti trascorsi insieme avevamo scoperto tante cose di noi:eravamo tutte e quattro figlie di divinità diverse, eppure ci trovavamo abbastanza in sintonia tra noi.

Nina era figlia di Demetra, l’aghetto che aveva tirato contro quel mostro ne era una prova:era infatti un’esperta di piante, dalle quali per l’appunto riusciva ad estrarre quelle sostanze nocive, dove intingeva poi i suoi aghi.

Rin, come dicevo, era un’allegra ed esuberante figlia di Efesto e le sue mani sempre pronte all’azione erano la dimostrazione più lampante che si potesse desiderare.

Quanto a Chieko, lei era una figlia di Atena e non ne ero rimasta poi così sorpresa:già dai pochi momenti in cui ci eravamo parlate avevo notato la sua intelligenza.

Ed io?

Io ero solo la figlia di Artemide, quella di cui nessuno sente mai la necessità … ancora mi chiedevo quale fosse la mia utilità all’intero di quella missione.



In corridoio incontrai Shirou, il ragazzo che avevo conosciuto qualche giorno prima:probabile che qualche incubo tenesse sveglio anche lui.

Era in piedi, nel bel mezzo del corridoio del vagone, accanto ad un ampio finestrino nel cuore della notte.

Mi pareva di ricordare che sopra la sua testa fossero apparsi dei fiocchi di neve, al momento del riconoscimento:Chieko mi aveva spiegato che era il simbolo dei figli di Chione, la dea della neve.

Non sapevo ancora cosa pensare di Fubuki Shirou:era sempre così silenzioso, eppure sentivo qualcosa attrarmi perennemente verso di lui, in direzione di quei suoi infiniti silenzi.

«Buonasera»mi salutò in un sussurro.

«Ehi»ricambiai, un po’ in imbarazzo«che ci fai qui?».

Lui si lasciò sfuggire un sorriso che mi sembrò immensamente triste, tuttavia si limitò a rispondere:«Beh, credo più o meno quello che stai facendo tu:non riesco a dormire a causa degli incubi, così eccomi qui a vagare per il treno, al buio, nel cuore della notte. Con l’unica differenza che Kidou mi ha definitivamente svegliato quando se ne è uscito dalla nostra cabina».

Non mi focalizzai sull’ultima parte della frase, visto che mi limitai a spiegarmi:«No, intendevo perché sei proprio qui, in questo corridoio».

Lui indicò la porta socchiusa alle sue spalle e riprese:«Sono qui per lui. Quando l’ho sentito uscire dalla cabina ho deciso di seguirlo:tanto ormai ero sveglio, inoltre non volevo che si cacciasse nei guai. Invece, quando sono arrivato qui … oh, controlla tu stessa, altrimenti non mi crederai».

Si scansò appena, lasciandomi lo spazio necessario per attraversare il corridoio che mi restava da percorrere, così cominciai ad avvicinarmi alla porticina in fondo al vagone.

Quando passai accanto a Shirou, sentii una ventata d’aria gelida avvolgermi:poteri da figlio della dea della neve, suppongo.

Mi sbrigai a raggiungere la porta:non avevo intenzione di mettermi a riflettere su quell’improvviso gelo.

Cercando di fare quanto meno rumore possibile, sbirciai oltre questa:Kidou era veramente lì ma la cosa più paradossale era che si trovava tra le braccia di Kageyama.

Per giorni non aveva fatto altro che cercare di metterci in guardia su quanto non avrebbe fatto altro che farci finire ammazzati in qualche luogo ed ora lì, con la schiena contro il petto di quello che spergiurava fosse il suo peggior nemico?

Oh, il mondo stava proprio andando alla rovescia.


Non sentivo cosa si stessero dicendo, il rumore del treno che scivolava sulle rotaie era così stridente ed intenso da rendermi difficile perfino udire il mio stesso respiro.

Sempre che si stessero dicendo qualcosa, certo:a volte abbiamo solo bisogno della vicinanza alle persone che per noi sono importanti, senza la necessità di parole.

Si separarono di colpo e capii che a breve sarebbero rientrati nel vagone e che sarebbe stato meglio che non ci avessero trovati lì a spiarli.

Ero comunque contenta che il gruppo fosse unito:per giorni avevo temuto che eventuali litigi tra Kidou e Kageyama durante il viaggio potessero rovinare l’umore generale.

A quanto pareva, il mio era stato solo un timore infondato.

Raggiunsi rapidamente Shirou e gli comunicai:«Credo che stiano per rientrare».

Lui annuì, comprensivo, dunque senza troppe cerimonie mi salutò:«Allora buonanotte».

«Buonanotte»ricambiai, prima di vederlo sparire nel buio del vagone.

Mi sbrigai a tornarmene nella mia cabina:feci giusto in tempo a rientrare nella cuccetta prima di sentire dei passi svelti attraversare il corridoio; ero quasi certa che fossero quelli di Kidou.



La mattina seguente ci svegliammo di buon ora:il treno sarebbe arrivato in stazione ad Osaka alle nove e non avevamo molto tempo per fare colazione e recuperare tutti i bagagli, così ci avviammo in fretta verso il vagone ristorante.

Fummo una delle prime camere a giungere sul posto:non c’erano altre ragazze e gli unici altri presenti erano i ragazzi della camera di Kidou.

E Kageyama, certo.

Il figlio di Atena sembrava avere la testa da tutt’altra parte, mentre osservava con estrema concentrazione il passaggio che sfrecciava davanti ai suoi occhi, al di là del grande finestrino dell’area di ristoro del treno.

Il figlio di Zeus, in piedi con la schiena poggiata contro la parete opposta, sembrava incapace di scollargli gli occhi di dosso.

Poco dopo il vagone cominciò a popolarsi di tutti gli altri ragazzi e ragazze, chi più chi meno assonnato.

Ci sedemmo tutti intorno al lungo tavolo che occupava quasi interamente il vagone e cominciammo la colazione tra le varie chiacchiere.

 


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Quando Kidou si rese conto che il suo ex allenatore si era seduto accanto a lui cercò di non darci peso.

Beh, perlomeno finché si rese conto che si erano appena passati a vicenda la loro bevanda mattutina preferita.

Se la ricordavano ancora … dopo tutto quel tempo …

Fecero quello che avevano sempre fatto e per il quale sembravano avere un talento naturale:fingere che non fosse successo niente.

