Benvenuta nella radura

di Stillintoyou
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10: Gruppo A soggetto A19, l'innesco. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 - Proprietà della C.A.T.T.I.V.O.: I creatori ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Freddo. Era tutto ciò che sentivo, un freddo opprimente oltre che una pesante sensazione di stanchezza.
Era come se qualcuno mi avesse dato un potente sedativo. Tentai di aprire gli occhi, di mettermi in piedi. Perché avevo la sensazione che anche i più semplici movimenti fossero impossibili?
Nelle mie orecchie risuonava un forte rumore metallico, e avevo la sensazione che qualcosa mi stesse trascinando in alto.
Come c'ero finita in quella situazione? Ma soprattutto... qual’era il mio nome? Chi ero? Perché non ricordavo niente prima di quel momento?
Passai la mano lungo il pavimento, sentendolo freddo e metallico.
Finalmente alzai la testa, aprii gli occhi e mi guardai attorno.
Era tutto buio e tutto attorno a me strideva con fare così forte da entrarmi nel cervello, dandomi la sensazione che qualcuno mi stesse tagliando le pareti del cranio con un taglierino appuntito.
Solo una volta aperti gli occhi me ne resi conto, e trovai la cosa bizzarra.
Per quanto tempo avevo dormito? Mi sentivo dannatamente stanca, tant’è che non riuscivo nemmeno a stare in piedi.
Nel mio petto il cuore batteva ad una velocità assurda, eppure non ero in grado di muovermi da lì.
I miei occhi erano sbarrati, fissavo ogni angolo di quel posto in cui mi trovavo e finalmente riuscii ad abituarmi al buio.
Ero all'interno di una specie di stanza quadrata, che si muoveva per arrivare in superficie.
Non era tanto grande. Affatto. Erano pareti minuscole e ad ogni minuto che passava mi sembrava che si stringessero attorno a me, dandomi la sensazione di soffocare.
Volevo urlare, ma per qualche ragione non lo feci.
Cercai invece di mantenere il controllo, per quanto potesse essere possibile.
Non ricordavo nulla. Ma perché?
Cercai in ogni modo di ricordarmi come c'ero finita in un posto simile, ma la mia mente era vuota.
Totalmente vuota. L'unica cosa di cui avevo memoria era il freddo pavimento metallico su cui mi ero appena svegliata.
Schiusi le labbra, respirando pesantemente. Il panico cominciava a farsi sentire.
«Calmati», pensai tra me e me e la mia voce mi sembrò così dannatamente nuova.
Cercai di mettermi in piedi. Ero in uno spazio chiuso, dentro qualcosa di metallico che mi portava verso l'alto, urlare probabilmente non sarebbe servito a nulla se non a farmi venire il mal di testa.
La sonnolenza almeno mi stava passando.
Quando finalmente riuscii a reggermi in piedi, la “stanza” ebbe uno scossone e caddi sulle ginocchia.
Corrugai la fronte, mettendomi seduta e rannicchiandomi in un angolo.
E adesso cosa mi aspettava?
Si sentì un rumore forte e acuto. Come una sorta di sirena. Un allarme.
Cominciai a preoccuparmi, pensando subito al peggio.
Poggiai le mani sulle orecchie. Volevo gridare. Gridare abbastanza forte da darmi la speranza che qualcuno mi sentisse e venisse a tirarmi fuori da quella sorta di stanza metallica.
Ma ero abbastanza sicura che lì dentro non mi potesse sentire nessuno, sopratutto con quel rumore assordante. Cosa mai potevo aver fatto per meritarmi di stare in una sorta di cella isolata dal mondo intero?
Passò un sacco di tempo prima che quel dannato rumore smettesse di darmi il tormento.
«E ora?», pensai, poi alzai lo sguardo quando sentii che qualcosa, sopra di me, si stava muovendo.
Della luce entrò all'interno di quella sottospecie di stanza, o cella, o quello che era.
Socchiusi gli occhi per l'improvviso impatto con la luce esterna, e qualcuno balzò a pochi centimetri da me.
«Cosa c'è nella Scatola? Un Fagiolino nuovo, vero?», disse qualcuno dall'esterno.
Mi sentivo come se fossi stata imbavagliata, squadrando il ragazzo che si era inginocchiato per guardarmi in faccia.
«Oh caspio...» Inclinò la testa, assumendo un espressione stranita. Si mise in piedi
«Newt?»
«Non ci crederete mai...» Alzò il volto, rivolgendosi alle persone che si erano raggruppate attorno all'uscita di quella... Scatola, a quanto pare la chiamavano così.
«A cosa non crederemo mai?»
«È... una ragazza.» Il ragazzo abbassò nuovamente lo sguardo su di me, «Ci hanno mandato una ragazza». Si sentirono sussulti dall'esterno, seguiti da borbottii increduli e commenti fuori luogo.
«Una ragazza?» Un ragazzo si sporse dal bordo e mi guardò incuriosito.
Non si era sporto del tutto, solo metà viso, e il suo naso a patata era praticamente poggiato sul bordo metallico. «Una Fagiolina? Cosa? Sul serio?»
Il ragazzo in piedi davanti a me sollevò un sopracciglio «Certo, Gally. Gli occhi non ti funzionano più?». Schioccò la lingua, chinandosi nuovamente davanti a me e porgendomi la mano, «Riesci ad alzarti?», domandò, e il tono acido che aveva rivolto poco prima all'altro ragazzo, sembrò essere sparito.
Annuii, cercando di calmare il respiro agitato per via del panico affrontato poco prima.
Provai a mettermi in piedi, sentendo le gambe tremare, pronte a cedere da un momento all'altro.
Il ragazzo mi porse la mano, e io la presi con un po' di incertezza.
Mi aiutò ad uscire da lì. Notai che erano tutti ragazzi. Tutti.
Sentii diversi commenti, gente incuriosita, affermazioni tipo “siamo sicuri che sia una ragazza? Magari è un ragazzo un po' effeminato!”.
Mi guardai attorno, uscendo dalla folla ancora radunata attorno alla Scatola.
Era un posto apparentemente immerso nella natura, a parte per dei grossi muri altissimi che lo circondavano.
Un ragazzo di colore, alto e abbastanza robusto, si avvicinò a me. Cercò di sorridere con fare rassicurante, ma era palesemente un espressione forzata. Accanto a lui c'era lo stesso ragazzo che mi aveva aiutata ad uscire dalla Scatola. Si fermarono davanti a me, a braccia incrociate.
Gli altri ragazzi si radunarono dietro di loro, continuando con la loro serie di domande e sguardi ambigui verso di me.
«Quindi sei una ragazza», disse il ragazzo di colore. La sua finta espressione pacifica mi dava i brividi.
Mi limitai ad annuire, mormorando un “già”. Quella situazione mi inquietava parecchio.
«Già», ribatté, «una Fagiolina». Ridacchiò tra sé e sé. «La prima ragazza, qui. Cosa ci fai? Perché i creatori ti hanno mandata qui? Ti ricordi qualcosa?», una serie di domande che mi spiazzarono come un uragano.
Sgranai gli occhi, stringendomi le braccia al petto, «Io... non lo so. Non ricordo nulla». Indietreggiai, poggiandomi una mano sulle labbra e mordendo nervosamente le unghie.
«Sono domande di routine, tranquilla. Nessuno ricorda qualcosa, la prima sera. Piano piano ricorderai il tuo nome. Almeno quello.»
Deglutii, e il ragazzo di colore si avvicinò di nuovo a me, porgendomi la mano, «Io sono Alby. Sono il capo qui».
Gli presi la mano, ritraendola il prima possibile.
«E questa è la Radura. Benvenuta, Fagiolina.»

 



{Angolo dell'autrice}
Salve! Okay.... Non so come iniziare, e questo è già un buon inizio! (?)
Okay, comincio col dire che questa è una fanfiction nata.... per caso.
Avevo semplicemente voglia di scriverla e niente di che. Lo so, lo so, come primo capitolo non sa né di carne né di pesce, ma era solo per dare una prima idea.
Un primo assaggio, dciamo. Non ho voluto caricarlo subito di cose, voglio andarci piano. Vi chiedo venia per questo.
Non ci saranno spoiler (non troppo grossi almeno, sopratutto per chi ha letto i libri. Se avete visto solo il film, vi consiglio di leggere i libri che sono molto più belli rispetto al film. Nemmeno a paragone!) perché è ambientata PRIMA dell'arrivo di Thomas e Teresa.
Spero vi piaccia! Se lasciate una recensione non vi mangio, giuro e prometto!
Le idee sono ben accette quanto le critiche (positive o no che siano), per cui se volete che aggiunga qualcosa o la modifichi, siete liberissimi di dimerlo.
Sono tutta orecchi!
Buona lettura!



 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


«Fagiolina», pensai. Era un termine buffo, ed era il modo con cui gli altri ragazzi mi chiamavano ogni volta che ne incrociavo uno, mentre Alby mi accompagnava nel Casolare, una struttura in legno, storta, che fungeva praticamente da dormitorio.
Mi fece vedere un po' il luogo, facendomi fare un “giro turistico” del posto.
Mi disse che di norma avrebbe aspettato il giorno dopo, ma c'era abbastanza tempo da farmene vedere almeno metà.
Mi spiegò che ero arrivata dalla Scatola, che ogni mese alla stessa ora arrivava portando delle scorte e un nuovo “Fagiolino”, ossia un nuovo arrivato.
Tutti i nuovi arrivati si chiamavano “Fagiolini”, mentre gli altri erano dei pive.
Mi spiegò che quella era la Radura, che i suoi abitati si chiamavano Radurai. Che erano tutti ragazzi, e che io, come aveva detto prima, ero la prima ragazza a essere finita in quel posto.
Poi disse che il resto me l'avrebbe detto poco a poco, che troppe informazioni mi avrebbero solo terrorizzata.
Mi mostrò il posto dove un ragazzo di nome Frypan cucinava, e altri posti dove gli altri Radurai svolgevano le loro mansioni quotidiane.
«Domani finirai il giro turistico con Newt. Il pive biondino che è balzato dentro la scatola appena sei arrivata», spiegò, «E dopo aver fatto il giro turistico, Fagio, io e Newt ti porteremo dai vari Intendenti».
«Intendenti?»
«Gli altri capi, diciamo così. Ogni Intendente è il capo di uno dei compiti che si svolgono in questo caspio di posto. Per esempio, Winston è l'Intendente del Macello. Frypan della Cucina. Gally è l'Intendente dei Costruttori. Io sono l'Intendente degli Intendenti», lo disse con un tono quasi orgoglioso. «Sono il leader. Newt è il vice.»
Non sapevo chi fossero Winston e Frypan, ma Gally, a quanto avevo capito, era il ragazzo col naso a patata che si era affacciato al bordo della Scatola.
Entrammo nel Casolare, e la prima cosa che notai, fu la... puzza. L'odore chiaro che si sente in una stanza piena di zeppa di ragazzi.
Arricciai il naso, e per fortuna mi abituai quasi subito a quell'odore pesante.
«Beh... Non ricordo quanti letti abbiamo, molti li hanno sfasciati come delle testepuzzone, quindi se ne vedi uno, accaparratelo subito. Sei la Fagiolina nuova, se qualche pive decide di fare il gentiluomo e cedertelo, non perdere l'occasione!» Ridacchiò, anche se io non ci vedevo nulla di divertente in quella situazione.

Ero seduta contro la parete esterna del Casolare e un ragazzino robusto si avvicinò a me con una sorta di vassoio in mano, «Ehi, tu... Fagiolina, tieni.» Sembrava un po' a disagio.
Mi porse il vassoio, notando che sopra c'erano due panini, e uno era già stato addentato.
«Scusa, ne ho mangiato un pochino», mormorò imbarazzato, porgendomi anche una bottiglia, «Me l'ha dato Frypan. Non ti ha vista a cena e ha pensato che Alby si fosse dimenticato di farti vedere dove mangiamo, così ti ha fatto due panini e mi ha dato una bottiglia».
«Gentile da parte sua... anche se non so chi sia Frypan.»
«Oh, il ragazzo addetto alla cucina.» Abbassò il volto, poi lo rialzò, «Io sono Chuck, comunque».
«Vorrei presentarmi anche io, ma... non so il mio nome», dissi, prendendo il panino addentato e passandolo a Chuck.
Il viso gli si illuminò e lo prese subito, cominciando a mangiarlo quasi immediatamente.
Risi, prendendo l'altro panino e cominciando a mangiarlo, prendendo anche la bottiglietta d'acqua e poggiandomela accanto.
Ingoiò un grosso boccone e si girò verso di me, e quando lo feci anche io, notai che aveva già terminato il panino. «Grazie.»
Mi sentii come una lumaca che mangia un grosso pezzo di lattuga. Abbassai il volto e scrollai le spalle, «Prego. E comunque non potevo sicuramente mangiarlo io, ormai l'avevi addentato tu».
«Sì, beh... Scusa, Fagio. Avevo ancora fame. Frypan ultimamente mi mette meno cibo, perché secondo lui ogni tanto entro in cucina di nascosto e mangio qualcosa.»
Arricciai il naso, «Ma questo è veramente crudele!»
«È il minimo, credimi. Qui un po' tutti mi trattano come se fossi un pezzetto di sploff. Sopratutto perché sono uno Spalatore.»
«Uno Spalatore?»
Annuì. «Gli intendenti non hanno trovato nulla per me. Quindi sono diventato uno spalatore. Insomma... Tutti sanno spalare, no?»
«Oh... Beh, sì. Ma non scoraggiarti.»
«Come posso non scoraggiarmi?», borbottò
«Sei comunque utile. Insomma, se non ci fossero Spalatori, non penso che questo posto sarebbe così», mi inventai qualcosa. Non sapevo se la cosa reggesse, ma lui sembrò essersi tirato su di morale, dal sorriso che mi rivolse.
«Ehi Chuck, chi è il più grande qui?»
Scrollò le spalle, «Non ne ho idea. Bene o male i più grandi hanno tutti circa diciassette anni. Io dovrei essere il più piccolo. Su per giù ne avrò dodici o tredici, non di più».
«Mi consola sapere di non essere l'unica a non ricordarsi la propria età e il proprio nome», mormorai, addentando nuovamente il mio panino. Non sapevo di avere così poca fame, dopo tutto.
Più che altro, avevo una sete da paura. Aprii la bottiglia (con un po' di fatica) e cominciai a bere, portandola a quasi metà. La richiusi, facendo un respiro profondo e la poggiai di nuovo accanto a me.
«È normale. Io l'ho ricordato dopo un sacco di tempo. Credimi, sei forse l'unica persona che non si è sploffata nei pantaloni mentre eri nella scatola. Sembravi così rilassata, nemmeno stessi andando a fare una passeggiata nei campi di fiori!»
«Penso che mi abbiamo dato qualche sedativo o qualcosa del genere. Ma... che razza di lessico usate? Sploffata, testapuzzona, pive, fagio... che...»
«Il lessico dei Radurai. Che pretendi? Dopo che stai isolato in posto del genere per chissà quanto tempo, è normale che finisci con l'usare parole strane e un “vocabolario” tutto tuo.»
«Effettivamente... Tu da quanto tempo sei qui?»
«Ero un Fagiolino, prima del tuo arrivo», sorrise, e il rossore delle sue guance sembrò essere più evidente. Probabilmente merito anche del tramonto che prendeva piede nella radura. «Sono qui da un mese.»
«E che cosa sai di questo posto?»
«Non molto, a dirla tutta. Non mi parla quasi nessuno se non per darmi qualche compito, o per dirmi tipo “vai a dire questo a quello” o “porta questo e questo a quell'altro”, in stile piccione.»
Provai quasi pena.
Dei ragazzi uscirono correndo da una grossa fessura tra le enormi pareti che c'erano davanti a noi. Sebbene fossero di enormi dimensioni, non mi ero accorta della loro presenza fino a quel momento.
O meglio, sì, me n'ero accorta, ma non ci avevo dato peso.
Pochi istanti dopo l'apparizione dei ragazzi che continuavano a correre, andando verso una sorta di capannina, la fessura cominciò a chiudersi, producendo un fracasso assurdo che mi costrinse a tapparmi le orecchie.
«Ehi, Fagiolina, tutto okay?» A stento riuscii a sentire quelle parole. Alzai il volto, vedendo il viso del ragazzo biondo. Newt, se non ricordavo male.
«Cosa?», chiesi. Non ero sicura di aver capito bene.
«È tutto okay?», chiese gridando, spostandomi le mani dalle orecchie.
Spostai le mani, poggiandomele contro il petto. Mi sentivo a disagio ogni volta che toccavo qualcuno.
«Sì ma, perché c'è questo casino? Perché i muri si muovono?» Ero confusa, avrei voluto riempirlo di domande, ma non volevo che poi magari si scocciasse e mi abbandonasse nei miei dubbi.
Era meglio fare un passo alla volta, per essere più sicuri.
«Calma, Fagio», bofonchiò, sollevando l'indice contro le sue labbra.
Aspettò in silenzio, poi fece cenno a Chuck di allontanarsi, cosa che fece con un espressione un po' afflitta. Provavo pena per lui.
Newt si sedette accanto a me, poggiando le braccia sulle ginocchia. Aspettò che le mura si chiudessero completamente, fece passare qualche minuto, poi si girò verso di me, «Dicevi?»
«Perché le mura si sono chiuse? Dico, perché si muovono?»
Ridacchiò, «Ringrazia che quelle mura si chiudano, o probabilmente a quest'ora saremo tutti schiattati da un pezzo». Tornò a guardare dritto
«Perché?», domandai, ma per un attimo pensai di non volerlo veramente sapere.
Newt sospirò, giocando con le proprie dita, «Vedi quelle enormi mura che abbiamo davanti? Ebbene, quelle sono le mura che portano al Labirinto. Questo posto, la Radura, è completamente circondato da quelle enormi mura. E fuori dalle mura, come ho detto prima, c'è il Labirinto».
Ero confusa.
«Questo è tipo un campo di prigionia?»
Newt ridacchiò di nuovo, scuotendo la testa. «Probabile. Non si sa, a dire il vero. Ci siamo ritrovati tutti qui e nessuno ha memoria di cosa o chi eravamo prima», si strinse nelle spalle, «Sappiamo solo che siamo arrivati qui dalla Scatola, come te, e che lì fuori c'è un caspio di Labirinto di cui non abbiamo ancora trovato un uscita. Hai visto per caso dei ragazzi uscire da lì?», si voltò nuovamente verso di me.
Mi limitai ad annuire. Volevo saperne di più, e non osai fare domande per interromperlo.
«Bene. Quelli sono i Velocisti. Corrono nel Labirinto ogni giorno, dalla mattina presto, appena le Porte del Labirinto si aprono, e tornano prima che si chiudano. Oggi gli è andata bene, sono arrivati pochi secondi prima della chiusura.» Schioccò la lingua, «Minho e i suoi se la sono vista veramente brutta oggi».
«Minho...?»
«Ah già. Sei una Fagiolina.» Sollevai un sopracciglio a quelle parole. «Minho è l'Intendente dei Velocisti. Il migliore Velocista che abbiamo.»
«Cos'è un Velocista?», mormorai. Era come se stesse parlando arabo.
«Un Velocista è chi esce nel Labirinto e lo mappa. Corrono nel Labirinto tutto il tempo, esplorano le varie aree, poi tornano qui e le mappano, disegnandole su dei fogli per filo e per segno. Non devono sbagliare di una linea, deve essere un percorso preciso. Loro sono praticamente la nostra speranza per andarcene da questo posto. Loro cercano un’uscita dal Labirinto.»
«Quindi la mia teoria che questo sia un campo di prigionia, infondo, non è così sbagliata...» mormorai, abbassando lo sguardo. Mi sentivo spaesata e confusa. Come c'ero finita lì? Perché ero lì? Avevo fatto qualcosa di così orribile che meritava di essere punito e che mi aveva portato a doverlo cancellare in modo totale, facendomi addirittura dimenticare chi ero?
In quel momento, capii che volevo seriamente tornare indietro. O magari quello era solamente un incubo e presto mi sarei svegliata. Non capii seriamente di voler tornare indietro finché Newt non mi ebbe spiegato meglio le cose. Mi spiegò che erano lì da su per giù due anni, e che ancora non avevano trovato un’uscita. Che le avevano tentate tutte per andare via. Che nessuno sapeva chi li avesse mandati lì.
Che molti avevano perso la vita nel tentare di fuggire. Ma ancora non mi aveva detto molto, sul Labirinto, se non i modi che avevano provato ad usare per andarsene da lì.
«Newt?»Non rispose, si limitò a guardarmi.
«Cosa c'è lì fuori?», indicai le mura.
Lui sorrise, poi tornò serio e sollevò un sopracciglio, «Intendi nel Labirinto?»
«Sì.»
Storse il naso, osservandomi come se stesse valutando l'idea di dirmelo o meno, «Mh... sei una Fagio. Sei una ragazza. Scoprirlo potrebbe farti sploffare nei pantaloni...».
Schiusi le labbra e corrugai la fronte, «Ehi!»
«Dico sul serio!», si mise in piedi, «Te lo dirò quando ti sarai ripresa completamente dal tuo arrivo qui. È già troppo se appena arrivata non ti sei strappata quei tuoi lunghi capelli castani in preda ad una crisi di nervi. A proposito, com'è che eri così calma? Solitamente chiunque esca da quella Scatola è così traumatizzato che, potendo, ti morderebbe le gambe per quanto è terrorizzato». Mi porse la mano per aiutarmi a rimettermi in piedi, ma mi limitai a guardarla, scuotendo le spalle. «Non lo so. Penso che chiunque mi abbia cacciata lì dentro mi abbia sedata, o qualcosa del genere. Probabilmente ho dormito per non so quanto mentre ero lì.»
Newt ritrasse la mano, chinandosi alla mia altezza, proprio come quando ero nella Scatola, «Questo spiegherebbe perché non hai cercato di cavarmi gli occhi. Comunque», inclinò la testa, «stammi bene a sentire, Fagio. Mentre noi eravamo in mensa, tutti parlavano della nuova Fagiolina sperduta. Sta’ attenta, questo posto non è esattamente adatto alle femmine. Non ne abbiamo mai avute, qui. Sei la prima».
«Lo so, Alby me l'ha detto.»
«Bene così.» Si guardò attorno, come se avesse paura che qualcuno potesse sentirlo, «Dobbiamo capire perché stavolta hanno mandato una ragazza. Non è normale, e qui è pericoloso. Sopratutto perché qui siamo tutti maschi, e tu sei una ragazza. Non mi stupirei se qui qualcuno cominciasse a fare il cretino con te e cominciassero a scoppiare dei litigi. E non andrebbe bene», scosse la testa.
«Oh. Ti preoccupi per me?», usai un tono sarcastico, e lui sollevò un sopracciglio, come se avesse voluto guardarmi male.
«Mi preoccupo per tutti. Questo posto comincerebbe a crollare se perdiamo la fiducia tra noi e cominciamo a litigare. È già una brutta sensazione stare qui, essere smarriti e non ricordare un caspio di sé stessi, figurati come sarebbe se tutti litigassero con tutti e nessuno avesse più voglia di fare niente.» Fece un respiro profondo, «E comunque, sì, mi preoccupo anche per te. Gally stava già facendo storie per il tuo arrivo».
«Ma... Gally nemmeno mi conosce!»
«Se la mettiamo così, nessuno ti conosce. Gally ha sempre la puzza sotto il naso, non preoccuparti. È una testapuzzona.» Rimase in silenzio, guardandomi negli occhi per diverso tempo. Assunse un espressione seria. Sentirmi il suo sguardo addosso mi metteva un certo disagio. «Ho bisogno di chiederti una cosa.»
«Che... Che cosa?», mormorai
«Ho bisogno che tu ti fidi di me. Per qualsiasi cosa. Va bene? Devi sempre fidarti di me. Ti proteggerò io, da qualsiasi cosa.»
«Va bene, mi fiderò di te», mormorai di nuovo. Non avevo nulla da perdere, era dannatamente gentile con me e lo apprezzavo.
Perlomeno mi rendeva più facile restare in quel luogo e, da come me ne aveva parlato, nonostante tutto, era un vero inferno.
«Bene così.» Mantenne ancora gli occhi su di me, restando in silenzio ancora un po'. Si guardò di nuovo intorno, lasciando passare un Raduraio e aspettando che si allontanasse, poi si girò di nuovo verso di me, «Ti proteggerò anche dalle testepuzzone che ti importuneranno». Accennò un sorrisetto ironico, che mi portò a sorridergli a mia volta.
«Sarai, tipo, il mio cavaliere dall'armatura lucente?»
«Mh, sì, mettiamola così.» Si mise in piedi, porgendomi la mano. Stavolta la presi e mi aiutò ad alzarmi.
«Ah, devi promettermi anche un'altra cosa», disse, lasciandomi la mano e cominciando a camminare verso l'entrata del Casolare, facendomi cenno di seguirlo.
«Cosa?», domandai.
«Non dovrai mai, per nessuna ragione, cercare di entrare nel Labirinto. Sopratutto da sola.»
«Okay», corrugai la fronte, «Ma... perché?».
«Tu non farlo e basta. Più avanti ti spiegherò.»
«Non puoi farlo ora?»
Si girò di scatto verso di me e mi fulminò con lo sguardo, «No», sbottò freddo, contraendo la mascella.
Trasalii, distogliendo lo sguardo, «Scusa», mormorai, rialzando lo sguardo, e per un attimo mi sembrò di vedere una punta di rimorso nei suoi occhi
«Promettimelo e basta», borbottò, tornando a guardare davanti a sé ed entrando nel Casolare.
«Okay, okay. Lo prometto», borbottai anche io.

 


{Angolo dell'autrice}

Ho deciso di pubblicare subito il secondo capitolo perché era già pronto e il primo era decisamente troppo corto.
Anche questo, come il primo, non dice un graché. È solo la presentazione dei personaggi.
Come avrete capito (spero... se no lo scroprite ora :'D) sto cercando di approfondire un po' di più anche gli altri personaggi secondo un mio punto di vista, quindi non solo quelli originali (che chiaramente non modificherò, ma cercherò di evidenziare alcuni lati che non sono ben chiari).
Alla prossima!


 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


La notte era passata terribilmente lenta, le parole di Newt mi rimbombavano in mente. Tutte. Le scene passavano e ripassavano nella testa. Si ripetevano sequenza per sequenza. Chiudevo gli occhi e la prima cosa che mi appariva davanti era il viso di Newt e sentivo le parole “Ho bisogno che ti fidi di me”e “ Non dovrai mai, per nessuna ragione, cercare di entrare nel labirinto. Sopratutto da sola”.
La mia nuova vita nella radura non era iniziata poi così male, a pensarci bene.
Ma la notte non la passai per niente bene.
Avevo la testa carica di quelle nuove informazioni e la curiosità per ciò che mi aspettava l'indomani era troppa.
Ma a parte questo, come avrei fatto a dormire sul pavimento, circondata da ragazzi che russavano a destra e a sinistra? Per mia sfortuna non avevo trovato nessun letto, e non avevo avuto voglia di prendermi la briga di salire al piano di sopra.
Newt mi aveva dato un sacco a pelo, dicendomi che avrebbe reso la mia nottata un po' più comoda e a calda.
Il che era vero, aveva reso il pavimento fortunatamente più comodo. Ed era un bene, non osavo immaginare come sarebbe stato altrimenti.
Chuck era nella mia stessa stanza, ma rivolto al muro e accoccolato tra due ragazzi, avvolto nel suo sacco a pelo scolorito. Era addormentato così beatamente che russava di gusto.
Invece io avevo trovato un angolino sotto la finestra. Il casolare era dannatamente affollato, ma per fortuna il mio olfatto era ormai abituato all'odore di quel posto.
Mi sentivo così spaesata che a momenti mi sembrava di avere un vuoto al cuore, e ormai la speranza lontana che quello fosse solo un incubo si era spenta da tempo. Non sapevo come reagire, cosa sperare o cosa fare. Alla fine, potevo solo sperare di adattarmi a quel posto e fare ciò che mi dicevano di fare, e qualcosa mi diceva che non sarebbe stato così facile. Nonostante la mia prima giornata non fosse andata per niente male, non mi ero abituata a quel posto. Avevo cercato di auto-convincermi che dal giorno dopo le cose sarebbero migliorate.
Chiusi gli occhi, cercando di mantenere quel pensiero positivo per provare ad addormentarmi.

Dormii sì e no 4 ore, sapevo benissimo che non bastavano per reggermi in piedi, ma una volta sveglia non riuscii più a chiudere occhio.
Mi alzai e andai in quelle che mi avevano detto essere le docce, e me ne feci una alla svelta prima che il resto dei Radurai si svegliasse.
Mi rivestii velocemente ed uscii da quella stanza piena di docce, sistemando i capelli umidi con le dita.
Sobbalzai quando vidi una figura poggiata al muro, accanto alla porta.
«Maledizione, Newt!»
«Buongiorno anche a te, Fagio.» Sollevò un sopracciglio, schioccando la lingua, «Dormito bene? O hanno cercato di stuprarti?».
«Non sei simpatico, accidenti. Mi hai fatto prendere un colpo! Che facevi qui fuori, mi spiavi sotto la doccia?», borbottai, sistemandomi i capelli.
Si spostò dal muro, schioccando nuovamente la lingua e cominciando a camminare, facendomi cenno di seguirlo, «Andiamo, Fagio, io e Alby finiamo di farti vedere la Radura e poi ti porteremo dal primo Intendente. E, per la cronaca, ero vicino alla porta perché quando sono andato nella stanza del Casolare dove hai dormito non c'eri, e ho dato per scontato che ti stessi facendo una doccia, che caspio. Non sono un pervertito! Ma non mi stupirei se qualche pive ti spiasse dalle finestre», ridacchiò sotto i baffi.
Feci ruotare gli occhi verso l'alto, accettando il fatto che effettivamente non mi sarei stupita nemmeno io.

Il tour della Radura non durò così tanto, mi fecero saltare una cosa che loro chiamavano “Faccemorte”, e pensai subito che fosse un cimitero.
Dissero che mi risparmiavano volentieri quel posto, e che speravano di non dovermici mai portare.
Mi accompagnarono da Winston, l'Intendete del Macello.
«Okay, Fagio, qui non c'è bisogno che ti spieghiamo cosa dovrai fare, vero?», disse Alby, facendo un sorrisetto beffardo verso Newt, che si limitò ad annuire e si voltò verso di me.
«Nulla di più semplice, lo dice la parola stessa. “Macello”», fece un cenno con la testa verso il recinto alle mie spalle.
Gonfiai le guance, girandomi a guardare gli animali. Mi chinai a guardare un vitellino, sorridendo. Lo trovavo dolcissimo, anche se il recinto puzzava da morire.
«Fagio, non far incazzare Winston mentre noi non ci siamo. Fa tutto ciò che ti dice di fare, va bene? Non fare la femminuccia piagnucolona.»
«Va bene capo», borbottai, accarezzando il vitellino che si tirava via intimorito.
«Rispetta le regole», disse Alby, indicandomi.
«Certo. Le regole che io non conosco perché tu, leader dei miei stivali, hai dimenticato di dirmi», pensai, facendo ruotare gli occhi.
Newt rimase immobile, mentre Alby cominciò ad andare via. Non sembrava molto intenzionato a andarsene.
«Newt!», gli gridò Alby, e lui sbuffò, avvicinandosi a me e chinandosi alla mia altezza.
«Tornerò tra un ora, anche se quel puzzone di Alby vuole lasciarti qui un giorno intero. Scommetto tutto ciò che vuoi che non sopporterai questo posto per più di trenta minuti», mi diede una pacca sulla spalla.
Mi limitai a rivolgergli uno sguardo di consenso mentre lo guardavo andare via con Alby.
Winston era vicino a me, mentre continuavo ad accarezzare il vitellino, che finalmente non cercava più di fuggire.
«Quanto è carino», dissi con un sorriso stampato in faccia
«Chi? Il vitellino o Newt?», ridacchiò Winston.
Lo guardai con la coda dell'occhio, «... Il vitellino».
«Oh, beh, lo troverai ancora più carino quando Frypan l'avrà cucinato», ridacchiò ancora, e stavolta nella sua risata risuonò un non so che di crudele. Un tono forzato che sicuramente era volontario.
«Sei crudele, Winston!»
«Muoviti Fagio, e vieni a darmi una mano a macellare queste bestie!»

Newt aveva ragione. Volevo fuggire da quel posto, quel ruolo non faceva assolutamente per me.
Chuck ogni tanto si affacciava nella stanza, e quando mi vedeva rannicchiata in un angolino, scoppiava a ridere.
Cercai di non darci peso, anche se mi sentivo un po'... fuori posto.
Non sapevo quanto tempo fosse passato, ma fui contenta di vedere Newt appena arrivò, quindi diedi per scontato che la mia terribile ora di lavoro fosse terminata.
«Ehi Newt, sei venuto a controllare la tua Fagiolina?»

Newt lo lasciò perdere, avvicinandosi a me, «Andiamo Fagio, ti porto via da qui».
Non me lo lasciai ripetere una volta di più.
Mi levai lo stupido grembiule colmo di sangue che mi aveva dato Winston e i guanti altrettanto sporchi, li appesi ad un chiodo e seguii Newt, che mi portò da Frypan.
Sollevai un sopracciglio, girandomi verso il biondo.
«Solo perché sono una ragazza dai per scontato che il mio ruolo sia in cucina?»
«Possibile», rispose lui, senza voltarsi verso di me e fermandosi davanti alla porta della cucina.
«Fagio? Che ci fai qui?», mi voltai ed Alby era dietro di me, con le braccia incrociate, «Non dovresti essere da Winston?».
«L'ho portata via io. Come pensavo, quel luogo non è adatto a lei», rispose Newt, «Qui andrà meglio, ne sono sicuro».
Frypan si sporse dall'enorme tavolo al centro della sala, guardando i due Radurai mentre discutevano.
Mi fece cenno di avvicinarmi, e non esitai nemmeno per un istante.
Anche se ero io il motivo per cui discutevano, preferii restarne fuori.
«Vuoi provare ad aiutarmi in cucina, Fagiolina?», sussurrò Frypan, sperando di non interrompere i due leader.
Annuii, e Frypan mi passò un coltello.
«Bene così. Vieni, aiutami a preparare il pranzo per tutti questi pive.»
Dopo diversi minuti, i due smisero di discutere e si sedettero al tavolo, osservandomi mentre aiutavo Frypan.
Facevo tutto quello che mi diceva di fare, ed effettivamente mi riusciva tutto molto bene.
Forse avevo davvero trovato il mio posto.
Il pranzo non fu niente di eclatante. Una semplice zuppa, ma ci avevamo messo secoli a preparare quelle dosi enormi.
Andammo a servirle, e Chuck aveva ragione: quando arrivò il suo turno, Frypan ne mise di meno rispetto agli altri Radurai.
La sua espressione da cucciolo afflitto mi diede un colpo al cuore, così decisi di tenerne un po' da parte, così da dargliela più avanti, sperando che nessuno mi vedesse.

Mangiarono tutti e la stanza della mensa risuonava di espressioni volgari e diversi... diciamo, modi di apprezzamento. Complimenti e rutti, ecco.
Uscii dalla cucina, mi sentivo distrutta e sapevo che a breve sarei dovuta tornare per cominciare a preparare la cena, ma visto che tecnicamente non avevo ancora un vero e proprio ruolo, decisi di andare in giro per la Radura a vedere se qualcun altro avesse bisogno di una mano.
Gally mi raggiunse a grandi falcate, legandomi un braccio attorno alle spalle, «La Fagiolina ha trovato il suo posto?».
Diedi uno scossone di spalle, sperando di liberarmi del suo braccio, ma invece lo teneva ben saldo attorno ad esse.
«Sto cominciando ad odiare quando mi chiamate così...», borbottai, continuando a dimenarmi per liberarmi.
«Oh, ma tu non hai un nome, giusto?»
«Solo perché non me lo ricordo non significa che potete chiamarmi “Fagiolina” per tutto il tempo.»
«Ma è quello che sei. Sei una nuova arrivata, quindi sei una Fagiolina. Accettalo, come l'abbiamo accettato tutti prima di te. Comunque, hai trovato il tuo bel posticino in cucina con Frypan?»
Mi fermai e lui andò avanti, fermandosi davanti a me. Finalmente non avevo più il suo braccio attorno alle spalle e per me fu un grosso sollievo.
«Può darsi... Pive.»
«È il posto dove di norma stanno le femmine, no?»
Sollevai un sopracciglio. Battuta sessista di pessimo gusto.
«Ma a me piace stare in cucina. Sai, ci sono i coltelli.» Sentii ridacchiare dietro di me.
Gally serrò le labbra e notai che la sua faccia si era fatta paonazza, girò i tacchi e andò via.
Mi sentii quasi in colpa. Quasi. Non abbastanza da farmi pentire di avergli risposto così.
Girovagai per la Radura in cerca di Alby. Lo trovai seduto su un masso sotto un albero, mentre guardava le persone davanti a lui che raccoglievano le verdure da un campo coltivato.
Mi appoggiai all'albero, cercando di fare silenzio per non disturbarlo.
«Cosa c'è Fagiolina?», domandò, girando leggermente la testa verso di me
«Nulla, volevo sapere le regole. Prima, quando eravamo da Winston, hai detto “segui le regole” ma... non so se ricordi, ma non ne hai parlato fino a quel momento.»
Corrugò la fronte, «Non te le ho dette?», sembrava a disagio. Scossi la testa.
«Caspio... scusa. Sono il leader da poco, seguire tutte queste facce del caspio è un lavoraccio», borbottò, poi si mise in piedi.
«Sono semplici e poche, ma bastano. La prima, fai la tua parte. Ognuno di noi fa la propria mansione ogni caspio di giorno. Rende la vita qui un po' meno infernale, ti occupa la giornata e non ti fa pensare a quanto effettivamente questo posto faccia schifo.
La seconda, non attaccare mai un altro Raduraio. C'è bisogno di fiducia reciproca tra noi, anche se qualcuno lo odi a morte. Se dovessimo litigare tra noi, sarebbe la fine.
E l'ultima, ma non per questo è la meno importante. Non oltrepassare mai quelle mura», disse, indicando le enormi mura davanti a noi, «Solo, e ripeto, solo i Velocisti possono uscire di lì. Loro sanno quanto è rischioso e sanno cosa aspettarsi», poggiò una mano sulla mia spalla (ma che avevano di così affascinante le mie spalle?) e la strinse, «e poi sei una femmina. Non ci fai nulla lì fuori, credimi».
«Che due scatole con questa storia che sono una femmina!»
Alby mi rivolse uno sguardo gelido. «È quello che sei, Fagio. Ed è anche molto, molto strano, okay? Molti di noi – me compreso – devono ancora metabolizzare la cosa. In due anni che sono qui, non ho mai visto una Fagiolina. Neanche Newt, né Minho, né qualsiasi altro pive. La prima.››
Non avevo voglia di farlo arrabbiare, perché sapevo quanto per lui la cosa fosse effettivamente fuori luogo. Abbassai la testa, annuendo e basta. Era l'unica cosa che potessi effettivamente fare.
«Vedi di non far incazzare nessuno», concluse, «sarebbe un peccato se fossimo costretti ad esiliarti. Solo perché sei una ragazza, non aspettarti di essere trattata come una principessa. Sei una di noi, adesso. Okay Fagio?».
«Okay.»

«Alby ti ha dato una bella strigliata, eh?», ridacchiò Chuck, mentre trascinava di peso un sacco pieno di “ciò che non volevo veramente sapere” (così l'aveva definito).
«Già, dannazione», borbottai, mentre tenevo in mano il vassoio di cibo che gli avevo conservato.
Poco prima ero stata in cucina, avevo riscaldato il cibo ed ero andata a cercare Chuck.
Aprì la porta di una capanna e lanciò il sacco, che fece un rumore sordo e viscido come se ci avesse buttato dentro il fango denso.
Acchiappò il vassoio e cominciò a mangiare il cibo, emettendo versi di apprezzamento soffocati.
«Ti è andata bene, Fagio!», disse con la bocca piena, rischiando di sbrodolare ovunque.
«Tutto sommato, sì», guardai il terreno, «ma non ho mai preteso di essere trattata come una principessa. Figurati, non ci avevo nemmeno pensato. Speravo solamente che la smettessero di etichettarmi come “La femmina”. Insomma... è fastidioso!»
«Ma è anche ciò che sei! Ehi, andiamo a vedere i Velocisti che tornano? Tra poco è l'ora della chiusura delle Porte, e non sono ancora tornati tutti. Forse facciamo in tempo!»
Annuii, tanto mancava ancora un po' prima di dover tornare in cucina.
Camminammo senza troppa fretta verso le mura occidentali, ci sedemmo e aspettammo.
Pochi attimi dopo, tornò un gruppo di quattro ragazzi, tutti accaldati e accalcati, come se si stessero tenendo in piedi a vicenda.
Rallentarono lentamente, si piegarono sulle ginocchia per riprendere fiato, poi corsero verso un piccolo capanno, mentre le Porte alle loro spalle cominciavano a chiudersi.
Corrugai la fronte, voltandomi verso Chuck che continuava a gustare le ultime gocce del suo pasto.
«Dove vanno ora?»
«Nella Stanza delle Mappe», rispose, poi alzò il volto, «È buona questa roba!».
Risi, «Grazie. La Stanza delle Mappe è dove... beh... mappano?».
«Perspicace. Sì comunque.»
«Fagio, dovresti già essere in cucina.»
Mi voltai sentendo una mano sulla mia spalla. Non avevo bisogno di voltarmi per sapere che era Newt. «Puoi dire a Frypan di preparare qualcosa di un po' più sostanzioso? I Velocisti sono così affamati che non mi stupirei se cominciassero a mangiarsi le loro gambette da pollo dopato. Deve essere successo qualcosa, e devo chiedere a Minho perché diavolo ultimamente stanno rientrando così tardi da quel caspio di Labirinto.»
«Sì, ora vado.»
«Bene così.» Stava per andare via, ma scattai in piedi e mi affrettai a raggiungerlo, piazzandomi davanti a lui.
«Newt?»
Sembrò sorpreso, e si fermò di colpo per non arrivarmi contro, «Sì?».
«Dopo cena possiamo parlare? Da soli, intendo.»
«Uhuhuh!», questo era Chuck, che aveva la faccia incollata al piatto e ne leccava il fondo come un cane abbandonato che assaporava il primo pasto dopo mesi.
Newt gli rivolse un occhiata che era un misto tra “chiudi quella bocca” e uno sguardo disgustato da quella scena, poi tornò a guardarmi, «Va bene. Ma prima andremo da Minho».
«Non so nemmeno chi è, Minho...»
«Bene, vorrà dire che sta sera lo conoscerai.»

Una volta che tutti i Radurai ebbero finito di mangiare, Newt entrò nella cucina, mentre Frypan stava pulendo per terra in modo più che perfetto.
Era dannatamente pignolo per la sua cucina e tutto doveva essere al suo posto in modo preciso e ordinato, cosa che mi faceva ridere.
Ero seduta al tavolo dove io e gli altri addetti alla cucina mangiavamo una volta finito il nostro compito, e con un altro ragazzo stavamo finendo di mangiare indisturbati, anche se Frypan muoveva tutti gli oggetti attorno a noi, minacciandoci che se avesse visto anche solo un “caspio” di pezzo di carne a terra o comunque qualcosa che potesse corrompere lo splendore del suo amato pavimento, ce l'avrebbe fatto pulire con la lingua.
Newt acchiappò uno sgabello e lo portò accanto a me, aspettando che finissi di mangiare. Incrociò le braccia sul tavolo e ci poggiò il mento sopra, fissando la parete davanti a noi.
Il ragazzo accanto a me finì velocemente la sua razione di carne, si alzò e mise a lavare il piatto.
«Domani sarai di nuovo qui con noi, Fagio?» domandò, rivolgendomi lo sguardo.
Guardai Newt, come per chiedergli cosa dovessi rispondere, e lui scosse le spalle.
«Credo di sì», risposi, sorridendo in modo anche troppo spavaldo per i miei gusti.
Il sorriso venne ricambiato, «Lo spero! C'è proprio bisogno di una mano femminile, qui in cucina. Te la cavi piuttosto bene».
«Lo spero anche io! E comunque, anche tu non sei male.»
Sentii un sospiro pesante alle mie spalle. «Muoviti a finire, Fagiolina», borbottò Newt, nascondendo il volto contro le braccia.
«A domani, Fagio», disse il ragazzo, uscendo dalla stanza, «Ciao Newt!».
«Ciao Justin», mugugnò Newt, strofinando il viso contro le braccia.
Tagliai un pezzo di carne dalla mia bistecca, poi diedi un colpetto a Newt sulle spalle, cercando di catturare la sua attenzione, ma l'unica cosa che ottenni in risposta fu un “mh”.
«Ehi... Pive, alza la testa.»
«“Pive”? Fagiolina, stai crescendo in fretta!» Sollevò il volto, facendo un sorrisetto beffardo e voltandosi verso di me, «Che vuoi?».
Puntai la forchetta sul pezzo di carne appena tagliato e la sollevai, «Mancano solo questo pezzo e un altro. Di’ “A”.»
Arricciò il naso, «Non ho fame».
«E dai! Non ho voglia di mangiarla da sola.»
«Ma sono solo due pezzi! Non ti esploderà lo stomaco se li mangi da sola!»
«Se stiamo qui a discutere Minho andrà a dormire e dovremo rimandare tutto a domani, no?»
Fissò il pezzo di carne e sospirò, «Hai ragione».
«Avanti. Di’ “A”.»
«… Perché mi vuoi imboccare?»
Feci spallucce, «Perché questa è la mia forchetta. Ora taci e apri la bocca, facciamo così, limitati a quello e non dire “A”.»
Sollevò un sopracciglio, rassegnandosi e aprendo la bocca. Avvicinai la forchetta, delicatamente, come si fa con i bambini, e la ritrassi appena chiuse le labbra attorno alla punta e prese il pezzo di carne.
A quel punto, presi l'ultimo pezzo di carne rimasto sul piatto e lo portai alla mia bocca con la forchetta, mangiandolo.
Una volta ingoiato il suo boccone, si alzò dallo sgabello e si avviò alla porta, aspettandomi.
«Muoviti Fagio, o Minho andrà a dormire. Con un po' di fortuna è ancora fuori dal Casolare.»
Ingoiai il mio boccone, balzando giù dallo sgabello e raggiungendolo.

Facemmo una mini corsetta fino al Casolare e vidi un ragazzo dai tratti orientali che era poggiato al muro e guardava nella nostra direzione.
«Minho!», gridò Newt.
«Newt!», rispose Minho. Trovai la cosa strana, ma cercai di fare finta di niente.
Arrivati davanti a lui, si poggiò le mani sui fianchi, «Dannazione, ce ne avete messo di tempo! Avete lucidato ogni singolo angolo della cucina di quel puzzone di Frypan?».
«No, miss “sono una Fagiolina e mangio lenta” se l'è presa comoda.»
«Ehi!» Corrugai la fronte.
«Comunque, Minho, lei è... Fagio. Fagio, lui è Minho, l'Intendente dei Velocisti.»
«Io sono Minho. Quello figo. Il più figo della Radura.»
Ebbi come una strana sensazione allo stomaco, mentre il ragazzo davanti a me, Minho, mi porgeva la mano. Gliela presi, ma non sentii nemmeno cosa mi disse.
Sentii che qualcosa mi rimbombava nella mente.
«Elizabeth», risposi automaticamente. «Io sono Elizabeth.»

 

{Angolo dell'autrice}
Salve a tutti, sono tornata con un nuovo capitolo!
Come vedete sto cercando di essere il più veloce possibile con le pubblicazioni, ma non è così semplice, non ho sempre tempo per scrivere. Fortuna che mi sono portata un po' avanti con i capitoli. Sto aumentando lentamente i dettagli, facedo lentamente scoprire al nuovo personaggio diverse cose riguardanti la radura.
Comunque, non ho molto da dirvi, tranne che spero che continuiate a leggere! Come ho detto la prima volta, se avete qualche suggerimento, fatemelo sapere!



 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***




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«Porco caspio, te lo sei ricordata così di botto?», esclamò Minho, sorprendendomi con quella reazione, mentre Newt si limitò a sgranare gli occhi.
Abbassai lo sguardo e arrossii, annuendo, «A quanto pare», mormorai.
«Beh, Eli, è stato un piacere conoscerti. Ma ora io e Newt dovremo parlare di cosa sta succedendo lì nel Labirinto.»
«Aspetta... Tu sapevi già che dovevate parlarvi e... E quindi ci stavi aspettando? Dannazione, Newt! Potevi anche dirmelo!»
Lui si girò e scosse le spalle, «Credevo l'avessi capito da sola, scusa Fagio».
Minho fece per portare via Newt, lontano da me.
«Ehi, no, un secondo. Non possono lasciarmi qui da sola!», pensai e feci per seguirli, ma Minho si girò e mi guardò come se fossi stata un'infiltrata. Mi fulminò con lo sguardo e per un attimo pensai che stessi per prendere fuoco.
«Questa è una conversazione privata, Fagiolina.»
«Ma... Io...», cercai sostegno nello sguardo di Newt, che scosse la testa.
Perché non potevo sentire cosa si stavano dicendo? Lo trovai un po'... Non so come definirlo. Forse scoraggiante.
Feci un respiro profondo, sedendomi a terra, «Va bene, ti aspetterò qui», mormorai. Newt annuì.
«Bene così», rispose Minho, tornando ad allontanarsi con Newt.
Rimasi lì diversi minuti, ma mi sembrava di aspettare da più di un ora.
Ma almeno ebbi il tempo di pensare.
Elizabeth. Finalmente ricordavo il mio nome, e pensai che non mi dispiaceva dopo tutto.
Ma ancora non riuscivo a sentirmi... tranquilla.
Pensai che quello forse potesse essere un primo passo per recuperare la memoria.
Magari col tempo avrei ricordato anche la mia famiglia, la mia vita. La mia casa.
Qualcosa del mio passato, insomma.
Quanti anni avevo? Quella era un domanda a cui proprio non sapevo rispondere.
Mi sdraiai sul terreno, facendo un respiro profondo e guardando il cielo.
Non volevo fare la nostalgica, ma... niente ma. Non volevo e basta.
Chiusi gli occhi e cominciai a pensare al fatto che ero lì solo da un giorno, che forse era normale non essermi ancora adattata.
Dopo tutto, ero anche solo l'unica ragazza nella Radura. Ma perché ero lì? Perché mi avevano spedita tra una marea di ragazzi? A quale scopo? Perché non avevo ricordo di nulla?
Mille domande e nemmeno una risposta. La cosa era tremendamente frustrante.
«Fagio? Ti stai addormentando qui fuori?» Riaprii gli occhi, vedendo Newt in piedi davanti a me.
Scossi la testa e mi misi seduta, notando che Newt fece lo stesso, esattamente accanto a me.
«Di cosa stavate parlando tu e Minho? E dov'è lui adesso?»
«Sta andando nel Casolare, è esattamente dietro di te. È andato dritto, mentre io mi sono fermato.
Te l'ho detto, gli ho chiesto perché caspio stanno tornando così tardi ultimamente.»
Mi voltai ed effettivamente vidi Minho allontanarsi, avviandosi verso il casolare facendo una corsetta lenta.
«Meno male che ti sei ricordato di me», mormorai, girandomi verso di lui.
«Hai detto che volevi parlare con me, no?», sorrise con disinvoltura. La luce della fiaccola non troppo distante da noi gli illuminava solo metà volto.
Sorrisi a mia volta, annuendo, «Sì, esatto».
«Spara, avanti. Cosa vuoi dirmi?»
«Volevo sapere... Cosa c'è nel Labirinto?»
Il suo sorriso si spense lentamente, tornando ad un espressione seria. «Fagio, io non sono sicuro che... che tu sia pronta, ecco.»
«Cosa mai potrà esserci di tanto orribile?»
«Qualcosa che va oltre l'orrore, credimi. Va oltre la tua immaginazione, secondo me.» Fece un respiro profondo. Sentii che forse, finalmente, avrebbe risposto alle mia curiosità.
«I Dolenti. Nel Labirinto ci sono i Dolenti. La chiusura delle Porte è un bene, o a quest'ora probabilmente saremo tutti morti.»
Corrugai la fronte, «Cosa sono i Dolenti?».
«Creature orribili e giganti, simili a ragni metallici appiccicosi e rivoltanti, pieni zeppi di vari aggeggi appesi a bracci di metallo. Aggeggi mortali, s'intende. Nulla con cui vorresti mai trovarti faccia a faccia. Se vuoi te ne faccio vedere qualcuno.» Indicò una parente, «In queste pareti si trovano mini finestre che danno sul Labirinto. Sono ben nascoste e – per fortuna – belle spesse».
Sgranai gli occhi, l'idea non mi piaceva per niente. «Ora no, grazie.»
«Meglio, non avevo voglia di alzarmi. Comunque, il Labirinto è veramente pericoloso», fece un respiro profondo, «Per questo non voglio che tu ci vada. Ecco perché ti ho chiesto di promettermelo».
Abbassai lo sguardo, «Cos'altro c'è nel Labirinto, oltre ai Dolenti?».
«Beh… la nostra unica via di fuga. Quella che i Velocisti cercano ogni giorno.»
«Quindi non l'hanno ancora trovata, giusto?»
«Già.»
«Siete sicuri che sia lì?»
«È la nostra unica speranza. Ci aggrappiamo ogni giorno a questa, da due anni che sono qui. Non voglio immaginare di dover passare l'intera vita rinchiuso qui dentro, circondato da delle caspio di mura enormi, impossibili da oltrepassare.» Scosse la testa.
«Nemmeno io voglio. Voglio andare via di qui.»
«Lo vogliamo tutti, credimi. Ci riusciremo. Tutti insieme, vedrai. Te lo prometto.»
Sollevai lo sguardo, incrociando il suo. «Com'è il Labirinto?»
«Nulla di troppo speciale. Mura e mura. I muri sono ricoperti di edera, la strada è fatta di pietra e... beh... ogni tanto si vede qualche Dolente, ma di norma escono di notte. E se si fa attenzione si può vedere di tanto in tanto qualche cartello con scritto “Catastrofe Attiva Totalmente: Test Indicizzato Violenza Ospiti”. Oh, e le mura cambiano posizione ogni notte.»
«“Catastrofe Attiva Totalmente: Test Indicizzato Violenza Ospiti”? Cosa significa?»
«Nessuno lo sa, ma in verità a nessuno importa poi granché.»
«Come fai a sapere tutte queste cose sul Labirinto?», inclinai la testa, «Ci sei stato anche se non sei un Velocista? O magari lo eri?».
Si rabbuiò, abbassando lo sguardo, «Non ne voglio parlare», si toccò le caviglie. Spostò una mano, ma tenne l'altra ben stretta attorno ad una delle due. «Non mi piace tirar fuori quell'argomento.»
«Oh... scusa.»
«Non fa niente», mormorò con un tono un po' spento, poi scosse la testa e si girò verso di me, «Ti basti sapere che a nessuno piace stare qui, credimi. Lo odiamo tutti. Abbiamo perso un sacco di Radurai nei vari tentativi di fuggire da questo posto. C'è chi ha provato a star fuori nel Labirinto anche di notte, ma... Nessuno, e ripeto, nessuno è mai riuscito a sopravvivere anche una sola notte lì fuori». Si sdraiò sul terreno.
«E questo adesso cosa c'entra?»
Rimase in silenzio, limitandosi a fare un respiro profondo, poi schioccò la lingua, «Più avanti, forse, te lo spiegherò meglio». Fissò il cielo, girando lo sguardo verso di me e riportandolo pochi attimi dopo verso l'alto, «Ma c'entra sicuramente col fatto che non voglio che tu vada nel Labirinto».
«Pft. E se volessi tentare?»
«Non te lo permetterei.»
«E se ormai fossi nel Labirinto?»
«Allora verrei con te», fece una breve pausa, «Ti ho promesso che ti proteggerò, ed è ciò che farei se finissi nel Labirinto. Farei in modo di riportarti indietro sana e salva. Non voglio dovermi ricordare di te come un'altra Facciamorta e pentirmi di non aver nemmeno tentato di fermarti».
Rimasi in silenzio. Mi aveva completamente spiazzata con quella risposta.
Avevo scherzato dicendo quelle cose. Avevo voluto provocarlo un po' per vedere cosa avrebbe detto, ma non mi sarei aspettata tanta serietà nelle sue parole.
La sua espressione rimase seria tutto il tempo, anche se nel suo sguardo cominciavano a comparire tracce di stanchezza.
«Perché vuoi proteggermi?», spezzai il silenzio che si era creato all'improvviso.
«Perché...», fissò il cielo ancora un po', facendo un respiro profondo, come se stesse pensando a cosa rispondere. «Perché sin dal primo momento in cui ti abbiamo vista nella Scatola, in cui ti ho vista nella Scatola, abbiamo pensato che se tu se qui, evidentemente sei speciale. Io ho pensato che tu fossi speciale.»
«Quindi è stato un ordine di Alby quello di proteggermi?»
«No», si girò verso di me, «Né Alby né nessun altro sa di questa cosa. Sono io che voglio farlo».
«Perché? Insomma... Non te lo fa fare nessuno...»
Scosse le spalle, accennando un sorrisetto, ma non rispondendo veramente.
«E perché mi hai chiesto di fidarmi di te?», domandai di nuovo
«Perché... Non lo so. Sentivo semplicemente che volevo che ti fidassi di me. E sono contento che tu lo faccia.»
«Anche io.» Strinsi le ginocchia contro il petto, «Sei l'unica persona di cui sento di potermi fidare completamente.»
«Bene così.» Si alzò, stiracchiandosi, «Forse è il caso che entriamo nel Casolare, anche se probabilmente stanotte sarà pieno».
Alzai lo sguardo, annuendo. Cominciavo ad avere freddo lì fuori, e non avevo intenzione di congelarmi.

