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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dai larici ai ciliegi ***
Capitolo 2: *** La Raimon - pt.1 ***
Capitolo 3: *** La Raimon - pt.2 ***
Capitolo 4: *** Temporali improvvisi ***
Capitolo 5: *** La missione ***
Capitolo 6: *** Insonnia ***
Capitolo 7: *** Osaka~ ***
Capitolo 1 *** Dai larici ai ciliegi ***
Si
ringrazia rie (endorphin) per il banner~
Lo Scettro
della Notte
Non era stato facile accettare il trasferimento.
Mi trovavo bene ad Hartford, nel Connecticut, nonostante la mia
solitudine e la mia innata timidezza, che mi era sempre stata
d’intralcio nel fare nuove amicizie.
A volte nemmeno volevo farmene, di nuovi amici.
Avevo scoperto di stare bene da sola, in compagnia unicamente di me
stessa. Tante volte, non riuscivo nemmeno a trovare conforto in me.
Poi venne il trasloco.
Mio padre era un astronomo, studiava la volta celeste ed i suoi
innumerevoli fenomeni. Non era raro che un osservatorio astronomico
richiedesse un valido scienziato presso la propria struttura per
avvalersi della sua collaborazione. Solo che non avrei mai immaginato
che mio padre, Jason Drake, avrebbe deciso di accettare una tra quelle
numerose proposte di lavoro.
Mi sarei immaginata, che so, un posto in un qualche centro di controllo
desolato, nel bel mezzo del nulla nel North Carolina, tuttavia mai la
mia mente sarebbe riuscita ad immaginare un posto tanto lontano da
Hartford, dal Nord America, né tantomeno dagli States stessi.
Giappone.
Francamente mi ero chiesta a lungo perché mio padre avesse
scelto un posto tanto lontano da casa ma non mi aveva lasciato altra
scelta che adeguarmi.
Sarei potuta rimanere ad Hartford, ormai avevo compiuto sedici anni ed
ero indipendente da parecchio –era normale che mio padre non
tornasse a casa per giorni, impegnato in rilevamenti cruciali
all’osservatorio, così avevo imparato presto a
saper badare a me stessa e la cosa non mi dispiaceva affatto- ma non me
l’ero sentita di lasciar partire mio padre alla volta di un
paese tanto lontano.
Il giorno della partenza me lo ricordo benissimo:avevamo trascinato le
nostre pesanti valigie giù per le scale di casa e caricate
difficoltosamente in macchina. Avevo provato un vago senso di
malinconia osservando il cartello dell’agenzia immobiliare,
il paletto conficcato nel piccolo giardino davanti
all’abitazione, a segnalare che il luogo nel quale avevo
vissuto per sedici lunghissimi anni era ora in vendita, alla
mercé del migliore offerente, anche se, pure in quel
momento, l’unica cosa che mi ero limitata a fare era stata
tacere ancora una volta.
Ci eravamo lasciati alle spalle la nostra città natale,
avevamo superato le distese boschive del New England e ci eravamo
abbandonati alla frenesia di New York, per perderci tra le sue mille
luci. Non a lungo, però, giusto il tempo di un check-in.
Volare era stata un’esperienza del tutto nuova, per me. Non
che non avessi mai viaggiato prima di allora, peccato che i miei
spostamenti fino a quel momento si fossero limitati a brevi viaggi in
macchina con mio padre per raggiungere la meta delle nostre vacanze
–nelle rare occasioni in cui ci concedevamo una vacanza- e la
mattina in autobus, per andare a scuola.
Erano state ore lunghe, che passavano lentissime.
Mio padre ne aveva approfittato per dormire, al contrario io non
c’avevo nemmeno provato.
C’erano troppe cose che catturavano la mia attenzione, come
potevo rilassarmi?
La comoda pelle blu dei sedili, il buio della notte fuori dai
finestrini, le nuvole che sfrecciavano sotto di me.
Certo, non saltellavo dalla gioia come una bambina di due anni ma
decisi di mantenere un comportamento decoroso, quantomeno per non far
fare una figuraccia a mio padre.
Una cosa nella quale avevo scoperto, parecchio tempo prima, di essere
naturalmente portata era osservare le cose che mi circondavano con
innata curiosità, anche se poi non ero altrettanto brava ad
esternare i miei sentimenti –sempre a causa della mia
timidezza-.
Mentre sorvolavamo il Pacifico l’aereo fu investito da alcune
turbolenze, niente di grave ad ogni modo.
Non ne fui affatto spaventata nonostante fossi alla mia prima
esperienza in aereo.
Forse avrei dovuto cominciare a preoccuparmi del fatto che non riuscivo
ad essere preoccupata per niente.
Se avevo trovato frenetica New York, allora non avevo parole per poter
descrivere al meglio Tokyo.
Era un brulichio di vita, una città in perpetuo fermento,
un’infinita moltitudine di colori, immagini, profumi e sapori.
Ne rimasi affascinata, come se i ciliegi ed i loro fiori rosei fossero
riusciti a stregarmi, rubandomi l’anima.
Cominciavo a credere d’aver preso la decisione giusta,
scegliendo di seguire mio padre fino in Giappone.
La temperatura non era eccessivamente rovente ma camminare sui
marciapiedi, in compagnia dell’interminabile folla degli
abitanti del luogo e della sfilza di turisti non era affatto
un’impresa facile, considerando anche che dovevo trainarmi
dietro il trolley lilla con tutte le mie cose, che mi aveva seguita a
partire da Hartford.
Ormai mi sembrava che tutto fosse già diventato un ricordo
lontano, confuso nella mia memoria tra tutte le novità che
avevo visto nelle ultime –più o meno- ventiquattro
ore.
Non riuscivo a capire se fosse una cosa positiva o meno.
Mio padre fermò un taxi, che ci condusse fino al nostro
appartamento. Modesto, nient’affatto appariscente, grazie al
cielo.
Scelsi la stanza in fondo a sinistra, dalle pareti panna, un letto
nuovo e comodo, pronto per lasciare che ci cadessi sopra a peso morto,
la faccia schiacciata sul cuscino.
Ah, avrei dovuto dormire, in aereo.
Sperai che, almeno per quella notte, gli incubi non tornassero a
tormentarmi.
* Angolo autrice *
Okay, lo ammetto, questo prologo/primo capitolo o come lo si voglia
chiamare non ha nulla né di Inazuma Eleven né di
Percy Jackson.
Avevo però bisogno di un’introduzione agli eventi
veri e propri e questo è quanto di meglio sono riuscita a
sfornare.
Vi ricordate quanto vi avevo detto riguardo alla storia ad OC per il
fandom di PJO alla quale stavo lavorando? Ecco, come avevo previsto
l’ho cestinata.
Però, visto che sono testarda ho cercato di scrivere
qualcosa di simile:una AU per il fandom di IE dove i protagonisti
scoprono di essere … semidei! Comprendo che non ci si
capisca niente in questo primo atto della storia ma vi imploro
umilmente di perdonarmi e per facilitarvi tale arduo compito ho deciso
di farvi un regalo –se così lo si possa
definire-:la storia prevede iscrizioni ad OC!
In pratica potrete essere dei semidei e delle semidee
all’interno del mondo del nostro anime. Vi piace
l’idea? Mi risparmiate? * faccia da cucciolo *
E no, niente, se vi va di partecipare fatemi sapere in recensione,
qualora accetterete di partecipare provvederò a farvi avere
tramite MP la scheda per il personaggio. Mi auguro che conosciate la
serie di Percy Jackson, ad ogni modo. Bene, credo sia tutto, pertanto
mi dileguo.
A presto (spero)
Aria_black
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Capitolo 2 *** La Raimon - pt.1 ***
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ringrazia rie (endorphin) per il banner~
Lo Scettro
della Notte
Speranza vana. Ovviamente.
Erano mesi che convivevo con quegli incubi, mi perseguitavano quasi
ogni notte. Al mio risveglio ne ero talmente turbata da ricordarne ben
poco, o perlomeno desideravo quanto prima dimenticare il terrore che
m’incutevano.
Ogni notte, correvo, correvo ed ancora correvo,
nell’oscurità di un bosco. Sapevo di essere
inseguita, lo sentivo, per questo le mie gambe schizzavano veloci in
avanti tra le foglie cadute a terra.
Erano viscide, perciò avevo timore di cadere un momento
sì e l’altro pure. Come se tutto ciò
non bastasse i rami degli alberi continuavano a ferirmi le braccia.
D’improvviso però i miei piedi
s’incagliavano in una radice, che sembrava essere emersa dal
nulla e che sporgeva pericolosamente fuori dal terreno, così
caddi rovinosamente a terra.
Le ombre alle quali avevo cercato di sfuggire fino a quel momento ora
troneggiavano inquietanti sopra di me. Una voce di donna, profonda e
della quale non riuscivo a determinare la provenienza,
commentò:-Fine della corsa, Phoebe Drake -.
Mi svegliai di soprassalto, per l’ennesima volta da quando
avevo cominciato ad essere perseguitata da quelle terribili proiezioni
del mio inconscio. Mi misi a sedere sul mio letto,le lenzuola che mi
ricaddero pigramente sulle gambe. Mi passai una mano tra i capelli, poi
la poggiai sulla fronte.
Era imperlata di sudore.
E dire che credevo di non riuscire a provare emozioni, giusto qualche
ora prima, in aereo. Gettai uno sguardo in direzione del comodino
accanto al letto e nella penombra distinsi a stento la sagoma della
sveglia. L’afferrai, portandomela in grembo, quindi osservai
il quadrante e per poco non sobbalzai di nuovo.
Era tardissimo!
Se non mi fossi sbrigata, avrei finito per far tardi già al
primo giorno di scuola. Come se ci mancasse qualcos’altro a
complicarmi l’esistenza …
Felpa bordeaux e jeans neri? Banale. Camicia a scacchi rossi e blu,
sovrastata da un golf di lana bianca e gonna color sabbia? Dovevo
andare al liceo, mica cominciare a seguire una serie di corsi ad
Harvard! Lanciai il maglioncino dall’altra parte della
stanza. Nemmeno mi piaceva, perché l’avevo
comprato?
Ah, già. Non l’avevo comprato io.
In effetti, per vedermi andare a fare shopping doveva esserci una
catastrofe nucleare alle porte, altro che una tormenta di neve, come
dicono alcuni.
Fantastico, se prima era tardi ora ero veramente sul filo del rasoio
degli orari!
Se lo avessi detto a mio padre probabilmente avrebbe stentato perfino a
credermi:io, quella sempre puntuale … in ritardo?
Incredibile!
Poi probabilmente si sarebbe arrabbiato.
Mio padre non era a casa. Doveva essere partito stamattina presto o
forse addirittura stanotte, ad ogni modo mentre io dormivo:il suo
lavoro gli impone orari …. particolari? Non so come
definirli nemmeno io. Sta di fatto che, essendo un astronomo, si alzava
nel cuore della notte per andare ad occuparsi dei suoi rilevamenti.
Chiaramente, le stelle si vedono meglio di notte.
Alla fine era così tardi che uscii di casa così
com’ero –tanto per me è decisamente
inutile pensare di fare una bella impressione-:felpa verde scuro, che
tanto mi ricorda i boschi del Connecticut, jeans blu scuro e le mie
inseparabili sneakers bordeaux. M’infilai la borsa a tracolla
con i libri e, chiavi di casa alla mano, schizzai alla volta della
scuola.
Paradossalmente, quando arrivai davanti all’istituto, scoprii
che molti studenti non erano ancora entrati. Al che le cose
erano due:o non ero in ritardo come credevo, oppure Tokyo era piena di
ritardatari. Decisamente molti più di quanti ne potessi
immaginare.
Non sapevo per quale possibilità propendere.
Alcuni chiacchieravano a piccoli gruppi, altri restavano in disparte.
Per un attimo mi sembrò di trovarmi nuovamente in un liceo
americano:c’erano alcuni studenti vestiti di tutto punto,
come se volessero ostentare i loro gusti modaioli (o forse sarebbe
più corretto dire l’elevato status sociale delle
loro famiglie). Interagivano facilmente tra loro ed ero abbastanza
sicura che stessero comunicando le loro recenti conquiste, sia in fatto
di moda che d’amore.
Non avevo niente contro quel genere di persone, solo che non ne facevo
decisamente parte –come se non si fosse notato- e quando ero
in America capitava non di rado che i pochi amici che avevo, che come
me facevano parte dei ragazzi più introversi, venissero
derisi dagli altri.
Qui sarà
diverso, continuavo a ripetermi.
Mi avvicinai ad una delle colonne del cancello e socchiusi gli occhi,
cercando di rilassarmi. Proprio nel momento in cui mi ero ormai
convinta che forse le cose sarebbero potute andare per il verso giusto,
sentii un click e l’aria si riempì di un fascio di
luce.
Ma che cavolo
…?
Aprii gli occhi di scatto e fissai sorpresa il volto di una ragazza.
Sembrava avere la mia età. La osservai attentamente. Aveva
degli occhi intensi, un blu scuro e rilucente così pieno di
emozioni che quasi riuscì a stordirmi. I suoi capelli invece
avevano la mia stessa tonalità color cioccolato, solo che
mentre i miei erano lunghi fino alle spalle, quelli della ragazza
davanti a me erano sistemati in un comodo e pratico taglio a caschetto,
che le arrivava al collo. Ad ogni modo, non mi stava fissando. Sembrava
concentratissima sull’oggetto che teneva tra le mani, gli
occhi incollati al display. Doveva essere una macchina fotografica,
ecco da cosa era stato provocato quel flash.
Mi avvicinai cautamente a lei. I miei piedi provocarono un lieve
scalpiccio sulla ghiaia e la ragazza distolse improvvisamente lo
sguardo dalla digitale, spaventata –tanto che
sobbalzò appena, anche se cercò di far finta di
niente-. Si strinse appena nel suo maglioncino, di un tenue rosa
confetto, mentre mi affrettavo a puntualizzare:«Perdonami,
non era mia intenzione spaventarti».
Mi chiedevo invece se fosse stata la sua …
Nah.
Lei mi fissò incerta, così ne approfittai per
domandarle:« Cos’hai combinato? Poco fa, intendo
…». I suoi occhi blu cobalto si puntarono nei
miei, verdi come smeraldi e per un attimo mi sentii quasi annegare. Un
attimo, certo, ma pur sempre un attimo terrificante.
Lei sembrò sorpresa che le avessi rivolto la parola,
tuttavia poco dopo ammise:«Una foto».
Avrei voluto dirle che fino a lì ci ero arrivata ma
all’ultimo momento decisi di sorvolare. Piuttosto non riuscii
a non risultare sorpresa quando le domandai:«A me?».
Lei per un attimo indugiò e ero quasi sicura che non mi
avrebbe risposto, tuttavia dopo un’abbondante manciata di
secondi ammise:«Beh … eri in una buona posizione.
La luce s’infrangeva su quella colonna in un modo a dir poco
perfetto, creando punti d’ombra inimmaginabili. Ho provato
con il filtro seppia ma in bianco e nero rende decisamente meglio.
Guarda …». Mi si avvicinò di scatto e
mi mostrò la foto.
Niente male, non c’è che dire.
Poi la ragazza si allontanò di scatto, come se si fosse
ricordata solo in quel momento qualcosa d’importante.
Probabile che non socializzasse tanto facilmente con le persone.
Non diversamente da me, insomma.
Però decisi di provare comunque a continuare il discorso
–non so perché ma sentivo che ne valesse la pena-
così mi presentai:«Io sono Phoebe».
Stranamente, mi uscì uno dei miei migliori sorrisi gentili.
Per qualche istante sembrò titubante ma alla fine
allungò la mano in direzione della mia e la strinse cordiale.
«Nina» si annunciò a sua volta.
Nel frattempo due ragazzi, un ragazzo ed una ragazza, si avvicinarono a
noi.
La giovane avrà avuto all’incirca la mia
età e mi colpì molto:in particolare rimasi
sorpresa dai suoi capelli. Il loro colore rosa era quantomai inconsueto
e da lontano m’ispiravano una sensazione di morbidezza, quasi
a ricordarmi lo zucchero filato che adoravo prendere quando io e mio
padre andavamo in giro per fiere, quando ancora ci trovavamo in
America. Le ciocche dei suoi soffici capelli erano acconciate in una
treccia che le scendeva lungo la spalla destra. I suoi occhi, invece,
erano blu come lapislazzuli.
Il ragazzo che la seguiva era più alto di lei. La sua
carnagione era molto chiara ed i capelli, al contrario, erano corvini.
Inoltre erano lunghi quasi fino alle spalle e gli sfuggivano in ogni
direzione. Alcuni erano perfino finiti davanti ai suoi occhi ma con un
po’ di sforzi riuscii ad intravedere due occhi intensi e
verdi come smeraldi.
Solo che non erano come
i miei.
Non so, c’era qualcosa che non mi tornava in quegli occhi.
Sembravano freddi, attenti, calcolatori, uno di quei paia
d’occhi al quale non sfuggirebbe neppure il minimo
particolare, abituati a catturare pure i dettagli minuscoli.
Mi sorpresi non poco quando ci raggiunsero. Non credevo che a qualcuno
interessasse attaccare bottone con due ragazze che apparentemente
avevano cercato di isolarsi dal resto del mondo fin dal primo istante.
Ad ogni modo, la ragazza dai capelli confetto ci smentì in
pieno.
«Ciao!»ci salutò dopo averci
raggiunte.«Siete nuove? Piacere di conoscervi! Io sono Chieko
Miura, del terzo anno, lui invece è Sora Buki, del
quarto».
Il ragazzo allungò la mano nella nostra
direzione.«Piacere»commentò.
A turno, io e Nina gliela stringemmo, meravigliandoci non poco della
forza a dir poco poderosa del suo palmo.
In quel momento giunse il suono della campanella e Chieko
commentò:«Beh, che aspettiamo?
Entriamo!».
Le lezioni trascorsero in modo abbastanza gradevole, più che
altro perché non accadde nulla di particolarmente rilevante.
Io, Nina e Chieko eravamo in classe insieme –visto che
avevamo la stessa età- insieme a diversi altri ragazzi e
ragazze dei quali ancora continuavo ad ignorare l’esistenza
–ed il nome- e francamente dubitavo che questo sarebbe
cambiato in fretta.
Chieko, essendo estremamente socievole, non ebbe difficoltà
a trovare posto. Probabile che quei ragazzi che per me erano estranei
lei li conoscesse già alla perfezione.
Io e Nina ci accomodammo vicine, in terza fila. Non parlammo molto,
preferimmo concentrarci sulle lezioni.
Durante l’appello mi sembrò in imbarazzo ma feci
finta di non accorgermene e lei non diede segno di aver notato che me
ne ero accorta.
A ricreazione decidemmo di affidarci a Chieko –anche
perché non conoscevamo praticamente nessun’altro-
e la seguimmo in corridoio. Lì ci fermammo quasi subito,
perché Chieko sembrò notare qualcuno in
lontananza e, con un grande sorriso stampato in volto,
chiamò:«Rin!».
La ragazza in questione si voltò nella nostra direzione e si
esibì in un sorriso ancor più ampio di quello di
Chieko.
Era bassa e forse avrà avuto un anno meno di noi. Eppure,
anche semplicemente fissandola –seppur da lontano- provai un
senso di allegria e giovialità.
Aveva i capelli cortissimi, quasi come quelli di un ragazzo, di un
raggiante color arancio. Anche lei, proprio come me, aveva dei grandi
occhi verdi, luminosi come foglie di magnolia irradiate dal sole.
Ci sorrise ed allungò il braccio, ricoperto da una maglietta
di cotone beige a maniche lunghe, agitando la mano verso di noi. Il
giubbino senza maniche dalla trama mimetica che indossava si mosse con
lei.
Ci raggiunse poco dopo, non appena venne a capo della fila nella quale
era stata imbottigliata fino a quel momento, ai distributori
automatici. Scartò in fretta la barretta al cioccolato e
nocciole che aveva acquistato, dopodiché ne morse un
pezzetto un attimo prima di trovarsi esattamente davanti a noi.
«Ciao, Chieko!»salutò la ragazza accanto
a noi «come va?».
Chieko sorrise appena e rispose:«Oh, non
c’è male, grazie! Rin, loro sono Phoebe e Nina,
sono nella mia stessa classe».
Rin non sembrava riuscire a stare ferma per più di dieci
secondi, infatti, per tutto il tempo in cui Chieko aveva parlato, non
aveva smesso un attimo di frugare nelle tasche del suo giubbotto
mimetico. Quando la ragazza dai capelli confetto ebbe finito di
presentarci, l’altra si sfilò rapidamente le mani
dalle tasche e ci porse la destra, esclamando:«Piacere di
conoscervi, ragazze!».
Per un momento mi sembrò che, dalla sua mano sinistra,
chiusa a pugno, sbucassero alcune molle e dei bulloni.
Che diamine
…?!
Cominciavo a credere che, andando avanti di quel passo, per mezzogiorno
avrei conosciuto mezzo istituto.
Grazie al cielo, non avevo considerato la ferrea disciplina delle
scuole giapponesi. Qui, infatti, l’intervallo durava
decisamente meno che nei licei americani.
Ricordavo ancora che alcune volte, nella mia vecchia scuola ad
Hartford, alcuni ragazzi rimanessero fuori dalle aule anche dopo il
suono della campanella che indicava la fine della ricreazione.
Qui, invece, rientrarono tutti in classe all’istante. Dubito
che qualcuno abbia raggiunto la propria aula anche un minuto dopo il
suono della campana.
Per pranzo io e Nina, ritenendo di aver conosciuto fin troppe persone
in un giorno solo –perlomeno per quanto riguardava i nostri
standard- decidemmo di rintanarci all’esterno
dell’edificio, evitando per quanto più possibile
la sala mensa gremita di studenti, finendo così a rifugiarci
nei giardini della scuola.
Sedute all’ombra su una panchina sotto un albero parecchio
frondoso, ci rilassammo mentre un vento leggero attraversava
l’aria e mangiavamo il nostro cibo giapponese –del
quale all’epoca ancora ignoravo l’etimologia
perché … ehi, ero arrivata in Giappone solo il
giorno prima!-.
Proprio nel momento in cui stavo cominciando a credere che saremmo
riuscite a passare almeno quel momento e stavo per decidermi di
chiedere a Nina per quale ragione mi fosse sembrata imbarazzata durante
l’appello di quella mattina –sempre che non fosse
stata una mia impressione ed allora sarei stata io ad essere in
imbarazzo- sentii uno scalpiccio sulla strada ricoperta di sassolini
che correva davanti alla nostra panchina.
«Ehi!»gridò qualcuno, poco lontano.
Subito io e Nina ci voltammo in direzione di quella voce e restammo non
poco sorprese di scoprire che chi aveva parlato si rivolgeva proprio a
noi.