Kidou si limitò a prendere la sua spremuta d’arancia dalla mano di Kageyama, sorseggiando con gusto il contenuto del bicchiere limpido come cristallo.

Aveva ignorato –per quanto gli era stato possibile, certo- l’aver sfiorato la mano dell’altro ed aveva letteralmente strattonato il bicchiere via dal palmo del figlio di Zeus, concentrandosi al massimo sul gusto leggermente acidulo della spremuta.

Kageyama, d’altronde, non aveva fatto commenti sul suo caffè, corto ed amaro:nemmeno un filo di zucchero, proprio come piaceva a lui.

Rimaneva sempre più sorpreso ogni volta che aveva l’opportunità di constatare quanto fosse sconfinata la memoria del suo ex allievo.

Cosa che, per quanto cercasse di non darlo a vedere, apprezzava e non poco.

Un colpo di tosse palesemente finto si levò dall’estremità opposta del tavolo ed entrambi si voltarono in direzione del rumore inconsueto.

La visuale era in parte ridotta dai posti in fondo al vagone che avevano occupato –per limitare la conversazione con gli altri al minimo, come sempre- ma potevano comunque riconoscere Endou, in uno dei posti più centrali.

Si era alzato in piedi ed aveva assunto un’aria quanto più seria quando cominciò:«Allora … a breve il treno arriverà in stazione ad Osaka. Solo, una volta lì … cosa dovremmo fare, esattamente?».

Kidou si sentì al centro dell’attenzione in modo preoccupante:detestava esservi, ecco perché a volte tendeva a cercare di isolarsi.

Tuttavia sapeva che i suoi compagni –specie i ragazzi della squadra- facevano molto affidamento su di lui, considerandolo come un “mentore”, se così lo si poteva definire:responsabilità implicite nell’essere il primo stratega, probabilmente.

Il figlio di Atena sospirò e spiegò:«Beh … avevo avuto un’idea. Se quello che ha detto Artemide è vero, ad Osaka dovremmo riuscire a trovare il nostro passaggio per il meridione. Perlomeno questo è la teoria che mi sono fatto. L’unico problema sorge quando non abbiamo la più pallida idea di dove e soprattutto come trovare questo “passaggio”. Credo che sia qualche trabocchetto sotto».

«Una missione»sentì concordare qualcuno accanto a lui.

Ci impiegò qualche secondo per realizzare che era stato proprio Kageyama a parlare e che, soprattutto, stava concordando con lui.

Possibile che le loro menti dovessero essere sempre così collegate?

Kidou lo fissò dubbioso e domandò:«Prego?».

Il figlio di Zeus alzò all’istante lo sguardo su di lui, puntandolo in direzione dei suoi occhi, quindi spiegò: «Sarebbe troppo semplice se, una volta arrivati ad Osaka, avessimo semplicemente trovato il passaggio per Okinawa. Ben poco nello stile degli dei, diciamo. Pertanto credo che, al nostro arrivo, ci sarà ad attenderci una missione o qualcosa del genere».

Detestava essere d’accordo con lui.

Sapeva perfettamente che aveva ragione, eppure dargliene atto era decisamente così poco da Kidou Yuuto.

Si limitò a lasciarsi sfuggire un sospiro, forse troppo rumoroso, che fece ridacchiare mezzo vagone.




«Hai intenzione di portarti sul serio tutta quella roba?».

Chieko era incredula:era abituata al proprio intelletto pragmatico che le aveva fatto bastare una borsa ben ragionata ed organizzata, con dentro tutto ciò che potesse servirle.

Lo stesso per quasi tutte le ragazze ed i ragazzi.

Sapeva però già da principio che Vanille non ce l’avrebbe fatta:così eccola lì, sulla banchina, appena dietro la linea gialla, con il suo trolley azzurro, di medie dimensioni.

«Che c’è? Ho preso solo lo stretto indispensabile!»si difese la bionda, sistemandosi la ciocca color pistacchio dietro l’orecchio.

Tutti conoscevano fin troppo bene Vanille:era sempre alla moda, senza nemmeno farci caso; era pertanto chiaro che si fosse portata tutti quei vestiti, la moda era sempre in continuo mutamento.

Rin era d’accordo con Chieko:la figlia di Efesto adorava la precisione, come quella di Atena, peccato non fosse ordinata tanto quanto lei.

I figli di Efesto erano in continuo mutamento ben più della moda di Vanille, inutile negarlo, pertanto non era affatto inusuale che vivessero nel disordine delle loro stesse invenzioni!

In quel momento Kidou avrebbe solo voluto riportare un po’ d’ordine tra i ragazzi, tanto la sua stabilità mentale era a rischio ma giusto un secondo prima che potesse aprire bocca sentì qualcuno alle sue spalle gridare:«Yu-uh! Ragazzi? Sono qui!».

Alla maggior parte dei presenti non ci volle molto per collegare le informazioni in loro possesso:voce squillante ed Osaka, la risposta non poteva che essere una.

Rika Urabe.


La loro vecchia amica era proprio lì, alle loro spalle, un paio di grossi occhiali da sole dalla montatura di plastica rosa a coprirle gli occhi.

«Rika!»esclamò Endou, a dir poco sorpreso«Che ci fai da queste parti?».

La ragazza sorrise affabile mentre si avvicinava a loro e spiegava:«Beh … sono stata avvisata del vostro imminente arrivo qualche giorno fa, così eccomi qua!».

Kidou aveva già intuito che Rika non era venuta a conoscenza del loro viaggio in direzione Osaka tramite mezzi di comunicazione umani:non avevano detto a praticamente nessuno della loro partenza, né tantomeno del loro viaggio.

Allora come faceva a saperlo lei?

Un sospetto prese a farsi strada nella mente del figlio di Atena.

Se ci sono anche altri semidei sparsi in giro per il mondo, come Tsunami ad Okinawa, allora probabile che anche Rika …


Non fece in tempo a finire di formulare la propria ipotesi che la Urabe aveva già estratto uno specchietto dalla propria borsetta.

Era piccolo e rotondo, dalla superficie dorata.

«È stato questo ad avvisarmi»confessò la giovane dai capelli turchini.

Kidou osservò meglio –per quanto gli fosse possibile, mentre tutti si affollavano intorno a Rika per vedere l’oggetto che teneva in mano- lo specchietto.

Sembrava un normalissimo contenitore per cipria, tanto che Rika lo aprì e lo richiuse un paio di volte, per mostrare a tutti che funzionava correttamente.