Entrammo nel Casolare, scavalcando un sacco di ragazzi che si erano sistemati praticamente davanti alla porta.
Quella sera erano veramente poche le persone che avevano deciso di dormire fuori, quindi, Newt aveva ragione. Forse il Casolare oggi era davvero pieno.
Recuperammo i nostri sacchi a pelo dagli scomparti e salimmo al piano superiore nella speranza di trovare anche un solo posticino libero.
Dopo diversi minuti di ricerca, trovai un angolino minuscolo tra due ragazzi. Almeno non avrei avuto freddo, questo era sicuro.
C'era un letto in quella stanza, ma era occupato.
Newt sembrò non curarsene e si avvicinò al letto a grandi falcate, schivando tutti i Radurai ammassati.
Si fermò davanti al letto. «Ehi, alza le chiappe dal letto», disse, picchiettando sulla spalla del Raduraio addormentato.
Questo emise un grugnito, alzando lo sguardo completamente assonnato, «Cosa?».
«Hai capito benissimo. Alza le chiappe dal letto, stanotte voglio dormirci io.»
In tutta risposta, Newt ricevette un grugnito contrariato alla cosa, e il Raduraio si girò sul letto, tornando a dormire.
Newt tirò su col naso, scrollando le spalle, «Okay». Gli prese un piede e cominciò a trascinarlo giù finché non lo fece cadere a terra... A dire il vero, su un povero Raduraio che non c'entrava nulla ma che – miracolosamente – non si svegliò, cosa che invece fece il ragazzo che pochi attimi prima stava sul letto.
Si massaggiò la testa e si mise in piedi, «Si può sapere perché l'hai fatto? Qual è il tuo problema?!», sbottò, cercando di tenere un tono basso.
«Ti ho detto che sta notte voglio dormirci io sul letto, George! Sturati le orecchie con uno degli sturalavandini di Frypan se di colpo sei diventato sordo!»
Il Raduraio, George, si girò verso di me, come se avesse voluto incolparmi di qualcosa. Istintivamente abbassai lo sguardo, stendendo il sacco a pelo nel punto dove avrei dovuto passare la notte, mi levai le scarpe e mi infilai dentro, voltando le spalle alla scena del litigio e sperando solo che finisse in fretta.
«Okay. Ma solo per sta notte», borbottò George.
«Si vedrà», rispose Newt, poi si sentii un rumore di molle che si piegavano, quindi supposi che si era coricato sul letto, mentre George lasciava la stanza facendo un caos allucinante con i passi.

Passarono un paio di ore, ma niente sonno. Ero dannatamente sveglia.
Probabilmente anche il russare pesante dei ragazzi accanto a me contribuiva alla mia insonnia.
Mi girai e mi rigirai nel sacco a pelo più e più volte, ottenendo solo un forte mal di schiena ed uno stress assurdo per via della mancanza di sonno.
Volevo disperatamente dormire, ma era come se tutto me lo impedisse.
«Maledizione!», sussurrai frustrata, passandomi le mani lungo il volto.
«Sei ancora sveglia?», mugugnò Newt da sopra il letto.
Mi sentii in colpa al pensiero che forse ero stata io a svegliarlo.
«Già», sussurrai nuovamente, cercando di affondare nel sacco a pelo assieme ai miei sensi di colpa.
Newt si girò, sbadigliando e cacciando a terra un lembo della coperta. «Vieni qui, Fagio», mormorò con la voce impastata, poi fece uno sbadiglio.
«Eh? Vuole che vada a dormire con lui?», pensai. Mi guardai attorno sperando che nessuno dei Radurai si fosse svegliato. Mi sembrava un po'… imbarazzante.
«Sei sicuro?», mormorai, torturando il bordo del mio sacco a pelo.
«Mh-mh.»
«O-okay.» Mi alzai lentamente, uscendo fuori dal sacco a pelo e tirandomelo dietro, avvicinandomi al letto.
Posizionai il sacco a pelo accanto a Newt, avvolto nella coperta. «Come faccio, entro nel sacco a pelo?»
Scosse la testa. «Aprilo e mettilo sopra la coperta come ho fatto io, ci scalderà di più.»
Mi infilai nel letto, cercando di occupare uno spazio minimo per non disturbare il suo sonno.
Si sollevò su un gomito, andando un po' indietro per farmi più spazio, poi tornò a sdraiarsi e legò un braccio attorno al mio busto. «Alza un po' la testa», sussurrò.
Deglutii, facendo ciò che mi disse, e sentii il suo gomito passare sotto la mia testa.

«Puoi poggiarla di nuovo.»
Lo feci, arrossendo leggermente quando capii di avere la testa poggiata sul suo bicipite. Mi domandai se gli pesassi, ma non sembrò nemmeno farci caso.
Mi strinse a lui... e a quel punto dovevo essere arrossita come uno di quei peperoni che Frypan teneva in frigorifero.
Sentii il suo braccio scivolarmi attorno alla vita, stringendomi di nuovo a lui, poi fece un respiro profondo.
Cominciai a chiedermi se Newt fosse sveglio o meno, e se sapesse che mi stava stringendo a lui in quel modo.
«Non che la cosa mi dispiaccia...», pensai, scuotendo leggermente la testa poco dopo per riprendermi. Però il dubbio effettivamente mi rimaneva e, se pochi attimi prima era sveglio, ormai era in procinto di addormentarsi di nuovo.
«Newt?», sussurrai. Volevo vedere se era sveglio o meno. E il modo meno invasivo per scoprirlo era... Una domanda. Ammisi a me stessa che ero una rompiscatole.
«Mh?»
«Noi siamo amici, vero?»
Lo sentii soffocare una risatina in gola. Che domanda idiota che era. «Certo Fagiolina.»
«Mi chiamo Elizabeth», borbottai.
«Scusa Liz», mormorò con la voce chiaramente impastata dal sonno, poggiando il mento dietro il mio collo.
Sentivo il suo respiro sfiorarmi la nuca e, al contrario di come credevo, non trovai per niente la cosa fastidiosa. Tutt'altro, mi rilassò.

La mattina dopo mi svegliai riposata come non mai. Comoda. Quasi non volevo più lasciare il letto che, in tutta onestà, sotto la luce del sole che entrava dalla finestra sporca del Casolare sembrava tutto meno che invitante.
Feci per stiracchiarmi, ma appena mossi un braccio sentii un mugolio contrariato accanto a me.
«Giusto,c'è Newt vicino a me», pensai, arrossendo leggermente.
Con una veloce occhiata in giro, notai che erano ancora tutti addormentati.
Mi ero svegliata per prima.
«Cosa ci fai già sveglia?», mormorò Newt alle mie spalle, la voce ancora impastata come la notte precedente, e il suo respiro leggero sul mio collo.
«Non lo so», sussurrai, abbassando lo sguardo sul suo braccio ancora legato attorno alla mia vita.
«Torna a dormire Fagi-Liz.»
«No, Newt, ne approfitto per poter fare la doccia», sussurrai, voltandomi completamente verso di lui, sperando di non svegliarlo completamente. Speranza infranta pochi attimi dopo.
Aprì lentamente gli occhi, e vidi che era ancora chiaro il velo del sonno.
Provai un leggero senso di colpa e non riuscii a reggere il suo sguardo, così abbassai il volto, «Scusa, non volevo svegliarti... per la seconda volta», mormorai imbarazzata.
Scosse la testa, «Mi sarei dovuto svegliare in ogni caso fra un oretta. Comunque hai ragione», sbadigliò, «Vai a fare la doccia ora, almeno nessuno di questi pive ingenui verrà a spiarti, visto che stanno tutti dormendo».
Mi alzai e presi il sacco a pelo, chiudendolo e piegandolo. «Tutti tranne te.»
Schioccò la lingua contro il palato, «Non è nei miei impegni principali quello di guardarti sotto la doccia», borbottò. «E comunque non sono così malato. Ora muoviti Liz, gli Intendenti si svegliano sempre prima degli altri e non manca molto. Non credo che ti farebbe piacere se qualcuno di loro entrasse nelle docce mentre ti stai lavando.»
«Agli ordini capo», sospirai.
Scesi le scale cercando di evitare nuovamente tutti i Radurai e misi il sacco a pelo al suo posto, poi uscii dal Casolare e andai velocemente alle docce.
Dopo aver finito di lavarmi, corsi verso la cucina.
Non trovai nessuno, quindi supposi che Frypan e gli altri stessero ancora dormendo.
Scrollai le spalle, qualcuno doveva pur iniziare a cucinare.
«A Frypan non dovrebbe dar alcun fastidio se inizio a cucinare prima», sussurrai tra me e me e andai a prendere il necessario per preparare la colazione ai Radurai.
Insomma... Anche loro dovranno fare la colazione, no? In caso contrario, beh, io avevo fame.
C'era solo un problema: cosa potevo preparare?
Forse cominciare a cucinare senza Frypan era una pessima idea.
Sbuffai, cominciando a rovistare nei vari mobili. Alla fine presi una bottiglia di latte e la misi a scaldare in un pentolino.
Magari non potevo cucinare per tutti, ma per me stessa sì.
Appena il latte fu caldo, spostai il pentolino e versai il latte in un bicchiere, visto che non trovai nessuna scodella in cucina.
Dovetti versarlo più volte visto che il bicchiere non era esattamente grande.
«Buongiorno Fagiolina! Caspio, da quanto tempo sei qui?», disse Frypan entrando in cucina, chiudendosi la porta alle spalle.
«Mezz'oretta direi», mi passai la lingua sulle labbra per pulirmi dal latte, poi misi il bicchiere a lavare, visto che non erano così tanti i bicchieri di vetro. Radurai utilizzavano perlopiù bicchieri di plastica.
«Dovremo imparare ad essere mattinieri come te», rise, scuotendo la testa e allungandosi a prendere delle altre bottiglie di latte e cominciando a versarle in un pentolone a parte.
«Ma come, tutta qui la colazione?»
«Fagio, non tutti hanno voglia di fare la prima colazione qui», scrollò le spalle, «Giusto quel puzzone di Chuck e qualche altro pive. Fai dei panini per i Velocisti, apprezzeranno sicuramente».
«Okay, sei tu il capo.» Presi diversi panini e cominciai a tagliarli in mezzo per imbottirli con pomodori e verdure. Non sapevo nemmeno se andasse bene.
Li preparai il più in fretta possibile, non volevo che Minho e i suoi si arrabbiassero.
Feci in tempo ad imbottire l'ultimo panino e lo avvolsi velocemente in una pellicola quando entrarono i Velocisti.

Frypan si portò le mani sui fianchi, indicandoli col mestolo, «Spero per voi facce di caspio che prima di mettere i piedi nella mia cucina splendente vi siate puliti quei piedi polverosi!».
«Cucina splendente? Pft, nemmeno fosse fatta d'oro», brontolò un Velocista, girandosi verso di me e facendomi l'occhiolino.
Corrugai la fronte e mi girai verso Frypan,che trattenne una risatina. Sicuramente l'aveva notato.
Minho prese i panini e li distribuì ai Velocisti, poi uscirono dopo averci ringraziato.
Avevano lasciato tracce di terra sul pavimento di legno.
Frypan lanciò le braccia verso l'alto, «Maledetti pive del caspio!». Acchiappò uno straccio e cominciò a pulire il pavimento. Soffocai una risata e mi appoggiai al tavolo.
«Hai acceso il fornello?», domandai.
«Sì Fag-dannazione, spegnilo o il latte si brucerà!»
Mi alzai di corsa e andai a spegnere il fornello, notando che accanto a questo c'erano delle scodelle.
«Ah... Allora le scodelle ci sono...» Scossi la testa, schioccando la lingua e versando del latte al loro interno.
Frypan si alzò e prese le scodelle piene di latte, andando dietro il bancone per cominciarle a passare ai vari Radurai che volevano fare colazione.
Sperai di vedere Newt quando andai ad aiutare Frypan. Invece no. Vidi solo Chuck, Gally ed altri Radurai di cui non avevo la minima idea di quale fosse il loro nome.
A parte George che appena mi vide mi sembrò rabbuiarsi.
«Quindi, Fagiolina, hai fatto breccia nel cuore di un Velocista?», disse Frypan, ridacchiando e passando la scodella a Gally, assieme a qualche biscotto dall'aspetto decisamente poco invitante (erano sicuramente fatti da lui).
«Ti riferisci a prima?», domandai, dando la scodella a Chuck, assieme ai biscotti.
«Sì. Oh, a questo ladruncolo dai meno biscotti. Così impara a rubare dalla mia cucina.»
lo ignorai, facendo cenno a Chuck di andarsene.
«Ha imparato la lezione, ne sono certa. Comunque non so nemmeno chi sia quello. Il Velocista intendo, e onestamente non lo voglio nemmeno sapere.» Passai la scodella all'altro Raduraio, così come fece anche Frypan.
«Perché mai? Sei rimasta abbagliata da me?», mi fece l'occhiolino, ridacchiando. Era chiaro che scherzava.
«Naah», ridacchiai anche io. Capii che Frypan mi stava simpatico, il che era un bene visto che probabilmente avrei dovuto passare il resto dei miei giorni a lavorare con lui.
«Come ti trovi a stare qui da tre giorni?», chiese, passando la scodella a George, che continuava a fissarmi in quel modo abbastanza... duro.
«In tutta onestà... spero davvero che i Velocisti trovino la via di fuga al più presto. Non mi piace non avere memoria di niente.»
«Non piace a nessuno, credimi.» passammo entrambi l'ultima scodella di latte agli ultimi due Radurai e tornammo in cucina, cominciando a pulire il piano cottura e il pentolone nel quale Frypan aveva scaldato il latte.

Era passata più di un ora, ormai i Radurai avevano finito la loro colazione e avevano riportato le loro scodelle. Mentre io e gli altri ragazzi addetti alla cucina cominciammo a lavarle, si sentii un rumore fortissimo provenire da fuori.
Guardai i miei “colleghi” con aria confusa, «Cos'è?».
«La Scatola», rispose Justin, «Spero che siano delle provviste, la Scatola non sale mai più di una volta al mese, quindi è molto probabile visto che quando sei arrivata non ci hanno dato praticamente nulla», disse tranquillamente mentre asciugava una scodella.
Frypan uscì dalla cucina. Decisi di seguirlo.
Appena arrivati vicino alla Scatola, notai che Newt era andata ad aprirla insieme ad Alby.
Gli Intendenti erano tutti lì, sicuramente tutti loro aspettavano le loro provviste.
Come aveva detto Justin, al suo interno c'erano diverse cose.
Uno ad uno, gli Intendenti balzavano dentro e tiravano fuori i vari scatoloni pieni zeppi di cose, mentre Alby e Newt davano loro una mano a portare fuori le varie scatole.
Quando ormai la Scatola fu vuota, Alby corrugò la fronte e acchiappò un foglietto, guardando Newt e facendogli cenno di avvicinarsi. Newt lesse il biglietto, guardò Alby, poi entrambi alzarono lo sguardo verso di me.
Corrugai la fronte, «Cosa c'è?». Alby si arrampicò e uscì dalla scatola, seguito da Newt.
Mi passò il biglietto, restando accanto a me.
Abbassai lo sguardo e lessi.
“C'è stato un errore, per cui sembrerà strano avere una ragazza tra voi. Potrebbe essere divertente. Ma se non volete complicazioni, liberatevene.”
Sentii il sangue gelarsi nelle vene.
Alby alzò lo sguardo verso Newt. Gli lanciò uno sguardo d'intesa.

 

{Angolo della scrittrice}
Finalmente sono riuscita a pubblicare! Miracolo! Voglio ringraziare Callie Vee per la recensione e i consigli che mi ha dato. Ti ringrazio tantissimo!
Seconda cosa, proverò a far uscire il capitolo entro la settimana prossima, sperando che riesco a terminare prima il capitolo del libro che sto scrivendo. Ho deciso di rimettermi in moto un po' con tutto. Ho mille progetti e veramente poco tempo, incrociate le dita per me!
Ho deciso di dare un volto ad Elizabeth.Metterò infatti un immagine di Newt e lei, fatemi sapere cosa ne pensate.
Alla prossima!

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***




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Newt schiuse le labbra osservando attentamente Alby, «No.» Si mise davanti a me, spostandomi per farmi indietreggiare.
Alby sembrò sorpreso da quella risposta, « “No”? Come sarebbe a dire “No”? Hai letto anche tu cosa c'è scritto nel biglietto!».
«Semplice: No. Non me ne frega un caspio del biglietto, Alby. Ha detto che potremo avere delle complicazioni, non che le avremo per certo. E poi come vorresti liberartene scusa? La butti nella Scatola quando non c'è? Giù dalla Scarpata o nel Labirinto di notte?»
Mi si gelò il sangue nelle vene più di quanto già non lo fosse.
Alby mi fissò, sospirando, «Si potrebbe effettivamente...»
«Ti si è rincaspiato il cervello a furia di fare il capo?!», sbottò Newt, «Aspettiamo e vediamo cosa succede. Sono abbastanza sicuro che non cambierà un fico secco».
«Stavo per proporlo io, se solo mi avessi fatto finire», brontolò Alby, tenendo lo sguardo su di me e portandolo poco dopo su Newt, «E se questo fosse collegato col fatto del Labirinto?».
«Sono altrettanto sicuro che i Dolenti non stanno gironzolando prima per colpa sua e tanto meno le Porte si chiudono più velocemente.»
«Lo spero», scosse la testa, «Facciamo finta di nulla. Non diciamo niente a nessuno». Prese il biglietto dalle mie mani e lo accartocciò, andando a buttarlo in un cestino rudimentale.
Mi sentivo confusa, ma allo stesso tempo sollevata dal fatto che Newt mi avesse difesa.
Speravo anche io che avesse ragione, anche se avevo una pessima sensazione allo stomaco.
«Tutto okay?», sussurrò Newt. Mi limitai ad annuire. Temevo che se avessi risposto a voce, il mio tono avrebbe tradito il mio “sì”, lasciando vedere quanto invece fossi dannatamente preoccupata.
«Sei sicura, Liz?»
Fissai i suoi occhi. Un velo di preoccupazione faceva da Re nel suo sguardo.
«Sì», mormorai, «Grazie». Guardai il cestino, sperando che nessuno notasse quella pallina di carta.
«Non preoccuparti, nessuno ti farà nulla.» girai di nuovo lo sguardo verso di lui. «Te lo prometto.»

Le giornate successive passarono senza intoppi. Ormai il mio ritmo quotidiano l'avevo trovato, ma a quanto pareva le Porte continuavano a chiudersi sempre più velocemente e Minho e i suoi avevano capito di dover tornare prima di quanto sperassero.
Era passata una settimana dall'arrivo di quello strano biglietto e nessuno aveva fatto domande, ma sopratutto nessuno l'aveva tirato fuori dal cestino e questa era la cosa più importante.
Newt era diventato super vigile nei miei confronti e al momento gli unici a sapere del biglietto eravamo io, Alby, Newt e Minho che aveva punzecchiato Newt (nel verso senso della parola: aveva rubato una forchetta e l'aveva punzecchiato sul braccio per quasi due ore) per farsi dire il contenuto del bigliettino “misterioso”, ma sapevo di potermi fidare di lui.
George continuava a guardarmi in modo strano ogni volta che mi vedeva, anche se non ne capivo il motivo visto che non gli avevo fatto nulla.
Non lo conoscevo, non ci avevo mai parlato, e onestamente non rientrava nei miei interessi.
Andai da Gally mentre lavorava dietro il Casolare per cambiare alcune travi troppo inclinate per i suoi gusti.
Gli passai dei panini preparati da Frypan, perché quel mezzogiorno lui ed altri Radurai non si erano presentati alla mensa, probabilmente proprio perché stavano ancora cambiando le travi.
Non sapevo che George lavorasse con lui, e onestamente non avrei voluto nemmeno scoprirlo.
Gally prese i panini e mi ringraziò, rivolgendomi un sorrisetto strano.
Non era poi così insopportabile come sembrava, anche se era sempre per le sue.
In quei giorni avevo imparato a conoscerlo, e nonostante il suo caratteraccio, avevo capito che in lui, in fondo, non c'era nulla di male.
Chiacchierando con Frypan, mi aveva spiegato che Gally aveva subito quella che i Radurai chiamavano “la Mutazione”, ovvero, era stato punto da un Dolente e questo gli aveva restituito qualche ricordo. Da allora si comportava in modo un diverso: era più serio e chiuso in sé stesso, e questo lo portava spesso a fare la “testa puzzona” della situazione.

Mi chinai sulle ginocchia per allacciarmi la scarpa e notai che George si era avvicinato a Gally.
Gli disse qualcosa a bassa voce, ma poi lui lo spintonò via, poggiandosi l'indice sulle labbra.
Trovai quel gesto strano, ma poi ci pensai bene, e decisi di ignorarlo.
Sapevo che i Radurai avevano ancora dei segreti tra loro, in fondo ero ancora una Fagiolina, ed ero comunque l'unica ragazza della Radura. Per molti (se non tutti) la cosa era molto strana.

Non avevo visto nessuno di quelli che erano i miei unici amici nella Radura. Era come se tutti si fossero volatilizzati.
Ero appoggiata alla finestra della cucina e osservavo le mura che stavano già cominciando a chiudersi, e in pochi minuti Minho e gli altri attraversarono le Porte del Labirinto e corsero verso la Stanza delle Mappe.
Avrei voluto andare a salutare almeno lui, dato che non sapevo dove fossero gli altri, così mi affrettai ad uscire ma non ebbi nemmeno il tempo di andarmene dalla cucina che qualcuno si affiancò a Minho, e lui cambiò la direzione della sua corsa.
Mi appoggiai alla porta, seguendo Minho con lo sguardo mentre correva via, «Ma cosa...»
«Stanno facendo un’Adunanza tra Intendenti.» Sobbalzai sentendo una voce alle mie spalle.
Mi girai a guardare chi fosse. Justin. Gonfiai le guance e mi rigirai, cercando Minho, ma era sparito.
«Un’Adunanza? E perché mai?».
Justin scosse le spalle. «Probabilmente per le mura. Non saprei, Fagio.»
«Mi chiamo Elizabeth e-»
«O forse per colpa del bigliettino che c'era nella scatola l'ultima volta che sei salita», sbottò George a pochi passi da noi, interrompendo le mie parole. « “C'è stato un errore, per cui sembrerà strano avere una ragazza tra voi. Potrebbe essere divertente. Ma se non volete complicazioni, liberatevene”», pronunciò quelle parole con enfasi, quasi recitandole.
Sbiancai. Come faceva a sapere di quel biglietto?
Come se mi avesse letto nel pensiero, si frugò in tasca, tirando fuori una pallina di carta e aprendola per mostrarmela, «Quando Alby l'ha buttata, sono andato a recuperarla. Ero appoggiato ad un albero e ho visto tutta la scena. Ho recuperato il bigliettino, l'ho letto e caspio, perché sei ancora qui?».
Justin corrugò la fronte, osservando il bigliettino nella mano di George.
Deglutii, facendo un respiro profondo. Non dovevo farmi prendere dal panico.
Il mio sguardo scattava dal volto di Justin a quello di George, nemmeno fosse una molla.
«Io... Non lo so. Il bigliettino non significa nulla.»
«E che ne sai? Non possiamo esserne certi, no? Che caspio stai facendo a questo posto, Fagiolina?»
«Come scusa?» Corrugai la fronte.
«Pensaci un attimo. Il biglietto dice che potremo avere dei problemi, e il Labirinto si chiude prima. Chiunque sano di mente capirebbe che è tutto collegato!»
«Il Labirinto si stava chiudendo già da prima d-»
«Chiudi quella caspio di bocca!» Fece pochi passi, acchiappandomi per il bordo della maglietta.
«Ehi, George, vacci piano!», Justin fece per separarci, ma George lo spinse via.
«Stanne fuori e vattene! È una questione tra me e lei!» Justin ammutolì, diventando rosso, poi si allontanò lentamente.
«Grandioso!», pensai, «poteva anche darmi una mano».
«E poi, cosa sei tu? La protetta degli Intendenti?» Mi spinse a terra con forza, facendomi sbattere la testa a terra. «La protetta di Newt? Perché sei sempre con lui?»
«Cos-»
«Rispondimi!» Era sopra di me. Le mani legate attorno al mio collo che si stringevano lentamente in una presa forte, solida, sembravano tenaglie metalliche.
Avrei voluto rispondergli, ma più provavo a respirare più mi sembrava di sentire i polmoni vuoti.
Ogni respiro sembrava far prendere fuoco alla gola, la mia salivazione era accelerata, la sua presa era sempre più forte sul mio collo. Mi stava facendo malissimo, mi gridava contro cose a me incomprensibili, e uscivano schizzi di saliva dalla sua bocca, ma non sentivo una sola parola di ciò che diceva. L'unica cosa che sentivo era la voglia di liberarmi da quella presa.
Poi due frasi mi giunsero all'udito, forse per la vicinanza della sua bocca al mio volto (il suo alito puzzolente mi dava il voltastomaco): “Dimmi cosa ci fai qui!” e “Vattene via di qui.”.
In quel momento, alzai gli occhi verso i suoi, prima di cominciare a sentire la mia testa farsi leggera. Nei suoi occhi vedevo solo follia. Era accecato dall'odio nei miei confronti, ma perché?
Solo per la storia del letto che Newt gli aveva rubato? A pensarci bene, lui non aveva alcun motivo per odiarmi, perché non avevo fatto assolutamente nulla per provocarlo e non era nemmeno nel mio interesse.
Sentii un urlo. Qualcuno aveva gridato “George!”. Era una voce lontana al mio udito, poi il corpo di George fu scagliato lontano dal mio.
Presi una boccata d'aria così grossa che per un attimo pensai che i miei polmoni sarebbero esplosi da un momento all'altro.
Poggiai le mani sul mio collo, nel punto in cui George aveva stretto fino a pochi attimi prima.
Era bollente.
Mi girai, guardando la scena che avevo davanti.
Newt era chinato su George, colpendolo in faccia e tenendolo bloccato a terra.
Minho mi aiutò ad alzarmi, mentre Alby cercò in ogni modo di staccare Newt da George. Ma Newt puntualmente si liberava dalla sua presa e tornava a colpire George dove capitava.
«Newt! Basta! Così facendo lo ucciderai!», gli gridò Minho, legandosi il mio braccio attorno al suo collo e reggendomi in piedi. Stavo bene in fondo, non avevo bisogno di quel supporto, ma trovai piacevole il pensiero.
Newt sembrò non ascoltare, poi si fermò, fissando George negli occhi. Quest’ultimo aveva il volto gonfio per via dei pugni e gli sanguinava il naso. Newt si chinò di più, gli sussurrò qualcosa, poi si alzò.
Due Radurai aiutarono George ad alzarsi, che si passò il dorso della mano sotto il naso, dal quale usciva ancora del sangue.
Newt guardò Alby in cagnesco mentre quest'ultimo lo rimproverava per aver preso a pugni George, che nel frattempo si avvicinava di nuovo a Newt a grandi falcate, azzerando in poco tempo la breve distanza che c'era tra i due.
Gli picchiettò sulla spalla e, appena Newt si voltò, gli sferrò un pugno contro la guancia.
Newt girò il volto, chiaramente colto di sorpresa, sbatté velocemente le palpebre e spintonò via George e i due ripresero a colpirsi l’un l’altro.
Si schiantarono a terra insieme, prendendosi a pugni a vicenda dove capitava, finché Alby ed altri Radurai non riuscirono a separarli di nuovo.
Ero immobilizzata, i miei piedi erano puntati al suolo e sembravano aver messo radici.
Non riuscivo a spiccicare parola, e solo allora mi resi conto di avere effettivamente bisogno del sostegno di Minho.
Finalmente Alby riuscì a tenere fermo Newt e gli altri portarono via George, che era quello messo peggio. Il suo volto grondava di sangue, mentre invece Newt aveva solo un taglio sullo zigomo.
«Sei pazzo?!», sbraitò Alby, «Sembrava lo volessi morto!»
«Io sarei quello pazzo? Ti si è veramente rincaspiato il cervello?! Stava strozzando Elizabeth!»
Alby si girò, guardandomi, poi fece un respiro profondo, «Ne parliamo tra poco, in privato, Newt». E, detto questo, se ne andò insieme agli altri Radurai, che “scortarono” George verso il Casolare. Sicuramente dai Medicali, e sicuramente erano tutti curiosi di sapere perché si fosse comportato in quel modo. Cosa che effettivamente volevo sapere anche io.
«Bene così, caspio», brontolò Newt, «Puoi anche lasciarla a me, Minho, sto bene».
«Sei sicuro?», Minho corrugò la fronte, ridacchiando sotto i baffi, «Gliele hai suonate di santa ragione a quel pive».
«È stato fortunato che ci fosse Alby, o a quest'ora sarebbe solo un altra Facciamorta. Un Raduraio come lui è molto meglio non averlo.»
Minho abbassò lo sguardo verso di me, spostandomi il braccio, e per un attimo ebbi la sensazione che la terra sotto i miei piedi traballasse, ma riuscii a stabilizzare il mio equilibrio in poco tempo... Aggrappandomi al braccio di Minho.
«Visto, Fagiolina? Fai litigare i Radurai!»
«Ah-ah, molto divertente Minho.» Schioccai la lingua, ma il mio sarcasmo non lo sfiorò minimamente.
«Non prendertela, avanti, George è un tipo molto suscettibile. Se la prende anche se una lumaca va a destra invece che a sinistra! Non è un caso che vada d'accordo con Gally.»
«Oggi George ha sussurrato qualcosa a Gally e lui l'ha cacciato via facendogli cenno di fare silenzio», mi passai la mano sul collo, «ma non so cosa gli ha detto».
«Non importa, sicuramente gli ha detto del biglietto. Ma ormai non è più un segreto, visto che sicuramente il motivo di questa storia girerà più veloce di un Dolente incazzato nero.» Newt sospirò.
Mi avvicinai a lui con un passo traballante, mi sentivo un po' spaesata. Poggiai le mani sulle sue guance, passando il pollice lungo il taglio sullo zigomo mentre lui sollevava lentamente gli occhi verso i miei. Aveva un espressione leggermente stupita, quasi ingenua, come se non avesse mai provato la sensazione di avere delle mani sulle guance.
«Ti fa molto male?», domandai, arrossendo lievemente.
Lui chiuse gli occhi, scuotendo appena la testa, «Non molto».
«Ehi, voi due piccioncini, perché non vi appartate direttamente dietro il Casolare?», ridacchiò Minho, poggiando una mano sulla spalla di Newt.
Sgranai gli occhi, girandomi verso di lui e spostando velocemente le mani dal volto di Newt, mentre lui riapriva gli occhi.
«Il solito inappropriato!», sbottò lui, ridacchiando poco dopo.
«Naaah, sono semplicemente piacevolmente lungimirante», fece l'occhiolino. «E ora mi avvierò al casolare in modo molto teatrale, per fare un uscita ad effetto!» Cominciò a camminare verso il casolare, lentamente, guardandosi alle spalle per spiarci come se si aspettasse che io e Newt cominciassimo a baciarci fino a massacrarci le labbra a vicenda.
Newt sollevò un sopracciglio, facendo le spallucce, «Tu stai bene?».
«Sì, ho solo la sensazione che la terra ogni tanto vada a quel paese, ma sto bene.»
«Mh.» Inclinò la testa, spostandomi i capelli dal collo e fissandolo, «Hai qualche segno per come ti stava stringendo. Non mi piace, onestamente».
«E a me non piace il taglio sul tuo zigomo.»
«E a lui non piacerà la sua faccia di caspio piena zeppa di lividi. Ti ha dato una ragione valida per quello che ha fatto?»
Scossi la testa, «Ha cominciato a dire cose prive di senso, ma è partito col fatto del biglietto. Dice di averlo preso dal cestino quando Alby l'ha buttato.»
«Lo so, Chuck ce l'ha detto quando è venuto a chiamarci.»
«Chuck?»
«Sì, Chuck. Vi ha visti ed è corso da noi, interrompendo l'Adunanza... O meglio, io ho interrotto l'Adunanza correndo in vostra ricerca.» Diede un finto colpo di tosse, «Quel pivellino di Chuck ti vuole proprio bene. Aveva un fiatone assurdo, probabilmente ha rischiato un infarto per la corsa che si è fatto».
Sorrisi all'immagine di Chuck che correva per avvisare Newt. Effettivamente era una cosa buffa.
Anche io volevo molto bene a Chuck, era come un fratellino minore a cui badare. Ultimamente veniva spesso da me, e a volte nel casolare si sdraiava accanto a me.
In fondo, a detta sua, lì dentro ero praticamente l'unica persona che lo trattava bene, ed io volevo assicurarmi che stesse sempre al meglio. Era bello vederlo felice e pimpante.
«Grazie per prima», dissi, spezzando il silenzio che si era creato per via dei miei pensieri.
«Uhm?»
«Per aver allontanato – e quasi ammazzato di botte – George.»
«Te l'avevo detto che ti avrei protetta», rispose tranquillamente, ma nel suo tono spiccava una punta di dolcezza e premura.
Rimanemmo in silenzio per un attimo e mi limitai a guardarlo negli occhi mentre lui, con delicatezza, accarezzava il mio collo.
Scosse velocemente la testa, dandomi una pacca sulla spalla e girandosi verso il Casolare.
«Dai Liz, andiamo a dormire.»

L'indomani l'intera Radura sapeva quello che era successo.
I Radurai mi guardavano con un espressione strana, piena di confusione.
Ogni volta che incontravo qualcuno, partivano sussurri tra loro.
Mi sentivo strana, non mi piaceva quella situazione.
Non avevo pace nemmeno in cucina, e per di più non c'era nemmeno Justin.
Non c'era nessuno in cucina a dire il vero, tranne me e Frypan.
Lui mi rivolgeva ancora la parola, dichiarando apertamente che di quello che c'era scritto nel biglietto non gliene fregava un caspio, e che Newt aveva fatto benissimo a gonfiare di botte George, visto che aveva fatto l'idiota.
Mentre pulivamo le poche scodelle della colazione che avevamo distribuito ai Radurai, Chuck si era avvicinato alla porta della cucina per controllare come stavo.
Sembrava ancora più paccioccoso quella mattina, ma probabilmente era dovuto al fatto che, nonostante tutto, mi ero svegliata di buon umore.
Mi controllò il collo da parte a parte, mi sommerse di domande sulla mia salute, poi fuggì via.
«Sei stata fortunata, Eli», disse Frypan
«Lo so.»
«George è dannatamente pazzo! Pft, sarà per la brutta cotta che si è preso.»
Schioccai la lingua, avvicinandomi al lavello e finendo di lavare una scodella, «Che cotta? Per me?».
Frypan rise di gusto, «Ma no Fagio, mica per te! Per Newt! George ha una cotta per Newt sin dal primo momento che ha messo piede nella Radura!»
Okay. Per un attimo sentii la scodella scivolarmi giù dalle mani.
«Cos…»
«Non ti sei chiesta il perché Justin non c'è sta mattina? Probabilmente non è venuto perché ha capito che George è geloso di te, perché passi molto tempo con Newt e lui invece no.»
«Cosa c'entra Justin con George?», sollevai un sopracciglio, ma poi feci due più due era ebbi la risposta ancor prima che Frypan pronunciasse quelle parole.
«Justin e George si frequentano di nascosto. O almeno, loro credono di farlo di nascosto ma in verità lo sa tutta la Radura.»
«Quindi il biglietto era solo una scusa...»
«Diciamo che è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Magari ha visto che Newt non ha voluto prendere provvedimenti e avrà pensato che l'ha fatto solo perché sei tu, quindi si è ingelosito ancora di più.» Scrollò le spalle, «Non lo so Eli». Cominciò a passare lo straccio lungo il ripiano accanto ai fornelli, «So solo che quel pive è tutto matto!»
Annuii. Non potevo non essere più d'accordo.
In fondo che motivo aveva George per essere geloso di me e Newt? Eravamo solo amici, e probabilmente la cosa non sarebbe andata oltre quel rapporto.
Nella Radura non c'era tempo per i sentimentalismi.
Schioccai la lingua, sobbalzando quando sentii un grido provenire dall'esterno.
Non capii bene le parole, ma mi fece accapponare la pelle. E a giudicare dalla faccia stranita di Frypan, anche lui non aveva capito una sola parola.
Comunque, sperammo di capire male.
Ci affacciammo fuori dalla porta, Frypan teneva lo straccio in mano, pulendo anche lo stipite della porta (Dio, che maniaco della pulizia!), ma si fermò appena sentii bene le parole che uscivano dalla bocca Raduraio che gridava davanti alla Porta Orientale del Labirinto.
«George è entrato nel Labirinto! Qualcuno faccia qualcosa! Vi prego!»
Subito si scatenarono dei brusii di sottofondo che invasero la Radura come uno sciame di api e molti ovviamente portarono lo sguardo verso la cucina, dove c'ero io.
Ma io ora non c'entravo nulla!
Frypan mi sussurrò di entrare dentro, che era meglio così, ma ero curiosa quanto gli altri così non lo ascoltai.
Ormai conoscevo le regole della Radura e sapevo che nessuno poteva entrare nel Labirinto, anche se si trattava di dover recuperare un Raduraio che aveva infranto le regole. Tanto peggio per lui.
Infatti nell'arco di qualche minuto, tutti si allontanarono dalle porte del Labirinto.
Tutti, tranne uno. Justin. Si sedette davanti alle porte, fissandole in silenzio.
Nemmeno Alby che gli gridava di alzarsi e tornare a lavoro lo smosse minimamente.
Mi faceva tenerezza, ma non potevo farci nulla.
Probabilmente mi odiava a morte per quello che era successo il giorno prima.

Passarono due ore.
Due persone corsero fuori dal Labirinto urlando.
Ma perché avevano tutti questa mania di urlare?
Tutti i Radurai si voltarono verso la fonte di quelle urla.
Era Ben, e reggeva George che non faceva nemmeno un passo.
Chuck era accanto alle porte e Ben appena lo notò sembrò ringhiargli contro.
«Chuck! Piccola palla di lardo, vai a chiamare dei Medicali invece che stare lì in piedi senza fare niente!»
Chuck sobbalzò, correndo velocemente verso il Casolare.
Mi avvicinai a loro per vedere meglio la scena. Mi sentivo in colpa anche senza aver fatto nulla.
George si accasciò al terreno, aveva degli scossoni lungo tutto il corpo e tossiva leggermente.
Justin si chinò affianco a lui, alzando lo sguardo preoccupato verso di me.
Mi morsi il labbro. Speravo solo che i Medicali arrivassero il più in fretta possibile.
«Che gli è successo?», domandai.
Ben mi guardò come se avessi fatto la domanda più stupida del mondo, «È stato punto. Non ti sembra ovvio, Fagio? Sicuramente non ha incontrato delle farfalline lì dentro!».
«Vabbè, sta’ calmino coso!», pensai, abbassando lo sguardo e schioccando la lingua.
Il corpo di George assumeva un colorito pessimo ad ogni secondo che passava.
Il suo volto era gonfissimo, pieno di lividi, i suoi occhi erano cerchiati di nero, il naso leggermente storto e con un piccolo taglio sul lato destro... Non era messo bene, insomma.
Per fortuna i Medicali non ci misero troppo tempo ad arrivare. Si caricarono George sulle spalle e lo trascinarono nel Casolare.
Justin si rimise in piedi, pulendosi le ginocchia «È andata», mormorò con un tono sconsolato.
«Justin, io...»
«È tutto okay Eli, tutto okay, sta tranquilla. Lo so che non è colpa tua. Ora gli daranno il Dolosiero e lui starà benissimo.»
Corrugai la fronte. Dovevo stare seriamente tranquilla? Dallo sguardo di Justin non si sarebbe detto.
Ma era chiaro che non era rivolto a me, ma alla persona alle mie spalle.
Mi girai, notando che c'erano Alby e Newt dietro di me.
Newt aveva lo zigomo gonfio e il taglio era più evidente, mentre Alby aveva le mani arrossate, gonfie, e le nocche erano piene di tagli microscopici.
Non feci domande, pensando che probabilmente avesse litigato con qualcuno ieri notte dopo tutto il casino di George e del famoso bigliettino.
Newt abbassò lo sguardo, toccandosi lo zigomo e guardandomi con la coda dell'occhio.
«Bel casino», sibilò Alby, guardando Newt che si limitò ad annuire.
«Sarai contento, mi auguro», sbottò Justin, riferendosi a Newt che si poggiò una mano sul mento.
«Io non c'entro, sicuramente non l'ho spinto all'interno del Labirinto. Se si sta comportando in un modo ambiguo, la colpa non è mia, ma sua. Io non voglio averci nulla a che fare.»
«Sai bene perché l'ha fatto.»
Alby assunse un espressione stranita.
«Non voglio averci nulla a che fare con questa storia, Justin. George lo sa bene, ed io non posso farci nulla», rispose Newt, girandosi di spalle ed allontanandosi.
Newt lo sapeva? Ma certo, che domanda stupida. Ovvio che lo sapeva!
Justin si voltò verso di me. I suoi occhi erano lucidi. Avevo voglia abbracciarlo da quanta tenerezza mi faceva. Potevo solo immaginare quanto male gli facesse quella situazione.
«Jus-»
«La sai anche tu questa storia, vero?», domandò. Quella domanda mi spiazzò completamente.
«Cosa intendi?»
«Oh, avanti, non fare la finta tonta. L'hanno detto anche a te?»
Sospirai. Avevo capito cosa intendeva.
«Sì, ma non mi interessa di quello che prova George verso Newt o tu verso George», aprii le braccia e sollevai le mani, «Scelte vostre, non mie, quindi è tutto okay. Forza, vieni in cucina, ti preparo qualcosa da mettere sotto i denti».

I Velocisti tornarono proprio durante la chiusura delle Porte. Erano stanchi morti, visibilmente spossati.
Minho trascinò le gambe verso la mensa, mi lecchinò per avere una bottiglia d'acqua e un panino prima ancora di mangiare, ed io mi lasciai abbindolare da quello che lui chiamava “il suo charme da Velocista” ma che io chiamavo “tenerezza da stanchezza”.
In fondo lui si faceva il culo ogni giorno nel Labirinto per trovare una via d'uscita.
Entrammo in cucina e lui si poggiò al tavolo con i gomiti.
Era una fortuna che Frypan non fosse ancora in cucina, o sicuramente si sarebbe arrabbiato come un pazzo alla vista delle scarpe piene di terra di Minho nella sua cucina splendente.
Gli preparai il panino e gli passai una bottiglietta d'acqua.
«Grazie Beth.»
«Prego... “Min”.»
Rise, mangiando velocemente il suo panino, «Queste caspio di Porte si chiudono sempre più velocemente», borbottò
«Non avete ancora capito il perché?»
«Magari è dovuto al fatto che ultimamente ci sono sempre più Dolenti in giro. Penso che quella testapuzzona di George si sia buttato nel Labirinto con quella consapevolezza. Magari voleva schiattare.»
«Ma come sei cattivo!»
«Hai una spiegazione migliore?»
«Effettivamente... no.»
Minho si mangiò il suo panino ad una velocità sorprendete, schioccando le dita mentre masticava.
Bofonchiò qualcosa, ma si rese conto da solo che non si era capito nulla, quindi batté delicatamente il pugno sulla superficie solida del tavolo.
Ingoiò il boccone del panino e mi guardò, boccheggiando leggermente. Sicuramente aveva ingoiato un pezzo più grosso di quanto pensasse.
Prese una boccata d'aria, arricciando il naso, «Dicevo, spero che stanotte riuscirete a dormire, George griderà per un po' di giorni. La Mutazione fa un male boia».
«Tu l'hai mai passata?», domandai, sedendomi sul tavolo
«Cielo, no! Per fortuna no! Posso immaginare però che fa male. Tutti i pive che l'hanno passata gridano come pazzi per tutto il periodo della Mutazione. Poi cambiano di carattere totalmente per via dei ricordi che hanno recuperato», sospirò, «ma non ne parlano mai. Ho la pessima sensazione che George abbia fatto ciò che ha fatto – oltre che perché è svitato – per fare qualche torto a te e a Newt».
Schioccai la lingua, balzando giù dal tavolo «Non lo metto in dubbio».
«Se George ti tocca di nuovo, Newt non lo lascerà rimanere qui. Ha già dato giù di matto sta mattina ripensandoci.»
Sorrisi tra me e me, abbassando la testa, pensando di essere ridicola a sorridere in quel modo per un motivo così stupido.
«Newt è un buon amico», risposi in tutta tranquillità, girandomi verso Minho.
Sorrise e annuì, indicando verso la porta. Mi girai, trovando, appunto, Newt, poggiato allo stipite della porta con le braccia incrociate. Gli rivolsi un sorriso, ma il suo volto era totalmente serio.



{Angolo dell'autrice}
Ma eccomi col nuovo capitolo, pive! le cose cominciano a movimentarsi, finalmente direi. Purtroppo non riesco a sentire la mia beta per controllare il tutto, ma cercherò di trovarne una (in qualche modo) sostitutiva. Voglio ricordarvi che se avete suggerimenti potete darmeli tranquillamente, ascolto tutto :) Al prossimo capitolo, che se tutto va bene, sarà pronto a breve!
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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***




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Girai leggermente lo sguardo verso Minho. Cercai nei suoi occhi una minima spiegazione a quell'espressione seria di Newt.
Ma niente. Sembrava confuso quanto me, se non di più.
Mi rassegnai all'idea che non capivo una ceppa dei ragazzi e portai nuovamente lo sguardo su Newt, ancora fermo sullo stipite della porta con le braccia incrociate e quell’ espressione seria, fredda, ferma su di me.
Feci per parlare ma sollevò rapidamente la mano e mi bloccai.
«Minho, George sta delirando.»
Minho corrugò la fronte, «Che me ne frega a me?».
Mi trattenni dal ridere, ma mi sfuggì un verso improponibile. Un misto tra una risatina e uno sbuffo.
Newt mi fulminò con lo sguardo. Dannazione, ce l'aveva con me o cosa?
Abbassai lo sguardo, spostandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio e indietreggiando verso il tavolo.
Li lasciai parlare, preferivo restarmene in silenzio piuttosto che ricevere un altra occhiataccia.
Era la prima volta che Newt mi guardava in quel modo e non potevo negare di sentirmi leggermente ferita.
Le loro parole a stento mi sfioravano, erano discorsi a me ancora completamente estranei, ma sotto sotto non mi interessavano granché.
Parlavano della Mutazione, del fatto che George farneticava e gridava – si sentiva anche senza che Newt lo dicesse – come un matto, che i Medicali hanno faticato come cani per iniettargli il Dolosiero visto che non stava fermo un secondo. Tirava calci e pugni, inarcava la schiena e si rovesciava a pancia in giù, poi a pancia in su, le sue vene del collo e delle braccia erano così grosse che sembravano poter scoppiare da un momento all'altro.
Da come lo raccontava mi sembrava di essere all'interno di quella stanza, con la luce bianca che illuminava tutto e rendeva la pelle di George più pallida, mettendo in risalto le gocce di sudore sulla pelle scoperta.
Sollevai lo sguardo giusto quando sentii che mi aveva nominata diverse volte, ma nulla di troppo interessante. Insulti su insulti, come se la sua presenza in quel luogo fosse tutta colpa mia.
Continuavo a non capire il suo odio nei miei confronti. Solo perché Newt ed io avevamo legato?
Non era colpa mia se lui non c'era riuscito. Pensai che se non si fosse comportato come un idiota, forse anche lui ci avrebbe legato.
Newt stringeva nervosamente i pugni mentre parlava e in certi momenti il suo volto si tingeva di rosso, cosa che a Minho probabilmente faceva ridere visti i suoi sogghignetti.
«Oh, dimenticavo di darti la premessa che parla come se stesse commentando delle... visioni, o cose simili.»
Minho schioccò la lingua, «Tipo “vedo delle stelline brillanti nel tuo futuro”?»
Newt sollevò un sopracciglio. «… Sì, più o meno sì. Parlando seriamente, farfuglia qualcosa riguardante il Labirinto e i Creatori», girò leggermente lo sguardo verso di me, «Qualcosa riguardante alcuni futuri Fagiolini. Ma principalmente sul Labirinto».
«E cosa dice sul Labirinto?»
«Nulla di concreto. “Mura ferme, Dolenti, Sezioni, Fluttua, Piglia” e altre parole. Sempre con quest'ordine.» Chiuse gli occhi, «Ogni tanto dice che il sole brucia la zona, e altre volte nomina Elizabeth».
«Il sole brucia la zona?», Minho sollevò un sopracciglio, «Qui il sole non ha ancora bruciato nulla. Al massimo Percy brucia le uova al tegamino e Frypan lo colpisce con una padella».
Nonostante l'ironia di Minho, Newt era palesemente sovrappensiero, come se si stesse scervellando da ore su quel piccolo rebus. Poggiò le mani sulle labbra, torturandosi quello inferiore mentre fissava un punto fisso del tavolo, nemmeno ci fosse la risposta.
«Sono cose senza senso, smettila di rincaspiarti il cervello Newt», disse infine Minho, quasi affranto che la sua ironia non fosse compresa.
Newt alzò il volto, incrociando il mio sguardo. Da quando ero lì non avevo mai visto il suo sguardo così tagliente e glaciale. Non nei miei confronti.
Schiusi le labbra per domandargli se avessi fatto qualcosa di sbagliato, ma non ebbi nemmeno il tempo di spicciare una sola parola che lui si girò ed uscì rapido dalla cucina.
Mi girai verso Minho con uno sguardo interrogatorio. In tutta risposta scrollò le spalle, con un espressione interrogativa quanto la mia.