E tanti saluti alla
tranquillità.
Ad aver parlato era stata una ragazza. Avrà avuto
all’incirca dodici, tredici anni al massimo anche se a
guardarla da lontano non lo si sarebbe detto. Era alta e formosa
nonostante il fisico magro, gli occhi chiari e delicati come ghiaccio
ed i capelli neri, lisci e lunghi fino alle scapole. Aveva un sorriso
allegro in volto e poco dopo ci raggiunse, sorprendendomi ancor di
più.
Era un po’ affaticata per la corsa, così prese
alcuni respiri profondi prima di esordire:«Ciao! siete nuove,
vero? Direi di sì, non vi ho mai viste in giro prima! Io
sono Susan Light, piacere di conoscervi!».
Allungò la mano nella mia direzione, così gliela
strinsi e ricambiai:«Phoebe Drake, piacere. In effetti
sì, sono nuova, sono arrivata qui giusto stamattina! Mi sono
trasferita dall’America …».
Mentre Susan stringeva la mano di Nina, che ammise di essere arrivata
alla Raimon solo qualche giorno prima e che si era a sua volta
trasferita ma non dall’America, bensì dalla
Russia, una ragazzina spuntò da dietro la corvina e mi
domandò:«Dall’America? Sul serio? Il mio
ragazzo vive lì!».
Avrà avuto un paio d’anni meno di me. Era alta e
magra ed aveva dei capelli particolarissimi:erano lilla, sfumati in
alcune parti di nero, legati in una treccia. I suoi occhi erano di un
azzurro limpido e cristallino come il cielo.
Mi sorrise allegra e si presentò:«Mi chiamo Miriam
Star, piacere!».
Nel frattempo mi accorsi che c’erano altre due ragazze. La
prima avrà avuto anch’essa all’incirca
la mia età e rimasi parecchio colpita da lei, a partire dai
suoi occhi, di un color ambra caldo ed intenso. Anche i suoi capelli
erano particolari:all’inizio, vedendola in piedi davanti a me
avevo pensato che fossero azzurri, tuttavia quando si era inchinata per
stringermi la mano –ero ancora seduta sulla panchina,
già- i suoi capelli erano ondeggiati ed erano comparsi da
dietro la sua schiena, rivelando una chioma fluente, lunga fino alla
fine della schiena, con una sfumatura acquamarina decisamente
più chiara della parte superiore. Della stessa
tonalità era una piccola ciocca, acconciata a mo’
di treccia, che le pendeva da un lato del viso.
«Rachel Sasaki, piacere» mi salutò
cordiale.
La maglietta verde menta, in cotone e con le maniche lunghe,
oscillò lungo il suo bracciò quando mi
allungò la mano affinché potessi stringergliela.
In quel momento mi accorsi che, stretta alla sua gamba, c’era
un paio di braccia sottili.
Per poco non morii dallo spavento quando mi accorsi che, in effetti,
avevo visto due ragazze e me ne si era presentata solo una di loro.
L’ultima era decisamente più piccola delle tre
ragazze che mi si erano presentate. Aveva dei lunghi capelli biondi,
gli occhi grigi e tempestosi come il mare in burrasca e la carnagione
rosea, come d’altronde le sue labbra a cuore. Era abbastanza
alta ma si era piegata tutta, aggrappandosi alla gamba di Rachel e
nascondendocisi dietro. La turchina, accorgendosi che stavo fissando la
ragazzina attaccata a lei, mi spiegò: «Oh, lei
è Lilian. Non preoccuparti, è che è
molto timida e di solito è chiusa. Ha solo undici
anni».
La ragazzina mi fissò ed io accennai un lieve saluto con la
mano. Lei sorrise appena.
In quel momento, non troppo lontano, si levarono alcune grida. Susan si
lasciò sfuggire un sorriso a trentadue denti e
commentò:«Venite! Sono arrivati!».
Lei, Miriam, Rachel e Lilian corsero nella direzione dalla quale erano
spuntate fuori. Per un attimo io e Nina ci fissammo ma alla fine
decidemmo di alzarci e seguirle a nostra volta, sebbene camminando
normalmente e non correndo come avevano fatto le altre. Avevo una sola
domanda in quel momento.
Ma chi ha deciso che io
non debba pranzare, oggi?!
* Angolo autrice *
Salve, mondo!
Anzitutto chiedo clemenza se sono quasi dieci giorni che non mi faccio
viva ma devo essere sincera, scrivere questo capitolo mi ha messa a
dura prova!
Avendo ricevuto sedici (e sottolineo SEDICI … grazie davvero
ragazzi, non pensavo che la mia storia vi fosse piaciuta tanto! Mi
sento lusingata!) ci ho messo un po’ a raccogliere tutte le
schede, organizzare il cervello e chi più ne ha
più ne metta! :)
Ad ogni modo, vi chiedo scusa anticipatamente se in questo capitolo non
sono presenti tutti gli OC e quelli che ci sono forse non sono
descritti in modo sufficientemente dettagliato ma ho pensato di
dividere il capitolo in due parti (di cui chiaramente questa
è la prima) per poter presentare i personaggi in due
tranche da otto. Chiaro, no?
No. Affatto.
Ad ogni modo, questo è il risultato. Spero che vi piaccia!
Mi impegno a pubblicare la seconda parte del capitolo quanto prima,
anche perché il bello arriva adesso!
Chi avrà provocato quel frastuono? Aspetto i vostri commenti!
A presto (spero)
Aria_black |
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Capitolo 3 *** La Raimon - pt.2 ***
Si
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Lo Scettro
della Notte
Degli idioti.
Ecco chi aveva decretato che rinunciassi a pranzare, quel giorno.
Almeno così credevo.
Non ero riuscita a capire chi avesse provocato tutto quel baccano,
finché non mi ero ritrovata davanti un capannello di gente e
beh, tutto mi fu decisamente più chiaro nell’arco
di cinque secondi.
Notai, un po’ più nelle retrovie rispetto alle
altre persone –che si erano accalcate
sull’’orlo di un piccolo dirupo e che quasi
facevano a spintoni l’una con l’altra, pur di
accaparrarsi il posto migliore- Chieko, che osservava la scena quasi
con aria divertita. Il mio sesto senso mi consigliò di
avvicinarmi a lei, forse anche perché era una delle poche
persone che conoscessi non solo di vista, se così si
può dire.
Sembrava osservare attentamente la scena davanti a sé, come
se vedesse uno spettacolo invisibile a tutti gli altri. Mi accorsi di
un dettaglio che non avevo notato in tutto il resto della mattinata
–ed in effetti lo notai per puro caso-:le sue dita stavano
giocherellando con un ciondolo, che pendeva da una catenina che portava
al collo.
Mi chiesi come avessi fatto a non accorgermene prima.
Il ciondolo era un gufo, dal colore bluastro. Era davvero bello.
Le misi una mano sulla spalla. Lei si voltò subito a
guardarmi, nonostante sembrasse dispiaciuta di essere stata distratta
dalla scena che stava contemplando.
Mi sorrise e commentò perspicace:«Immagino che ti
starai chiedendo cosa sta succedendo».
Io non potei che commentare:«E …
già».
Una voce precedette quella di Chieko.
«Come, non lo sai?»sentii infatti domandare dal
centro della folla.
Per un attimo rimasi sbigottita, tuttavia, l’istante
successivo, dal mare di folla sbucò la testa di una ragazza.
I lunghi capelli castani la investirono da dietro, facendo
così che sembrasse sbucata da una nuvola di boccoli. Gli
occhi, invece, erano di un penetrante blu cobalto, contornati da lunghe
ciglia scure. Mi studiò attentamente, dopodiché
le sue labbra rosso fragola si aprirono in un sorriso e la ragazza
considerò:«Ah, già
… devi essere nuova. Marina Sapphire, piacere. Quanto al
trambusto, siamo state noi a provocarlo. Perché? Oh, molto
semplice!».
Stavo per strozzare Marina e sbottare qualcosa tipo Come “Siete state
voi”? Io stavo pranzando! ma prima che potessi
dire qualsiasi cosa, la sentii afferrarmi per il polso e trascinarmi
nel bel mezzo della folla.
Sussurrai una decina di “scusate” mentre Marina
continuava a trainarmi, costringendomi a rifilare involontari spintoni
a destra e a manca.
Per poco non caddi quando mi ritrovai con le punte delle All Stars
sull’ultimo centimetro di terreno, prima di una ripida
discesa di un paio di metri.
Non molti, d’accordo, però non ero poi
così entusiasta alla prospettiva di ruzzolare
giù, lungo un ammasso di terreno alquanto instabile.
Evviva.
Per fortuna le mani di Marina si erano posate saldamente sulle mie
spalle, puntando il mio corpo verso il basso, aiutando la forza di
gravità a tenermi ben ancorata al suolo. Non potei che
essergliene riconoscente.
«Ammira» mi sussurrò Marina.
Al che probabilmente mi sarei dovuta esibire in un repertorio di
gridolini adoranti pur di soddisfare le aspettative delle persone
attorno a me. Eppure non riuscivo a trovarci niente di tanto eccitante.
Erano solo … ragazzi.
Ragazzi che rincorrevano un pallone su di un campo polveroso.
E quindi?
pensai, non riuscendo a capire dove fosse la meraviglia in tutto
ciò.
«Non ho capito» ammisi, con aria affranta.
Marina mi osservò basita ma prima che potesse dire qualsiasi
cosa, un’altra ragazza sbottò:«Davvero,
ragazzina? Non mi pare che fosse una cosa tanto difficile da
capire!».
Io e Marina ci voltammo in direzione della voce che avevamo sentito.
Era una ragazza alta, dai lunghi capelli color del grano, una ciocca
verde pistacchio che le scendeva da dietro l’orecchio destro.
Gli occhi erano a dir poco stupefacenti:di un delicato color lavanda,
con sfumature blu lapislazzulo, tutt’intorno ad essi fitte e
lunghe ciglia nere erano disposte a raggiera. La carnagione era rosea e
delicata, i lineamenti del volto dolci e morbidi. Indossava un
giacchetto di pelle bianca, sotto il quale spuntava una maglietta a
mezze maniche, in cotone bianco, con impressa la stampa di un infinito
nero all’altezza del seno, un jeans grigio perla
con qualche strappo modaiolo qua e là,
ed un paio di All Stars nere.
Osservare il suo fisico perfetto –sembrava quasi una modella-
mi fece venire non pochi complessi d’inferiorità,
considerando quant’ero magrolina. Un raggio di sole le
illuminò il volto, facendo scintillare il brillantino sulla
narice destra, gli orecchini ad anello dal diametro considerevole ed il
bracciale che aveva al polso –entrambi gli accessori erano
dorati- brillarono d’una luce accecante.
Marina fissò con aria di biasimo la ragazza davanti a lei e
spiegò:«Vanille, è nuova … a
proposito, come ti chiami?».
Impiegai qualche istante per capacitarmi che si riferisse a me.
Scossi la testa nel tentativo di dissipare il torpore che si era
impadronito del mio corpo mentre mi costringevo a
rispondere:«Phoebe Drake, p-piacere».
Non so perché ma mi sentivo quasi in soggezione. Poco dopo
avvertii dei passi dietro di me ed un’altra ragazza
sopraggiunse. Scansò le mani di Marina dalle mie spalle per
poi porre, in modo meno deciso, il palmo della propria mano destra poco
sopra la mia clavicola sinistra. In un certo senso, mi sentii
più sollevata. Era alta quanto me, aveva i capelli neri e
mossi lunghi fino ai gomiti e gli occhi verdi come smeraldi, proprio
come i miei. La carnagione era chiara, seppur non troppo.
Sorrise conciliatoria e notò:«Ragazze …
credo che la stiate spaventando. Phoebe, io mi chiamo Lyssa Foster,
è un piacere conoscerti».
Cercai di sorriderle a mia volta, anche se non riuscii a formare sul
mio volto un’espressione appena accennata.
Lyssa sembrò sinceramente felice di notare
quell’accenno –minimo- di sorriso sul mio volto,
come se le avessi mostrato un abbozzo d’incontenibile
felicità, così propose:«Vieni, ti
presento le altre!»
Feci appena in tempo a pensare No,
aspetta … quali altre? che Lyssa mi aveva
già accompagnata davanti ad altre due ragazze.
La prima aveva gli occhi rossi come il fuoco –cosa?!-,
le labbra morbide e carnose e lunghi e lisci capelli neri come la pece,
che le scendevano lungo tutta la schiena, fino ad arrivarle ai fianchi.
Era alta, magra e con le forme prosperose –di nuovo a
disagio-.
L’altra aveva una folta chioma di ricci biondi, sfumati in
alcuni punti con un’intensa tonalità violacea. Era
abbastanza alta, decisamente di qualche centimetro in più
rispetto a me ed i suoi occhi grigio-azzurri parevano risplendere di
una luce intensa. indosso aveva una camicia dalla fantasia a scacchi
rossi e blu, jeans di un azzurro deciso e sottobraccio portava una
giacca di pelle, che doveva essersi sfilata.
Lyssa non smise di sorridere nemmeno per un momento mentre me le
presentava:«Phoebe, loro sono Nomiko Kiyama e Sophia Sanders,
entrambe del terzo anno».
Nomiko allungò la mano nella mia direzione, così
gliela strinsi.
«Benvenuta, novellina» commentò.
Sophia mi rivolse a sua volta lo stesso gesto che mi aveva rivolto in
precedenza Nomiko, seppur mi sembrasse un po’ riluttante nel
farlo.
«È un piacere conoscerti»
affermò, anche se non sapevo se ci credesse sul serio.
Poco dopo mi accorsi che, dietro Sophia, riuscivo ad intravedere
un’ennesima ragazza. Ma
quante erano?
Aveva dei capelli castani, che sembravano essere alquanto ribelli,
lunghi fino a metà schiena di un castano molto chiaro, le
punte arricciate. L’incarnato abbronzato, la corporatura
proporzionata, era alta e magra. Gli occhi per un momento mi apparvero
neri ma, quando la luce li illuminò, scoprii che erano
invece di un blu molto scuro ed intenso.
Lyssa sembrò averla notata solo in quel momento,
così mi spiegò:«Oh, lei invece
è Yume Okinori, sempre del terzo anno!».
Non ci raggiunse, bensì si fermò qualche passo
prima, mettendosi ad osservarmi. Sulle prime pensai che fosse un tipo
scorbutico, tuttavia capii che probabilmente doveva trattarsi solamente
di una ragazza molto introversa.
Allungai la mano nella sua direzione e ripetei per l’ennesima
volta per quel giorno:«Phoebe Drake».
«Yume Okinori» si limitò a replicare
lei, mentre mi restituiva una stretta non molto convinta.
Nel frattempo, le altre ragazze esultarono entusiaste.
Lyssa fissò con aria divertita la mia espressione smarrita e
mi spiegò:«Oh, tranquilla Phoebe, non è
successo niente, probabile che Endou Mamoru, il portiere
dell’Inazuma Japan, la squadra che ha vinto i mondiali, abbia
parato un tiro o qualcosa del genere».
Oh, sì certo,
adesso avevo capito tutto.
Poco più in là, mi accorsi della presenza delle
ultime due ragazze. Non sembravano essercene altre nei paraggi, anche
perché le due erano le più distanti dai restanti
presenti.
Erano accanto ad una staccionata. Una delle due aveva i capelli
castani, leggermente mossi e poco più lunghi delle spalle
–più o meno come i miei- mentre gli occhi erano
difficilmente identificabili:uno era di un acceso color smeraldo,
mentre l’altro era coperto da una benda. Era alta, la sua
carnagione era delicata e rosea ma la cosa che mi colpì
maggiormente di lei fu il cappello di lana a forma di panda che aveva
in testa.
Stava con gli avambracci poggiati ad una delle stecche di legno della
staccionata e fissava i ragazzi impegnati nella partita di calcio con
aria annoiata.
L’altra invece le gironzolava attorno, un sorriso allegro
stampato in volto.
Era alta e magra, aveva il volto dalla forma ovale e la carnagione
rosea. Gli occhi erano a dir poco particolari:ricordavano molto quelli
dei gatti ed erano di due colori diversi, il sinistro nero come la
notte ed il destro azzurro come il cielo. I capelli erano corti e di un
biondo dorato, una piccola treccia le scendeva sulla destra.
Mentre continuava a muoversi intorno all’altra ragazza, notai
che il collo della maglietta era un po’ più ampio
sul petto e lasciava intravedere un tatuaggio. Era una scritta.
I’m alive.
Essendo americana, non ebbi difficoltà a tradurlo:io sono viva.
Dopo aver mormorato un rapido “scusa” a Yume, mi
affrettai a raggiungere le due curiose ragazze.
«Ciao!» le salutai, cercando di apparire quanto
più allegra possibile.
La ragazza con il tatuaggio mi sorrise e si
presentò:«Ciao! Diantha De Nobili,
piacere!».
Sorrisi e ricambiai:«Phoebe Drake, piacere mio».
La ragazza alla staccionata fissò intensamente, come se
volesse arrivare a vedere fin negli angoli più profondi
della mia anima prima di presentarsi a sua volta:«Kimberly
Takishima».
Nel frattempo notai che, a pochi passi di distanza da me, Nina si stava
arrampicando su di un albero, sotto lo sguardo attento e severo di Sora.
«Da qui riuscirò a scattare una foto davvero
‘intrigante’!» esclamò la
ragazza.
Sora si limitò a scuotere la testa, al limite
dell’esasperazione –o forse della preoccupazione-.
Solo in quel momento mi accorsi che, all’improvviso, il sole
era scomparso, sostituito tempestivamente da dei nuvoloni scuri e
preoccupanti. Mentre Susan guidava un altro coro
d’incitamento per quell’Endou, la boccata
d’aria che trassi mi sembrò carica
d’ozono.
In questo temporale
c’è qualcosa che non va, mi dissi.
In quell’esatto istante un tuono di dimensioni pazzesche
scoppiò nell’aria, provocando un sobbalzo a non
poche persone, me compresa.
La pioggia cominciò a cadere con uno scroscio assordante, in
modo continuo e così fitta e violenta che mi ritrovai
bagnata dalla testa ai piedi in ben meno di un battito di ciglia.
Presto tutti i presenti scomparvero, correndo in ogni direzione pur di
sottrarsi alla forza della tempesta.
Perfino Nina, che era capitombolata giù
dall’albero al sopraggiungere del tuono –per
fortuna non si era fatta niente, Sora l’aveva afferrata prima
che toccasse suolo- ora era sparita, rinunciando così alla
sua preziosa foto.
Nonostante avessi le sopracciglia inondate dalle gocce di pioggia, che
mi costringevano così a ridurre a dismisura il mio campo
visivo, mi accorsi della presenza di una figura, immobile sotto la
pioggia, al centro del campo di calcio.
Era di spalle, perciò le uniche cose che notai, seppur
sfocate, furono una coda di dreadlock ed un mantello, rosso come il
sangue.
* Angolo autrice *
Eccomi di nuovo qua! u.u
Wow, non credevo che ce l’avrei fatta, anche
perché mi sto tipo squagliando dal gran caldo!
Finalmente, tutti gli OC sono stati presentati, spero che le mie parole
siano alla loro altezza!
E niente, credo sia tutto ma prima di lasciarvi vi pongo
l’ormai consueto interrogativo di fine capitolo.
Cosa (o chi) si cela dietro la tempesta?
In un certo senso vi sto già dando un indizio, ammettendo
che non è a cause naturali che va attribuito lo scoppio del
temporale.
Una cosa però ve la voglio dire:la risposta non è
affatto scontata!
Attendo con ansia le vostre ipotesi e più in generali, le
vostre impressioni sul capitolo.
A presto (spero)
Aria_black |
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Capitolo 4 *** Temporali improvvisi ***
Si
ringrazia rie (endorphin) per il banner~
Lo Scettro
della Notte
Era lì, immobile e non sembrava avere alcuna intenzione di
muoversi per lasciare la sua posizione.
Il che, a mio parere, era una cosa alquanto idiota.
Andiamo, ci mancava poco che non scendesse pure il cielo, tanto era
intenso e devastante quel temporale!
Allora perché restare fermi, sotto quella pioggia fitta e
scrosciante?
A meno che tu non sia uno svitato, certo.
Eppure, qualcosa continuava a non tornarmi.
Ecco perché, fondamentalmente, ero a mia volta ancora
lì, sotto quel diluvio universale, intenta ad osservare
quella figura immobile nel bel mezzo del campetto da calcio,
anziché seguire l’esempio dei ragazzi presenti sul
luogo poco prima dello scoppio del temporale e correre a cercare riparo
per non ritrovarmi bagnata dalla testa ai piedi, stile biscotto
inzuppato nel latte.
Invece no, da brava ragazza intelligente che non ero altro, mi ero
immobilizzata sul posto pure io, dedicando tutta l’attenzione
del mondo ad osservare il ragazzo più strano che avessi mai
visto in vita mia.
Che, a quanto pareva, aveva appena deciso di prendersi una
broncopolmonite.
Si tirò su il cappuccio rosso, coprendo la coda di
dreadlocks.
Davvero una gran
protezione dal temporale più forte al quale avessi mai
assistito prima.
Mosse dei passi, incerto, avanzando a stento seppur non avesse percorso
che pochi centimetri, lungo il campo, che si stava ormai trasformando
in una palude acquitrinosa ricolma di fango in piena regola.
Non potei che considerare la situazione ancor più
paradossale:aveva, a pochi passi di distanza alle sue spalle,
l’erba appena inumidita della striscia di terreno che
precedeva il campo.
Non avrebbe dovuto far altro che voltarsi, raggiungere il prato e
lì avrebbe trovato le scale di cemento che lo avrebbero
ricondotto ai cortili della scuola.
Una volta lì, gli sarebbe bastato percorrerli
finché non avesse trovato riparo, oppure, qualora abitasse
nelle vicinanze dell’istituto, avrebbe potuto benissimo
correre fino a casa sua, dove avrebbe potuto certamente trovare una
doccia calda e vestiti asciutti.
Eppure lui rimaneva lì, a lasciarsi lavare pure
l’anima dalla pioggia.
Ragazzo incoerente.
Già, già.
O forse stupida io che stavo ancora lì a fissarlo nonostante
tutto.
Però continuavo a ripetermi che c’era qualcosa che
non andava in quel ragazzo e per quanto fosse forte in me il desiderio
di farmi i fatti miei e di correre al riparo nel mio caldo appartamento
del centro cittadino, qualcosa m’imponeva di restare
lì, l’attenzione totalmente rivolta alla mia muta
contemplazione di quella scena che superava decisamente i limiti
dell’assurdo.