Una volta che Rika ebbe abbassato e richiuso per un’ultima volta il coperchio dello specchietto, Kidou notò un dettaglio che in precedenza gli era sfuggito:al centro della parte superiore del portacipria, infatti, era riportato una piccola raffigurazione, leggermente in rilievo.

Sembrava essere … una colomba.

Rika ci passò sopra il pollice con una facilità disarmante e di lì a poco lo specchietto prese a mutare sotto i loro stessi occhi increduli, tramutandosi in un pugnale dalla lama di bronzo, lunga all’incirca una ventina di centimetri.

«Afrodite»commentò Chieko, quasi in un sussurro.

«Esatto»convenne Rika, infilandosi il pugnale in un passante dei jeans«È stata lei a donarmelo. Attraverso il vetro ricevo visioni da parte degli dei, invece se passo un dito sulla colomba, l’animale sacro di mia madre, lo specchietto si trasforma in un pugnale».

«Che forza!»commentò una vocina alle spalle di Kidou.

Voltandosi, intravide gli occhioni grigi di Lilian, la più piccola del gruppo, una bambina di soli undici anni che, come lui, era figlia di Atena.

Vanille la prese in braccio e le lasciò osservare da più vicino il pugnale magico di Rika:si poteva dire tutto sulla figlia di Tyche ma non di certo che non ci sapesse fare con i bambini.

Nel frattempo Rika riprese:«Avevo visto nello specchio che sareste arrivati ma non ho la più pallida idea del motivo».

«Artemide ci ha indirizzati qui»spiegò Shirou«dobbiamo recarci a sud per recuperare, da quanto ho capito, un prezioso scettro prima che dei mostri ci uccidano tutti. Ah, e dobbiamo raggiungere Okinawa, dove altri nostre vecchie conoscenze che si sono rivelati essere semidei ci stanno aspettando e per fare ciò dobbiamo prima svolgere una missione o qualcosa del genere».

Rika soffiò debolmente ed obiettò:«Prendere una nave no, eh?»

«Magari fosse così facile»ammise sconsolato Kidou«temo però che gli dei ci abbiano preparato qualche deliziosa sorpresa o qualcosa del genere».

«Capisco»commentò la Urabe, lasciando volteggiare i suoi capelli turchesi nello spazio intorno a lei«vorrà dire che mi toccherà aiutarvi, essendo l’unica un pizzico più esperta del luogo, visto che, beh … non so, ci abito?».

«Potrebbe essere un’idea»acconsentì il ragazzo con gli occhialini.  

Rika sorrise compiaciuta e propose:«Potremmo dividerci in coppie od in piccoli gruppi, così riusciremmo a controllare ogni angolo della città».

Era una buona idea, tuttavia Kidou non ne sembrava del tutto convinto, infatti poco dopo ribatté:«Ma se ci dividessimo non sarebbe troppo pericoloso? Voglio dire, se ci separassimo e venissimo attaccati sarebbe difficile venirne fuori illesi. Dopotutto non ci siamo mai allenati per affrontare una battaglia al meglio».

Il rasta si sorprese non poco quando, non poco, Kageyama gli fece notare:«Vero, tuttavia dividendoci potremmo confondere possibili assalitori, inoltre in piccoli gruppi la possibilità di difendersi con successo aumenterebbe di molto».

Perché doveva sempre avere ragione?


«Allora è deciso!»esclamò Endou, tutto contento«ci divideremo in coppie ed ognuno di noi controllerà in un certo angolo di Osaka alla ricerca del nostro “passaggio verso il sud”!».

Dopodiché, si scatenò la confusione più totale:gente che correva da una parte all’altra, ragazze che afferravano possessivamente i loro compagni sottobraccio, altre –ed altri- che si guardavano intorno spaesati.

Fubuki lanciò uno sguardo in direzione di Phoebe e cominciò:«Credo che io andrò con …».

Proprio in quel momento Nina abbracciò Phoebe ed esclamò:«Io vengo con te!».

Phoebe ridacchiò e concesse:«Ahah, d’accordo!».

«… Gouenji»concluse con aria leggermente affranta Shirou.

«Sono sorpreso»ammise Shuuya, osservando l’amico.

«Oh, mai quanto me, fidati»ammise il lupo dei ghiacci, con un’aria un po’ sconsolata.

Susan strinse la mano di Endou, rivolgendo al capitano un sorriso allegro che lui, come di sua consuetudine, le restituì raggiante; Chieko raggiunse Kazemaru, Rachel si avvicinò a Midorikawa, Diantha comparse all’improvviso alle spalle di Sakuma –che sobbalzò per lo spavento-, Sophia lanciò un’occhiataccia –tra l’altro ricambiata- a Fudou ma si portò comunque al suo fianco.

Yume borbottò qualcosa d’incomprensibile verso Hiroto mentre attraversava la banchina verso di lui, che in un primo momento arrossì appena per poi cercare di tornare quanto più imperscrutabile possibile, come al solito.

Lilian trillò allegra rivolgendosi alla figlia di Tyche:«Vanille, è vero che tu vieni con me?».

La bionda le sorrise affabile mentre confermava:«Certo che sì, Lilian».

Marina osservò ancora per qualche istante la scena prima di commentare:«In realtà, Vanille, ti volevo chiedere se ti andava di venire con me».

Vanille si voltò in direzione di Marina, un’espressione crucciata sul volto e la mano già stretta intorno all’elsa di una delle sue due spade cinesi quando rispose:«Marina, ho detto a Lilian che sarei andata con lei».

Prima che potesse scoppiare una rissa Lyssa mediò:«Ragazze, non mi pare il caso di mettersi a litigare per una simile sciocchezza … Marina, se vuoi puoi venire con me, anch’io sono sola».

La figlia di Atena fissò attentamente la situazione intorno a sé, dopodiché acconsentì:«Ehm … d’accordo».

Nomiko raggiunse Kimberly ma entrambe si lanciarono occhiate diffidenti; Rin e Miriam invece si sorrisero reciprocamente mentre si raggiungevano l’un l’altra a metà strada:con il carattere allegro che accumunava entrambe, infatti, nessuno aveva dubbi che sarebbero sicuramente andate d’accordo.

Rika afferrò non troppo delicatamente la mano di Sora e affermò:«Tu vieni con me, bel fusto».

Sora domandò spiazzato:«B – bel fusto?!».

Rika non rispose, limitandosi ad agitare nuovamente la sua fluente chioma.