Passarono due giorni. Due giorni interi in cui si sentì solo George gridare come un pazzo.
Non c'era giorno in cui Justin non andasse a trovarlo, sperando in un suo miglioramento.
Quel giorno, lui era lì dalla mattina presto, anche prima dei Medicali.
Nessuno parlava più del bigliettino. Nessuno parlava più di quanto George fosse stato cretino a buttarsi nel Labirinto.
La vita nella Radura aveva ripreso ad essere monotona, come se qualcuno avesse cancellato tutto con una gomma.
Solo una cosa era cambiata nella mia nuova vita. Newt.
Da quella sera di due giorni fa sembrava fare di tutto per passare meno tempo con me, il che si rivelò estremamente... beh... triste.
Avevo passato le ultime due notti a domandarmi cosa avessi fatto di sbagliato.
Newt era diventato praticamente il mio migliore amico nella Radura e non vederlo rendeva le mie giornate stressanti.
Non vedevo praticamente mai Alby, visto che era occupato a tenere il clima calmo tra i Radurai, e gli unici con cui parlavo ormai erano Frypan, Minho (quando tornava dal Labirinto) e Chuck.
Non che non volessi passare del tempo con loro, ma... non era come passare del tempo con Newt.
Quello era il mio momento preferito di tutta la giornata.
Sospirai, asciugando l'ultimo piatto che avevo appena finito di lavare. Controllai che fosse completamente pulito, poi lo sistemai sul ripiano della cucina insieme agli altri ed uscii, entrando nella Stanza delle Tavolate per assicurarmi che fosse tutto apposto anche lì.
Rimasi sorpresa e leggermente scossa nel vedere Newt ancora seduto al tavolo.
Fu come ricevere un pugno in pieno stomaco.
Com'è che Frypan l'aveva lasciato lì e non mi aveva detto nulla?
L'aveva fatto apposta? La cosa non mi avrebbe affatto stupita.
Cosa fare? Andare da lui o no? In fondo non avevo nulla da perdere a pensarci bene.
Presi coraggio e andai a sedermi accanto a lui, ricevendo un occhiataccia degna di essere chiamata tale.
«Ehi», sussurrai. Il coraggio accumulato pochi secondi prima mi aveva fatto “ciao ciao” con la manina ed era fuggito via con un cartellone enorme con su scritto “codardo”.
«Ciao Liz», mugugnò lui. Sentii il mio cuore accelerare di botto. Per qualche secondo pensai che avrei perso i sensi da un momento all'altro. Forse quella di andare a parlargli non era stata poi una buona idea.
«Come... come stai?»
«Bene. Tu?»
«Da schifo, testapuzzona che non sei altro, perché fai il demente? Mi manchi», pensai, poi indossai il miglior sorriso che potevo fare, «Anche io», risposi, abbassando il volto poco dopo.
«Bene così», rispose e si girò, facendo per alzarsi, ma poi si fermò e mi guardò in faccia, sollevandomi il volto con l'indice, «Ehi...».
Mi costrinsi a guardarlo negli occhi e si rivelò l'impresa più difficile che potessi affrontare.
Il suo sguardo era ancora di ghiaccio, ma sembrò meno tagliente rispetto a quello di due giorni fa, però era ancora in grado di farmi male.
Perché stavo così male? Mi girava la testa da quanti ragionamenti stava facendo il mio cervello senza che nemmeno riuscissi a seguirli.
Ne cominciavo uno e ne perdevo il filo pochi attimi dopo, seguendone un altro.
«Perché sei arrabbiato con me?», mormorai senza nemmeno rendermene conto.
Quella domanda sembrò spiazzarlo totalmente. Il suo sguardo si ammorbidì.
Boccheggiò, spostando la mano. Abbassò lo sguardo per un attimo, rialzandolo lentamente poco dopo, «Ma che dici? Non ce l'ho con te».
«E allora perché mi eviti?»
Corrugò la fronte, indietreggiando leggermente con la schiena e guardandomi come se gli avessi sputato in faccia, «Io non ti evito affatto!».
«Caspio, Newt! Cerchi di stare il meno possibile con me!»
«Ma non è vero!»
«E l'altro giorno mi hai fulminata con lo sguardo un sacco di volte.»
«Se avessi guardato meglio, avresti notato che ogni volta che abbassavi lo sguardo era come se il mondo mi crollasse addosso», mormorò a voce così bassa che a stento riuscii a sentirlo.
Spostò lo sguardo contro il muro, «Dannazione, sono solo preoccupato per te, non ti entra in testa?».
«Beh... non devi.»
«Sì che devo, sopratutto dopo quella sera.» Abbassò lo sguardo sul piatto vuoto davanti a lui.
«Perché?»
«Perché sì», tagliò corto.
Restammo in silenzio per diversi minuti. Nessuno dei due sembrava intenzionato a spiccicare parola per primo e la cosa cominciava a farsi pesante. Avrei dovuto alzarmi, sparecchiare e lavare tutto. Svolgere la mia mansione, insomma, ma non avevo intenzione di lasciarlo lì da solo. Temevo che sarebbe andato via di nuovo e che non l'avrei rivisto fino al giorno dopo.
Perché ormai le cose andavano così.
Il suo sguardo era fermo sul piatto, il suo respiro regolare e lo zigomo era ormai sgonfio, ma la cicatrice era ancora lì.
Presi un respiro profondo. Decisi di rompere il silenzio, prima di sentirmi schiacciata e prima che si scocciasse e andasse via. Qualunque cosa sarebbe stata più interessante che stare lì in silenzio accanto a me.
«Posso chiederti una cosa?», domandai, preparandomi psicologicamente ad un altra occhiataccia.
Newt annuì, senza spostare lo sguardo nemmeno di un millimetro.
«Ricordi la notte in cui abbiamo... beh... dormito assieme?»
«Sì, me la ricordo.»
«Ricordi anche di avermi stretta a te...?»
Annuì, spostando finalmente lo sguardo verso di me, accennando un sorriso del tutto naturale, «Perché me lo chiedi?».
«Oh... No... beh... perché stavi dormendo e magari era... beh... non lo so.»
Scosse la testa, tenendo un sorrisetto sulle labbra, «Certo che me lo ricordo e sì, ti ho abbracciata perché volevo, non era un riflesso dovuto al sonno. Se ti ha dato fastidio non lo farò più».
«Oh no, no non te l'ho chiesto per quello... Era tanto per spezzare il silenzio.»
«Bene così», fece un respiro profondo, passandosi le mani sulla fronte con fare stressato, «Sul serio Elizabeth, non ce l'ho con te».
Spostò una mano dal volto e la poggiò sulla mia. Un contatto così naturale ed improvviso da sorprendermi, ma non spostai la mano, decisi di lasciarla lì. Intrecciai le dita con le sue, e lui strinse la presa. Provai una sensazione di sollievo rispetto a prima.
«Lo so», risposi infine, guardando le nostre mani. La sua mano era morbida e calda, accarezzava la mia con il pollice, poi, come se si fosse reso conto di quello che stava facendo, smise, ma non sciolse la presa.
«La storia di George ti preoccupa ancora? I suoi farfugliamenti intendo.»
«Quali dei tanti?»
«Tutti», risposi, «È quello che ti turba quando dici “sopratutto dopo quella sera”?».
«Anche. Mi riferisco anche al bigliettino. Ma sì, un po' mi preoccupano», strinse la mia mano, allontanando il piatto con l'altra. «Non sappiamo dove portano o se dobbiamo prenderli in considerazione sul serio. Infondo sono parole che collegate tra loro non hanno senso.»
«O forse vanno viste da un punto di vista diverso.» Scossi le spalle.
Sembrò sorpreso da quell'affermazione. «Cioè?»
«Magari è... Un Rebus. Un indovinello... Un codice.»
Mi guardò con uno sguardo confuso, poi sgranò gli occhi di colpo e il suo viso si illuminò.
«Caspio, è possibile!»
«Certo che è possibile, mica parlo a vanvera io!», finsi di assumere un espressione di superiorità, sollevando leggermente il volto verso l'alto.
Ridacchiò sotto i baffi, scuotendo la testa, «Non tirartela troppo, sei comunque una Fagiolina».
«E tu una testa puzzona», brontolai, fingendomi offesa.
Arricciò il naso, sollevando un sopracciglio. «Sai, se me l'avesse detto qualcun altro probabilmente mi sarei offeso a morte. Da quando usi così bene il linguaggio della Radura?»
«Uhm... Da un pochino.»
Il tempo di terminare quella frase, e il suo volto tornò velocemente freddo e serio.
Ma non la serietà di poco fa, era più che altro preoccupazione, e stavolta era evidente. O forse ero solo io che adesso riuscivo a vederla chiaramente.
Sicuramente stava pensando di nuovo alle parole di George.
Volevo distrarlo. Volevo cancellare i suoi pensieri e fargli passare quella preoccupazione. Era come se sentissi che era compito mio. Come se la sua preoccupazione fosse anche la mia, ed era mio compito quello di alleviarla.
«Senti... Perché non mi dici il motivo per cui cercavi di evitarmi?»
Si voltò lentamente, e capii che forse quella era proprio l'ultima domanda che dovevo fargli.
Era come se avessi premuto il bottone rosso che collegava tutti i problemi ad uno solo.
Assunse un espressione cupa, quasi disastrata.
«Non stavo evitando te, è solo che...», si bloccò, poi scosse la testa e prese un respiro profondo, «Lasciamo stare».
«No, dimmelo. Sono qui per te, non scapperò mai.» Sorrisi amaramente, «Non potrei andare da nessuna parte anche volendolo fare», gli accarezzai la mano stretta alla mia.
Ci pensò su, sollevando lo sguardo sui miei occhi. Contrasse la mascella.
«Le cose stanno precipitando lentamente, caspio», spostò lo sguardo, «Sono preoccupato per tutta questa storia. Sono preoccupato che diano la colpa a te e causino chissà quale rivoluzione. Sono preoccupato per via delle Porte che si chiudono sempre più velocemente, rischiando di lasciare i Velocisti dentro il Labirinto». Si poggiò la mano libera sulla fronte e la strofinò forte. Aveva un aria così stressata da farmi male solo a guardarlo. Sembrava oltretutto che non dormisse da giorni e me ne resi conto solo in quel momento.
Spostò la mano dal volto, respirando profondamente, e allora riprese a parlare, «Nemmeno Alby sa dove sbattere la testa. L'unica soluzione sicura sarebbe dire ai Velocisti di non andare nel Labirinto finché le cose non si sistemano, ma se non dovessero farlo? Se smettessero di andare nel Labirinto per sempre, perderemo l'unica speranza di trovare un uscita per fuggire da questo dannato posto. Allora sì che la Radura cadrebbe nel caos più totale! Non possiamo permettercelo. No caspio. No», sorrise nervosamente. La sua voce tremava ed i suoi occhi diventarono lucidi. Deglutì, ridacchiando nervosamente. «Non possiamo permettercelo. Anni di lavoro mandati in fumo per colpa delle dannate Porte di quel fottuto Labirinto? Non ci voglio nemmeno pensare!»
«Newt, calmati...»
Chiuse gli occhi, facendo l'ennesimo respiro profondo, «Cosa risolvo calmandomi? Le cose non cambieranno».
«Non cambieranno nemmeno se ti prendi un esaurimento nervoso.»
Riaprì gli occhi, ritraendo la mano e incrociando le braccia sul tavolo, «Hai ragione. Devo distrarmi un po'».
«Già», brontolai, grattando la panchina con le unghie, «Ti do io qualcosa a cui pensare!».
«Ossia?»
«Uhm... vediamo... ad esempio a quanti anni potrei avere!»
Newt rise quasi di gusto, poggiando il mento sulle braccia, «Credo sia una di quelle cose che un ragazzo non dovrebbe mai dire ad una ragazza se non vuole beccarsi uno schiaffo in piena faccia».
«Beh, lo schiaffo arriva solo se si fa gli scemi, io parlo seriamente.»
«Se la metti così... Direi che hai circa la mia età. Quindi sui 17 anni. Minimo 16, ma non di più e non di meno.»
Ci pensai su per un secondo e capii che probabilmente aveva ragione. Anche io la pensavo così.
Feci per chiedergli qualcos'altro ma venni interrotta da un sospiro pesante alle nostre spalle.
Ci voltammo entrambi. Chuck era poggiato allo stipite del portone in legno grezzo che dava all'esterno della Sala delle Tavolate.
Respirava affannosamente e il suo volto era completamente rosso dalla fatica.
Ma perché correva se sapeva che non reggeva la corsa?
«Newt!», riprese fiato, «Paul mi ha mandato a dirti che Percy gli ha detto che Winston gli ha detto che Gally gli ha detto che Alby gli ha detto che Justin gli ha detto di dirti che George si è svegliato e vuole parlare con te!», riprese fiato un’altra volta, chiudendo gli occhi e gettando la testa all'indietro.
Newt scattò in piedi, «Ma non potevi abbreviare?».
«Mi hanno detto di ripetere tutto parola per parola», mormorò quasi imbarazzato.
Newt scosse la testa, ruotando gli occhi e correndo fuori, diretto verso il Casolare.
Mi avvicinai a Chuck mentre Newt correva.
Aveva un aria seriamente stremata.
«Stai bene?», domandai con un tono premuroso. Chuck annuì.
«Mi prendono sempre tutti in giro», brontolò, «Detesto essere il più piccolo».

Storsi il labbro e schiusi le labbra, ma lui sollevò l'indice per zittirmi, «Mi dai qualcosa da mangiare?».
«Certo», dissi ridacchiando.
Quel bambino era un pozzo senza fondo, ma non me la sentivo di rifiutarmi di dargli qualcosa da mangiare, mi sarei sentita in colpa a vita.

Dopo aver dato da mangiare a Chuck, andai al Casolare.
Volevo sapere cosa si erano detti Newt e George.
C'era una piccola folla radunata attorno al Casolare e uno scambio di parole, tra cui insulti pesanti, tra due Radurai un po' esterni alla folla.
Mi feci spazio a suon di spintoni per riuscire ad entrare nel Casolare, dove trovai Alby poggiato alla parete e Newt accanto a lui.
Stavano parlando, ma si zittirono appena arrivai davanti a loro. I Radurai attorno a loro discutevano animatamente di svariate cose. Forti brusii, parole confuse, discorsi mischiati e gente che perdeva anche il filo del proprio discorso. Ma tutti conducevano ad una sola persona: George.
«Che ha fatto di così eclatante, adesso?»
«Nulla, parlava ancora del Labirinto», rispose Alby, «Dice che dobbiamo tenerti d'occhio e che stanno arrivando per te».
Quella frase mi diede i brividi ed una sensazione di vuoto assurdo.
Chi stava arrivando? E perché volevano me?
Mi grattai la testa con fare confuso, in tutta onestà volevo solo passare per indifferente alla cosa.
«Okay», dissi col tono più tranquillo che potessi trovare.
Justin scese le scale alle spalle di Alby, rimanendo a metà scalinata, «Newt, George ha detto di salire un secondo, vorrebbe parlarti», mi guardò con la coda dell'occhio, «e vorrebbe anche Alby... ed Elizabeth». Scese dalla scala, lasciando salire me e loro.
Lui salì per ultimo, ci accompagnò nella stanza di George e si poggiò alla parete.
«Tu non entri?», domandò Alby, lasciando entrare Newt per primo.
«Lui non vuole», ammise Justin, picchiettando il piede a terra come se fosse impaziente.
«Beh... Okay, avrà le sue ragioni», scrollò le spalle ed entrò in stanza.
Fissai un attimo Justin. Il suo sguardo era fisso a terra, palesemente scocciato dalla situazione.
Entrai e mi chiusi la porta alle spalle, affrettandomi a mettermi tra Alby e Newt. Mi sentivo più al sicuro tra loro, visto che sapevo che George non provava molta simpatia nei miei confronti.
Alby incrociò le braccia contro il petto, fissando George che stava seduto sul letto con un espressione da pesce lesso mentre guardava Newt. Si era imbambolato.
Newt schioccò la lingua e si girò verso la parete alla sua destra, sospirando pesantemente. Fu allora che George distolse lo sguardo, abbassandolo. «Allora, vi ho fatto chiamare perché... Beh... volevo porre le mie scuse, in tutta onestà. Non ve l'ho detto prima perché ci ho riflettuto ora», alzò la testa.
«Mi sono comportato da vera testapuzzona, me ne rendo conto.»
«Meglio tardi che mai», brontolò Newt.
«Senti, lo sai che ho un caratteraccio», corrugò la fronte, «E almeno degnati di guardarmi in faccia quando parliamo, Newt».
Alby alzò le braccia al soffitto, congiungendole poco dopo con un grosso schiocco, «Bene, prima che scoppi un altra zuffa del tutto immotivata tra voi due, direi che accettiamo le tue scuse. Era solo questo ciò che volevi dirci?».
«No», George si toccò il volto, ancora gonfio e con qualche cicatrice sulle guance e una grossa sul naso, «Non è solo questo, chiaramente. A parte quello che vi avevo detto prima, durante la Mutazione ho capito una cosa. Lei», mi indicò. Nel suo sguardo stava emergendo una punta di odio.
La stessa punta che vedevo ogni volta che incrociava il mio sguardo, «Porterà solo guai qui, tra noi».
«E quindi?»
«Dobbiamo darla a loro prima che l'equilibrio venga del tutto rovinato!», sbraitò George, drizzando di più la schiena.
Alby corrugò la fronte, «Loro chi? Si può sapere di chi parli?».
«I Creatori, non è chiaro? E per darla a loro, dovremo buttarla nel Labirinto assieme ai Dolenti!» Si sfregò le mani. Mi ricordava vagamente una mosca sfigurata.
La mano di Newt non era così distante dalla mia gamba. La sentii serrarsi a pugno. Prima che potesse aprire bocca, Alby intervenne, «Ma cosa stai blaterando? George, la Mutazione ti ha fritto il cervello!».
George balzò in piedi, avvicinandosi con uno sguardo perso nel vuoto.
Newt mi spinse dietro di lui, spingendo via George, «Finiscila con questi attacchi stupidi!».
Notai che Alby si poggiò una mano sulla fronte e la fece scivolare lentamente verso il basso, «Caspio, ma perché a me?», brontolò.
George traballò all'indietro per qualche passo, «Non volevo attaccare nessuno», ridacchiò in modo isterico, avvicinandosi di nuovo. Era chiaro che non voleva “attaccarmi”, dato che si fermò a pochi passi da Newt. Volto contro volto.
George fece per poggiare la fronte contro quella di Newt, ma lui tirò indietro il volto.
«Dovremmo fare come dico io, creerà un grossissimo spacco tra noi!»
«“Noi”? L'unico che fino ad ora ha avuto problemi con Elizabeth sei tu, George, e l'unico che ha sollevato un polverone sei stato tu», rispose Alby.
«Già, beh, parlate come se quel bigliettino non fosse mai arrivato. Come se nessuno avesse notato i problemi che si sono creati», scosse la testa, poggiando le mani sul volto di Newt, che sgranò gli occhi. «Almeno tu ascoltami. Ti prego.»
Vidi il petto di Newt sollevarsi, prendendo un grosso respiro.
«Io non voglio che ti succeda nulla di male», continuò George, «Non me lo perdonerei mai. Sopratutto se questo dovesse avvenire tramite una stupida Fagiolina capitata nella Radura per un semplice errore».
«Finiscila di comportarti come una caspio di fidanzatina gelosa, George. Blateri senza motivo», rispose Newt a denti stretti.
«No, non blatero senza motivo, io so quello che ho visto! So che piano hanno i creatori!»
Ed ecco che nel suo sguardo ritornò quella punta. A momenti era come se non fosse nemmeno in lui. Come se qualcuno lo stesse manovrando dall'interno. «La Mutazione mi ha donato degli indizi! Tu devi credermi Newt! Non direi mai nulla che potesse farti del male in futuro! Sai benissimo ch-»
«E sentiamo, cos'hai visto? E levami queste caspio di mani dal volto, mi stai dando sui nervi!»
In quel momento pensai che Newt dovesse andarci più piano. Sapeva cosa provava George per lui e, anche se gli stava dando fastidio, poteva comunque andarci leggero. Al posto di George ci sarei rimasta malissimo. Pensavo sul serio che lui non avrebbe mai detto qualcosa che potesse ferirlo, perché per quanto fosse crudele, vedevo chiaramente che a lui ci teneva sul serio.
Lo sguardo di George si addolcì. Arrossì mentre spostava le mani, e in quel momento sembrava un cucciolo bastonato.
Alzò lo sguardo verso di me. Il suo sguardo si fece quasi addolorato. Mi indicò con fare accusatore, «Lei. L'ho vista e... a dire il vero non ricordo molto. So solo di averla vista. E so che verranno a prenderla se non ce ne liberiamo subito, e succederà qualcosa di brutto».
«Oh, wow, e cosa?»
«Beh... non lo so, questa è una mia sensazione», ammise.
Alby ridacchiò sotto i baffi.
«Oh, fico, dovremmo gettarla tra i Dolenti perché mister indovino ha la sensazione che succederà qualcosa di brutto!»
George ora sembrava decisamente ferito. Assottigliò gli occhi e schiuse le labbra, girandosi alle sue spalle, poi tornò a guardare me.
Mi odiava. Mi odiava in modo sproporzionato.
Abbassai lo sguardo, sobbalzando leggermente quando sentii qualcosa toccarmi la mano.
La mano di Newt. Prese la mia nella sua, stringendola con fare rassicurante.
George probabilmente lo notò, ed il suo sguardo si accese in qualcosa che non seppi assolutamente spiegare. Guardò prima Alby, poi Newt.
«Ti auguro di provare il dolore di vederti portare via la persona che ami e sapere di non porti fare più nulla.»
«Melodrammatico», rispose Newt, schioccando la lingua.
«Sai quello che provo per te!», sbraitò George, «Sono solo preoccupato per te!».
Newt rimase in silenzio, sgranando gli occhi come se fosse stupito da quella reazione. Lo fissava, ma non diceva assolutamente nulla.
Io ed Alby ci scambiammo un’occhiata imbarazzata, poi entrambi guardammo verso la porta mentre si apriva, notando che c'era un silenzio imbarazzante anche nei corridoi del Casolare.
Ma sopratutto, notammo Justin fermo davanti alla porta aperta.
Sicuramente aveva sentito ogni singola parola, d'altronde non si era mai spostato da lì.
Finalmente Newt si decise a parlare, tirando indietro la testa «Sì, lo so, e sai che io non provo lo stesso per te, George».
«Lo so. Lo so che non provi questo per me», disse, alzando lo sguardo verso di me e contraendo la mascella, «Almeno ci ho provato».
«Bene così», disse Newt, e in quel momento alzò incrociò il mio sguardo anche lui.
Un attimo di silenzio scese nella stanza, ed i brusii esterni si fecero risentire, provocando un rumore simile a quello di uno sciame di api.
Justin era ancora fermo sulla soglia della porta. Fissava George con una strana espressione ed aveva gli occhi lucidi.
Alby si guardava attorno come se fosse a disagio, poi decise che puntare lo sguardo a terra, sui suoi piedi, era molto più interessante.
La mia mano era ancora nel pugno di Newt, ed il suo sguardo saltava da me a George, che nel frattempo fissava Justin come se volesse chiedergli scusa ma non avesse le parole per farlo.
«Bene, visto che non hai altro da dirci, noi andiamo», disse Alby infine, con un tono stufo.
Newt annuii e mi lasciò la mano, girandosi per uscire.
Justin si scansò e incrociò il mio sguardo. Mi fece un sorriso rassicurante.
Quello era veramente un ragazzo d'oro, perché nonostante tutto quello che stava passando per George, non aveva mai perso la pazienza e continuava a stare al suo fianco. Pensai che George in verità avesse bisogno di lui, e ci tenesse più di quanto tenesse a Newt, ma probabilmente non l’avesse mai capito. O forse lo sapeva, ma preferiva pensare che quello che non poteva avere fosse meglio di ciò che già aveva.
Newt sospirò pesantemente davanti a me. Camminava verso le scale, poi si fermò e lasciò scendere Alby.
«George!», gridò Justin dalla stanza seguito da un rumore fortissimo di vetri mandati in frantumi.
Alby, che aveva cominciato a scendere le scale, tornò su ad una velocità micidiale.
Tutti e tre ci affrettammo a correre nella stanza, ma tutto ciò che trovammo fu Justin che si sporgeva dalla finestra e mille cocci di vetro a terra.
«Ma che...?», Alby lasciò la domanda in sospeso, sperando che Justin finisse la frase con la risposta che volevamo tutti. Invece ci fu un silenzio tombale, dato che ci affacciammo tutti dalla piccola finestra della stanza. O almeno, quello che ne rimaneva.
I Radurai che stavano al piano inferiore si erano affacciati tutti per via del gran fracasso, ma l'unica cosa ormai visibile era George che fuggiva all'interno del Labirinto.
«Ma dio, quella testapuzzona che cosa pensa di fare!», ringhiò Alby.
«Che cos'è successo?», domandai, spostandomi dalla finestra e raccogliendo un coccio da terra.
Lo guardai con fare distratto, sollevandolo lentamente.
«George ha acchiappato carta e penna, poi si è scagliato contro la finestra e si è buttato», rispose Justin in un sussurro.
«Ma perché?! Esistono le scale!», brontolò Alby, passando un dito attraverso la “finestra”, «Caspio, ora ci vorrà un sacco di tempo per portare un altro vetro! Qui farà un freddo cane!».
«Non gliene fregava niente delle scale», risposi e sollevai il vetro verso il raggio di sole.
C'erano delle ditate nel vetro, formavano diverse linee, come quelle dei labirinti disegnati nei giornali dei quali, con una penna, devi fare in modo di “trovare l'uscita”.
Newt scosse la testa, «George è un fottuto pazzo. Spero per lui che non si faccia di nuovo vivo nella Radura, perché se lo fa, giuro su ciò che volete che sta volta ce lo butto io nel fottuto Labirinto e farò in modo che ci passi la notte».

I Velocisti corsero fuori dal Labirinto in tutta tranquillità, la chiusura delle Porte avvenne alla solita ora. Tornarono solo i Velocisti. Nessuna traccia di George.
Justin non uscì da quella stanza, rimase tutta la sera poggiato alla finestra a fissare le mura del Labirinto.
A cena ci fu uno strano silenzio tombale. Frypan decise di darmi il giorno libero, anche se queste cose nella Radura non era praticamente concesse, infatti Alby non la prese molto bene.
Cenai con un brodino piuttosto insipido, ma non badai molto al sapore dato che passai praticamente tutta la cena accanto a Newt che imprecava contro George.
Minho si fece spazio tra due Radurai seduti davanti a noi, poggiò il vassoio sul tavolo e cominciò a mangiare il brodino, assumendo un espressione leggermente disgustata.
«Bleeeeah! Sembra che qualcuno ci abbia fatto la pipì dentro! Si sente che ha cucinato Frypan, caspio! Se riempissi un bicchiere d'acqua e ci gettassi dentro un calzino che ho tenuto addosso per tutto il giorno riuscirei ad ottenere un risultato migliore!»
«Fantastico, ora mi è passato l'appetito!», brontolò Newt.
«Uh, scusa, femminuccia schizzinosa!», ribatté Minho, poggiando una maglietta e un foglio di carta davanti a sé e spingendoli verso Newt, «Ho trovato questi due regalini mentre tornavo dal Labirinto».
Newt li prese e li guardò. Era la maglietta di George, tutta stracciata e piena di cocci di vetro e sangue.
«E ho incrociato George che correva completamente nudo per il Labirinto. Era tutto tagliuzzato. Giuro che non era un bel vedere, sembrava un pollo spennato. Ma più magro e... beh... umano.»
Presi il biglietto e lo aprii.
Era appallottolato e scritto chiaramente di fretta. Le linee delle lettere erano tremolanti e quasi insicure, a stento riuscii a capire ciò che c'era scritto, ma in sintesi chiedeva scusa a Justin per tutto, mi accusava di ciò che aveva fatto, poi il solito avvertimento che aveva dato a Newt e Alby, ed infine augurava di nuovo quella cosa a Newt.
Un bigliettino pieno di rancore ed odio, anche se si rivolgeva a Justin con affetto. Nessuna spiegazione precisa per ciò che aveva fatto.
Si era lanciato per colpa di ciò che aveva detto Newt e per colpa mia? Che la Mutazione gli avesse dato alla testa?
«Quindi si è auto-defenestrato?», chiese Minho, continuando a mangiare e ridacchiando, rischiando di sbrodolare ovunque.
«Già. È un idiota», rispose Newt, pulendosi le labbra col fazzolettino e prendendo il bigliettino che avevo tra le mani.
«Beh almeno ti ha detto due frasi ad effetto! E... ehi! dopo voglio leggere anche io quella roba!»
Newt fissava il biglietto con un aria persa. E visto che non rispondeva a Minho, lui gli prese il foglio dalle mani e cominciò a leggere.
«Ehi?», sussurrai, piegandomi un po' verso Newt, «Tutto okay? Quel bigliettino ti ha scosso?».
«No, stavo solo pensando a quanto fosse disperato. Mi chiedo perché l'ha fatto, insomma, dopo tutto non ne aveva motivo», si grattò la fronte, «È stato stupido».
«E probabilmente è morto», disse Minho, «Nessuno sopravvive ad una notte nel Labirinto. E poi si è salvato per fortuna l'ultima volta, è già stato fortunato».
«Beh... Sarà un'altra Facciamorta», mormorò Newt, «Qualcuno dovrà dirlo a Justin o rimarrà in eterno affacciato a quella caspio di finestra».
«Glielo dirò io», dissi, spostandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio, «Ho un rapporto niente male con lui. Non saremo migliori amici, ma... niente, voglio dirglielo io».
Minho e Newt si scambiarono un’occhiata e scossero la testa insieme, «Non se ne parla», dissero all'unisono, tant'è che la cosa mi stupì.
«Cosa? Perché?»
«Perché no!», risposero di nuovo insieme.
«Veniamo con te» disse Newt.
«Non ho bisogno della scorta!»
Non mi risposero. Minho continuò a mangiare.
Mi faceva piacere essere spalleggiata, non lo potevo negare, ma dannazione ero abbastanza capace di badare a me stessa, anche se non lo dimostravo!
E poi Justin era una persona tranquilla, non mi preoccupava. E odiavo ammettere che la morte di George mi rassicurava abbastanza. Nessuno dovrebbe gioire per la morte di qualcuno, ma c'era da ammetterlo: la morte di George era un peso in meno. Forse ora potevo passare notti più tranquille.

 

{Angolo dell'autrice}

Okay,  scusatemi se ho pubblicato in ritardo, vi prego, non linciatemi! E scusatemi se ho risposto tardissimo anche alle recensioni, ma sono stata impegnata in questo periodo! prometto che sarò più veloce la prossima volta! *si inchina 300 volte con le mani congiunte*

Comunque, questo è il nuovo capitolo. L'ho lasciato un po' sospeso perché sta volta ho preferito chiarire il "mistero" attorno a George.

Concludo dicendo che vi ringrazio tantissimo per le recensioni positive e che avete lasciato e i vari complimenti che avete fatto, mi fa veramente stra-piacere che la fan fiction vi sia piaciuta fino ad ora e spero di non deludervi con i capitoli sucessivi.
Non smetterò di scusarmi per i ritarducci delle pubblicazioni e le risposte alle recensioni e vi prego di non fraintendere se rispondo tardi a volte, ma spesso e volentieri in questo periodo sono impegnata (come molti altri suppongo) e quindi rimando le risposte a quando ho anche un solo attimo di tempo!
Prometto che pubblicherò il settimo capitolo il prima possibile, cerco di rispettara la scadenza di una settimana (se posso lo farò anche prima di venerdì prossimo), promesso!
Alla prossima, pive!

Licenza Creative Commons
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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***




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«Bene, eccoci arrivati davanti alla stanza del terrore!», disse Minho sfregandosi le mani appena arrivati davanti alla stanza in cui avrebbe dovuto trovarsi Justin.
«Minho, piantala con questo sarcasmo fuori luogo!», brontolò Newt, grattandosi la nuca.
Bussai cercando di non ridacchiare mentre Minho continuava a fare battutine.
«Avanti.» Un lieve sussurro, la voce di Justin, prova che era ancora in stanza.
Presi un grosso respiro, nemmeno mi stessi preparando a saltare giù da un monte.
Aprii la porta, deglutendo, «Ehi, Justin, ho qualcosa per te».
«Se è del cibo, non ho fame», disse in modo schietto.
Era ancora poggiato al davanzale della finestra e fissava fuori. Mi domandai se si fosse mai spostato da lì.
«No, non è del cibo. Ho qualcosa per te e basta, girati per favore.» Mi voltai per controllare dove fossero Minho e Newt, ma erano rimasti fuori e non entrarono. Newt aveva uno sguardo impassibile, ogni tanto sollevava lo sguardo al soffitto mentre Minho non smetteva di parlare, sicuramente continuando a fare battutine del caspio.
«Cosa mi devi dare?», disse Justin, voltandosi lentamente e massaggiandosi il collo.
Piegò la testa all'indietro, scrocchiando il collo, poi abbassò la testa e guardò ciò che tenevo tra le braccia. La maglietta sporca e strappata di George.
Sembrò quasi confuso, ma poi sgranò gli occhi, «Perché...?»
«Aspetta... Tieni questo», mi avvicinai e gli passai il foglio tutto stropicciato.
Poggiai la maglietta sul lettino rudimentale e mi sedetti su questo, mentre Justin leggeva silenziosamente. Le sue mani cominciarono a tremare, i suoi occhi divennero lucidi in poco tempo.
Sapeva che sarebbe successo. Sapeva che George era morto, dato che non era tornato dal Labirinto, ma forse quella lettera era troppo. Forse lui ci vedeva dell'altro in quelle parole, magari lui capiva più di quanto potessimo fare noi. Tra loro c'era comunque un forte legame, nonostante tutto ciò che c'era dietro.
«Vattene», disse a denti stretti.
Corrugai la fronte e schiusi le labbra, ma sollevò lo sguardo come un serpente pronto a scattare, «Vattene via. Adesso. Va’ fuori di qui!».
Sgranai gli occhi e scattai in piedi, uscendo dalla stanza il più velocemente possibile.
Newt chiuse la porta lentamente, restando un paio di minuti a fissarla.
«Beh... Non l'ha presa poi così male, almeno non ti ha mangiato la testa!», esultò Minho nel tentativo di smorzare un po' di quella strana tensione che si era creata.
Nessuno rispose, ma pensai che avesse ragione.
«Siete noiosi», brontolò Minho, «non capite le mie battute».
«Non è che non lo capiamo, è che ultimamente tendi a farle leggermente fuori luogo», rispose Newt, cominciando ad avviarsi verso le scale e scendendole alla svelta
«Ehi, cerco di farvi sparire quei musi lunghi!», ribatté Minho, seguendolo giù dalle scale.
Mancavo solo io. Prima di scendere volevo provare a bussare di nuovo, ma ragionandoci su pensai che fosse un pessima idea.

Il giorno successivo sembrava che Justin avesse cancellato gli avvenimenti della sera prima.
Sorrideva a tutti con fare piuttosto spontaneo.
Non volevo chiedergli come mai fosse così allegro, ma non ne avevo bisogno.
Con me parlava abbastanza e infatti, mentre cucinavamo assieme dello spezzatino, chiacchierammo un pochino.
Mi disse che era felice tutto sommato, che doveva esserlo perché piangersi addosso era una cosa che non era concessa nella Radura.
Purtroppo le morti erano una cosa abbastanza frequente lì, e anche se facevano male, dovevano andare avanti.
«È brutto, lo so, ma funziona così», disse, controllando la carne e mettendola a cuocere, «Sapevo bene ciò che George provava per Newt. A dire il vero me n'ero fatto una ragione. Anche se diceva che con me si trovava benissimo. Sotto quell'aspetto da duro c'era solo un ragazzo spaventato a morte da questo posto. Era come un bambino che doveva essere perennemente rassicurato. Spesso mi chiedeva di promettergli che non l'avrei mai abbandonato». Sospirò, chiudendo il pentolone col coperchio, «Non avrei mai pensato che sarebbe arrivato a tanto per Newt. Sono abbastanza sicuro che non fosse in sé e che fosse tutta colpa di quella maledetta Mutazione», scosse la testa e si grattò il collo.
«Pensi che sia anche un po' colpa mia?», domandai. Sembrò esserne sorpreso.
Mi guardò per qualche istante, poi sorrise e scosse la testa, «No, non lo penso». La cosa mi rassicurava.
Continuò a raccontarmi mentre aspettavamo che lo spezzatino fosse pronto.
Mi raccontò come si erano conosciuti: George era arrivato un mese dopo di Justin.
La prima persona che aveva visto era stato Newt, esattamente come era successo a me, solo che per lui era scattato immediatamente qualcosa, che però non era ricambiato.
Justin e George avevano legato praticamente subito, lui andava sempre a trovarlo in cucina.
Rimase piuttosto vago sulla loro relazione, ma era chiaro che con lui George era sempre stato dolce, gentile e anche troppo sensibile, ma gli era rimasta impressa la sbandata per Newt.
Justin cercava di non badarci, ma a volte era veramente dura. Sopratutto da quando ero arrivata io.
«Non fraintendere», disse, «ma Newt non ha mai calcolato molto George, probabilmente anche perché temeva di illuderlo, ma da quando sei arrivata tu hai stretto molto con lui, e George questo non lo sopportava. Era dannatamente geloso ed invidioso di te», scrollò le spalle.
Mi sentivo un po' in colpa nei confronti di George. Pensai che se fossi stata al suo posto sicuramente avrei sofferto come un cane, e mi faceva male pensare che qualcuno soffrisse per colpa mia.
Justin prese dei piatti e li sistemò sul tavolo, cominciando a riempirli con lo spezzatino mentre Frypan si affacciava dalla porta che conduceva al bancone dove distribuivamo il cibo.
Cominciammo a dare i piatti ai Radurai che si presentavano uno ad uno davanti al bancone, in una fila ordinata e stranamente silenziosa.
Non era altrettanto silenziosa la stanza in sé, ricca di brusii e i soliti chiacchiericci tra i Radurai.
Si sentiva in un certo senso la mancanza di George. Il tavolo di Gally era cupo e triste, i Radurai tra loro non chiacchieravano e avevano lasciato libero lo spazio dove solitamente si sedeva George.
Ma a parte questo, nessun grande cambiamento.
Tutto proseguiva come al solito.
Alby si alzò dal suo tavolo, battendo rumorosamente la forchetta contro il bicchiere.
«Pive, ascoltatemi tutti in silenzio!», gridò e sulla sala cadde il silenzio, «So che sapete tutti cosa è successo a George, perciò, anche se non l'abbiamo mai fatto, dopo mangiato andremo tutti alle Faccemorte! Daremo l'ultimo addio a quella testa puzzona».
Potevo immaginare perché lo facessero. Per Justin, probabilmente, non perché a qualcuno interessasse davvero di George. E per Gally e i suoi compagni di lavoro. D'altronde erano probabilmente le uniche persone con cui poteva aver avuto un minimo di legame.
Tutti annuirono, provocando poco dopo mille chiacchiericci ricchi di “perché” e di motivazioni che non stavano né in cielo né in terra.
Da dietro la parete che divideva me e Justin, sentii piccoli singhiozzi soffocati.
Mi faceva veramente tenerezza e mi dispiaceva parecchio di non poter fare nulla. Justin era veramente un bravo ragazzo.

«Quindi Justin vi ha raccontato i fatti loro?», chiese Newt, mentre ci dirigevamo verso le Faccemorte.
«Già», risposi, aggrappandomi al suo braccio mentre saltavo un grosso tronco a terra.
«Immagino che dovesse essere un discorso molto intenso!», ridacchiò.
«Non essere crudele, poverino. Scommetto che deve starci veramente male e non lo dà a vedere!»
«Beh, Fagio, è così che va qui. Insomma, ti immagini se tutti dovessimo andare in lutto ogni volta che muore qualcuno? È crudele, ma ormai dovresti sapere che queste cose non possiamo permettercele.»
«Lo so, ma... lasciamo stare » fece spallucce.
Sapevo che aveva capito cosa intendevo, ma sapevo altrettanto bene che aveva ragione.
In ogni caso, Alby aveva proposto di fare una specie di piccolo funerale per George ed era una cosa carina.
Non ero mai stata in quella zona così buia della Radura. La luce filtrava a malapena attraverso le folte chiome degli alberi. Creava ombre inquietanti sul cupo fogliame sotto i nostri piedi.
Ad ogni passo si sentivano scricchiolii che mettevano i brividi, ma per fortuna mi abituai dopo poco tempo. E poi accanto a me c'era Newt. Era strano il modo in cui riusciva a rassicurarmi la sua sola presenza.
Non guardava la strada che percorrevamo, semplicemente teneva gli occhi dritti davanti a sé e di tanto in tanto schivava qualche ramo troppo lungo che rischiava di cavargli gli occhi. Cosa che io, però, non riuscivo a fare e quindi ogni volta che un ramo mi colpiva cominciavo a scuotere le mani in modo frenetico, imprecando diverse volte in pochi secondi.
Quella zona era uguale, sembrava che non avessimo percorso nemmeno due passi. Mi consolavo col fatto che Newt conoscesse bene la zona e quindi le probabilità di perdersi erano veramente scarse.
«Farai un discorso al “funerale”?», domandò, girandosi a guardarmi con un sorrisetto beffardo.
«Devo farlo?», risposi, corrugando la fronte.
«Certo! Dovrai dire “Conoscevo poco George, ma una volta mi ha quasi strangolata. È stato fantastico, giuro! È così che abbiamo fatto amicizia!”»
«Oh mio Dio Newt, passare del tempo con Minho ti fa veramente male!», risi, scuotendo la testa.
Newt scrollò le spalle e si passò una mano tra i capelli, poi si fermò.
Eravamo arrivati.
Quel posto era ancora più tetro di quanto immaginassi. C'erano diverse croci improvvisate, il terreno era rialzato in diversi punti.
In lontananza vidi una sorta di piedistallo rudimentale. O almeno, sembrava un piedistallo. Era completamente al buio, tranne che per un piccolissimo raggio di sole che si fermava esattamente a pochi centimetri dall'inizio di quel coso. Non osai avvicinarmi per guardare cosa fosse, così decisi che avrei chiesto più tardi di cosa si trattasse.
Al momento l'unica cosa che volevo veramente fare era andarmene via di lì il più velocemente possibile. Mi faceva veramente impressione vedere tutte quelle croci e quei terreni rialzati. Erano veramente tantissimi. C'erano più “Faccemorte” che Radurai.
C'era una fossa nel terreno e tutti i Radurai si misero a semicerchio attorno a questa.
Alby si fece strada tra loro con passo lento, gettò i vestiti di George al suo interno e cominciò a riempire la fossa col cumulo di terra accanto a lui.
Beh, per forza dovette gettare solo i vestiti. Il corpo di George, ormai, apparteneva ai Dolenti e probabilmente non sarebbe stato mai ritrovato.
Alby cominciò a parlare, un breve discorso su quanto George fosse un bravo lavoratore, un amico e un fratello. Uno della Radura. Per poi terminare con “Ora appartiene al Labirinto per sempre. Che quello che è successo a George serva da lezione a tutti noi. Ora non possiamo fare altro che andare avanti, come al solito d'altronde.”
Per un attimo mi sentii gli occhi puntati contro. Ma era solo una mia sensazione.
Justin era in prima fila, non troppo distante da Alby. Fissava quella fossa enorme con solo quella maglietta stracciata al suo interno.
Era silenzioso, glaciale. Il suo sguardo non trasmetteva nulla. Era come se qualcuno gli avesse spento i sentimenti con un bottoncino all'interno del suo cranio.
Mi stupii di quanto fosse serio e di come riuscisse a tenere dentro tutto. Beh, d'altronde non poteva permettersi di piangere davanti ai Radurai. Nessuno l'avrebbe capito, e questo l'avevo intuito anche dal sarcasmo che aveva usato Newt poco fa.
Probabilmente all'interno della Radura erano stati veramente pochi a provare ciò che provava Justin.
Pochi, se non addirittura nessuno.
Ma alla fine chi poteva dirlo? Magari qualcuno l'aveva provato perdendo un suo caro amico, ma come era già stato detto e ripetuto all'infinito, bisognava andare avanti come al solito.
«Quindi è così che si svolgono i funerali?», domandò Chuck accanto a me.
Non mi ero nemmeno accorta della sua presenza in quel posto, e sinceramente avrei preferito che non ci fosse.
Quel posto terrorizzava me, mettendomi una malinconia degna di nota, figuriamoci lui.
«Non penso, questa è solo una rappresentazione, Chuck», risposi.
«Pensi che i miei genitori abbiano fatto qualcosa di simile, quando non mi hanno più trovato?»
«Chuck, caspio, che razza di domande fai?», sbottò Newt.
Chuck abbassò lo sguardo. Ultimamente quel bambino era preso da un malumore assurdo e non mi ero mai domandata il perché. Fino ad allora. Ero troppo presa dai miei “problemi” per curarmi di lui. Mi sentii veramente in colpa.
Newt mi diede una pacca sulla spalla non appena tutti i Radurai cominciarono ad abbandonare quel posto. Fece un cenno con la testa per dirmi di seguirlo, così presi la mano di Chuck e cominciai a seguire Newt. E non ne sembrò molto felice.
Pensai che quel modo di fare che avevano tutti i Radurai nei confronti di Chuck fosse davvero crudele e fastidioso. Cosa mai aveva fatto per meritarsi tanta ostilità? Era solo un bambino, ed era maltrattato inutilmente.
«Che hai Chucky?», domandai in un sussurro, sperando che Newt non mi sentisse.
Sicuramente aveva sentito, ma mi ignorò.
«Uhm? Oh, niente, sono solo un po' stanco. Non sto dormendo granché bene in questo periodo...» La cosa non mi convinceva per niente.
«Sicuro che sia solo per questo?»
«Beh... a dire il vero sono un po' preoccupato per come stanno andando le cose ultimamente. Dici che cambieranno?»
«Ma sì, vedrai!», cercai di consolarlo, ma ero abbastanza incredula io stessa.
Non ero sicura che le cose sarebbero cambiate seriamente.
Chuck sorrise. Sembrava che fossi riuscita a tirargli su il morale.
Mi abbracciò di colpo, stupendomi.
La cosa sembrò stupire anche Newt, che si fermò a guardarci. Mi fermai anche io e ricambiai l'abbraccio un po' titubante. Era come se non fossi assolutamente abituata a certi gesti.
Anzi, decisamente non c'ero abituata.
Mi domandai se in vita mia, durante tutto quel periodo che nemmeno ricordavo, avessi mai abbracciato qualcuno.
Perché mi aveva abbracciata? Lo sentii dondolare e fare un respiro profondo.
A furia di stare piegata in avanti per ricambiare l'abbraccio mi stava facendo male la schiena, ma potevo sopportare per quella polpetta chiamata Chuck.
Arrivava poco sotto il mio seno. Se qualcuno si fosse fermato a guardare probabilmente si sarebbe fatto strane idee.
Newt continuava a guardarci, poi distolse lo sguardo con un espressione che sembrava quasi intenerita. Quasi.
Dopo aver sciolto l'abbraccio, Chuck mi sorrise con una dolcezza che avevo visto poche volte nel suo volto, poi guardò velocemente Newt. Era chiaro che voleva dirmi qualcosa, ma si vergognava per via della sua presenza.
«Grazie Eli», mormorò, «Ti voglio bene... spero non ti succeda mai nulla di male», detto questo, scappò via.
Mi sorprese di nuovo.
Gli volevo bene anche io, perché per me era come un fratellino di cui dovevo assolutamente prendermi cura, ma perché aveva detto quelle parole?
Newt girò gli occhi verso l'alto, riprendendo a camminare, «Per Chuck sei come una mamma», disse. Mi aggrappai al suo braccio. Ora che non c'era più Chuck potevo attaccarmi di nuovo a Newt per farmi praticamente trascinare nel tragitto.
«Dici?»
«Dico, dico. Si vede da come si comporta. Voglio dire, ogni volta che si sente giù di morale va da te. Si preoccupa praticamente solo del tuo bene e tutto il resto.»
«Forse perché qui lo trattate tutti come se fosse un semplice oggetto. Devo essere sincera, non lo sopporto.»
«Trattiamo tutti allo stesso modo senza alcun tipo di favoritismo Liz, lo provi tu stessa sulla tua pelle.»
«Ma è il più piccolo di voi», mormorai impietosita.
Newt sospirò. «Lo so, ma se dovessimo trattarlo diversamente sicuramente se la prenderebbe comoda, quel pive. È già pigro di suo, prova ad immaginare cosa succederebbe se dovessimo alleggerirgli il carico di lavoro.»
Non aveva tutti i torti. Chuck era pigro, ma almeno si dava da fare anche se tra sbuffi e tutto il resto.
«Beh, certo che però potremmo anche evitare di prenderlo in giro in continuazione», disse infine, ed era esattamente quello che stavo per dirgli.
Ridacchiai, «Mi hai levato le parole di bocca».
«Immaginavo. Bene così.» Si stiracchiò, «Sei contenta che tra poco non sarai più la Fagiolina della situazione?».
«Beh sì, direi, almeno la smetterete tutti di chiamarmi “Fagio”. È veramente brutto!»
«Immagino. Non ricordo cosa si prova, onestamente.»
«Cosa faresti se arrivasse un'altra ragazza?»
«Niente», scosse le spalle, «assolutamente niente».
«Le diresti le stesse cose che hai detto a me?», domandai. Mi interessava, in tutta onestà ero curiosa.
«Nel senso che la proteggerò e cose così?», arricciò il naso, «No, non penso che succederà».
«Ah no? E perché?»
Rimase un attimo in silenzio, continuando a camminare. Odiavo quando faceva così il misterioso e mi lasciava sulle spine.
Sorrise tra sé e sé, come se si fosse ricordato qualcosa di molto divertente ma non volesse condividerlo, «Così», rispose infine, «Perché me lo chiedi? Sei gelosa?».
Per un attimo sgranai gli occhi, «Cos- no!», brontolai.
Okay, un po' lo ero. Se fosse arrivata qualcuna nella Radura e si fosse attaccata a Newt come avevo fatto io, probabilmente mi avrebbe dato fastidio. Perché... insomma, lui era il mio migliore amico e ne ero decisamente gelosa. Era l'unico con cui riuscivo ad essere veramente me stessa.
«Bene così. D'altro io sono solo “un buon amico”, no?», sollevò un sopracciglio, facendomi l'occhiolino.
«E quella cos'era? Una frecciatina?», incrociai le braccia. Fece le spallucce, ridendo.
Il maledetto aveva una dannata memoria di ferro e sapeva sfruttare bene le parole.
Mi sentii leggermente in colpa per quelle parole, nonostante fossero la verità. Era un buon amico, anzi, il migliore che potessi desiderare.
Si sentii un rumore fastidiosissimo, come se delle unghie avessero cominciato a raschiare contro la lavagna. Ormai conoscevo quel rumore, per cui non mi allarmai più di tanto.
Erano le Porte che cominciavano a fare il solito rumoraccio.
Proprio ieri, mentre eravamo a tavola e prima di andare a portare le cose a Justin, Minho e Newt avevano parlato dei tempi con cui le porte si chiudevano.
Era strano, perché secondo i conti di Minho e gli altri, le porte si chiudevano sempre più velocemente ed un’ora prima rispetto alla settimana precedente.
Ma addirittura così presto?
«Di già?», mormorò Newt, ed era palesemente preoccupato.
Cominciò a correre così veloce che facevo quasi fatica a stargli dietro, contando poi che a terra c'erano svariati ostacoli non troppo distanti tra loro.
Temevo di cadere e farmi veramente male, ma allo stesso tempo non volevo stare troppo distante da Newt e rischiare di perdermi in un posto dove ovunque ti giri è tutto praticamente uguale se non qualche minuscolo dettaglio. Mi domandai come facesse a correre così veloce con quella gamba che gli faceva male.
Raggiungemmo la Radura in veramente pochissimo tempo. Evidentemente correvamo davvero velocissimo e ci fermammo solo quando fummo davanti alla porta del Labirinto.
Mi lasciai andare sulle ginocchia. Ripresi fiato.
Newt abbassò lo sguardo verso di me, si morse il labbro e poggiò le mani sulle labbra
«... Scusa...», mormorò, ma poi riportò velocemente lo sguardo davanti a sé.
Si spostò di lato e cercò di sollevarmi a peso morto per spostare anche me. Ci riuscì un po' e cercai di contribuire per non lasciargli tutto il peso, ma ero seriamente distrutta per colpa della corsa.
Appena ci spostammo abbastanza, davanti a noi sfrecciarono i Velocisti.
Minho era ancora dentro. Sudai freddo quando lo vidi passare a fatica tra i muri ormai semichiusi.
Si lanciò letteralmente in avanti quando ormai non riusciva più a muoversi né camminando né strisciando contro il muro. Cadde bruscamente sul terreno della Radura prendendo una brutta facciata. Si sollevò col busto e si pulì il volto, imprecando un po' per il dolore, poi si guardò alle spalle. Fortunatamente non cominciò a sanguinare, ma da come si toccava il naso probabilmente temeva che potesse succedere da un momento all'altro.
«Queste caspio di mura maledette!» Si mise velocemente in piedi e si pulì, sputando a terra e passandosi la manica sulle labbra.
«Tutto okay?», domandai. La domanda più stupida che si possa fare ad una persona che ha appena sbattuto violentemente la faccia contro il duro terreno.
«Beh, almeno sono vivo» rispose.