Si mosse ancora, stavolta acquisendo maggiore padronanza del suo corpo
e del terreno instabile che lo circondava.
Proprio come temevo, da bravo incoerente quale si stava rivelando,
prese ad attraversare il campetto nel senso della larghezza.
Ringraziai il cielo che perlomeno non avesse optato per quello della
lunghezza:si sarebbe scelto il percorso decisamente peggiore.
Forse, allora, un briciolo di sale in zucca gli era rimasto.
Percorse tutta la linea bianca di centrocampo, attraversandone il
cerchio come tracciandone il diametro.
Era preciso, questo era poco ma sicuro.
Solo che continuavo a non capire quale fosse il senso di quel suo
gesto, a mio parere a dir poco assurdo.
Risalì il fianco della collinetta dalla parte opposta alla
mia, dopodiché s’incamminò per i
cortili della scuola.
Forse aveva deciso che avevo ragione io –nonostante non ci
fossimo parlati affatto- e che la scelta migliore fosse rintanarsi in
casa propria e bersi una bella tazza di tè.
Certo, come no.
Mi legai i capelli castani in una leggera coda di cavallo,
dopodiché non persi un minuto oltre e cominciai a seguire il
ragazzo.
Principalmente, le domande che mi posi furono due.
La prima:per quale motivo un ragazzo sano di mente dovrebbe mettersi a
camminare a passo lento lungo il centro cittadino di Tokyo, mentre
intorno imperversa un temporale da brividi ed in giro non
c’è un’anima viva?
La seconda:ma per quale assurda ragione mi sentivo tanto in dovere di
seguire quel tipo che aveva decisamente ben poco di normale?
Inutile dire che non trovai risposta a nessuna di quelle due domande.
Mi strinsi nella mia felpa verde bosco – del –
Connecticut, visto che ormai avevo deciso di chiamarla così,
quindi continuai ad avanzare guardinga dietro quello strano ragazzo.
Non trovai molto conforto nei miei indumenti, giacché erano
ormai irrimediabilmente fradici tanto quanto me, così mi
limitai a battere silenziosamente i denti.
Stavo facendo quanto meno rumore possibile pur di non farmi notare,
eppure i miei sforzi erano pressoché inutili,
poiché la pioggia cadendo provocava un rumore talmente
scrosciante che era in ogni modo impossibile sentire un rumore
qualsiasi oltre al ruggito dei tuoni ed al ticchettio delle gocce
d’acqua a terra.
Almeno per quell’occasione ero tutelata da eventuali rumori
provocati involontariamente.
Di solito ero una frana nel fare azioni di nascosto. Tipo seguire tizi
assurdi, in effetti.
Finiva sempre che, in un modo o nell’altro, mi facevo
scoprire; la prassi voleva che, proprio nel momento cruciale del
“fare qualcosa senza essere visti”, provocassi un
rumore per sbaglio –inciampare nei miei stessi piedi, andare
a sbattere contro un lampione, far cadere inavvertitamente a terra il
cucchiaio con il quale stavo sgraffignando quantità
improponibili di crema alla nocciola nel cuore della notte …
giuro- e così venivo puntualmente scoperta.
Perciò, se un vantaggio si poteva trarre dal ritrovarsi
zuppi dalla testa ai piedi stile pesce fuor d’acqua, doveva
essere il fatto che si potesse seguire qualsiasi persona senza essere
notati, tanto i tuoi passi erano coperti dal frastuono della pioggia.
Chissà perché ma avrei decisamente preferito
scoprire una cosa del genere in tutt’altre circostanze.
La cosa assurda?
Mentre io sembravo essermi appena fatta un tuffo nell’Oceano
Pacifico, il tipo davanti a me sembrava perfettamente asciutto.
Non sapevo sinceramente se ridere o piangere.
Camminava imperturbabile per le strade di Tokyo e sembrava che la
pioggia non fosse in grado di colpirlo in alcun modo.
Probabile che avrei avuto un crollo di nervi da un momento
all’altro.
A differenza mia, sembrava possedere una perfetta padronanza delle
strade che percorreva.
Tante grazie, ero arrivata a Tokyo giusto il giorno prima.
Al che valutai che, probabilmente, se avessi perso di vista quel
misterioso ragazzo, mi sarei ritrovata nel bel mezzo del nulla in una
metropoli all’apparenza deserta e difficilmente sarei stata
in grado di tornare sui miei passi e trovare la strada per trovare casa
mia.
Fantastico.
Forse, a quel punto, mi sarei dovuta fermare, fare mente locale,
cercare dei punti di riferimento –segnali stradali, semafori,
punti strategici della segnaletica insomma, che avevo adocchiato quella
mattina mentre correvo verso la mia nuova scuola- e trovare comunque un
modo per tornarmene a casa.
Invece no.
C’era qualcosa che mi attirava verso quel ragazzo, una
sensazione che mi portava ad andare avanti, a proseguire dietro di lui,
alla volta dei percorsi che intraprendeva.
Suona abbastanza assurdo, eppure è così.
Per me, in quel momento era estremamente necessario andare dietro ad un
perfetto sconosciuto.
Caspita, suona davvero
male.
Ad un certo punto, completamente all’improvviso, lo vidi
svoltare in una via laterale che non avrei notato nemmeno mettendomi
d’impegno.
Vi svoltai a mia volta e rimasi non poco perplessa quando mi resi conto
che era un vicolo cieco.
Ma siamo seri?
Unica consolazione:la stradina era così stretta che i due
palazzi in mezzo ai quali sorgeva erano così vicini che
quasi si toccavano, creando una sorta di riparo dalla pioggia.
Tanto l’unica che continuava a rimanere bagnata ero io, no?
Il ragazzo era ancora di spalle, immobile, a pochi passi di distanza da
me.
Non so bene come feci a resistere all’impulso di saltargli
addosso e gridargli sono
zuppa dalla testa ai piedi a causa tua, razza di genio!
Ah, già, probabilmente non lo feci perché,
altrimenti, avrei infranto in un secondo la mia copertura.
Stavo attenta perfino a respirare, avevo il timore di causare un rumore
eccessivo.
Eppure, a quanto pareva, tutti quei miei sforzi erano stati
semplicemente inutili.
Il ragazzo col mantello sospirò e
commentò:«So che sei lì».
Inizialmente pensai pure che non si stesse riferendo a me, magari,
nell’oscurità del vicolo, si celava qualche brutto
ceffo.
Certo, non credo avesse motivo per andare in un vicolo cieco ad
incontrare brutti ceffi ma questi sono dettagli.
Rimasi lì, in attesa che succedesse qualcosa, un avvenimento
qualsiasi.
Eppure, l’unica cosa che accadde, fu il ragazzo che si
voltava nella mia direzione, abbassandosi nel frattempo il cappuccio
rosso del mantello, mostrando così nuovamente la coda di
dreadlocks castano chiaro che mi era sembrato di intravedere in
precedenza.
Quando ci ritrovammo faccia a faccia, notai una serie di dettagli uno
dietro l’altro, in un vortice di novità che
m’impiego qualche istante per essere decifrato del tutto.
Anzitutto rimasi un po’ sorpresa di non trovare un paio
d’occhi ad attendermi su quel volto, anche perché,
generalmente, gli occhi erano la prima cosa sulla quale mi focalizzavo
in una persona.
Non che non avesse gli occhi, eh. Solo che, sopra di essi, si trovava
un paio di occhialini d’aviatore, l’elastico
azzurro che ruotava tutt’intorno alla circonferenza della sua
testa.
Le lenti erano scure come quelle di un paio di occhiali da sole e non
riuscii in alcun modo ad intravedere ciò che si celava sotto
di esse.
La carnagione era così candida da sembrare nivea e fragile.
Sembrava che mi stesse osservando con lo stesso sguardo inquisitore che
stavo adottando io su di lui, eppure non potevo dirlo con certezza
visto che i suoi occhi erano nascosti da quegli assurdi occhialini.
Non mi rimase che intuirlo dal suo sopracciglio inarcato verso
l’alto, unico accenno di un’espressione dubbiosa e
concentrata su mille riflessioni che comparve sul suo volto.
L’altra cosa che notai era che indossava una divisa
calcistica, il che continuava a non motivare il mantello.
D’accordo, magari giocava nel club di calcio della scuola al
quale aveva accennato Lyssa, eppure come spiegarsi un ragazzo che gioca
a calcio con un mantello rosso sangue?
La cosa suonava sempre
più assurda.
Senza perdere la sua espressione dubbiosa, mi domandò con
aria saccente:«Allora? Hai intenzione di parlare o
dovrò toglierti le parole di bocca in qualche altro
modo?».
Probabilmente avrebbe dovuto optare per la seconda, visto quanto ero
persa nel contemplarlo.
Lui sospirò amaramente, dopodiché riprese a
fissarmi. Sembrò essere stato come colto
d’improvviso da qualcosa, un dettaglio che non aveva notato
prima, forse.
Seguendo la traiettoria del suo sguardo, notai che stava fissando la
coda di cavallo nella quale avevo sistemato i miei capelli, ora caduta
sulla mia spalla destra.
Con un rapido gesto della mano la spostò, facendola ricadere
sulla mia spalla sinistra.
Il suo fu un movimento talmente veloce che quasi non ebbi il tempo di
accorgermene, né tantomeno di irrigidirmi per
quell’improvvisa vicinanza della sua mano al mio volto.
Probabilmente se fosse stato più lento o goffo me ne sarei
sicuramente resa conto e con una rapido passo all’indietro
sarei riuscita a scansarmi, evitando così che i nostri corpi
si sfiorassero minimamente.
Invece quel tipo era indubbiamente veloce, questo dovevo senza dubbio
attribuirglielo.
«Molto meglio» commentò, con evidente
riferimento alla coda, ora sulla mia spalla sinistra.
Non capivo l’apparentemente inesistente motivo che lo
portasse ad affermare cose che, tra l’altro, non condividevo
affatto, o meglio, proprio non le capivo.
Quale differenza avrebbe mai potuto fare una coda sul lato sinistro del
corpo, anziché su quello destro?
Magari erano stupide superstizioni giapponesi, tuttavia ne dubitavo
fortemente.
Scossi la testa e mi decisi a domandare:«Chi sei?».
Il ragazzo sorrise scaltro prima di chiedermi a sua volta:«Ha
poi molta importanza?».
A quel punto non sapevo più cosa avesse o non avesse
importanza, tuttavia di una cosa ero certa:non avevo seguito quel
ragazzo sotto quell’assurdo temporale per non ricevere poi
nemmeno un’informazione tanto banale come il suo nome.
Prima che potessi ribattere qualsiasi cosa, il giovane
precisò:«Ad ogni modo, il mio nome è
Kidou Yuuto, piacere».
Rimasi perplessa per un breve istante, come scioccata che mi stesse
lasciando vincere quella battaglia, dopodiché allungai la
mia mano in direzione della sua, che aveva steso in senso di saluto,
così gliela strinsi e replicai:«Phoebe Drake,
piacere … ma non ci siamo già visti, io e
te?».
Lui scrollò le spalle e
commentò:«Probabile che tu mi abbia visto questo
pomeriggio, al campo da calcio. Faccio parte della Inazuma
Japan».
Plausibile, pensai. Dopotutto, anch’io ero lì
mentre quei ragazzi si allenavano. Inoltre, Kidou aveva ancora indosso
la divisa di gioco, quindi sì, era tutto decisamente
probabile. Senza contare poi il fatto che, essendomi trovata sul luogo,
dovevo aver inconsciamente lanciato un’occhiata in direzione
del campo, scorgendo il ragazzo. Ecco dove lo avevo visto!
Lui sorrise e commentò:«Devi essere nuova. Non ti
avevo mai visto alla Raimon, prima».
Quel dialogo sembrava surreale, soprattutto per il fatto che si stava
tenendo tra due perfetti sconosciuti, per di più sotto la
pioggia scrosciante.
Alzai le spalle ed ammisi:«Sono a Tokyo da ieri, oggi
è stato il mio primo giorno di lezioni. Mi sono trasferita
dall’America».
Sembrò sorpreso, visto che alzò un sopracciglio,
lasciando così che quell’espressione dubbiosa che
era campeggiata sul suo volto fino a poco prima si riformasse
nuovamente sul suo viso.
Sorrise appena mentre concludeva:«Ci rivedremo molto prima di
quanto tu possa immaginare, Phoebe Drake».
Non sembrava tuttavia intenzionato ad aggiungere null’altro,
così poco dopo lo vidi cominciare ad allontanarsi
nuovamente, in direzione stavolta dell’uscita del vicolo.
Mi dava le spalle, così per attirare nuovamente la sua
attenzione fui costretta ad esclamare:«Ehi!».
Lui tornò a volgersi verso di me, osservandomi attentamente.
Per un attimo lo fissai anch’io, prima di
domandargli:«La pioggia … sembra quasi fermarsi
prima di raggiungere il tuo corpo. Perché?».
Lui mi rivolse un mezzo sorriso, dall’aria un po’
amara, mentre valutava:«Forse non ci tiene a sfiorarmi
nuovamente, come se non volesse ferirmi ancora una volta …
non trovi?».
Detto ciò, svoltò l’angolo che lo
immise di nuovo sulla strada principale e sparì, tra le
gocce di pioggia sempre più intense che, a quanto pareva,
non avevano la minima intenzione di bagnare il suo corpo.
L’indomani il sole sembrava essere tornato a squarciare i
nuvoloni pesanti che aleggiavano sopra Tokyo.
Non avrei saputo se si fosse trattato di un bene o di un male, visto
che solitamente amavo la pioggia e quando ero ad Hartford non perdevo
mai un’occasione, ogni qual volta si verificasse un
temporale, per abbandonami a lunghe passeggiate sugli umidi marciapiedi
della mia città natale, mentre la musica che ascoltavo
grazie alle mie cuffie mi trasportava via, attraverso ogni genere di
pensiero mi assillasse in quel momento.
Eppure, il temporale del giorno precedente continuava a sembrarmi
insolito:la sua origine mi sembrò tutto fuorché
naturale.
Era mai possibile una cosa del genere?
Ripensai a Kidou, alle parole che mi aveva rivolto poco prima di
sparire, il pomeriggio precedente, riguardo a
quell’improvviso temporale.
Forse non ci tiene a
sfiorarmi nuovamente, come se non volesse ferirmi ancora una volta
…
Ci avevo pensato su tutta la notte, a quelle parole, dormendo
così ben poco.
Perché avevo la netta impressione che non si stesse
riferendo solamente alla pioggia?
Giunta a scuola, ero ormai arrivata alla conclusione che glielo avrei
chiesto.
E sapevo pure dove trovarlo:sul campo di calcio, intento negli
allenamenti mattutini, insieme agli altri suoi compagni di squadra.
Non avevo immaginato che, tuttavia, gli allenamenti mattutini della
Inazuma Japan potessero essersi trasformati in un’invasione
di campo da parte del loro “fan club”.
Già, le ragazze erano scese in campo, tutte intente a
coccolare i loro fidanzati.
Non potevo credere che le ragazze che avevo conosciuto il giorno prima
fossero le fidanzate dei giocatori della nazionale che aveva vinto i
mondiali.
Chieko si strinse ad un ragazzo dai capelli turchini, mentre Rachel
giocherellava con le dita della mano di un giovane dalla chioma color
pistacchio.
Uno dei pochi rimasti da soli, in un angolino, era proprio Kidou che,
all’ombra sotto un alto albero, fissava la scena con aria
quasi disinteressata.
Non era fidanzato?
Mi ritrovai a riflettere che fosse strano, rimproverandomi un secondo
dopo per averlo pensato.
Valutai inoltre che quella poteva essere una buona occasione per
parlargli, perlomeno per cercare di porgli delle domande riguardo alle
parole enigmatiche con le quali mi aveva congedata, la sera precedente,
approfittando proprio del fatto che era da solo.
Cominciai a scendere giù per il fianco del piccolo dirupo e
rimasi sorpresa di essere ancora in piedi anziché aver
effettuato una rovinosa caduta, cosa che invece succedeva alquanto
spesso, considerando pure la mia perenne goffaggine.
Neanche a dirlo, non appena arrivai in fondo alla discesa, inciampai in
un sasso.
Sarei caduta a terra, se un ragazzo non mi avesse prontamente afferrata
per un braccio.
Cercai di ricompormi in un modo quanto più dignitoso
possibile mentre sentivo domandare accanto a me:«Va tutto
bene?».
Mi voltai in direzione della voce che mi aveva rivolto la parola e per
poco non svenni.
Gli occhi, di un intenso acquamarina, finirono per stregarmi
all’istante.
La carnagione albina era decisamente nivea ed i capelli, di un
inconsueto colore bianco-grigiastri, gli ricadevano morbidi ed eleganti
sul volto.
Arrossii per l’imbarazzo –e pure per
l’emozione, a dir la verità- mentre mi sorrideva
bonario.
«Fubuki Shirou» si presentò, con estrema
disinvoltura, che non fece che mettermi ancor di più in
imbarazzo.
Perché stavo
reagendo in quel modo?
«P - Phoebe Drake, piacere» balbettai.
Non ci fu tempo di dire altro.
Delle grida si levavano dal campo, mentre degli strani simboli luminosi
si alzavano sulle teste di vari presenti.
Corsi in avanti per cercare di capire cosa stesse succedendo,
ritrovandomi involontariamente ad affiancare Kidou.
«Che cosa …?» cercai di domandare,
semplicemente esterrefatta.
In quel momento, prima che chiunque potesse dire qualsiasi cosa, una
voce provenne dalle nostre spalle, mentre Kidou si irrigidiva
sospettosamente.
«Oh, credo proprio di potervi essere utile»
commentò la voce sconosciuta.
* Angolo autrice *
E ce la fa! Sì!!! * piovono coriandoli *
Anzitutto chiedo venia per il ritardo madornale di questo capitolo ma
vuoi il tour dei paesini al confine tra Lazio e Toscana con i miei
domenica (ed io
solitamente aggiorno la domenica per poi pubblicare il
lunedì, non so se avete notato, vuoi per il fatto che mi
è morta la batteria del computer (giuro!) questo capitolo
giunge con un ritardo colossale rispetto agli altri.
Imploro pietà!
{anche perché io, fossi in voi, mi riterrei parecchio
fortunata, visto che sono capace anche di ritardi peggiori * risata
sadica *}
No, torniamo seri.
Grazie davvero per la pazienza, spero che il capitolo non abbia deluso
le vostre aspettative!
Bene, direi che è arrivato il momento di chiudere, prima
però, come ormai di consuetudine, l’indovinello di
fine capitolo:
Chi è la voce misteriosa che conclude questo capitolo?
Allora, vi ho lasciato un po’ di indizi disseminati nel testo
di questo aggiornamento, spero riusciate a trovarli! Vi do un indizio
sugli indizi:due sono mentre Phoebe parla con Kidou, l’altro
è poche righe prima della fine del capitolo stesso.
Chissà se qualcuno indovinerà, stavolta! Ne
dubito, faccio indovinelli del cavolo con indizi del cavolo!
-.-“
Un'altra cosa:vi piacciono Phoebe e Shirou?
Bene, è arrivato il momento in cui io mi dileguo, visto che
il mio computer sta per morire nuovamente!
A presto (spero)
Aria_black
P.S.:Ah, già, quasi dimenticavo! Stavo pensando di scrivere
il prossimo capitolo dal POV del mio amato Kidou, anziché da
quello di Phoebe. A voi farebbe piacere? Anche perché,
eventualmente, a quel punto aggiungerei altri capitoli in futuro
scritti dal POV di Kidou. Fatemi sapere!
|
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Capitolo 5 *** La missione ***
Si
ringrazia rie (endorphin) per il banner~
Lo Scettro
della Notte
“Sono le cose che
amiamo di più a distruggerci”
[Hunger Games:Il Canto
della Rivolta - Parte 1]
Il respiro che si chiude in gola.
Un brivido che corre lungo la schiena.
Il cuore che, sebbene tu non riesca a spiegarti
perché,smette per un momento di battere, per poi accelerare
di colpo nell’arco di un paio di secondi.
Una sensazione familiare, il panico.
Certo, non lo provavo da due anni a questa parte, diciamo
però che nel corso del tempo ho avuto modo di averci a che
fare.
Mi pare il minimo.
Lo so, sembra un paradosso.
Io dovrei essere quello imperscrutabile, impassibile, nulla dovrebbe
essere in grado di turbarmi.
La situazione mi fa quasi ridere per quanto sfiori
l’assurdo:incredibile che io riesca a perdere la mia abituale
calma solo quando c’è di mezzo chi, in fin dei
conti, mi ha insegnato ad assumere tale atteggiamento di ragionata
pacatezza, quella salda freddezza di nervi, talvolta così
intensa da poter sembrare quasi cinismo, necessaria per poter
analizzare fin nel minimo dettaglio pure i momenti di maggiore
criticità.
Però non rido. Ci mancherebbe altro.
Perché, per quanto ridicolo possa sembrare tutto
ciò –perché sì, è
inutile, checché se ne dica questo esatto frangente
è semplicemente ridicolo- sento, inevitabilmente, qualcosa
che si spezza dentro di me.
Crack.
Non è un’immensa parete come mi sarei immaginato,
visto che fino ad ora credevo di essermi rifugiato dietro di essa, pur
di sfuggire alla dura verità della realtà.
No, è qualcos’altro, qualcosa di più
fine, di più sottile.
Vetro.
Di colpo mi torna in mente un ricordo lontano, sfocato, che credevo di
aver definitivamente relegato nel profondo della mia memoria.
Invece no, prepotentemente sembra voler tornare a galla, fare a pugni
con la mia stessa coscienza pur di avere la meglio.
Così eccolo qui, proprio davanti ai miei occhi, un bimbo di
sei anni che vede un vaso di cristallo cadere dal davanzale ed
infrangersi in mille pezzi, a terra.
Non avrebbe dovuto lasciare la finestra aperta, si riprende. Avrebbe
dovuto pensarci prima:una folata di vento sarebbe potuta arrivare in
qualsiasi momento e buttare giù quel vaso.
Ricordavo fin troppo bene il rumore che il vaso aveva provocato,
schiantandosi sul pavimento.
Crack.
Un rumore fin troppo familiare, ripensandoci.
Il rumore di qualcosa che va in frantumi, di nuovo, ancora una volta,
l’ennesima ad essere sinceri.
La consapevolezza che ormai quel che è stato fatto
è fatto, che non si può più evitare il
danno, l’impatto … la distruzione.
È così che, ancora una volta, la mia vita andava
in frantumi.
Con quel semplice, insulso ed inutile crack.
Due anni, due anni buttati al vento.
Due anni passati a cercare di andare avanti nonostante tutto, di
farsene una ragione.