«Ed io?»domandò d’un tratto una voce accanto a Kidou.

Il figlio di Atena si voltò all’istante del punto da cui aveva sentito provenire quelle parole e non si sorprese per niente di scoprire che, a parlare, era stato Kageyama.

La cosa che lo lasciò di sasso fu scoprire che gli unici rimasti da soli erano proprio loro due.

Atena, madre, cosa ho fatto di male per farmi odiare tanto da te?
domandò retoricamente e dentro di sé Kidou, alzando affranto gli occhi verso il cielo per rivolgere la sua muta domanda agli dei.

Alla fine, non avendo ricevuto alcun genere di risposta dall’alto, si limitò a borbottare:«Tu vieni con me, ovvio. Siamo rimasti gli unici due a non essere assegnati a nessun gruppo di pattugliamento, inoltre voglio tenerti personalmente sotto osservazione».

Kageyama sorrise tristemente e commentò:«Ti riesce proprio innaturale fidarti di me, eh?».

Kidou lo afferrò con forza per il braccio, cercando di non pensare al fatto che una leggera scossa elettrica lo avesse appena attraversato da capo a piedi.

Sono solamente poteri da figlio di Zeus
, cercò di convincersi il discendente di Atena.

«Andiamo e basta»sbottò Kidou, una nota d’ansia fin troppo percepibile nella sua voce.

«Oh, sarà un piacere»concluse divertito Kageyama.


~ · ~

Nina
Nina non riusciva a smettere di guardarsi intorno con aria semplicemente stupefatta.

Se una settimana prima le avessero detto che quel giorno se ne sarebbe andata in giro per Osaka anziché andare normalmente a lezione, nella scuola di Tokyo che aveva cominciato a frequentare neanche due settimane prima, quando la sua famiglia si era trasferita in Giappone dalla Russia, di sicuro non avrebbe esitato un momento a non credere a quelle parole.

Invece eccola lì, insieme a Phoebe, mentre gironzolavano senza meta nel centro cittadino di una delle città più popolose della nazione.

Certo, mai tanto densamente abitata come Tokyo … ah, già, Tokyo.

Avevano lasciato la capitale giusto la sera precedente ma si era già quasi dimenticata che lì aveva lasciato la sua famiglia.

Non sapeva se esserne dispiaciuta o meno:i rapporti con suo padre non erano mai stati dei migliori, tuttavia quello non giustificava la sua improvvisa partenza dalla città.

Strano ma vero, non era una scusa abbastanza valida.

Si era dovuta inventare che avrebbe preso parte a delle ricerche per un corso di botanica al quale aveva aderito e sinceramente non aveva ancora ben chiaro come ci fosse riuscita:non era brava a mentire, ogni volta che lo faceva veniva beccata.

L’insicurezza nella sua voce, quando doveva dire una bugia … forse era quello che la faceva puntualmente scoprire, per questo generalmente cercava di mentire il meno possibile ai suoi genitori, giusto lo stretto indispensabile.

Quella volta però non aveva proprio potuto farne a meno, era un’occasione fin troppo allettante per rinunciarvi:la prospettiva delle foto che avrebbe scattato e le avventure mozzafiato che avrebbe affrontato se avesse accettato la missione era irrinunciabile.

Quando quella mattina, sul campo di calcio, un papavero era apparso sulla sua testa aveva pensato che si trattasse di uno scherzo di pessimo gusto di qualche suo compagno di scuola, così aveva cercato di toglierselo da sopra i capelli.

Quando tuttavia il papavero si era rivelato di vapore e non era affatto scomparso sotto i colpi che le sue mani gli riservavano, Nina aveva cominciato a preoccuparsi sul serio.

Poi lo aveva scoperto:sua madre era Demetra, l’antica dea greca dell’agricoltura.

Questo spiegava un sacco di cose:la sua passione per le piante –compreso l’erbario che custodiva gelosamente, nascondendolo sotto il suo letto- ed i veleni che estraeva da fiori ed erbe, come quello della digitalis purpurea.

Da quando aveva scoperto di essere una semidea portava sempre con sé una scorta di aghetti intrisi di veleno:un buon rimedio per un improvviso attacco di mostri.

Aveva avuto modo di sperimentarlo qualche giorno prima, quando lei e Phoebe erano state attirate in un vicolo da una ragazza, che si era rivelata poi essere un’empusa.

La prontezza dei semidei le aveva permesso di lanciare indisturbata un ago intriso di veleno paralizzante nel fianco del mostro, dando poi così la possibilità a Phoebe di eliminarlo una volta per tutte.

Per questo era contenta di essere nuovamente insieme a lei pure in quel momento:erano una buona squadra e sperava che così avessero almeno una chance in più di non morire fin da subito.

Proprio in quel momento un baluginio azzurro attraversò lo spazio davanti ai loro occhi, fiondandosi in una stradina laterale lì vicino.

Nina cominciava ad essere stufa di quei vicoletti bui.


«L’hai visto?»le domandò poco dopo Phoebe.

Nina si limitò ad annuire:quel bagliore era stato così assurdo –tanto luminoso da esserle parso accecante- che si aspettava che chiunque in quella strada lo avesse visto.

Invece, a quanto pareva, loro due erano state le uniche due ad averlo notato, il che le fece intuire che, con ogni probabilità, doveva essersi trattato di un qualche segnale semidivino, inviato lì appositamente affinché lei e Phoebe lo ricevessero.

Si lanciarono una rapida occhiata, che bastò loro per progettare la mossa successiva:senza pensarci due volte si lanciarono nel vicolo, pronte ad estrarre le armi per lo scontro che, lo sapevano, le attendeva da un momento all’altro.

Invece, una volta entrate nel vicolo, lo trovarono assolutamente deserto.


~ · ~

Chieko

In quel momento, Chieko era il ritratto della felicità.

Davanti ai suoi occhi c’era una città tutta nuova da esplorare:Osaka, santo cielo, Osaka!

L’indole da figlia di Atene, perennemente attenta ai dettagli, poi, le faceva apprezzare ancora di più tutte quelle novità che la circondavano.

Avrebbe voluto mettersi lì ed osservare tutti quei palazzi intorno a lei, sedersi da qualche parte –le sarebbe andato bene qualsiasi posto, un tavolino del bar sarebbe stato perfetto ma in mancanza d’altro si sarebbe accontentata perfino del marciapiede che costeggiava la strada che in quel momento lei e Kazemaru stavano percorrendo, sebbene sospettasse che a quell’ora e con quell’esposizione alla luce del sole l’asfalto fosse a dir poco ustionante- e studiare ogni minimo dettaglio di ciò che la circondava.