Al solito, i Velocisti andarono nella Stanza delle Mappe.
Le porte erano chiuse ed era prestissimo. Era strano vedere il Labirinto chiuso ad quell'ora, ma la cosa inquietante era che i Dolenti fossero già in giro, il che rendeva il tutto ancora più strano.
Perché erano già in giro? Perché il Labirinto si chiudeva così velocemente?
Ero lì da così poco tempo e già avevo la testa incasinata.
Ricordai delle finestrelle che davano sul Labirinto, così decisi di cercarle.
«Che fai?», quella vocina infantile non poteva essere che di Chuck, infatti non ebbi bisogno di girarmi per accertarmene.
«Cerco le finestrelle sulla parete. Newt mi ha detto che se ci guardi attraverso puoi vedere un Dolente, se pazienti un pochino.»
«Ptf, quei cosi escono solo di notte.» Non appena terminò la frase si sentii una sorta di grido meccanico e stridente. Metteva i brividi. Cominciai a rivalutare l'idea di affacciarmi a curiosare.
Non sapevo com'era fatto un Dolente, nonostante la povera descrizione di Newt.
Ne ero incuriosita ma allo stesso tempo terrorizzata. Che razza di persone potevano essere quelle capaci di rinchiudere dei ragazzini in un posto dove, fuori da delle mura enormi, c’erano mostri di quel genere?
«Comunque», mormorò Chuck leggermente scosso, probabilmente per quel verso orribile, «una di quelle finestrelle si trova proprio... qui!» indicò un punto del muro ed io lo raggiunsi in breve.
Non era molto distante da dove mi trovavo io.
Spostai dell'edera che copriva la piccola finestra a forma di oblò e cominciai a guardare.
Era un vetro sporchissimo, ma si vedeva comunque qualcosa.
Mura e mura completamente verdi per via dell'edera. Un lungo corridoio con diverse svolte a destra e a sinistra. Nonostante le mura fossero immense, all'interno del Labirinto c'era abbastanza luce.
Non avrei mai voluto andare lì dentro. Non da sola, almeno. Forse con Minho come guida ci avrei anche potuto fare un pensierino... Sempre sperando che non cominciasse a fare battutine sulla mia lentezza e bassissimo senso dell'orientamento per accrescere il suo ego che era già abbastanza grande di suo.
Se nella Radura ci fossero stati degli specchi, avrei potuto scommettere tutto quello che avevo (ossia nulla, se non i vestiti che indossavo) che avrebbe cominciato ad ammirarsi e lodarsi tutto il santo giorno, che se ne sarebbe portato uno dietro mentre corre per il Labirinto e si sarebbe guardato anche lì.
Ridacchiai sotto i baffi immaginandomi la scena, poi mi fermai e fissai attentamente la scena che mi si proponeva davanti.
Due Dolenti passarono per il corridoio. Si scontrarono accidentalmente.
Vidi chiaramente la loro pelle viscida e nera spiaccicarsi l'una con l'altra, appiccicandosi e staccandosi lentamente, ma con fare viscoso. Tutta quella scena, sebbene fosse muta per via del vetro e della distanza, dava perfettamente la sensazione che quel loro staccarsi avesse un suono simile a quello di un risucchio.
Si punsero a vicenda con gli artigli, ma quasi per errore, poi si ignorarono e andarono avanti arrampicandosi sui muri per non intralciarsi di nuovo e ricadendo goffamente sul pavimento di pietra come se non fosse successo assolutamente nulla.
Sebbene sui Radurai le loro punture avessero un effetto praticamente devastante, quegli esseri erano come i serpenti tra loro: il loro stesso veleno non causava loro nessun problema.
Uno di loro passò proprio sotto la finestra, si fermò un secondo e colpì violentemente il vetro con una punta metallica. Un rumore sordo ma molto acuto. Indietreggiai di botto e caddi a terra di schiena, prendendo un grossissimo respiro come se qualcuno mi avesse dato un pugno al torace pochi attimi prima, levandomi tutta l'aria dai polmoni. Non gridai solo per non mettere in allarme tutti gli altri.
Chuck sembrò aspettarsi quella reazione, per cui non disse nulla.
Si limitò a guardarmi per un secondo, poi guardò la piccola finestra totalmente sovrappensiero.
«È un miracolo che quella finestrella non si sia ancora rotta con tutte le botte che riceve da quei cosi. Sono veramente così brutti? Non ho mai avuto il coraggio di guardarne uno. Mi sploffo nelle mutande solo al pensiero di vederne uno anche solo per sbaglio», borbottò, sistemando velocemente l'edera sulla finestra per coprirla di nuovo.
Non avevo parole per descrivere come mi sentivo e com'erano quei cosi, era come se la mia mente fosse improvvisamente vuota, ma allo stesso tempo piena di domande.
Sembravano tutto ma nulla. Erano quanto di più brutto ci si potesse immaginare in tutta una vita, ma ne ero affascinata, perché sembravano essere un esperimento perfettamente riuscito.
Un mix perfetto di tutto ciò che poteva fare paura ad una persona. Chiunque avesse creato degli esseri simili doveva essere veramente un genio. Malvagio, ma pur sempre un genio. Anche se dovevo ammettere di esserne terrorizzata, allo stesso tempo ne ero totalmente affascinata. In ogni caso speravo vivamente di non dovermi mai trovare faccia a faccia con uno di quei cosi.
Mi tirai su e sistemai i capelli, «Pensa che George sicuramente li ha incontrati nel Labirinto», dissi con un tono che forse era un po' troppo entusiasta della cosa, ma era del tutto involontario.
«Ed è schiattato senza ombra di dubbio», rispose Chuck in tutta tranquillità.
Ne parlava come se non si stupisse affatto e fosse la cosa più normale e logica del mondo. In effetti a pensarci bene lo era.
Ogni tanto mi veniva qualche punta di senso di colpa, anche se non ne avevo motivo di sentirmi così. Non ero stata io a spingerlo giù dalla finestra. Non ero stata io a mandarlo nel Labirinto nudo come un verme. Una parte di me, quella che si sentiva uno schifo per ogni cosa, diceva che ero comunque io il motivo per cui l'aveva fatto. Il motivo della sua gelosia nei confronti di Newt.
Allo stesso tempo mi sentivo stupida a pensarlo. Sospirai sconfortata per via di quei ragionamenti, ma non potevo fare a meno di pensarlo.
Sentii un respiro sul mio collo. Mi si gelò il sangue nelle vene.
Sgranai gli occhi.
«Che fai, sbirci?», sussurrò infine. Feci ruotare gli occhi.
«Non sei divertente, Minho. Non dovresti essere a mappare?»
«Abbiamo già finito, non abbiamo molto da mappare dato che corriamo veramente poco per via della chiusura anticipata del Labirinto», brontolò.
Scossi la testa. Non avevo voglia di parlare, ero troppo presa a pensare ai Dolenti.
La mia mente era ricca di pensieri, domande che probabilmente non avrebbero mai avuto una risposta concreta.
Pensai di rivolgerne qualcuna ad Alby, a Newt... A chiunque mi sarebbe capitato di parlare anche per caso. Insomma, chiunque potesse saperne qualcosa. E tutti lì dentro sapevano sicuramente più cose di me. Come immaginavo, nessuno mi rispose. Si limitarono tutti ad un “Non lo so” oppure un verso scocciato.
Anche se le mie domande chiedevano in vano di avere delle risposte, decisi di non tormentarmi per tutto il giorno e di rilassarmi almeno un po' prima di dover tornare in cucina alla solita e noiosa routine. Visto che Minho, come me, non aveva un caspio da fare dopo aver fatto la doccia, passammo insieme il resto della giornata.
Non era insopportabile nonostante il suo ego enorme, ma questo già lo sapevo. Era un buon intrattenitore. Potevi sicuramente contare su di lui se all'interno di una cerchia nessuno ti parlava.
O almeno questo valeva per me. Aveva solo un vizio: punzecchiava spesso su un unico argomento, ed ultimamente lo faceva solo su quello di George ed era proprio quello che volevo evitare.
A parte questo, la passeggiata che avevamo cominciato qualche attimo prima senza neanche rendercene conto si rivelò abbastanza piacevole. Ci ritrovammo a parlare di Winston e del suo aspetto senza neanche sapere il perché. Mi mostrò angoli nascosti della radura, poi, per qualche strano motivo, ci ritrovammo di nuovo in quel posto che avevo capito di odiare sin nel profondo: le Faccemorte.
Allora nuovamente il mio sguardo venne catturato da quel punticino illuminato a metà, quella sorta di piedistallo.
Lo indicai, dando un colpetto con gomito a Minho. Si voltò e corrugò la fronte, «Che c'è?».
«Cos'è quello?», domandai, indicando di nuovo quel punto insistentemente.
«È la metà di un Raduraio.»
Arricciai il naso e lo guardai. «Frase abbastanza fraintendibile.»
«Non c'è nulla da fraintendere, è esattamente ciò che ho detto. È “esposta” lì perché tutti si ricordino di non fare stupidaggini. La dimostrazione che non c'è altro modo di uscire se non dal Labirinto. In breve, quel Raduraio tentò di fuggire dalla Scatola ma... beh... diciamo che qualcosa lo tagliò a metà.»
Sgranai gli occhi e diedi un finto colpetto di tosse, abbassando lo sguardo. Solo il pensiero mi mise i brividi.
Minho scrollò le spalle e mi spinse leggermente in avanti, «Andiamo, seguimi, ti mostro una cosa.»
«Cosa?»
«Uuuh, vedrai, ti piacerà!»
«Okay, ora mi inquieti un pochino.»
Schioccò la lingua divertito e mi fece cenno di fare silenzio e di seguirlo.
Camminammo per un po' in silenzio, l'unico rumore di sottofondo erano i nostri passi e le foglie che si spezzavano sotto i nostri piedi... Almeno credevo che si trattasse delle foglie... Con quel buio – nonostante fosse ancora presto e c'era anche abbastanza luce – dato dalle fronde degli alberi non si vedeva nulla se non qualche ombra. Dopo un po' cominciai a pensare che fossimo seguiti. Mi vennero i brividi lungo la schiena. Guardai dietro le spalle e tra le ombre scorsi qualcosa. Inizialmente sembrava distintamente la forma di un uomo. Si spostò nel buio, e in quel momento, in un tentativo di mettere a fuoco la vista, notai che era molto più grande e tondo. Deglutii. Forse era solo una mia sensazione. Forse era solo la mia immaginazione. Forse ero solo ancora sovrappensiero per via di quello che avevo visto attraverso quella dannata finestrella.
Maledizione alla mia curiosità del caspio!
Minho si fermò... ed io invece no. Diedi accidentalmente una facciata contro la sua schiena, spingendolo leggermente in avanti.
Non disse nulla, ma si girò a guardarmi. Non vidi nemmeno bene la sua espressione, ma sembrava divertita.
«Cosa mi devi far vedere, quindi?», mormorai leggermente imbarazzata. Mi strinsi nelle spalle. Avevo ancora la sensazione che qualcuno ci stesse spiando.
Indicò verso il basso, poi si chinò sulle ginocchia. Spostò qualche rametto ingombrante e tantissime piante e piantine. L'erba in quel punto era veramente alta e tutte quelle piantine che aveva spostato erano aggrovigliate.
«Se guardi bene, noterai qualcosa...»
Mi abbassai alla sua altezza e mi avvicinai un po'. Spostai anche io qualche pianta e, sebbene un po' titubante, allungai la mano e tastai un po' in giro.
C'erano diverse piante piuttosto grosse, ma dietro queste, c'era un enorme buco.
Era un passaggio nascosto?
Corrugai la fronte e mi voltai verso Minho.
Lui sorrise, ritraendo la mano, «Un nascondiglio!».
«E nessuno si è mai accorto di questo?».
Scosse la testa, «Siamo in pochi a sapere che c'è... beh... a dire il vero, solo in tre. Io, Newt e... beh, tu. L'abbiamo scoperto per caso, mentre perlustravamo la zona, i primi periodi che eravamo qui. Sai, all'inizio questa zona non era così folta e qui c'era un po' più di luce. Queste piante così grosse e robuste si intrecciano tra loro e formano una sorta di capannina. L'apertura è molto piccola e bassa, per entrare devi chinarti. È ben nascosta e nessuno l'ha mai notata. Certo, non è molto spaziosa, ma è un buon posto dove poter scappare per rifugiarsi un po', anche se il luogo che ti circonda non è dei migliori e tanto meno è molto sereno ma... C'è da dire che almeno sparisci per un po' da questo caspio di luogo». Sorrise amaramente, «Mi sono nascosto molte volte qui dentro agli inizi. Anche Newt l'ha fatto. Odia a morte la Radura, l'ha sempre fatto», sospirò, «Come tutti del resto. Non stiamo bene, ma non stiamo nemmeno male. C'è amore e odio per questo posto». Si alzò, così lo feci anche io.
«Perché me l'hai voluto mostrare?»
«Perché dopo tutto quello che è successo ultimamente, forse farebbe bene anche a te avere un posto dove poterti rifugiare e isolare ogni tanto senza avere il timore che qualcuno ti cerchi», scrollò le spalle. Sorrisi e annuii. Pensai che nel suo piccolo quello fosse un bel gesto.
Sentii dei passi dietro di noi. Riecco quella sensazione di essere osservati. In quei pochi istanti me ne scordai. Ora non era più una sensazione.
Mi voltai e scrutai il buio, ma nulla. Almeno all'apparenza non c'era nulla. Che fosse di nuovo la mia immaginazione? Ma quei passi ero sicura di averli sentiti chiaramente. Non potevo essermi immaginata anche quelli.
Eccoli di nuovo. Passi che schiacciavano le foglie sul terreno. Rametti spezzati.
Mi aggrappai al braccio di Minho. Sembrò decisamente sorpreso della cosa.
«Sono così irresistibile?», fece l'occhiolino e ridacchiò.
«Non essere cretino», brontolai, «Non hai sentito i passi?».
«Ma quali e passi, sarà stata una Scacertola», disse, cominciando a camminare dall'altra parte sempre con me attaccata al suo braccio.
«Cos'è una Scacertola?»
«Bella domanda. Sono delle specie di lucertole metalliche, o qualcosa di simile. Ti spiano un po' e poi vanno via. Sono innocue ma veloci da far schifo. Qualcuno ha provato a prenderne una, ma il massimo che ha preso è una facciata da qualche parte.»
«Ah... capisco.» Arricciai il naso.
Speravo che avesse ragione. Lo speravo davvero, perché non mi sentivo per niente al sicuro.
Appena messo piede nella radura, vicino al Casolare, ci furono sguardi incuriositi da parte del gruppo di Gally e gli altri, accompagnati da commentini che Minho mi disse di ignorare.
«Dove siete stati?», domandò Newt. Il suo tono era calmo, ma c'era un piccola punta di non so cosa.
«Le ho fatto vedere quel posto nascosto e un piccolo giro turistico dei posti più “remoti” della radura. Nulla di che.»
«Mhmh», sorrise con un sopracciglio sollevato, poi chiuse gli occhi, «Perché a me hanno dato un'altra versione dei fatti», incrociò le braccia, facendo segno a Minho di seguirlo lontano da me.
Avevo imparato che non dovevo seguirli quando si allontanavano, che tanto le cose me le avrebbero dette comunque se avessero dovuto farlo.
Però non accadde.
Non vidi nessuno dei due per tutta la sera. Né Newt, né Minho. Non si presentarono nemmeno a cena il che mi sembrò molto strano.
La mattina seguente mi svegliai appena le Porte del Labirinto si aprirono. Mi andai a lavare ed indossai i vestiti. Gli Intendenti e i Velocisti si erano alzati da poco, e mentre questi ultimi Si affrettarono ad andare nel Labirinto, accadde qualcosa che nessuno si sarebbe mai aspettato.
Le porte si chiusero ad una velocità sorprendente, rischiando di schiacciare un Velocista che, per sua fortuna, Minho ritirò dentro la Radura appena in tempo.
Guardammo le Porte sigillate. Sia i Velocisti che gli Intendenti rimasero basiti davanti a quella scena.
Quel giorno i Velocisti non avrebbero mappato assolutamente nulla.
«Fantastico!», gridò Minho, «Ci mancava anche questa! Cosa mai potrà esserci di peggio! Stupide Porte del caspio!», continuò a gridare, prendendo un sasso e tirandolo contro le mura.
Si alzò una specie di stridio metallico. Quella specie di grido dei Dolenti.
Alzammo tutti lo sguardo verso la fine delle mura del Labirinto. Si intravidero delle punte metalliche che però, per fortuna, sparirono in pochi secondi.
«Fortuna che quei cosi non sanno arrampicarsi fino alla fine», mormorò Zart.
Le mura si aprirono lentamente di qualche centimetro. Un braccio meccanico spuntò dal muro, ma non passò oltre. Per fortuna il muro si richiuse pochi attimi dopo.
«Cacchio, Minho e Zart, fatemi il favore di chiudere quelle boccacce», brontolò Alby.
«Pensi che sia il caso di chiudersi nel Casolare?», domandò Newt. Alby annuì. «Forse per oggi direi di sì. Non vorrei che quelle mura si aprissero di botto e trovassimo i Dolenti che pascolano allegri nella Radura assieme alle pecore.»
«Ehi, che ci fa la ragazza di Minho già sveglia?», esclamò Winston.
Alzai le sopracciglia e mi grattai la fronte imbarazzata.
La ragazza di Minho? Perché mai mi aveva definita così? Ecco cos'erano quei commentini da parte degli amichetti di Gally.
Nessuno per fortuna rispose.
Tornammo tutti dentro il Casolare.
Alby e Gally rimasero fermi davanti all'uscita del Casolare, in modo che nessuno potesse andare via.
Tutti i Radurai sembrarono confusi da quella decisione. Tutti sapevano delle Porte chiuse, ma nessuno sapeva del problema Dolenti ed era meglio così, non si voleva rischiare il panico generale.
Newt era sdraiato sul lettino. Fissava il soffitto che non sembrava affatto stabile, anzi, sembrava quasi che potesse crollarti addosso da un momento all'altro. Ma nonostante l'apparenza, non scricchiolava e non era incrinato. Reggeva che era una meraviglia.
Appena mi vide avvicinarmi, si mise seduto.
«Posso sedermi?»
«Secondo te perché mi sono messo seduto? Certo che puoi sederti», il suo tono era lo stesso del giorno prima.
Mi sedetti accanto a lui, prendendo un respiro profondo, «Perché tu e Minho non avete cenato ieri notte?»
«Eravamo troppo nervosi per mangiare qualcosa», scrollò le spalle. Detestavo quando teneva quel mistero attorno alle parole. Non mi guardava nemmeno mentre parlava.
«Come mai?» non rispose.
Sbuffai e portai le ginocchia al petto.
«Perché non lo chiedi direttamente a Minho?», nel suo tono c'era una punta di amaro. Sarcasmo amaro.
«Perché non so dov'è», risposi schietta.
«Ah certo, sono anche la ruota di scorta ora? Da buon amico a ruota di scorta. Questo sì che si chiama passaggio di livello!»
«Finiscila! Ti odio quando ti comporti in questo modo!», digrignai i denti.
Per un attimo sgranò gli occhi, poi si rilassò, girandosi lentamente verso di me, «Okay».
«Cosa ti prende? Dimmelo, caspio! Ieri dici quella roba e poi sparisci, oggi fai così! Avanti! Cosa vi siete detti ieri?»
Contrasse la mascella. Analizzò il mio sguardo, stringendo lentamente i pugni e rilassandoli poco dopo. Prese un respiro profondo, puntando gli occhi sui miei. «Non l'hai mai capito, eh?»
Corrugai la fronte, «Cosa non ho mai capito?».
Sospirò, chiuse gli occhi per un attimo, poi li riaprì, «George non è l'unico che ha provato qualcosa per qualcuno sin dal primo momento in cui ha incrociato i suoi occhi nella Scatola».

 

{Angolo dell'autrice}
Salve pive! Miracolo, oggi sono in ritardo solo di un giorno! basta, questo è un evento da segnare nel calentario!
Scherzi a parte, spero che il capitolo vi sia piaciuto anche se è un po' più lungo degli altri.
Ora passo alle piccole "novità", o meglio, piccoli cambiamenti:
Stavo cominciando a pensare di mandare un messaggio privato ogni volta che aggiorno alle persone che hanno già recensito in precedenza.
Mi rendo conto che i miei ritardi a volte sono seriamente stratosferici e spesso andare a guardare se qualcuno aggiorna o meno è una rogna, sopratutto se bisogna farlo ogni tot perché non si sa mai quando si aggiorna o meno.
Proverò oggi spesso. Fatemi sapere se pensate che è meglio o meno, perché se da fastidio non lo farò. È solo un modo per tenere i lettori il più aggiornati possibile, a me non crea alcun disturbo. Anzi, lo prendo anche come un modo per rapportarmi un po' di più ^^
Ah, e come avrete sicuramente notato, ho cambiato il banner, anche se ammetto che all'altro c'ero affezionata, ma va beh!
Al prossimo capitolo, pive! :D

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***




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Boccheggiai. Non risposi. Non sapevo cosa dire. Insomma, dannazione, non poteva saltarsene fuori all'improvviso con una frase del genere.
Forse avrei dovuto dire qualcosa dato il suo sguardo. I suoi occhi non erano mai stati così intensi, pregavano che parlassi, che dicessi qualcosa. Qualsiasi cosa.
Beh... che perlomeno c'entrasse con l'argomento.
Ma ero spaesata, era come se mi trovassi al buio in una stanza... Come se mi trovassi di nuovo all'interno della Scatola.
Spostò di botto lo sguardo, sospirò pesantemente e si passò una mano tra i capelli in modo palesemente frustato.
Abbassai lo sguardo, rimanendo in silenzio. Dovevo essere arrossita o qualcosa del genere, perché le mie guance pulsavano ed il mio cuore batteva all'impazzata.
Quel silenzio era pesante ed imbarazzante, rabbrividii talmente ero in tensione e sperai vivamente che accadesse qualcosa che ci costringesse a parlare.
«Immaginavo questa tua risposta silenziosa», sussurrò in modo quasi inudibile, «me l'aspettavo.
È okay, anzi, giustissimo così. Quello in torto sono io, non preoccuparti. Siamo Radurai e abbiamo altre cose per la testa che queste cose». Fece per alzarsi, ma gli impedii di spostarsi prendendogli il braccio e tirandolo all'indietro, costringendolo a stare sul letto accanto a me. Non volevo che se ne andasse.
«Non sei in torto, brutta testapuzzona», brontolai, «sono cose che possono succedere, caspio, non farti filmini mentali che non servono a nulla».
Non potevo negare di essere leggermente a disagio.
Ero confusa, non avevo mai pensato che Newt potesse provare una cosa simile... sopratutto per me.
Forse avrei dovuto mettere in conto che sarebbe potuto succedere, ma come aveva detto lui di solito i Radurai avevano la testa impegnata in altro. Sopratutto lui che era comunque il secondo in comando.
Certo, mi aveva sempre portata su un piatto d'argento sin dal mio arrivo, ma pensavo più che altro che lo facesse per un semplice atto di cortesia... okay, non avevo scuse per questo, non avevo saputo cogliere i segnali e in quel momento mi sentii una stupida. Veramente una stupida.
A pensarci bene, era sempre stato chiaro. Forse l'avevo sempre saputo ma l'avevo sempre negato come una sciocca, perché sapevo che nella Radura queste cose dovevano essere lasciate perdere o si rischiava di fare la fine di George. Avevo ignorato volontariamente i segnali sin dal primo momento.
L'unico che non aveva mai lasciato perdere questa cosa era stato Minho... ed era meglio che nessuno gli dicesse che aveva sempre avuto ragione, sennò se ne sarebbe vantato per il resto dei suoi giorni.
Cominciai a farmi dei viaggi mentali....
E se in quel momento Newt si sentiva come George? Sarebbe mai arrivato ad odiarmi? Cosa sarebbe successo da quel momento in poi? Ma sopratutto... io cosa provavo per Newt?
Chiusi gli occhi e sospirai rumorosamente.
La mia testa era carica di domande di quel genere e non sapevo come liberarmene, sopratutto perché.... temevo le risposte.
Non avevo mai pensato a Newt sotto quella luce.... o forse sì, ma inconsciamente.
Mi prese la mano e sussultai, ma non la ritrassi, non volevo farlo.
Si accorse che avevo sussultato e sorrise in modo chiaramente ferito, spostando lui la mano.
Cercai di non far vedere quanto in verità avrei voluto che la tenesse sopra la mia. Avevo bisogno di sentire il suo tocco... mi sentivo strana.
Non tanto per le sue parole, ma avevo una pessima sensazione.
«Avrei dovuto starmene zitto, ma non ce la facevo più. Poi quando ho saputo che hai baciato Minho proprio non ci ho visto più...»

Corrugai la fronte e arricciai il naso. Il mio velo di pensieri fu spazzato via da quella frase.
Io, baciare Minho? Non l'avrei mai fatto. Mai! Era come un fratello maggiore per me, anche se probabilmente avevamo la stessa età.
Newt continuò a parlare in modo rapido e senza sosta, era nervoso e le sue mani tremavano e si muovevano in modo frenetico.
«Io non ho baciato Minho...», mormorai e per un attimo pensai che non mi avesse nemmeno sentita, ma invece si bloccò e corrugò la fronte.
«Sul serio?», la sua espressione si ammorbidì, ma nell'arco di qualche secondo tornò il solito sguardo duro, come se avesse indossato una maschera di colpo per non mostrare la parte più sensibile di lui.
Annuii, mi sentivo in colpa per il tormento che si stava dando, anche se colpe non ne avevo.
Si passò nuovamente una mano tra i capelli, fissando il muro spoglio davanti a sé.
«Ma scherzi? Non potrei mai baciare Minho. Ma chi ti ha detto una cosa simile?»
«Uno dei ragazzi che sta sempre con Gally, gliel'ha detto qualcun altro ma non mi ha detto chi.» Chiuse gli occhi, «Scusami».
«Non scusarti, non è successo niente.» Poggiai la fronte sulla sua spalla, sentendolo trasalire un pochino.
«A pensarci bene, credo che Minho si sarebbe vantato della cosa e l'avrebbe gridato ai quattro venti.» Ridacchiò scuotendo la testa, ma era una risata amara, come se avesse voluto tirare su il morale a qualcuno... ma più che altro, come se avesse voluto far credere a qualcuno di essere felice, ma dentro di sé era a pezzi. Capii che odiavo vederlo in quel modo.

«Adesso cambierà tutto, vero?», sussurrò.
«No, farò un modo che non cambi assolutamente niente», risposi così, sorridendo, ma non ne ero sicura nemmeno io.
Volevo rassicurarlo e volevo provare a non far cambiare veramente nulla, ma una buona parte di me era abbastanza sicura che la situazione tra noi invece sarebbe cambiata parecchio sotto molti aspetti.

Passarono diverse ore, Minho ci trovò e ci venne incontro.
Teneva il muso come un bambino, ma parlò ugualmente con Newt per chiarire quella situazione.
Non si erano presentati a cena per il semplice fatto che quando Minho aveva provato a chiarire con Newt il fatto del bacio, lui non gli aveva creduto ed avevano iniziato a litigare.
erano scappati anche diversi colpi, ma nessuno dei due si era fatto troppo male.
Fui sollevata di questo, ma mi sentii meglio solo quando Minho e Newt si strinsero la mano in segno di pace fatta. Speravo di più in un abbraccio fraterno, ma forse era chiedere troppo.
Mi domandai a quel punto se Newt avesse parlato con Minho della sua cotta, ma probabilmente no... speravo. È una cosa che avrei dovuto chiedere più avanti.
Passarono diverse ore.
Il Casolare iniziava a stare stretto, i Radurai impazienti e annoiati. A parte l'odore che cominciava a diventare insopportabile...
Si lamentavano tutti, volevano uscire fuori e lavorare, correre o fare cose simili.
Non era uno spazio enorme e non c'era molta possibilità di muoversi lì dentro. Ci stavamo, ma c'era veramente poco spazio.
Dovetti alzarmi dal letto per aiutare gli altri addetti alla cucina a distribuire del pane nel tentavo di tenerli buoni.

Mangiavano tutti nervosamente, ma anche per colmare la noia che si faceva sempre più pensante ad ogni secondo che passava.
La situazione era appesa ad un filo visto che i Radurai cominciarono a fare sempre più domande:
“Perché non possiamo uscire?”, “Perché le mura del Labirinto sono chiuse?”.
«Ehi, avete sentito?!», gridò qualcuno dal piano di sopra.
Sul Casolare cadde il silenzio totale nel tentativo di sentire qualche rumore esterno.
Un minuto. Silenzio.
Due minuti. Niente.
Tre minuti. Niente.
Quattro minuti. Niente
Cinque minuti... il rumore di un grido metallico, seguito da un altro rumore di ferro che strisciava contro altro ferro.
Newt era in piedi accanto a me, mi guardò con la fronte corrugata come per chiedermi se avessi sentito anche io.
Una domanda muta, ma che capii al volo.
«Questi rumore sembravano...»
«Molle», terminai la frase prima che potesse farlo lui.
Una piccola folla si radunò accanto alla finestra. I ragazzi si accalcarono prima che potessero farlo gli altri, ma indietreggiarono tutti ad una velocità assurda.
Ben presto si creò un piccolo spiazzo vuoto davanti alla finestra malandata del Casolare.
Cosa ci poteva essere di così spaventoso? Nessuno osava affacciarsi di nuovo alla finestrella, nemmeno per assicurarsi di aver visto bene.
Feci per avvicinarmi ma Newt mi bloccò per la spalla, scuotendo la testa per dirmi di non guardare.
«Dolenti», sussurrò il ragazzo con i capelli rossi davanti a me, sdraiato a terra e pallido per la paura. «I Dolenti hanno saltato le Mura», sussurrò di nuovo. Tremava a terra, tirò su le ginocchia e cominciò a dondolare avanti e indietro sul posto. «Siamo tutti morti. Morti! Morti, morti, morti...», continuò a ripetere quella parola mentre dondolava.
Newt si alzò e si affacciò alla piccola finestra, osservando attentamente all'esterno. «Come caspio... Ma questi sembrano molto più grossi e... metallici. Sono decisamente più grossi!», sgranò gli occhi, «E sono anche molto più attrezzati, date quelle belle punte metalliche che hanno sul dorso. Sembrano dei caspio di ricci!».
«Come hanno fatto quei cosi a saltare quelle Mura? Credevo non potessero farlo!», sbottai.
Ero nervosa. Se prima avevo quella brutta sensazione, ora ero seriamente convinta che le cose avrebbero preso davvero una brutta piega.
«Questi non sono come gli altri Dolenti. Sembrano essere quasi più evoluti, grossi e armati... dei caspio di ricci/carroarmato...»
Cominciai a pensare che la colpa di tutto quello che stava succedendo fosse davvero mia.
Prima di allora i Dolenti non avevano mai saltato le Mura perché erano troppo alte anche per loro.
Prima di allora le Porte non si erano mai chiuse del tutto per un giorno intero...
Sospirai e poggiai la schiena contro il muro più vicino, strisciando verso il basso e chiudendo gli occhi.
E riecco quella sensazione di avere di nuovo gli occhi puntati addosso, come se tutti mi stessero giudicando e incolpando di quella situazione.
Non avevo il coraggio di aprire gli occhi per assicurarmi che fosse così o meno, volevo solo sparire da lì, fuggire altrove o svegliarmi sperando che fosse tutto okay, che quello in verità fosse solo un brutto incubo e non la realtà.
Poteva mai andare peggio quella giornata?
Si sentii un rumore di legno che si spaccava. Corrugai la fronte e aprii gli occhi, pensando che quella domanda forse era meglio non farla.
«Oh no...» Newt si allontanò dalla finestrella, indietreggiando fino alla parete contro la quale ero poggiata.
«Non dirmi che quei cosi si stanno arrampicando sul Casolare...»
«Sì...» Si appoggiò alla parete e strisciò verso il basso, accanto a me, poggiando le mani sulla fronte e i gomiti sulle ginocchia, «Merda...».
Il Raduraio che poco prima aveva cominciato a dondolare, ora dondolava più velocemente e ridacchiava in modo isterico, guardandosi attorno in modo frenetico, «Ve l'ho detto, siamo tutti morti! Morti, cazzo, morti!», ridacchiò ancora. Era chiara la tensione nel tono della sua voce, era roca e strozzata, come se avesse potuto piangere da un momento all'altro... e stava per farlo.
Il pavimento tremò leggermente in seguito ad una botta esterna non troppo lontana da noi. Delle altre assi scricchiolarono, ed erano della parete davanti a noi.
I Radurai si allontanarono dalla finestra, accalcandosi alla parete contro la quale eravamo poggiati io e Newt.
Dalla finestra si intravidero due grossissime punte metalliche.
Il Dolente era esattamente davanti a noi, per fortuna era fuori.
Camminava sulla parete, saliva verso il piano di sopra. Il corpo era di un colore scuro e metallico e la pelle era visibilmente appiccicosa, ricca di grinze.
Si fermò esattamente sopra la finestra, il suo corpo si appiccicò al vetro con un rumore sordo.
Qualche minuto dopo sei punte si conficcarono dentro la parete. Era punte grandi quanto la mia testa ed erano ai lati della finestra.
«Le cose non si mettono bene», sussurrò Newt fissando attentamente quelle punte.
In quel momento si aprirono ed uscì un filo da ciascuna punta. Da ogni filo uscì sorta di bocciolo metallico e appuntito, che si aprì rivelando quattro punte che andarono a conficcarsi sul pavimento a pochi centimetri di distanza dalla parete. Delle scintille elettriche cominciarono a fare uno spettacolo di luce azzurra, salivano fino alle punte e fuori dai fori, lungo il corpo tozzo del dolente. Sembrò caricarsi, e pochi attimi dopo cominciò a fare leva sulle punte. Il pavimento si incrinò leggermente, creando piccole spaccature, la parete si piegò in avanti.
«Dobbiamo andarcene di qui!», gridò il ragazzo accanto a me. Era pietrificato e le sue mani tremavano. «Dobbiamo andarcene prima che entri dentro e ci faccia fuori uno per uno!»

Ma in quel momento, il Dolente tirò indietro le punte attaccate al pavimento e le mise sulla parete.
Si abbassò leggermente e ciò che sembravano essere mille occhi piccoli, ravvicinati e gialli, si appiccicarono al vetro.
Fissava i Radurai contro la parete. Tutti. Sembrava assaporare le prede, scegliere quale avrebbe fatto fuori per primo, quale per ultimo, come se avesse avuto davanti il miglior menù che qualcuno gli avesse mai proposto.
«Dobbiamo andarcene», sussurrò Newt. Non voleva farsi sentire dagli altri, «Quel coso ti sta fissando e la cosa non mi piace».
Mi si gelò il sangue nelle vene. «Chi ti dice che sta fissando proprio me?», sussurrai anche io.
«Non lo so. Ho la sensazione che ti stia cercando. Sembra un leone affamato, ma più grosso e spaventoso.» Si alzò lentamente, cercando di evitare qualsiasi movimento brusco.
Dio, mi stava facendo venire l'ansia. «Newt?»
«Sei pronta?», sussurrò di nuovo. Nessuno dei Radurai sembrò notare i suoi movimenti, erano troppo impegnati a sploffarsi addosso per quella presenza che stava fuori dalla finestra.
«Che vuoi fare?!»
«Devi solo seguirmi e fidarti di me!»
«Non vorrai mica uscire di qui?» Sgranai gli occhi quando lo vidi annuire. «Ti si è rincaspiato il cervello?!»
«Hai un idea migliore? Perché quella di stare qui a discutere su chi dei due sia più pazzo non mi pare una buona soluzione!»

Ammutolii.

Mi porse la mano, «Quindi, sei pronta?»
«Non esattamen-»
«Ora!», afferrò velocemente la mia mano e scattò fuori dalla stanza.
Fui costretta a seguirlo, che mi andasse bene o meno.
Tirammo spallate a tutti quelli che incontrammo. Mi si strinse il cuore per l'ansia nel vedere tutti quei Radurai accalcati contro le pareti per il terrore di essere circondati da quei Dolenti.
Non ci volle molto a raggiungere la porta dell'uscita dal Casolare. Ignorammo i vari tentativi di essere fermati e le urla di Alby e Minho, per non parlare del “Dove andate?” di Chuck. Lo disse con un tono così tremolante che mi venne l'ansia per lui. Doveva essere terrorizzato ed io ero lontanissima da lui. Avrei voluto stringerlo per rassicurarlo, anche se in verità quella che voleva essere rassicurata ero io.
Una volta fuori sentimmo un forte stridio metallico.
Riuscii a vedere quei Dolenti. Erano decisamente più grandi e Newt aveva ragione. Sembravano dei ricci metallici misti. Avevano sei zampe all'esterno che sporgevano da quella sorta di guscio ricoperto. Dal basso spuntava una sorta di sacco molliccio che doveva essere la loro pancia, ed oltretutto doveva essere la parte che prima era premuta contro il vetro.
Non erano in molti, solo in quattro e due stavano litigando tra loro.
Dalla pancia di quei due puntarono seghe circolari, si stavano distruggendo a vicenda producendo scintille ovunque.
Il Dolente che stava fuori dalla finestra cominciò a stridere più forte, probabilmente si era accorto che eravamo usciti.
Scese dalla parete e, mentre gli altri due ignorarono il richiamo e continuarono ad uccidersi a vicenda, il quarto cominciò a rotolare verso di noi.
«Corri più veloce! Stammi vicina!», gridò Newt, correndo più veloce che poteva verso quella zona che io odiavo. Le Faccemorte.
Ci addentrammo in quella sorta di foresta buia, in breve tempo fummo nella zona più folta.
Il mio cuore batteva così forte e veloce che temevo di sputarlo da un momento all'altro. L'adrenalina mi stava dando alla testa. Sudavo freddo, sentivo quelle creature rotolare alle nostre spalle e temevo di non potercela fare. Capii in poco tempo dove eravamo diretti, ma temevo che non avremmo mai fatto in tempo a raggiungerlo.
Newt sapeva orientarsi, probabilmente conosceva quel posto meglio di chiunque altro... o almeno, meglio di me di sicuro. Comunque questo mi faceva sentire un po' più sicura.
Girò di botto rischiando di farmi dare una bella facciata contro un tronco, e questo successe almeno una ventina di volte, tant’è che cominciai a pensare che lo faceva solo per vendicarsi o qualcosa di simile. Continuammo a correre alla cieca finché non sentimmo i Dolenti abbastanza lontani.
A quel punto Newt cominciò a rallentare un pochino. Ansimava per la fatica, il suo respiro era fortissimo. Mi guardai attorno, orientandomi almeno un po’. Capii che non eravamo molto distanti dal nascondiglio.
«Di qua», disse Newt a fatica, camminando verso sinistra senza lasciarmi la mano.
Spostò tutte le varie piantine velocemente e mi fece passare per prima, poi mi raggiunse e risistemò velocemente il tutto per nascondere il passaggio.
Non era un nascondiglio molto grande a dire la verità, ma ci stavamo da seduti.
Newt si sedette e respirò profondamente per riprendere fiato, poggiò i gomiti contro le ginocchia e si piegò in avanti. Cercò di non fare rumore, perché ormai i Dolenti non erano troppo distanti.
Il problema era che il mio respiro era parecchio pesante ed udibile, solo che non me ne resi conto prima di quel momento. Mi sentii in trappola, era terrorizzata. Se si fossero accorti che eravamo lì dentro, non avremmo avuto scampo.
«Oh no...», mormorai, la mia voce tremava. Indietreggiai fino a poggiare la schiena contro quella sorta di parete fatta di tronchi. Era fredda. O forse ero io ad essere congelata dalla paura.
Cominciai a tremare come una foglia quando sentii il rumore dei rametti che si spezzavano all'esterno. I Dolenti erano veramente parecchio vicini al nostro nascondiglio.
Il mio respiro era ancora pesante. Tentai di tutto per calmarlo. Alla fine strizzai gli occhi, ma li sgranai quando sentii la mano di Newt tapparmi la bocca.
«Ssh...», avvicinò l'indice della mani libera alle sue labbra, guardandomi con un espressione calma e fredda. Mi stupii di quanto fosse calmo e sicuro di sé, ma almeno uno dei due doveva esserlo.
Si avvicinò di più a me, senza spostare la mano dalle mie labbra, e con l'altro braccio mi strinse a lui. Lo lasciai fare, mi sentivo un po’ più sicura così. I Dolenti ormai erano a pochi centimetri dall’entrata del nascondiglio.
Chiusi gli occhi, sperando che andassero dritti e che non si accorgessero di nulla, come succedeva per gli altri Radurai quando passavano davanti a quel mucchio di erba, rami e piante che nascondevano l’entrata.
«Non si accorgeranno di nulla, vedrai», sussurrò a voce così bassa che feci quasi fatica a capirlo e spostò la mano dalle mie labbra, poggiandola sul suo ginocchio.
Annuii. Decisi di credergli, ma continuai a tremare nonostante mi accarezzasse la schiena per calmarmi.
Era sempre stato così dolce con me e non avevo mai pensato a ciò che provava veramente... Dio, quanto ero stata stupida.
Restammo in silenzio ad aspettare che quei cosi sparissero dalla zona, ma sembravano imperterriti. Continuavano a passare davanti al nascondiglio senza accorgersi nemmeno una volta dell’entrata.
Rotolavano, stridevano, rotolavano ancora, si scontravano ma non si accorsero assolutamente di nulla. Niente. Non fecero niente se non girare intorno.
Fu un ora passata con l’ansia di essere scoperti, e in tutto quel tempo Newt non fece altro che accarezzarmi la schiena e respirare in modo calmo, cosa che piano piano cominciai a fare anche io.
Avrei voluto avere anche solo la metà della sua sicurezza e della calma che dimostrava.
Forse col tempo avrei imparato ad essere così. Forse...
Mi sembrava praticamente impossibile. Qual’era la mia utilità in quel posto? Nessuna. Se non preparare del cibo il più commestibile possibile. Fino ad allora ero solo riuscita a farmi additare come quella strana, quella di troppo.
Si sentii un rumore di lame poi uno sferragliare persistente ed uno stridio straziante.
Lo stesso che emettevano i Dolenti che nella Radura si stavano tagliuzzando a vicenda.
Anche quei due Dolenti si stavano facendo fuori a vicenda? Perché?
Non era decisamente il caso di controllare finché quei suoni non si fossero placati del tutto.
Newt chiuse gli occhi e fece un respiro profondo, accasciandosi contro i tronchi alle nostre spalle.
Spostò la mano dalla mia schiena e riaprì gli occhi, fissando l'uscita dal nascondiglio. Sembrava incantato ed ero abbastanza sicura che stesse ascoltando attentamente i rumori prodotti dalle lame dei Dolenti.
«Pensi si stiano distruggendo a vicenda?», mormorai e lui annuì, ma non distolse lo sguardo dall'uscita. «Sei stato un pazzo a fuggire dal Casolare...»
«Ma siamo vivi. Penso vivamente che se fossimo rimasti lì dentro quei cosi ci avrebbero affettati tutti. E comunque se ti fosse successo qualcosa non me lo sarei mai perdonato. Ti ho promesso che ti avrei protetta ed è ciò che voglio fare.» Contrasse la mascella e sospirò.
Non sapevo cosa rispondere, quando diceva cose simili mi spiazzava completamente ogni volta.
Sorrisi leggermente e mi appoggiai meglio contro di lui. Mi cinse le spalle con un braccio, la sua mano scese lungo il mio braccio e cominciò ad accarezzarlo. Un movimento così naturale che mi domandai se se ne rendesse conto. Come la notte che avevamo passato accoccolati nel letto.
Pensandoci bene ora potevo capire tutto quel mistero che girava attorno a diverse frasi dette in passato. Come quando mi parlava del mio arrivo nella Scatola, del fatto che se mai fosse arrivata un altra ragazza non l'avrebbe mai trattata come trattava me ed altre cose... era tutto per quello che prova nei miei confronti ed io sono stata così cieca da non essermene mai accorta. Più pensavo a questo fatto più mi sentivo stupida.
«A cosa stai pensando?», domandò continuando ad accarezzarmi il braccio, abbassando il volto per guardarmi. La mia nube di pensieri si dissolse un pochino, giusto il tanto per poterlo sentire, ma le domande e le riflessioni continuavano a passarmi davanti ricordando quanto ero stata stupida.
«A nulla in particolare, non preoccuparti.»
Fece un respiro profondo, «Stai pensando a ciò che ti ho detto nel Casolare, vero?».
Ma che diavolo, mi leggeva nella mente?
Annuii imbarazzata, ma cercai di non darlo a vedere... non troppo almeno.
Ridacchiò e scosse la testa, «Smettila di pensarci Fagio, ti si fonderà il cervello sennò. È okay, te l'ho detto», nel suo tono c'era ancora quella piccola traccia ferita che mi faceva sentire in colpa.
Ridacchiai anche io nel vano tentativo di smorzare un po' l'imbarazzo, ma l'unica cosa che ottenni fu un silenzio imbarazzante appena entrambi finimmo di ridacchiare.
Lo guardai, mordendomi nervosamente il labbro. Il suo viso era serio, riuscivo a vedere una traccia frustrata nei suoi occhi, la sua espressione sembrava glaciale, ma sapevo che in fondo, nonostante cercasse di non farlo vedere, stava male per ciò che era successo poco prima. Chissà se avrebbe mai attutito il colpo basso. Sicuramente al posto suo ci sarei rimasta veramente male, probabilmente non l'avrei guardato in faccia per un po' perché ad ogni sguardo mi avrebbe distrutta... Chissà se per lui era lo stesso, ma magari non voleva darlo a vedere.
Spostò la mano dal mio braccio e schiuse le labbra, sorridendo nel modo più naturale che potesse fare, «Lo senti?».
«Cosa?»
«Il silenzio! Quei cosi hanno finito!»
«Oh... non me n'ero accorta. Questo posto è così tranquillo che mi ero quasi scordata della loro presenza.»
«Già... lo so. È un bel posto quando vuoi rifugiarti dai problemi esterni», respirò profondamente e si passò una mano tra i capelli, «Ho passato parecchio tempo qui i miei primi periodi da Raduraio».
«Sì, Minho mi ha accennato a questa cosa», tirai su le ginocchia e le poggiai contro il petto
«Hai presente quei giorni in cui... beh... passavamo poco tempo assieme? Venivo qui a pensare.
Devo ammettere che quella frase del “buon amico” mi aveva leggermente scombussolato. Venivo qui a riflettere su queste cose», sorrise di nuovo in quel modo amaro, abbassando il volto e rialzandolo pochi attimi dopo. «Ma il periodo più lungo che ho passato qui dentro è stato poco dopo essermi fatto male nel Labirinto.»
«Nel Labirinto?», corrugai la fronte.
«Già... il motivo per cui zoppico ogni tanto», mi guardò, «sai... ho sempre odiato da morire questo posto. Non ti ho mai detto come mi sono fatto male alla caviglia, giusto?».
«No, mai...»
Sorrise e annuì, abbassando lo sguardo sulla caviglia e poggiandoci una mano sopra. «Tempo fa mi arrampicai su quelle dannate Mura e mi lanciai giù. Sperai che così finisse quell'incubo, o che mi svegliassi in un letto comodo rendendomi conto che tutto ciò che stavo vivendo era solo un brutto sogno o qualcosa di simile. Puoi immaginare da sola cosa è successo una volta schiantato al suolo. Ti dico solo che Alby mi ha salvato la vita. Allora non sapevo nemmeno cosa pensare, quando mi ha portato via dal Labirinto era come se fossi vuoto. Sì, certo, sentivo dolore ovunque, ma con la testa ero altrove. Spaventato, confuso, alla ricerca di risposte che nessuno sapeva darmi. Alla fine mi sono armato di forza di volontà e ho cominciato a fare la mia parte, perché capii che ormai ero qui, non valeva la pena arrendersi e fare il peso morto e che dovevo aiutare gli altri in qualsiasi modo potessi farlo, che prima o poi saremo usciti di qui. Mi attaccai a quella speranza. Non avevo granché per cui combattere se non la convinzione cieca che da qui sarei uscito e avrei finalmente cominciato a vivere, non a sopravvivere. È stato un periodo davvero scuro e non poso negare che ogni mattina mi svegliavo incazzato o comunque nervoso e mi sfogavo con tutti i lavori che potevo fare nella Radura. Ho cominciato a stare meglio quando sei arrivata tu», l'ultima frase fu quasi un sussurro, «In un certo senso sei la mia anestesia dal male che mi crea questo posto...». Mi guardò, per un attimo rimase serio, poi sul suo volto comparve un sorrisetto ed infine cominciò a ridere.

Corrugai la fronte e gonfiai le guance, «Che c'è?».
«Accidenti, sei arrossita!»
Mi toccai le guance. Erano effettivamente bollenti. Arrossi ancora di più per essermene resa conto.
Mi coprii il volto con le mani e brontolai qualcosa di incomprensibile anche a me. Mi consolai perché lo feci ridere in modo abbastanza sincero.

«Lo so, è veramente sdolcinato, mi faccio quasi schifo», disse mentre rideva. Sì, era sdolcinato, ma non mi faceva schifo. Anzi, lo trovai tenero.
Avevo voglia di abbracciarlo. Sapevo che Newt nascondeva degli scheletri nell'armadio, come tutti del resto.
«Avanti, usciamo di qui, dobbiamo avvertire gli altri che i Dolenti sono morti.»
«Siamo sicuri che siano morti e non che siano semplicemente fuggiti?», dissi spostandomi le mani dal volto.
Scosse le spalle e si imbronciò, «Qualcuno dovrà pur accertarsene. Non possiamo rimanere qui dentro tutta la notte».
«Oh sì che possiamo», brontolai. Non volevo uscire da lì, avevo paura che quei cosi potessero sbucare fuori all'improvviso e farci a pezzettini.
«Non essere sciocca, Liz, se rimaniamo qui dentro tutta la notte penseranno che siamo schiattati.»
«È ciò che vorrebbe la metà di loro. Almeno per quanto riguarda me.»
Scosse la testa, «No, non è vero. E in ogni caso non mi interessa». Si piegò in avanti ed uscì dal nascondiglio, lasciandomi il via libera così che potessi uscire anche io.
Lo raggiunsi e mi sistemai i vestiti tutti stropicciati e pieni di terra per aver strisciato sul terriccio per uscire.
Davanti a noi c'erano i corpi dei due Dolenti.
Erano enormi, a pancia all'aria e con le zampe metalliche incrinate all'indietro con le punte in fuori.
Erano completamente aperti, pieni di tagli e sotto di loro c'era una sostanza che sembrava sangue mista ad olio, petrolio e metallo liquido.
Erano decisamente morti.
«Questi Dolenti sono proprio brutti e decisamente più grandi degli altri. Da così vicino è ancora più evidente», disse fissando i loro corpi.
E aveva ragione. Nonostante avessero le zampe piegate all'indietro, erano enormi e il loro aspetto era terrificante. Dalle punte sulla schiena fuoriusciva una sostanza verdognola che andava a mischiarsi con la pozza sotto di loro. Cominciava a diffondersi una puzza insopportabile che mi fece storcere il naso. Newt cominciò a camminare evidentemente infastidito da quell'odore.
Era inutile rimanere lì a guardare quei cosi morti e avrebbe avuto il tempo di tornarci anche più avanti. Cominciai a seguirlo e mi strinsi nelle spalle, guardandomi attorno per assicurarmi di non essere seguita da quei cosi.
Magari fingevano solo di essere morti... non mi sarei stupita della cosa.

Quando tornammo nella Radura, i ragazzi avevano costruito una sorta di scudo enorme fatto di legno e avevano spinto i corpi dei due dolenti che si erano maciullati a vicenda contro le pareti del Labirinto. Speravano che così facendo le Porte si riaprissero l'indomani.
Ma la cosa buffa è che appena notarono la presenza di Newt quasi esultarono e tirarono un sospiro di sollievo. Non fecero una grossa eccezione per me... tranne Justin.
Justin sorrise con un non so che di tetro quando mi vide. Perché?
«Avete deciso che si può gironzolare di nuovo?», domandò Newt ad Alby mentre quest'ultimo trascinava via con gli altri quella sorta di scudo.
«Beh, visto che siete fuggiti e quei cosi vi hanno seguiti e fuori era tutto tranquillo... sì. A proposito, sono morti, vero?»
«Sì, sono morti. Bella mossa azzardata, Alby. E se fossero stati ancora vivi?», incrociò le braccia.
Dopo aver poggiato lo scudo a terra, Alby si grattò la testa e la dondolò leggermente, assumendo un espressione riflessiva, «Beh... avremmo avuto un bel problema. Mi sono lasciato abbindolare dalla parlantina di Minho. Che, tanto per la cronaca, era terrorizzato quando vi ha visti uscire dal Casolare. A proposito, che caspio ti è saltato in mente?! Potevate fare una pessima fine lì fuori con quei cosi che vi seguivano!».
Newt scosse le spalle, «Potrei dire la stessa cosa a te, Alby».
Non aveva voglia di discutere ed era chiaro, tant'è che dopo avergli risposto optò per allontanarsi da lui e cercare Minho. Non volevo discutere al posto suo, così cominciai a cercare qualcosa da fare per aiutare gli altri Radurai.
Per fortuna i Dolenti non avevano fatto grossi danni, tranne i buchi al Casolare. Avevano forzato troppo i muri che ora erano inclinati e spezzettati.
Io ed altri Radurai cercammo di ripulire la pozza lasciata da quei Dolenti, altri ragazzi rimasero ad osservare i cadaveri nonostante la grossa puzza che stavano facendo.
Justin era accanto a me. Mi inquietava a dire il vero... e anche parecchio.
«Stai bene?», sussurrò guardandomi con la coda dell'occhio, «Come ve la siete cavata?».
«Uhm? Ah, sì, sto alla grande. Ci siamo arrampicati sugli alberi...»
Sollevò un sopracciglio, «Vi siete arrampicati...».
«Già...»
«Sugli alberi...»
«Sì...»
Corrugò la fronte, mantenendo il sopracciglio alzato, poi arricciò il naso, «Non ho mai visto Newt arrampicarsi su un albero... e tu, sai arrampicarti su quei cosi altissimi?».
«Oh sì, io so arrampicarmi benissimo!» Stavo mentendo... non ero in grado di arrampicarmi nemmeno su una sedia, figuriamoci su un albero che possedeva dei rami grossi solo in alto mentre quelli più fini erano sul fondo.
Pensai che non ci avrebbe mai creduto, ma scosse le spalle e annuì, «Okay, capisco. Siete stati fortunati comunque, quei cosi sembravano parecchio assetati di sangue», alzò lo sguardo verso i due cadaveri, «Spero non tornino indietro».
«Penso che il Labirinto si sia chiuso per cercare di proteggerci... o qualcosa di simile...»
«Ma non ha funzionato bene. Come vedi quei cosi hanno scavalcato.»
«Beh, immagina se però fossero arrivati anche gli altri più piccoli. Sarebbe stato peggio, no? Non avremmo resistito un minuto di più lì dentro fermi tutti insieme. Ne sono certa.»
Justin sospirò in modo pesante e annuì. Mi guardò in modo strano. Forse i Dolenti gli ricordavano la fine che aveva fatto George o qualcosa di simile.
Mi sentii improvvisamente in colpa e dovetti guardare altrove, sentivo come se tutta quella situazione fosse davvero colpa mia.
Il biglietto... ciò che diceva George... il Labirinto... Dio, dovevo smetterla di pensare tutte quelle cose. Come potevo entrarci in tutto questo?
Mi passai una mano tra i capelli e sentii una mano poggiarsi sulla mia spalla.
Sobbalzai e alzai il volto, ritrovando quello di Newt.
Oggi mi stava parecchio attaccato o era solo una mia sensazione?
«Che c'è?», domandai, corrugando la fronte
«Vieni un attimo Liz.»
«Okay», mormorai e mi alzai, seguendolo.
Camminò svelto verso i corpi dei Dolenti e indicò una delle zampe metalliche, «Leggi».
Ma non poteva leggermelo lui? Non volevo avvicinarmi a quei cosi.
Gli tirai la peggiore occhiataccia che potessi fare, poi mi sporsi in avanti.
“Elizabeth”.
Corrugai la fronte e guardai Newt, che spostò a sua volta lo sguardo su Minho, esattamente accanto a lui.
Quest'ultimo alzò le mani al cielo, «Ehi, perché mi guardi? Non l'ho mica inciso io il suo nome sulla zampa di questo coso!».
Newt fece roteare gli occhi e mi guardò, «Ne sai qualcosa?».
«Ne so meno di voi», ammisi.
Forse aveva ragione quando diceva che quel coso cercava me... forse non era solo una sua sensazione.
Rabbrividii e mi guardai attorno. E riecco la sensazione di avere tutti gli occhi puntati contro.
Ma adesso mi guardavano davvero... almeno, quelli che erano lì presenti.
Due Radurai di cui non sapevo il nome, Minho, Newt e Zart, di cui conoscevo il nome solo perché Alby una volta lo aveva ripreso per avergli rovesciato addosso per sbaglio il piatto pieno di minestra.
Chiusi gli occhi per un attimo ed ispirai profondamente, pentendomene subito dopo per via dell'odoraccio che mi si infilò nelle narici.
Mi venne un conato di vomito e mi piegai in avanti, mettendo un campanello d'allarme a Newt che si avvicinò subito e poggiò una mano sulla mia schiena.
Allungai una mano verso di lui e la poggiai sul suo petto, allontanandolo di qualche centimetro, poi mi tirai su, fissando quella scritta.
Non capivo il perché di scriverlo su uno di quei cosi.
«Stai bene?», domandò Newt.

Annuii, continuando a fissare quella scritta.
Non sapevo perché, ma sentii un brivido percorrermi la schiena e lo stomaco si rivoltò su sé stesso.
La nausea mi tormentava.
«Bene così, allora possiamo anche andarcene», disse e fece per girarsi, così come gli altri.
Poi una di quelle zampe ebbe uno scatto, come un riflesso involontario. Scattò dritta e tirò fuori le punte, cominciando a ruotare in sé stessa. Uscirono delle lame dal corpo e si scagliarono sul terreno, rimbalzando verso di me.

Mi pietrificai e le osservai. Volevo spostarmi ma non ci riuscivo. Volevo, ci provai, ma era come se avessi i piedi piantati a terra, prigioniera del mio stesso corpo.
Newt mi spinse via. Avrei voluto che non lo facesse, perché venne ferito al posto mio. Ed allora si placò tutto di nuovo. Il Dolente ritirò le lame, la zampa tornò piegata su sé stessa.
Il corpo ebbe un ultimo fremito poi si placò di nuovo inerme.
La maglietta di Newt era squarciata sul petto, una piccola striscia di sangue si formò in una linea obliqua. Avevo gli occhi sgranati.
«Vuoi che vada a chiamare i medicali?», domandò uno dei Radurai che non conoscevo, ma Newt scosse la testa.
«No, sto bene», disse passandosi una mano lungo il taglio.
Non riuscivo a parlare. Era come se avessi la lingua paralizzata.

«Allora, dove siete andati quando siete fuggiti, miei piccoli Romeo e Giulietta?»
«Ci siamo rifugiati tu-sai-dove», brontolò Newt, fissandosi la maglietta.
Si era fasciato il petto con una garza e medicato con un po' d'alcool inzuppato in un panno da cucina, ora sembrava una sorta di mummia in versione economica.
«Aw, come siete romant-»
«Chiudi quella caspio di bocca se non vuoi che stacchi una lama a uno di quei Dolenti e ti rasi i capelli a zero», ribatté Newt prima che Minho potesse finire di parlare.
Doveva essere un argomento veramente duro da affrontare quello.
Il Casolare era veramente silenzioso e quella notte nessuno aveva voluto mangiare.
La maggior parte dei Radurai aveva deciso di dormire ai piani superiori, non volevano stare al piano inferiore per paura che uno dei Dolenti potesse risvegliarsi all'improvviso ed entrare (trovai la cosa inutile dato che, se anche fosse successo, potevano benissimo arrampicarsi sul Casolare e raggiungerli comunque).
Non mi lamentavo: avevo il letto del piano inferiore libero, anche se preferivo lasciarlo a Newt per farlo stare comodo. Eravamo seduti tutti e tre lì sopra, infatti.
Minho diede un finto colpo di tosse e sospirò, «Va bene, va bene, scusa. Comunque è stato un buon piano se siete ancora vivi. Volevo per l'appunto cercarvi e dirvi che potevamo andare lì dentro. Quando vi ho visti uscire speravo vivamente che foste diretti lì».
«Certo che eravamo diretti lì», rispose Newt, strizzando gli occhi mentre si sistemava sul letto.
E riecco i sensi di colpa. Se non fosse stato per me ora non avrebbe avuto quel taglio sul petto.
Minho si alzò, «Beh, ora riposati, soldato», fece un finto saluto militare e prese il suo sacco a pelo sistemato esattamente dietro di lui, «Io dormirò di fuori, se hai bisogno di me, sai dove trovarmi».
«Va bene... mamma», ridacchiò Newt e ricambiò il finto saluto militare, seguendolo con lo sguardo mentre usciva dalla stanza del Casolare.
Chiusi gli occhi e poggiai la testa alla parete, sospirando pesantemente.
«Che c'è Liz?»

«È colpa mia», mormorai, girando leggermente gli occhi.
«Ma sto bene, vedi? È tutto okay, non è niente!»
«No, tu non stai bene! Non puoi stare bene con un taglio sul petto!»
«Non è mica così grande!»
«Ah, no? Allora avanti, fammi vedere!»

Sgranò gli occhi e si guardò attorno, passandosi una mano tra i capelli. «... vuoi che mi levi la maglietta?»
«Che c'è, fai il timido? Quella che ha il seno sotto la maglietta sono io, non tu», brontolai ed incrociai le braccia.
Rimase sbigottito dalla mia risposta e ridacchiò sotto i baffi, levandosi la maglietta poco dopo.
Era seriamente la versione economica di una mummia. La benda gli ricopriva l'intero petto e mostrava la striscia di sangue.
«Avanti, levala», dissi sospirando.
«Cosa?»
«La benda. Levala», fece ruotare gli occhi verso il soffitto e tolse lentamente la benda, arricciando il naso infastidito. Il taglio era veramente grande, altro che niente.
«Sei un Pive bugiardo, lo sai?», digrignai i denti e presi il panno, lo inzuppai d'alcool e lo poggiai delicatamente sulla ferita.
Fece un’espressione stupita ed abbassò lo sguardo sulla mia mano. Mi lasciò fare, per sua fortuna.
Avevo una gran voglia di prenderlo a pugni per ciò che aveva fatto, per avermi mentito sulla grandezza del taglio, per aver mentito sul fatto che non gli facesse male e per non avermi detto quanto fosse profondo. Perché, cavolo, lo era. Non molto ma lo era.
Il panno era insanguinato, mi faceva quasi impressione.
«Che fai?», domandò in un sussurro, gli bruciava ed il suo tono di voce lo faceva intendere
«Ti medico, non vedi?»
«Non sei costretta a farlo.»

«È il minimo che posso fare. Tu ti prendi cura di me ed io mi prendo cura di te, okay?», mi spostai i capelli da un lato, «Lasciami fare, ti prego», mormorai. Di colpo mi sentii strana.

«Bene così... grazie.»
Accennai un sorriso, «Prego.»