Nonostante quanto facesse male, sopportando tutta quella sofferenza,
evitando di pensare a quanto fosse orribile tutto ciò che ti
circondava.
Tutto inutile.
Il vetro s’era infranto un’altra volta, ne ero
certo.
Eppure, fui il primo a voltarmi.
Avevo bisogno di conferme o forse solamente di sapere.
Fu una realtà spiazzante e tutta nuova quella che mi
ritrovai davanti.
Tuttavia, in qualche modo, era quasi confortante.
Sapere che, in qualche modo che non riuscivo a spiegarmi, ci fosse
rimedio a qualcosa di tanto definitivo.
La morte.
Un timido sorriso fece per affacciarsi sul mio volto ma lo respinsi
prontamente indietro.
Prima le risposte, ricordai a me stesso.
Era bello. Averlo di nuovo lì, intendo.
Stranamente confortante, a volerla dire tutta.
Mi rivolse uno sguardo incuriosito, addirittura quasi sorpreso,
un’espressione vagamente divertita in volto.
Come biasimarlo, in fondo?
Kageyama Reiji era
tornato.
Nessuno degli altri si era ancora voltato.
Il che era semplicemente assurdo, anche perché ero
assolutamente certo che, perlomeno per quanto riguardava i miei
compagni, conoscessero bene quanto me la sua voce.
Le loro ragazze … ne dubito.
Quel fastidioso sciame di api ci ronzava intorno da quando avevamo
cominciato il liceo.
Dopotutto, essendo i giocatori che avevano vinto il prestigioso
Football Frontier International, intorno a noi si era creata una sorta
di cerchia di ammiratrici.
Alquanto asfissianti, per la verità.
Uno dei pochi che era riuscito a non cadere in quel vortice di
adulazione, in effetti, ero stato proprio io.
L’altro era Shirou.
Sfortunatamente, la lista non era poi tanto lunga.
Lui come scusa aveva il fatto di avere un carattere schivo, che
generalmente lo portava ad evitare complimenti o smancerie
d’altro genere.
Io, invece, avevo cercato di mostrarmi sempre distaccato, impegnato a
pensare a tutt’altro.
Generalmente usavo la scusa dell’essere troppo preso dalle
questioni della squadra per pensare a faccende tanto futili come
l’amore.
Ma la verità, lo sapevo bene, era ben diversa.
In quei due anni non avevo cercato di far altro che farmene una
ragione, capacitarmi di una morte tanto improvvisa.
A quanto pareva, non ci ero riuscito, non del tutto perlomeno.
O meglio, se quello era l’effetto che continuava ad avere su
di me nonostante fosse passato tutto quel tempo, allora ero abbastanza
certo che i miei sforzi non avessero avuto la benché minima
utilità.
Poi ci pensai e realizzai che, forse, se gli altri non si erano ancora
voltati, era perché volevano dare del tempo, ad entrambi.
Ma che cosa carina,
pensai, a metà tra il sorpreso ed il disgustato.
Decisi che, perlomeno, la mia squadra si meritava un ringraziamento
degno di essere definito tale.
«Kageyama Reiji»sibilai, uno strano quanto
spaventosamente familiare senso di perfidia che si avvolgeva intorno al
mio cuore, sotto forma di volute di vapore.
«Direttamente dall’espresso Inferno –
Tokyo solo andata»ironizzò lui, un sorriso
beffardo sulle labbra.
Così dannatamente seducente …
Cielo, perché
doveva sempre complicare tutto?
Non ci pensai due volte e cominciai ad avanzare minaccioso nella sua
direzione.
«Tu»sbottai, lasciandomi trascinare
dall’accesso di bile che d’improvviso aveva invaso
il mio corpo.
Mi ritrovai di fronte a lui e per un breve –seppur fin troppo
lungo- istante, avvertii il mio stomaco stringersi in una morsa
d’acciaio, dopodiché puntai con rabbia e violenza
l’indice contro il suo petto.
Lui arretrò di un passo, se spaventato o colto di sorpresa
non saprei dirlo.
Continuai a puntargli quel dito contro ed a premerglielo sul petto ad
ogni parola che pronunciavo.
Così eruppi con quel rimprovero, se lo si sarebbe potute
definire tale.
«Razza. Di. Povero. Idiota. Come. Osi. Presentarti. Qui.
Dopo. Due. Anni. Comparendo. Dal. Nulla?!» strepitai.
L’unico essere vivente presente su questo pianeta in grado di
farmi venire una crisi isterica, già.
La cosa paradossale era che, nonostante stesse letteralmente camminando
all’indietro a causa della mia ira, non stesse incespicando
minimamente.
Mi fermai, perlomeno per riprendere fiato. Accidenti, non credevo che
le mie emozioni potessero essere tanto intense e distruttive.
Alzai gli occhi, rendendomi conto che, durante tutta la mia sfuriata,
non lo avevo guardato, nemmeno per un momento.
E rimasi non poco sorpreso nel notare quella sua espressione sorpresa e
vagamente divertita.
In un momento avvertii qualsiasi tipo di forza o rancore abbandonare il
mio corpo, al che mi chiesi se tutte quelle spiegazioni,
così affannosamente inseguite in quei tormentati due anni,
fossero davvero necessarie.
La cosa spiazzante è che non trovai risposta alcuna a quella
domanda.
«Kidou»sussurrò, quella maledetta nota
di sorpresa ora presente anche nella sua voce e non più solo
sul suo volto.
E la
razionalità andò a farsi benedire.
Invaso dai sensi di colpa per essere stato tanto sciocco, gli gettai le
braccia al collo.
Potei solo che immaginare le espressioni sorprese sui volti delle
persone alle mie spalle ma francamente in quel momento non me ne
importava poi molto.
Il mio mondo aveva deciso di crollare ancora una volta ed io, in quel
momento, avevo solo bisogno di un po’ di sostegno.
Lo sentii poggiare una mano alla base della mia schiena e sebbene
arrossii fino alla punta delle orecchie -detestavo il contatto
fisico, mi metteva in imbarazzo, perciò cercavo di evitarlo
per quanto più mi fosse possibile- non lo rifiutai di certo,
limitandomi ad affondare ancor di più il volto dalle gote
imporporate contro la sua giacca, affinché nessuno notasse
quel rossore.
«Ti odio»brontolai, seppur la mia voce tradisse
tutta la mia emozione.
«Oh, mi sei mancato anche tu,
Kidou»replicò lui, la voce leggermente divertita.
In quel momento ci sarebbero state così tante cose da dire
ed al tempo stesso nessuno di noi due ne sentiva veramente il bisogno.
Forse perché qualunque parola sarebbe stata inutile per
descrivere quel momento.
In fondo andava bene così.
Mi ero ormai rassegnato alla prospettiva di dover passare
l’ora successiva –e forse pure la settimana a
venire- a giustificare la mia reazione a quanto era appena avvenuto ai
ragazza.
Mi sbagliavo pure quella volta.
Alle mie spalle avvertii una strana energia irradiarsi per tutto il
campo.
Qualcosa, forse istinto di sopravvivenza, mi suggerì che
sarebbe stato decisamente meglio non voltarsi, così mi
limitai a stringermi ancor di più al corpo di Kageyama.
Lui, d’altra parte, aumentò la presa sulla mia
schiena. Quasi potevo sentire le sue dita entrare nella mia carne,
scivolare dentro di me.
Per quanto potesse fare impressione, era al contempo stesso anche
abbastanza rassicurante.
L’energia sembrò scemare, così mi
sistemai meglio col busto per poter voltare la testa in direzione del
punto in cui l’avevo sentita generarsi.
E ci trovai una donna.
La cosa, stranamente, m’inquietò alquanto, forse
soprattutto per il fatto che apparentemente non avevo motivo di
ritrovarmi innervosito dalla presenza di una donna esattamente al
centro del nostro campetto da calcio.
Se non per l’inquietante particolare dell’energia
che avevo avvertito prima di voltarmi.
Che l’avesse
generata lei?
Cominciai a rimettere insieme i tasselli, forse per abitudine o forse
perché quel briciolo di razionalità che avevo
perso quando avevo abbracciato Kageyama era tornata ad albergare nel
mio corpo.
Degli strani simboli luminosi erano comparsi sulle teste di alcuni dei
miei compagni e di alcune delle loro ragazze, un sole luminoso sopra
Endou, un cinghiale su per il ciuffo punk di Fudou –non ci
stava neanche poi tanto male-, delle fiamme tra i capelli di Gouenji.
Sobbalzai quando, lanciando uno sguardo verso l’alto, notai
la presenza di una civetta azzurra sopra i miei dreadlocks.
Kageyama, avvertendo il mio movimento improvviso, mi strinse
maggiormente a sé ed io ne approfittai per affondare ancor
di più il volto nel suo petto, spaventato.
Ne riemersi poco dopo, avevo tutte le intenzioni di scoprire cosa
stesse succedendo.
Ero convinto che tutto fosse legato a quella donna, apparsa dal nulla a
centrocampo.
Lei lasciò correre lo sguardo su tutti noi. Quando
scivolò su di me, mi concentrai al meglio per analizzarne
ogni dettaglio.
Lunghi capelli neri, leggiadre vesti bianche.
Anche se, forse, ciò che mi colpì di
più furono i suoi occhi.
Infatti, sul volto candido come neve, spiccavano le labbra rosse come
petali di rosa, le lunghe ciglia nere e poi quegli occhi.
Scintillanti ed intensi come smeraldi.
Avevo già visto quegli occhi ma non riuscivo a capire dove.
Poi, come colto da un ricordo improvviso, la mia mente fu invasa dalle
gocce di pioggia copiose del temporale del giorno precedente.
Allora ne ebbi la certezza.
Quegli stessi occhi verde smeraldo.
Phoebe Drake.
Lei, la nuova arrivata della Raimon, la giovane venuta
dall’America, colei che mi aveva seguito fin in quel vicolo
sperduto, nemmeno ventiquattr’ore prima.
Spostai il mio sguardo dalla parte opposta del campo, ricordandomi
d’improvviso che la ragazza si era avvicinata a me, poco dopo
la comparsa degli strani simboli luminosi e che era poi rimasta
lì, proprio dove l’avevo lasciata, dopo che mi ero
allontanato in direzione di Kageyama.
La vidi subito e compresi che anche lei doveva essersi resa conto che
quella donna venuta da chissà dove aveva i suoi stessi
occhi, vista l’espressione che aveva in volto, un misto tra
stupore e terrore.
Tornai a fissare la donna e le chiesi con voce –stranamente-
insicura:«Chi sei?».
Mi rimproverai subito dopo per quanto stupida suonasse quella domanda.
Lei si voltò nuovamente a guardarmi, dopo che come me aveva
concentrato la propria attenzione su Phoebe, quindi
esordì:«Semidei!».
C’era qualcosa che continuava a non
tornarmi:perché quella donna si stava rivolgendo ai ragazzi
presenti sul campo chiamandoli “semidei”?
Una volta, per motivi di lavoro, avevo seguito il mio genitore adottivo
in Europa. Una volta lì, avevamo soggiornato per varie
settimane nelle diverse nazioni del continente.
Sarebbe anche potuta essere una vacanza, anche perché era
estate, certo, peccato che mio padre fosse troppo impegnato dai suoi
affari.
Quando arrivammo in Grecia, cercai di godermi al meglio possibile il
luogo, cosa che feci, oltre che visitando le spiagge dalle acque
cristalline ed incontaminate ed i vari siti archeologici delle
vicinanze, leggendo un sacco di libri ed informandomi sulle leggende
del posto.
Così, mentre mio padre era impegnato in una full-immersion
nel suo lavoro, io passavo le mie giornate in compagnia di dei ed eroi
e proprio leggendo di questi ultimi ero venuto a conoscenza dei
cosiddetti semidei, uomini e donne nati dall’unione tra un
dio ed un essere umano.
Generalmente avevano grandi poteri oppure erano dotati di una forza
sovrumana, come Eracle, uno dei più famosi semidei.
Ciò tuttavia continuava a non spiegare perché
quella donna si fosse rivolta ad un gruppo di giovani giapponesi come
se si trovasse in presenza di eroi dell’antica Grecia.
D’improvviso i miei ragionamenti furono interrotti da una
voce, che squarciò il silenzio che era calato sul campo.
«Scusi … com’è che ci ha
chiamati?».
Non ebbi difficoltà a riconoscerne il proprietario:Endou, il
mio capitano.
Per quanto sciocca potesse sembrare in un primo momento la sua domanda,
non potevo che essergli grato per averla posta:dopotutto, non era anche
ciò che mi chiedevo io?
La donna si voltò e per un momento pensai che avrebbe
ignorato la domanda di Endou, proprio come aveva fatto con la mia
d’altronde, invece, inaspettatamente, tornò ad
indirizzare lo sguardo nella mia direzione e rispose ad entrambi.
«Il mio nome è Artemide e sono la dea della
caccia, nonché rappresentazione della
Luna»spiegò la donna «e sono qui
perché ho una missione per voi. Giovani uomini e donne, vi
sarà ormai chiaro che non siete come i vostri coetanei:voi
siete diversi, speciali oserei dire. I simboli divini sopra le vostre
teste ne sono la prova».
Cercai di fare mente locale, dunque osservai:«Le fiamme
… sono il simbolo di Efesto. Il sole, invece, rappresenta
Apollo, dio del sole, della medicina e protettore delle arti. Quanto al
cinghiale … credo sia l’animale sacro di Ares.
Devo averlo letto da qualche parte, un tempo …».
Sentii una ventina di paia d’occhi puntarsi su di me,
così mi ritrovai di nuovo in imbarazzo.
Artemide sorrise affabile e commentò:«Credo che
non dovrei esserne poi così stupita. Dopotutto, la civetta
che è apparsa sopra la tua testa è un chiaro
segno che tu sia figlio di Atena».
Mi resi conto di quanto potesse sembrare assurda la situazione, quindi
domandai:«Ma com’è possibile? Voglio
dire, la mitologia greca risale a circa tremila anni fa, come potremmo
credere di essere figli di … dei?».
Vari mugolii di approvazione si levarono intorno a me e seppi di aver
colto il nocciolo della questione.
Artemide mi guardò e sembrò quasi divertita
mentre replicava:«Beh, credo che questo potrebbe spiegartelo
anche il tuo amico».
Mi sentii nuovamente in imbarazzo quando mi resi conto che con
“amico” Artemide si stava riferendo a Kageyama,
anche perché il nostro rapporto era la cosa più
lontana esistente dall’essere definita amicizia.
Mi voltai comunque verso di lui, che si limitò ad alzare le
spalle con aria vaga mentre aggiungeva:«Ecco, non
è così semplice da spiegare. Per quanto ridicolo
possa sembrare, la divina Artemide ha ragione:la mitologia greca non
sono solo favole inventate dagli antichi per spiegarsi fenomeni
naturali o l’origine dell’universo, tutti eventi ai
quali non sapevano dare una giustificazione. Io stesso ne sono venuto a
conoscenza quando, in seguito all’incidente dopo il quale mi
avete creduto morto, gli dei mi hanno salvato, risparmiandomi la
vita».
Di colpo fui colto da un sospetto, qualcosa che avevo solo ipotizzato
ma che ora aveva un senso ben diverso.
«Il temporale di ieri pomeriggio, dunque … non
aveva origini naturali»valutai.
Lui sorrise ed ammise:«No, affatto. Sono stato io a
generarlo».
Per un istante rimasi perfino sorpreso, poi pensai che stavamo parlando
di Kageyama Reiji e che quindi cercare di dare un senso a
quell’affermazione sarebbe stato tutto, fuorché
logico.
A quel punto le mie parole e tutte le mie ipotesi ebbero finalmente un
senso, così ripresi:«Ecco perché la
pioggia non mi sfiorava … eri tu che non volevi che
arrivasse al mio corpo! Solo … come diavolo è
possibile che tu sia in grado di provocare un temporale?».
Lui sorrise ancora, dunque si voltò in direzione del cielo,
stendendo il braccio in avanti, quasi proteso a toccare le nuvole.
Subito l’atmosfera sembrò incupirsi, grosse nubi
bigie s’addensarono sopra di noi.
Un tuono rombò nell’aria, diffondendo quel rumore
assordante per tutta l’area circostante.
I miei occhi tornarono a puntarsi su Kageyama, che mi sorrise
comprensivo mentre concludeva:«Mio padre è Zeus,
re del cielo e signore degli dei».
Un brivido mi corse lungo la schiena ed avvertii di nuovo
l’odore di ozono che avevo percepito il pomeriggio
precedente, poco prima dello scoppio del temporale.
Mi resi improvvisamente conto di essere tra le braccia di un uomo
potente, incredibilmente, immensamente potente, volendo essere precisi.
Un tempo gli avrei attribuito l’aggettivo
“potente” con tutto un altro significato, eppure
adesso …
Marina, una ragazza che come me frequentava il terzo anno,
domandò allora:«Divina Artemide. Lei ha parlato di
una missione. Di cosa si tratta?».
La dea si voltò in direzione della ragazza che le si era
rivolta, dunque rispose:«Oh, giovane Marina Sapphire, figlia
di Atena anche tu … purtroppo ho delle spiacevoli notizie da
darvi, semidei:qualcuno ha rubato lo scettro di Nyx, la dea della
Notte. Nyx è una divinità primordiale, ben
più antica e potente di noi dei dell’Olimpo ed il
suo scettro è in grado di generare le tenebre eterne:se
ciò accadesse, il mondo per come lo conosciamo non
esisterebbe più e saremmo costretti a brancolare
nell’oscurità per il resto dei nostri giorni. Se,
come temiamo, lo scettro è caduto in mano a dei mostri o,
peggio ancora, ad entità malvagie ben più potenti
di questi, per chiunque, umani, semidei e dei sarebbe la rovina. Il
vostro compito è quello di ritrovare lo scettro e riportarlo
in salvo prima che sia troppo tardi».
Calò di nuovo il silenzio. Da come l’aveva
descritta Artemide, la situazione era tutt’altro che rosea:un
folle sembrava aver rubato un potentissimo scettro, in grado di gettare
il mondo intero nelle tenebre senza fine.
La cosa peggiore era che, a quanto pareva, toccava a noi rischiare la
vita per fare in modo di non passare il resto dei nostri giorni in una
specie di cecità permanente.
Incredibile,
com’è che ricevo sempre belle notizie?
Mi schiarii la voce, attirando l’attenzione di tutti i
presenti su di me, dunque chiesi:«Divina Artemide, non vorrei
sembrare insolente ma come può aspettarsi che una ventina di
persone, che oltretutto hanno appreso neanche mezz’ora fa di
essere discendenti di antiche e potenti divinità greche,
possano recuperare un preziosissimo scettro, peraltro appartenente ad
una dea, senza nemmeno sapere da che parte iniziare? Insomma, non ho
mai ricevuto nessun genere di addestramento per questo, come
può aspettarsi che sappia cosa fare in una situazione del
genere, vale a dire totalmente estranea a me come del resto a chiunque
su questo campo, senza contare poi il fatto che ci ritroveremo di
fronte ad imprevisti di qualsiasi tipo che magari neanche sapremo
spiegarci con nulla che possa aiutarci?».
La dea mi sorrise risoluta e commentò:«Oh, per
quest’ultima parte credo proprio di potervi essere
utile».
Artemide si esibì in un ampio gesto della mano ed in un
battito di ciglia ognuno di noi aveva, tra le mani o fermata in vita,
un’arma.
Notai subito la presenza di una cintura che mi fasciava i fianchi ed
appesa ad essa si trovava l’elsa di puro argento di una
spada, lunga all’incirca una novantina di centimetri.
Il fodero era di pelle nera lucente, adornata qua e là da
delle borchie argentate.
Afferrai l’elsa ed estrassi cautamente l’arma,
osservandola con estrema attenzione.
Dove l’impugnatura incontrava la lama, l’argento
era di un nero brillante, mentre la parte tagliente del lungo strumento
era d’acciaio lucente.
Nonostante sembrasse estremamente sofisticata, era oltremodo leggera e
maneggevole.
Peccato che non avessi minimamente idea di come si utilizzasse:a volte
si finisce per cadere nel banale cliché che i figli di
uomini ricchi imparino fin da piccoli l’uso della spada
giocando a scherma.
Non esiste niente di più errato.
Certo, mio padre adottivo era un ricco imprenditore, tuttavia mai aveva
espresso il desiderio che mi fossero impartite lezioni di scherma.
Quindi, per quanto bella e preziosa potesse essere quell’arma
–non ero poi stupido al punto di non riconoscerne il valore-
non ero di certo in grado di maneggiarla.
La dea, come leggendomi nel pensiero,
spiegò:«Essendo la dea protettrice della caccia,
conosco bene l’utilizzo delle armi. Queste sono le
più adatte in base a corporatura, forza e
velocità, oltre a rispecchiare la vostra
personalità. Sono abbastanza sicura che, ora come ora,
pressoché nessuno di voi sappia come utilizzarle ma vedrete
che, al momento opportuno, l’istinto di sopravvivenza
avrà la meglio su di voi, così saprete quale
sarà la cosa giusta da fare».
Rinfoderai la spada ed i miei occhi caddero su Phoebe, che era
esattamente davanti a me, dalla parte opposta del campo:aveva ricevuto
in dono dalla dea un arco e delle frecce.
Dubitavo che sapesse cosa farsene.
Artemide lasciò nuovamente correre il suo sguardo smeraldino
su ciascuno di noi, quindi concluse:«L’ultima cosa
che posso dirvi, semidei, è che dovete dirigervi verso
meridione:lì troverete il vostro primo compito e se lo
svolgerete correttamente, avrete un passaggio assicurato verso la
vostra meta successiva».
La dea non aggiunse altro, eppure avevo già cominciato a
ragionare sulle mie supposizioni. Meridione
…
Artemide ora mi rivolgeva le spalle, gli occhi puntati sulla giovane
davanti a sé.
«Phoebe Drake … avvicinati,
cara»ordinò la dea.
A Phoebe non restò niente da fare se non assecondarla, una
nota evidente di riverenza nei suoi movimenti.
Quando si ritrovò di fronte alla dea, a pochi passi da lei,
questa stese il braccio in avanti, il palmo della mano rivolto verso
l’alto.
Poco dopo, sopra la testa di Phoebe –sulla quale, fino a quel
momento, non era apparso nulla- s’illuminò una
luna piena, di un bianco perlaceo lucente, alcune candide e soffici
nuvole a danzarle intorno.
Phoebe sussultò, terrorizzata.
La dea invece sorrise soddisfatta mentre annunciava:«La luna
è il mio simbolo, un satellite che da migliaia di anni
rischiara le notti buie sulla terra. In quanto mia figlia, Phoebe,
sarà tuo dovere tenere alto il mio nome, così che
si continui a venerarmi come un’appartenente di diritto al
pantheon greco, formato dalle dodici divinità più
potenti dell’antichità. Il tuo compito
è arduo, figlia mia ma so per certo che non mi
deluderai».