Era davvero un’irriducibile figlia di Atena, non c’era proprio niente da fare.

Eppure al solo pensiero di star attraversando quelle strade con Kazemaru la voglia di mettersi ad osservare degli stupidi palazzi svaniva all’istante.

Ed ecco che all’improvviso la ragazza intelligente e concentrata lasciava il posto a quella innamorata, dolce e romantica, che non le permetteva di pensare ad altro se non quanto fosse bello il contrasto dei loro capelli, i suoi rosa e quelli del ragazzo turchini.

Tutto le sembrava perfetto in quel momento … finché un’intensa luce azzurra non attraversò l’aria davanti a loro, fiondandosi in un’apertura tra due palazzi, poco distanti da lì.

Chieko seppe subito che anche Kazemaru aveva notato quella luce:per qualche strana ragione, la figlia di Atena si ritrovò ad essere assolutamente certa sul fatto che il bagliore fosse un segnale indirizzato a loro due.

Senza dubbio a causa della nostra natura semidivina
, valutò la ragazza dai capelli rosa confetto.

Kazemaru era figlio di Ermes, il messaggero degli dei –ecco perché era sempre così agile e veloce- ed un movimento del genere non era di certo sfuggito ai suoi occhi, allenati a captare ogni minimo spostamento, soprattutto i più rapidi.

Non ci fu pertanto nemmeno bisogno di chiedergli se anche lui l’avesse notato:era qualcosa di fin troppo evidente per passare inosservato.

La prossima mossa venne in automatico:i due si lanciarono alla svelta nel vicolo, alla ricerca della fonte da cui era venuto fuori quel raggio di luce.

Erano sicuri che si trattasse di un mostro e stavano per sfoderare le loro armi.

Tuttavia, una volta giunti lì, l’unica cosa che trovarono ad aspettarli fu il nulla, fatta eccezione per un gatto con una lisca di pesce in bocca, appena riemerso dai bidoni di latta per la spazzatura posti in fondo al vicolo cieco, intento nel gustarsi il proprio misero pasto da randagio.


~ · ~

Vanille

Gli occhi di Vanille ormai erano tutto un luccichio.

Ad ogni passo che faceva incontrava negozi, boutique e bancarelle uno più interessante dell’altro.

Sapeva che si sarebbe dovuta concentrare sulla missione … tuttavia, per qualche strana ragione, in quel momento proprio non ci riusciva.

Fece ruotare per l’ennesima volta davanti ai suoi occhi il braccialetto azzurro che teneva in mano.

Ormai era ferma a quella bancarella da circa cinque minuti ma non riusciva nemmeno più a percepire lo scorrere del tempo, tanto era concentrata sull’oggetto che teneva in mano.

Nemmeno lei sapeva perché, eppure era certa di essere in qualche modo legata al piccolo pezzo di corda che stava osservando.

Non aveva niente di speciale, dopotutto:erano semplicemente dei fili di corda azzurri, intrecciati tra loro, al centro dei quali si trovava un piccolo ciondolo bianco e blu a forma di tartaruga; una sciocchezza da turisti, insomma.

Eppure poco dopo, quando si rigirò il ciondolo tra il pollice e l’indice, una visione la catturò, trascinandola al suo interno.

Alla figlia di Tyche capitava spesso e volentieri di avere delle visioni, tuttavia quasi mai le erano chiare, tanto che perdeva ore intere a cercare di dare un senso a quelle più oscure e misteriose.

Quella volta vide un enorme palazzo reale, le cui fondamenta si ergevano a partire da un fondale sommerso.

Le pareti del palazzo erano di una roccia marina, dal colore verdastro e tutto intorno ad esso sorgeva una sorta di parco o giardino interamente decorato con dei coralli.

Vanille non trovava un senso a quella visione, come nella maggior parte dei casi.

Sarebbe tanto voluta rimanere lì a ragionare su quella visione finché non le fosse stato pienamente chiaro il significato di essa, tuttavia proprio in quel momento

Lilian domandò:«Vanille, insomma, hai fatto?».

Alle parole della piccola figlia di Atena la discendente di Tyche sembrò risvegliarsi da un lungo stato di torpore.

«Sì, eccomi»rispose solamente.

Allungò l’importo del braccialetto al proprietario della baracca e se lo infilò al polso destro, proprio sopra la voglia bluastra a forma d’infinito:non sapeva ancora perché ma era certa che le sarebbe tornato utile, in un futuro non troppo lontano.

Proprio quando Vanille tornò a voltarsi con Lilian in direzione della strada davanti a loro, un fascio di luce azzurra si proiettò da un lato all’altro della via, sparendo in un vicoletto non troppo distante.

Entrambe lo avevano visto, Vanille ne era fin troppo sicura.

Afferrò la mano di Lilian, stringendola attorno alla sua sulla maniglia del trolley –avrebbe dovuto ascoltare Chieko, in quel momento la sua valigia le era decisamente d’impaccio- e cercò di tenere il proprio corpo davanti a quello della più piccola, a protezione di quest’ultima, mentre si avvicinava con fare guardingo al vicolo in questione.

La mano libera si strinse attorno all’elsa di una delle sue due spade cinesi:non voleva farsi trovare impreparata né tantomeno mettere in pericolo Lilian in caso di un attacco da parte di qualche mostro o simili.

Quando però si trovarono sulla soglia del vicolo, l’unica cosa che vi trovarono fu il nulla più assoluto.


~ · ~


Lyssa

Lyssa si sentiva stranamente al sicuro.

Già questo l’aveva messa in guardia:da quando aveva scoperto di essere una semidea le era sempre stato insegnato che difficilmente si sarebbe potuta trovare in una situazione che le consentisse di ritenersi “al sicuro”.

Eppure, osservando quelle strade con Marina Sapphire, una figlia di Atena –pertanto di natura sveglia-, la figlia di Ade si sentiva … protetta.

Era quella la cosa strana:sapeva che lì, più che in qualsiasi altro posto, avrebbe dovuto sentirsi vulnerabile ed in pericolo, in una città che non conosceva minimamente mentre cercava nemmeno lei sapeva cosa.

Marina le sembrava abbastanza tranquilla:osservava ogni cosa intorno a sé con attenzione e la caratteristica concentrazione dei figli di Atena.