Sorrise anche lui, arrendendosi al fatto che tanto non mi sarei spostata da lì.
«Posso chiederti una cosa?»
«Sì... almeno mi distraggo e non penso a quanto caspio brucia questo coso.»
«Minho sa di... beh...»
«Di ciò che ti ho confessato? No, ma sicuramente lo sospetta. Oh, eccome se lo sospetta.» Scrollò le spalle e se ne pentì subito dopo, lasciandosi sfuggire un gemito di dolore.
Forse era il caso di chiudere definitivamente quel discorso o avrebbe ricominciato a stare male per quella storia. Non volevo che questo accadesse, perché ci tenevo a lui e odiavo vederlo stare male.
Sentii di nuovo quella strana sensazione. Era come se lo stomaco si stesse contorcendo su sé stesso.
«Fatto», sussurrai distrattamente e spostai il panno, poggiandolo su quello che era un comodino improvvisato. Acchiappai la benda la girai dalla parte pulita, cominciando a bendarlo come prima.
Sapevo che sarebbe stato meglio prenderne una pulita, ma non potevo andare a cercarla. L'avremmo cambiata l'indomani.
Rimase a fissarmi con un sorrisetto stampato sulle labbra, poi si infilò di nuovo la maglietta, «Grazie, Fagio».
«Prego, Pive», risposi ridacchiando, poi si sdraiò sul letto e si tirò su il sacco a pelo piegato al bordo del letto, passandomi il mio, che era proprio sotto il suo. Aprì il sacco a pelo e se lo gettò sopra. Feci per alzarmi, ma mi prese il polso e scosse la testa.
«Stai qui ancora un po'», mormorò.
Accennai un sorriso e annuii, sdraiandomi accanto a lui. Non sarei rimasta a lungo, volevo che stesse comodo e anche se quel letto era abbastanza grande per starci in due, occupavo dello spazio che poteva usare benissimo per stendersi meglio e mettersi comodo.
Era tutto così strano ora che sapevo ciò che provava. Sapevo di aver detto che avrei provato a non far cambiare nulla tra noi, però... in un certo senso, qualcosa era cambiato.
Mi sentivo un po' più strana a stare accanto a lui. Lo guardavo con occhi diversi, sentivo il suo tocco in modo diverso. Era come se avessi avuto una via libera che prima non avevo, o meglio, non vedevo.
Chiuse gli occhi e si sistemò meglio sul cuscino, cercando di non far peso sulla spalla, visto che il taglio arrivava fin poco sotto questa.
«Hai ancora un taglietto sullo zigomo», mormorai e poggiai una mano sulla sua guancia.
Aprì di poco gli occhi, richiudendoli poco dopo, annuendo, «Sì, lo so».
«Mi sento il colpa per tutto questo.»
«Finiscila di rincaspiarti il cervello Liz.» Legò il braccio attorno alla mia vita, spostandolo poco dopo e poggiando la mano dietro la mia schiena, come se fossimo di nuovo nel nascondiglio e volesse tranquillizzarmi. Avevo sempre pensato che Newt fosse il mio palo in quel posto, e sì, lo era. Caspio se lo era. Mi sentivo in colpa per quello che gli era successo, perché sapevo che l'aveva fatto solo per evitare che mi ferissi io. Così come era fuggito dal Casolare con me solo per mettermi in salvo e come aveva fatto a botte con George solo per difendermi. Mi sentii un po' meglio quando mi accarezzò la schiena, esattamente come era riuscito a tranquillizzarmi all'interno del nascondiglio nonostante fossi terrorizzata da ciò che accadeva lì fuori.
L'unico che cercavo sempre era solo lui, anche se nella Radura c’erano altri ragazzi.
Anche se volevo un mondo di bene anche a Minho, Chuck, Frypan e gli altri, l'unico di cui mi ero sempre preoccupata seriamente era Newt.
Quando non mi calcolava poi tanto, anche se parlavo con gli altri, anche se lo vedevo poco tempo e facevamo chiacchieratine spicciole di qualche secondo, mi mancava da morire ed ero piuttosto giù di morale.
Non era abbastanza chiaro anche a me ciò che provavo per lui?
Santo cielo, quanto avrei voluto tirarmi dei colpi con la zampa del Dolente morto stecchito lì fuori.
La verità mi cadde addosso come un macigno: fu come se mi mancasse l'aria per un secondo, eppure ne fui felice.

{Angolo dell'autrice}
Salve pive! Scusate il super ritardo di sta volta, prometto che mi farò perdonare in qualche modo.... Ad esempio con un capitolo più lungo, come questo ^^"
Ho finalmente trovato una beta e la ringrazio per il lavoro che ha svolto e la grossa pazienza che dimostra. Grazie grazie grazie!
Vorrei farvi qualche spoiler sul prossimo capitolo ma preferisco lasciarvi sulle spine ancora un pochino.
Alla prossima, pive!

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***




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«Vorrei ancora prenderti a pugni per ciò che hai fatto ieri, sappilo», sussurrai a Newt mentre lavavo le pentole utilizzate per preparare il pranzo.
Era accanto a me, poggiato al ripiano della cucina visto che Alby gli aveva esplicitamente detto di non azzardarsi a fare neanche il minimo sforzo finché quel taglio non fosse guarito almeno un pochino. Era annoiato, per cui mi seguiva come un cagnolino bisognoso di attenzioni.
«È la dimostrazione d'affetto più sincera che abbia mai sentito in vita mia», disse ridacchiando, mentre si rigirava tra le mani un coltellino svizzero trovato chissà dove.
«Sono seria!» Acchiappai la spugna metallica e cominciai a raschiare il fondo della pentola, «mi hai fatta preoccupare parecchio! Sto metabolizzando la cosa solo ora, caspio!». Ed era vero.
Era come se la consapevolezza delle cose mi fosse caduta addosso di botto. Avevo gli occhi lucidi e mi veniva da piangere.
Sin dal mio risveglio era stato così... a parte il grosso imbarazzo per essermi svegliata con lui accoccolato a me. Mi ero addormentata nel letto con lui anche se mi ero ripromessa di non farlo per lasciarlo comodo, ma sembrava comodissimo anche in quel modo.
Era stata una bella sensazione svegliarsi con la sua testa poggiata sulla spalla, sembrava dormire così tranquillo che mi attaccava il sonno solo a guardarlo.
Scossi la testa per scacciare via quel ricordo e tornare a concentrarmi sulla pentola, mentre con una mano mi sfregai il polso contro gli occhi, sentendo la guancia umida. Stavo lacrimando e non me n'ero accorta... sperai che non se ne accorgesse nemmeno lui, tanto era concentrato a giocare col coltellino.
«Poteva andare diversamente. Poteva scattare più avanti quella caspio di lama. E se ti avesse colpito più a fondo? E se la lama ti avesse tagliato la gola?!» Mi scappò la pentola dalle mani, producendo un rumore che fece girare gli altri tre ragazzi nella stanza. «Dannata pentola!», sbuffai.
Mi stavo alterando per via della preoccupazione. Era come un post-trauma, il senso di colpa cresceva velocemente dentro di me.
«Avanti, Liz, non è successo nulla di tutto questo!»
«Sì, ma se fosse successo? Non me lo sarei mai perdonata.»
«Ed io non mi sarei perdonato se ti fosse successo qualcosa, mettiamola così. Ora smettila, caspio», sbuffò.
Poggiai le mani ai lati del lavello e chiusi gli occhi, abbassando la testa. I capelli volarono in avanti, cominciai a tremare lievemente. Avevo di nuovo quella sensazione di essere prigioniera del mio corpo e cominciai ad odiarla. Lacrimavo di più di prima, ma non producevo nessun rumore, nessun singhiozzo. Tremavo al sol pensiero che quella lama sarebbe potuta affondare di più ed io non avrei potuto fare nulla, solo assistere alla scena, senza nemmeno gridare perché mi sarebbe mancata la parola. Era come se fossi rinchiusa all'intero di una scatola trasparente, con l'acqua alla gola che lentamente saliva fino al naso ed io stessi affogando, ma non avessi le forze per cercare di salvarmi.
«Ehi...» sobbalzai sentendo la sua mano sulla spalla. Girai il volto dall'altra parte, non volevo che mi guardasse e non volevo dare uno show davanti agli altri.
«Sto bene», dissi in seguito ad un sospiro, riprendendo a lavare quella pentola.
Ma stavo bene sul serio?
La preoccupazione era troppa, la cosa positiva era che avevo recuperato il controllo del mio corpo.
Il mio stomaco si strinse in sé stesso e si rivoltò, la nausea si fece forte di colpo.
Non capii se si trattasse di quella sensazione chiamata “farfalle nello stomaco” o di quella chiamata “indigestione da sbobba di Frypan”. Ma era da quella mattina che provavo quella sensazione allo stomaco. Era stata una mattinata strana, a dire la verità.
Il Labirinto si era aperto quella mattina, i Velocisti avevano aspettato più di un ora prima di entrare, temendo che potesse chiudersi. Solo due di loro erano andati, tanto per fare una prova di esplorazione, ma dopo quattro ore senza che le Porte del Labirinto si fossero chiuse erano entrati anche gli altri.
I corpi dei Dolenti erano spariti, come se fossero stati divorati dal terreno, l'unica cosa che era rimasta di loro era la pozza, ormai nera e nauseante alla sola vista, e l'odore fetido emanato da questa.
E a me rimaneva ancora la pessima sensazione di quello che sarebbe potuto succedere se la lama avesse colpito Newt più a fondo.
Non mi preoccupavo di ciò che sarebbe potuto succedere a me, ma di quello che sarebbe potuto succedere a lui. Ormai le cose andavano così... o, probabilmente, era sempre stato così.
Finii di pulire la pentola e la sistemai nel ripiano superiore, mi asciugai le mani e decisi di uscire dalla Cucina lasciando il resto del lavoro agli altri. Infondo non potevo sempre lavare tutto io.
Mi guardai alle spalle, notando che Newt non mi stava seguendo.
Magari era rimasto in cucina ad aiutare gli altri o a fare ciò che non stavo facendo io così da occupare il tempo e la sua noia.
Decisi di fare un giro per la Radura, evitando accuratamente il punto dove si trovava quella pozza schifosa. La Radura in fondo era così bella, immersa nella natura, piena di verde.
Certo, a parte quelle Mura enormi che la circondavano, ma era davvero bella.
Si stava bene tutto sommato e, c'era da ammetterlo, alla fine si viveva in modo abbastanza sano, con tutto il necessario. L'unica cosa che ci mancava era la libertà di andarcene.
Sentii un brusio tra le foglie, poi vidi una piccola lucetta.
Abbassai lo sguardo. Una piccola creaturina metallica era ferma davanti a me.
Quella era... una scacertola?
Mi chinai sulle ginocchia e la osservai. Non scappava, eppure, a quanto avevo capito, non si lasciavano avvicinare così facilmente.
«Ehi... ciao piccolina...» corrugai la fronte, sentendo una sorta di risposta da parte sua. Era più che altro un rumore come se stesse zoomando o qualcosa del genere.
Allungai la mano e toccai la superficie fredda e metallica che ricopriva quella sorta di creatura, che poco dopo fuggì velocemente.
Corrugai la fronte ed inclinai la testa, seguendola con lo sguardo. Non potevo negare di essere stupita di quel comportamento, ma non potevo farci nulla. Avrei voluto seguirla per vedere dove andava, dove fuggiva in quel modo frettoloso.
Si sentì una ventata di quella puzza insopportabile della pozza lasciata dai Dolenti, ma era solo qualcosa di simile. Doveva esserlo, visto che quella pozza si trovava dall'altra parte della Radura rispetto a me. Mi venne su un conato di vomito che mi fece piegare in due, tirai indietro i capelli e spalancai la bocca. Sentii l'amaro in bocca, la mia salivazione aumentò di botto.
E riecco il rumore dello zoom, ma la scacertola non sembrava essere nei paraggi... che ce ne fosse un altra nelle vicinanze e mi stesse osservando? Certo che aveva un tempismo davvero schifoso se era così.
Un altro conato più forte. Sembrò prendermi per la gola e strozzarmi con una stretta fortissima.
Lo stomaco si strinse in sé e i miei polmoni cominciarono a bruciare.
Un altro conato, poi un altro ancora e alla fine vomitai.
Non vomitai cibo o qualcosa di simile. No. Era una sostanza nera e appiccicosa. Sembrava petrolio da quanto era nero. C'erano tracce rosse simili al sangue, ma ero abbastanza sicura che non lo fosse. Non poteva essere sangue, ma mi allarmai comunque. Ciò che stavo vomitando sembrava tutto meno che normale.
Conati su conati che non mi davano nemmeno il tempo di respirare. Mi ritrovai in breve tempo con le mani contro il suolo, ai lati di quella disgustosa pozza nera che lentamente si espandeva.
I capelli volarono in avanti, sentivo che sarei potuta svenire da un momento all'altro. Il mio stomaco si stringeva ad ogni conato. Dovevo essere sporchissima, ma non riuscivo a smettere.
I Radurai non si accorsero nemmeno di ciò che mi stava succedendo, il ché era normale dato che alla fine non ero in un posto molto “trafficato” da loro: in quella zona ne passava uno ogni tanto, la zona di lavoro era più concentrata sul centro della Radura che sulle zone un po' più periferiche.
«Liz!» Sentii delle braccia tirarmi su e trascinarmi via.
Era come se non fossi lì, come se non fossi presente nel mio corpo. La mia vista era offuscata, non avevo nemmeno la forza di muovere un solo arto.
Sapevo che era Newt a portarmi via, ma non sapevo se qualcuno gli stesse dando una mano o meno.
Sperai di sì, perché il mio peso doveva essere pari a quello di un corpo morto in quel momento e non volevo che lui facesse tanti sforzi con quella ferita ancora aperta.
Vedevo a stento delle ombre, le luci del cielo mi abbagliavano. Era tutto confuso.
Persi i sensi.

Mi risvegliai nel Casolare. Aprii gli occhi. Era ancora tutto confuso, ma sapevo di trovarmi lì dentro. Le voci erano come un eco, ogni parola si ripeteva all'infinito. Vedevo delle ombre confuse, mi veniva di nuovo da vomitare. La mia testa girava velocemente.
Finalmente cominciai a vedere delle sagome indistinte ma... non quanti erano. I miei pensieri erano confusi, non capivo nulla. Nulla!
Sentivo un sapore acido in bocca, sporca, appiccicosa. La mia lingua era praticamente incollata al palato.
«Lasciatela respirare!», gridò qualcuno alle mie spalle. Ero sicura che fosse la voce di uno dei Medicali. Se avessi avuto la forza di alzare un pugno, probabilmente l'avrei picchiato.
La mia testa era pesante, la sua voce rimbalzava come una pallina, sopratutto per aver gridato. Ora avevo un grosso mal di testa.
Diedi un colpo di tosse, sentii il mio stomaco stringersi di botto a causa di questo. Bruciava da impazzire, mi sembrava di aver mangiato dei sassi incandescenti.
Dannazione, quanto stavo soffrendo in quel momento! Mi sembrava di avere un fuoco vivo in gola.
Volevo parlare ma non ce la facevo, a stento riuscivo a respirare, figuriamoci a mettere due parole in croce.
Sentivo dolori ovunque, non vedevo nemmeno bene. Respirare era faticosissimo, ad ogni respiro mi sembrava di stare nel fuoco, ma oltretutto mi pareva di emettere gorgoglii nasali abbastanza rumorosi ma che sicuramente sentivo solo io. Era tutto nella mia testa.
Per non parlare della testa, o meglio, degli occhi. A furia di sforzare la vista nel tentativo di mettere a fuoco le figure mi facevano così male che sembrava che stessero cercando di strapparmeli via dal cranio con delle pinzette.
Infatti, alla fine, chiusi gli occhi, decidendo che non valeva la pena sforzarsi ulteriormente.
In ogni caso, sapevo che attorno a me c'era gente abbastanza affidabile, anche se non avevo ben capito chi ci fosse.
Prima o poi avrei capito quanti erano e chi fossero, ma fino ad allora decisi che tenere gli occhi chiusi fosse la scelta migliore.
«Che cos'ha? È molto grave?», quel vocino flebile era di Chuck, era preoccupato e il suo tono di voce lo dimostrava. Sentii una mano sul mio braccio e diedi per scontato che fosse la sua, essendo piuttosto piccina. Nonostante il tocco fosse leggero, mi diede fastidio. Non perché mi stessero toccando, ma perché in un certo senso mi fece male anche quello, ma non mi lamentai. Non volevo che ci rimanesse male.
«Non lo so. Non so nemmeno se è qualcosa di contagioso, visto che ciò che ha vomitato era tutto meno che cibo, questo è sicuro. Era questo il motivo per cui vi ho detto di stare fuori, ma visto che non mi avete voluto ascoltare, beh, tanto peggio per voi!», disse il Medicale dietro di me.
«Non rimarrò mai lì fuori ad aspettare il suo risveglio, caspio», brontolò Newt
«Ripeto, tanto peggio per voi!»
La testa mi esplodeva in una maniera spropositata, ogni parola era come un eco che si ripeteva per mille volte ad un volume più alto del normale. Decisi di sforzarmi di parlare, ma la mia lingua non solo pareva essere incollata al palato, ma era sembrava essere fatta di pietra. Mi sforzai di più. Cominciai a temere di sudare per la fatica che stavo facendo.
«P-Parl...ate p..p-piano», dissi debolmente, prendendo un respiro profondo poco dopo. Mi sembrava di aver detto la frase più lunga del mondo, ed invece erano due parole dette anche troppo male.
Sollevai a fatica un braccio e lo poggiai sugli occhi. Bruciavano come l'inferno, ora sembrava che stessero cercando di tagliarmeli via con un taglierino arrugginito.
Era un dolore continuo, per non parlare del braccio che una volta poggiato sul volto cominciò a formicolare.
«Eh?» Il Medicale si sporse in avanti, ero quasi cerca che si fosse chinato a due centimetri dalla mia faccia. Ne sentivo la puzza di sudore. Mi domandai se si fosse mai lavato in vita sua.
«Ha detto di parlare piano», ripeté al posto mio Newt.
In quel momento avrei voluto fargli una statua per avermi risparmiato la fatica di dover ripetere quelle parole.
«Non ha una bella cera, comunque», questa voce era... di Justin. Aveva una voce così profonda e fredda che non poteva che appartenere a lui. «Sembra morta da quindici giorni.»
«Beh, angelo della morte, hai deciso di fare l'uccellaccio del malaugurio?», ribatté Chuck e Justin, in tutta risposta, schioccò la lingua.
«Sono preoccupato tanto quanto te, pive!»
«Wow, hai un modo tutto tuo di dimostrare la tua preoccupazione!» Stava alzando la voce. Chuck già di suo aveva un tono particolarmente acuto per via della sua età, se cominciava a strillare non ero abbastanza sicura di avere la mente pronta ad accogliere un eco così stridulo.
«Basta litigare voi due», questo era Alby, ne ero certa. «Jeff, fai in modo che si riprenda presto del tutto. E non far entrare nessuno di quei dannati Pive a meno che non sia uno di quelli presenti in questa stanza. Oh, Minho. Minho può entrare.»
«Agli ordini, capo.»
Chuck fece scorrere la mano verso la mia. Aprii il palmo e lui sussultò, passandovi delicatamente l'indice. «Perché ha la mano insanguinata? Anche l'altra è così?!», disse velocemente e con un tono tremante.
Jeff sospirò, «Sì, lo è anche l'altra. Abbiamo dovuto aprirle le mani a forza. Quando è arrivata stringeva i pugni così forte da conficcarsi le unghie nella carne viva. Vi assicuro che questa ragazza ha una forza allucinante nelle mani, eravamo in due per aprirle i pugni. Non demordeva! Nessuno ha notato i graffi che ho sulle braccia?! Non solo non voleva che le aprissimo i pugni, ma dopo averlo fatto ha cominciato a graffiarmi come per ripicca!».
«Gridava come una pazza da quanto si stava facendo male», mormorò Newt, il suo tono di voce era pensieroso, «spero non lo faccia più».
«Se ci prova, beh, farò in modo di fermarla. Non era una bella scena vederla conficcarsi le unghie nella carne.»
«Wow, ha la scorta, scommetto che se fosse successo a George tutto questo non l'avreste mai fatto», brontolò Justin.
«Ti sbagli, anche George ha avuto il suo momento di gloria qui dentro», ribatté Jeff.
E riecco il brusio, ma all'improvviso non lo sentii così vicino. Era un eco unico, ma si faceva lontano e mi sentii cadere nel baratro. Era come se il mio corpo all'improvviso fosse avvolto dalle tenebre e avesse cominciato a fluttuare nel vuoto. La mia mente cadde nell’oblio.
Poi più nulla. Ero presente, cosciente, ma non sentivo assolutamente nulla.
Vidi una luce bianca improvvisa, fortissima ed abbagliante.
Il rumore di un macchinario che fischiava, simile a quegli apparecchi che facevano sentire i battiti cardiaci. Ma non era uno di quegli apparecchi, bensì una sorta di sveglia.
Aprii gli occhi e fui accecata da una luce bianca fortissima.
«Oh, finalmente ti sei svegliata!», disse una ragazza bionda accanto a me.
La guardai e sorrisi, annuendo. «Sì, ho dormito molto?», domandai con la voce impastata.
Sapevo di conoscerla, ma non sapevo il suo nome. Anzi, non avevo la benché minima idea di chi fosse.
Il suo volto era roseo, doveva avere una trentina d'anni, ma li portava veramente bene. Aveva una lunga treccia di capelli biondi che le ricadeva sulla spalla e due occhi azzurri veramente intensi. Un sorriso cordiale le dipingeva il volto. In mano teneva una cartellina su cui stava scrivendo delle cose con una penna bic blu. Mi osservava mentre dormivo? Perché?
«Hai dormito per quasi cinque ore, neanche troppo quindi, ma ti assicuro che era un sonno davvero profondo!» Sorrise di nuovo.
Feci le spallucce e mi strofinai una mano contro il viso. «È normale, ero distrutta. Ci hanno fatto fare dei test davvero pesanti oggi e mi hanno tenuta ferma diverse ore in più per finire di disegnare il progetto D2MH. Abbiamo anche dovuto studiare un titolo, all'inizio volevano modificarlo in D2RH, e la R stava per ragno. Sai, per le zampe, ma poi abbiamo optato per M. Metallo.» Sospirai, «Mi hanno costretta a disegnare un essere come quello. Mi hanno forzata a stare alzata tutta la notte a lavorare su una cosa che non volevo fare, a lavorare ad un progetto che non dovrebbe nemmeno esistere. Mi domando a cosa servirà tutto questo».
Quella donna assunse un espressione di compatimento. Sapevo che anche lei infondo si poneva le stesse domande e mi capiva. Sapevo che di lei potevo fidarmi, ma aveva un obbiettivo in testa e lo rispettava ciecamente, anche se andava contro la sua morale.
«Sai bene che dobbiamo farlo per un bene più grande. Sono sicura che le generazioni future riconosceranno i nostri sacrifici.»
«Ma noi, nel mentre, cosa faremo? Dovremo continuare queste esperimenti in eterno? Non mi piace doverlo fare...»
Quella donna chiuse gli occhi. «Siamo noi i sacrifici.» Scrisse sulla cartella, poi la poggiò sulla scrivania dietro di sé, «Tutti dobbiamo svolgere il nostro compito, lo sai».
Mi guardai attorno. La stanza era piena di schermi e computer di altissima tecnologia. Sapevo dov'ero, ma non sapevo dare né una collocazione precisa né un nome a quel posto. Sapevo di essere al sicuro, ma al sicuro da cosa? C'era qualcosa che non andava nel mondo e ne ero certa, ma non sapevo di cosa si trattasse.
Un bene più grande.... più grande di cosa? Per chi, sopratutto?
Mi guardai i vestiti. Indossavo un camice bianco e ora che mi guardavo meglio le mani potevo vedere dei segni grigi dovuti all'uso eccessivo della matita.
Sapevo di aver passato la notte a lavorare su un progetto, a disegnarlo nei minimi particolari, Sapevo di conoscerlo a memoria in ogni suo dettaglio, eppure non ricordavo di cosa si trattasse.
«Quindi il progetto D2MH è terminato?», domandò la donna.
«Sì, ora il primo è in fase di produzione, poi quando si rivelerà necessario lo metteranno in funzione. Il primo sarà il più grande di tutti, gli altri saranno più piccoli... ma non saranno così tanti come i primi che abbiamo creato, saranno molto di meno. Loro sono speciali, più forti e più aggressivi», dissi.
Nello sguardo della donna c'era del fascino verso ciò che le avevo descritto, nel mio tono solo tristezza e amarezza. Sapevo di aver creato qualcosa di orribile e non ne ero per niente contenta, anzi, mi facevo disgusto da sola. Odiavo ciò che volevano che diventassi, ma lo facevo solo perché ero costretta. Sapevo che se non lo avessi fatto sarei stata in pericolo e avrei messo a rischio anche altre persone.
Mi girai sentendo dei passi che andavano all'unisono gli uni con gli altri.
Un gruppo composto da quattro ragazzi che avevano tutti sì e no quindici anni. Due ragazzi e due ragazze. Uno dei ragazzi aveva i capelli castani, l'altro li aveva più scuri, praticamente neri, così come una delle ragazze aveva i capelli neri e l'altra castani. Sembravano essere gli opposti.
Si fermarono davanti a degli schermi, cominciarono a toccarli con fare sicuro.
Per loro provavo una sorta di ammirazione. Facevano ciò che dovevano fare senza troppe lamentele. Erano sicuri, spediti, freddi e staccati da tutto ciò che poteva distrarli dal loro compito principale.
Loro era gli addetti ai progetti “Gruppo A” e “Gruppo B”.
Conoscevo bene quei progetti, ma non ricordavo di cosa si trattassero. Avevo un vuoto di memoria assurdo.
Odiavano i loro compito ma anche loro puntavano al famigerato bene più grande.
Il ragazzo con i capelli castani era il più determinato di tutti, lui aveva ideato l'intero progetto ed aveva entusiasmato tutti con le sue ipotesi su quanti ottimi risultati avrebbe potuto dare, anche se ci sarebbe voluto un po' di tempo prima di raggiungerli.
La ragazza con i capelli neri che stava direttamente a fianco a lui lo seguiva a ruota.
Ammiravo particolarmente questi due individui per quanto si impegnavano senza mai perdere di vista il loro obbiettivo principale, nonostante la loro età.
Anche gli altri due erano super concentrati, loro avevano pensato alla progettazione del Gruppo B con gli stessi criteri, ma in un modo differente. Sapevo che c'erano delle piccole differenze.
La ragazza con i capelli neri la conoscevo abbastanza bene, sapevo di potermi fidare di lei e sapevo di esserci affezionata, ma non ricordavo quale fosse il nostro legame di preciso.
«No! No! Vi prego, lasciatemi stare! Non voglio farlo, vi supplico, lasciatemi andare! Farò tutto ciò che volete! Farò qualsiasi cosa ma vi prego, non fatemi andare lì!», delle grida sovrastarono l'intera stanza. Il gruppo di ragazzi sembrò non farci caso, tranne che per la ragazza con i capelli castani, che si sporse leggermente per controllare la fonte del suono.
Due uomini con un camice bianco ed una maschera che ricopriva loro l'intero volto trascinavano un ragazzo giovane verso una porta non troppo distante da dove mi trovavo io.
Provai a leggere la scritta in led rossa che si trovava sopra la porta, ma non ci riuscii.
L'unica cosa che riuscii a leggere fu una targa direttamente accanto alla scritta.
“Catastrofe Attiva Totalmente: Test Indicizzato Violenza Ospiti”.
«Vi prego, vi scongiuro, non fatemi andare! Vi giuro che farò tutto ciò che volete! Qualsiasi cosa! Qualsiasi!»
«Qualsiasi cosa, eh?»
«Sì! Qualsiasi! Ma vi scongiuro non mandatemi lì! Vi prego!»
«Allora chiudi quella cazzo di bocca ed entra lì dentro!», disse uno di loro, premendo un tasto e facendo aprire la grossa porta davanti a loro. Una volta aperta, l'unica cosa che si vedeva era una seconda porta che si aprì proprio dopo la prima. C’erano due grosse grate e c’era un cancello di chiusura di sicurezza.
La ragazza bionda che stava davanti a me scattò in piedi e si posizionò davanti alle grate, poggiando la mano sul petto del ragazzo ed impedendo ai due uomini di buttarlo lì dentro.
Avevo visto quella scena milioni e milioni di volte e ogni volta mi illudevo che magari avrebbe impedito loro di mandare quel ragazzo incontro al suo destino.
«Fermi! Non potete mandarlo senza dargli il Filtro!», disse, frugandosi nelle tasche e passando loro una fiala con un liquido trasparente.
«Ah, giusto! Quasi dimenticavo!», disse uno di quegli uomini ridendo e stappando la fiala.
Il ragazzo cominciò a dimenarsi in modo brusco, così la donna con i capelli biondi si spostò per evitare di essere colpita da possibili gesti di ribellione quali pugni e calci.
Il ragazzo gridava così forte che pensai che da un momento all'altro mi si sarebbero spaccati i timpani a causa sua.
«Smettila! Gridare non ti servirà a niente! Ti farà solo andare il filtro di traverso!»
«Lasciatemi stare!» E gridò ancora, ancora e ancora, ma non perché si stesse ribellando, bensì perché uno di quegli uomini lo stava colpendo dei calci alle gambe, tenendogli la testa ferma e rivolta verso l'altro, gli spalancandogli la bocca con una forza allucinante per tenergliela aperta. Gettarono il Filtro all'interno della sua gola di botto, fregandosene che gli potesse andare di traverso. D'altronde l'avevano avvertito.
Il ragazzo si piegò su sé stesso, tossì fortissimo più volte e si tenne lo stomaco con la mano.
Fece per vomitare, ma non rigettò niente.
Alla fine lo tirarono su di peso, la donna bionda aprì il cancello e le grate, poi buttarono dentro il ragazzo e richiusero tutto, tranne che le due porte.
«No! No! Fatemi uscire di qui! Vi prego, fatemi uscire di qui!» Cominciò a sbattere i pugni contro le grate, cercò di forzarle mentre gridava. Gridava con una forza che non sapevo che un uomo potesse avere. Sopratutto a quell'età.
Gli uomini rimasero lì immobili e in silenzio. Sbuffarono infastiditi da tanto rumore, ma cosa potevano aspettarsi? Era un ragazzino costretto ad affrontare un viaggio, una missione come quella che nemmeno loro volevano affrontare.
Era costretto a diventare qualcuno senza la sua volontà solo per un bene più grande.
Il ragazzo sembrò calmarsi, allora si poggiò con le mani alle grate. «Rachel», sussurrò, affacciandosi dalle grate. «Ra...chel», disse di nuovo, la sua voce si fece più debole.
La ragazza del gruppo, quella con i capelli castani, si sporse di più, seguita dal ragazzo con i capelli neri che le cinse le spalle.
Lei stava piangendo, singhiozzava silenziosamente e guardava il ragazzo dietro le grate.
«Ra...chel aiut-ami. Ti prego non f-f-farmi an-d-dare lì...»
«Non posso.... George, non posso...», rispose la ragazza, che continuava a piangere.
«T-ti prego fa qualc-cosa... aiut-tami...» Anche quel ragazzo cominciò a piangere, l'ultima parola la disse tra un singhiozzo e l'altro.
«Vorrei, ma non posso... non posso... andrà tutto bene, te lo prometto», disse lei con un filo di voce.
Alla fine quel ragazzo crollò e cadde nel sonno dovuto al Filtro. Presto si sarebbe risvegliato, ma sapevo che da quel momento in poi per lui sarebbe stato tutto diverso. Ogni singola cosa.
Il ragazzo con i capelli scuri accanto alla ragazza, Rachel, le accarezzò le spalle, lasciandole un bacio sulla fronte. «Andrà tutto bene, lo sai, tuo fratello starà bene.»
«Lo spero Aris, sul serio», rispose lei, fissando il ragazzo mentre i due uomini con la camicia premettero il pulsante per far chiudere le porte.
La ragazza con i capelli neri guardò il ragazzo accanto a lei. Avevano entrambi un espressione cupa, l'assumevano ogni volta che qualcuno varcava quella soglia. Sembrava che comunicassero con lo sguardo, perché le parole non bastavano a commentare ciò che succedeva lì dentro.
I ragazzi ed i bambini di qualsiasi età erano costretti a diventare adulti una volta entrati in un posto del genere. Erano costretti a diventare indipendenti, lavorare come non mai per un bene più grande. Ed io in prima persona avevo vissuto quel cambiamento.
Non era qualcosa che si poteva scegliere. Era così e basta, che ti andasse bene o meno.
Rachel tornò fredda e seria in poco tempo, tornando alla sua postazione di lavoro. Era in quello che ci si trasformava. In una macchina da lavoro, non ci si poteva far condizionare nemmeno dalla perdita di una persona.
Sapeva che suo fratello era vivo, ma non sapeva se l'avrebbe mai più rivisto, e forse era quella la cosa peggiore. La consapevolezza di non sapere niente.
La donna bionda sospirò e prese la sedia sulla quale era seduta al mio risveglio, l'avvicinò di più al mio lettino e sospirò di nuovo, sistemandosi meglio la treccia sulla spalla. «Che palle questi ragazzini quando gridano in questo modo patetico prima di entrare lì dentro.» Schioccò la lingua, «Nemmeno quella Bethany ha gridato così tanto!».
«Vorrai dire Beth», la corressi. «E gridò anche peggio. Ma c'è da aspettarselo, sono solo ragazzini e non sono pronti ad affrontare questo. Nessuno lo sarebbe», mormorai, guardando Rachel. Ero dispiaciuta per lei e lo erano anche gli altri tre ragazzi del gruppo, che si strinsero attorno a lei per cercare di tirarla su di morale. Sapevano bene anche loro che nonostante la sua facciata da persona fredda, dentro ci stava malissimo.
«Beh, Elizabeth, prima o poi sarebbe successo e lui lo sapeva.»
Chiusi gli occhi, «Devo ancora abituarmi al mio nuovo nome».
«Lo sai, dei nomi speciali...»
«... per ragazzi speciali», conclusi la frase prima di lei. Sapevo quella cantilena a memoria.
La ragazza con i capelli neri si girò a guardarmi, mi sorrise come per rassicurare anche me. Probabilmente aveva sentito il nostro discorso. Cercai di ricambiare il sorriso nel modo più sincero che riuscii a fare. Sperai di non sembrare troppo falsa.
Poi sentii un fremito lungo tutto il corpo. Le mie mani si strinsero a pugno, la mia gola tornò ad essere in fiamme.
Il buio. Tutto tacque di nuovo.
Caddi nuovamente nel baratro.
Cosa stava succedendo adesso?
«Liz?» C'era solo una persona che mi chiamava in quel modo. «Liz?! Ti prego, svegliati, Liz!» La sua voce rimbombò nella mia testa peggio di un eco, molto più forte, ma attorno a me c'erano le tenebre più assolute.
Poi riecco quella luce bianca che spazzò via le tenebre.
Fu come emergere dall'acqua dopo aver toccato il fondale marino più profondo, presi un respiro profondissimo e spalancai gli occhi.
Il volto di Newt era a pochi centimetri dal mio, i suoi occhi erano sgranati ed il suo volto era pallidissimo. «Porco caspio, grazie al cielo!» disse gettando la testa all'indietro.
«Che... che è successo?», dissi, riuscendo finalmente a parlare senza sembrare una cretina totale con la lingua imbalsamata.
Newt assunse un colorito più normale, prese un grosso respiro e mi guardò.
Notai che le mie mani erano ferme e strette attorno alle sue, le stringevo in modo veramente forte e temetti per un attimo di aver conficcato le unghie nella sua carne proprio come avevo fatto nella mia.
«Eri praticamente svenuta un altra volta. Pensavo che fossi in coma... muovevi gli occhi da una parte all'altra, all'improvviso hai cominciato a piangere, poi il tuo corpo ha cominciato a fremere e stringevi le mani così forte da farti uscire di nuovo il sangue. Chuck è fuggito dalla stanza, era troppo spaventato. Penso che si sia sploffato nei pantaloni... Alby e Jeff sono corsi a cercare altri Medicali quando hanno visto che avevi perso i sensi, sono andati a cercare anche del cibo liquido in caso avessero dovuto nutrirti se... sai... non ti fossi svegliata subito. Non sanno della tua strana crisi, ma penso che a breve arriveranno, visto che Chuck sicuramente è andato a cercarli.» Fece un sospiro di sollievo, «Per un attimo devo ammettere di aver temuto il peggio». Spostò le mani e le poggiò sulle mie guance, asciugandomele.
Mi tirai su a sedere e mi guardai attorno. In stanza c'eravamo solo io, Newt e Justin, poggiato alla parete proprio dietro Newt.
Pensai a ciò che avevo appena sognato... non era un sogno, ne ero sicura. Non poteva esserlo, era troppo nitido, sapevo cosa sarebbe successo, sembrava più un déjà vu. Che si trattasse di un ricordo?
Corrugai la fronte e mi guardai le mani inzuppate di sangue fino al polso. Mi facevano impressione, ma quella era sovrastata dai diversi sensi di colpa e dalle altre sensazioni che mi aveva causato ricordare quelle cose.
George... avevo rivisto George... e sua sorella, quella Rachel. Avevo pianto, stavo piangendo per George. Provai una morsa al cuore al ricordo di come gridava.
Perché avevo visto quelle scene? Chi ero stata prima di finire nella Radura?
«Credo di aver ricordato qualcosa del mio passato», dissi tutto d'un fiato. Di colpo Justin mi guardò confuso.
«Cosa intendi dire?», domandò Newt
«Ho... ricordato qualcosa, ma... sto già dimenticando tutto...» Ed era vero. Tutto ciò che avevo ricordato stava già sparendo ad una velocità incredibile.
«Oh, ma andiamo!», sbottò Justin con un tono scettico, «Sei sicura che fosse un ricordo?».
«Più che altro una sorta di fantasma di esso, non era un sogno, ne sono certa...»
«E non hai nemmeno subito la mutazione... però le reazioni sono simili...»
«Ho visto George che veniva spinto dentro qualcosa, una ragazza piangeva e ricordo una cosa. Un... progetto credo, si chiamava D2MH o qualcosa di simile... non so cosa fosse.» Corrugai la fronte, «E la scritta “Catastrofe Attiva Totalmente: Test Indicizzato Violenza Ospiti», la ripetei come se fosse stata una filastrocca che conoscevo a memoria.
Justin si fermò a guardarmi come se avessi detto una parola magica, ma poi assunse un espressione strana.
Newt corrugò la fronte e mi guardò basito, «Hai detto D2MH?».
«Sì, perché?»
«Io conosco quella sorta di formula», mugugnò Justin, e Newt annuì
«Anche io... non mi è nuova per niente, ed in un certo senso la cosa non mi è di consolazione», mormorò. La cosa non era di consolazione nemmeno a me.
Perché conoscevamo tutti e tre quel D2MH? Cosa significava? Perché ricordavo quelle cose? Perché avevo attraversato quella situazione? La testa mi scoppiava talmente avevo tante domande e nessuna risposta.
Era come se fossi tornata al primo giorno nella Radura. Mi sentivo la testa pulsare, le domande aumentavano ed io non le controllavo nemmeno. Una dietro l'altra, non seguivo più il filo dei miei pensieri.
Poggiai le mani sulle tempie, cominciando a premerle. Non mi interessava niente, volevo solo che le domande smettessero di accavallarsi. Erano così tante ed apparivano così velocemente che non sentivo nemmeno i rumori esterni.
«Falle smettere!», gridai, il tono della mia voce era sorprendentemente sovrastato dal flusso delle mie domande. Non sentii nemmeno ciò che dissi, come lo dissi e se lo dissi.
«Liz sposta le mani! Ti farai male così!», gridò Newt. La sua voce si fece strada tra i miei pensieri, ma non ero io a controllare le mie mani. Non riuscivo a spostarle e premevo sempre più forte.
Avrei voluto che qualcuno mi aprisse il cranio per farle uscire, liberare la testa dai miei pensieri.
Come se non bastasse cominciai a ricordare i Dolenti. Le lame. Quelle dannate lame. Si accavallarono immagini di Newt che perdeva la vita a causa mia. Colpa mia. Era tutta colpa mia. I sensi di colpa.
Cominciai a piangere, singhiozzavo. I singhiozzi si strozzavano in gola, tossivo per respirare.
Sentivo Newt che mi parlava, ma non capivo una sola parola di ciò che mi diceva.
Le sue parole erano come un meccanismo di accensione che faceva ripartire le immagini, tutte in un modo differente. Immagini, pensieri, domande.
E Chuck? Cosa sarebbe successo se Chuck ci avesse seguito? Chuck non avrebbe mai retto il nostro ritmo di corsa, a stento lo reggevo io. Sarebbe sicuramente inciampato, un Dolente gli sarebbe piombato addosso e l'avrebbe triturato a sangue freddo. Riuscii a sentire il suo grido di dolore nella mia testa, il mio grido per aver assistito alla scena e Newt che mi chiamava per tirarmi via.
Justin era corso di fuori, probabilmente era andato a cercare qualcuno.
Volevo calmarmi, ma le immagini erano troppo nitide. Domande su domande, pensieri su pensieri, immagini, probabilità. Ricordi offuscati. Altre immagini che mi apparivano davanti come se stessi assistendo ad un film horror continuo in cui io ero la protagonista principale ed ero costretta a subirne ogni singola scena.
Tenevo gli occhi chiusi nella speranza che tutto sparisse, ma invece l'oscurità era diventata il teatrino perfetto per quelle immagini, ora nitide come non mai. Volevo che quelle immagini finissero alla svelta perché non solo erano terrorizzanti, ma facevano veramente male.
Poi tutto si placò. Sparì. Non ero svenuta o niente di simile.
Aprii gli occhi, fissai il volto di Newt a pochi centimetri dal mio. Il suo respiro mi accarezzava le guance, ma non era stata la sua vicinanza a far calmare il flusso dei miei pensieri.
Guardai le mie mani, ancora premute sulla testa. Le sue mani erano sopra le mie, cercavano di spostarle.
«Ti farai male se continui a premerle così», disse con un tono dolce, rassicurante, «spostale, avanti».
E, come se avesse premuto un tasto di sblocco, smisi di premere le mani contro la testa e le feci scivolare giù lentamente.
Non si spostò nemmeno di un centimetro, i suoi occhi erano incatenati ai miei, i nostri respiri si fondevano sfiorando le guance l'uno dell'altra. Era come se ci stessimo guardando nell'anima, ed io vedevo la sua così tormentata da farmi venire voglia di abbracciarla per cercare di portargli via un po' del male che si portava dentro. La cosa bella era che anche se era tormentata cercava di sostenere la mia. Poggiai le mani sul lettino, ma lui non spostò le sue da sopra le mie. Non le accarezzò, non le prese... le tenne ferme sulle mie, come per evitare che tornassero dov'erano prima. Non voleva che mi facessi male.
«Bene così, brava Fagio», sussurrò, osservando il mio volto come se non lo vedesse da secoli.
Accennò un sorrisetto. Ero incantata. Totalmente incantata. Visto da così vicino era persino più bello del solito....
Respirai profondamente, la sua mano sulla mia mi dava ancora la sensazione di sicurezza, come se niente potesse più farmi del male.
Era strano come una sola persona potesse far provare certe cose.
C'era sempre stato per me sin dal primo momento e non mi ero mai accorta di nulla. Era diventato il mio pensiero fisso. Come potevo continuare ad ignorare ciò che provavo? Perché era così difficile accettarlo, dirlo, ammetterlo? Eppure lui alla fine era riuscito a dirlo, a svelarsi.
Era così difficile ammettere dei sentimenti? Perché lo era? Eppure eravamo sopravvissuti a dei Dolenti che ci inseguivano, dopo quello niente poteva essere più difficile, no?
Tuttavia ero terrorizzata alla sola idea di parlarne, di lasciarmi andare, di farmi travolgere dagli eventi. Sapevo benissimo che nella Radura non c'era tempo per le romanticherie, per lasciarsi andare ai sentimenti. C'era un obbiettivo comune e non poteva essere sviato per pensare ad una relazione... o comunque a qualcosa di simile.
Non sapevo come prendere quei sentimenti, come gestirli, per me era tutto così nuovo e spaventoso.
Non sapevo cosa pensare, come reagire. Ammiravo il fatto che lui, nonostante tutto, era riuscito a parlarne, avrei voluto farlo anche io, ma c'era quel qualcosa che mi bloccava.
I suoi occhi erano fermi sui miei, mi studiava ma non parlava.
Forse quel silenzio cominciava a farsi pesante anche per lui, ma sembrava non volerlo distruggere e non spostarsi.
«Grazie», sussurrai.
I suoi occhi si abbassarono lentamente verso le mie labbra, poi li rialzò incontrando di nuovo i miei.
Era come se fossero delle calamite.
«A cosa stai pensando?», domandò con un tono basso, come se non volesse interrompere quella sorta di atmosfera particolare che si era creata.
Schiusi le labbra, «A niente... a quel ricordo», mormorai cercando di apparire il più sincera possibile.
Non rispose subito, poi prese un respiro profondo e annuì, accennando un sorriso. «Sì, beh, immaginavo. Penso che tu sia confusa da tutto ciò, non è vero?» L'avevo convinto sul serio? Non ero in grado nemmeno di convincere me stessa ed ero riuscita a convincerlo così in fretta?
«Già», bofonchiai. Forse era normale il fatto che fossi riuscita a convincerlo facilmente, dato il corso degli eventi.
Già da quella mattina le cose erano partite in modo abbastanza insolito, più passavano le ore e più la situazione diventava strana. Forse il fatto che stessi ancora rimuginando sul ricordo era abbastanza normale e credibile.
Si spostò, allontanò il viso dal mio e finalmente potevo non essere più schiava dell'incantesimo dei suoi occhi, del suo respiro, del suo tocco.
Mi guardai le mani ormai libere dalle sue. I palmi erano dannatamente arrossati e le mie unghie sporche di sangue. Notai che anche le mani di Newt erano sporche del mio sangue, fatto dovuto probabilmente al mio stringere i palmi mentre non ero cosciente.
«Troveremo una risposta a questo fatto... forse.» Scosse le spalle. «Magari sei caduta in quella sorta di Mutazione per aver inalato la puzza lasciata dai Dolenti».
«Può darsi, ma non sono l'unica che l'ha sentita.»
«Magari sei più sensibile degli altri...»
«Solo perché sono una femmina non significa che sia più sensibile degli altri, Newt», brontolai, guardandomi i segni delle unghie contro le mani. Erano davvero profondi e visibili ad occhio nudo, facevano quasi impressione.
«E se invece fosse così?» Incrociò le braccia al petto.
Non avevo una risposta precisa, non potevi dargli ragione né smentirlo. Per quanto ne sapevo poteva anche avere ragione... così come poteva non averla.
Qualcuno entrò velocemente nella stanza. Jeff, Justin ed Alby assieme ad altri due Medicali, mi guardavano come se si aspettassero di trovarmi morta su quel lettino.
Nel vedere che invece ero viva e vegeta tirarono un sospiro di sollievo, così uscirono da lì, lasciandomi di nuovo sola con Newt. Pensai che fosse un gesto abbastanza irresponsabile. Potevano almeno farmi una piccola visitina per assicurarsi che stessi effettivamente bene.
Infatti, Jeff tornò indietro poco dopo. Inzuppò un panno nell'alcool e lo poggiò sul comodino. «Come ti senti?», mi chiese, prendendo una piccola torcia e puntandomela contro gli occhi.
«Meglio», risposi.
Spense la torcia e la posò accanto al panno. Mi fece una visitina che durò sì e no cinque minuti, poi andò via.
Newt mi passò il panno inzuppato d'alcool e mi prese la mano destra. Poggiò il panno sul palmo e poi prese la sinistra, poggiandolo anche su quella. «Premi le mani contro il panno, così le disinfetti.»
«Ma brucia...», brontolai.
«Se brucia vuol dire che funziona», disse con un tono premuroso, spostandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Era l'unico che si preoccupava davvero per me. Lo era sempre stato.
Feci come disse, ma me ne pentii quasi subito. Era come se mi avessero messo dei tizzoni ardenti nelle mani. Bruciavano da matti, ma cercai di non lamentarmi troppo.
«Ho bisogno di fare una doccia», dissi, cercando di non far vedere quanto stessi impazzendo dal bruciore alle mani. Volevo distrarmi.
«Vuoi che ti accompagni?», disse, prendendomi il panno dalle mani. Probabilmente si era accorto di quanto stessi soffrendo per colpa di quell'affare, o forse aveva deciso che mi ero disinfettata abbastanza.
A dire il vero, realizzai dopo ciò che aveva detto. Mi sentii leggermente in imbarazzo e non ne capii il motivo. Annuii. Non ero sicura di riuscire a camminare, mi sentivo ancora debole dopo tutto.
Molto debole. Ma avevo l'urgenza di farmi una doccia, mi sentivo sporca.
La consolazione era che la sensazione appiccicosa in bocca era sparita, ma mi sentivo comunque sporchissima.
La testa continuava a darmi una sensazione di pesantezza, la cosa abbastanza positiva era che il flusso dei miei pensieri era diventato molto più leggero.
Era strano e piacevole il fatto che Newt era riuscito a neutralizzarlo senza neanche saperlo.

Mi portò verso le docce tenendomi poggiata a lui, stringendomi per un fianco e con un braccio attorno al suo collo. Camminò il più piano possibile per non farmi affaticare.
Dopo essermi fatta una bella doccia, indossai dei vestiti puliti ed uscii dai bagni. Newt era poggiato alla parete che mi aspettava.
Legò di nuovo un braccio attorno alla mia vita e poi si passò il mio attorno alle sue spalle, facendomi scappare una risatina. «Non ho bisogno di questo, sai?»
«Voglio farlo ugualmente», brontolò come un bambino viziato. Mi portò fino alla cucina e mi fece poggiare al tavolo.
Non mi resi conto fino a quel momento di quanto avessi fame... più o meno. Non era proprio fame, era più che altro la necessità di mangiare qualcosa di asciutto così da alleviare un po' l'acidità del mio stomaco, che sembrava avere i postumi del vomito di prima.
Mi sedetti sul tavolo con le gambe a penzoloni e cominciai a mangiare il pane. Lo addentai con gusto, come se non mangiassi da mesi. Sentivo di poterlo divorare in un secondo.
Il pane era uno dei cibi che preferivo lì dentro, essendo morbido al punto giusto e piuttosto gustoso.
Ma per qualche strano motivo mi sembrava di mandare giù carta vetrata. Raschiava contro la gola in una maniera fastidiosissima, ma decisi di non darlo a vedere per evitare ulteriore preoccupazione.
Continuai a mangiare come se fosse stato tutto okay.
Notai lo sguardo fisso di Newt, che si poggiò al tavolo accanto a me. I suoi occhi nascondevano qualcosa, mi fissavano come se mi stessero guardando nell'anima.
«Che c'è?», domandai imbarazzata. Pensai che forse il mio mangiare come un criceto affamato da settimane l'avesse terrorizzato.
Continuò a fissarmi, poi schiuse le labbra e prese un piccolo respiro profondo, «Tu non stavi pensando solo ai ricordi prima, vero?»
Sbattei più volte le palpebre, mandando giù il boccone di pane che avevo in bocca. Diedi un colpetto di tosse e annuii, «Sì, stavo pensando a quello invece».
«No, non è vero.» Incrociò le braccia, «Stavi pensando a quello che ti ho detto nel Casolare, vero?».
Arrossii e abbassai il volto, poggiando il pane accanto a me. Storsi leggermente il naso e presi un respiro profondo, annuendo. Accennai un sorriso per smorzare l'imbarazzo.
Schioccò la lingua e scosse la testa, sospirando pesantemente. «Non devi pensarci così tanto Liz, sul serio, te l'ho già detto, è tutto okay», lo disse con leggerezza. Era un copione che aveva chiaramente imparato a memoria e stava imparando ad interpretarlo veramente bene. Ammirai il modo con cui cercava di rassicurarmi dal farmi sentire ulteriormente a disagio.
A dire il vero, cominciavo ad essere più apposto con me stessa, ma non ero ancora in grado di dirgli ciò a cui stavo pensando realmente. L'idea di provare ciò che provavo mi spaventata sempre di più.
Era come se davanti a me avessi avuto le Mura del Labirinto ed avessi dovuto tentare di scavalcarle per attraversarlo. Come avrei potuto farlo? Quale arma avrei potuto usare per poi combattere i Dolenti?
Newt sospirò pesantemente, si passò una mano tra i capelli e alzò il volto verso il soffitto, «Dannazione, sapevo che non dovevo dirtelo. Sapevo che poi si sarebbe creata quest-»
Poggiai una mano sul suo volto e lo feci girare, baciandolo di getto ed interrompendo la sua frase. Un gesto che lo sorprese parecchio, ed infatti si staccò dal bacio come se gli avessi bruciato la bocca. Si toccò le labbra, il suo sguardo era palesemente confuso...e dovevo ammettere di esserlo anche io.
Avevo preso il coraggio a due mani prima che potesse scappare, un gesto abbastanza impulsivo, ma che avevo deciso di accogliere senza riflettere.
Forse avevo sbagliato qualcosa? Forse avrei dovuto stare ferma e rimanere nel mio guscio ancora per parecchio tempo finché le acque non si fossero calmate, finché non fosse passato tutto ed allora avrei potuto smettere di pensarci.
Accadde tutto nell'arco di qualche secondo, poggiò le mani sulle mie guance e mi tirò verso di lui scontrando nuovamente le labbra con le mie. Mi prese totalmente alla sprovvista, arrossii, ma decisi di lasciarmi trascinare dal bacio. Le sue mani scesero lungo il mio collo, poi sulle mie braccia e le accarezzò dolcemente, spostandosi infine sui fianchi. Mi avvicinò di più a lui, spostando nuovamente una mano sul mio viso ed accarezzandolo, senza staccarsi dal bacio.
Portai un braccio dietro la sua schiena, la mano tra i suoi capelli. Non mi ero mai accorta di quanto fossero morbidi. Le nostre lingue si cercavano, intraprendevano un gioco tutto loro che assecondavamo più che volentieri. Era come se finalmente le nostre anime fossero riuscite ad incontrarsi dopo tanto tempo, anche se quello era solo un bacio.
«Woh! Ma che... ah, ci vedo mezzo metro di lingua qui! Ragazzi, io vi adoro ma vi prego di andare nel Casolare!»
Ci staccammo dal bacio e Newt si passò velocemente una mano sulle labbra, come per cancellare ciò che stavamo facendo.
Sulla soglia della porta c'era Minho che si copriva gli occhi in modo scherzoso. Ridacchiava sotto i baffi, il maledetto.
Mi grattai la testa con fare imbarazzato, gesto che fece anche Newt.
Minho si spostò la mano da davanti, continuando a ridacchiare, «Lo sapevo! Caspio, lo sapevo! Cupinho ha colpito ancora!».
«Cupinho...? Ti prego, non dirmi che sta per...»
«Cupido più Minho! Cupinho! Ero fortemente indeciso se chiamarmi Cupinho o Cuminho, ma la seconda mi ricordava vagamente “camino”, quindi ho optato per Cupinho.» Scrollò le spalle e si avvicinò alla dispensa, cercando qualcosa da mangiare.
Si girò e trovò il pane che avevo abbandonato per... dedicarmi ad attività più interessanti. Lo prese e lo indicò, «Lo stavi mangiando tu, mia piccola Giulietta?».
Newt arricciò il naso e si girò dall'altra parte.
Annuii, allora Minho scosse le spalle e cominciò a mangiarlo. Ed io che credevo di essere strana mentre mangiavo! Minho sembrava un anaconda a dieta da un anno. C'era anche da dire che correre come correva lui tutto il giorno doveva causare davvero molto appetito.
«Allora, quando intendevate dirmi che state assieme? Da quanto va avanti questa cosa? Perché non mi avete detto niente?», e via con una sfilza di domande che sembrava essere infinita. Sparava domande a raffica. C'era un tasto per spegnerlo? Sapevo che avrebbe cominciato a vantarsi della cosa a vita.
«Alt, alt, alt! Rilassati Minho, non sei inseguito da un Dolente, caspio!», disse Newt, sollevando una mano per fargli segno di smetterla.
«Beh, allora che aspetti a spiegarmi questa bella situazione?» Il sorriso di Minho partiva da un orecchio e finiva nell'altro. Mi rivolse un occhiolino e sollevò il pollice in segno di approvazione.
Arrossii... era già successo anche troppe volte in poco tempo.
«Non c'è niente da spiegare», tagliò corto Newt, «Ci siamo baciati, tutto qui. Non stiamo mica assieme».
Corrugai la fronte. Tutto qui? Ero stata così pessima da meritarmi un “tutto qui”?
«Liz è una buona amica.»
Arricciai il naso. Si girò e mi rivolse un sorriso. Il maledetto era dannatamente vendicativo, eh?



{Angolo dell'autrice}
Salve pive! alla fine ce l'ho fatta, ho terminato il capitolo in tempo anche se tra riff e raff l'ho pubblicata solo ora.
Scusatemi! sono stata fuori tutto il giorno, ma almeno ho rispettato la scadenza del venerdì!
Scusate se oltretutto vi ho mandato il messaggio tardi, ma la mia linea oggi fa veramete schifo dato il mal tempo!
E no, vi lascio ancora un pochino sulle spine, per avere delle risposte certe dovrete aspettare il capitolo sucessivo.... O forse quello dopo ancora.
Chissà!
Immagino vi stiate facendo già alcune teorie... Se volete dirmele potete pure farlo, vedremo se sono azzeccate o meno ;D
Probabilmente farò tipo Wess ball.
"Maybe".

Ringrazio di nuovo la mia beta, comincio ad adorarla.
Prometto che ti farò una statua. <3
Al prossimo capitolo pive!

