Le cronache di Skyrim

di laulaury
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un brutto risveglio ***
Capitolo 2: *** L'inizio della fine ***
Capitolo 3: *** Dolce libertà ***



Capitolo 1
*** Un brutto risveglio ***


CAPITOLO I: Un brutto risveglio


Ero stesa a terra; sentivo il corpo intorpidito e un dolore pulsante dietro la nuca. Il tutto corredato da un odore fetido di scantinato e fieno sporco. Prima di riuscire a mettere a fuoco la vista una voce si era fatta largo nel brusio: “Ehi, ma allora sei ancora viva!”.
Si stava riferendo proprio a me; dovevo essere conciata male per poter destare stupore nel aver ripreso i sensi. Nonostante la mia testa sembrasse piena di massi pesanti, ero riuscita a sollevarmi quanto bastava per sedersi. L’ambiente che mi circondava non era ancora nitido ma un particolare era chiaramente distinguibile: sbarre. Sbarre larghe, di metallo arrugginito. Dove mi trovavo? Cosa ci facevo in prigione? Nulla di tutto ciò aveva senso.
Cercando di mettermi in piedi per avvicinarmi alla guardia che mi controllava, ci era mancato poco che crollassi a terra. Prima che potessi cadere, però, la voce che avevo udito prima era corsa a sorreggermi. Gentilmente mi aveva appoggiato su d’una panca di legno marcio. “Tutto bene elfo? Stavi cercando di lasciare Skyrim? Credo che il tuo tentativo di fuga non sia piaciuto agli Imperiali.”. Mentre l’uomo mi parlava, cominciavo a intravedere meglio la sua figura: era un possente uomo Nord dai lunghi capelli biondi.
Il capogiro si era appena arrestato e mi ero resa conto che in quella cella il bell’uomo nordico ed io non eravamo soli. Un Bosmer e un altro uomo dalle sembianze nordiche condividevano quell’angusto spazio con me. L’ultimo di questi era imbavagliato. Proprio quando stavo osservando la stretta e bizzarra costrizione di quell’uomo avevo avvertito un bruciore ai polsi, coperto fino a quel momento dal dolore al capo. Mi trovavo in una prigione, circondata da sconosciuti e con le mani legate da una corda spinosa senza sapere perché. Ebbene non ricordavo nulla. Niente di quello che era successo prima di trovarmi lì; la mia mente vagava nel buio totale.
“Chi sei? Da dove vieni?” mi chiedeva con voce profonda il Nord accanto a me. Io non ero in grado di rispondere e mi ero limitata ad un semplice cenno con la testa. “Dovrai pur avere un nome.” Incalzava. In realtà non ero in grado di rispondere nemmeno a quella domande ma poteva essere pericoloso, oltre che scortese, apparire ostile in una situazione del genere. Non sapevo se quello fosse il mio vero nome, ma era l’unica parola che si era fatta più chiara nella nebbia che infestava la mia testa. Con non poca esitazione avevo risposto: “Ella”.