Proprio in quel momento, tuttavia, una strana luce azzurrognola fendette l’aria rapida ed indomabile.

Il senso di sicurezza di Lyssa scomparve all’istante:cos’era quella luce?

Marina, al suo fianco, fu scossa da un leggero brivido –forse tensione per l’improvvisa novità- tuttavia aveva già puntato il proprio sguardo nel punto in cui entrambe avevano visto la luce, un attimo prima che sparisse: un vicolo, al lato della strada, tanto piccolo quanto invisibile.

«Questa situazione non mi piace per niente»commentò la figlia di Atena.

Lyssa strinse il manico ligneo della propria balestra:non avrebbe potuto essere più d’accordo con Marina.

Le due si avvicinarono lentamente al vicolo.

Avevano già qualche idea su quello che le attendeva, una volta giunte lì:prima di partire da Tokyo quasi tutti loro si erano imbattuti in attacchi di mostri; non sarebbe stata pertanto la prima volta che si ritrovavano a dover fronteggiare qualche emissario del nemico.

Eppure rimasero fin troppo sorprese quando, una volta raggiunto il vicolo, lo trovarono vuoto e desolato.


~ · ~

Un altro passo e poi un altro ed un altro ancora:ormai esplorare Osaka alla ricerca di ciò che li attendeva si era ridotta ad una questione di logica, forse più per abitudine che altro.

D’altronde era sua consuetudine rendere tutto una semplice prospettiva da poter essere osservata nel modo più pragmatico possibile.

Un tempo avrebbe giustificato quel suo atteggiamento grazie agli insegnamenti che gli erano stati impartiti fin dalla più tenera età, invece ora sapeva la verità:quel metodo di ragionamento, così lucido e preciso, gli era tanto congeniale poiché era insito da sempre in lui per la sua natura di semidio figlio di Atena.

Eppure c’era qualcosa, un dettaglio che continuava a sfuggire dalla mente calcolatrice di Kidou ed era abbastanza sicuro di sapere quale fosse il problema:amava il calcolo, qualcosa di tanto rigoroso, perché gli permetteva di trarre soluzioni in una vita come la sua, che tanto a lungo gli era sembrata precaria, instabile e senza senso.

Solo che c’era sempre qualche problema ed inutile dire che il principale, quello che generalmente lo portava ad avere soluzioni errate ed insensate alle sue perfette equazioni di vita, fosse, alla fine, sempre lo stesso:la vita di Kidou Yuuto era perennemente distrutta da quella specie di variabile impazzita dell’algebra che altro non era che Kageyama Reiji.

Era così che si sentiva, durante il loro giro di pattugliamento attraverso le vie di Osaka, una specie di ragionamento impazzito, come un cavallo senza briglie.

Si sentiva in qualche modo nervoso, come se sapesse che quella situazione fosse di per sé sbagliata.

In effetti era proprio così, nulla di quella scena sarebbe dovuto corrispondere alla realtà:lui non doveva trovarsi ad Osaka quel giorno, non sarebbe dovuto essere il figlio di una potente divinità venerata all’incirca tremila anni prima e soprattutto non si sarebbe dovuto trovare in compagnia di una persona, che aveva dato per morta per ben due anni –o meglio, lui ci aveva provato, per quanto anche solo l’idea di convincersi di qualcosa del genere lo disgustasse- e che ora era tornata dal regno dei morti.

Dei, magia … come poteva convincersi che tutto ciò fosse reale?

Era felice che Kageyama fosse di nuovo lì con lui, nonostante una parte del suo cervello continuasse perennemente a ripetergli che lui odiava quell’uomo, che aveva fatto del male ai suoi amici e la lista dei suoi misfatti era piuttosto lunga.

Eppure, eppure … per la prima volta in vita sua Kidou sentiva di poter perdonare qualcuno, nonostante tutto.

Il perché non lo sapeva nemmeno lui e forse era proprio questo che lo faceva andare su tutte le furie:non sopportava l’idea che Kageyama gli fosse mancato, che averlo di nuovo accanto a sé forse in un certo qual senso rassicurante, come se potesse dare di nuovo ordine alla sua vita.

Paradossale:di solito gliela distruggeva ben oltre i limiti del possibile e del sopportabile, invece ora si stava praticamente affidando a lui ad occhi chiusi per stare di nuovo bene.

Duro ammetterlo per un orgoglioso come lui ma era felice di riaverlo di nuovo accanto a sé anche perché l’idea che fosse morto sul serio l’aveva terrorizzato non poco:si era abituato, ad un certo punto della sua vita, a vederlo rispuntare fuori dal nulla e quando l’ultima volta non era successo una strana nota di panico si era impossessata di lui.

Per quanto infatti chiunque intorno a lui si ostinasse a descriverlo come il ragazzo più razionale del pianeta, Kidou sapeva fin troppo bene la verità:lui non era affatto perfetto come gli altri –Kageyama compreso- continuavano a descriverlo;al contrario, lui sentiva così sbagliato e non era raro che sentisse la paura impadronirsi del suo corpo.

Era cosciente che fosse stupido come atteggiamento, che non ci fosse nulla da temere, eppure Kidou aveva un sacco di fobie, compresa quella della morte:dopo aver perso i genitori quando era ancora molto piccolo ed aver visto sparire più volte Kageyama dalla sua vita –volente o nolente, era pur divenuto il suo pilastro- Kidou si sentiva la persona con meno radici al mondo.

Ci provava a farle crescere ma poi succedeva sempre che un evento improvviso le strappava dal terreno e di solito si trattava della cosa che Kidou aveva più paura:la morte, in particolar modo delle persone a lui più care.

Quell’incubo che di recente lo tormentava non era che il culmine dei suoi terrori:come aveva detto a Kageyama, non voleva perderlo di nuovo.

Ecco forse perché aveva bisogno di sentirselo vicino pure in quel momento.

Perché non voleva perderlo di vista nemmeno per un istante?


La voce di Kageyama lo sottrasse dai suoi mille ragionamenti.

«E così»lo sentì commentare infatti«hai voluto per forza che venissi con te per accertarti che non uccidessi nessuno, sbaglio? Altrimenti suppongo che non te ne staresti tanto in silenzio».

Kidou sentì la rabbia prendere il sopravvento su qualsiasi altra emozione stesse provando in quel momento e sbottò:«Ti odio».