Detto ciò, la dea si tramutò in una cerva dorata
e scomparve, dirigendosi verso dei boschi non molto distanti dietro il
campetto di calcio.
Ed io rimasi lì, con una spada che non avevo la minima idea
di come utilizzare, due dozzine di ragazzi e ragazze per
metà dei armati di tutto punto ed un figlio della
più potente divinità del mondo antico, che
sarebbe dovuto essere morto e che invece, a quanto pareva non lo era
affatto, in grado di generare tempeste e tornato direttamente dal regno
degli Inferi.
Proprio una situazione
normale, già.
* Angolo delle
spiegazioni (?) *
Ed eccomi di nuovo qua, ragazzi!
Allora, anzitutto prima di venirmi a dire che ho messo una parte di
capitolo al presente ed una al passato, lasciate che vi spieghi:la
prima parte del capitolo, infatti, è molto generale, quasi
vago oserei dire, giacché non ha una collocazione ben
precisa all’interno della storia.
È più un momento “lirico” se
così vogliamo definirlo, estemporaneo alle vicende della
storia vera e propria –seppur non del tutto- ed ha la
funzione di spiegare lo stato d’animo di Kidou in quel
determinato momento.
A proposito, vi è piaciuto il capitolo sotto il suo POV? In
teoria anche il prossimo dovrebbe essere scritto in prima persona da
lui, quindi fatemi sapere! Ho pensato inoltre che, nei capitoli dal
punto di vista di Kidou, inserirò delle citazioni, per
distinguerli da quelli di Phoebe. Vi piace l’idea? E la
citazione che ho scelto per questo?
Poi, altre spiegazioni random generali:in questo capitolo gli OC non
sono presenti (e temo non lo saranno neppure nel successivo):questo
succede perché ho deciso di portare parallelamente avanti
due storie, raccontate per l’appunto tramite due POV
differenti, quello del mio OC Phoebe e quello di Kidou.
Pertanto vi chiedo anticipatamente scusa e vi tranquillizzo:tra due
capitoli tornerà (credo) il POV di Phoebe e saranno presenti
tutti i vari OC, con le diverse coppie che interagiranno tra loro.
Contenti? Me lo auguro per voi, eh.
Che altro c’è da dire? No, niente, volevo
chiedervi se in generale vi sta piacendo la storia e se vi aspettavate
quanto è successo.
Chiudo con l’ormai consueto indovinello di fine capitolo:secondo voi, cosa intende
Artemide con “meridione”?
Aspetto di sapere i vostri pareri – a tal proposito, scusate
se ve lo chiedo ma mi farebbe molto piacere ricevere un vostro
riscontro tramite recensione, almeno per sapere se il capitolo fa poi
così schifo. So che è estate, fa caldo e
praticamente a nessuno va di mettersi a scrivere una recensione
chilometrica ma ve l’assicuro, bastano poche righe per
riempire di gioia il cuore di un’autrice.
Un’ultima cosa prima che me ne dimentichi:avete preferenze
per le armi? Avevo pensato a spade, archi, pugnali e lance, cose
così insomma. Sarei per attribuire una determinata arma al
vostro personaggio in base alle caratteristiche di questo ma ripeto, se
ne volete una piuttosto che un’altra non esitate a farmi
sapere.
A presto (spero)
Aria_black |
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Capitolo 6 *** Insonnia ***
Si
ringrazia rie (endorphin) per il banner~
Lo Scettro
della Notte
“Nei miei incubi di
solito ho paura di perdere te.
E sto bene quando mi
accorgo che ci sei”
[Hunger Games:La ragazza
di Fuoco]
Mi svegliai di soprassalto, tanto che per poco temetti di essere
così vicino al letto sopra il mio che ormai battervi la
testa sarebbe stato inevitabile.
Il respiro era affannoso, la fronte imperlata di sudore.
Vi passai una mano quasi in automatico, cercando di cancellare
perlomeno le tracce evidenti che l’ennesimo incubo aveva
lasciato su di me, nonostante fossi pienamente cosciente che le ferite,
quelle dentro di me, non se ne sarebbero andate mai del tutto.
Ogni cosa era buia intorno a me e per quello che ne riuscivo ad intuire
nella penombra della cuccetta del treno, tutti e tre i ragazzi che
dormivano con me, si trovavano ancora beatamente tra le braccia di
Morfeo.
Poi però mi ricordai quello che avevamo scoperto negli
ultimi quattro giorni –le divinità
dell’antica Grecia esistevano davvero ed un potentissimo
scettro stava per distruggere il nostro mondo–
perciò decisi di sorvolare su quell’ultimo
paragone.
Nel letto sopra il mio c’era Endou e non avevo bisogno di
vederlo per avere ulteriori conferme:il suo ronfare pacato mi
bastò per capire di non averlo affatto svegliato.
Nonostante avessi appena rischiato di dare una forte zuccata contro il
suo letto. Come poteva essere così tranquillo?
Dalla parte opposta intravedevo appena Gouenji e Fubuki,
rispettivamente il primo sopra e l’altro sotto in quella
stramba accozzaglia di tubi che formavano i nostri letti a castello,
entrambi apparentemente mi sembravano essere scivolati in un sonno
profondo.
Gouenji era voltato verso la parete, così che non ne potessi
vedere il volto ma a giudicare dal regolare sollevarsi ed abbassarsi
delle sue spalle stava trascorrendo sogni tranquilli.
Fubuki aveva un’espressione beata in volto, le mani raccolte
sotto il cuscino ed il respiro leggero, così intuii che pure
lui non era tormentato dagli incubi.
Insomma, come al solito toccavano tutte a me.
Mi misi silenziosamente in piedi per non svegliarli e barcollai a causa
del sonno fino alla mia valigia, rintanata in un angolino in fondo alla
cabina, prendendovi i primi vestiti che trovai ed infilandomeli
completamente alla cieca, visto che mi riusciva perfino difficile
tenere gli occhi aperti nonostante avessi avuto quell’incubo
ed ora fossi decisamente più sveglio che addormentato.
Da una parte quasi lo capivo:quegli ultimi quattro giorni erano stati
un susseguirsi continuo ed instabile di eventi, che avevano confuso
perfino me.
Dopo il ritorno di Kageyama e la scoperta della nostra parte semidivina
il mondo sembrava aver preso a ruotare più velocemente.
Artemide ci aveva dato una missione, per la quale nessuno sapeva cosa
fare.
Dopotutto, meridione
poteva dire qualsiasi cosa.
In realtà la soluzione ci era quasi stata generosamente
offerta quando, il pomeriggio seguente, avevamo ricevuto una telefonata
da Okinawa.
Tsunami, ovviamente.
Anche lui, a quanto pareva, era un semidio, per la precisione figlio di
Poseidone.
Avrei dovuto pensarci, a dir la verità.
Ad ogni modo, era stato contattato da altre nostre vecchie conoscenze
in giro per il mondo, che avevano a loro volta scoperto di essere figli
o figlie di qualche divinità greca tramite quei
simpaticissimi segnali luminosi sopra le loro teste.
Così avevano tutti deciso di raggiungere Tsunami ad Okinawa
ed a noi non era toccato far altro che adattarci e partire a nostra
volta in direzione dell’isola, nel bel mezzo del Pacifico.
Peccato che fossimo semidei e ciò comportasse che, per noi,
nulla fosse mai semplice.
Un viaggio in aereo sarebbe stato impraticabile, soprattutto
considerando che contro avevamo nemici tanto potenti da sottrarre lo
scettro di una delle più potenti e primordiali
divinità mai esistite sulla faccia della Terra.
Come se tutto ciò non bastasse già di per
sé –e bastava, eccome– la rotta aerea
Tokyo – Okinawa era decisamente troppo lunga, il che avrebbe
incrementato non poco il rischio di essere attaccati da
mostri o chissà cos’altro.
Così avevamo deciso di raggiungere per via ferroviaria Osaka
e poi, una volta lì, decidere di conseguenza come proseguire.
Anche perché, se avessimo preso l’aero, come
avremmo potuto sperare di superare i controlli ed i metal detector con
tutte quelle armi che ci portavamo dietro?
Il treno era stata, pertanto, la scelta più giusta.
Inutile dire quindi che tale decisione non si fosse raggiunta per mio
merito.
Mi risultava paradossale infatti pensare che, ancora una volta, la mia
vita fosse nelle mani di Kageyama e la cosa ancor più
assurda era che, per quanto potessi continuare a ripetere a me stesso
di odiarlo e che non avrebbe fatto altro che condannarci tutti alla
rovina, fino a quel momento mi era sembrato l’unico in grado
di prendere lucidamente una decisione che non ci vedesse tutti morti su
un fondale marino.
Ovviamente avevo cercato di trovare una risposta alla domanda che
continuavo a ripetermi, vale a dire che ci guadagnava lui ad aiutare un
gruppo di ragazzini incapaci a non rimetterci la pelle a causa di un
branco di mostri, eppure per quanto ci pensassi –
all’incirca ogni momento della mia giornata da quattro giorni
a quella parte – non ero ancora riuscito a darmi una risposta.
Dopo che Artemide, sotto le sembianze di una cerva dorata, si era
dissolta scomparendo nella boscaglia, era stata indetta una riunione
d’urgenza a casa mia.
Lì per lì mi ero pure chiesto perché
proprio casa mia ma ero giunto alla conclusione che il mio salone fosse
l’unico posto in grado di contenere così tante
persone senza troppe ristrettezze.
Non avevo comunque esternato le mie perplessità con nessuno,
giungendo da solo alla soluzione:non volevo apparire tanto superfluo in
un momento del genere.
Una volta lì era stato pressoché impossibile
gestire su per giù venticinque persone in preda al panico od
allo stupore.
Erano tutti presi ad osservare le loro nuove armi, io stesso ammetto di
essermi perso buona parte della discussione poiché ero
ipnotizzato, totalmente perso nel fissare con espressione impassibile
l’elsa argentata che avevo ricevuto in dono nemmeno
mezz’ora prima.
Per quanto mi desse fastidio, dovevo perlomeno riconoscere a Kageyama
il merito di essere riuscito a tirare le fila di quei discorsi senza
capo né coda.
Erano tuttavia ancora tante le cose che continuavano a non tornarmi e
temevo che non mi sarei dato pace finché non vi avessi
trovato delle risposte.
M’infilai una felpa nera, un paio di jeans e delle sneakers
nere, quindi mi legai in vita la fascia con la spada, dalla quale ormai
non mi separavo praticamente mai –giacché oramai
vivevo nel costante terrore di un improvviso attacco da parte dei
mostri– quindi mi avvicinai quanto più
silenziosamente possibile all’uscita della cuccetta,
scivolandovi fuori con un rapido scatto.
Nei giorni precedenti alla partenza, alcuni di noi avevano subito degli
attacchi da parte di mostri, il che ci aveva portati a convincerci che
partire quanto prima sarebbe stata la soluzione migliore.
Io stesso un pomeriggio, mentre tornavo a casa dagli allenamenti
insieme a Sakuma, ero finito vittima della battuta di caccia di
un’arpia.
Ci eravamo salvati praticamente per un colpo di fortuna,
giacché avevo agitato la spada con la prima mossa che mi era
venuta in mente, infilzando così l’arpia con un
solo movimento.
Quella era praticamente esplosa, ricoprendoci di una strana polverina
giallastra.
Quando lo aveva saputo, Kageyama era andato su tutte le furie,
esprimendo apertamente il suo disappunto in merito a due ragazzi soli
ed inesperti costretti a difendersi dall’attacco di
un’arpia … con cosa? Praticamente niente.
Era strano vederlo preoccupato per me, tanto che per un momento avevo
avvertito qualcosa di caldo diffondersi nel mio petto.
Per un momento, eh.
In seguito agli attacchi che, quello stesso giorno, altri di noi
avevano subito, avevamo preso la repentina decisione di metterci in
viaggio verso Osaka quanto prima.
Era pur sempre una specie di meridione,
perlomeno rispetto a Tokyo.
Stando a quanto aveva detto Artemide, una volta giunti presso la nostra
meta avremmo trovato ad attenderci un compito da svolgere e qualora
fossimo riusciti ad adempiervi avremmo guadagnato un passaggio
assicurato per proseguire in quella sorta di missione suicida.
Avevamo avuto poco tempo per preparare i bagagli e trovare una scusa
abbastanza plausibile per giustificare alle nostre famiglie quella
nostra partenza improvvisa.
Non che non fossero abituati a vederci salvare il mondo, solo che
stavolta saremmo stati ben più del solito, oltre al fatto
che il pericolo con il quale dovevamo confrontarci non era minimamente
paragonabile a nulla di quanto avessimo affrontato finora.
Stavamo parlando di dei e magia, dopotutto.
L’unico grande punto interrogativo che avevo per quel viaggio
–oltre al sottogruppo di tanti dubbi minori,
s’intende– era, come al solito, Kageyama.
Potevamo fidarci di lui?
Purtroppo le circostanze quasi me lo imponevano, eppure avevo perfino
proposto ai miei compagni di organizzare dei turni di veglia per
tenerlo sott’occhio.
Paradossalmente, nessuno di loro aveva trovato di alcuna
utilità controllarlo.
D’accordo, forse avevano ragione loro e non riuscivo a
fidarmi di lui solo a causa dei nostri trascorsi, senza contare che, in
fin dei conti, era stato l’unico fino a quel momento a darci
una mano, nonché con ogni probabilità
–per quanto detestabile potesse sembrarmi l’idea-
l’unico altro semidio in circolazione che avesse un briciolo
di esperienza disposto –o forse sarebbe più
corretto dire costretto– ad aiutarci.
Eppure nulla avrebbe potuto impedirgli di ingannarci tutti e trarci
d’improvviso in inganno, gettandoci metaforicamente parlando
nella fossa dei leoni.
Alla fine però, da bravo idiota quale non ero altro, mi ero
lasciato come al solito trascinare dal tono convincente di Endou, che
mi aveva ricordato che, d’altronde, ero stato io stesso ad
infondere nella mia squadra fiducia in quell’uomo quando gli
avevo gettato le braccia al collo, su quel campetto da calcio.
Me l’ero chiesto, perché lo avessi fatto e neppure
in quel caso ero riuscito a trovare una spiegazione per quel mio gesto.
Detestavo non avere delle risposte e tanto per cambiare, in presenza di
Kageyama non c’era una volta che ne avessi una.
Scrollai con decisione la testa, cercando di levarmelo
–inutilmente– dai miei pensieri.
Tentai piuttosto, nonostante già sapessi che fosse del tutto
inutile, di concentrarmi sul monotono quanto rassicurante dondolio del
vagone del treno che avevamo occupato interamente, talmente tanti
eravamo.
Per quanto potessi negarlo era stato a dir poco terrorizzante dovermi
scontrare con quell’arpia, per non parlare di quanto, negli
ultimi tempi, la mia vita avesse cominciato a cambiare troppo in fretta
per i miei gusti.
Ero in effetti alquanto recidivo ai cambiamenti repentini.
Tipo la morte di Kageyama … possibile che dovessi essere
sempre così ripetitivo?
Guardai fuori dal finestrino, meravigliandomi con quanta
facilità cambiasse il paesaggio oltre di esso.
Di colpo fui spaventato da un rumore improvviso e mi accorsi che la
porta in fondo al vagone, che dava su un piccolo terrazzino
–possibile che dovessimo viaggiare su un treno tanto vecchio
e lento? Di sicuro quella locomotiva apparteneva ai primi anni del
secolo precedente– era socchiusa.
Con ogni probabilità il rumore proveniva da lì.
Avvolsi la mano attorno all’elsa della mia spada:meglio
essere sicuri, non si sa mai, in caso di un altro attacco da parte dei
mostri … certo, il treno era rassicurante proprio
perché, da quando avevamo cominciato a viaggiarvi, non
avevamo più ricevuto attacchi, tuttavia decisi che fosse
decisamente più saggio essere pronti a qualsiasi evenienza e
mai dire mai.
Mi avvicinai guardingo alla porticina, cercando di fare quanto meno
rumore possibile.
Per poco non passai a fil di spada Kageyama. Già.
Quando fui ormai con la mano sul pomo della porta la spinsi avanti con
un rapido gesto ed estrassi la spada, puntandola alla mia sinistra,
dove avevo intravisto una sagoma scura.
Peccato che a causa della mia eccessiva prevenzione –o forse
sarebbe più corretto dire della mia smisurata
fifa– di lì ad un paio di secondi mi ritrovai con
la punta della spada appena premuta alla gola di Kageyama.
Sobbalzai, indietreggiando di un paio di passi per la sorpresa.
Idiota, mi
rimproverai subito dopo.
Lui in un primo momento mi aveva osservato con un’espressione
sorpresa, dopodiché aveva cercato di tornare impassibile
come al solito quanto prima, così che non mi accorgessi di
quel, seppur minimo, mutamento.
Però io l’avevo notato.
«Hai intenzione di uccidermi?»mi domandò
subito, cogliendomi impreparato, una lieve nota di cinismo nella voce.
Per un istante, forse fin troppo lungo, indugiai, talmente spiazzato e
preso in contropiede da quella domanda, dopodiché mi
affrettai a replicare:«N – no … certo
che no».
Mi rivolse un sorriso, che tuttavia sembrava così crudele,
mentre mi faceva notare con aria sagace:«Allora per quale
razza di motivo mi staresti tenendo sotto tiro?».
Non so perché ma mi resi pienamente conto solo in quel
momento che gli stavo puntando ancora la spada contro.
Arrossii –perché stavo arrossendo?–
mentre mi affrettavo rinfoderare la mia arma.
Non capivo perché, eppure in un certo senso avvertivo di
dover giustificare quel mio gesto, così ammisi:
«Credevo ci fosse un mostro».
Lui mi squadrò e mi ammonì:«Oh,
così hai ben pensato di sfoderare un’arma
semidivina in direzione del primo venuto senza prima accertarti che si
trattasse realmente di un mostro o di uno dei tuoi compagni, oppure che
so, di un altro qualsiasi dei passeggeri di questo treno. Davvero una
mossa intelligentissima, i miei complimenti».
Le mie mani si strinsero in pugni per la rabbia che
d’improvvisò avvertii invadere il mio corpo, le
braccia rigidamente distese verso il basso a causa della tensione che
percepivo scorrere tra noi due.
Ero così infuriato che sbottai:«Ho avuto paura,
dannazione!».
La sua espressione tornò sorpresa e quando mi resi conto di
aver realmente detto quella frase spostai immediatamente lo sguardo,
puntandolo a terra per l’imbarazzo.
Perché avevo
detto una cosa del genere!?
Per qualche secondo calò il silenzio, un silenzio
decisamente opprimente, colmo di così tante parole che non
uscirono dalle labbra di nessuno dei due.
Lo sentii avvicinarsi a me ed istintivamente mi scostai.
Compresi che le nostre menti, come al solito, avevano percorso lo
stesso sentiero e che dunque avesse intuito che quel mio improvviso
accesso di preoccupazione era stato causato dall’attacco che
avevo ricevuto giorni prima, da parte di quell’arpia.
Sapevo che aveva intuito che, nonostante la mia prontezza di riflessi e
per quanto gli altri potessero lodarmi per aver disintegrato un mostro
con una singola mossa, ero rimasto profondamente traumatizzato da
quanto era avvenuto.
D’altronde, come l’aveva chiamato Artemide?
Istinto di sopravvivenza.
Ecco, se ero ancora vivo era solo grazie al mio istinto di
sopravvivenza, non ad una mia particolare abilità nel
maneggiare la spada o cos’altro.
Per questo avevo paura.
Non ero riuscito a non chiedermi cosa sarebbe successo se, un giorno,
quell’istinto di sopravvivenza fosse venuto meno:avrei
decretato la mia morte e quella dei miei amici?
Lanciai un rapido sguardo a Kageyama e mi meravigliai non poco di
notare, dipinta sul suo volto, una disperata espressione di dolore e
rimorso.
«Cielo, Kidou, perdonami. Non era mia intenzione
turbarti»sussurrò.
Per un istante non riuscii più a respirare. Cosa stava
succedendo? Perché ora mi diceva quelle cose?
Credeva davvero di poter tornare all’improvviso, dopo due
anni durante i quali non avevo fatto altro che crederlo morto e di
colpo rigirare tutta la frittata e diventare il buono di turno?
Si avvicinò di nuovo e stavolta gli permisi di raggiungere
il mio corpo.
Lo avvertii circondarmi la vita con un braccio, mentre una mano si
poggiava delicatamente sulla mia guancia, perdendosi in una svogliata
carezza.
Stupido cuore che decide
di accelerare quando gli pare.
«Vuoi parlarne?»lo sentii bisbigliare.
Non mi chiese nemmeno se ci fosse qualcosa che non andava, tanto ormai
era ovvio che fosse così.
Cercai di spostare il mio sguardo su qualsiasi cosa, purché
fosse lontana da noi, così mi misi ad osservare con estremo
interesse i binari che scorrevano silenziosi sotto di noi.
«H – ho fatto un incubo»confessai, seppur
non di buon grado. Perché la mia voce tremava
così pericolosamente, come se fosse sul punto di spezzarsi?
Lui sospirò appena mentre affermava:«Ne avevamo
parlato già prima della partenza, ricordi? È
normale per i semidei essere perseguitati dagli incubi».
In quel momento avrei voluto che Ade, il dio dell’oltretomba,
avesse aperto una voragine sotto i miei piedi e mi avesse risucchiato
nel suo regno d’oscurità.
Invece non successe niente, così mi trovai costretto a dover
ammettere:«La verità è che ho sognato
di perderti
… di nuovo».
Sentii il suo respiro bloccarsi in gola, il ritmico alzarsi ed
abbassarsi del diaframma d’improvviso interrotto e capii di
averlo stupito di nuovo.
Era diventato decisamente più semplice sorprendere Kageyama,
dopo il suo ritorno.
Deve essere una cosa dovuta all’essere tornato indietro dagli
Inferi, anche perché mi risultava che mai nessuno prima di
lui ci fosse riuscito.
All’improvviso, non sapevo bene come, mi ricordai di quella
riunione a casa mia e di come, mi ero accorto, Kageyama non mi avesse
mai tolto lo sguardo di dosso neppure per un momento, fissandomi
perfino mentre parlava.
Come se fosse, in qualche modo a me sconosciuto, felice di rivedermi
dopo tutto quel tempo.
Temevo che, per qualche istante, avesse ritenuto possibile che fossi un
miraggio, che non fossi realmente lì, che non
l’avessi abbracciato davvero e che magari fosse tutto frutto
della sua immaginazione oppure una qualche specie di tortura che gli
era stata inferta negli Inferi prima di essere salvato dagli dei, tipo
mostrargli cose che non avrebbe più potuto avere.