“Cara Ella, piacere di conoscerti. Io mi chiamo Ralof, quello laggiù che non parla mai non ho idea di come si chiami, e davanti a te hai l’onore di vedere il grande Ulfrig.”. Probabilmente il mio nuovo amico si aspettava una reazione un po’ più scomposta della mia. “Ah ma allora non sei della zona vero? Lui è Ulfrig Manto della Tempesta, capo della ribellione qui a Skyrim. Non so bene cosa tu abbia fatto di male, ma per trovarti nella stessa cella di colui che ha ucciso il re dei re di Skyrim non devi essere proprio una santarellina.”.In diverse circostanze mi sarei indignata di seguito a tali affermazioni, ma in quel momento non potevo che preoccuparmi, considerando che stavo condividendo la stanza con un assassino che non ha nulla da perdere. Comunque continuavo a mantenere una reazione composta. Io non conoscevo nulla riguardo alle lotte interne del paese, alle alleanze o ai tradimenti; inoltre ero certa di non esserne in nessun modo immischiata. Però trovavo curioso che noi tutti fossimo legati alle mani mentre Ulfrig fosse anche imbavagliato. Al mio quesito, stavolta, aveva dato risposta l’uomo Bosmer seduto all’angolo: “Sciocca! Ma tu non sai proprio niente. Tutti conoscono il grandioso potere della voce di Ulfrig, come riesca a corrompere gli animi degli Imperiali. Inoltre pare che grazie alla sola forza di un urlo egli abbia ucciso l’ormai defunto re di Skyrim.”.
Poteva una voce essere tanto potente? Lo credevo impossibile. Evidentemente ero l’unica a mettere in dubbio tale capacità date le precauzioni prese dalle guardie.
Cominciavo a sentirmi meglio, per quanto potesse essermi concesso in una situazione del genere. Il dolore nella parte posteriore della testa stava svanendo, tanto che ero riuscita a passare sopra quella porzione di cuoio cappelluto le mani. Le mani legate rendevano l’impresa più ardua di quello che sarebbe stata normalmente, ma ero riuscita a trovare la causa del dolore lancinante: un grosso bernoccolo svettava nella parte alta del cranio. Qualcuno doveva avermi colpito per stordirmi. Magari una guardia. Una guardia come quella che si stava avvicinando alla nostra cella. Sentivo il rumore di vecchie chiavi gracchiare nella serratura. Altre due guardie si erano avvicinate minacciandoci con le spade: “Forza; avanti. Non abbiamo tutto il giorno. E vedete di fare i bravi o vi lasciamo qui a marcire in pasto ai topi.”. Non avrebbero potuto essere più convincenti.
Ci avevano fatto mettere in fila e ci stavano guidando fuori dalla prigione. Avrei fatto qualsiasi cosa pur di uscire da quel buco fetido. In cima a degli scalini ripidi ed umidicci c’era una porta. Aperta quella, finalmente, potevo respirare aria pulita. Il cielo era azzurro chiaro limpido, la luce bianca del sole mi aveva accecato per qualche secondo. Eravamo sbucati in una specie di piazzetta, circondata da costruzioni in pietra grigia. Ero certa che non ci stessero affatto liberando visti gli individui con cui ero in compagnia. Quell’aria fresca, però, mi stava convincendo di un lieto fine; magari mi avrebbero portata in un tribunale, in modo che potessi spiegare la mia situazione ad un giudice imparziale. Poi, però, avevo scorto una figura ben riconoscibile nel centro della piazza di fronte a me e quel mio sogno di libertà mi era sembrato più che mai lontano.