Il figlio di Zeus tuttavia gli sorrise freddamente mentre constatava:«Continui a ripetermelo … eppure com’è che non ci credo per niente?».

Kidou sentì una fitta al petto:avrebbe tanto voluto sapere cosa gli stava succedendo in quel periodo.

Distolse rapidamente lo sguardo … ora pure le lacrime …

Invece era proprio così:dietro le lenti dei suoi occhialini sentiva formarsi, agli angoli delle cornee, piccole gocce salmastre, le conosceva così bene.

Le ricacciò indietro, non avrebbe avuto motivo di piangere in quel momento, inoltre perché farlo?

Si era di nuovo perso a riflettere quando il suo campo visivo cambiò piuttosto alla svelta.

Gli ci volle qualche secondo per capire che, come al solito, era stato Kageyama a comportare quell’ennesimo ed improvviso mutamento nella sua vita.

Poco dopo, infatti, si ritrovò in un vicolo, piccolo, buio e senza uscita se non la fenditura tra i due palazzi attraverso la quale si era ritrovato catapultato in quel luogo.

Sentiva la schiena premuta contro il muro di mattoni alle sue spalle:alcuni erano un po’ sbeccati ed al primo impatto gli avevano lasciato dei piccoli taglietti.

Non capiva, non capiva più niente nonostante non avesse affatto battuto la testa:perché si trovavano in quel vicolo, perché Kageyama gli teneva le mani sui fianchi …?

No, aspetta.


Il figlio di Atena si dimenò debolmente, non riuscendo in effetti a liberarsi dalla presa del maggiore.

Percepire la vicinanza dei loro corpi … i cuori che battevano così rapidamente insieme …

«K - Kageyama, si può sapere cos …»cercò di domandare Kidou.

Non riuscì a finire la frase:sentì una mano posarsi sulle sue labbra.

Kidou andò nel panico.

Lo sapevo, non mi sarei mai dovuto fidare di lui, probabilmente non aspettava altro se non un’occasione propizia per farmi definitivamente fuori e distruggere il resto dei miei compagni e mandare in fumo l’intera missione … probabile che fosse quello che ha sempre voluto …


Prima che altri e più terribili pensieri potessero uscire dall’angolo della mente dove si erano per tutto quel tempo annidati, tenendosi ben nascosti, Kageyama appoggiò la fronte alla sua e mormorò:«Guarda».

Kidou voltò lentamente lo sguardo in direzione della strada e ciò che vi vide bastò a smentirlo da lì all’eternità.

Un mostro che sembrava essere fatto interamente di fango stava attraversando la stessa strada dove, fino a pochi istanti prima, si erano trovati anche loro.

Lo aveva salvato.

Kageyama l’aveva salvato.

L’aveva salvato l’aveva salvato l’aveva salvato!


Kidou cercò di calmarsi, imponendo a se stesso profondi respiri, mentre il suo cuore tornava a pulsare in modo decisamente più lento ed accettabile, nonostante il battito non fosse ancora del tutto regolare per la vicinanza al figlio di Zeus.

Il mostro scomparve, prendendo la direzione dalla quale erano arrivati e lentamente Kageyama allontanò la mano dalle labbra di Kidou.

«Scusa»mormorò il figlio di Atena, sentendosi mortalmente in colpa per aver dubitato di lui.

Kageyama sorrise e per una volta a Kidou sembrò un sorriso gentile mentre replicava:«Scusa per cosa? L’unico qui che dovrebbe scusarsi sono io, considerando lo spavento che ti ho fatto prendere».

Kidou si chiese se si stesse riferendo all’attacco appena sventato od a tutte le loro disavventure passate.

Cercò di scacciare via quel pensiero –senza, come al solito, riuscirci del tutto- mentre si costringeva a chiedergli:«Cos’era quel mostro?».

Kageyama poggiò nuovamente la fronte contro quella di Kidou mentre spiegava:«Un figlio della Terra, perlomeno questo è il nome che gli hanno dato. Mi chiedo cosa ci faccia qui, in pieno centro ad Osaka. Temo che sia un emissario del nemico e che ci abbia seguiti fin qui. Inoltre ho paura che la mia aura di potere l’abbia attirato:i figli della più potente divinità greca devono essere certamente uno spuntino prelibato per i mostri. Perdonami, Kidou, non volevo metterti in pericolo …».

«Non potevi saperlo»lo tranquillizzò il figlio di Atena«è tutto a posto, sul serio».

Averlo detto sembrò tranquillizzare lo stesso Kidou.

Kageyama gli lasciò i fianchi, accarezzandogli una guancia.

«Mi sei mancato»ammise.

C’era qualcosa che non andava in quella voce, di solito così ferma ed imperturbabile, sembrava come sul punto di spezzarsi, tanto che Kidou si chiese se gli Inferi non avessero lasciato una ferita incurabile nell’animo di Kageyama.

Il cuore del figlio di Atena si trovò stranamente sorpreso e concorde quando si costrinse a rivelargli:«Mi sei mancato anche tu … e sono felice che ora tu sia di nuovo qui con me».

Poggiò la fronte contro quella del maggiore mentre lo sentiva ribattere:«Te l’ho già detto, non me ne vado più».

Kidou non aggiunse altro ma la verità era che era felice di sentir dire quelle cose da Kageyama:da giorni aveva paura di perderlo di nuovo e non si era ancora reso conto che quelle parole erano l’unica cosa di cui, in quel momento, avesse bisogno.

«Dobbiamo andarcene»gli comunicò il figlio di Zeus«quel mostro potrebbe tornare indietro da un momento all’altro».

Kidou annuì e convenne:«Va bene. Come procediamo?».

Kageyama sembrò riflettere attentamente prima di affermare:«Voleremo. Essendo figlio di Zeus, posso percorrere delle brevi tratte alzandomi in volo e fruttando le correnti. Così per i mostri sarà più difficile sia percepire la nostra presenza che attaccarci».

Kidou roteò gli occhi e chiese:«Perché non ci hai pensato prima?».

Kageyama guardò a terra ed ammise:«Per me comporta il dispendio di molta energia, potrei non essere di nessuna utilità se ci ritrovassimo nel bel mezzo di un duello in un futuro non troppo lontano. Inoltre da terra avremmo potuto osservare meglio le strade ma come hai potuto ben vedere non credo sia possibile farlo oltre».

«Scusa»si affrettò a giustificarsi Kidou«e soprattutto grazie. Per avermi salvato, intendo».