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Capitolo 10
*** Capitolo 10: Gruppo A soggetto A19, l'innesco. ***




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 Nella Radura si stava bene. Sembrava che finalmente la situazione si fosse stabilizzata.
Almeno, era così da due giorni... a parte le perenni occhiate di Minho appena tornava dal Labirinto: la prima cosa che controllava eravamo io e Newt, come se sperasse di trovarci appartati da qualche parte.
A dire il vero non era cambiato nulla tra me e lui... o almeno, nulla di troppo rilevante.
C’era una strana carica tra me e lui, ma non avevamo più toccato l'argomento del bacio, né quello della confessione nel Casolare.
Non che fosse un argomento tabù, ma proprio non ci pensavamo.
L'unica cosa a cui pensavamo era a stare bene, a rimetterci. Ci curavamo a vicenda.
Ogni notte si assicurava di non avermi troppo lontana da lui, così da tenermi bene sott’occhio in caso di un altra crisi strana.
Gli era ancora proibito fare un qualsiasi sforzo fisico, e per poco in quella categoria non erano compresi quelli di sollevare una forchetta per mangiare... o peggio. Era un miracolo che Alby lo lasciasse andare al gabinetto con le sue gambe, e non mi sarei stupita di vederlo entrare con lui lì dentro! Il nostro rapporto sembrava essere immutato, tranne per un diverso attaccamento e quella strana carica che ci univa. Non avrei saputo come descriverla. Sentivo che era la prima volta in assoluto che provavo qualcosa di simile verso qualcuno. Era piacevole e allo stesso tempo strano, particolare, non sapevo come prenderlo o interpretarlo. Era sempre vicino a me in quei giorni ed io vicina a lui.
La ferita sul suo petto sembrava non essere intenzionata a guarire: si rimarginava in modo davvero lento e cominciavo a preoccuparmi che non ce l’avrebbe fatta.
Era frustrato perché voleva dare una mano ed il fatto che Alby ogni volta lo bloccasse gli rodeva il fegato, ma non voleva darlo a vedere, così sfogava tutto riponendo le attenzioni su di me.
Non era solo lui in pausa, ma anche io. Frypan aveva deciso che dovevo assolutamente lavorare di meno: si sentiva in colpa perché pensava che quello che mi era successo fosse fonte dello stress lavorativo, del fatto che la maggior parte delle cose in cucina le facessi io e non gli altri, dato che ero più brava di loro, o come diceva Frypan, “quasi al suo livello”.
Non avevo più avuto crisi, però nonostante tutto non si fidava. Voleva essere certo che stessi bene.
Odiavo quella pausa, motivo per cui cominciai a capire come si sentiva Newt, che non poteva fare nulla da prima di me.
«Guarda, ho trovato un altro pezzo! Credo che sia del Casolare», dissi, catturando la sua attenzione.
«Prova ad incastrarlo, allora.»
Ebbene sì, per la noia c'eravamo rintanati dentro il Casolare a fare un puzzle.
Un puzzle fatto a mano da noi, dato che nessuno si era mai preoccupato di chiederne uno.
Il che era anche logico, insomma... cosa se ne facevano di un puzzle in un posto dove non c’era spazio per poltrire?Newt non sapeva nemmeno cosa fosse un puzzle. O meglio, conosceva la parola, ma non ne aveva mai visto uno. Io stranamente avevo presente cos’era un puzzle e com’era fatto, anche se non sapevo dove l’avevo visto.
Così avevamo preso un foglio di carta, due penne nere, avevamo disegnato le tessere, poi delle linee che formavano una sorta di mappa della Radura e infine avevamo ritagliato i pezzi con due vecchie forbici da cucina arrugginite. C’eravamo divertiti a dire il vero, forse perché tra un disegno e l'altro ogni tanto eravamo finiti col pasticciarci il volto a vicenda.
Non aveva voglia di fare il puzzle, non sapeva bene come funzionasse, così glielo spiegai. Era semplice, ma non gli andava. Così si sedette dietro di me, poggiando il mento sulla mia spalla e legando le braccia attorno alla mia vita.
Era accoccolato a me come un cucciolo, ogni tanto sbadigliava e mi dava una mano nel ricostruire quel puzzle.
Provai ad incastrare la tessera che avevo in mano e, con mia grande soddisfazione, azzeccai il pezzo. Era piuttosto facile a dire il vero, dato che l'avevo costruito io... ma non avevamo altro da fare e volevamo evitare silenzi imbarazzanti tra noi.
Quel restare sola con lui mi portava la voglia di fargli domande su domande, anche (e sopratutto) sul nostro argomento tabù. E non volevo essere io la prima a sfiorare quell'argomento.
Sbadigliai e sentii la stretta delle sue braccia farsi più forte, come se volesse reggermi saldamente.
«Sei stanca?», domandò con tono premuroso. Il suo respiro sfiorava il mio collo con una dolcezza inimmaginabile.
riecco le domande che avrei voluto fargli.
Cercai di non pensarci e scrollai le spalle con indifferenza. «No. A dire il vero non molto, solo che questo puzzle forse è anche troppo facile.»
«Ma se è da più di un’ora che ci lavori su!», ridacchiò, poggiando la fronte sulla mia spalla. «Se fosse così semplice, Liz, l'avresti già finito, non ti pare?»
«Vorrei solo tornare a svolgere le mie mansioni quotidiane», brontolai e lo sentii sospirare in tutta risposta. Una risposta muta, ma che esprimeva perfettamente la sua approvazione a ciò che avevo appena detto.
«Anche io», mormorò come se temesse di essere sentito da qualcun altro. «Ma non possiamo.»
«Lo so, ma sto bene. Benissimo. Alla grande!» Avrei voluto continuare, ma lo sentii ridere e mi fermai.
La sua risata era così sincera che mi fece sorridere. Sembrava essere davvero felice, ed era già da due giorni che ridacchiava in quel modo, il velo cupo che prima gli copriva il volto si era dissolto almeno un pochino, mostrando un Newt migliore di quanto già non fosse.
Due giorni, come il tempo passato da... beh, dal nostro bacio. Pensarci mi dava una strana sensazione.
«Ammettilo, è merito mio», disse con un finto tono orgoglioso.
Diavolo sì, era merito suo e nemmeno se ne rendeva conto.
Sbuffai e scossi la testa, ridendo, «Sì, certo. Vanitoso.» Non volevo ammetterlo, perché forse gli sarebbe suonato strano o comunque non mi avrebbe creduta.
«Non sono vanitoso, dico solo come stanno i fatti.»
«Non insistere, sei peggio di Minho. Sei un-»
«Pive, alzatevi, è successa una cosa strana!», gridò Ven, sulla soglia della porta e con i capelli incasinati. Aveva il fiatone, segno che aveva corso per raggiungere il Casolare il prima possibile.
Sapevo che quella calma apparente non sarebbe durata a lungo. Guardai Newt.
Sbuffò e si alzò, passandosi una mano tra i capelli. «Che c'è? Frypan ha tagliato un dito a Chuck perché l’ha beccato a rubare i biscotti dalla cucina?», brontolò. Era chiaramente scocciato dall'entrata di Ven, e quest'ultimo cominciò a giocare nervosamente con le proprie mani.
Deglutì, poi prese un respiro profondo. «No...», sussurrò imbarazzato. Non era imbarazzato per la frase, ma qualcosa in qualche modo lo rendeva inquieto, sembrava che gli fosse passata la voglia di parlare.
«Avanti, spara», brontolò ancora Newt.
Mi alzai e mi sistemai i vestiti.
«Se te lo dicessi non mi crederesti mai... quindi è meglio se lo vedi con i tuoi stessi occhi», disse infine, rivolgendo lo sguardo a me pochi attimi dopo. «E porta anche lei», mi indicò.
Quando dicevano una frase simile era sempre presagio di qualcosa di veramente brutto.

Ci allontanammo di molto dal Casolare, giungendo quasi vicino alle Faccemorte.
Odiavo quel posto. Non mi sarei mai stancata di ribadirlo.
Ven era rimasto in silenzio per tutto il tragitto, l'unica cosa che faceva rumore era lo sbuffare continuo di Newt.
Ero agitata, non capivo perché. Il mio cuore batteva così dannatamente veloce che temevo potesse uscire dalla cassa toracica da un momento all'altro.
Era forse quel posto a darmi quella sensazione?
Di botto, Ven si fermò «Notate nulla di strano?», domandò.
Davanti a noi c'era un gruppetto di Radurai... i Costruttori.
Erano radunati in cerchio, al centro c'era un grosso spazio.
«C’è qualcuno lì in mezzo, steso a terra...» Ven teneva un tono misterioso, cupo e allo stesso tempo divertito, come se si aspettasse la reazione più buffa del mondo.
Gally si fece spazio tra i Radurai, creando un piccolo “varco” nel gruppo. «Prendetelo per mani e piedi, poi tiratelo su con delicatezza, okay? Al mio tre. Uno.... due.... tre!»
Due Radurai si alzarono di botto mentre gli altri gli fecero spazio per passare. I muscoli delle loro braccia erano tesi mentre trascinavano il corpo del Raduraio che tenevano ben saldo per non farlo cadere a terra.
Ci passarono davanti. Il Raduraio che tenevano sollevato da terra e che stavano trascinando via da lì era nudo, pieno zeppo di tagli profondi lungo tutto il corpo, grondante di sangue. La pelle bianca, quasi grigiastra, le labbra carnose, gonfie e violacee, le occhiaie marroncine e profonde.
Da come era ridotto male dava l'impressione di potersi spezzare da un momento all'altro.
Newt schiuse le labbra e corrugò la fronte. «Non è... non è possibile! Quello è... George? Ma è vivo?» Quasi balbettava dallo stupore.
Ven annuì, poi scosse la testa. «No. O meglio, sì, ma probabilmente non passerà la notte. Come puoi vedere non è in buone condizioni.»
Avrei voluto dire una sola parola, una sillaba, ma la mia lingua era pietrificata, così come il mio corpo. Non riuscivo a pensare.
Era pieno di fori lungo l'addome. Quante volte era stato punto per essere ridotto in quelle condizioni?
«Tanto vale buttarlo nella fossa che abbiamo scavato nelle Faccemorte, no?»
«No.» Ven sospirò. «È giusto che lo vedano anche Alby e gli altri. La cosa strana è che ha una sorta di tatuaggio sul collo, cosa che nessuno aveva mai notato prima.» Si grattò la fronte.
«Un tatuaggio?», domandai confusa, Ven annuì.
«Sì. Un frase strana, tipo: “Gruppo A, Soggetto A19. L’-»
«L'innesco», mormorai prima che potesse terminare. Mi guardò sconcertato.
Ero sbalordita anche io da tutto ciò.
«Come facevi a saperlo? Voglio dire... l’hai letto? Quando?» Si grattò la nuca.
Corrugai la fronte. «Non lo so...» Poggiai una mano sulla fronte. Cominciò a farmi male la testa e mi sentii come due giorni prima. Un fiume di pensieri prese il sopravvento su ciò che stava succedendo nella realtà.
Piccoli pallini di luce comparvero davanti alla mia vista, la voce di una donna che diceva una cantilena, ma le parole erano confuse, non le afferravo. I pallini di luce cominciarono a formare piccole immagini, era come se potessi scegliere che scena guardare.
Sentii le mie ginocchia cedere, il peso del mio corpo divenne superiore rispetto a quanto le mie gambe potessero sostenere. Mi abbandonai a terra. La ginocchiata data al terreno fu dolorosa, ma non m’importò, perché il dolore che provavo alla testa era decisamente maggiore.
Mi chiamavano. Newt mi chiamava, eppure il mio udito lo sentiva così dannatamente lontano.
Alzai lo sguardo. Piangevo. Le mie guance erano umide, lo sentivo.
Provai a guardare il volto di Ven, che era davanti al mio, ma lo vedevo sfocato e non era dovuto alle lacrime che occupavano i miei occhi. Attorno al suo volto vedevo tutto nero, come se l'oscurità lo stesse divorando.
Qualcuno, supposi Newt, mi afferrò per le braccia e cercò di tirarmi su senza riuscirci, forse per il dolore alla ferita. Continuava a chiamarmi, Ven mi chiedeva di rimanere lucida, ma era come se mi stesse chiedendo troppo.
Ero spaventata ed allo stesso tempo assonnata. Sentivo dolore ovunque, ma ciò che mi faceva più male era sempre la testa. Era come avere mille spille conficcate nel cranio che premevano in modo insistente.
Tutto era diventato buio, troppo buio, anche se tenevo gli occhi aperti. Tanto valeva chiudere gli occhi. E così feci.
Continuavo a sentire le loro voci lontane, lontane e sempre più lontane ma mano che passavano i secondi.
Sentii il mio corpo lasciarsi andare, le tenebre attorno a me mi cullavano, mi avvolgevano, ricoprivano ogni centimetro di me come se volessero prendermi e portarmi via in eterno.
Un silenzio totale, come se la mia mente si fosse eclissata, finché lentamente finalmente un flebile suono cominciò a farsi avanti come un eco continuo, seguito da un eco più fastidioso appena sussurrato, di quelli in grado di causarti i brividi talmente sono forti, come se fossero a pochi centimetri dal tuo orecchio.
Era il mio nome ripetuto più e più volte, chiamato da più persone. Un susseguirsi di ricordi che mi giravano attorno ad una velocità pazzesca, come se avessi premuto il tasto con su scritto “random” e stessero estraendo un ricordo vincitore.
Poi tutto si placò. Di nuovo il buio, il silenzio.
«Elizabeth!», sentii quella voce gridare il mio nome, e di colpo ebbi la sensazione di cadere dalla montagna più alta del mondo. Quell’orribile sensazione di cadere nel vuoto in un sogno, in cui si prova il vuoto d'aria ed ormai si sa perfettamente che quando si toccherà il suolo ci si farà del male, ma ci si rifiuta di provare quel dolore anche si sa di non avere altra scelta.
«Elizabeth!». di nuovo quella voce, era come avere un appiglio invisibile a quel ricordo che la mia memoria confusa era riuscito a ripescare.
Aprii gli occhi. Sollevai la testa dalla superficie fredda su cui mi ero appoggiata.
Davanti a me c’era una ragazza asiatica con i capelli castano scuro legati in una crocchia fatta con due matite. Aveva un paio di occhiali che le calzavano a pennello, le davano un tocco quasi professionale.
«Ti sei addormentata durante l’esercitazione!», borbottò sottovoce sperando che la sentissi solo io.
Mi guardai attorno, sperando di non vedere nessuno degli addetti ai controlli dei test. Ce n'era solo uno ed era dietro una scrivania, col volto abbassato su un quadernino.
«Sta’ tranquilla, il signor Janson non ti ha vista.»
«Credevo che i ratti fossero molto attenti... non sarà un vero e proprio ratto, ma ci somiglia parecchio», brontolai, provocando una risata nella ragazza seduta davanti a me.
«Smettila, scema! Finiamo questa esercitazione, così dopo dovremo solo preoccuparci dei dettagli da sistemare e infine potremo dormire.»
«Non che il fatto di dover sistemare i dettagli del progetto D2MH mi elettrizzi parecchio», mormorai con un tono sconfortato. Detestavo dover lavorare per quel progetto, anche se non ricordavo precisamente che progetto fosse.
Ricordavo con chiarezza l'odio che ci mettevo, lo riversavo tutto nel lavoro, creando dei mostri orribili. Questo lo ricordavo con chiarezza. Ogni idea malsana, ogni cosa che avrei voluto fare verso le persone che mi costringevano a fare quelle cose, la disegnavo su un foglio, creando così creature inimmaginabili anche per la mente più diabolica. Tutte cose perfettamente studiate ed elaborate per un unica ragione, anche se poi sarebbero stati usati per altri scopi.
Sapevo, però, che una volta ciò che avevo creato si era rivoltato contro uno di quegli uomini vestiti con un camice bianco che camminavano spesso nella struttura. L'aveva preso, impalato alla parete e ridotto in tanti piccoli pezzettini.
Era stata una scena davvero macabra, ma allo stesso tempo in un certo senso sentivo una parte di me piuttosto felice di ciò che avevo visto. Provavo un odio incondizionato perché mi avevano fatto qualcosa di veramente brutto e continuavano a farlo.
«Sai bene che noi, in confronto agli altri, siamo graziati», sussurrò. «Pensa a Jill...», il tono della sua voce si fece così fine e tremolante che per un attimo pensai che sarebbe scoppiata a piangere.
«Si sa nulla sulle sue condizioni attuali?» Allungai la mano verso la sua cercando di non farmi vedere da Janson.
La ragazza davanti a me nascose le mani sotto il tavolo. Non voleva essere vista. Sapeva che Janson avrebbe reagito male, come sempre quando vedeva che qualcosa non andava come doveva andare.
«No, quei bastardi non ci fanno sapere nulla. Ieri sono passata davanti alla stanza dove la tengono rinchiusa per osservarla e mi hanno cacciata via immediatamente. L’unica cosa che so è che sta recuperando la vista lentamente», mormorò.
Janson chiuse il quaderno e si alzò, dirigendosi con un passo calmo e deciso verso di noi. Ci rivolse un sorriso smagliante e falso. Scosse lentamente l'indice verso destra e sinistra, scuotendo anche la testa in segno di totale disappunto.
«No no, signorine, così non va bene! Potrete parlare solo quando avrete terminato il test. Su via signorina Elizabeth, non dovrebbe essere così complicato per lei, visto che tali esseri sono frutto della sua fervida immaginazione!», disse con un tono quasi di stima. «Thomas è così entusiasmato che ha grosse aspettative riguardanti il progetto D2MH! Anzi, pensa che lei potrebbe addirittura migliorarlo!»
Sospirai e cominciai a smanettare sullo schermo touch incastrato nel tavolino sotto di me.
Ingrandii l'immagine dell'essere, sollevai il palmo della mano e l'immagine venne proiettata fuori tridimensionalmente grazie ai riflettori appesi proprio sopra le nostre teste e sotto il tavolo.
Non ero in grado di vedere l'immagine, forse per via della mia memoria abbastanza danneggiata.
Ma sapevo che una parte di me era orgogliosa della mia creazione, perché racchiudeva in un unico essere tutto l'odio per quelle persone, mentre l’altra ne era totalmente disgustata.
«Eccolo», dissi, poggiando l’indice sull’immagine e facendolo ruotare per mostrarne tutte le sfaccettature. «Ha passato il test, capo. Come da aspettativa, ha saltato tutte le barriere, anche le più alte. Le sue lame hanno distrutto tutto, il metallo utilizzato è uscito proprio come avevo richiesto nel progetto, quindi dica pure agli scienziati che hanno svolto un lavoro a dir poco eccellente nel svilupparlo.»
Presi un grosso respiro, mandando avanti l'immagine e passando a quella successiva. Un video che mostrava ciò che faceva quella creatura, ma non riuscii a vederlo nemmeno iniziare.
Ci fu un salto temporale. Fu come se qualcuno mi avesse scosso la testa velocemente e mi avesse fatta girare su me stessa: tutto attorno a me cominciò a ruotare per poi fermarsi nuovamente.
Janson si congratulò con me per il lavoro svolto, le persone attorno a me battevano le mani.
Non volevo che mi elogiassero, non per una cosa fatta contro la mia volontà.
«Si può dire che il progetto D2MH è praticamente invincibile! Ma veda di migliorarlo ancora di più, se è possibile. Come le ho già detto, Thomas pensa che potrebbe essere anche perfezionato. Pretende da questo progetto la totale perfezione. Abbiamo grosse aspettative su di lei, Elizabeth.»
Chiusi gli occhi e presi un grosso respiro. «Signore, stavo pensando che forse sarebbe meglio creare esseri più piccoli di questo che le ho appena mostrato. Come può ben vedere, questo è veramente enorme: supera di gran lunga la grandezza dei suoi predecessori già in utilizzo nei test del Gruppo A e del Gruppo B. Ovviamente i più piccoli si atterranno sempre al progetto D2MH, ma supereranno di poco la grandezza dei precedenti e saranno leggermente più deboli di questo. Diciamo che lui...», indicai l'immagine in 3D alle mie spalle, «è l’Alpha».
Janson storse leggermente il naso, assumendo un espressione strana più di quanto già non lo fosse senza fare smorfie. Ci stava pensando su. Ma perché doveva essere così... “rattoso”, anche mentre pensava?
Distolsi lo sguardo, sobbalzando non appena emise un verso sognante, una sorta di sospiro strozzato. «È un ottima idea! Potresti diventare il capo ufficiale di questo progetto!» Mi guardò, facendomi l’occhiolino. A volte trovavo quell’uomo veramente viscido.
Sospirai, la ragazza davanti a me brontolò qualcosa sottovoce, ma Janson, sebbene avesse uno sguardo sognante, se ne rese conto. Sbatté violentemente il pugno contro il tavolo, facendo sobbalzare sia me che la ragazza.
«Qualcosa da ridire, Jocelyn?», chiese Janson con tono di sfida.
Jocelyn. Sebbene non avessi memoria, sapevo che quel nome era sbagliato.
Infatti la ragazza schioccò la lingua infastidita. «Mi chiamo Evangeline, signore. Non voglio essere chiamata Jocelyn.
Voglio mantenere il mio nome.»

«Mi scusi, credo di aver già chiarito che non è possibile. Lo sa bene. Nomi speciali per ragazzi speciali», rispose con tutta calma anche se il suo tono di voce nascondeva un po' di scocciatura, probabilmente dovuta al fatto di averlo dovuto ripetere per l'ennesima volta.
Evangeline chiuse gli occhi, facendo un respiro profondo ed abbassando lo sguardo con fare rassegnato. Sapevo però che lei non si sarebbe arresa così facilmente.
Non ricordavo Evangeline, ma ricordavo chiaramente che era una ragazza tosta. Infatti, quando Janson si girò per andarsene, lei fece un grosso sospiro e riaprì gli occhi. Mi guardò con uno sguardo amaro, non poteva parlare a voce alta e la cosa le rodeva parecchio. Sapevo che sarebbe successo qualcosa di brutto se l’avesse fatto.
«Questa è esattamente la prova schiacciante di quanto a loro freghi dei soggetti ai test diretti, come Jillian. A noi non è concesso conservare il nome reale, perché siamo “speciali”, loro invece possono tranquillamente tenerlo», disse in un sussurro con una calma apparente.
Non ricordavo Jillian, ma sapevo che le era successo qualcosa di brutto per colpa dei test.
Cos’erano i soggetti ai test diretti? Non ricordavo che test fossero, ma ricordavo che c’erano dei diversi livelli di test e che Jillian apparteneva al peggiore.
Janson si avvicinò a grandi falcate ad Evangeline. Le diede una spinta, cacciandola col busto sopra il tavolo. Non poteva toccarci nemmeno con un dito in quanto soggetti speciali, a me perlomeno non mi aveva mai toccata, eppure spesso capitava che, in preda al nervoso, colpisse qualche ragazzo.«Jillian È speciale, Jocelyn!», sbraitò, «Sai anche tu cosa le abbiamo fatto, no? Che test abbiamo svolto? Ma forse non ti è chiaro quanto fosse importante! Ciò che è avvenuto nel suo DNA potrebbe essere dannatamente utile! Il bene superiore, Jocelyn! Ricordalo!»
«A cosa servirebbe alterare il colore dei suoi capelli e dei suoi occhi? Restare ciechi a cosa servirebbe? Sentiamo!», sbraitò lei a sua volta.
«Evangeline...», sussurrai in una vaga speranza di attirare la sua attenzione e farle capire che sarebbe stato meglio se avesse abbassato i toni. Non volevo che Janson si arrabbiasse di più con lei.
«Abbiamo lavorato sul suo DNA, l’abbiamo alterato per vedere se avrebbe reagito in modo positivo ai test! Sono tanti piccoli passaggi utili a loro modo! La cecità è stata una causa della modifica e dell’operazione agli occhi che la ragazza ha dovuto subire per il controllo della riuscita dei test, per vedere se avesse retto o meno e come avessero reagito le sue attività celebrali. Ha superato egregiamente sia quel test che quello nel cuoio capelluto. Ed ora la sua amica ha dei bellissimi capelli fucsia naturali, oltre che gli occhi. Il suo colore è stato modificato, ora ci vede di nuovo e lo fa benissimo. Lavora in modo super efficiente come al solito.»
Evangeline sollevò un sopracciglio, schioccando la lingua. «Dica la verità, non sa come giustificare la cosa e ci sta rifilando una marea di bugie.»
Janson divenne rosso di rabbia. Sollevò una mano e, pochi attimi dopo, colpì il volto di Evangeline con uno schiaffo molto, troppo forte. Lei girò il volto. La sua guancia divenne rossa quasi subito.
Non dissi nulla. Non potevo farlo. Abbassai lo sguardo. Mi sentii in colpa perché non potevo fare niente. Ero impotente davanti a quella scena.
Non ascoltai ciò che disse Janson dopo, preferii non farlo. Aspettai che andasse via.
«Avresti dovuto tacere», mormorai. Evangeline tirò su col naso, scuotendo la testa e facendo un respiro profondo.
«Odio le ingiustizie. Jillian, come noi altri, è umana. Non merita alterazioni del DNA o qualsiasi altra puttanata le hanno fatto addosso.»
«Ora se la prenderanno a morte con te...»
«Non importa», mormorò, «So già dove finirò a breve». Si tirò indietro un ciuffo di capelli.
Sapevo bene anche io cosa sarebbe successo da lì a breve, ormai l'avevo accettato.

L’immagine si offuscò, di nuovo, i suoni si mischiarono tra loro, tutto cominciò a girare come un mappamondo impazzito.
Sentivo come se la terra stesse tremando sotto i miei stessi piedi e non avessi appigli. Ormai mi stavo abituando a quella pessima sensazione, ma il mio cuore batteva sempre così forte da farmi pensare di poterlo vomitare da un momento all'altro.
Era quella la parte peggiore di tutto. La sensazione che il sangue nelle vene scorresse dannatamente veloce, l'adrenalina che saliva a mille.
Era come scavare nella memoria, una scoperta nuova anche se solo un ricordo.
Ma per chi, come me, non aveva memoria di niente, beh... quella era una gran bella cosa, anche se, fino a quel momento, nessun ricordo era stato allegro.
Venni accecata dalla luce intensa. Ero circondata da tanti computer, stavo lavorando ad un progetto.
Ero piccola, sapevo di avere circa quindici anni.
Non ero lì da molto tempo, forse qualche mese. Mi stavo adattando a quel nuovo computer che avevo davanti, era super tecnologico e non avevo mai visto nulla del genere. Era nuovo ed era tutto per me, prima lo condividevo con un’altra ragazza che, oltretutto, in quel momento era accanto a me. Capelli lunghi, rossi, racconti in una treccia che ricadeva lungo la schiena.
Janson, come al solito, ci stava controllando, tenendo davanti al muso una cartellina sulla quale scriveva.
All'improvviso una donna entrò correndo nella nostra stanza, accompagnata da una ragazza più giovane vestita come se fosse già adulta.
La mia attenzione venne subito catturata dalla ragazza più giovane, forse per il modo in cui si comportava. La conoscevo bene, ma non ricordavo il suo nome.
Trovai quell'immagine abbastanza triste, quella ragazza sembrava voler crescere prima del tempo. Eppure la cosa non mi stupiva... sapevo che per poter sopravvivere lì dentro si doveva crescere. Non avevano tempo per quelli che volevano ancora giocare o pensare all'ultimo modello dei cellulari.
Reggevano entrambe una cartellina clinica in mano, ma la ragazza sembrava essere più scossa.
«Janson, uno dei ragazzi è riuscito ad arrampicarsi fino a metà delle Mura e si è lanciato!», disse in modo frenetico la donna.
Janson fece un verso di curiosità e la ragazza annuì velocemente con la testa.
La sua pelle era olivastra, ma il suo volto era pallido come se avesse visto la cosa più brutta del mondo. Potevo capirla, comunque. Sicuramente quella non doveva essere una bella scena.
Janson arricciò il naso, sbuffò, poi cominciò a smanettare col computer. Tutti gli schermi davanti a noi cambiarono sfondo, mostrando tutti la stessa immagine.
Un ragazzo biondo era sdraiato a terra. Sanguinava, si era davvero lanciato da metà di quelle mura altissime.
Quale e quanta forza di volontà ci volevano per fare un gesto tanto estremo?
Quale limite aveva superato per portarlo a fare tanto?
Era solo un bambino. Aveva quindici anni. Provai una morsa al cuore. Il suo volto esprimeva dolore, delusione, odio, paura, terrore, panico ed altre cose... ma nemmeno una delle cose che esprimeva era positiva.
Ogni tanto gridava dal dolore, ma non lo faceva di continuo. Si lamentava con piccole grida, come se non volesse essere sentito, come se volesse lasciarsi abbandonare. O forse semplicemente l'adrenalina non gli faceva sentire ancora il dolore al completo.
Respirava faticosamente. Ero in ansia per lui. Allungai una mano sullo schermo, lo sfiorai.
Mi sentii una stupida. Mi sentii in colpa per ciò che gli era successo anche se io non c’entravo nulla con tutto quello.
Volevo fare qualcosa per lui, ma non sapevo cosa. Anche io ero solo una bambina. Sotto sotto sapevo cosa provava quel bambino, o meglio, potevo immaginare cosa l’avesse spinto fino a quel punto.
Stavo imparando a capire cosa succedeva in quel posto orribile e non mi piaceva affatto, ma ero costretta a stare lì e a svolgere il mio compito come tutti gli altri o le conseguenze sarebbero state parecchie e sgradevoli. Provavo dolore al posto di quel ragazzo.
«Svolta interessante», disse Janson con un tono distaccato, concentrato su ciò che stava accadendo in quel momento. Zoomò sul volto sofferente del ragazzo: teneva gli occhi sollevati al cielo, era cosciente, sebbene in procinto di lasciarsi andare. Le sue labbra erano rosee, macchiate di sangue e schiuse.
Janson poggiò un piede sul bordo della scrivania, si spinse un po' lontano e si girò verso la donna accanto a lui. «Di chi si tratta?», domandò infine, rivolgendo un occhiata veloce allo schermo davanti a lui.
«Di Newt, capo», rispose quella donna.

Non sentii cosa disse Janson dopo. La mia mente aveva deciso che avevo scoperto anche troppo.
L’unica cosa che vedevo era il volto di Newt, il suo sguardo. I suoi occhi erano lucidi, le mani di tanto in tanto si stringevano a pugno.
Sentivo il suo dolore, la sua sofferenza. Una forma di empatia veramente forte verso un ragazzo che non conoscevo, se non per nome. Volevo piangere per lui.
«C.A.T.T.I.V.O. è buono. Se questo è il buono, non voglio sapere cos’è veramente cattivo...», mormorai tra me e me. Ero costretta a guardare l’immagine che avevo davanti, non potevo guardare altrove. Forse quella tortura era la cosa peggiore che potessero costringermi a subire. Non mi era concesso guardare altrove per nessuna ragione finché Janson non ci avesse dato il permesso di riprende a fare ciò che stavamo facendo pochi attimi prima.
Quelle erano le regole e noi dovevamo rispettarle. Non sapevo perché, non sapevo per quanto, ma era così e dovevo farmelo andare bene.
Erano cose che non andavano bene a nessuno di noi, ma tutti dovevamo accettarle contro il nostro volere per un bene più grande.
Quella era diventata la nostra ramanzina quotidiana, anche se la odiavamo, era quasi diventato un detto.
Un ragazzo biondino che si trovava a due sedie di distanza dalla mia aveva uno sguardo un po’ preoccupato. Si girò e si guardò attorno come se temesse di essere visto. I suoi occhi erano gonfi e rossi, stava trattenendo le lacrime. Aveva un viso carino, giovane. La pelle rosea e gli occhi verde oliva. Sapevo che aveva circa la mia età.
Rachel passò nel corridoio dietro di noi insieme a George, ormai nella mia memoria remota avevo presente quei nomi. Sopratutto quello di George. Rachel gli spiegava la situazione, gli parlava di un progetto, di certi piani che la C.A.T.T.I.V.O. stava seguendo.
Il ragazzo biondo trasalì nel sentire le parole di quella ragazza, fissava lo schermo con un aria terrorizzata.
«Non voglio essere il prossimo», sussurrò con un filo di voce.
Sapevo cosa intendeva, ma non comprendevo a fondo la situazione o cosa succedesse lì... eppure non ebbi il coraggio di parlare. Da come ne parlava Rachel non sembrava nulla di così brutto.
Un altro salto temporale, fu come se la mia testa girasse per un paio di secondi.
L’immagine del ragazzo steso per terra era ancora impressa nella mia memoria.
Davanti a me, c’era il ragazzo biondo di poco prima.
Eravamo l’uno davanti all’altra, seduti ad un lungo tavolo bianco che, ai bordi, aveva una forte luce a led bianca.
Janson ci aveva mandati in quella stanza per una prova che aveva chiamato “test d'ingresso per uno stadio successivo”. Aveva detto che solo chi fosse riuscito a passare quel test avrebbe ottenuto una sorta di promozione, che per quel test erano stati selezionati solo i soggetti migliori, quelli più promettenti e che chi non riusciva a passare il test non avrebbe avuto nessun tipo di conseguenza.
Il test davanti a noi non era altro che un foglio bianco con diversi tipi di quesiti, dai più banali ai più complicati. Avevamo due ore di tempo per terminarlo.
Il ragazzo davanti a me fissava le consegne dei quesiti, rigirava tra le mani una penna col tappo mordicchiato. Era nervoso e i suoi occhi erano ancora gonfi per le lacrime versate poco prima davanti allo schermo del suo computer.
I suoi capelli erano tirati indietro con del gel, ma erano ugualmente scompigliati per quanto fosse possibile.
Sospirava rumorosamente e Janson era infastidito da questo, ma non si lamentò a voce alta. Lo mostrava con finti colpi di tosse dopo ogni sospiro.
Dopo circa dieci minuti dall’inizio dei test, decisi di attirare l'attenzione del ragazzo. Volevo fargli delle domande, sapevo che era lì da più tempo di me, quindi logicamente sapeva più cose.
«Ehi!», sussurrai.
Il ragazzo sollevò lo sguardo su di me. I suoi occhi verdi sembravano due smeraldi sotto l'effetto delle luci led.
«Sì?», sussurrò a sua volta.
«Posso farti una domanda?»
Si guardò attorno in modo furtivo. Janson era impegnato a seguire i ragazzi più avanti di noi: li rimproverava perché erano “disordinati, distratti e correggevano troppe volte le loro domande”.
Janson era un maniaco della perfezione.
Il ragazzo davanti me annuì. «Okay, ma sta attenta a non farti scoprire o penserà che ci stiamo suggerendo a vicenda», disse, riprendendo a scrivere.
Feci la stessa cosa e mi raccolsi tutti i capelli su una spalla. «Cosa intendi con “non voglio essere il prossimo?”»
Trasalì, anche se cercò di non darlo a vedere. Strinse la penna tra le mani, per un attimo pensai che potesse spezzarla, ma non lo fece. Prese un grosso respiro e scosse la testa. «Sei nuova di queste parti, vero?»
«Già...»
«Sono sicuro che mi sposteranno al test del Gruppo A. Non sono all’altezza di test come questo», indicò il foglio. «O meglio, sì, ma sarò sicuramente più utile nell'altro», mormorò, cercando di mascherare l’amarezza nella sua voce. Mi dispiaceva per lui, doveva essere davvero brutto avere una tale consapevolezza.
«Ma è okay», riprese, «Preferisco rendermi utile in qualche modo. In fondo non ho nulla da perdere. Ho già perso tutti... mia madre, mio padre, i miei nonni, mia sorella e mio fratello. Non mi resta più nulla e nessuno...». Si passò le mani sul volto, spostandole qualche istante dopo, mostrando un lato oscuro che i suoi occhi verdi avevano camuffato fino a pochi attimi prima. «E in ogni caso, non ho molta scelta», terminò.
«Sei stato costretto a venire qui?»
«Praticamente sì», sussurrò, riprendendo a scrivere prima che Janson si accorgesse del nostro chiacchiericcio. «Mia madre aiutava nella creazione dei Filtri che danno ai Soggetti prima di “spedirli”. A me, mia sorella e mio fratello, essendo giovani, hanno fatto fare un test prima di farci entrare. Il solito ciclo, sai... solo io ho superato i test per accedere ai vari progetti, i miei fratelli no. Così, assieme a mio padre, hanno aiutato a svolgere varie faccende. Tutti lavoravamo qui e in qualche modo tutti contribuivamo per un bene superiore. In cambio, ci avevano promesso una cura...» Chiuse gli occhi. «Sì, certo... finte speranze...»
Chiusi gli occhi. Sapevo di essere in una condizione simile alla sua. Lo capivo. «Mi dispiace», mormorai
«Non dispiacerti, non è certamente colpa tua.» Sorrise, era uno di quei sorrisi falsi che si potevano riconoscere da diversi metri di distanza, ma accettai lo sforzo e ricambiai.
Abbassai lo sguardo sul foglio. Corrugai la fronte.
«Ehi... guarda la domanda numero venti...» Inclinai la testa.
Justin passò la penna lungo il foglio, scorrendo i numeri fino al venti.

Ci fu come uno scossone, sentii il mio corpo tremare, ma la stanza era immobile.
Le cose attorno a me divennero scure, poi i miei occhi si aprirono di colpo come se avessi fatto un incubo.
La testa pulsava, non misi subito a fuoco cosa c'era attorno a me. Era tutto offuscato. La mia testa, di colpo, svuotata di tutto ciò che avevo appena scoperto, fatta eccezione per qualche cosa.
Decisi di aggrapparmi a quelle poche cose che ricordavo, pronta ad esternarle. Volevo ricordare tutto, volevo fare chiarezza sul mio passato, su chi ero, sul perché non ricordavo nulla anche se le poche cose che ricordavo non avevano l'aria di un passato felice.
Ma ero sveglia. Ero di nuovo nella realtà, non nel fantasma di un ricordo.
«Ecco, testapuzzona! Si è svegliata di soprassalto, sei contento ora?!», sbraitò Newt, la voce proveniva da dietro di me. Era fastidioso perché sembrava essere tamponata e allo stesso tempo un eco.
Le immagini attorno a me divennero lentamente nitide, come se ci stessi passando un panno sopra così da poterle finalmente vedere.
«Scusa, ero solo preoccupato!», brontolò Chuck davanti a me. Sicuramente era stato lui a scuotermi, non avevo dubbi di questo
Poggiai faticosamente le mani sopra gli occhi, li strofinai. Sentivo le palpebre pesanti. Tenevo un pezzo di stoffa tra le mani, ma non ero nemmeno minimamente intenzionata a mollarlo.
Spostai le mani e mi guardai attorno.
Ero sdraiata su uno dei letti del Casolare, la stanza era quella dove dormivo di solito. Ma la mia testa non era poggiata sul cuscino. No. Era poggiata su un braccio. Ebbi un déjà vu di quel momento.
Alzai lo sguardo per vedere di chi fosse il braccio, ma ovviamente sapevo già che era quello di Newt.
Incrociai il suo sguardo, infatti. Si reggeva la testa con una mano, mentre l'altra era lasciata a penzoloni giù dal letto.
«Newt?», mormorai. Si portò l'indice sulle labbra per farmi cenno di fare silenzio e alzò lo sguardo su Chuck come se avesse voluto bruciarlo vivo.
«Questa testa di caspio ti ha scossa per farti svegliare.» Digrignò i denti, contraendo la mascella come se si stesse trattenendo dall'insultarlo in modo molto più pesante.
Chuck deglutì e abbassò lo sguardo sulle scarpe, fingendo di scalciare un sasso. «Ero solo preoccupato...», ribadì, poi tirò su col naso. «Non ti svegliavi più! Almeno ho cercato di fare qualcosa per svegliarti, mentre invece lui ti guardava beatamente rilassato su quel letto!», brontolò.
Trasalii e schiusi le labbra, prendendo un grosso respiro interrotto da un singhiozzo. Mi resi conto di avere le guance umide e che il pezzo di stoffa che tenevo in mano, non era altro che la maglietta stropicciata di Newt.
«Per caso ho...?»
«Sì, Liz, hai pianto come una Fagiolina», disse Newt con tono giocoso nel vano tentativo di sdrammatizzare.
Nella mia mente si rincorrevano le immagini di quel ragazzo a terra che gridava di dolore. Abbassai lo sguardo e mi guardai le mani. Non ricordavo praticamente già più niente. E pensare che ci stavo mettendo così tanto impegno per ricordare quelle cose...
Rialzai lo sguardo sugli occhi di Newt. Era preoccupato, la sua fronte corrugata e le sue labbra appena schiuse.
Fu come un lampo, uno squarcio nella mia memoria che lasciò intravvedere quello schermo, quel ragazzo a terra... lui.
Non volevo ricordare proprio quel dettaglio.
Riecco tutte le sensazioni che condividevo con lui in quel momento. Il dolore, la rabbia, la delusione, la sensazione di aver fallito...
Mi girai completamente verso di lui ed affondai il volto contro il suo petto, stringendo la sua maglietta tra le mani.
Portò una mano tra i miei capelli, accarezzandoli per calmarmi. «Ehi, ehi, ehi... che c'è?», sussurrò, poggiando le labbra sulla mia nuca.
Il suo respiro tra i miei capelli sembrava essere bollente come la lava incandescente, ma forse era solo una mia sensazione. Mi rilassava, ma non mi calmava. Non molto.
Avrei voluto parlargli di ciò che avevo visto, ma non volevo che lo sapesse anche Chuck. Temevo che poi si sarebbe preoccupato di più, e lo faceva già abbastanza.
Non volevo preoccupazione, non volevo che qualcuno mi compatisse.
Volevo solo restare da sola.
Volevo restare sola con Newt, perché sentivo che lì in mezzo era l’unico in grado di capirmi davvero.
Non sapevo se fosse una mia illusione, una mia convinzione o qualcosa del genere, in ogni caso ero certa che lui fosse l’unico in grado di capirmi a pieno.
Chuck si avvicinò al letto, la sua mano toccò il mio braccio, provocando uno sbuffo contrariato da parte di Newt.
Ritrasse la mano e sospirò. «Eli, è tutto okay?», domandò con un tono premuroso.
Annuii e sollevai la testa, girandomi verso di Chuck assumendo un sorrisetto, sperando che sembrasse almeno minimamente sincero.
Il suo sguardo divenne simile a quello dei vitellini nel recinto vicino agli Squartatori.
«Sì, Chuck, non preoccuparti, è tutto okay», mormorai, singhiozzando solo una volta (per mia fortuna).
«Okay... tornerò tra poco, Fagio, e ti porterò da mangiare!», esordì con un tono orgoglioso, come se quella fosse la sua missione principale nella Radura, poi uscì dalla stanza sbattendosi la porta alle spalle.
Mi girai nuovamente non appena ebbi la certezza che Chuck fosse abbastanza lontano da non sentire nemmeno il lontano brusio della mia voce.
Chiusi gli occhi e nascosi il volto contro il petto di Newt, che fino a quel momento era rimasto in silenzio a giocare con le ciocche dei miei capelli.
Trasalì, continuando a giocherellare con la mia chioma. «Liz... che succede?», mormorò con un tono preoccupato, cercando però di non darlo a vedere. Cosa che non gli riuscì tanto bene dato che, ormai, avevo imparato a conoscere ogni sfumatura della sua voce.
Feci un respiro profondo e ripresi a singhiozzare. Volevo smettere, ma era più forte di me.
Il ricordo di lui steso a terra non mi dava tregua.
Detestavo apparire così debole, ne ero stanca. Volevo essere forte, ormai ero nella Radura e dovevo comportarmi da Raduraia, non da femminuccia.
Strinsi la sua maglietta tra le dita, giocando col tessuto, poi poggiai la fronte contro il suo petto e cercai di calmarmi.
Newt sospirò, poggiando le labbra sulla mia nuca. Per un attimo pensai di averlo stufato col mio continuo piagnucolare... poi capii che era semplice frustrazione.
«Non tenermi così sulle spine, mi fai dannatamente preoccupare», mormorò contro i miei capelli.
«Ho di nuovo... ricordato delle cose, diciamo. Non so dirti quando e dove le ho viste, ma erano veramente orribili.» Presi un respiro profondo, stringendo di nuovo il tessuto della sua maglietta. «Ti ho visto a terra, agonizzavi... so che ti eri arrampicato fino alla metà di una delle pareti del Labirinto e ti sei lanciato. Non ho visto quella scena, grazie a Dio, ma ho visto che soffrivi contro quel pavimento di marmo.» Mentre parlavo trasaliva sempre di più.
Ad ogni parola sembrava che lo ferissi con un pugnale vecchio e arrugginito. Alzai lo sguardo verso il suo volto, riaprendo gli occhi.
Aveva uno sguardo perso, come se si fosse spento di botto per non provare nessun tipo di sensazione. Forse se l'avessi pugnalato davvero non avrebbe avuto quell'espressione.
Solo in quel momento ricordai che mi aveva raccontato di essersi lanciato da una parete. Che era quello il motivo per cui zoppicava.
Ma perché io avevo visto quella cosa? Cosa facevo in passato?
Alla fine fece un respiro profondo e ricominciò ad accarezzarmi distrattamente i capelli. «Capisco...», disse in un sussurro, fissando un punto indefinito della parete davanti a lui. «Sei sicura che fosse un ricordo e non un incubo?»
«Sicurissima, Newt, era veramente troppo nitido... e poi, non poteva essere un incubo.»
Chiuse gli occhi e annuì. Forse ci stava pensando su. «Ti credo...», disse infine, schioccando la lingua poco dopo e legando un braccio attorno alla mia vita, stringendomi a lui come se fossi stata il suo peluche preferito, «Avanti, raccontami un po’».
Presi un grosso respiro per evitare di singhiozzare ogni secondo e cominciai a raccontargli ciò che mi ricordavo. A dire il vero non era molto, avevo parecchi vuoti di memoria, ma tutto quello che rammentavo glielo raccontai con una precisione a dir poco perfetta.
Tutti i dettagli, le sensazioni... una voce vaga che diceva che il ragazzo che si era lanciato era lui, lo schermo davanti a me che riproduceva l’immagine di lui a terra, le grida, il suo sguardo, il sangue...
Rabbrividì solo al pensiero. «Immaginavo comunque che c’entrassi io», disse con un tono calmo e pacato, accarezzandomi i capelli. Si era calmato lui e mi ero calmata anche io.
Non aveva smesso di accarezzarmi i capelli nemmeno per un attimo, mi stava provocando il sonno, infatti di tanto in tanto chiudevo gli occhi.
«Mi hai chiamato un paio di volte. A dire il vero, prima di salire sul letto, io ero seduto a terra e tu eri sdraiata con la testa sulle mie gambe. Non volevi lasciarmi andare, mi stringevi la mano per non farmi allontanare. Chuck ha ben pensato di cambiare le lenzuola con un paio più pulite prima di farci sdraiare, per quello era qui con noi. Pensavo che stessi dormendo, non che avessi un ricordo in corso... se così si può dire. Vorrei capire come mai ti è successo di nuovo», brontolò.
«Non lo so... non ne ho la minima idea, credimi. So solo che sono già stanca di questa cosa. Quando succede è come se stessi cadendo in un burrone. Poi ci passo per quella debole. Vi faccio preoccupare, comincio a piangere come una bambina, i Radurai fanno i loro commenti, ti metto pressione e la mia mente si carica di domande assurde! Sono stanca, voglio essere forte perché, dannazione, ormai sono una Raduraia e dovrei diventare forte e indipendente, e invece sono qui nel letto a lamentarmi di quanto faccio schifo!»
Poggiai le mani sugli occhi, facendole strisciare verso il basso e spostandole sulle tempie poco dopo, cominciando a premerle. «Per non parlare di quanto mi senta inutile! Ho mille pensieri per la testa, mille al secondo, tutti incasinati! Mi fanno uscire fuori di testa, dannazione! Non ne posso più di averli qui, potessi li vomiterei per non tenerli, visto che non hanno mai un filo logico. Non riesco a fare ordine, sembrano mille ricordi sbiaditi, informazioni incasinate, non riesco a trovarne un sens-»
Interruppe tutto. I miei pensieri, la sensazione che la situazione stesse sfuggendo di mano... tutto. Sparì tutto in pochi attimi. Dal momento in cui spostò le mie mani dalle tempie e le strinse nelle sue, a quando pochi secondi dopo le sue labbra incontrarono le mie, sorprendendomi come la prima volta.
Durò pochi attimi, ma ne valse la pena.
Riaprii gli occhi lentamente, il suo volto era a pochi centimetri dal mio, con un sogghignetto soddisfatto stampato sopra, come se avesse appena combinato uno scherzetto a qualcuno.
Realizzai che forse aveva quell'espressione perché ero arrossita in una maniera disumana.
Tornò serio, accarezzandomi le guance. «Tutto okay?»
Annuii, anche se ero un po' distratta dalla vicinanza dei nostri volti. Riuscivo a sentire il suo respiro sulle mie guance. «Perché mi hai baciata?». mormorai, deglutendo poco dopo.
Ridacchiò e fece le spallucce. «Non posso farlo?» Avvicinò di nuovo le labbra alle mie con fare provocatorio, come se volesse baciarmi di nuovo... poi si allontanò e tirò su la testa, poggiandola sulla mano per reggersi. «Seriamente parlando, era per calmarti. Ha funzionato?»
Dovevo averlo guardando con uno sguardo d’odio puro in quel momento. Lo ammetto, avrei voluto baciarlo di nuovo... non potevo farci nulla.
Ad ogni modo, cercai di non farci caso. Non volevo dargli quella soddisfazione.
«Sì, ci sei riuscito», risposi secca, gonfiando le guance.
«Bene così.» Scosse le spalle. «Ho fatto la mia buona azione giornaliera, allora.»
Annuii e mi misi seduta, scendendo dal letto poco dopo. Sistemai i capelli sulla schiena e mi stiracchiai, grattandomi la nuca e guardandomi di nuovo attorno.
Eravamo soli e c'era parecchio silenzio, anche se fuori dalla finestra riuscivo ad intravvedere alcuni Radurai fare avanti e indietro. Ebbi un lampo di memoria. Ricordai ciò che era successo prima di “svenire”. George. Il tatuaggio... la scritta.
Dovevo scoprire qualcosa di più. Volevo farlo. Sentivo il bisogno di risposte.
«Dov’è George?», domandai, alzando lo sguardo su Newt che nel frattempo si era alzato e sistemato per bene.
«All’altro mondo, probabilmente», rispose, poi mi guardò con la fronte corrugata e sollevò un sopracciglio, incrociando le braccia al petto. «Perché me lo chiedi?» C'era una punta di gelosia e amaro nella sua voce, sembrava pronto a sputare veleno da un momento all'altro.
Sollevai un sopracciglio a mia volta e assunsi la sua stessa posizione, corrucciando le labbra. «Cos’è quel tono che hai appena usato?», ingrossai la voce, cercando di essere fedele al suo tono.
«... mi stai imitando?» Schioccò la lingua, assumendo una finta espressione offesa. Lo trovai adorabile, dovevo ammetterlo. Sembrava un bambino che non voleva mai crescere.
Risi e annuii, poi abbassai il volto, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Seriamente parlando, voglio sapere cos’è successo.»
«È nella stessa sala in cui l’hanno portato durante la Mutazione. Se stai meglio, ti ci porto, ma penso vivamente che non sarà un bello spettacolo.»
«Non mi interessa, voglio vedere almeno come sta», brontolai.
Sbuffò e si avviò fuori dalla porta, facendomi segno di seguirlo.