[Ciao a tutti i lettori. Spero che questo primo capitolo vi piaccia. Non sono una brava scrittrice ma il gioco mi piace molto e si presta a cose di questo genere. I giocatori di The Elder Scrolls V Skyrim avranno notato una prima variazione della storia nel gioco. Ho pensato che descrivere un lungo tragitto su di un carro fosse un po' noioso.
Che dire, se vi ha incuriosito e volete leggere il continuo fatemelo sapere, Ciao ciao.]

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Capitolo 2
*** L'inizio della fine ***


CAPITOLO II: L'inizio della fine

 
Due occhi vitrei ci fissavano. Un uomo dallo sguardo assolutamente innaturale ci stava aspettando. La sua enorme ascia pretendeva il nostro collo. Ora non saprei raccontare precisamente le emozioni di quel momento: rabbia, terrore, rassegnazione o forse disperazione. L'idea di fuggire era del tutto fuori questione. L'uomo Bosmer, mio camerata, ci aveva tentato appena usciti dalla botola. Aveva percorso solo qualche passo prima che il suo corpo venisse crivellato di frecce imperiali. In quegli attimi ho ammirato quell'uomo: era morto lottando. Io invece andavo incontro al mio fatale destino in totale passività. Di fronte al ceppo e al nostro aguzzino vi erano già altri prigionieri disposti in riga. I miei compagni di prigionia ed io li avevamo raggiunti. Mentre ci stavamo disponendo ordinatamente in fila un sacerdote aveva iniziato ad invocare gli Dei perché avessero pietà delle nostre anime. D'improvviso un prigioniero aveva urlato:"Facciamola finita, per Talos!" Interrompendo così la preghiera. Costui si era avvicinato al ceppo e ci aveva appoggiato la testa. Egli guardava in volto noi altri prigionieri. Avrei voluto che il mio sguardo potesse in qualche modo essere rassicurante e confortante ma appena il boia aveva lanciato l'enorme ascia dietro le sue spalle non ero riuscita a mantenere lo sguardo verso il condannato. Avevo scostato la testa girandomi di lato finché il sibilo dell'arma non era terminato. Poco dopo un forte rumore era rimbombato in lontananza. "Non é niente" asseriva la guardia " Facciamo alla svelta. Tu, mezzo sangue! Tocca a te.". Pareva che stesse indicando me. Non capivo il motivo di quell'appellativo e, speranzosa di tardare il più possibile il funesto destino, non mi ero mossa. "Su, avanti, sbrigati elfo! Non abbiamo tutto il giorno.". Era giunto il mio momento. Ciondolante mi avvicinavo al ceppo lercio del sangue del mio predecessore, e non solo il suo. Inginocchiandomi avevo potuto scorgere la testa dell'ultimo prigioniero nella cesta posta al di lá del ceppo. Con disgusto e non poca reticenza avevo appoggiato il collo su quel tronco. Non sarei stata in grado di sorreggere gli sguardi degli altri sventurati così mi ero voltata dall'altra parte. Vedevo un cielo limpidamente turchino che avvolgeva la solida e severa torre in pietra.
Ancora quel rumore profondo; stavolta pareva molto più vicino. Il cielo si era improvvisamente scurito. Sembrava essere coperto da nubi grigie; pareva essere fumo. La guardia aveva fatto cenno di proseguire. Il boia si era buttato l'ascia di nuovo dietro le proprio spalle, ma io non lo stavo guardando. Un immenso,  viscido e lucente drago aveva fatto capolino da dietro la torre. Il boia e la guardia si erano voltati incuriositi dalle facce sbigottite degli altri prigionieri. Uno di questi stava per urlare:" Un drago!" ma l'animale lo aveva preceduto. Un immenso e terrificante urlo era uscito dalle sue fauci; era talmente potente che aveva fatto perdere l'equilibrio al boia al quale era cascata anche l'ascia dalle mani. Prima che qualcuno dei presenti potesse iniziare a scappare il possente drago ci aveva sbuffato addosso delle ardenti fiamme. A causa della forza d'urto il mio corpo si era rovesciato a terra e avevo sbattuto la testa.