«Figurati, era il minimo»concluse solamente Kageyama.

Pochi secondi dopo si ritrovarono a volteggiare sopra Osaka.

Kidou strinse le braccia attorno al collo di Kageyama e lasciò che il figlio di Zeus gli cingesse la vita:era rassicurante la vicinanza con il suo corpo.

La vista dall’alto era a dir poco sorprendente:da quella quota qualsiasi palazzo, perfino quelli più alti, che da terra sembravano a dir poco immensi, ora non erano ridotti a nient’altro che piccoli punti indistinti.

A Kidou piaceva quella prospettiva, lo faceva sentire così insignificante, proprio come si sentiva sempre, certo, solo che non del tutto:da lì ci si rendeva veramente conto delle dimensioni ed era lì che si comprendeva che non c’era poi molta differenza tra un ragazzo ed un grattacielo.

Entrambi sono soggetti allo scorrere del tempo, entrambi, prima o poi, crolleranno.

«Da laggiù cosa penseranno di noi?»chiese Kidou.

Pensava che il fischio del vento avesse impedito a Kageyama di sentire le sue parole, ridotte quasi ad un sussurro, tuttavia poco dopo il figlio di Zeus spiegò:«Non possono vederci. La Foschia magica avvolge tutti, mostri e mortali, tanto che la maggior parte dei fenomeni divini e semidivini sono praticamente invisibili per il resto del mondo. Attualmente, noi due siamo compresi nei fenomeni resi invisibili dalla Foschia».

La discesa fu lenta ed a Kidou risultò piacevole, come d’altronde il resto del viaggio.

Atterrarono su una piccola spiaggia presso la foce del fiume che attraversava Osaka.

Su quelle stesse sponde trovarono Rachel e Midorikawa:la figlia di Poseidone sembrava concentratissima sul fondale sotto di lei ma all’arrivo degli altri due si era subito voltata nella loro direzione, abbandonando così la sua osservazione dell’Oceano.

La ragazza dai capelli del colore del mare domandò ai due semidei appena sopraggiunti sul luogo:«Che ci fate voi qui?».

«Siamo appena scampati ad un attacco»tagliò corto Kidou«voi, piuttosto:cosa state facendo qui?».

Rachel alzò le spalle ed ammise:«Credo di aver trovato il nostro passaggio:è là sotto. A quanto pare c’è un problema ed ho come la netta impressione che toccherà a noi mettere le cose al loro posto».

Kidou annuì e comprese:«Dobbiamo andare a chiamare gli altri»

«Ci penso io»propose tempestivamente Kageyama«volando non ci metterò più di cinque minuti a radunare tutti ed ad indirizzarli qui alla foce del fiume».

Kidou non ne era sicuro ma acconsentì:«D’accordo, andiamo».

Tuttavia Kageyama gli rivolse un sorriso appena accennato, che fece intuire a Kidou di non aver afferrato una parte del piano, cosa di cui ebbe la conferma quando il figlio di Zeus gli annunciò:«No, Kidou, stavolta vado da solo:non ho intenzione di metterti di nuovo in pericolo».

«Ma …»fece per protestare il figlio di Atena.

La protesta fu facilmente messa a tacere da Kageyama, che concluse:«Niente ma, ragazzo».

Per un attimo la familiarità della situazione fece sentire Kidou di nuovo alla Teikoku e la cosa lo rese stranamente felice.

Poco dopo tuttavia si ricordò di trovarsi a chilometri da Tokyo e non gli rimase altra cosa da fare che osservare Kageyama, mentre si allontanava per l’ennesima volta e ritrovandosi a sperare, come al solito, che non fosse l’ultima.
      




* Angolo dell’esaurimento nervoso *


Non guardatemi in quel modo e soprattutto sappiate che vi vedo, eh.

Bonsoir popolo di Efp!

Come va? Spero tutto bene … io mica tanto:questo capitolo è lunghissimooooo

(…)

E questo mi rende molto stanca. Già.

Tuttavia eccomi qua! * compaiono festoni alle sue spalle *

Vi sono mancata? Almeno un pochino – ino - ino?

Cominciamo con le scuse random:scusate se il capitolo è lungo, se sono tipo scomparsa per eoni, se le OC appaiono una volta sì e cento no e via discorrendo.

Teoricamente dell’ultimo punto del mio elenco di scuse manco potreste lamentarvi più di tanto visto che vi avevo promesso che in questo capitolo ci sarebbero stati i vostri personaggi ed è uscito fuori un papiro egizio proprio per questo, visto che avrei potuto dividere il suddetto papiro in due capitoli ma alla fine ho deciso di non farlo per non farvi soffrire oltre.

Sapete che sono sadica, pertanto io fossi in voi mi riterrei fortunata u.u

Dopodiché passo a ringraziare chiunque sia riuscito ad arrivare alla fine di questa tortura cinese e chiunque –nessuno- recensirà, oltre ovviamente a quelle due anime pie di Sissy e rie (a proposito, per quest’ultima:ora rispondo subito al tuo MP) che mi sopportano nonostante tutto.

Ciò detto vorrei precisare una cosa:lo so che sono passata dalla prima alla terza persona, ho cambiato ottanta POV e quello di Kidou non l’ho specificato, grazie, non c’è bisogno che me lo veniate a dire. Lo so ed è tutto molto intenzionale:a me personalmente piace di più così e quando ho scritto il capitolo ho sentito che era la cosa giusta da fare <3

Vorrei chiedervi, riguardo a ciò, cosa pensate di questo capitolo:sbizzarritevi gente ma soprattutto fatemelo sapere tramite recensione. Questa finora è stata la parte sulla quale mi sono impegnata maggiormente quindi ci tengo tanto tantissimo a sentire le vostre opinioni in merito ~

A proposito:come ho reso le vostre OC? Ho cercato di prendere gli aspetti specifici di ciascuna nel descriverle, quindi speriamo bene!

Prima di andarmene, siccome oggi mi sento clemente vi lascio pure l’indovinello

Cosa ha scoperto Rachel?


Io ora potrei anche andarmene, però prima ho una comunicazione di servizio:probabilmente la long si fermerà per un po’ causa scuola. Spero di riuscire a pubblicare il prossimo capitolo per i primi giorni di settembre, dopodiché vorrei prendermi una pausa per concentrarmi:sono al penultimo anno di liceo, l’anno prossimo mi diplomo ~

Ci si sente

Aria_black

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