Newt aveva ragione, era la stessa stanza dell'ultima volta.
Al suo interno si erano radunati tutti i Costruttori attorno al lettino su cui era disteso George.
Il suo corpo era davvero in pessime condizioni, era praticamente marmoreo ormai talmente era grigiastro. Era coperto da un vecchio telo pieno di cuciture e toppe, il tanto giusto per coprirlo, dato che era nudo.
Justin era seduto sul lettino, probabilmente ormai non gli interessava più “nascondere” ciò che provava per George. Gli teneva la mano, l’accarezzava dolcemente seguendo la linea delle sue dita. Voleva prendersi cura di lui come se fosse stato il suo bene più prezioso... anzi, forse lo era.
Sospirò in modo frustrato mentre Jeff ascoltava il battito cardiaco di George, tenendo due dita sul suo polso destro e l’orecchio sul suo petto.
«Ha il battito molto debole», disse Jeff, «Non capisco come abbia fatto a sopravvivere fino ad ora, ma probabilmente non arriverà a domani». Si scrocchiò le dita delle mani.
«Non possiamo dargli dell’altro Dolosiero?»
«Gliel’abbiamo già somministrato, dargliene dell’altro non cambierebbe le cose, Justin, ormai è andato.»
Justin annuì, ma la sua testa era altrove.
«Visto? Te l’avevo detto che non era una bella scena», brontolò Newt alle mie spalle.
Alby entrò nella stanza, spintonando via i Costruttori. Voleva parlare con Jeff per sapere le condizioni di George, un po' come tutti. Si avvicinò a lui per farsi ripetere la pappardella detta a Justin.
Dal modo in cui Jeff alzò gli occhi al cielo potevo capire che l’aveva ripetuta almeno mille volte, mentre Justin ormai era già stufo di sentirselo dire, ma non fece una piega. Non era intenzionato a lasciar andare la mano di George. Disegnava mezzelune sul dorso della sua mano, l’accarezzava come se fosse la prima vota che la vedeva, come se volesse studiarne ogni dettaglio.
Volevo fare qualcosa, mi faceva male vedere il mio amico così giù di morale. Tutto ciò che faceva era come una preghiera muta.
«Ehi?» Newt tamburellò l’indice sulla mia spalla, cercando di richiamare la mia attenzione.
Lo guardai con la coda dell’occhio, ma la mia attenzione era praticamente del tutto richiamata dal corpo di George che sembrava diventare sempre più grigiastro ad ogni secondo che passava.
Newt schioccò la lingua, allora mi girai, ma ormai si era messo a chiacchierare con Alby.
Jeff tornò accanto a George, lo controllò di nuovo. Forse aveva notato che peggiorava sempre di più.
Il mio sguardo cadde allora sul collo di George, su quel tatuaggio. “Gruppo A, Soggetto A19. L’innesco”. Cosa poteva significare? Per qualche strano motivo nella mia mente tale frase non era nuova. Ma perché?
Abbassai lo sguardo sulla mia mano destra.
Per un secondo la mia vista mi sembrò appannata, sentii la necessità di mettermi in salvo.
Le mie gambe cominciarono a cedere senza un motivo preciso, mi sentivo debole, ma cercai di reggermi sulle mie gambe.
«Ragazzi... temo che George sia andato», mormorò Jeff dopo aver ascoltato di nuovo il battito, tenendo tra le mani uno dei polsi di George.
Justin trasalì sul lettino, il suo volto divenne bianco come la tela. Il suo sguardo si spense di botto, lo sollevò velocemente verso Jeff e schiuse le labbra. «E questo cosa significa?», disse.
Alby sospirò pesantemente, avvicinandosi al lettino con un passo lento e sollevando lentamente la coperta sul corpo di George.
Jeff prese un respiro profondo e lasciò andare definitivamente il polso. «Non sento più il polso... temo proprio che sia and-»
Un verso somigliante ad un risucchio riempì la stanza. Era simile al rumore dell’acqua che viene risucchiata da uno scarico ostruito, faceva venire la nausea da quanto era forte, poi un sussulto da parte del corpo di George e tutti si girarono di botto verso il lettino.
Aveva sbarrato gli occhi e schiuso le labbra, il suo petto si gonfiò per prendere un grosso respiro e la sua schiena si inarcò in un arco perfetto degno del miglior ginnasta del pianeta. Ricadde di peso sul materassino con un tonfo fortissimo, temevo che avesse spaccato il lettino dal pessimo rumore prodotto dalle molle.
Anche Justin si era allontanato, aveva preso tutti alla sprovvista.
Cominciò a tossire faticosamente i suoi occhi balzavano da un lato all’altro della stanza come se fosse in preda al panico. Balbettò parole incomprensibili, poi fermò lo sguardo su Newt.
Chiuse le labbra, abbassò lo sguardo su di me, infine su Justin. Il suo sguardo di panico si placò, scomparve, sostituito da un sorriso appena accennato.
Alby spostò la coperta e la piegò leggermente, lasciandola cadere sul petto di George. «Bene Pive, fuori da questa stanza del caspio, lasciamo loro un po’ di privacy!», brontolò, facendo cenno di uscire a tutti.
George si mise seduto (come faceva a mettersi seduto dopo aver inarcato la schiena in quel modo?) e afferrò un braccio di Alby. Tossì un paio di volte e si passò una mano tra i capelli. «Da qui non esce nessuno», disse. La sua voce era un gorgoglio continuo, al punto di essere fastidiosa solo ad ascoltarlo.
Alby ridacchiò in modo nervoso, scostando il braccio con fare violento. «Hai fatto un viaggio nell’aldilà e sei tornato, okay, capisco, ma a noi non interessa vedere le vostre smancerie.»
«Nessuna smanceria. Ho un avvertimento». Chiuse gli occhi, riaprendoli lentamente. «Loro mi hanno detto che stanno arrivando.»
«Loro? Chi?» Sussurri. Continui sussurri. Nella mia testa riuscivo a sentire ogni singola parola anche se erano tutte accavallate.
La sensazione di debolezza si faceva strada lungo le mie gambe. Sentivo di poter cadere da un momento all’altro. Avevo bisogno di aria. Mi sentivo soffocare.
«I Creatori», rispose in tutta calma George. Una calma tetra, di quelle che precedono una crisi di nervi. Il suo sguardo non era lo stesso dell’altra volta. Forse era dovuto solo al colorito più grigiastro, ora più evidente, o ai suoi occhi arrossati che gli davano l’aria di un drogato.
Alby corrugò la fronte e sollevò un sopracciglio. «Cosa intendi dire con “i Creatori”? Quando li avresti visti?»
«Dove credi che sia stato tutto questo tempo? Assieme ai Dolenti a giocare a carte? Guardami, Alby! Guardami negli occhi!» Fece per scattare in piedi, ma poi si fermò e cominciò a ridacchiare in modo isterico. Mi dava i brividi.
«Siete tutti fregati. Tutti! Una volta usciti di qui non saprete nemmeno dove girarvi! Non avete idea di cosa ci sia oltre quelle Mura del caspio! Io l’ho visto! L’ho visto caspio, durante la Mutazione!» Tossì, le vene del suo collo si ingrossarono così tanto da rendersi dannatamente visibili.
Si guardarono tutti negli occhi, domandandosi di cosa stesse parlando.
«George, calm-»
«Non dirmi di stare calmo quando non sai di cosa sto parlando! I Dolenti mi hanno punto tante volte quanto si battono gli occhi in una giornata intera! Ho visto tanti Dolenti. Tantissimi! Non sono tutti uguali. No, ce ne sono un paio diversi, più grandi, Alby, più temibili! E si sono svegliati ora!» Scattò in avanti, acchiappò il braccio di Alby e lo strinse forte, mostrando le vene della mano, ormai gonfie anche quelle. «Capisci? Si sono svegliati ora, Alby! Sono arrabbiati! Sono crudeli! Mi volevano morto, ma sono vivo! Alby, sono vivo! I Creatori mi hanno salvato prima che mi tagliassero via tutto, anche la faccia! Mi hanno detto di dirvi che arriveranno presto!»
Era serio. Era dannatamente serio. Poi scoppiò a ridere.
Alby si liberò dalla sua presa, facendo un cenno verso Jeff, che scrollò le spalle, picchiettandosi la tempia con l’indice. «È andato mentalmente, non è colpa mia. Sarà un effetto collaterale del Dolosiero.» Fece spallucce.
George schiuse le labbra, «Vi sto dicendo la verità!»
«Sì George... sì. Andiamo via, forza.» Uscì dalla stanza, cosa che facemmo anche noi subito dopo di lui.
La sensazione di debolezza era sempre più forte, sembrava non volermi dare tregua. Solo una volta uscita da quella stanza cominciai a sentirmi meglio.
«È tutto okay, Fagio?», brontolò Newt alle mie spalle. Il suo tono di voce era simile a quello di un bambino che implorava le caramelle.
Annuii e feci un respiro profondo, poggiando la schiena contro la porta di legno, sentendo uno scricchiolio veramente poco affidabile. Poggiai le mani tra i capelli e tirai su le ginocchia, stringendole contro il petto.
«Sento la testa esplodermi», sospirai, poggiando poi la testa contro la porta e alzando lo sguardo al soffitto. «Sono distrutta. Non capisco più cosa sta succedendo, sento che la situazione potrebbe crollarmi addosso da un momento all’altro.»
Newt schioccò la lingua e si poggiò anche lui contro la porta, accanto a me. «Beh, benvenuta nel mio mondo, Liz. Quella è una sensazione che mi perseguita da quando ho messo piede nella Radura. So cosa provi.»
Lo guardai con la coda dell’occhio, poi chiusi gli occhi.
Sentii le voci di George e Justin, parlavano sottovoce, per cui non sentii bene cosa dicevano e non mi sembrava nemmeno giusto origliare.
Sentii un colpo improvviso, come un corpo che cade a terra, poi qualcuno che sussurrava in modo isterico. Corrugai la fronte e poggiai l’orecchio, cominciando ad origliare. Okay, non era educato, c’era da ammetterlo, ma era strano sentire certe cose.
Newt chiuse gli occhi e si poggiò una mano sulla fronte, sospirando. «George dev’essere caduto giù dal letto.»
«Sh!»
«Eh? Che fai, origli?!»
«Zitto, non riesco a sentire!»
Sbuffò e poggiò l’orecchio contro la porta, brontolando tra sé e sé qualcosa che non riuscii a sentire.
Ero troppo impegnata a cercare di capire cosa si stavano dicendo George e Justin. Per qualche strano motivo, avevo la netta sensazione che si stessero dicendo qualcosa di veramente importante.
Forse, le mie deduzioni non erano poi così sbagliate.
«Devi credermi, Justin... almeno tu, credimi! Non ti direi mai una bugia! Non a te...», disse George, con un tono che dava la sensazione di qualcuno veramente distrutto.
«Lo so, George, ma sembra tutto così assurdo», rispose Justin.
«Non vuoi proprio credermi, mh? Justin... ascoltami, non ti mentirei mai, lo sai.» Sembrava sincero. Dannatamente sincero.
«Non lo so, la cosa non mi convince molto...»
«Sei il primo tra i due che aveva detto di ricordarsi di questa cosa ed ora non ne sei convinto? È assurdo. Questa storia non ha alcun senso. Fallo, ti prego, fai come ti ho detto», implorò, sospirando poco dopo. Cominciò a singhiozzare. «Non ti chiederei mai di farlo se non sapessi che è qualcosa di importante. Almeno tu, voglio che lo sappia almeno tu, che ti prepari a tutto questo. Non voglio che ti accada nulla di male, sei l’unico qui dentro che mi è sempre stato vicino, che c’è sempre stato sin dal primo momento. Voglio solo il tuo bene... Il progetto, Just! Il D2MH potrebbe essere qui da un momento all’altro!»
«Ti credo, anche io voglio il tuo. Mi hai fatto stare in ansia per tutto questo tempo.» Rise, facendo un respiro profondo. «Adesso riposati, ci pensiamo domani a tutto questo, okay? Voglio che ti riprenda al meglio.»
«Domani? Domani potrebbe essere trop-»
«Rilassati, amore. Riprenditi, quando sarai più lucido né riparleremo.»
«Okay...»
Spostai l’orecchio dalla porta non appena sentii dei passi avvicinarsi.
Nascosi il viso contro le ginocchia, feci finta di stare male. Cercai di essere il più credibile possibile. Mi sforzai così tanto che la nausea mi venne davvero.
La porta si aprì e Justin uscì come se nulla fosse, si chinò davanti a me, poggiandomi una mano sulla spalla. «Eli? È tutto okay?», mormorò con un tono premuroso.
Annuii. «Ho solo un po’ di nausea.»
«Ancora?», domandò Newt, avvicinandosi anche lui e chinandosi alla mia altezza
«Vuoi che chiami Jeff?»
«No, grazie Justin.» Diedi un finto colpo di tosse e mi alzai, passandomi le mani tra i capelli. «Mi passerà presto, non preoccuparti. Magari è solo un po’ di debolezza, nulla di più.»
«Bene così.» Newt scrollò le spalle e si alzò a sua volta.
«Okay, come vuoi. Vado in cucina, ci vediamo dopo...»

«Hai sentito anche tu cosa dicevano, vero?», domandai mentre saltavo i rami a terra.
Eravamo nella solita parte lugubre della Radura per starcene un po’ in disparte. Questa storia del risveglio di George non si stava per niente rivelando tranquilla. Circa un’ora dopo la sua ricomparsa e dopo i suoi brutti presagi, in tutta la Radura non si faceva altro ce parlare di George il resuscitato, nemmeno fosse un santo o qualcosa del genere.
«Certo che l’ho sentito, non sono mica sordo!», brontolò Newt, allargando le braccia come se stesse facendo finta di camminare su un filo.
Era esattamente così che mi sentivo. Costantemente in bilico su un filo di seta sospesa ad un’altezza da vertigine. Ero già stanca di sentirmi in quel modo, eppure non potevo combatterlo in alcuna maniera.
Ad ogni respiro era come avere del fuoco nei polmoni, la tensione che si sentiva a pelle.
L’unico mio alleato in battaglia era Newt, e lui non era di certo messo meglio di me. Poteva solo capirmi e cercare di darmi una mano nell’affrontare le cose, distrarmi, come stavamo facendo in quel momento.
Di certo fare un puzzle come quella mattina non poteva aiutare a distarsi, non potevamo stare tutta la sera a lavorarci su.
«Credi a ciò che ha detto George?»
«A quali delle tante cose?»
«Ai Dolenti.»
«Beh, quello è innegabilmente vero. Li hai visti anche tu quelli dell’ultima volta. Non era come quelli che vediamo di solito, sai? Erano enormi il doppio. Su quello era indubbiamente sincero. Sull’altro non lo so, sembrava in preda ad un delirio.» Sospirò, grattandosi nervosamente la fronte. «Non so più a cosa credere ormai, se vogliamo essere sinceri.»
«Ti credo.» Mi stiracchiai, poi mi fermai. Corrugai la fronte e mi guardai attorno. Sentivo dei ronzii costanti nelle mie orecchie. Il suono era così forte che sovrastava tutto il resto.
Newt corrugò la fronte, avendo notato il mio strano modo di fare.
Cominciai a seguire il ronzio, era come se mi volesse guidare da qualche parte, come se mi stesse chiamando a sé.
La mia vista si appannò, era come se dovessi essere guidata solo dal suono. Mi lasciai trascinare ed una parte di me, infatti, si opponeva. Ero in conflitto, ma decisi che comunque lasciarmi guidare: era la cosa migliore da fare.
«Liz?» Newt mi seguiva. Era direttamente dietro di me.
Non risposi anche se mi chiamò più volte, il suono aumentava ad ogni passo in avanti. Non sapevo dove mi stesse portando, ma mi lasciai guidare. Una parte di me era sicura di ciò che stava succedendo, come se l’avessi già calcolato da tempo e quello fosse già tutto un piano prestabilito.
Non so quanto tempo passò o per quanto camminammo, ma in ogni caso dopo un po’ il suono svanì.
Ciò che c’era davanti a me, però, era dannatamente visibile.
Un Dolente morto, le zampe rivolte verso l’alto e gli aculei conficcati a terra. La sua pelle era d’oro metallizzato. Era immobile e puzzava.
«Oh caspio!», sussultò Newt. «E questo da dove...?»
«Non lo so, ma forse dovremmo tornare indietro...», mormorai.
Una zampa del Dolente cadde a terra a peso morto. Il suo corpo era squarciato in due grossi pezzi uguali, segno che comunque aveva lottato.
Girai attorno al Dolente. Vederlo così vicino ed immobile mi dava una strana sensazione. Orgoglio misto a terrore.
Newt si avvicinò alla zampa, la prese e la controllò. Era enorme, lunga più di lui.
Prese il mio braccio e mi trascinò accanto a lui, indicando la zampa che aveva in mano. «Liz, leggi qui», indicò un punto della zampa e lessi.
Non volevo crederci. Non potevo. Guardai Newt come se mi fosse appena caduto il mondo addosso.
C’era una scritta in grassetto maiuscolo sul bordo della zampa.
D2MH.
Alla fine, poco più in basso c’era scritto il mio nome. Come il Dolente che avevamo visto nella Radura. Era come una firma evidente, o come se fossimo stati assegnati ognuno ad un Dolente. Solo D2MH.
Newt chiuse gli occhi e lasciò cadere di peso la zampa al suolo, sospirando in modo frustrato. Mi chinai, raccogliendola da terra.
«E questo cosa significa?», chiese Newt. Il suo tono era quasi assente.
Chiusi gli occhi. «D2MH... Dolenti di tipo 2, Metallo Duro. H è inteso come duro», dissi in modo automatico, sospirando. Riaprii gli occhi, alzando la testa verso Newt.
Le sue labbra erano schiuse, il suo sguardo mostrava stupore. «Come fai a...»
«Saperlo? Non lo so. L’ho visto in uno dei miei flashback. O meglio, l’ho ricordato da lì, o qualcosa del genere... non so spiegartelo.» Abbassai lo sguardo, guardando attentamente la scritta.
Notai poi che sotto il mio nome c’erano diversi graffi, come se qualcuno avesse cercato di cancellare qualcosa da lì. Ma cosa?
«Newt!» La vocina stridula di Chuck era come una sirena. Ma mai quanto il tonfo fortissimo del suo corpo che cadeva come un salame contro il terreno sottostante. «Justin è stato punto!»
Scattai in piedi. «Cosa?!», dissi assieme a Newt

{Angolo dell'autrice}
Okay, ora siete stra-liberi di fucilarmi per non aver aggiornato dopo un mese.... ne avete tutto il diritto.
Aspetto i dolenti a casa, prometto che non mi lamenterò e starò buona buona.
Seriamente parlando, scusatemi tantissimo pive, sono stra-impegnata con la scuola, purtroppo ho completamente libero solo il sabato sera e voi capite che viene male scrivere un intero capitolo come Dio comanda solo in un giorno. Anche perché io le cose me le studio attentamente e mi ci vuole un po' di tempo ^^"
Comunque, a parte questo, perdonatemi se aggionerò un po' più tardi. cercherò di farlo ogni due settimane, promesso, caso contrario vi prego di non uccidermi e di sopportare un po' i miei ritardi.
Alla prossima pive!



 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***




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Justin delirava, il suo corpo era pieno di gocce di sudore, attorno a lui ormai si era creata una pozza che disegnava la sagoma del suo corpo, ma più largo e... beh... umido. Quella pozza si era formata ed espansa tutta nell’arco di un ora, lo stesso tempo che era trascorso da quando io e Newt eravamo stati avvisati dell'accaduto.
Una corsa veloce ed eccoci lì, in quella stanza ricca di urla e lamenti strazianti.
Non si sapeva bene quale fosse stata la dinamica della cosa, ma Justin era stato riportato nella Radura da Minho poco prima della chiusura delle Porte, facendo imprecare quest’ultimo per il tempismo avuto nel fare le cose.
Gli avevano somministrato il Dolosiero ed era stato trascinato su un lettino a riposare, rendendo però impossibile trascorrere la giornata tranquilla per via delle sue grida disumane.
Era svenuto mentre lo portavano sul lettino, ma poco dopo essergli stato somministrato il Dolosiero si era svegliato in preda alle urla e al dolore. A volte provava a parlare, ma nessuno capiva cosa dicesse.
Le sue grida erano persino più forti di quelle di George, ero abbastanza sicura di non aver mai sentito nessuno gridare in quel modo. Sperai vivamente che qualcuno gli ficcasse in bocca un calzino, perché io ero dannatamente tentata di farlo, anche se provavo pena per lui.
Sul suo braccio c’era un buco enorme e aveva alcuni graffi sul volto e sul petto, ma nulla di troppo profondo o preoccupante... a parte il foro sul braccio che aveva un aria veramente poco confortevole.
«Pensate che smetterà di gridare in quel modo prima o poi?», domandò Chuck grattandosi la nuca. Era poggiato sul bordo del lettino mentre giocavo con i suoi ricci, rigirandomeli tra le dita.
Erano morbidissimi, mi stavo rilassando anche io ad accarezzarli.
Newt annuì e sospirò. «Qui dentro stanno tutti uscendo fuori di testa», brontolò uscendo dalla stanza. Sicuramente ormai era stufo di rimanere lì senza che nessuno sapesse dargli una risposta certa sull'accaduto, e poi Justin per lui non rappresentava nient'altro che un “compagno di Radura”. Una volta aperta la porta per uscire sobbalzò leggermente, ritrovandosi George davanti.
Nel suo sguardo c’era della preoccupazione mista a qualcosa che sembrava dire “lo sapevo”, un po’ di sensi di colpa e una puntina di stanchezza.
Squadrò Newt come se fosse stato l’essere più schifoso che avesse mai visto sulla faccia della terra, schioccò rumorosamente la lingua e lo scansò per entrare nella stanza, come se nulla fosse, come se per lui non avesse mai rappresentato nulla e nessuno di particolarmente importante. Forse era troppo stanco e preoccupato per dar peso a chi aveva davanti.
Newt si girò appena George lo ebbe superato, mi guardò come se gli avesse appena sputato in faccia e allargò le braccia come per chiedermi “Cosa gli ho fatto ora?”.
Gli risposi scrollando le spalle, nemmeno io ero in grado di spiegarmi a pieno quel comportamento, perché quelle precedenti erano solo supposizioni (esatte, probabilmente, ma era comunque qualcosa da prendere con le pinze).
Pensai che comunque George fosse chiaramente preoccupato, forse non voleva avere qualcuno tra i piedi e trovarsi Newt davanti era stato uno schiaffo morale.
Lo osservai mentre si avvicinava al lettino. La sua pelle era ancora grigiastra, ma era molto meglio rispetto a prima. Le vene erano comunque ben visibili nel collo anche ad occhio nudo, il che era dannatamente inquietante: sembrava pronto a trasformarsi in qualche mostro mitologico o qualcosa di simile. Anche se pareva già un mostro in quello stato. Non mi sarei stupita se avesse cominciato a strapparsi la pelle del viso e a mostrare un’altra faccia. O magari le cicatrici sul volto avrebbero cominciato a cedere e la pelle sarebbe caduta da sé... Perché anche a distanza di tempo, il suo volto aveva ancora i segni della lotta con Newt?
Scossi la testa ed abbassai il volto, notando che George mi stava fissando di rimando e non era esattamente contento della mia presenza in quella stanza. Al contrario, aveva un espressione come a voler dire “Ti prendo a testate finché non schiatti e poi ti butto nel Labirinto”. 
Chuck si guardava attorno con fare confuso, mi faceva delle domande che non coglievo perché ero troppo concentrata a realizzare la scena che mi si presentava davanti.
George vivo, Justin in piena Mutazione... ed io ero in stanza con la persona che aveva cercato di strozzarmi.
Osservai George con la coda dell’occhio e vederlo prendersi cura di Justin mi disorientò parecchio. Era strano visto che lui di solito non dava segni di molto interessamento verso Justin. Sembrava sempre il contrario. Forse era più “umano” di quanto volesse dimostrare.
D’altronde era lì contro ogni mia aspettativa.
Spostai una ciocca dei miei capelli dietro l'orecchio e poggiai il mento sulla nuca di Chuck, sentendolo sussurrare qualcosa tipo “Questa è una situazione imbarazzante”.
«Sei un pazzo», mormorò George, scuotendo velocemente la testa. La sua voce tremava, ma non era per la preoccupazione o qualcosa di simile.
Sollevai leggermente lo sguardo per guardarlo meglio, non era messo molto bene. La sua pelle brillava per il sudore che ricopriva il suo corpo, e la stessa cosa faceva la pelle di Justin. Tremava leggermente, si sosteneva con le mani poggiate al lettino.
«Mi dispiace...», azzardai a sussurrare.
Non rispose per una manciata di minuti, poi finalmente sollevò lo sguardo come se avesse appena realizzato che gli stavo parlando. Accennò un sorriso chiaramente forzato, poi tornò subito serio.
«Ti si è rincaspiato il cervello?», sussurrò Chuck dandomi un colpetto col gomito. «Questo psicopive potrebbe lanciarti addosso il corpo di Justin! Non c’è nemmeno Newt in stanza!», continuò a sussurrare cercando di non muovere le labbra.
Pensai che avesse decisamente ragione. E notai solo dopo che effettivamente Newt non era più in stanza da un pezzo.
«Per una caspio di buona volta, Elizabeth, non c’entri nulla con tale scelta», rispose George a denti stretti. «Forse.» Schioccò la lingua e rise in modo sonoro, facendomi accapponare la pelle. Non sembrava nemmeno una risata umana, sembrava qualcosa di molto più spettrale.
«So molte cose, Elizabeth, molte cose. Ora so molte cose di te. Tutto merito dei Dolenti grandi... uhm, I D2MH, giusto? Tutto questo ti è familiare?» Assottigliò lo sguardo. «A pensarci bene, hai fatto bene a scusarti, sai? Forse in verità c’entri più di quanto tutti noi crediamo.» Fece uno scatto verso di me.
Chuck sollevò velocemente le mani. «Okay, okay, stiamo calm-»
«Chiudi quella fogna buona solo a mangiare grosse quantità di panini, Chuck!», sbraitò George, facendo sbiancare Chuck. Si portò le mani sui fianchi e gonfiò le guance, guardandomi.
Chuck fece per rispondergli di nuovo, ma George lo spinse via facendolo sbattere rumorosamente contro la parete vicino alla porta.
Sgranai gli occhi, per qualche strano motivo avevo avuto un Déjà vu.
Decisi nell’arco di un secondo che era il caso di andare via da lì... o meglio, io decisi così, ma le mie gambe non la pensavano allo stesso modo. Erano immobili, come se fossero fatte di pietra. Non fecero nemmeno una piega, anche se volevo spostarmi di lì.
George afferrò un lembo della mia maglietta, sul colletto, e mi trascinò davanti a lui.
Il suo viso era davanti al mio, ora riuscivo a vedere perfettamente i vari tagli e le cicatrici profonde sparse per tutto il suo volto.
I suoi occhi erano fissi sui miei, come se fossero il vuoto puro e immacolato.
La sua espressione la raccontava lunga su tutto ciò che stava provando. Io, infatti, nei suoi occhi vedevo chiaro il tormento interiore che si aggrappava ovunque, lacerando ogni parte di lui con tagli profondi e infetti.
Rabbia, stanchezza, dolore... mi ricordava vagamente lo sguardo di Newt in quello schermo che avevo visto nello specchio del mio ricordo. Solo che stavolta in quello sguardo c’era anche un pizzico di follia pura. C’era il nervoso che portava ad una follia, o forse quella era solo una maschera per coprire il dolore che provava.
Doveva essere davvero distrutto e provato da quella situazione, da tutto ciò che aveva visto e vissuto, probabilmente ormai aveva toccato il fondo del fondo e non trovava più un modo per risalire.
«A pensarci ancora meglio, è seriamente tutta solamente colpa tua, Elizabeth», sibilò tra i denti. Sentivo il suo respiro contro il mio volto. Era pesante, quasi affannato, le vene del suo collo erano così ingrossate che potevo contare quante ne aveva.
Sentii i brividi sulla schiena, sudavo freddo. Il sudore impregnava anche la sua pelle.
«Mia?», mormorai tremando.
Si passò la lingua sulle labbra e mi fissò negli occhi. Ora era davvero chiara quella scintilla di follia. Strinse le mani sul mio colletto, avvicinandomi di più a lui, spostando poco dopo una mano attorno al mio collo e stringendola, sorreggendomi comunque per il colletto.
«Sì. Tua. Ti ho vista nei miei ricordi, ma questo verrà spiegato a tempo debito», sogghignò con fare malefico, come se stesse immaginando la cosa più sadica del mondo.
Schiusi le labbra, volevo chiedergli di spiegarmi, ma non feci in tempo. Minho era entrato nella stanza e aveva spinto George all’indietro, facendogli mollare la presa e cadere a terra.
Ero rimasta sorprendentemente in piedi, evidentemente il mio equilibrio era migliorato parecchio.
«È tutto okay?», chiese Minho, voltandosi verso di me.
Annuii, tenendo il mio sguardo fermo su George. Era a terra, si guardava attorno con fare disorientato. Ricordava vagamente un cucciolo che era appena stato sgridato dal padrone. La follia era stata sostituita dalla confusione più totale, come se non si rendesse conto di ciò che era appena successo.
«George, non mi importa nulla se sei stato punto, se sei stato con i Dolenti, se sei tornato in vita o da una sorta di limbo personalizzato. Per quanto mi riguarda puoi anche aver vissuto quei giorni come infiltrato dei Dolenti, ma devi smetterla di cercare di fare fuori le persone solo perché non ti piacciono!», disse Minho con un tono così fermo e profondo che poteva essere scambiato per il ringhio di un animale. Lo guardò così male che pensai che potesse prendere fuoco da un momento all'altro, ma George sembrò essere totalmente confuso da tutto quanto.
Sbiancò, si guardò le mani e contrasse la mascella, rimettendosi in piedi. Non disse nulla, semplicemente mi guardò con odio, come se volesse saltarmi alla gola e strangolarmi. Mi stava odiando sul serio, non credevo che un essere umano potesse provare tanto odio verso qualcuno.
«Andiamo via di qui», disse Minho in tono premuroso, afferrandomi delicatamente per il braccio e dirigendosi verso l’uscita. «Anche tu, polpetta umana!» Fece un cenno della testa verso Chuck, che ormai si era rannicchiato in un angolo della stanza.
Mi ero anche dimenticata della sua presenza.

Uscimmo dal Casolare, Chuck sgambettava in cerchio come se gli avessero appena levato la catena dal collo e fosse finalmente libero.
Newt era poggiato alla parete del Casolare assieme a Jeff, avevano appena smesso di parlare della salute di Justin e George.
Minho non mi lasciò il braccio finché non fummo davanti a Newt, che ci guardava incuriosito, sollevando un sopracciglio ma tenendo le braccia incrociate. «Che gentiluomo!», disse con un tono infastidito.
«Ma io sono un gentiluomo!» Sollevò la testa con fare vanitoso, poi mi mollò il braccio. «Facendo i seri – per una volta nella vita – ho app-»
«Cos’è quel segno rosso sul tuo collo?», lo interruppe Newt, spostando i capelli dal mio collo e passandoci delicatamente la mano sopra. «Cos'è successo?» Sollevò gli occhi verso i miei.
Feci per rispondere, ma Minho prese la parola prima di me. «Ecco, appunto, stavo dicendo ch-»  
«È stato George?», lo interruppe di nuovo Newt, guardando Minho con uno sguardo freddissimo.
Minho fece un respiro profondo, quasi scocciato per essere stato interrotto una seconda volta. «Sì, è stato George, ma l’ho fermato prima che potesse esagerare. Sono arrivato giusto in tempo.»
Newt schiuse le labbra, rimanendo però in silenzio per qualche secondo, poi fece per andare nella stanza dei Medicali, dove c’erano Justin e George, ma venne fermato da Minho che gli piazzò davanti.
«Ehi, Pive, non ci provare. Vuoi che Alby si infuri con te o cosa? »
«No, io ora vado, lo uccido e torno!» Fece per fare un altro passo in avanti, ma Minho lo fermò di nuovo, spingendolo delicatamente indietro.
«Newt, avanti, George è un Pive rincaspiato nel cervello, vuoi scendere ai suoi livelli? Credo che ne abbia già avute abbastanza!»
Newt non rispose, ma si girò a guardarmi. «Non voglio che le metta di nuovo le mani addosso», sibilò tra i denti.
Minho fece un sorriso che sembrava partire da un orecchio ed arrivare all’altro,  ma gli bastò un occhiataccia per evitare qualche commento dei suoi, il che fu un miracolo.
«Chuck era in stanza quando questo è successo?», domandò Newt, accarezzandomi il collo.
Annuii. «Sì, ma George l'ha spinto via e lui ha sbattuto contro il muro.»
«E non ha fatto nulla?!» Assottigliò gli occhi, girandosi verso Chuck che sembrò farsi piccolo piccolo sotto lo sguardo gelido di Newt. «Chuck!»
«Ha provato a mettersi in mezzo, ma lo sai che George è il doppio di lui!» Poggiai le mani sui fianchi. Detestavo il modo in cui lo trattavano e non avrei mai smesso di ribadirlo. 
Sospirò pesantemente e si passò le mani sul volto con fare frustrato. «Hai ragione...»
«Ecco.» Gonfiai le guance.
Jeff diede un piccolo colpo di tosse per attirare la nostra attenzione. «È probabile che abbia avuto un semplice esaurimento nervoso, o magari è un effetto collaterale del Dolosiero... si sa che a volte fa effetti strani.»
«Allora hai ragione tu. George dovrebbe starsene a letto», brontolò Newt. «Ma lui è una testa di caspio testarda, per cui fa come gli pare. Ma se prima o poi gli tiro contro un bastone appuntito, che nessuno dica nulla.» Scrollò le spalle, seguendo Chuck con lo sguardo mentre quest’ultimo portava in spalla un sacco più grosso di lui raccattato chissà dove per andare a metterlo al suo posto.
«Dici che dovrei andare a dargli una mano?», sussurrò cercando di non farsi sentire da lui.
Lo squadrai dalla testa ai piedi e schioccai la lingua. «Non provarci», risposi secca, incrociando le braccia. «Non puoi fare sforzi, testapuzzona.»
Sbuffò e alzò gli occhi al cielo.
La mia vista venne coperta di botto. Per un attimo sudai freddo. Pensai di essere caduta di nuovo in quello strano stato di trance. «Ehi ehi ehi, indovina chi sono?» E poi una risatina.
«Caspio, Minho!», brontolai spostando le sue mani dai miei occhi, girandomi e fulminandolo con lo sguardo.
Rise e dondolò sulle punte dei piedi, poi si sistemò la maglietta addosso come se fosse pronto per un incontro galante. Fece saltare i suoi occhi da me a Newt, assumendo un espressione corrucciata. «Beh, dopo questo episodio tragico, com’è che non vi state risucchiando l’anima a vicenda, voi due?»
Sbattei gli occhi più volte. A volte le uscite di Minho mi spiazzavano in un modo impressionante.
Newt schiuse le labbra e si poggiò la mano sul volto, facendola strisciare verso il basso. «Questa cosa me la rinfaccerai in eterno, eh?»
«Caspio, sì! Finché non sentirò un coro dire “Minho lo sapeva!”»
Diedi un colpo di tosse prima che Newt potesse rispondergli per le rime, e sicuramente non sarebbe stata una risposta pacifica data la sua espressione in quel momento.
Minho voleva solo sdrammatizzare, allentare un po’ la pressione ed era comprensibile, ma forse quel momento era veramente sbagliato.
«Beh... cambiando discorso... ho avuto un altro flashback», dissi velocemente. Volevo far calmare le acque il prima possibile.
Minho annuì, passandosi una mano tra i capelli con modo calmo e pacato, come se stesse accarezzando un lenzuolo di seta. «Lo so, mi è stato allegramente riferito.»
«Da me!», esordì Chuck, trascinandosi dietro un altro sacco. «Appena l'ho visto gliel’ho detto! Sono un bravo messaggero!»
«Sì, sì, molto bravo Chuck», disse Minho scuotendo la mano come per dirgli di andarsene, ma lui non sembrava intenzionato a farlo, tant’è che poggiò il sacco e ci si sedette sopra come se fosse stato una sedia. Doveva essere un altro di quei sacchi pieni di “cose che era meglio che io non sapessi”. Poggiò i gomiti sulle ginocchia come se fosse pronto ad ascoltare un favola e ci guardò sorridendo.
Nessuno lo cacciò via, si limitarono a fissarlo come per dirgli “Se rimani, tanto te ne pentirai”, ma non ci fece caso.
«Racconta, cos’hai visto stavolta?», disse Minho, rivolgendo di nuovo lo sguardo verso di me.
Presi un respiro profondo e cominciai a raccontare ciò che ricordavo.
Diversi tasselli, molti anche sconnessi, ricordi confusi, ma comunque Minho apprezzava lo sforzo.
Newt fissava Chuck come per dirgli che era di troppo, ma lui non si mosse nemmeno di un centimetro dalla sua posizione.
Dopo aver finito di raccontare indietreggiai e mi poggiai alla parete, esattamente accanto a Newt, che non fece un piega, tranne che per un’occhiata furtiva.
«Mentre facevamo una passeggiata abbiamo trovato un Dolente morto. Di quel nuovo tipo.
Sono chiamati D2MH, Dolenti di tipo Due, Metallo Duro», disse Newt, guardandomi per cercare conferma.
Annuii, così proseguì. «Mi ha saputo dire questo perché l’ha visto in un suo flashback, ma non sappiamo perché ci fosse il suo nome sia su questo Dolente che sull’altro.»
«Wow... fico! Inquietante, ma fico!», commentò Chuck con una voce sognante, sembrava essere davvero impressionato  ed affascinato da tutto quello che stavo raccontando.
Lo guardammo tutto abbastanza male, così assunse un espressione corrucciata. Mi sentii un po' in colpa, dovevo ammetterlo.
«Chuck, non dovresti esserti già sploffato nei pantaloni a quest’ora?», sbottò Minho, palesemente infastidito dalla sua presenza.
Continuavo ad odiare il modo in cui rispondevano a Chuck, perché era un bambino e si era ritrovato in quel posto come tutti loro. Certo, era un po’ infantile, non era ancora cresciuto velocemente come tutti loro, ma forse era un bene. Era riuscito a mantenere la sua innocenza in quel posto che non lo permetteva.
Gonfiò le guance con fare capriccioso e si voltò dall'altra parte, borbottando tra sé e sé qualcosa che solo lui era in grado di afferrare, così Minho rivolse nuovamente la sua attenzione a me. «Non sai altro riguardo questi D2MH?»
Scossi la testa, sospirando. «Io no. Ma George ne sa qualcosa... dice di essere stato punto da loro e che è merito loro se ora sa delle cose in più.»
Jeff annuì, mi ero anche dimenticata della sua presenza. «Mentre delirava ha ripetuto un paio di volte qualcosa come “D2MH” ma pensavamo che fosse solo qualcosa di insensato, o qualche frase che non avevamo afferrato bene. Con gli altri Medicali ogni tanto nei momenti di noia ci divertivamo ad annotare ciò che diceva, spuntavamo le parole che diceva più spesso e facevamo a gara a chi ne afferrava di più.» Ridacchiò e si stiracchiò. «Uscivano certe parole o frasi proprio senza senso!» 
«E le avete conservate? », chiese Minho, e Jeff annuì.
«Sì, sono conservate nel comodino vicino al letto dov’era sdraiato... e dove ora c’è Justin.
Comunque, ora torno da lui a controllare come sta, sennò Alby mi tira sploff addosso per la mia “incompetenza”.» Ci salutò con la mano e si allontanò.
«I D2MH sono quei Dolenti enormi che sono entrati l’altra volta nella Radura?», domandò Chuck. Sembrava essere parecchio preso da quell’argomento.
«Sì, Chuck, sono quelli», rispose Newt con tono fermo. Sembrava essere sovrappensiero, vedevo chiaramente che qualcosa lo turbava. Forse potevo capire cosa lo preoccupava, d’altronde non era piacevole, sapevo che oltretutto ultimamente andava sotto stress molto facilmente.
Gli presi d’istinto la mano, la strinsi nella mia e gli accarezzai il volto. Abbassò lo sguardo e fissò le mani, come se fosse stata la prima volta che qualcuno provava anche solo a sfiorarlo, ma non fece una sola piega.
«Woh, woh, che ci nascondete?» Chuck si sfregò le mani, sorridendo. «Eeeh? Avanti, confessate!»
Avevo decisamente voglia di crearmi una fossa davanti e nasconderci dentro la testa. Un po’ come uno struzzo, anche se non sapevo bene cosa fosse, ma mi venne in mente quel paragone.
Newt spostò la mano di scatto e se la infilò nella tasca del pantalone. «Nulla, Chuck.»
«Oh, avanti, è la tua ragazza, eh?» Sollevò ripetutamente le sopracciglia.
Newt lo fulminò con lo sguardo, schioccò rumorosamente la lingua e sbuffò infastidito come poche volte era mai successo. «Non è la mia ragazza, caspio.»
Non seppi perché, ma sentii una strana sensazione al petto e allo stomaco. Abbassai lo sguardo sulla punta dei miei piedi, all'improvviso estremamente interessanti.
«Okay, sta calmo», rispose Chuck in quello che sembrava quasi un brontolio contrariato.
«E poi, sei troppo piccolo per certe cose!», aggiunse Minho.
«Ehi, non è vero!»
Vidi le scarpe di Newt esattamente davanti alle mie. Alzai il volto, ritrovando il suo a pochi centimetri dal mio. «Vieni con me, Liz, mi devi raccontare bene cos’è successo lì», sussurrò, e feci quasi fatica a sentirlo per via di quel casino in sottofondo creato dalla discussione appena nata tra Chuck e Minho.

«Pensi che Minho e Chuck stiano ancora discutendo?», domandò Newt mentre mi faceva strada, per l’ennesima volta, in quel dannato posto che non sopportavo.
Ero rimasta in silenzio per tutto il tragitto, non avevo voglia di spiccicare parola, non ero dell’umore giusto, dovevo ammetterlo.
«Mh-mh», mi limitai a quello come risposta, ed era stata l’unica data fino a quel momento.
Si fermò, si chinò e cominciò a spostare rami, foglie, piantine e simili. Stava scoprendo l’entrata del “rifugio”.
C’era una sorta di rifiuto interiore da parte mia, non volevo essere costretta a stargli così vicino, perché, onestamente parlando, non me la sentivo. Per niente proprio, era esattamente l’ultima cosa che volevo. In ogni caso, non ero in grado di dirgli di no, così, appena mi fece cenno di entrare per prima, lo feci. Mi sedetti con le ginocchia contro il petto e lo seguii con lo sguardo appena entrò.
Sistemò bene l'entrata in modo che fosse ben coperta e si accomodò accanto a me. Prese un respiro profondo e si girò a guardarmi.
«Quindi?», chiese.
Corrugai la fronte. «Quindi cosa?»
«Raccontami cos’è successo. Devo ridurgli la faccia a brandelli o può sopravvivere?»
«Mi ha semplicemente afferrata per il colletto, mi ha detto delle cose tipo “ora ti conosco bene”, ha parlato dei D2MH e nel mentre mi stringeva una mano attorno al collo. Poi è arrivato Minho e la cosa si è risolta», risposi, in modo sintetico e freddo. Il mio tono era piuttosto secco e scocciato, non volevo fare così, ma mi venne spontaneo.
Corrugò la fronte e poggiò la nuca sulla superficie dietro di noi. «Okay... cos’altro c’è?»
«Non c’è nient’altro, Newt. Cos’altro ci deve essere?»
«Ci deve essere il motivo di questo tuo cambiamento umorale improvviso, ecco cosa ci dovrebbe essere. Avanti, parla Liz.»
Lo fulminai con lo sguardo, ma sembrò totalmente indifferente alla cosa. «Non lo so, tira ad indovinare!»
Sorrise e mi prese la mano, tirandomi verso di lui. Sapevo che tramava qualcosa, se no non mi avrebbe portata lì.
Mi strinse a lui, legando le braccia attorno alla mia vita e nascondendo il viso tra i miei capelli. Sentivo il suo respiro sfiorarli. Mi stava seriamente innervosendo. Cominciai a dimenarmi nel tentativo di liberarmi, ma la sua presa era forte, non mi permetteva di farlo.
«Smettila Newt, lasciami stare!»
«No, non finché non mi dici perché fai così!» Mi strinse più forte a lui, poi poggiò il mento sulla mia spalla.
«Perché stai facendo così il coccoloso ora?», brontolai, abbassando lo sguardo verso di lui.
«Non posso farlo?» Resse il mio sguardo. Aveva gli occhi di un bambino che era appena stato rimproverato.
«No. Cioé, sì. Ma... uff...» Feci ruotare gli occhi. «Mi da fastidio.»
«Ti da fastidio che stia poggiato così?» Corrugò la fronte, spostando il volto.
«No, caspio. Mi da fastidio che... beh... quello che hai detto prima.»
Inclinò la testa, ci ragionò su un attimo, poi sgranò gli occhi e sorrise. «Che non sei la mia ragazza?»
«Già.» Incrociai le braccia al petto. «Lo so che non lo sono, ma mi infastidisce il fatto che lo dici come se fosse l’insulto più grande che qualcuno potesse rivolgerti.»
Sentii le sue braccia stringersi ancora attorno alla mia vita, poco dopo dei baci lungo il collo. Trasalii leggermente, erano baci così delicati da farmi venire la pelle d’oca.
«Non sei la mia ragazza, Liz», sussurrò, fermando la striscia di baci che stava lasciando. «Non per gli altri... per ora. Non voglio che tutta la Radura sappia di questa cosa, potrebbero crearsi più problemi di quanti già non ce ne siano.» Riprese a baciarmi delicatamente il collo, accarezzandomi la pancia con la mano. «Poi, è ovvio che voglio che tu sia solo mia. Smettila di farti paranoie se dico il contrario in modo freddo o cose simili.» Mi strinse nuovamente a lui, poggiando di nuovo il mento sulla mia spalla.
«E questo cosa dovrebbe significare?»
«Nulla, Liz, semplicemente che non sei la mia ragazza, ma sei comunque mia. Solo mia.»
Mi girai a guardarlo, accennando un sorriso.
«Diamo tempo al tempo, Liz, non facciamo le cose di fretta, abbiamo tutto il tempo di questo mondo.» Sorrise anche lui, avvicinando il viso al mio e dandomi un bacio sulla guancia. Aveva ragione, non potevo essere più d'accordo.
Era meglio che i Radurai non sapessero nulla di quella storia, meno ne sapevano e meglio era, almeno avremmo potuto ancora avere un minimo di privacy a loro insaputa, senza avere per forza di cose il fiato sul collo.
Oltretutto si sospettava già quale potesse essere il motivo del gesto estremo di George, quindi era meglio evitare di dare inutili conferme a quella storia. Avrei avuto gli occhi di tutti addosso e sarebbe diventato quasi impossibile stare tranquilla.
«Perché mi hai portata qui?», domandai, prendendogli una mano e osservandola attentamente, come se non l’avessi mai vista.
«Volevo stare un po’ da solo con te, visto che sono abbastanza rare le volte in cui riusciamo a goderci un po’ di normale tranquillità», disse, poggiando il mento sulla mia spalla. «Mi viene male riuscire a stare tranquillo, in ogni caso. Sto ancora pensando ai D2MH, non capisco perché non mi sia nuova questa cosa. Voglio dire... non li ho mai visti quei cosi, tranne quella volta che hanno invaso la Radura.» Chiuse gli occhi, facendo un respiro profondo. «Tutto questo mi confonde parecchio. Come se non avessi già altro a cui pensare, no?» Riaprì gli occhi e si passò le mani tra i capelli
«Magari è qualcosa nascosto nella memoria che hai perso, no?»
«Oh, ora sì che mi hai detto qualcosa di utile. Non è molto rassicurante dato ciò che sta succedendo grazie a quei cosi», brontolò.
«Lo so.» Mi spostai in avanti. «Usciamo di qui?»
«Uhm... e se non volessi?» Mi prese il braccio, tirandomi su di lui. Mi fissò con uno sguardo divertito, come se quello fosse il suo gioco preferito. «È così bello stare qui... soli... isolati da tutti»,  abbassò il tono della voce, avvicinando le labbra alle mie. I miei occhi erano come incantati da quella scena, fissavo le sue labbra come se fossero state delle calamite. Poi, come con uno schiocco di dita, tornai velocemente alla realtà e risi, poggiando la mano sulle sue labbra ed allontanandolo da me. «Avanti, lo sai che anche tu che dobbiamo tornare!»
Gonfiò le guance come un bambino viziato e sbuffò. «Non subito. Non per forza.» Incrociò le braccia contro il petto. Non voleva decisamente muoversi da lì, probabilmente perché voleva godersi quel poco tempo di tranquillità che riusciva a ritagliarsi nell’arco di una giornata.
Sospirai. Non che non potessi capirlo, perché anche io adoravo quei pochi attimi di tranquillo riposo, ma non potevamo nasconderci in eterno in quel posto.
Ero praticamente sdraiata sopra di lui, la mia schiena contro il suo petto e il mio volto girato verso il suo, mentre osservavo il suo sguardo perso nei suoi pensieri.
Avrei voluto sapere a cosa stava pensando, anche se non era così difficile da capire che con la testa era già ai problemi che c’erano nella Radura. Sicuramente era così, e potevo capirlo anche dal modo in cui respirava: respiri profondi e lenti, come se stesse cercando di mantenere la calma.
Abbassò lo sguardo su di me, poggiandomi una mano sul collo. Allora capii che stava pensando a George, a ciò che era successo quando lui non c’era.
Il suo sguardo si caricò improvvisamente di sensi di colpa che non spettavano a lui. Sospirò, spostò la mano e scosse la testa. «Avanti, torniamo indietro.»
«Pensavo che volessi goderti un po’ di tranquillità!»
«Non riesco a stare tranquillo se penso a quella faccia di caspio di George. Vorrei spaccargli il muso con una zappa.» Strinse le mani a pugno così forte che per un attimo pensai che potesse perforarsi la carne con le dita. Non sopportavo l’idea di vederlo così infuriato per colpa di George. E ultimamente era capitato anche troppo spesso.
Mi girai completamente verso di lui, sedendomi sulle sue gambe e legando le braccia dietro la sua schiena. «Non pensarci, okay?»
Mi fissò negli occhi per un paio di istanti, poi spostò lo sguardo altrove con un grosso sbuffo, poggiando le mani sui miei fianchi. «La fai facile tu, Fagio.»
«Guarda che è facile, sei tu che ingigantisci la cosa! Devi semplicemente non pensare a quello “psicopive”.»
«Mh-mh. Però ora torniamo lì.»ù
Feci ruotare gli occhi verso l’alto, annuendo. «Okay, va bene.»

Tornammo nella Radura, sentivo il collo umido per via dei baci, cominciai anche a sospettare di avere qualche succhiotto o qualche segno in grado di far dire ai Radurai ciò che era successo poco prima, anche se erano state solo pure e semplici coccole.
Avevo una pessima sensazione allo stomaco, un bruciore, come se avessi appena finito di mangiare dieci peperoncini tutti di fila. C’era il silenzio, era sovrano, nessuno parlava con nessuno, non si sentiva nulla.
George era fuori dal Casolare, si reggeva la testa con le mani e camminava in cerchio come se avesse perso qualcosa e la stesse cercando nell’erba sotto i suoi piedi. Borbottava tra sé e sé, tutti lo evitavano come se avesse avuto qualche malattia grave e contagiosa, nessuno si fermava a chiedergli cosa avesse.
Trovai la cosa abbastanza triste in un certo senso.
Newt osservava la scena in modo insofferente, rivolgendo comunque a George lo sguardo più disgustato che potesse fare, nemmeno avesse visto un pezzo di sploff a terra e l’avesse schiacciato per sbaglio.
Si fermò a guardarlo, non gli rivolse la parola. George alzò lo sguardo lentamente, spostando le mani. Si incantò a fissarlo, boccheggiando leggermente. «Newt... io...»
«Tu cosa, George?» Schioccò rumorosamente la lingua, stringendo i pugni. Riuscii quasi a percepire quanto si stava trattenendo.
«Vuoi dirmi che ti dispiace, mh? Parole al vento, come tuo solito razza di rincaspiato che non sei altro. Sei solo buono a creare scompiglio qui dentro, l’unico che continua a creare dei gran casini sei tu, caspio!» Scosse nervosamente la testa. «È evidente che hai deciso di voler essere esiliato. Dillo direttamente, così ti accontento anche subito!»
Ci fu un silenzio totale. Si lanciarono sguardi freddi e distaccati, le loro espressioni facciali sembravano essere scolpite nel marmo. Poi George ebbe un fremito, come se avesse avuto una scossa improvvisa in tutto il corpo. Si guardò frettolosamente attorno, girò la testa a destra e a sinistra, poi scattò in avanti, afferrò velocemente le braccia di Newt e avvicinò il volto al suo. «Stanno arrivando!», gridò di botto, facendomi sobbalzare.
Afferrai d’istinto la mano di Newt, ebbi una pessima sensazione a quella frase. Sentii un nodo alla gola, probabilmente sbiancai. Il mio cuore cominciò a battere velocemente, fissai Newt con gli occhi sgranati, con la stessa espressione che aveva lui mentre fissava gli occhi di George.
«Chi sta arrivando, George, chi?», sbraitò Alby, evidentemente stufo di tutta quella faccenda. Lo allontanò velocemente da Newt, sbuffando rumorosamente. «È da un’ora che ripeti questa frase! Avanti, sputa il rospo, chi sta arrivando?!»
«Loro! I grandi!» George, allora, afferrò le spalle di Alby e lo scosse velocemente. «Saranno qui a momenti, Alby, li sento!» Alzò gli occhi verso le pareti del Labirinto, come se avesse visto qualcosa sulla loro cima. Alby alzò lo sguardo a sua volta, fissarono il cielo tutti e due insieme.
«Anzi... sono già qui! Posso sentirli! Quello sfregare metallico è inconfondibile!», sussurrò George con una voce quasi da estasi.
«Stammi vicina, questo si è sploffato il cervello secondo me», sussurrò Newt, stringendomi la mano.
Quella mossa dovette aver infastidito George, chino sulle gambe. Respirò pesantemente e fece per scattare in avanti, ma venne spinto all’indietro da Alby.
Si sentì il tonfo del suo corpo mentre cadeva a terra. Sembrava quello dei sacchi di cemento quando cadevano. Per un attimo pensai che con un colpo del genere non sarebbe riuscito a rialzarsi tanto facilmente, invece, come una molla, scattò velocemente in piedi, ma non si mosse di un centimetro dalla posizione in cui era. 
Alby scosse la testa e scrollò le spalle. «Finiscila con queste tue scenate da pazzo! Saremo costretti ad esiliarti. Seriamente, George!»
Il suo sguardo andava dai miei occhi alla mia mano. Mi sentii quasi in soggezione, così mollai la mano di Newt per metterla nella tasca, sperando che quella mossa avrebbe alleggerito quella situazione e quella sensazione.
«È lei! Volete capire che è tutta colpa sua? Io l’ho visto, caspio, credetemi, vi prego!» 
Alby sbuffò, si girò e ci fece cenno di allontanarci. «Che qualcuno di voi lo porti immediatamente nella Gattabuia!»
«La gattabuia è il minimo», disse Newt, fissando la scena con fare quasi soddisfatto.
George non oppose praticamente resistenza mentre veniva trascinato via da due Radurai grossi come armadi a quattro ante, si dimenava appena mentre continuava a farneticare dell’arrivo “dei grandi” e su quanto tutto ciò fosse colpa mia.
«Dovete credermi pive! Dovete credermi! Loro arriveranno e si porteranno via tutto quello che incontreranno sul loro cammino e tutto ciò che ritengono che sia di loro proprietà! Chiudetevi nel Casolare, state al sicuro!» Ora sembrava seriamente preoccupato.
Un continuo sbalzo d’umore per tutto il tragitto verso la Gattabuia, continui avvertimenti da far venire la pelle d'oca. Nulla di rassicurante a detta sua, sapeva più di quanto ognuno di noi potesse mai immaginare, di questo ne ero certa. Forse durante la Mutazione aveva davvero visto qualcosa di negativo.
«Lo odio quasi quanto odio questo posto», brontolò Newt mentre cominciava ad allontanarsi. Decisi di seguirlo, sempre meglio che rimanere sola, d’altronde, e poi volevo approfittare del fatto che nessuno dei due dovesse fare nulla di importante. Anche se avevamo ancora un bel po’ di tempo a disposizione.
E poi tanto sapevo che si stava dirigendo verso le Cucine, ed io non vedevo l’ora di essere sommersa dall’odore del cibo che stava preparando Frypan. Sempre se quei strani intrugli che creava si potessero definire “cibo” e non pura e semplice “sbobba attorciglia stomaco”.
In ogni caso, avevo urgenza di distrarmi. Sopratutto perché la mia pessima sensazione aumentava di minuto in minuto.

Appena messo piede in Cucina mi passarono l’appetito e la voglia di stare lì. Pensai vivamente che quell’odore mi potesse dare alla testa e potesse causarmi solo la nausea, ma decisi che comunque avrei resistito e avrei tentato di dare una mano.
Cosa resa impossibile da Frypan che, appena mi vide, mi indicò con un coltellino svizzero, provocando un grosso sospiro contrariato da parte di Newt mentre cominciava a “gustarsi” quella sorta di bistecca che aveva davanti. Più che una bistecca, ricordava vagamente un pezzo di carbone lasciato nel braciere per venti giorni.
«Non provare a prendere neanche un singolo coltello in mano, giuro che se lo fai ti taglio le dita!», disse Frypan, continuando ad affettare la carne davanti a sé, pronta per chissà quale pasto del giorno. 
Abbandonai l’idea di mettermi a cucinare ed optai per starmene zitta e ferma sulla sedia mentre osservavo i casini che combinava Frypan in cucina.
Era chiaro che si divertiva a cucinare, ma era abbastanza incapace nel farlo. Era veramente bravo solo in poche specialità tutte sue, abbastanza gustose quando gli riuscivano, in tutto il resto se la cavava abbastanza. Nulla di troppo eccezionale.
«Potrai tornare a cucinare quando saremo tutti sicuri che stai alla grande!», continuò. Ormai era diventata la solita pappardella di ogni volta che mettevo piede in cucina anche solo per prendere un pezzo di pane. Stavo cominciando ad odiarla, perché mi faceva pesare di più il fatto che non potevo fare nulla. Mi sentivo peggio di un peso morto ed odiavo quella sensazione di inutilità.
Annoiata, mi sedetti accanto a Newt mentre mangiava. Si girò e avvicinò la forchetta alle mie labbra in un vano tentativo di imboccarmi come avevo fatto io qualche tempo fa.
Storsi le labbra e scossi velocemente la testa. Non avevo fame, ero troppo concentrata a pensare per evitare di ripiombare nel fatto che non potessi fare assolutamente nulla.
«Pensate che quel Pive ossigenato si risveglierà prima o poi o continuerà a gridare come Minho quando gli si rovina l’acconciatura dei capelli?», domandò Frypan in un ben accetto tentativo di rompere quel silenzio interrotto solo dallo sfregare della forchetta di Newt sul piatto.
«Non lo so e non mi interessa», rispose quest’ultimo con la bocca piena, mandò giù il boccone e sollevò la testa dal piatto. «O meglio, al momento è l'ultimo dei miei pensieri.»
«Chissà perché si è fatto pungere. Doveva essere seriamente disperato, quel Pive maledetto!»
«Ci sarà pure un motivo se va d’accordo con George», brontolò Newt, mangiando l’ultimo pezzo di bistecca che era rimasto sul piatto.
«Mh, già, hai ragione.» Scrollò le spalle, sistemò i piatti con la carne e cominciò a condire. Ed io che mi ero aspettata chissà quale piatto prelibato.
«Dovremo portargli del cibo?»
«Nah, lasciamolo a digiuno», rispose Newt ridacchiando. Sembrava una pessima battuta, ma era dannatamente serio, glielo leggevo negli occhi.
«Non essere sciocco, gli poterò io stessa da mangiare. Anche se ha fatto delle stronzate non si merita mica di rimanere a stomaco vuoto, caspio!», brontolai, alzandomi dal tavolo. «Deve mangiare, anche se non se lo merita.»
«E poi non può perdersi una tale prelibatezza!», aggiunse Frypan. Sperai che quella fosse una battuta, perché non solo era una semplice bistecca, ma era pure inguardabile.
«Non se ne parla, tu non ci vai lì da sola.» Newt incrociò le braccia al petto.
Non feci nemmeno in tempo a rispondere, che Minho, che era piazzato dietro di me, mi cinse le spalle con un braccio. «L’accompagno io, la mia piccola Giulietta. Sta’ tranquillo, Romeo.»
«Romeo?», domandò Frypan confuso.
«Storia lunga», rispose Newt quasi imbarazzato, poi sospirò. «Bene così, allora. Ma fate in fretta.»
«Non ti faremo stare in pensiero, mammina cara», rispose Minho, poi, per qualche strano motivo tutto suo, si chinò e mi prese in braccio.
Mi domandai che caspio gli fosse preso, ma era evidentemente ingiocosito.