Un ulteriore ruggito aveva contribuito al mio risveglio. Ormai perdere i sensi pareva fosse naturale come respirare. Ero riuscita a sollevare le mie palpebre e vedevo guardie imperiali con l’arco teso verso quel mostro; gente in preda dal terrore che scappava e fiamme ovunque. Qualcuno mi aveva afferrato per il braccio e mi aveva trascinato di peso incoraggiandomi: “ Dai muoviti! Vieni con me.”. Ancora una volta Ralof mi aveva aiutata a riprendermi; a dire la verità questa volta mi aveva proprio salvato la vita. Ci eravamo rifugiati in una torre e lì con noi c’era anche Ulfrig, stavolta senza bavaglio. Con un cenno mi avevano esortato a seguirli su per le scale della torre: Ulfrig apriva il cammino di fronte a me, Ralof era alle mie spalle. Cercavo di stare al passo del mio salvatore quanto più mi era possibile ma le gambe erano vistosamente più corte e sottili delle sue. Ralof mi aveva ormai sorpassato; dopo pochi gradini si era voltato per controllare come stessi e per tendermi una mano. Lui ancora non lo sapeva ma mi sarebbe stato grato per averlo rallentato: in quell’attimo preciso la testa del drago aveva infranto la parete e aveva fatto capolino circa un metro più avanti del braccio del Nordico. I suoi occhi gialli incandescenti ci fissavano
. Il drago aveva preso un gran respiro indietreggiando. Senza pensarci troppo avevo afferrato con forza la mano di Ralof tirandolo verso di me. L’avevo trascinato giù per le scale e l’avevo fatto accucciare di fianco a me nel sottoscala. Ed ecco che il soffio infuocato era arrivato inesorabile e implacabile. Fortunatamente le scalinate di massi ci avevano riparato. Il Drago aveva ritirato il muso dal foro da lui creato e per un attimo sembrava aver cambiato obiettivo ma ecco che le sue enormi e viscide zampe sbucavano dalla porta d’ingresso. Prima che potesse scoprire il nostro nascondigli, Rolaf ed io ci stavamo dirigendo nuovamente verso la scalinata. I massi spostati dal drago impedivano di continuare a salire la torre. Rolaf guardava l’enorme apertura: “Non sembra così alto. Dovremmo riuscire a saltare giù da qui senza farci troppo male.”. Neanche aveva finito questa frase che già stava prendendo la rincorsa per prepararsi al balzo. Aveva saltato ed io, incredula, mi ero sporta per verificare che l’uomo fosse in grado di reggersi ancora sulle sue gambe. Ebbene, la caduta era stata meno rovinosa di quanto avessi potuto immaginare ed egli si era rialzato senza troppi acciacchi. Non mi sentivo ancora pronta per fare un gesto tanto azzardato; mi guardavo intorno ma non vedevo vie d’uscita. Avevo preso un bel respiro, una piccola rincorsa e avevo saltato.
Il balzo mi aveva portato su di un tetto di paglia che sotto il mio peso era ceduto, attutendo però la caduta che sarebbe stata certamente più dolorosa. Mi ero rialzata immediatamente e avevo corso in cerca di Ralof. Egli stava di fronte ad una taverna ormai completamente arsa e distrutta. “Ce l’hai fatta! Bene, seguimi. So come uscire da qui. Prenderemo i passaggi sotterranei.”.
 