Come me, in fin dei conti.
Mi sentii un essere orribile, specie se pensavo a quello che aveva
dovuto soffrire lui.
Tuttavia sentii la sua mano scivolare delicatamente ancora una volta
lungo la mia guancia mentre mi tranquillizzava:«Kidou
… non me ne vado più».
Non so perché, eppure quell’affermazione mi
rassicurò in modo preoccupante, così mi sistemai
meglio con la schiena contro il suo petto, fissando di nuovo il
paesaggio che sfrecciava intorno a noi.
Per un attimo mi concessi addirittura di sentirmi sollevato, stretto
tra le sue braccia, eppure le immagini dell’incubo di poco
prima, che fino a quel momento avevo cercato di escludere dalla mia
mente, tornarono ad invaderla prepotentemente.
Così eccoci di nuovo lì, sull’orlo di
quel buio burrone, il mio corpo a penzoloni su quello strapiombo e la
mia mano stretta nella sua, ultima ancora alla vita che mi fosse
rimasta.
Eppure le forze abbandonavano di colpo il mio corpo, nonostante le sue
esortazioni a resistere, a credere che sarebbe andato tutto bene ed
all’improvviso mi sentivo precipitare verso
l’abisso eterno, senza più via di scampo.
Era solo un incubo, certo, eppure era così terribilmente
reale e terrorizzante.
Ridicolo, eppure una volta ero così razionale …
probabile che la razionalità smetta di esistere al cospetto
delle divinità, no?
Cercai di cancellare nuovamente quelle immagini dalla mia testa e
fallii ancora, tuttavia finsi che non fosse così e gli
domandai invece:«Tu, piuttosto … perché
sei qui?».
Mi decisi a lasciar tornare il mio sguardo su di lui, così
mi confessò:«Avevo bisogno di prendere una boccata
d’aria fresca. Comunque, giusto perché si sappia,
non ti avrei minimamente biasimato se, prima, il tuo desiderio fosse
stato veramente quello di uccidermi. In fondo l’avrei
capito:dopo tutto il male che ti ho fatto, sarebbe il minimo».
Trasalii al solo pensiero.
Come poteva anche
lontanamente credere che, nonostante tutto, avrei potuto desiderare
ucciderlo?
Doveva aver avvertito il brivido che di colpo mi aveva scosso, visto
che aveva sciolto la presa attorno al mio corpo.
Per un attimo desiderai che mi abbracciasse ancora.
Poi, per l’ennesima volta, mi diedi dello stupido.
«Ad ogni modo, non lo farei mai»mi costrinsi ad
ammettere«potresti tornarci utile. Inoltre, che motivo avrei
avuto per farlo?».
Mi resi conto solo in quel momento di quanto mi sentissi stanco,
così scrollai rapidamente le spalle e mi voltai in direzione
della porticina, spiegando:«Credo che sia arrivato il momento
che me ne torni nella mia cuccetta».
Lui, alle mie spalle, convenne:«Sono d’accordo.
Cerca di riposarti, ci aspettano giorni intensi».
Come se non me ne fossi già reso conto, valutai.
Raggiunsi la porta, ormai convinto che nessuno dei due avrebbe aggiunto
altro.
Tuttavia, quando ormai la mia mano si era già poggiata sulla
maniglia, sentii le dita di Kageyama stringersi attorno al mio polso
mentre sussurrava:«Kidou, aspetta!».
Mi voltai subito, colpito dal suo tono d’urgenza e rimasi a
dir poco sorpreso quando avvertii le sue labbra poggiarsi sulla mia
fronte.
Arrossii di colpo mentre lo sentivo allontanarsi dal mio corpo e
concludere:«Buonanotte».
Nonostante il mio cuore avesse momentaneamente deciso di farsi un giro
sulle montagne russe, mi obbligai a
ripetere:«Buonanotte».
Mi voltai, tornando nel vagone e chiudendo quella porta alle mie
spalle, nonostante sapessi di aver appena lasciato un pezzo di me su
quel terrazzino.
* Angolo autrice *
{ma che carino questo capitolo. Sìsì}
Salve, gente! Come va?
Come avevo predetto in questo capitolo niente OC perché
… beh, volevo spiegare un attimo che sta succedendo e
francamente non so quanto io ci sia riuscita visto che per tre quarti
di capitolo mi sono persa a parlare dei miei personaggi preferiti
…
Non diversamente dal solito, certo.
Comunque, bando alle ciance! I nostri ragazzi sono in viaggio,
accettando così la missione affidata loro da Artemide e
dirigendosi verso sud. A proposito, vi faccio i miei complimenti
perché avete indovinato quasi tutti la risposta alla domanda
che vi avevo lasciato alla fine dello scorso capitolo,
perciò … bravi, chapeau!
Tornando a noi, ho deciso di utilizzare questo capitolo un
po’ come un ponte di transito tra la prima parte della
storia, ossia quella che è servita un po’ da
presentazione e quella che comincerà a partire dal prossimo
aggiornamento, vale a dire la missione vera e propria.
Detto questo, stavolta non ho un vero e proprio interrogativo da porvi
perché … beh, come dicevo in questo capitolo non
ci sono stati sostanziali sviluppi della storia, quanto piuttosto
qualche spiegazione generale.
Potrei anche chiuderla qui, prima però ho una comunicazione
importante per voi:non so se la prossima settimana riuscirò
ad aggiornare regolarmente la storia perché sarebbe pure ora
che mi mettessi a studiare, i compiti delle vacanze non si fanno mica
da soli!
{maledetto greco!!!}
Niente, mi farebbe piacere ricevere le vostre opinioni in merito alla
storia, così, giusto per sapere come sto andando –
non fate i timidi, alias recensite!
A presto (spero)
Aria_black |
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Capitolo 7 *** Osaka~ ***
Si
ringrazia rie (endorphin) per il banner~
Ci si aspetterebbe che fossi crollata a dormire come un sasso,
finalmente al sicuro nella cuccetta di quella vecchia locomotiva,
circondata da amiche e persone delle quali mi fidavo.
Invece no.
Come avrei potuto dormire?
Ero arrivata in Giappone nemmeno una settimana prima e nel frattempo
avevo scoperto di essere la discendente di un’antica
divinità greca –che, guarda caso, per quanto
potessi dubitarne, esisteva sul serio- e del resto lo era praticamente
chiunque mi circondasse, comprese le tre persone che erano con me, in
quell’esatto momento, nel mio stesso scompartimento notte in
quel treno, che consideravo amiche nonostante l’unica cosa
che attualmente ci unisse fosse quel disperato senso di terrore.
Nina era sotto di me, stando alle posizioni che ci eravamo date per
quegli assurdi letti a castello.
Farla dormire sopra sarebbe stato un suicidio:nei giorni precedenti
alla partenza, infatti, mi ero accorta che, a modo suo, sapeva essere
imbranata.
La sua determinazione infatti la portava spesso e volentieri ad essere
così concentrata quando faceva qualcosa da farla quasi
apparire come una persona con la testa perennemente tra le nuvole; non
che ci fosse sul serio, solo che era così concentrata da
dimenticarsi di ciò che c’era intorno a lei.
In parte le ero grata perché, qualche giorno prima, mi aveva
praticamente salvato la vita.
Uscite da scuola stavamo camminando insieme, dirette verso le nostre
reciproche abitazioni, quando una ragazza abbastanza alta ci aveva
avvicinate con una scusa apparentemente stupida –chiederci
informazioni- e noi l’avevamo seguite in un vicolo che solo
dopo ci eravamo rese conto essere cieco.
La scusa sarebbe pure potuta essere realistica:non aveva tratti
orientali, sembrava piuttosto essere, come me, americana, al massimo
comunque occidentale, considerata la carnagione lattea, i capelli
biondi e gli occhi di un colore chiaro, tra il verde e
l’azzurro.
Verde acqua, ecco; mi sembrava di ricordare il nome di un colore simile.
Solo che, una volta in quel vicolo buio, la ragazza si era rivelata per
ciò che era realmente:i lunghi capelli dorati si erano
tramutati in lingue di fuoco, la pelle sembrava vecchia di millenni ed
avvizzita, gli occhi pari a due tizzoni ardenti.
Non aveva gambe, quella definizione sarebbe stata troppo clemente.
Una aveva le fattezze equine, il vello quanto di più simile
avessi mai visto a quello di un vero asino, mentre l’altra
sembrava essere di nientemeno che bronzo.
Ero terrorizzata, incapace di muovermi, se non fosse stato per Nina
sarei morta.
«I tuoi capelli vanno a fuoco»aveva fatto notare a
quella creatura mostruosa, una punta di ovvietà nella voce.
Aveva attirato così tutta l’attenzione del mostro
su di sé e mi era sembrato di rendermi conto solo in quel
momento quanto fosse in pericolo la mia amica ed io ero lì,
che non riuscivo a muovermi od ad esserle d’aiuto in nessun
modo, bloccata in quell’impasse di terrore misto a stupore
che congelava qualsiasi idea di movimento potesse passarmi per la mente
in quell’istante e mi lasciava lì, gelata sul
posto.
Fu allora che mi sorprese.
Vidi qualcosa di piccolo e sottile attraversare l’aria,
fenderla come una piccola scia argentea, da Nina al mostro.
Quell’oggetto –che ancora non ero riuscita ad
identificare- si era conficcato nel fianco del mostro.
In un primo momento quell’essere sembrava essere rimasto
perfino più sconcertato di me, tuttavia ben presto la sua
sorpresa si era tramutata in rabbia quando si era reso conto che ora
era totalmente incapace di muoversi.
«Veleno paralizzante»spiegò Nina, come
se il solo fatto che avesse appena lanciato con mira perfetta un
microscopico aghetto intriso di veleno paralizzante nel fianco di un
mostro fosse la cosa più naturale ed ovvia del pianeta.
Dopotutto, era di Nina che si stava parlando.
Era stato solo allora che ero riuscita a risvegliarmi da quella sorta
di stato di trance.
Avevo estratto il pugnale da caccia che mia madre mi aveva donato
insieme all’arco –preferivo di gran lunga il
pugnale all’arco, visto che intralciava meno i miei
movimenti- e mi avvicinai alla creatura.
Non sapevo per quanto ancora il veleno di Nina avrebbe avuto effetto
sulla creatura, perciò mi resi conto che avrei dovuto agire
al più presto possibile per non finire affettata.
Non che fossi entusiasta all’idea di pugnalare un mostro,
diciamo però che l’istinto di sopravvivenza del
quale aveva parlato mia madre ebbe la meglio:considerando che morire
sbranata da un mostro non era di certo la vocazione della mia vita,
infilai il pugnale senza pensarci oltre nel petto della creatura.
Quello era praticamente esploso, rivestendoci da capo a piedi di
polvere giallastra –essenza di mostro, avremmo scoperto poi-.
Quello stesso pomeriggio, eravamo stati tutti convocati per una
riunione d’emergenza presso la residenza dei Kidou. Di nuovo.
Non era infatti la prima volta che capitava:subito dopo la visita di
mia madre –e la conseguente scoperta di essere semidei- ci
eravamo ritrovati tutti lì, nella grande e lussuosa villa
del ragazzo strano e misterioso che avevo conosciuto giusto qualche
giorno prima.
Fondamentalmente avevamo scelto casa sua come punto di ritrovo
strategico e provvisorio per un unico motivo:era l’unica
sufficientemente grande da poter ospitare tutti noi senza troppe
ristrettezze.
Ad ogni modo, anche altri ragazzi spiegarono di essere stati vittime di
attacchi di mostri, lo stesso Kidou era tra questi.
Sulla strada di casa lui ed il suo amico Sakuma erano stati attaccati
da un’arpia:grazie al cielo lo stratega della Inazuma Japan
era riuscito a liberarsene con un solo colpo di spada.
Sembrava però restio a vantarsene e non credevo lo facesse
per modestia:non lo conoscevo, d’accordo, eppure potevo
vedere da chilometri di distanza il suo tormento che mi fece intuire
che doveva esserci qualcosa di più, che stava evitando di
dirci.
Fu Kageyama a zittire una volta i suoi tentativi di distogliere
l’attenzione da sé, commentando:«Per
quanto tu possa cercare di sminuirti, Kidou, non hai comunque nessun
modo per cancellare ciò che hai fatto».
Il rasta aveva deviato rapidamente la direzione del suo sguardo,
dimostrandosi improvvisamente disinteressato alla conversazione; non mi
era comunque sfuggito il piccolo accenno di rossore sulle sue guance.
Era pressoché impossibile definire l’influenza di
Kageyama nella vita di Kidou, seppure quest’ultimo
continuasse ad insistere che non avesse più peso alcuno da
molto tempo.
Inutile, c’era qualcosa che non mi tornava in come il figlio
di Zeus non riusciva a staccare per un istante lo sguardo dal suo ex
allievo:era come se, anche se in un modo tutto loro, continuassero a
cercarsi, dopo tutti quegli anni, se per rimettere insieme i cocci o
meno del loro rapporto non avrei saputo dirlo.
Eppure non ero riuscita a non chiedermelo:era possibile rimettere
insieme i pezzi di un rapporto tanto travagliato, per giunta dopo tutto
quel tempo?
Kageyama non riusciva a sopportare l’idea che il figlio di
Atena si fosse ritrovato sotto attacco, senza avere la minima idea di
come potersi difendere.
«Dobbiamo andarcene da qui»aveva
annunciato«gli attacchi che stiamo subendo sono la prova
tangibile che i mostri emissari dei nemici ci hanno accerchiati. Sanno
dove viviamo, conoscono le nostre abitudini. Chi altro è
stato attaccato oggi?».
Quasi tutti alzarono la mano.
Quando toccò a me spiegare da parte di cosa avessi subito un
attacco, cercai di fornire una descrizione quanto più
dettagliata possibile.
«Un’empusa»dichiarò senza
troppe difficoltà il figlio di Zeus.
Quando tutti ebbero raccontato le proprie difficoltà
giornaliere, Kageyama riprese:«Capite cosa intendo adesso?
Siamo troppo esposti qui. Come se tutto ciò non bastasse,
finché non recupereremo lo scettro gli attacchi non
cesseranno, mettendo in pericolo anche persone innocenti. Pertanto,
sarà meglio partire quanto prima, tanto dovevamo comunque
recarci ad Okinawa per raggiungere gli altri sull’isola. Ora
dobbiamo solo trovare il modo per arrivare lì, possibilmente
vivi».
Capii al volo che Kageyama, oltre ad essere un uomo estremamente
pragmatico, era anche dotato di ottime capacità retoriche.
Così era venuto fuori che saremmo partiti di lì a
pochi giorni, in treno, verso Osaka.
Mio padre non era tornato a casa in quei giorni ed al telefono non era
mai raggiungibile:all’osservatorio astronomico
c’era un pessimo segnale.
Gli lasciai un messaggio sul tavolo della cucina, cercando di apparire
quanto meno preoccupata possibile nell’annunciargli che avevo
preso parte ad una ricerca scolastica che mi avrebbe portata fuori
città per parecchi giorni.
Evitai di inserire la parte che spiegava che stavo praticamente
prendendo parte ad una malata sorta di missione suicida che implicava
la presenza di divinità greche, magia e mostri:ci mancava
l’allarmismo di mio padre ed il quadro sarebbe stato completo.
Così eccomi qui, nella mia cuccetta, sveglia in seguito
all’ennesimo incubo da semidea mentre mi rigiravo inutilmente
tra le lenzuola.
Mi decisi a scendere lentamente giù dal mio letto, facendo
molta attenzione a non svegliare le altre che dormivano con me.
Atterrata in punta di piedi mi guardai attorno:Nina, nel letto sotto il
mio, dormiva come un sasso; quanto al letto a castello di fronte al
nostro, Chieko –nel letto in basso- riposava tranquilla,
mentre Rin –nel ripiano più alto- agitava di
continuo le mani, perfino nel sonno.
Normale per un figlio di Efesto, dio dei fabbri –abituati ad
avere le mani continuamente in fermento, alle prese con viti, bulloni e
quant’altro- e soprattutto per i semidei, perennemente
affetti da iperattività, che li rendeva incapaci di stare
fermi anche solo per un secondo.
M’infilai solo le scarpe:vantaggio di dormire vestita, in
caso di qualsiasi evenienza e sgattaiolai quanto più
silenziosamente possibile fuori dalla cuccetta.
Ero felice delle mie compagne di stanza.
Nei momenti trascorsi insieme avevamo scoperto tante cose di
noi:eravamo tutte e quattro figlie di divinità diverse,
eppure ci trovavamo abbastanza in sintonia tra noi.
Nina era figlia di Demetra, l’aghetto che aveva tirato contro
quel mostro ne era una prova:era infatti un’esperta di
piante, dalle quali per l’appunto riusciva ad estrarre quelle
sostanze nocive, dove intingeva poi i suoi aghi.
Rin, come dicevo, era un’allegra ed esuberante figlia di
Efesto e le sue mani sempre pronte all’azione erano la
dimostrazione più lampante che si potesse desiderare.
Quanto a Chieko, lei era una figlia di Atena e non ne ero rimasta poi
così sorpresa:già dai pochi momenti in cui ci
eravamo parlate avevo notato la sua intelligenza.
Ed io?
Io ero solo la figlia di Artemide, quella di cui nessuno sente mai la
necessità … ancora mi chiedevo quale fosse la mia
utilità all’intero di quella missione.
In corridoio incontrai Shirou, il ragazzo che avevo conosciuto qualche
giorno prima:probabile che qualche incubo tenesse sveglio anche lui.
Era in piedi, nel bel mezzo del corridoio del vagone, accanto ad un
ampio finestrino nel cuore della notte.
Mi pareva di ricordare che sopra la sua testa fossero apparsi dei
fiocchi di neve, al momento del riconoscimento:Chieko mi aveva spiegato
che era il simbolo dei figli di Chione, la dea della neve.
Non sapevo ancora cosa pensare di Fubuki Shirou:era sempre
così silenzioso, eppure sentivo qualcosa attrarmi
perennemente verso di lui, in direzione di quei suoi infiniti silenzi.
«Buonasera»mi salutò in un sussurro.
«Ehi»ricambiai, un po’ in
imbarazzo«che ci fai qui?».
Lui si lasciò sfuggire un sorriso che mi sembrò
immensamente triste, tuttavia si limitò a
rispondere:«Beh, credo più o meno quello che stai
facendo tu:non riesco a dormire a causa degli incubi, così
eccomi qui a vagare per il treno, al buio, nel cuore della notte. Con
l’unica differenza che Kidou mi ha definitivamente svegliato
quando se ne è uscito dalla nostra cabina».
Non mi focalizzai sull’ultima parte della frase, visto che mi
limitai a spiegarmi:«No, intendevo perché sei proprio qui, in questo corridoio».
Lui indicò la porta socchiusa alle sue spalle e
riprese:«Sono qui per lui. Quando l’ho sentito
uscire dalla cabina ho deciso di seguirlo:tanto ormai ero sveglio,
inoltre non volevo che si cacciasse nei guai. Invece, quando sono
arrivato qui … oh, controlla tu stessa, altrimenti non mi
crederai».
Si scansò appena, lasciandomi lo spazio necessario per
attraversare il corridoio che mi restava da percorrere, così
cominciai ad avvicinarmi alla porticina in fondo al vagone.
Quando passai accanto a Shirou, sentii una ventata d’aria
gelida avvolgermi:poteri da figlio della dea della neve, suppongo.
Mi sbrigai a raggiungere la porta:non avevo intenzione di mettermi a
riflettere su quell’improvviso gelo.
Cercando di fare quanto meno rumore possibile, sbirciai oltre
questa:Kidou era veramente lì ma la cosa più
paradossale era che si trovava tra le braccia di Kageyama.
Per giorni non aveva fatto altro che cercare di metterci in guardia su
quanto non avrebbe fatto altro che farci finire ammazzati in qualche
luogo ed ora lì, con la schiena contro il petto di quello
che spergiurava fosse il suo peggior nemico?
Oh, il mondo stava proprio andando alla rovescia.
Non sentivo cosa si stessero dicendo, il rumore del treno che scivolava
sulle rotaie era così stridente ed intenso da rendermi
difficile perfino udire il mio stesso respiro.
Sempre che si stessero dicendo qualcosa, certo:a volte abbiamo solo
bisogno della vicinanza alle persone che per noi sono importanti, senza
la necessità di parole.
Si separarono di colpo e capii che a breve sarebbero rientrati nel
vagone e che sarebbe stato meglio che non ci avessero trovati
lì a spiarli.
Ero comunque contenta che il gruppo fosse unito:per giorni avevo temuto
che eventuali litigi tra Kidou e Kageyama durante il viaggio potessero
rovinare l’umore generale.
A quanto pareva, il mio era stato solo un timore infondato.
Raggiunsi rapidamente Shirou e gli comunicai:«Credo che
stiano per rientrare».
Lui annuì, comprensivo, dunque senza troppe cerimonie mi
salutò:«Allora buonanotte».
«Buonanotte»ricambiai, prima di vederlo sparire nel
buio del vagone.
Mi sbrigai a tornarmene nella mia cabina:feci giusto in tempo a
rientrare nella cuccetta prima di sentire dei passi svelti attraversare
il corridoio; ero quasi certa che fossero quelli di Kidou.
La mattina seguente ci svegliammo di buon ora:il treno sarebbe arrivato
in stazione ad Osaka alle nove e non avevamo molto tempo per fare
colazione e recuperare tutti i bagagli, così ci avviammo in
fretta verso il vagone ristorante.
Fummo una delle prime camere a giungere sul posto:non c’erano
altre ragazze e gli unici altri presenti erano i ragazzi della camera
di Kidou.
E Kageyama, certo.
Il figlio di Atena sembrava avere la testa da tutt’altra
parte, mentre osservava con estrema concentrazione il passaggio che
sfrecciava davanti ai suoi occhi, al di là del grande
finestrino dell’area di ristoro del treno.
Il figlio di Zeus, in piedi con la schiena poggiata contro la parete
opposta, sembrava incapace di scollargli gli occhi di dosso.
Poco dopo il vagone cominciò a popolarsi di tutti gli altri
ragazzi e ragazze, chi più chi meno assonnato.
Ci sedemmo tutti intorno al lungo tavolo che occupava quasi interamente
il vagone e cominciammo la colazione tra le varie chiacchiere.
Quando Kidou si rese conto che il suo ex allenatore si era seduto
accanto a lui cercò di non darci peso.
Beh, perlomeno finché si rese conto che si erano appena
passati a vicenda la loro bevanda mattutina preferita.