[Note dell'Autore: Cari lettori, dopo un lungo lungo lungo tempo di assenza,sono tornata in attività! Come primo atto di auto-convincimento ho modificato il secondo capito che era un po' squallidino. Ora mi metto subito al lavoro per il seguito. Spero vi possa piacere. Ciao Ciao]

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Capitolo 3
*** Dolce libertà ***


CAPITOLO III: Dolce libertà

“Seguimi! Dobbiamo penetrare nei sotterranei della fortezza di Helgen.”. Ralof mi aveva afferrato per mano e mi stava trascinando all’interno di una torre di guardia. Precipitandoci giù dalle scale, eravamo giunti in una stanza sotterranea. L’atmosfera umidiccia e le mura coperte di muschio rendevano l’aria pesante e sgradevole all’olfatto. A terra giacevano due corpi: uno indossava una divisa come quella dei miei carcerieri, l’altro aveva un’armatura identica a quello del mio compagno di fuga. Ralof si era inginocchiato vicino al suo compagno d’armi perduto; aveva scosso la testa e aveva chiuso palpebre dell’amico con gesto caritatevole. Poi si era messo a spogliare l’amico dalla sua armatura per lanciarla ai miei piedi: “ Mettitela, non puoi pensare di uscire viva da qui con quella tunica logora. Predi l’ascia di quello sporco imperiale, io prenderò il pugnale di Gujar” diceva, afferrando l’arma di fianco al cadavere ormai spogliato. La stanza aveva due porte una di fronte all’altra. Quella più vicina a noi aveva spesse sbarre di freddo. Ralof vi si era avvicinato guardingo e aveva tentato di scuoterla senza, però, riuscire a smuovere la serratura di un centimetro. L’altro cancello era, invece, di legno: sicuramente sarebbe stato più facile da distruggere. Mentre ci stavamo dirigendo verso questa via d’uscita, avevamo udito l’eco di voci provenire dal corridoio. Le voci erano sempre più vicine; Ralof mi aveva fatto segno di fare silenzio e di nascondermi a lato della cancellata. Il cancello aveva cominciato a scricchiolare fino a scomparire verso l’alto. Dall’uscio erano apparse due guardie imperiali. Potevo sentire il cuore battere all’impazzata nel petto, ma ero talmente terrorizzata da non riuscire quasi a prendere respiro. Ralof, invece, si era scagliato senza indugio sulle due ignare guardie. Era riuscito a coglierle di sorpresa e come un leone maestoso si era lanciato nella mischia senza paura alcuna. Ralof volteggiava schivando i colpi mortali ed era riuscito a sferrare dei fendenti alle due vittime. Una era stata colpita al collo e, mentre le sue mani mollavano l’arma e si apprestavano a stringersi sulla ferita, da quel taglio aveva cominciato a fuoriuscire una quantità innumerevole di sangue. Quella visione cruenta mi terrorizzava, tanto che l’ascia mi era caduta dalle mani che, libere, usavo per coprirmi gli occhi. Era accucciata a terra cercando di cancellare dalla mia mente lo scontro appena avvenuto, quando una mano mi aveva toccato la spalla facendomi trasalire. Avevo riaperto gli occhi e mi ero ritrovata Ralof ad un palmo di naso. Non potevo non notare le macchie di sangue che gli rigavano il viso; aveva raccolto l’ascia che avevo lasciato cadere e me l’aveva nuovamente porta. L’avevo afferrata con mani tremanti; Rolaf mi aveva dato una pacca sulla spalla e mi aveva aiutato a rialzarmi. Ero ancora spaventata ma anche sollevata dal fatto che il mio compagno di fuga aveva, in qualche modo, accettato il mio non-coinvolgimento nella lotta. Il cancello di legno si era chiuso alle spalle delle guardie e il meccanismo per azionarlo stava dall’altra parte della porta. Fortunatamente una delle due guardie appena uccise aveva agganciate alla cintura le chiavi per l’altra uscita; l’avevamo aperta e stavamo percorrendo il corridoio di fretta e furia. Si udivano ancora dei rumori terribili provenienti dal soffitto. D’un tratto il soffitto era crollato proprio di fronte ai nostri piedi e dalla fessura potevamo intravedere la coda del drago. Quest’ultimo si stava ancora aggirando per la città-prigione: “Accidenti! Quel drago non si arrende tanto facilmente. Per di qua!”. Ralof stava indicando una porta aperta a sinistra, proprio prima delle macerie. Continuavamo a correre giù per le scale; scendevamo sempre più, sembrava stessimo per raggiungere le viscere della terra. La corsa e l’aria appesantita rendevano il respiro sempre più affannoso. Alla fine dell’ennesima scalinata potevamo vedere della luce debole di candele e delle grida strazianti:” Ehi, siamo vivi!”; ad intermittenza una luce bianca, più accesa, abbagliava gli ultimi scalini. Giunti alla fine delle scale avevamo trovato una stanza con delle celle microscopiche e degli strumenti di tortura. Lì stavano combattendo due guardie imperiali e un compagno di Ralof, mentre da una cella un uomo con una tunica scura urlava a squarciagola e imponeva le mani verso le due guardie. Ralof era immediatamente corso in aiuto del suo amico io, invece, ero catturata da quell’uomo imprigionato. Ero rimasta a fissarlo poiché pareva che fosse lui la causa dei quelle folgori ma non ero in grado di capire come facesse. Una delle guardie si era divincolata dall’attacco di Ralof e del compagno e aveva trafitto con la spada il povero uomo nella gabbia. Quest’ultimo indietreggiava toccandosi la ferita nel ventre fino a crollare a terra. Sembrava che la guardia credesse fosse fondamentale eliminare quel guerriero a discapito della propria vita; difatti, avendo abbassato la guardia, Ralof aveva potuto eliminare la prima guardia senza problemi per poi occuparsi della seconda senza che questa potesse nemmeno avere il tempo di voltarsi verso il suo assassino. Eliminati i due imperiali, Ralof era andato a soccorrere il suo compagno d’arme:”Grazie amico, senza di te non so se ce l’avrei fatta.”. Ralof non pareva avere voglia di convenevoli ed era arrivato dritto al punto:” Sei scappato con lo jarl Ulfric? Sai dov’è?”. Il ragazzo non era in grado di rispondere. Mentre questi discutevano, io stavo scrutando le celle. Erano minuscole, molto più anguste di quella in cui ero stata imprigionata io. All’interno di quella dell’uomo dalla tunica scura si potevano vedere degli oggetti. Avrebbero potuto essere utili alla nostra fuga. Da un tavolo lì vicino avevo afferrato due ferri, sicuramente destinati a scopi cruenti fino a quel momento, e avevo iniziato ad armeggiare col lucchetto della cella. Dopo poco si era aperta scricchiolando; la porta cigolava arrugginita e il rumore aveva richiamato l’attenzione dei due miei compagni di fuga. Ai miei piedi giaceva lo sconosciuto e vicino a lui una bisaccia; l’avevo afferrata sentendo il tintinnio di alcune monete e di un paio di ampolle piene di liquido strano. Proprio sotto la borsa stava un libro. Un tomo dalla copertina scura e uno stano simbolo inciso nella pelle della copertina. Il libro era parecchio rovinato e sporco. Passandoci sopra la mano potevo scorgere il titolo “Tomo magico: Scintille”. Ralof mi aveva esortato a seguire lui e l’amico; avevo indossato la borsa a tracolla e ci avevo inserito il libro: qualcosa mi diceva di non poterlo lasciare lì a terra. Cercando di inserire il tomo trovato a terra, mi ero accorta che la borsa conteneva un ulteriore libro; stavo per liberarmene ma avevo notato la sua fattura ben più preziosa e meglio conservata. Dal lato potevo scorgere il titolo “Sangue di drago”. Forse era cartastraccia, ma Ralof ormai era uscito dalla stanza e non potevo perdere altro tempo: avevo ricacciato i libri nella borsa e mi era apprestata a raggiungere i sue compagni. L’umidità ormai era visibile, formava una nebbiolina maleodorante che pervadeva tutti i cunicoli. Ralof procedeva senza il minimo indugio, il suo amico pareva più titubante. La fuga ci aveva, ora, portato ad un percorso di ponti di legno e corde montati al di sopra di fiumiciattoli verdognoli. Qui un paio di guardie imperiali ci erano corse incontro a viso duro; una terza era più lontana e ci stava attaccando con arco e frecce. Tutte quante erano state uccise per permetterci di scappare. Mentre ci avvicinavamo all’uscita, il cadavere dell’arciere giaceva immobile con la sua arma ancora salda nella sua mano freddamente serrata. Avevo agganciato alla mia cintura l’ascia, ancora inutilizzata, e mi ero accovacciata verso l’arco. Avevo capito che se volevo uscire di lì viva e scoprire perché mi trovassi lì non potevo continuare a dipendere da altri: era ora che iniziassi a difendermi. Preferivo