Se la ricordavano ancora … dopo tutto quel tempo
…
Fecero quello che avevano sempre fatto e per il quale sembravano avere
un talento naturale:fingere che non fosse successo niente.
Kidou si limitò a prendere la sua spremuta
d’arancia dalla mano di Kageyama, sorseggiando con gusto il
contenuto del bicchiere limpido come cristallo.
Aveva ignorato –per quanto gli era stato possibile, certo-
l’aver sfiorato la mano dell’altro ed aveva
letteralmente strattonato il bicchiere via dal palmo del figlio di
Zeus, concentrandosi al massimo sul gusto leggermente acidulo della
spremuta.
Kageyama, d’altronde, non aveva fatto commenti sul suo
caffè, corto ed amaro:nemmeno un filo di zucchero, proprio
come piaceva a lui.
Rimaneva sempre più sorpreso ogni volta che aveva
l’opportunità di constatare quanto fosse
sconfinata la memoria del suo ex allievo.
Cosa che, per quanto cercasse di non darlo a vedere, apprezzava e non
poco.
Un colpo di tosse palesemente finto si levò
dall’estremità opposta del tavolo ed entrambi si
voltarono in direzione del rumore inconsueto.
La visuale era in parte ridotta dai posti in fondo al vagone che
avevano occupato –per limitare la conversazione con gli altri
al minimo, come sempre- ma potevano comunque riconoscere Endou, in uno
dei posti più centrali.
Si era alzato in piedi ed aveva assunto un’aria quanto
più seria quando cominciò:«Allora
… a breve il treno arriverà in stazione ad Osaka.
Solo, una volta lì … cosa dovremmo fare,
esattamente?».
Kidou si sentì al centro dell’attenzione in modo
preoccupante:detestava esservi, ecco perché a volte tendeva
a cercare di isolarsi.
Tuttavia sapeva che i suoi compagni –specie i ragazzi della
squadra- facevano molto affidamento su di lui, considerandolo come un
“mentore”, se così lo si poteva
definire:responsabilità implicite nell’essere il
primo stratega, probabilmente.
Il figlio di Atena sospirò e
spiegò:«Beh … avevo avuto
un’idea. Se quello che ha detto Artemide è vero,
ad Osaka dovremmo riuscire a trovare il nostro passaggio per il
meridione. Perlomeno questo è la teoria che mi sono fatto.
L’unico problema sorge quando non abbiamo la più
pallida idea di dove e soprattutto come
trovare questo “passaggio”. Credo che sia qualche
trabocchetto sotto».
«Una missione»sentì concordare qualcuno
accanto a lui.
Ci impiegò qualche secondo per realizzare che era stato
proprio Kageyama a parlare e che, soprattutto, stava concordando con lui.
Possibile che le loro menti dovessero essere sempre così
collegate?
Kidou lo fissò dubbioso e
domandò:«Prego?».
Il figlio di Zeus alzò all’istante lo sguardo su
di lui, puntandolo in direzione dei suoi occhi, quindi
spiegò: «Sarebbe troppo semplice se, una volta
arrivati ad Osaka, avessimo semplicemente trovato il passaggio per
Okinawa. Ben poco nello stile degli dei, diciamo. Pertanto credo che,
al nostro arrivo, ci sarà ad attenderci una missione o
qualcosa del genere».
Detestava essere d’accordo con lui.
Sapeva perfettamente che aveva ragione, eppure dargliene atto era
decisamente così poco da Kidou Yuuto.
Si limitò a lasciarsi sfuggire un sospiro, forse troppo
rumoroso, che fece ridacchiare mezzo vagone.
«Hai intenzione di portarti sul serio tutta quella
roba?».
Chieko era incredula:era abituata al proprio intelletto pragmatico che
le aveva fatto bastare una borsa ben ragionata ed organizzata, con
dentro tutto ciò che potesse servirle.
Lo stesso per quasi tutte le ragazze ed i ragazzi.
Sapeva però già da principio che Vanille non ce
l’avrebbe fatta:così eccola lì, sulla
banchina, appena dietro la linea gialla, con il suo trolley azzurro, di medie dimensioni.
«Che c’è? Ho preso solo lo stretto
indispensabile!»si difese la bionda, sistemandosi la ciocca
color pistacchio dietro l’orecchio.
Tutti conoscevano fin troppo bene Vanille:era sempre alla moda, senza
nemmeno farci caso; era pertanto chiaro che si fosse portata tutti quei
vestiti, la moda era sempre in continuo mutamento.
Rin era d’accordo con Chieko:la figlia di Efesto adorava la
precisione, come quella di Atena, peccato non fosse ordinata tanto
quanto lei.
I figli di Efesto erano in continuo mutamento ben più della
moda di Vanille, inutile negarlo, pertanto non era affatto inusuale che
vivessero nel disordine delle loro stesse invenzioni!
In quel momento Kidou avrebbe solo voluto riportare un po’
d’ordine tra i ragazzi, tanto la sua stabilità
mentale era a rischio ma giusto un secondo prima che potesse aprire
bocca sentì qualcuno alle sue spalle
gridare:«Yu-uh! Ragazzi? Sono qui!».
Alla maggior parte dei presenti non ci volle molto per collegare le
informazioni in loro possesso:voce squillante ed Osaka, la risposta non
poteva che essere una.
Rika Urabe.
La loro vecchia amica era proprio lì, alle loro spalle, un
paio di grossi occhiali da sole dalla montatura di plastica rosa a
coprirle gli occhi.
«Rika!»esclamò Endou, a dir poco
sorpreso«Che ci fai da queste parti?».
La ragazza sorrise affabile mentre si avvicinava a loro e
spiegava:«Beh … sono stata avvisata del vostro
imminente arrivo qualche giorno fa, così eccomi
qua!».
Kidou aveva già intuito che Rika non era venuta a conoscenza
del loro viaggio in direzione Osaka tramite mezzi di comunicazione
umani:non avevano detto a praticamente nessuno della loro partenza,
né tantomeno del loro viaggio.
Allora come faceva a saperlo lei?
Un sospetto prese a farsi strada nella mente del figlio di Atena.
Se ci sono anche altri semidei sparsi in giro per il mondo, come
Tsunami ad Okinawa, allora probabile che anche Rika …
Non fece in tempo a finire di formulare la propria ipotesi che la Urabe
aveva già estratto uno specchietto dalla propria borsetta.
Era piccolo e rotondo, dalla superficie dorata.
«È stato questo ad
avvisarmi»confessò la giovane dai capelli turchini.
Kidou osservò meglio –per quanto gli fosse
possibile, mentre tutti si affollavano intorno a Rika per vedere
l’oggetto che teneva in mano- lo specchietto.
Sembrava un normalissimo contenitore per cipria, tanto che Rika lo
aprì e lo richiuse un paio di volte, per mostrare a tutti
che funzionava correttamente.
Una volta che Rika ebbe abbassato e richiuso per un’ultima
volta il coperchio dello specchietto, Kidou notò un
dettaglio che in precedenza gli era sfuggito:al centro della parte
superiore del portacipria, infatti, era riportato una piccola
raffigurazione, leggermente in rilievo.
Sembrava essere … una colomba.
Rika ci passò sopra il pollice con una facilità
disarmante e di lì a poco lo specchietto prese a mutare
sotto i loro stessi occhi increduli, tramutandosi in un pugnale dalla
lama di bronzo, lunga all’incirca una ventina di centimetri.
«Afrodite»commentò
Chieko, quasi in un sussurro.
«Esatto»convenne Rika, infilandosi il pugnale in un
passante dei jeans«È stata lei a donarmelo.
Attraverso il vetro ricevo visioni da parte degli dei, invece se passo
un dito sulla colomba, l’animale sacro di mia madre, lo
specchietto si trasforma in un pugnale».
«Che forza!»commentò una vocina alle
spalle di Kidou.
Voltandosi, intravide gli occhioni grigi di Lilian, la più
piccola del gruppo, una bambina di soli undici anni che, come lui, era
figlia di Atena.
Vanille la prese in braccio e le lasciò osservare da
più vicino il pugnale magico di Rika:si poteva dire tutto
sulla figlia di Tyche ma non di certo che non ci sapesse fare con i
bambini.
Nel frattempo Rika riprese:«Avevo visto nello specchio che
sareste arrivati ma non ho la più pallida idea del
motivo».
«Artemide ci ha indirizzati qui»spiegò
Shirou«dobbiamo recarci a sud per recuperare, da quanto ho
capito, un prezioso scettro prima che dei mostri ci uccidano tutti. Ah,
e dobbiamo raggiungere Okinawa, dove altri nostre vecchie conoscenze
che si sono rivelati essere semidei ci stanno aspettando e per fare
ciò dobbiamo prima svolgere una missione o qualcosa del
genere».
Rika soffiò debolmente ed
obiettò:«Prendere una nave no, eh?»
«Magari fosse così facile»ammise
sconsolato Kidou«temo però che gli dei ci abbiano
preparato qualche deliziosa sorpresa o qualcosa del genere».
«Capisco»commentò la Urabe, lasciando
volteggiare i suoi capelli turchesi nello spazio intorno a
lei«vorrà dire che mi toccherà
aiutarvi, essendo l’unica un pizzico più esperta
del luogo, visto che, beh … non so, ci abito?».
«Potrebbe essere
un’idea»acconsentì il ragazzo con gli
occhialini.
Rika sorrise compiaciuta e propose:«Potremmo dividerci in
coppie od in piccoli gruppi, così riusciremmo a controllare
ogni angolo della città».
Era una buona idea, tuttavia Kidou non ne sembrava del tutto convinto,
infatti poco dopo ribatté:«Ma se ci dividessimo
non sarebbe troppo pericoloso? Voglio dire, se ci separassimo e
venissimo attaccati sarebbe difficile venirne fuori illesi. Dopotutto
non ci siamo mai allenati per affrontare una battaglia al
meglio».
Il rasta si sorprese non poco quando, non poco, Kageyama gli fece
notare:«Vero, tuttavia dividendoci potremmo confondere
possibili assalitori, inoltre in piccoli gruppi la
possibilità di difendersi con successo aumenterebbe di
molto».
Perché doveva sempre avere ragione?
«Allora è deciso!»esclamò
Endou, tutto contento«ci divideremo in coppie ed ognuno di
noi controllerà in un certo angolo di Osaka alla ricerca del
nostro “passaggio verso il sud”!».
Dopodiché, si scatenò la confusione
più totale:gente che correva da una parte
all’altra, ragazze che afferravano possessivamente i loro
compagni sottobraccio, altre –ed altri- che si guardavano
intorno spaesati.
Fubuki lanciò uno sguardo in direzione di Phoebe e
cominciò:«Credo che io andrò con
…».
Proprio in quel momento Nina abbracciò Phoebe ed
esclamò:«Io vengo con te!».
Phoebe ridacchiò e concesse:«Ahah,
d’accordo!».
«… Gouenji»concluse con aria leggermente
affranta Shirou.
«Sono sorpreso»ammise Shuuya, osservando
l’amico.
«Oh, mai quanto me, fidati»ammise il lupo dei
ghiacci, con un’aria un po’ sconsolata.
Susan strinse la mano di Endou, rivolgendo al capitano un sorriso
allegro che lui, come di sua consuetudine, le restituì
raggiante; Chieko raggiunse Kazemaru, Rachel si avvicinò a
Midorikawa, Diantha comparse all’improvviso alle spalle di
Sakuma –che sobbalzò per lo spavento-, Sophia
lanciò un’occhiataccia –tra
l’altro ricambiata- a Fudou ma si portò comunque
al suo fianco.
Yume borbottò qualcosa d’incomprensibile verso
Hiroto mentre attraversava la banchina verso di lui, che in un primo
momento arrossì appena per poi cercare di tornare quanto
più imperscrutabile possibile, come al solito.
Lilian trillò allegra rivolgendosi alla figlia di
Tyche:«Vanille, è vero che tu vieni con
me?».
La bionda le sorrise affabile mentre confermava:«Certo che
sì, Lilian».
Marina osservò ancora per qualche istante la scena prima di
commentare:«In realtà, Vanille, ti volevo chiedere
se ti andava di venire con me».
Vanille si voltò in direzione di Marina,
un’espressione crucciata sul volto e la mano già
stretta intorno all’elsa di una delle sue due spade cinesi
quando rispose:«Marina, ho detto a Lilian che sarei andata con lei».
Prima che potesse scoppiare una rissa Lyssa
mediò:«Ragazze, non mi pare il caso di mettersi a
litigare per una simile sciocchezza … Marina, se vuoi puoi
venire con me, anch’io sono sola».
La figlia di Atena fissò attentamente la situazione intorno
a sé, dopodiché
acconsentì:«Ehm …
d’accordo».
Nomiko raggiunse Kimberly ma entrambe si lanciarono occhiate
diffidenti; Rin e Miriam invece si sorrisero reciprocamente mentre si
raggiungevano l’un l’altra a metà
strada:con il carattere allegro che accumunava entrambe, infatti,
nessuno aveva dubbi che sarebbero sicuramente andate
d’accordo.
Rika afferrò non troppo delicatamente la mano di Sora e
affermò:«Tu vieni con me, bel fusto».
Sora domandò spiazzato:«B – bel fusto?!».
Rika non rispose, limitandosi ad agitare nuovamente la sua fluente
chioma.
«Ed io?»domandò d’un tratto
una voce accanto a Kidou.
Il figlio di Atena si voltò all’istante del punto
da cui aveva sentito provenire quelle parole e non si sorprese per
niente di scoprire che, a parlare, era stato Kageyama.
La cosa che lo lasciò di sasso fu scoprire che gli unici
rimasti da soli erano proprio loro due.
Atena, madre, cosa ho fatto di male per farmi odiare tanto da te?
domandò retoricamente e dentro di sé Kidou,
alzando affranto gli occhi verso il cielo per rivolgere la sua muta
domanda agli dei.
Alla fine, non avendo ricevuto alcun genere di risposta
dall’alto, si limitò a borbottare:«Tu vieni con me, ovvio.
Siamo rimasti gli unici due a non essere assegnati a nessun gruppo di
pattugliamento, inoltre voglio tenerti personalmente sotto
osservazione».
Kageyama sorrise tristemente e commentò:«Ti riesce
proprio innaturale fidarti di me, eh?».
Kidou lo afferrò con forza per il braccio, cercando di non
pensare al fatto che una leggera scossa elettrica lo avesse appena
attraversato da capo a piedi.
Sono solamente poteri da figlio di Zeus, cercò
di convincersi il discendente di Atena.
«Andiamo e basta»sbottò Kidou, una nota
d’ansia fin troppo percepibile nella sua voce.
«Oh,
sarà un piacere»concluse divertito
Kageyama.
~ · ~
Nina
Nina non riusciva a smettere di guardarsi intorno con aria
semplicemente stupefatta.
Se una settimana prima le avessero detto che quel giorno se ne sarebbe
andata in giro per Osaka anziché andare normalmente a
lezione, nella scuola di Tokyo che aveva cominciato a frequentare
neanche due settimane prima, quando la sua famiglia si era trasferita
in Giappone dalla Russia, di sicuro non avrebbe esitato un momento a
non credere a quelle parole.
Invece eccola lì, insieme a Phoebe, mentre gironzolavano
senza meta nel centro cittadino di una delle città
più popolose della nazione.
Certo, mai tanto densamente abitata come Tokyo … ah,
già, Tokyo.
Avevano lasciato la capitale giusto la sera precedente ma si era
già quasi dimenticata che lì aveva lasciato la
sua famiglia.
Non sapeva se esserne dispiaciuta o meno:i rapporti con suo padre non
erano mai stati dei migliori, tuttavia quello non giustificava la sua
improvvisa partenza dalla città.
Strano ma vero, non era una scusa abbastanza valida.
Si era dovuta inventare che avrebbe preso parte a delle ricerche per un
corso di botanica al quale aveva aderito e sinceramente non aveva
ancora ben chiaro come ci fosse riuscita:non era brava a mentire, ogni
volta che lo faceva veniva beccata.
L’insicurezza nella sua voce, quando doveva dire una bugia
… forse era quello che la faceva puntualmente scoprire, per
questo generalmente cercava di mentire il meno possibile ai suoi
genitori, giusto lo stretto indispensabile.
Quella volta però non aveva proprio potuto farne a meno, era
un’occasione fin troppo allettante per rinunciarvi:la
prospettiva delle foto che avrebbe scattato e le avventure mozzafiato
che avrebbe affrontato se avesse accettato la missione era
irrinunciabile.
Quando quella mattina, sul campo di calcio, un papavero era apparso
sulla sua testa aveva pensato che si trattasse di uno scherzo di
pessimo gusto di qualche suo compagno di scuola, così aveva
cercato di toglierselo da sopra i capelli.
Quando tuttavia il papavero si era rivelato di vapore e non era affatto
scomparso sotto i colpi che le sue mani gli riservavano, Nina aveva
cominciato a preoccuparsi sul serio.
Poi lo aveva scoperto:sua madre era Demetra, l’antica dea
greca dell’agricoltura.
Questo spiegava un sacco di cose:la sua passione per le piante
–compreso l’erbario che custodiva gelosamente,
nascondendolo sotto il suo letto- ed i veleni che estraeva da fiori ed
erbe, come quello della digitalis
purpurea.
Da quando aveva scoperto di essere una semidea portava sempre con
sé una scorta di aghetti intrisi di veleno:un buon rimedio
per un improvviso attacco di mostri.
Aveva avuto modo di sperimentarlo qualche giorno prima, quando lei e
Phoebe erano state attirate in un vicolo da una ragazza, che si era
rivelata poi essere un’empusa.
La prontezza dei semidei le aveva permesso di lanciare indisturbata un
ago intriso di veleno paralizzante nel fianco del mostro, dando poi
così la possibilità a Phoebe di eliminarlo una
volta per tutte.
Per questo era contenta di essere nuovamente insieme a lei pure in quel
momento:erano una buona squadra e sperava che così avessero
almeno una chance in più di non morire fin da subito.
Proprio in quel momento un baluginio azzurro attraversò lo
spazio davanti ai loro occhi, fiondandosi in una stradina laterale
lì vicino.
Nina cominciava ad essere stufa di quei vicoletti bui.
«L’hai visto?»le domandò poco
dopo Phoebe.
Nina si limitò ad annuire:quel bagliore era stato
così assurdo –tanto luminoso da esserle parso
accecante- che si aspettava che chiunque in quella strada lo avesse
visto.
Invece, a quanto pareva, loro due erano state le uniche due ad averlo
notato, il che le fece intuire che, con ogni probabilità,
doveva essersi trattato di un qualche segnale semidivino, inviato
lì appositamente affinché lei e Phoebe lo
ricevessero.
Si lanciarono una rapida occhiata, che bastò loro per
progettare la mossa successiva:senza pensarci due volte si lanciarono
nel vicolo, pronte ad estrarre le armi per lo scontro che, lo sapevano,
le attendeva da un momento all’altro.
Invece, una volta entrate nel vicolo, lo trovarono assolutamente
deserto.
~ · ~
Chieko
In quel momento, Chieko era il ritratto della felicità.
Davanti ai suoi occhi c’era una città tutta nuova
da esplorare:Osaka, santo cielo, Osaka!
L’indole da figlia di Atene, perennemente attenta ai
dettagli, poi, le faceva apprezzare ancora di più tutte
quelle novità che la circondavano.
Avrebbe voluto mettersi lì ed osservare tutti quei palazzi
intorno a lei, sedersi da qualche parte –le sarebbe andato
bene qualsiasi posto, un tavolino del bar sarebbe stato perfetto ma in
mancanza d’altro si sarebbe accontentata perfino del
marciapiede che costeggiava la strada che in quel momento lei e
Kazemaru stavano percorrendo, sebbene sospettasse che a
quell’ora e con quell’esposizione alla luce del
sole l’asfalto fosse a dir poco ustionante- e studiare ogni
minimo dettaglio di ciò che la circondava.
Era davvero un’irriducibile figlia di Atena, non
c’era proprio niente da fare.
Eppure al solo pensiero di star attraversando quelle strade con
Kazemaru la voglia di mettersi ad osservare degli stupidi palazzi
svaniva all’istante.
Ed ecco che all’improvviso la ragazza intelligente e
concentrata lasciava il posto a quella innamorata, dolce e romantica,
che non le permetteva di pensare ad altro se non quanto fosse bello il
contrasto dei loro capelli, i suoi rosa e quelli del ragazzo turchini.
Tutto le sembrava perfetto in quel momento …
finché un’intensa luce azzurra non
attraversò l’aria davanti a loro, fiondandosi in
un’apertura tra due palazzi, poco distanti da lì.
Chieko seppe subito che anche Kazemaru aveva notato quella luce:per
qualche strana ragione, la figlia di Atena si ritrovò ad
essere assolutamente certa sul fatto che il bagliore fosse un segnale
indirizzato a loro due.
Senza dubbio a causa della nostra natura semidivina,
valutò la ragazza dai capelli rosa confetto.
Kazemaru era figlio di Ermes, il messaggero degli dei –ecco
perché era sempre così agile e veloce- ed un
movimento del genere non era di certo sfuggito ai suoi occhi, allenati
a captare ogni minimo spostamento, soprattutto i più rapidi.
Non ci fu pertanto nemmeno bisogno di chiedergli se anche lui
l’avesse notato:era qualcosa di fin troppo evidente per
passare inosservato.
La prossima mossa venne in automatico:i due si lanciarono alla svelta
nel vicolo, alla ricerca della fonte da cui era venuto fuori quel
raggio di luce.
Erano sicuri che si trattasse di un mostro e stavano per sfoderare le
loro armi.
Tuttavia, una volta giunti lì, l’unica cosa che
trovarono ad aspettarli fu il nulla, fatta eccezione per un gatto con
una lisca di pesce in bocca, appena riemerso dai bidoni di latta per la
spazzatura posti in fondo al vicolo cieco, intento nel gustarsi il
proprio misero pasto da randagio.
~ · ~
Vanille
Gli occhi di Vanille ormai erano tutto un luccichio.
Ad ogni passo che faceva incontrava negozi, boutique e bancarelle uno
più interessante dell’altro.
Sapeva che si sarebbe dovuta concentrare sulla missione …
tuttavia, per qualche strana ragione, in quel momento proprio non ci
riusciva.
Fece ruotare per l’ennesima volta davanti ai suoi occhi il
braccialetto azzurro che teneva in mano.
Ormai era ferma a quella bancarella da circa cinque minuti ma non
riusciva nemmeno più a percepire lo scorrere del tempo,
tanto era concentrata sull’oggetto che teneva in mano.
Nemmeno lei sapeva perché, eppure era certa di essere in
qualche modo legata al piccolo pezzo di corda che stava osservando.