di gran lunga utilizzare l’arco che, a mio avviso, avrebbe reso meno cruento l’eventuale scontro. Il giovane ragazzo si era improvvisamente fermato:” Voi andate avanti, io sto qui nel caso passasse Ulfric”. “Che Talos ti aiuti” aveva ribattuto Ralof. Io non avevo alcuna intenzione di stare chiusa sottoterra un minuto di più. Ero decisa più che mai ad uscire da quelle grotte infernali. Dopo aver corso ancora per qualche cunicolo, ci eravamo trovati di fronte ad un grosso portone con il ponte levatoio sollevato. Fortunatamente la leva era lì vicino. Tirandola, il ponte era sceso emettendo dei suoni poco rassicuranti. L’avevamo attraversato con attenzione poiché pareva sgretolarsi sotto i nostri piedi; difatti, appena avevamo toccato la terra ferma, questo era rovinosamente crollato. Gli altri uomini intrappolati avrebbero dovuto trovare un’altra via di fuga. Quel pensiero aveva reso un po’ cupo il volto di Ralof il quale, comunque, non aveva esitato ad arrestare il suo cammino. Da quel momento in poi le stanze che si succedevano avevano un aspetto sempre più selvaggio e tetro. La nostra strada era spesso inondata da acqua gelida e putrida. Le stanze parevano più fredde e i muri parevano ricoperti da uno spesso strato di ragnatele appiccicose. Il mio compagno si era arrestato improvvisamente, ordinando anche a me di fermarmi. Potevamo udire una specie di scricchiolio fastidioso avvicinarsi a noi: ragni giganti! Orrendi, pelosi e velenosi ragni giganti. Il primo aveva quasi infilato le sue zanne velenifere nel braccio di Ralof che tentava di proteggersi; non sarebbe stato in grado di divincolarsi dalla morsa del ragno se quest’ultimo non fosse caduto all’indietro senza vita: avevo scoccato con successo una freccia che aveva colpito la bestia proprio tra gli occhi. Ralof mi aveva guardato con la coda dell’occhio e mi aveva sorriso compiaciuto. Combattendo insieme avevamo debellato la minaccia senza troppa fatica: “Odio questo genere di cose: troppi occhi, mi capisci? Comunque te la cavi  bene con l’arco, piccolo elfo!” aveva affermato Ralof. Procedevamo di corsa, come se sentissimo che ci rovavamo ad un passo dall’uscita. Eravamo entrati in un’ulteriore grotta, molto più grande e molto più luminosa delle precedenti. Più avanti potevamo scorgere un’apertura tra le mura e la luce del sole. Potevamo finalmente uscire da quell’inferno! Stavo per correre verso la libertà, ma Ralof mi aveva afferrata per fermarmi e mi aveva fatto cenno verso un angolo più buio: proprio lì stava dormendo un grosso orso bruno. “Meglio non farci sentire. Abbiamo avuto troppi guai per oggi.” Quindi, furtivi, ci avvicinavamo all’uscita. Era difficile contenere la gioia che pervadeva ogni centimetro del mio corpo: finalmente potevo sentire una brezza leggera sfiorarmi il viso; i raggi del sole mi accarezzavano dolcemente le guance. Libertà! Dolce, dolce libertà. L’apertura nel muro si trovava alla fine di una strettoia che rendeva difficoltoso il passaggio. Io, che ero più esile, ero passata per prima mentre Ralof mi spingeva dalle gambe. Ero in piedi, là fuori e guardavo dritto il sole; non mi ero potuta crogiolare troppo in quella quiete in quanto dovevo aiutare Ralof ad uscire da quella piccola fessura; riuscivano a spuntare la testa, le braccia e le spalle, ma il resto pareva bloccato. Mi ero girata verso di lui e lo tiravo per le braccia. A fatica e con qualche ammaccatura all’armatura, ero riuscita a tirare fuori di lì l’uomo. Appoggiandosi sulle sue ginocchia si era immediatamente alzato e guardandomi mi aveva detto:” Non sappiamo se qualcun altro si è salvato ma presto qui pullulerà di Imperiali, meglio andarsene. Ho una sorella, Gerdur, gestisce la segheria di Riverwood, sono sicuro che lei ti aiuterà. Ah, dimenticavo: grazie per l’aiuto, senza di te non ce l’avrei mai fatta! Dai, seguimi.”. 


[Ciao a tutti i lettori! Spero vi piaccia questo capitolo e il mio "esperimento" di tramutare The Elder Scrolls of Skyrim in un racconto. Perdonate qualche errore di battitura ma lo sto pubblicando velocemente prima che la batteri del portatile si esaurisca. Grazie a tutti, ciao ciao.]

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