Non aveva niente di speciale, dopotutto:erano semplicemente dei fili di
corda azzurri, intrecciati tra loro, al centro dei quali si trovava un
piccolo ciondolo bianco e blu a forma di tartaruga; una sciocchezza da
turisti, insomma.
Eppure poco dopo, quando si rigirò il ciondolo tra il
pollice e l’indice, una visione la catturò,
trascinandola al suo interno.
Alla figlia di Tyche capitava spesso e volentieri di avere delle
visioni, tuttavia quasi mai le erano chiare, tanto che perdeva ore
intere a cercare di dare un senso a quelle più oscure e
misteriose.
Quella volta vide un enorme palazzo reale, le cui fondamenta si
ergevano a partire da un fondale sommerso.
Le pareti del palazzo erano di una roccia marina, dal colore verdastro
e tutto intorno ad esso sorgeva una sorta di parco o giardino
interamente decorato con dei coralli.
Vanille non trovava un senso a quella visione, come nella maggior parte
dei casi.
Sarebbe tanto voluta rimanere lì a ragionare su quella
visione finché non le fosse stato pienamente chiaro il
significato di essa, tuttavia proprio in quel momento
Lilian domandò:«Vanille, insomma, hai
fatto?».
Alle parole della piccola figlia di Atena la discendente di Tyche
sembrò risvegliarsi da un lungo stato di torpore.
«Sì, eccomi»rispose solamente.
Allungò l’importo del braccialetto al proprietario
della baracca e se lo infilò al polso destro, proprio sopra
la voglia bluastra a forma d’infinito:non sapeva ancora
perché ma era certa che le sarebbe tornato utile, in un
futuro non troppo lontano.
Proprio quando Vanille tornò a voltarsi con Lilian in
direzione della strada davanti a loro, un fascio di luce azzurra si
proiettò da un lato all’altro della via, sparendo
in un vicoletto non troppo distante.
Entrambe lo avevano visto, Vanille ne era fin troppo sicura.
Afferrò la mano di Lilian, stringendola attorno alla sua
sulla maniglia del trolley –avrebbe dovuto ascoltare Chieko,
in quel momento la sua valigia le era decisamente d’impaccio-
e cercò di tenere il proprio corpo davanti a quello della
più piccola, a protezione di quest’ultima, mentre
si avvicinava con fare guardingo al vicolo in questione.
La mano libera si strinse attorno all’elsa di una delle sue
due spade cinesi:non voleva farsi trovare impreparata né
tantomeno mettere in pericolo Lilian in caso di un attacco da parte di
qualche mostro o simili.
Quando però si trovarono sulla soglia del vicolo,
l’unica cosa che vi trovarono fu il nulla più
assoluto.
~ · ~
Lyssa
Lyssa si sentiva stranamente al sicuro.
Già questo l’aveva messa in guardia:da quando
aveva scoperto di essere una semidea le era sempre stato insegnato che
difficilmente si sarebbe potuta trovare in una situazione che le
consentisse di ritenersi “al sicuro”.
Eppure, osservando quelle strade con Marina Sapphire, una figlia di
Atena –pertanto di natura sveglia-, la figlia di Ade si
sentiva … protetta.
Era quella la cosa strana:sapeva che lì, più che
in qualsiasi altro posto, avrebbe dovuto sentirsi vulnerabile ed in
pericolo, in una città che non conosceva minimamente mentre
cercava nemmeno lei sapeva cosa.
Marina le sembrava abbastanza tranquilla:osservava ogni cosa intorno a
sé con attenzione e la caratteristica concentrazione dei
figli di Atena.
Proprio in quel momento, tuttavia, una strana luce azzurrognola
fendette l’aria rapida ed indomabile.
Il senso di sicurezza di Lyssa scomparve all’istante:cos’era quella luce?
Marina, al suo fianco, fu scossa da un leggero brivido –forse
tensione per l’improvvisa novità- tuttavia aveva
già puntato il proprio sguardo nel punto in cui entrambe
avevano visto la luce, un attimo prima che sparisse: un vicolo, al lato
della strada, tanto piccolo quanto invisibile.
«Questa situazione non mi piace per
niente»commentò la figlia di Atena.
Lyssa strinse il manico ligneo della propria balestra:non avrebbe
potuto essere più d’accordo con Marina.
Le due si avvicinarono lentamente al vicolo.
Avevano già qualche idea su quello che le attendeva, una
volta giunte lì:prima di partire da Tokyo quasi tutti loro
si erano imbattuti in attacchi di mostri; non sarebbe stata pertanto la
prima volta che si ritrovavano a dover fronteggiare qualche emissario
del nemico.
Eppure rimasero fin troppo sorprese quando, una volta raggiunto il
vicolo, lo trovarono vuoto e desolato.
~ · ~
Un altro passo e poi un altro ed un altro ancora:ormai esplorare Osaka
alla ricerca di ciò che li attendeva si era ridotta ad una
questione di logica, forse più per abitudine che altro.
D’altronde era sua consuetudine rendere tutto una semplice
prospettiva da poter essere osservata nel modo più
pragmatico possibile.
Un tempo avrebbe giustificato quel suo atteggiamento grazie agli
insegnamenti che gli erano stati impartiti fin dalla più
tenera età, invece ora sapeva la verità:quel
metodo di ragionamento, così lucido e preciso, gli era tanto
congeniale poiché era insito da sempre in lui per la sua
natura di semidio figlio di Atena.
Eppure c’era qualcosa, un dettaglio che continuava a sfuggire
dalla mente calcolatrice di Kidou ed era abbastanza sicuro di sapere
quale fosse il problema:amava il calcolo, qualcosa di tanto rigoroso,
perché gli permetteva di trarre soluzioni in una vita come
la sua, che tanto a lungo gli era sembrata precaria, instabile e senza
senso.
Solo che c’era sempre qualche problema ed inutile dire che il
principale, quello che generalmente lo portava ad avere soluzioni
errate ed insensate alle sue perfette equazioni di vita, fosse, alla
fine, sempre lo stesso:la vita di Kidou Yuuto era perennemente
distrutta da quella specie di variabile impazzita
dell’algebra che altro non era che Kageyama Reiji.
Era così che si sentiva, durante il loro giro di
pattugliamento attraverso le vie di Osaka, una specie di ragionamento
impazzito, come un cavallo senza briglie.
Si sentiva in qualche modo nervoso, come se sapesse che quella
situazione fosse di per sé sbagliata.
In effetti era proprio così, nulla di quella scena sarebbe
dovuto corrispondere alla realtà:lui non doveva trovarsi ad
Osaka quel giorno, non sarebbe dovuto essere il figlio di una potente
divinità venerata all’incirca tremila anni prima e
soprattutto non si sarebbe dovuto trovare in compagnia di una persona,
che aveva dato per morta per ben due anni –o meglio, lui ci
aveva provato, per quanto anche solo l’idea di convincersi di
qualcosa del genere lo disgustasse- e che ora era tornata dal regno dei
morti.
Dei, magia … come poteva convincersi che tutto
ciò fosse reale?
Era felice che Kageyama fosse di nuovo lì con lui,
nonostante una parte del suo cervello continuasse perennemente a
ripetergli che lui odiava quell’uomo, che aveva fatto del
male ai suoi amici e la lista dei suoi misfatti era piuttosto lunga.
Eppure, eppure … per la prima volta in vita sua Kidou
sentiva di poter perdonare qualcuno, nonostante tutto.
Il perché non lo sapeva nemmeno lui e forse era proprio
questo che lo faceva andare su tutte le furie:non sopportava
l’idea che Kageyama gli fosse mancato, che averlo di nuovo
accanto a sé forse in un certo qual senso rassicurante, come
se potesse dare di nuovo ordine alla sua vita.
Paradossale:di solito gliela distruggeva ben oltre i limiti del
possibile e del sopportabile, invece ora si stava praticamente
affidando a lui ad occhi chiusi per stare di nuovo bene.
Duro ammetterlo per un orgoglioso come lui ma era felice di riaverlo di
nuovo accanto a sé anche perché l’idea
che fosse morto sul serio l’aveva terrorizzato non poco:si
era abituato, ad un certo punto della sua vita, a vederlo rispuntare
fuori dal nulla e quando l’ultima volta non era successo una
strana nota di panico si era impossessata di lui.
Per quanto infatti chiunque intorno a lui si ostinasse a descriverlo
come il ragazzo più razionale del pianeta, Kidou sapeva fin
troppo bene la verità:lui non era affatto perfetto come gli
altri –Kageyama compreso- continuavano a descriverlo;al
contrario, lui sentiva così sbagliato e non era raro che
sentisse la paura impadronirsi del suo corpo.
Era cosciente che fosse stupido come atteggiamento, che non ci fosse
nulla da temere, eppure Kidou aveva un sacco di fobie, compresa quella
della morte:dopo aver perso i genitori quando era ancora molto piccolo
ed aver visto sparire più volte Kageyama dalla sua vita
–volente o nolente, era pur divenuto il suo pilastro- Kidou
si sentiva la persona con meno radici al mondo.
Ci provava a farle crescere ma poi succedeva sempre che un evento
improvviso le strappava dal terreno e di solito si trattava della cosa
che Kidou aveva più paura:la morte, in particolar modo delle
persone a lui più care.
Quell’incubo che di recente lo tormentava non era che il
culmine dei suoi terrori:come aveva detto a Kageyama, non voleva
perderlo di nuovo.
Ecco forse perché aveva bisogno di sentirselo vicino pure in
quel momento.
Perché non voleva perderlo di vista nemmeno per un istante?
La voce di Kageyama lo sottrasse dai suoi mille ragionamenti.
«E così»lo sentì commentare
infatti«hai voluto per forza che venissi con te per
accertarti che non uccidessi nessuno, sbaglio? Altrimenti suppongo che
non te ne staresti tanto in silenzio».
Kidou sentì la rabbia prendere il sopravvento su qualsiasi
altra emozione stesse provando in quel momento e
sbottò:«Ti odio».
Il figlio di Zeus tuttavia gli sorrise freddamente mentre
constatava:«Continui a ripetermelo … eppure
com’è che non ci credo per niente?».
Kidou sentì una fitta al petto:avrebbe tanto voluto sapere
cosa gli stava succedendo in quel periodo.
Distolse rapidamente lo sguardo … ora pure le lacrime …
Invece era proprio così:dietro le lenti dei suoi occhialini
sentiva formarsi, agli angoli delle cornee, piccole gocce salmastre, le
conosceva così bene.
Le ricacciò indietro, non avrebbe avuto motivo di piangere
in quel momento, inoltre perché farlo?
Si era di nuovo perso a riflettere quando il suo campo visivo
cambiò piuttosto alla svelta.
Gli ci volle qualche secondo per capire che, come al solito, era stato
Kageyama a comportare quell’ennesimo ed improvviso mutamento
nella sua vita.
Poco dopo, infatti, si ritrovò in un vicolo, piccolo, buio e
senza uscita se non la fenditura tra i due palazzi attraverso la quale
si era ritrovato catapultato in quel luogo.
Sentiva la schiena premuta contro il muro di mattoni alle sue
spalle:alcuni erano un po’ sbeccati ed al primo impatto gli
avevano lasciato dei piccoli taglietti.
Non capiva, non capiva più niente nonostante non avesse
affatto battuto la testa:perché si trovavano in quel vicolo,
perché Kageyama gli teneva le mani sui fianchi …?
No, aspetta.
Il figlio di Atena si dimenò debolmente, non riuscendo in
effetti a liberarsi dalla presa del maggiore.
Percepire la vicinanza dei loro corpi … i cuori che
battevano così rapidamente insieme …
«K - Kageyama, si può sapere cos
…»cercò di domandare Kidou.
Non riuscì a finire la frase:sentì una mano
posarsi sulle sue labbra.
Kidou andò nel panico.
Lo sapevo, non mi sarei mai dovuto fidare di lui, probabilmente non
aspettava altro se non un’occasione propizia per farmi
definitivamente fuori e distruggere il resto dei miei compagni e
mandare in fumo l’intera missione … probabile che
fosse quello che ha sempre voluto …
Prima che altri e più terribili pensieri potessero uscire
dall’angolo della mente dove si erano per tutto quel tempo
annidati, tenendosi ben nascosti, Kageyama appoggiò la
fronte alla sua e mormorò:«Guarda».
Kidou voltò lentamente lo sguardo in direzione della strada
e ciò che vi vide bastò a smentirlo da
lì all’eternità.
Un mostro che sembrava essere fatto interamente di fango stava
attraversando la stessa strada dove, fino a pochi istanti prima, si
erano trovati anche loro.
Lo aveva salvato.
Kageyama l’aveva salvato.
L’aveva salvato l’aveva salvato l’aveva
salvato!
Kidou cercò di calmarsi, imponendo a se stesso profondi
respiri, mentre il suo cuore tornava a pulsare in modo decisamente
più lento ed accettabile, nonostante il battito non fosse
ancora del tutto regolare per la vicinanza al figlio di Zeus.
Il mostro scomparve, prendendo la direzione dalla quale erano arrivati
e lentamente Kageyama allontanò la mano dalle labbra di
Kidou.
«Scusa»mormorò il figlio di Atena,
sentendosi mortalmente in colpa per aver dubitato di lui.
Kageyama sorrise e per una volta a Kidou sembrò un sorriso
gentile mentre replicava:«Scusa per cosa? L’unico
qui che dovrebbe scusarsi sono io, considerando lo spavento che ti ho
fatto prendere».
Kidou si chiese se si stesse riferendo all’attacco appena
sventato od a tutte le loro disavventure passate.
Cercò di scacciare via quel pensiero –senza, come
al solito, riuscirci del tutto- mentre si costringeva a
chiedergli:«Cos’era quel mostro?».
Kageyama poggiò nuovamente la fronte contro quella di Kidou
mentre spiegava:«Un figlio della Terra, perlomeno questo
è il nome che gli hanno dato. Mi chiedo cosa ci faccia qui,
in pieno centro ad Osaka. Temo che sia un emissario del nemico e che ci
abbia seguiti fin qui. Inoltre ho paura che la mia aura di potere
l’abbia attirato:i figli della più potente
divinità greca devono essere certamente uno spuntino
prelibato per i mostri. Perdonami, Kidou, non volevo metterti in
pericolo …».
«Non potevi saperlo»lo tranquillizzò il
figlio di Atena«è tutto a posto, sul
serio».
Averlo detto sembrò tranquillizzare lo stesso Kidou.
Kageyama gli lasciò i fianchi, accarezzandogli una guancia.
«Mi sei mancato»ammise.
C’era qualcosa che non andava in quella voce, di solito
così ferma ed imperturbabile, sembrava come sul punto di
spezzarsi, tanto che Kidou si chiese se gli Inferi non avessero
lasciato una ferita incurabile nell’animo di Kageyama.
Il cuore del figlio di Atena si trovò stranamente sorpreso e
concorde quando si costrinse a rivelargli:«Mi sei mancato
anche tu … e sono felice che ora tu sia di nuovo qui con
me».
Poggiò la fronte contro quella del maggiore mentre lo
sentiva ribattere:«Te l’ho già detto,
non me ne vado più».
Kidou non aggiunse altro ma la verità era che era felice di
sentir dire quelle cose da Kageyama:da giorni aveva paura di perderlo
di nuovo e non si era ancora reso conto che quelle parole erano
l’unica cosa di cui, in quel momento, avesse bisogno.
«Dobbiamo andarcene»gli comunicò il
figlio di Zeus«quel mostro potrebbe tornare indietro da un
momento all’altro».
Kidou annuì e convenne:«Va bene. Come
procediamo?».
Kageyama sembrò riflettere attentamente prima di
affermare:«Voleremo. Essendo figlio di Zeus, posso percorrere
delle brevi tratte alzandomi in volo e fruttando le correnti.
Così per i mostri sarà più difficile
sia percepire la nostra presenza che attaccarci».
Kidou roteò gli occhi e chiese:«Perché
non ci hai pensato prima?».
Kageyama guardò a terra ed ammise:«Per me comporta
il dispendio di molta energia, potrei non essere di nessuna
utilità se ci ritrovassimo nel bel mezzo di un duello in un
futuro non troppo lontano. Inoltre da terra avremmo potuto osservare
meglio le strade ma come hai potuto ben vedere non credo sia possibile
farlo oltre».
«Scusa»si affrettò a giustificarsi
Kidou«e soprattutto grazie. Per avermi salvato,
intendo».
«Figurati, era il minimo»concluse solamente
Kageyama.
Pochi secondi dopo si ritrovarono a volteggiare sopra Osaka.
Kidou strinse le braccia attorno al collo di Kageyama e
lasciò che il figlio di Zeus gli cingesse la vita:era
rassicurante la vicinanza con il suo corpo.
La vista dall’alto era a dir poco sorprendente:da quella
quota qualsiasi palazzo, perfino quelli più alti, che da
terra sembravano a dir poco immensi, ora non erano ridotti a
nient’altro che piccoli punti indistinti.
A Kidou piaceva quella prospettiva, lo faceva sentire così
insignificante, proprio come si sentiva sempre, certo, solo che non del
tutto:da lì ci si rendeva veramente conto delle dimensioni
ed era lì che si comprendeva che non c’era poi
molta differenza tra un ragazzo ed un grattacielo.
Entrambi sono soggetti allo scorrere del tempo, entrambi, prima o poi,
crolleranno.
«Da laggiù cosa penseranno di
noi?»chiese Kidou.
Pensava che il fischio del vento avesse impedito a Kageyama di sentire
le sue parole, ridotte quasi ad un sussurro, tuttavia poco dopo il
figlio di Zeus spiegò:«Non possono vederci. La
Foschia magica avvolge tutti, mostri e mortali, tanto che la maggior
parte dei fenomeni divini e semidivini sono praticamente invisibili per
il resto del mondo. Attualmente, noi due siamo compresi nei fenomeni
resi invisibili dalla Foschia».
La discesa fu lenta ed a Kidou risultò piacevole, come
d’altronde il resto del viaggio.
Atterrarono su una piccola spiaggia presso la foce del fiume che
attraversava Osaka.
Su quelle stesse sponde trovarono Rachel e Midorikawa:la figlia di
Poseidone sembrava concentratissima sul fondale sotto di lei ma
all’arrivo degli altri due si era subito voltata nella loro
direzione, abbandonando così la sua osservazione
dell’Oceano.
La ragazza dai capelli del colore del mare domandò ai due
semidei appena sopraggiunti sul luogo:«Che ci fate voi
qui?».
«Siamo appena scampati ad un
attacco»tagliò corto Kidou«voi,
piuttosto:cosa state facendo qui?».
Rachel alzò le spalle ed ammise:«Credo di aver
trovato il nostro passaggio:è là sotto. A quanto
pare c’è un problema ed ho come la netta
impressione che toccherà a noi mettere le cose al loro
posto».
Kidou annuì e comprese:«Dobbiamo andare a chiamare
gli altri»
«Ci penso io»propose tempestivamente
Kageyama«volando non ci metterò più di
cinque minuti a radunare tutti ed ad indirizzarli qui alla foce del
fiume».
Kidou non ne era sicuro ma
acconsentì:«D’accordo,
andiamo».
Tuttavia Kageyama gli rivolse un sorriso appena accennato, che fece
intuire a Kidou di non aver afferrato una parte del piano, cosa di cui
ebbe la conferma quando il figlio di Zeus gli
annunciò:«No, Kidou, stavolta vado da solo:non ho
intenzione di metterti di nuovo in pericolo».
«Ma …»fece per protestare il figlio di
Atena.
La protesta fu facilmente messa a tacere da Kageyama, che
concluse:«Niente ma, ragazzo».
Per un attimo la familiarità della situazione fece sentire
Kidou di nuovo alla Teikoku e la cosa lo rese stranamente felice.
Poco dopo tuttavia si ricordò di trovarsi a chilometri da
Tokyo e non gli rimase altra cosa da fare che osservare Kageyama,
mentre si allontanava per l’ennesima volta e ritrovandosi a
sperare, come al solito, che non fosse l’ultima.
* Angolo
dell’esaurimento nervoso *
Non guardatemi in quel modo e soprattutto sappiate che vi vedo, eh.
Bonsoir popolo di Efp!
Come va? Spero tutto bene … io mica tanto:questo capitolo
è lunghissimooooo
(…)
E questo mi rende molto stanca. Già.
Tuttavia eccomi qua! * compaiono festoni alle sue spalle *
Vi sono mancata? Almeno un pochino – ino - ino?
Cominciamo con le scuse random:scusate se il capitolo è
lungo, se sono tipo scomparsa per eoni, se le OC appaiono una volta
sì e cento no e via discorrendo.
Teoricamente dell’ultimo punto del mio elenco di scuse manco
potreste lamentarvi più di tanto visto che vi avevo promesso
che in questo capitolo ci sarebbero stati i vostri personaggi ed
è uscito fuori un papiro egizio proprio per questo, visto
che avrei potuto dividere il suddetto papiro in due capitoli ma alla
fine ho deciso di non farlo per non farvi soffrire oltre.
Sapete che sono sadica, pertanto io fossi in voi mi riterrei fortunata
u.u
Dopodiché passo a ringraziare chiunque sia riuscito ad
arrivare alla fine di questa tortura cinese e chiunque
–nessuno- recensirà, oltre ovviamente a quelle due
anime pie di Sissy
e rie (a
proposito, per quest’ultima:ora rispondo subito al tuo MP)
che mi sopportano nonostante tutto.
Ciò detto vorrei precisare una cosa:lo so che sono passata
dalla prima alla terza persona, ho cambiato ottanta POV e quello di
Kidou non l’ho specificato, grazie, non
c’è bisogno che me lo veniate a dire. Lo so ed
è tutto molto intenzionale:a me personalmente piace di
più così e quando ho scritto il capitolo ho
sentito che era la cosa giusta da fare <3
Vorrei chiedervi, riguardo a ciò, cosa pensate di questo
capitolo:sbizzarritevi gente ma soprattutto fatemelo sapere tramite
recensione. Questa finora è stata la parte sulla quale mi
sono impegnata maggiormente quindi ci tengo tanto tantissimo a sentire
le vostre opinioni in merito ~
A proposito:come ho reso le vostre OC? Ho cercato di prendere gli
aspetti specifici di ciascuna nel descriverle, quindi speriamo bene!
Prima di andarmene, siccome oggi mi sento clemente vi lascio pure
l’indovinello
Cosa ha scoperto Rachel?
Io ora potrei anche andarmene, però prima ho una
comunicazione di servizio:probabilmente la long si fermerà
per un po’ causa scuola. Spero di riuscire a pubblicare il
prossimo capitolo per i primi giorni di settembre, dopodiché
vorrei prendermi una pausa per concentrarmi:sono al penultimo anno di
liceo, l’anno prossimo mi diplomo ~
Ci si sente
Aria_black
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