Mi portò in braccio fino a pochi metri di distanza dalla Gattabuia dov’era rinchiuso George.
Si sentiva solo un inquietante brusio proveniente dalla “stanza”. Stava parlando da solo, si stava praticamente confortando con frasi che riusciva a capire solo lui, a quanto pareva.
Ma perché? Continuava a ripetere che sarebbe andato tutto bene, che tutti avrebbero capito, ma sarebbe stato troppo tardi.
«D’altronde, il sole brucia la zona, ma loro non lo sanno, non mi crederanno, lo capiranno quando ormai sarà troppo tardi», sussurrò a denti stretti, frasi che sembravano quasi dette con un ringhio, con l’odio puro in corpo.
«Ancora con la storia del sole che brucia la zona?», sussurrò Minho. «Secondo me continua a parlare di quando Percy brucia le uova al tegamino!»
«Non so nemmeno chi sia questo Percy», brontolai, cercando di non ridere. Non capii nemmeno io se fosse una risata nervosa o effettivamente la cosa mi facesse ridere. In fondo, non c’era assolutamente niente da ridere per una battuta così stupida.
«Percy? Quel ragazzo alto, gracilino, con la pelle pallidina e i capelli neri e tutti piegati da un lato nemmeno l’avesse leccato una mucca quindici giorni fa.»
Soffocai una risata e lo guardai. «Finiscila, se no non riesco a stare seria!»
«Chi c’è là fuori?», sbottò George con un tono quasi impaurito.
Mi avvicinai lentamente alla grata della Gattabuia. Era rannicchiato su sé stesso, poggiato alla parete alle sue spalle. I suoi occhi raccontavano quanto fosse terrorizzato e a pezzi. Uno sguardo che ero sicura di avere già visto da qualche parte. Tremava come una foglia, avrei seriamente voluto fare qualcosa di più, anche se era lui.
«Tu?!», domandò con un tono disgustato. Eppure continuava a farmi tenerezza. Era anche ovvio che si aspettasse qualcun altro, magari proprio Justin... o Newt.
«Ti ho portato da mangiare, Pive.» 
«E ringraziala perché se no saresti a digiuno, bello mio», disse Minho, annuendo in modo serio.
«Grazie», mormorò allora George, allungando la mano fuori dalle grate.
Gli diedi solo i pezzi di carne, il piatto non ci passava. Mi sentii in colpa. Mi sedetti aspettando che finisse di mangiare, non volevo lasciarlo solo. Minho rimase lì con me... perché non voleva lasciarmi sola. Era una catena stupida, ma era così.
«Sei troppo buona con lui», sussurrò Minho. «Fossi in te gli tirerei delle legnate sui denti, credimi.»
«È solo un povero Pive che ne ha passate molte, come tutti voi... e come me, anche se ci sono da sì e no un mese qui.»
«Okay, ma ha cercato di farti fuori ben due volte da quando sei qui!»
«Testepuzzone, guardate che vi sento! Non sono rincaspiato fino a quel punto», brontolò George, con la bocca sicuramente piena di cibo.
Sospirai. «Scusa.»
«E gli chiedi anche scusa? Caspio, Beth, ma sei davvero una Fagiolina!» Minho allargò le braccia con fare scioccato, come se ne stesse facendo un dramma e come se fosse davvero sconvolto della cosa.
Non potevo farci nulla, ero fatta così!
George rise di gusto, si stava praticamente godendo di quella scena. Come poteva ridere rinchiuso al buio in un posto simile? Avevo i brividi solo a stare all’esterno di quel posto, figuriamoci come doveva essere all’interno. Doveva essere dannatamente buio e mi dava la sensazione di un posto che, oltretutto, puzzava da far schifo.
E a pensarci bene... dove faceva i suoi bisogni? Quel posto non aveva esattamente l’aria di essere abbastanza spazioso per avere una mini-toilette dentro.
Okay, stavo cominciando a delirare, forse era colpa della stanchezza o del fatto che il buio mi stava mettendo così tanto i brividi da costringermi a pensare a cose stupide per evitare di dar peso all’oscurità che mi circondava, anche se ero con Minho che era abbastanza capace di tirar fuori le battute peggiori per sdrammatizzare un po'.
«George, posso chiederti una cosa?», azzardai, sentendolo sospirare con fare veramente infastidito.
«No», sbottò. Dovevo ammetterlo, c’ero rimasta abbastanza male.
«Solo una, poi ti lascio in pace, promesso.» 
Sbuffò. «Okay.»
«Cosa intendi con “il sole brucia la zona”?»
«Rispondi “Percy che brucia le uova al tegamino”, rispondi “Percy che brucia le uova al tegamino”...», sussurrò più volte Minho, ma nel frattempo George prese un respiro profondo, come se fosse pronto a raccontare la storia della sua vita.
«Non capiresti. La Terra è bruciata. Tu non ricordi. Tu non sai. Non potrei spiegartelo», rispose in modo secco, poi sbuffò.
«Invece cosa intendevi quando hai detto “loro sono qui”?»
«Avevi detto che era solo una domanda! », sbraitò. 
«Beh, io ti ho portato il cibo, il minimo che puoi fare è rispondere ad un paio di domande, ti pare?!»
«Io non parlo con quelli come te, stupida rincaspiata venduta!» Si aggrappò velocemente alle grate della Gattabuia, sbattendole più volte come se avesse voluto romperle. «Mi fai schifo! È tutta colpa tua! Solo tua! La colpa di tutto quello che sta succedendo è solo tua, caspio!»
«Okay, bene così, possiamo anche andarcene!», disse Minho, alzandosi frettolosamente e prendendomi per un braccio, sollevandomi e cercando di portarmi via.
Non volevo andare. Volevo sapere di più. «Perché?», domandai.
Minho si sbatté la mano sul volto con fare così rumoroso da portarmi a pensare che probabilmente gli sarebbe rimasto il segno della manata sulla faccia a vita.
«Perché? “Perché?” mi chiedi?!» Allungò la mano fuori dalla grata, indicandomi con fare minaccioso. «Lo so che tu ricordi qualcosa! Nella tua testa ci deve pur essere qualcosa ancora! Lo sai nel tuo subconscio che qualcosa non va! Ooh, saliranno i sensi di colpa prima o poi! E saranno fortissimi, Elizabeth, ooh sì! Sarà allora che ti ricorderai le mie parole, cara Elizabeth! Ma ricorderai tutto molto prima, lo so! Mi chiedi che cosa intendo? Oh, semplice, sai quei D2MH? Loro torneranno qui! Ne sono certissimo che torneranno!»
Intravvidi il suo sguardo nella luce di quelle piccole fiaccole vicine alla gattabuia. Sollevò gli occhi al cielo come se stesse osservando dei movimenti sospetti di qualche stella.
«Perché? Perché dici questo?», domandai, azzardando un altro passo vicino alle grate. «Come puoi dirlo con sicurezza?»
«Questi non sono problemi che ti riguardano, Fagio!» Sorrise con fare ambiguo, abbassando lentamente gli occhi verso di me. «E poi, dovresti conoscerli meglio di chiunque altro quei mostri, Elizabeth. Ora voglio fartela io una domanda...» Schioccò lentamente la lingua, avvicinando il volto alle grate, stringendo i pugni attorno a queste. «Ricordi chi ha inventato il progetto D2MH, Elizabeth?» Mi guardò, poi sorrise con in modo particolare, con un misto di divertimento e cattiveria.
Minho sgranò gli occhi, poi mi guardò come se ora anche lui volesse sapere quella risposta. Sentii come un vortice di pensieri nella testa. Ebbi la sensazione di avere tutti gli occhi  del mondo puntanti addosso, o come se fossi stata su un palcoscenico, tutto attorno a me era nero ed avevo un enorme faro puntato addosso, il pubblico c’era ma non lo vedevo.
Mi stava prendendo il panico. Sudai freddo. Quella domanda mi scombussolò. Non ebbi il coraggio di rispondere, perché nemmeno io ero sicura della risposta. Era come avere in bocca l’amaro sapore della consapevolezza.
Ero stata io? O forse era solo un giochetto stupido per far attivare qualcosa nella mia testa?
Forse voleva giocare con la mia mente. Voleva vedere fin dove i miei pensieri erano capaci di spingersi.
Eppure avevo una strana consapevolezza in me, ma non era del tutto chiara.
Qualcosa mi diceva che ero stata davvero io a creare i D2MH. La firma sulla zampa dei due Dolenti morti. I miei ricordi. Il fascino e quella strana sensazione perversa di orgoglio misto alla paura che avevo provato la prima volta... erano tanti piccoli indizi.
Quindi... ero davvero stata io a crearli?

{L'angolo dell'autrice}
Ed eccomi qui con un nuovo capitolo!
Mi spiace dover ritardare ogni volta l'arrivo del nuovo capitolo, ma avendo poco tempoper scrivere sono davvero costretta a fare così, spero mi perdoniate :c
Perdonate anche il fatto che è più corto del precedente, ma è anche un po' voluto. La suspance!
Vi lascio sulle spine, pive!
Alla prossima!


 
 


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Capitolo 12
*** Capitolo 12 - Proprietà della C.A.T.T.I.V.O.: I creatori ***




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«Lei è la signorina Elizabeth?», chiese la ragazza davanti a me, una ragazza giovane, dalla pelle scura e i capelli ricci racchiusi in una coda di cavallo.
Abbassai lo sguardo sul cartellino puntato con una spilla al mio camice bianco.
Avevo un nuovo nome. Una nuova identità e da quel momento in poi avrei dovuto chiamarmi così. Non mi piaceva la cosa, dovevo ammetterlo, ma quelle erano le regole per i soggetti importanti come noi.
Quelli speciali. Eravamo costretti a cambiare identità con il nome di qualcuno di importante. Non ero sicura di questo, non ne vedevo nemmeno la necessità, ma preferii non dire nulla. Avevo promesso di seguire le regole, per le persone che amavo, per il loro bene.
Ero davvero troppo buona, abituata a fare di tutto per gli altri senza nemmeno curarmi di come potevo starci io. Me lo dicevano tutti, e ingenuamente davo ragione a loro.
«Così dice questa targhetta», dissi, indicando il foglio plasticoso sul mio petto.
«Venga con me, mi segua», rispose in modo cordiale, facendomi cenno di seguirla.
Mi alzai, la seguii. Il corridoio che percorremmo era lungo e bianco.
La ragazza che mi faceva strada mi spiegava delle cose, una pappardella che sembrava essere studiata a memoria, che ormai conoscevo perché mi era già stato detto nel periodo di tempo che avevo già passato lì dentro.
Dopo circa dieci minuti di camminata, la ragazza mi fece entrare dentro una stanza bianca, piena di schermi piattissimi che riproducevano immagini di ragazzi seduti ad un lungo tavolo. Tutti ragazzi giovanissimi, concentrati a lavorare su formule, progetti e cose così.
Al centro della stanza c'era una scrivania con tre sedie, due delle quali erano occupate, una da un uomo anziano che stava dall'altra parte della cattedra, e l'altra, quella accanto ad una vuota, era occupata da un ragazzo biondo. Lo stesso ragazzo biondo che aveva svolto il test d'ingresso assieme a me.
«Si accomodi, signorina Elizabeth», disse l'uomo anziano indicando la sedia libera.
Rivolsi un sorriso imbarazzato al ragazzo, poi mi sedetti sulla sedia.
L'uomo congiunse le mani poco dopo essersi sfiorato la barba, si mise comodo sulla poltroncina e schioccò la lingua, sorridendo in modo molto, troppo forzato. «Bene, voi due avete svolto dei test d'ingresso a dir poco eccellenti. Volevo congratularmi di persona e nominarvi compagni. O meglio, rivali. O, perché no, sarete compagni-rivali. Lavorerete insieme. Entrambi avete grosse potenzialità di cui noi della C.A.T.T.I.V.O. abbiamo bisogno.» Si sporse in avanti, poggiò le braccia sulla scrivania e ci fissò. I suoi occhi grigi avevano una punta di folle ammirazione. «Abbiamo bisogno di piccoli geni come voi, qui. Voglio che vi spingiate al limite, che vi miglioriate a vicenda, che cerchiate in ogni modo di superarvi, sabotandovi l'un l'altro se è necessario!»
Ci guardammo con fare confuso, poi scattò qualcosa nel nostro sguardo. Qualcosa che fece venire l'adrenalina a mille ad entrambi. Una scintilla di sfida.

Da quel giorno in poi, le nostre giornate passarono all'insegna del miglioramento personale, eravamo due ottimi compagni di squadra e lo sapevano tutti.
I nostri test davano sempre risultati ottimi ed oltre la media. Per vedere se era il team o la persona stessa a dare dei risultati così alti, provarono più volte a metterci con partner diversi, ma il risultato non variava. Erano sempre altissimi e oltre le aspettative.
Si ottenevano ottimi risultati anche lavorando con Evangeline, la ragazza asiatica che lavorava nel mio stesso reparto, ma non era nulla in confronto al lavoro che svolgevo col mio compagno di squadra.
Passò un anno così, di miglioramenti e progetti, test vari di poco conto ma superati tutti in modo ottimo, come al solito. I vari complimenti per essere tra le poche “squadre” a lavorare in quel modo.
Vari passaggi di livello che piano piano ci facevano entrare sempre di più nelle grazie delle persone dei piani alti, di quelli veramente importanti.
«Hai trovato risposta al quesito numero venti?», domandò il mio compagno di squadra, “il biondino”, mentre stavamo fermi davanti al pc ed osservavamo delle reazioni ad alcune variabili a cui era stato sottoposto il Gruppo B.
Dietro di noi c'erano Aris e Rachel, uno davanti all'altra. Si esercitavano con la loro telepatia.
Noi eravamo lì solo per fare loro da sostituti, ma trovavo la cosa molto noiosa.
Lo schermo davanti a noi mostrava le variazioni celebrali dei Soggetti che subivano le Variabili, l'unica cosa interessante era vedere come i Soggetti reagivano in caso di estremo rischio, ma provavo una pena infinita per loro.
La Variabile, stavolta, era quella della prima (e unica) pioggia in quel posto. O meglio, tempesta.
I fulmini cadevano sul terreno in modo programmato da noi, colpivano tutto ciò che si trovava nel tragitto con effetti a dir poco devastanti.
Scoppi, fuoco e fiamme, nemmeno la pioggia che cadeva riusciva a spegnere quelle fiamme alte che divoravano tutto il lavoro svolto dai Soggetti analizzati.
«Quale quesito venti di quale dei mille test che abbiamo svolto?», domandai, restando concentrata sul grafico.
Il ragazzo accanto a me ridacchiò, poi spostò lo sguardo dal grafico e lo rivolse a me. «Quello sul progetto D2.»
«“Per cosa sta D2?”»
Annuì. Allora sorrisi con fare quasi compiaciuto del fatto che me l'avesse chiesto. «Ebbene, a quella domanda avevo risposto. Avevo detto che stava per Dolenti di tipo 2. Quando sono arrivata qui i miei genitori mi avevano lasciata nell'Archivio Generale della C.A.T.T.I.V.O., mi avevano detto di leggere qualcosa, c'era una scrivania sulla quale avevano lasciato dei fogli con scritto “progetto D”. Parlavano dei Dolenti. Fare il collegamento è stato piuttosto semplice.»
Scrollò le spalle, tornando a guardare lo schermo. «Io ho risposto la stessa cosa, ma in modo differente. Ho scritto qualcosa come “è lo stadio avanzato dei Dolenti”. Anche io ero stato portato nell'Archivio Generale, ho fatto una ricerca veloce e ho studiato un pochino di cose, così da essere pronto per un eventuale test. Tutto pur di evitare di finire nel gruppo A», disse sospirando. «Il mio desiderio a quanto pare alla fine si è esaudito, sono piuttosto felice della cosa.»
«Già... che poi, non sembra così male.» Inclinai la testa, osservando lo schermo davanti a me. «Sembra di stare in un paradiso terrestre... senza questo gran problema del virus...» Chiusi gli occhi, sospirando. «Niente, hai ragione, fa schifo. Vorrei seriamente fare qualcosa per loro.»
«Una cosa è certa: stanno comunque molto meglio di noi. Questo è vero. Ma non voglio comunque trovarmi lì dentro, rinchiuso come un topo da laboratorio costretto a cercare il modo di sopravvivere ogni giorno.»
«Cosa cambia da quello che siamo qui, mh?» Mi voltai di nuovo verso di lui. Volevo una risposta a quella domanda, ma anche se me l'avessero data, sarei rimasta comunque della mia idea.
Non c'era nessuna differenza. O meglio, nulla di troppo differente tra ciò che eravamo noi Soggetti interni della C.A.T.T.I.V.O. e loro, Soggetti esterni.
«Cambia che noi possiamo guadagnarci una sorta di libertà maggiore della loro...», azzardò, poi scosse la testa e fece le spallucce.
«E la nostra libertà quale sarebbe?»
Allora si zittì. Non rispose. Non aveva risposte, ovviamente, ad una domanda del genere. D'altronde cosa si poteva rispondere a qualcosa di simile?
«Non lo so», disse infine, in seguito ad un sospiro. «Forse la nostra libertà si limita alla scelta di sopravvivere all'esterno di Prove simili. O forse a quella di poter ancora sognare in un mondo migliore. Quella di poter sopravvivere senza troppe difficoltà...», azzardò, chiudendo gli occhi.
«Non abbiamo nessuna libertà, la nostra è solo una fantasia. Ci hanno portato via tutta. Innocenza, infanzia, adolescenza... tutto.» Mi massaggiai le tempie, sospirando in modo frustrato.
Non mi piaceva vedere quelle cose in quello schermo, erano scene brutte, di quelle in grado di lasciarti sulle spine per un giorno intero. Come un film dalla quale non riesci a distogliere lo sguardo anche se sei terrorizzato. La cosa più brutta era che quello non era un film, quella era la realtà dei fatti e le persone dietro quello specchio erano reali.
Decisi di girarmi, di fare qualche passo in avanti per allontanarmi dallo schermo. Ero uno dei loro soggetti migliori anche per via della mia freddezza di fronte a test simili, ma in quel momento, forse per via di quel discorso, metabolizzai ancora di più quello che succedeva lì dentro. Era un luogo di tortura solo per trovare un bene maggiore, ed io contribuivo a quel massacro di innocenti.
Basta pensare che quello era un test che non doveva dare vittime, ed invece stavano morendo delle persone.
«Sempre meglio che essere rinchiusi in quelle quattro mura senza avere una via d'uscita. Come cavie da laboratorio.»
«Ma non ci arrivi?» Digrignai i denti, spostandomi nervosamente i capelli dal volto e girandomi di scatto verso di lui. «Anche noi siamo cavie da laboratorio! Siamo qui tutti i giorni a studiare ed elaborare formule, a guardare ciò che fanno gli altri, a correggerli, a creare progetti che poi vengono elaborati da quelli più grandi!»
«Elizabeth...» Mi girai sentendomi chiamare.
Il ragazzo moro, uno di quei quattro che tutti definivano speciali, era proprio dietro di me. Poggiò la mano sulla mia spalla e mi guardò con lo sguardo di chi capiva perfettamente ciò che stavo provando. Quasi compassionevole, e trovai la cosa strana visto che lui era il primo a sostenere il progetto del Gruppo A e del Gruppo B. Era stato lui stesso a lanciarlo, dicendo che ci sarebbero stati grandi risultati e c'erano grandi aspettative.
E quella era solo la prima fase di tutto il lavoro che c'era dietro. Il peggio doveva ancora cominciare.
«Vi ho disturbati durante l'esercitazione? Perdonatemi...», mormorai, ma non provavo veramente imbarazzo come volevo dare a credere. Ero talmente disgustata da quel discorso che non riuscivo a provare nessun altro tipo di emozione.
Era come se in un paio di secondi avessi realizzato di aver perso ogni singola cosa per una causa che non mi apparteneva. Non del tutto almeno.
«Non preoccuparti», disse il ragazzo, sorridendo nel tentativo di rassicurarmi. «Devi essere stanca, non è vero? Vuoi riposarti un po'?», domandò infine.
Non ero stanca, ero semplicemente stufa di tutto quello. Ero stressata, continuamente sotto pressione. Forse stavo scaricando tutto quanto in quel momento, dato che ero stata per tutta la settimana a lavorare sulle scale celebrali del Gruppo B. Una cosa così complicata che mi aveva richiesto il lavoro di un intera notte.
A me quel lavoro sul gruppo B, mentre il mio compagno era impegnato a prendere appunti davanti allo schermo.
Tutto il tempo ad osservare grafici e numeri che rilevavano le pulsazioni accelerate, quanto stress provavano, come, perché, dovevamo incastrare tutto questo in un grafico perfettamente elaborato e tirare fuori quanta pressione avevano provato nel giro di un mese, assieme a mille altre cose. Ogni piccola “anomalia” o variazione doveva essere segnalata, segnata e rappresentata in una scala da uno a dieci.
Portai le mani sulle tempie e cominciai a massaggiarle, avevo un mal di testa bestiale dovuto molto probabilmente a tutto quel pensare. Sentivo come se mi stesse scivolando via dalle mani ogni cosa ed io non potessi farci nulla se non guardarlo cadere nel vuoto più totale.
«Elizabeth?», chiese il ragazzo davanti a me. Lo guardai negli occhi. Era preoccupato, ed era una cosa che succedeva raramente... o almeno, non era solito a dimostrarlo. «Sul serio, penso che tu abbia bisogno di una pausa, anche se magari di un giorno. Ci penserà il tuo partner a tenere sott'occhio il gruppo B, tu riposati un po'. Hai l'aria seriamente stanca, c'è il rischio che questo comprometta il tuo lavoro.» Cercò di essere il più cordiale possibile nel dirlo, ma qualcosa dentro di me mi diceva che era tutto quanto falso. Finto perbenismo, anche se aveva tutta l'aria di essere sincero.
«Va bene...», sospirai, guardando la ragazza che nel frattempo si era affiancata a lui. Quella sua pelle pallida le dava l'aria di essere una bambolina di porcellana.
«Vuoi che ti accompagni da qualche parte, mentre ti riposi? Vorrei prendere anche io una pausa di qualche minuto, non di più.» Si girò a guardare il ragazzo, mentre si poggiava alla sua spalla. «Dici che posso farlo?»
«Di nascosto», rispose lui. «Sai bene che non possiamo prendere pause. Sei la prima a dirlo.»
«Beh, sì, lo so. Ma potrei fare un salto agli archivi generali e vedere se, frugando bene tra gli scaffali, trovo qualcosa che ci possa aiutare nel diventare più bravi più velocemente così da accelerare anche i risultati del test. Avanti, Tom, lasciami andare, prometto che poi ci eserciteremo fino a tarda notte.»
Thomas. Era quello il nome assegnato al ragazzo inventore del Gruppo A e del Gruppo B. Thomas, come Thomas Edison, mentre invece la ragazza si chiamava Teresa. Teresa Agnes, come Madre Teresa di Calcutta.
Il ragazzo, Thomas, schioccò la lingua, ridacchiando. «Bella scusa questa. Okay, okay, fa’ pure», disse infine, guardandosi attorno e sperando evidentemente di non essere sentito da Aris e Rachel, che però, invece, l'avevano sentito benissimo ma mostrarono noncuranza.
Dovevano assolutamente terminare quell'esercitazione, non potevano permettersi nemmeno un secondo libero visto che ormai, tempo non ne avevano affatto.

«Beh, cosa ci facciamo qui?», domandò Teresa. Adoravo il modo sicuro con cui si muoveva tra gli scaffali dell'archivio. «Sai che non potremo nemmeno entrare in questo posto, vero? Se ci beccano qui siamo fritte!», disse, ma sapevo che in verità non le interessava di quello che poteva succedere. D'altronde lei era esonerata da qualsiasi tipo di punizione. Il massimo che potevano infliggerle era stare lontana da Thomas un paio di orette, nemmeno, perché avrebbe trovato il modo di vederlo e di sentirlo. Sapevamo tutti che loro erano indispensabili per la buona riuscita del progetto, dato che erano i creatori principali di tutto.
«Odio questo posto», mormorò, prendendo una cartella da uno scaffale metallico. C'era il suo nome scritto sopra
«Perché?», domandai, prendendo un grosso respiro nel tentativo di sentire l'odore della libertà. Tentativo vano, perché ero troppo piccola l'ultima volta che avevo sentito quell'odore... se mai l'avevo sentito davvero.
«Vedi questa?», chiese, indicando la cartella. «Qui c'è scritto tutto su di me. Quando sono nata, il nome dei miei genitori... come li ho persi... poi, da quando mi hanno trovata fino ad ora. Troppi ricordi tutti rinchiusi in un ridicolo fascicolo. Oltretutto qui ci sono i miei progressi fino ad ora. Viene costantemente aggiornato.» Sospirò, aprendo la cartella e prendendone la prima pagina. «Teresa Agnes, quindici anni, immune, intelligenza sorprendente, prestazioni mentali ottime, ottime reazioni ai test, ottimi risultati e perfetto adattamento alle varie situazioni.»
«Beh, una cartella davvero ottima, no? Un buon profilo.»
«Sì, è innegabilmente ottima», rise amaramente, sistemando tutto velocemente. «Ma vorrei sapere a cosa serve veramente tutto questo schema che si sono fatti. Solo per vedere i miei miglioramenti o peggioramenti, o una semplice scheda in caso di perdita del Soggetto, così da crearne uno come me in futuro? O magari tengono sott'occhio il mio profilo per vedere se servirò ad uno scopo ben preciso per chissà quale Variabile più avanti?» Scosse le spalle. «Beh... spero che almeno si tratti di una buona causa. Mi fido e non mi fido della C.A.T.T.I.V.O.»
Chiusi gli occhi. Quella sensazione di fidarsi e non fidarsi era una cosa comune a tutti lì dentro.
Non avevo mai riflettuto davvero sulla storia delle cartelle che ci assegnavano.
Che tutti avessimo un secondo compito legato a delle eventuali Variabili studiate da qualcun altro?
Non volevo pensarci, quell'opzione mi spaventava a morte. Non volevo finire in mezzo ad una delle loro Variabili, erano tutte perfettamente studiate e schematizzate. Lo sapevo bene, perché io ero una delle persone addette a controllare che gli schermi fossero giusti, a calcolare le probabilità di riuscita e cose così...
Nessuno dei progetti che mi si presentava avanti era delicato, semplice o poco doloroso. Tutti crudeli. Troppo crudeli. Ma sopratutto, erano tutti dolorosi, sia a livello fisico che mentale. D'altronde era a quello che miravano: osservare e studiare le reazioni celebrali.
Tutto per il bene più grande. Alla fine noi non eravamo altro che semplici pedoni in un enorme scacchiera.
«Ci pensi? Siamo noi la mente dietro quella follia. Persino io e Thomas sappiamo che questa è una cosa estrema. Odiavamo quello che facciamo, ma abbiamo fiducia nella riuscita e nei buoni risultati che possiamo ottenere. Abbiamo grossi progetti e grosse aspettative... tutto pur di sconfiggere quel nemico comune che tutti abbiamo... vogliamo solo vendetta per tutto quello che questa ci ha levato.»
«Nemico comune?», domandai, corrugando la fronte. «Parli del virus?»
Lei annuì, e allora il suo sguardo si fece più glaciale. «Sì. L'Eruzione. Se ci pensi bene, la C.A.T.T.I.V.O è praticamente la nostra famiglia, cerca solo di trovare una cura per questo male che non ha ancora una fine», disse con un tono che era un misto tra ammirazione e devozione.
Pensai che Teresa avesse le idee confuse sulla C.A.T.T.I.V.O., pensieri contrastanti dovuti forse alla sua giovane età.
D'altronde lei era lì sin da bambina, io no. Avevo avuto la fortuna di vivere in un ambiente tutto sommato tranquillo, in una delle zone sicure con la mia famiglia. Anzi, in una di quelle che erano state delle zone sicure... finché quel dannato virus non aveva devastato anche quel posto, di cui ormai avevo solo un vago ricordo.
Il virus si era espanso a macchia d'olio nella città, nel giro di una settimana era tutto sparito lì intorno.
Era una delle poche zone del mondo dove si potevano ancora vedere gli alberi in fiore e qualche traccia di erba, ma sparì tutto. Il giardino di casa mia, dove giocavo assieme a mio cugino e mia cugina, era sparito in pochi giorni, lasciando spazio solo a terra arida, come se in verità non ci fosse mai stato nulla di tutta quella meraviglia.
Era tristissimo pensare a come tutto fosse cambiato in poco tempo, come il nostro mondo fosse stato messo in ginocchio da una malattia dalla quale solo poche persone potevano fuggire.
E alcune di quelle persone che potevano “fuggire”, erano proprio nella C.A.T.T.I.V.O..
Forse, per Teresa, quella era praticamente la sua famiglia, ma io la mia l'avevo, e sapevo che mi amavano alla follia.
Mio padre e mia madre tutti costretti a lavorare per il bene più grande, ed io non potevo mai vederli. Era la cosa più dolorosa a cui potessero sottopormi. Certo, nulla in confronto alle Variabili, ma era comunque doloroso.
La cosa più brutta era stata essere portata via dai miei cugini con una velocità assurda, divisi improvvisamente da quattro persone.
Ricordavo bene lo sguardo di mia cugina, che era praticamente una sorella per me, il suo “Andrà tutto bene, te lo prometto” e quel “Ciao” appena sussurrato.
Mio cugino, che era più piccolo di me, venne sottoposto solo al test per vedere se fosse immune o meno, poi venne spedito chissà dove, in preda a grida contrariate. Era terrorizzato, mi si stringeva il cuore al solo ricordo... e anche io ero terrorizzata per lui.
In quel posto, dove era praticamente un miracolo instaurare rapporti umani, Teresa, tutto sommato, per me era una sorella.
Ciò che non ho detto prima è che, nonostante Thomas e Teresa non avessero chissà quanto tempo libero a disposizione, quando l'avevano si prendevano qualche momento per rilassarsi. Allora si mostravano come dei normali ragazzi di 15 anni, interessati a tutto meno che al lavoro... anche se, purtroppo, il lavoro della C.A.T.T.I.V.O. ormai non li rendeva più tanto normali. Non per dei ragazzi geni come loro, come noi.
Teresa ed io spesso chiacchieravamo, la sentivo quasi come una sorella lì dentro, l'unica che si era avvicinata sin da subito a me, cercando di darmi un piccolo appoggio in un posto dove mi ritrovavo ad essere sola, circondata da persone che per me non rappresentavano nulla e nessuno.
Invece chiacchieravo un po' meno con Thomas, probabilmente perché avevamo un modo differente di vedere le cose. Che poi non era così tanto differente, entrambi odiavamo quel posto ma eravamo costretti a lavorare tutti per una causa comune.
«Guarda Eli, qui c'è la tua cartella!», disse Teresa, richiamando improvvisamente la mia attenzione. Odiavo quella sensazione di quando ti chiamano mentre sei sovrappensiero: ti sembra di cadere improvvisamente nel vuoto, anche se hai i piedi piantati a terra. Era seriamente fastidioso.
Feci per avvicinarmi, ma mi fermai. Entrambe sollevammo la testa, ci guardammo con gli occhi sgranati. Qualcuno era entrato nell'archivio.
«Oh cavolo!», sibilò lei, poi guardammo verso la grossa scrivania metallica non troppo distante da noi.
I passi di chiunque fosse entrato nell'archivio si fecero sempre più vicini a noi, riuscimmo ad intravvedere una luce a led farsi strada lungo il pavimento bluastro e liscio del corridoio.
Corremmo velocemente in quella direzione e ci nascondemmo sotto la scrivania, tappandoci la bocca per evitare che potessero fuoriuscire suoni.
Gli occhi di Teresa sembravano riflettere la debole luce che proveniva dal vecchio lampadario attaccato al muro dietro la scrivania. I suoi occhi luccicavano. Fu in quel momento che mi resi conto che forse il suo passato la tormentava ancora, ma decisi di non chiederle nulla. Non volevo risvegliare i demoni del suo passato.
«Aspetta... dove hai messo la mia cartella?», domandai sottovoce, notando che non aveva nulla in mano. Scrollò le spalle, facendo cenno con la testa verso il punto dov'eravamo prima... o almeno, così sembrava. Non ero molto sicura del punto che aveva indicato.
«L'ho messa a posto», rispose, sempre sottovoce.
Dovemmo aspettare diversi minuti prima di renderci conto del tutto che ormai non c'era più nessuno, ma uscimmo fuori solo dopo aver sentito la porta della stanza chiudersi.
Mi stiracchiai, guardandomi attorno per l'ennesima volta. La mia attenzione fu catturata da una richiesta.
«Ehi, Eli, posso leggere la tua cartella?», domandò Teresa tornando velocemente al punto di prima. Acchiappò la cartella ancor prima che potessi risponderle, cominciando quasi subito a sfogliarla.
Beh, tanto la mia risposta sarebbe stata sì. Non avevo nulla di che da nascondere, e poi la maggior parte delle cose lei le sapeva, o comunque le immaginava. Non avevo grossi segreti, non era mia abitudine averli.
L'unico con cui avevo qualche segreto, all'interno di quel posto, era il mio compagno di lavoro.
Con lui dovevo averli o avrebbe usato i miei punti deboli a mio svantaggio. Non potevo permetterlo, dovevo rendere orgogliosa di me la mia famiglia... dovevo vendicarli.
Teresa cominciò a leggere tutto a voce alta, con un tono quasi ironico. Erano cose di me che già conoscevo. Stato celebrale, carattere, dati personali, età.
Nulla di nuovo. Anche dopo i test le cose non erano affatto cambiate. Nemmeno di una virgola.
Guardai la scrivania. Era ancora piena di fogli e cartelle, proprio come la prima volta che avevo messo piede lì dentro.
«E questi?», domandai, prendendo un fascicolo a caso. Quello con la grossa D2.
“Per cosa sta D2?” era quella la domanda che c'era in quel dannato test.
«Quelli?» Teresa rimise a posto la mia cartella e si avvicinò. «Quelli sono i fascicoli di uno dei ragazzi che attualmente sta nel progetto del gruppo A, seguito da me e Thomas. Caspita, quel ragazzo era davvero un genio, ma non ha mai completato del tutto il progetto. O meglio, era stato interrotto perché le sue idee erano davvero dannatamente geniali.» Alzò lo sguardo verso i miei occhi. «Anche troppo. Il progetto lo chiamò D2. Sai per cosa sta?»
«Dolenti di tipo due, giusto? D sta per Dolenti, no? L'avevo letto su un foglio abbandonato su questa scrivania, la prima volta che mi avevano lasciata qui nell'archivio generale.» ››
«Esatto. D sta per Dolenti. I Dolenti sono stati inventati dallo stesso ragazzo che creò i D2.»
Corrugai la fronte. «Sul serio? Credevo che i Dolenti fossero stati creati in seguito al lavoro attento di scienziati e cose così.»
Lei scosse la testa e rise di gusto, come se le avessi raccontato la più bella barzelletta del mondo e non ridesse da settimane. «No Eli, esseri del genere possono essere creati solo da persone che provano un odio puro verso qualcosa del genere. Non te ne sei accorta? I Dolenti sono creature veramente crudeli e spietate. La parola “Dolente”, richiama proprio il dolore che possono causare, solo il nome ti fa pensare a quello. E poi tutte quelle braccia con strumenti da tortura. Quando ha creato quel progetto sicuramente ce l'aveva a morte col mondo intero, se poi aveva un passato come il nostro, se non peggiore, ne aveva tutte le ragioni, ti pare?»
Aprì il fascicolo, guardando attentamente il foglio che aveva davanti ed indicando alcuni passaggi. «Guarda qui quanta perfezione c'è in questo progetto. Tutto lavorato nei minimi particolari. Misure, spessore, varie impostazioni, forza, peso e tanto altro. Un macchina perfetta e spietata.
Poi, evidentemente non abbastanza soddisfatto, cominciò a lavorare di nascosto al progetto D2. Non doveva essere altro che uno stadio avanzato dei Dolenti, solo più forte, crudele, grande e grosso. Almeno credo. La C.A.T.T.I.V.O. vedeva in lui un grosso potenziale, ma decise comunque di metterlo alla prova nel progetto del Gruppo A, per testare fin dove la sua genialità e la sua intelligenza potessero arrivare in situazioni di stress e pressione. Perlomeno questa era la scusa. Ma c'è da dire che effettivamente da degli ottimi risultati. Va veramente forte per avere solo sedici anni.»
«Sedici anni? Ha la mia età ed è riuscito a creare quei cosi?»
«Beh, sì, avete la stessa età, ma a dire il vero quando ha creato “quei cosi” aveva quattordici o quindici anni ed era ancora qui. Tipo... lui è stato spostato nel test del Gruppo A l'anno scorso. Praticamente è andato via lui e poco tempo dopo sei arrivata tu. Sono sicura che saresti in grado di creare esseri del genere anche tu. Anzi...» Mi porse il fascicolo, scuotendolo per farmi cenno di prenderlo, cosa che feci qualche istante dopo. «Perché non studi il progetto e lo continui? Scommetto che farai un lavoro con i fiocchi!»
«Io lavorare al progetto D2...? Uhm...» Ci pensai su un pochino di tempo. Poteva essere una buona occasione per riversare il mio odio su qualcosa di veramente produttivo finalmente. Potevo prendere esempio da quel ragazzo e lavorare su qualcosa in grado di distruggere al posto mio ciò che odiavo... qualcosa di perfettamente letale per qualsiasi forma di vita, persino per sé stessa.
Strinsi il fascicolo tra le mani, nel mio sguardo si accese una scintilla particolare. Quella della vendetta. Avevo tra le mani l'occasione di essere... libera. In senso figurato, ovviamente, ma finalmente potevo lasciare che la mia mente vagasse senza dover essere legata a cose che non mi avrebbero portata da nessuna parte.
«Okay, ci sto.»
«Vorrai dire “ci stiamo”, semmai!»
Mi voltai, trovando il mio “compagno di squadra” poggiato tranquillamente ad uno scaffale impolverato.
«Da quanto tempo sei qui?», domandai con un'aria sicuramente poco felice di vederlo. Sentii ogni tratto di libertà fuggire via. Non volevo lavorare con lui anche a quello. Ma sopratutto, non volevo che questo diventasse un altro affare della C.A.T.T.I.V.O..
Per una volta volevo tenere una cosa per me, senza doverlo condividere con qualcun altro.
«Poco fa sono entrato, vi stavo cercando, ma non ho visto nessuno. In ogni caso sospettavo che foste qui e che temevate di essere scoperte, così ho fatto finta di uscire», disse, prendendomi il fascicolo dalle mani. «E così vuoi continuare il progetto D2?», domandò allora con un tono divertito.
Sospirai ed annuii, notando che Teresa aveva sollevato un sopracciglio come per dire “ma chi si crede di essere questo biondino?”
«Bene, quindi possiamo aprire una sfida a chi crea il mostro più potente, no?», domandò di nuovo.
Lo sguardo contrariato di Teresa rispecchiava perfettamente il mio. Non era per niente contenta della proposta, e come avevo detto prima, volevo che fosse una cosa solo mia, che non cadesse anche quello nelle mani della C.A.T.T.I.V.O..
Guardai Teresa come per chiederle un parere, ma aveva uno sguardo assorto nei suoi pensieri... probabilmente riguardante proprio questa storia.
Arricciai il naso. A pensarci bene... dovevo coinvolgerlo per forza.
O meglio, mi conveniva. Magari se mi avessero vista impegnata in quello avrebbero dato maggiori punti alla nostra “squadra”, ci avrebbero concesso un po' più di libertà... e con quella scusa avrei potuto scaricare parecchia della mia frustrazione. Esattamente come faceva il ragazzo che aveva cominciato il progetto.
«Okay», mormorai. Sapevo che lui avrebbe capito a cosa pensavo, ma sapevo anche che non poteva farci nulla. Da sola non avrei avuto il tempo di fare nulla, anche se avessi voluto provarci. In ogni caso era davvero un'ottima occasione per far vedere quanto valevo.
«Bene.» Mi rivolse un ampio sorriso, spostando poi lo sguardo su Teresa che, però, non sembrava entusiasta e non lo nascondeva.
«Spero che tu sappia a cosa stai andando incontro», disse lei con un tono freddo. «Se lavorate in coppia a questo progetto dovrete avvertire i superiori, almeno vi lasceranno fare in pace, ma pretenderanno in massimo da voi.»
«Io voglio dare il massimo a questa cosa», dissi, guardando Teresa negli occhi.
Probabilmente lei voleva solo cercare di sviare l'interesse del mio compagno, ma al contrario, lui sembrava essere più determinato che mai. Così concordò con me in modo silenzioso, limitandosi ad annuire.
Lei sospirò, rivolgendomi uno sguardo quasi compassionevole.

«Non hai idea di dove ti sei cacciata», sussurrò Teresa, esattamente accanto a me mentre Thomas controllava il fascicolo del progetto D2.
«Perché?»
«Perché la determinazione in un posto come questo porta solo guai, Eli.» Guardò Thomas con la coda dell'occhio, come se volesse accusarlo silenziosamente di qualcosa. «Sicuramente ora tutti si aspetteranno il meglio da voi. Poi, se vedranno in voi qualcosa di veramente buono, vi metteranno alla prova in modi impensabili. Ti basta pensare al ragazzo che ha creato questi progetti. Spedito nel Gruppo A, usato come un topo da laboratorio e la sua unica colpa è quella di essere stato così dannatamente geniale. Eli, i superiori ti tengono già d'occhio, non vorrei che questo comportasse uno spostamento nell'altro test.»
Thomas fece strisciare il fascicolo davanti a noi, aprendolo in una pagina precisa dove aveva appena scritto la data di quel giorno, segnando la fine del precedente progetto e da dove avrei continuato io.
«Accolgo questo progetto con molto entusiasmo», disse Thomas e incrociò le dita, poggiando i gomiti sul tavolo e guardandomi negli occhi con un sorrisetto a dir poco... bastardo.
Pensai che di fronte ad un sorrisetto del genere avrei dovuto rabbrividire, invece lo trovai quasi affascinante... forse perché lo vedevo come un sorrisetto di sfida, ed ero pronta ad accoglierla (consapevole che poco dopo probabilmente me ne sarei pentita).
«Ma ho una proposta allettante.» Schioccò la lingua sul palato. «Come ha detto quel biondino da strapazzo del tuo compagno di lavoro, prenderemo questa cosa come una sfida. Lavorerete assieme, come al vostro solito, sullo stesso progetto, ma dovrete dare il massimo separatamente. Mi spiego meglio: voi, sulla base di questo progetto iniziale, creerete una bozza di progetto tutto vostro. Il migliore sarà valutato come progetto finale, e da quello si deciderà chi dei due condurrà la reale progettazione e creazione dei D2.»
«Beh, mi sembra un ottima idea.» Mi ero aspettata di peggio.
Thomas sollevò un sopracciglio, mantenendo quel maledetto sorrisetto sulle labbra, che però aumentò in modo quasi spaventoso. «Non ho finito.» Sollevò l'indice per puntualizzare meglio il concetto di ciò che voleva dire. «C'è ancora un ultima cosa. Non so quanto questa potrà piacerti, però. Ma penso che renderà le cose ancora più divertenti e, chissà, magari potrebbe darci qualche risultato per le solite Variabili.»
Deglutii, guardando Teresa che, all'improvviso, si rivelò particolarmente interessata alle parole di Thomas. «Sarebbe?», domandai. Sentii il cuore cominciare a battere in modo veramente veloce, quasi volesse fuggire dal petto.
«Quello che non soddisferà le aspettative su questo progetto, e non si dimostrerà in grado di seguirlo, finirà nel test dei Gruppi A e B.»
Per un attimo mi sembrò che il tempo rallentasse per darmi la possibilità di metabolizzare bene la cosa. Lo fissai negli occhi.
Era dannatamente divertito e serio, la cosa sembrava mandarlo particolarmente in estasi. «Allora, ci stai?», chiese infine.
«Non mi piace molto l'idea di essere spostata in un altro test, se perdo questo confronto», ammisi, anche se in cuor mio sentivo di potercela fare a superare quella sfida. D'altronde sapevo che se mi fossi messa d'impegno sarei riuscita a tirar giù qualcosa di decente, quindi... ero abbastanza sicura di me.
Thomas rise in modo così rumoroso che pensai che l'eco della sua risata si fosse sentito fino ai piani alti. «Sono sicuro che tra te e il tuo compagno non sarai tu a perdere. Spero per lui che non sia qui perché sta già lavorando a questo progetto. Onestamente, ho molte aspettative su di te. Come un po' tutti qui dentro, se no probabilmente saresti già nel test del Gruppo B a lavorare dentro quelle quattro mura, e non qui assieme a noi. A parte il creatore dei Dolenti e qualche altro Soggetto, nessuno di così... uhm... straordinariamente intelligente è stato mandato in uno di quei due test.
Ma d'altronde, si sa, il creatore dei Dolenti è stato mandato lì non solo per vedere fin dove si sarebbe spinta la sua intelligenza, ma anche perché si sospettava una rivolta contro la C.A.T.T.I.V.O.. Non è stato molto sveglio nel nascondere il suo odio... doveva essere davvero allo stremo. Schioccò la lingua e scosse la testa.
Rabbrividii, capendo che dovevo evitare di dare a vedere che il mio desiderio era lo stesso, anche se probabilmente non sarei mai riuscita a vendicarmi di quel posto. E anche se fossi riuscita a farlo, dove sarei andata dopo? Non avevo un posto dove andare... non c'era un posto dove fuggire o nascondersi, tutto ormai era stato spazzato via da quel virus.
Era vero, la C.A.T.T.I.V.O. ormai era la nostra unica casa, l'unico posto dove il virus non era apparentemente ancora riuscito ad entrare, ma questo non rendeva quel posto più sopportabile.
Anzi, lo rendeva ancora di più un carcere.
Sospirai, annuendo con fare distratto sebbene non mi fosse stata posta nessuna domanda. «Okay, va bene.»
«Eli, tanto tu non finirai mai in mezzo a quel test, sta’ tranquilla», disse Thomas, cercando di rassicurarmi. Non era quello a preoccuparmi, o meglio, anche, ma ciò che più mi preoccupava era il fatto di non poter uscire da quel posto. Non avrei mai rivisto riabbracciato la mia famiglia. Quello era un pensiero che ogni volta che si palesava nella mia mente mi distruggeva come poche cose riuscivano a farlo.
Tra noi tre, forse l'unica che si preoccupava che potessi finire nel test dei Gruppi A e B era Teresa. Sia perché aveva ancora un briciolo di coscienza, sia perché era come una sorella per me, era piacevole in un certo senso che ci preoccupassimo l'una dell'altra in quel modo.
Thomas invece era piuttosto fiducioso, e questo mi dava un po' di forza.
Ma cosa ne sarebbe stato del mio compagno di lavoro?

Passai le ore dopo a studiare il progetto D2 in una stanza silenziosa sul lato destro del corridoio principale. Era talmente silenziosa che mi permetteva di sentire il battito del mio cuore aumentare man mano che leggevo i dettagli con la quale era stato progettato.
Ogni cosa era studiata in modo da creare dolori lancinanti ovunque quegli esseri avessero colpito. In determinati punti c'erano grosse cancellature di parti che poi, in seguito, Erano state modificate e migliorate. Erano proprio delle bozze di un progetto inconcluso.
Tenaglie allungabili sui lati della creatura, nascoste sotto la pelle viscida e corazzata, che scattano fuori a loro comando. Alle estremità delle tenaglie, punte dentate di metallo, in grado di rilasciare il veleno in seguito alla puntura, assieme al rilascio di spine metalliche.”
È davvero un progetto perfetto, sebbene questa sia una bozza», mormorai tra me e me, continuando a leggere anche le parti con quella cancellatura. I disegni, poi, erano tutto meno che rassicuranti. Quanti scheletri nell'armadio poteva nascondere una persona in grado di pensare esseri del genere?
Alzai la testa e poggiai i gomiti sul tavolo. La mia testa decise di prendersi una pausa da tutto quel casino mentale che si stava formando, mentre la mia fantasia prese il largo tra gli appunti di quella bozza che stavo leggendo.
C'erano mille modi in cui potevo migliorare quel progetto, avrei fatto di tutto pur di far vedere quanto valevo... ma il mio vero scopo sarebbe stato quello di vendicarmi di tutto ciò che stavo subendo.
In quel momento decisi ufficialmente che quel progetto sarebbe stato come una sorta di valvola di sfogo.
Lì dentro avrei dipinto le peggiori torture che potessero passarmi per la testa, dando sfogo all'odio più profondo che portavo dentro il mio cuore.
La C.A.T.T.I.V.O. d'altronde me ne faceva provare parecchio.
Avrei vendicato la mancanza dell'amore materno e paterno che la C.A.T.T.I.V.O., per la sua falsa speranza di trovare una cura tramite test su ragazzini immuni, mi aveva strappato via.
Per avermi costretta a crescere prima del tempo... per aver portato via i miei cugini e averli fatti sparire chissà dove.
Per Evangeline, che ancora soffriva per l'assenza di Jillian, che ormai non si vedeva da quando le avevano modificato il colore degli occhi e dei capelli tramite chissà quale esperimento andato male.
Per quel ragazzo che avevo visto sullo schermo di un computer, l'anno prima, al cui solo ricordo provavo ancora una morsa al petto.
Il suo sguardo carico di dolore ogni tanto mi ritornava alla mente, facendomi stare male. Molto male... in modo anche sbagliato, visto che nemmeno lo conoscevo.
Mi presi la testa tra le mani, massaggiandomi le tempie, poi mi poggiai al tavolo. Presi seriamente in considerazione l'idea di schiacciare un pisolino.
«Che fai, dormi?», sentii una vocina squittire accanto a me, poi una risatina. «Ce l'hai di vizio allora!»
«Eva, non dovresti studiare uno di quei test strambi che Janson ogni tanto ti rifila?», brontolai. Volevo ribellarmi per la mia necessità di sonno, ma tanto ad Eva la cosa non avrebbe fatto né caldo né freddo. Lei era così menefreghista che a volte l'idea che non fosse umana mi sfiorava la mente.
«Sì, ma l'ho finito in poco tempo. Ehi, io sono un piccolo genio, ricordi?», disse picchiettandosi la tempia e tirandosi su gli occhiali. «Sono andata a trovare Jill, è ancora chiusa nella sua camera. Fa quasi paura, fissa la parete con espressione vuota. I suoi occhi sono... spettacolari, a dire il vero, ma con quei capelli rosa sembra essere uscita dritta dritta da un anime giapponese!»
«Ci stavo pensando giusto adesso a Jill.» Mi tirai su dalla sedia, guardando la faccia di Eva.
Il suo sorriso era immenso, non mascherava per niente la felicità di aver rivisto la sua amica.
«È molto lontana da qui la sua stanza?», domandai. Sapevo che l'avevano spostata in una camera più sicura in modo da poterla tenere di più sotto controllo.
A quanto avevo sentito stavano studiando bene le sue reazioni celebrali e stavano dando buoni risultati, persino maggiori delle aspettative... sempre se c'erano aspettative su quella sorta di test che le avevano fatto.
Eva scosse la testa. «No, è qui vicino. Vieni con me!»
Ed era veramente dannatamente vicino. Il corridoio accanto, le scale che portavano al piano superiore, poi una svolta a sinistra, una a destra ed ecco la stanza.
C'era un enorme portone bianco con un vetro in alto che permetteva di vedere all'interno della stanza.
Jill era lì, seduta su un letto bianco, i suoi lunghi capelli rosa terminavano poco sopra il bacino. Erano legati nelle sue mille treccine afroamericane, tutti tirati indietro.
Eva bussò alla porta, non si sentii né un“Avanti” né un'altra singola parola. Solo una risatina da parte di Jill, che Eva tradusse come un “Avanti” ed entrò nella stanza.
«Eva, insomma, ti ho già detto che qui non potresti stare! Ti caccerai nei guai così facendo, lo sai vero?» Jill si girò verso di noi. I suoi occhi... erano davvero stupendi, però effettivamente sembrava un personaggio di un anime. «Oh, ciao Elizabeth!»
«Jill... hai recuperato la vista?»
«Quasi del tutto, finalmente.» Fece un respiro profondo, portandosi una treccina davanti agli occhi e fissandola. «Vorrei recuperare anche il colore dei miei capelli, se devo essere sincera... ma non si può avere tutto dalla vita, no?», sorrise amaramente.
Jill aveva una pelle color latte, quel rosa sui suoi capelli, per quanto le donasse, sicuramente non era ciò che voleva lei.
«Consolati, non stai male», disse Eva, cercando di consolare l'amica. L'unica cosa che ottenne fu un sorrisetto piuttosto falso, ma che cercò di sembrare il più possibile vero. «Odio quei bastardi», concluse, provocando una risatina da parte di Jill.
«Beh, ora sembrerò ufficialmente un cono gelato al fior di latte e fragola», cercò di ironizzare quest’ultima. «Ricordate quanto fosse buono il gelato?» Assunse un espressione quasi sognante, poi tornò subito seria, sospirando. «Ne vorrei davvero uno in questo momento. Beh... so cosa voglio per il mio ventesimo compleanno! Anche se dovrò aspettare ancora un anno, visto che ho compiuto da poco diciannove anni... beh, ne varrà la pena!», ridacchiò, poi scosse la testa e mi guardò con fare curioso.
Jill solitamente era una persona seria e di poche parole, di rado parlava così tanto in presenza di qualcuno che non fosse Eva... questo però non la rendeva una persona antipatica, anzi, tutto il contrario.
«Elizabeth, è vero che lavorerai al progetto D2?», domandò Jill. «Ho sentito Thomas parlarne con Janson.»
Annuii, allora il suo sguardo si congelò. Sospirò. «Ho visto di cosa si tratta quel coso... fai un buon lavoro, almeno, non voglio che tu finisca affidata ad un altro test e corra il rischio di diventare un fenomeno da baraccone come me. E tutto per un errore di passaggio.» Sospirò di nuovo, ma si riprese subito. Tornò seria e fredda, si mise in piedi e guardò oltre a noi.
Si sentii un colpo di tosse.
«Ah, ecco a cosa era dovuta tanta serietà. Ciao Janson, mio vecchio e adorato malandrino!», esordì tranquillamente Evangeline, concludendo la frase con un finto squittio.
A volte mi chiedevo se quella ragazza fosse normale o se le piacesse così tanto provocare.
Jillian schiocò la lingua e la guardò in modo così freddo che pensai che volesse farle esplodere la testa.
Janson non ebbe nemmeno il tempo di rispondere che Eva mi afferrò la mano e mi costrinse a seguirla. Cominciò a correre più veloce che poteva.
Andava a memoria, era incredibile il modo in cui si destreggiava tra i corridoi. Non sbagliò nemmeno di una virgola la strada, prendeva perfettamente le distanze da muro a muro senza colpirne uno nemmeno con i lacci delle scarpe.
Facevo fatica a reggere il suo passo. Avevo il fiatone, lei un respiro perfettamente regolare. Sentivo dolore lungo i polpacci, lei sembrava stare da Dio.
«Eva!», dissi ansimando, allora lei si fermò, permettendomi di riprendere fiato.
«Sbrigati a riprenderti, tra poco arriveranno i gorilla!», disse, guardando dietro di me. «Sbrigati Elizabeth!» Sembrava essere seriamente preoccupata.
«Intendi le guardie, vero?»
«Aaah, gorilla, guardie, uomini grandi come armadi a quattro ante, chiamali come ti pare, basta che ti muovi!»
Sospirai e lei mi riprese la mano, ricominciando a correre.
Altra corsa che per me era completamente alla cieca, ma lei a quanto pareva sapeva benissimo dove andare.
Dopo non so quanto tempo, finalmente, ci fermammo. Ci accasciammo contro la parete e strisciammo verso il basso, sedendoci sul pavimento.
Respirammo profondamente. Sentivo il mio cuore battere all'impazzata, temevo profondamente di avere un infarto o qualcosa del genere.
«Okay, non farlo mai più!», dissi, guardandola.
Lei rise, ma prima che potesse dire qualsiasi cosa, osservò la porta alla fine del corridoio mentre si apriva.
George uscì, aveva i vestiti stropicciati ed incasinati. Si sistemò i capelli, poi passò a dritto, facendo finta di non vederci nemmeno. Più o meno. Mi rivolse un occhiataccia degna di nota.
«Quello è il fratello di Rachel?», chiese Eva, osservando in modo seriamente poco indiscreto il fondo schiena di George.
«Sì, quello è George, ed ha una passione segreta per le occhiatacce.»
«Ha un culo da paura» Assunse un espressione di apprezzamento, sollevando entrambe le sopracciglia. «Ed è davvero dannatamente bello. Dovresti farmelo conoscere!» Si girò a guardarmi, cercando di sembrare il più tenera possibile. Purtroppo per lei, qualsiasi faccia cercasse di assumere rimaneva buffa, così scossi la testa e scoppiai a ridere
«Non penso che andreste d'accordo, anche volendo. E poi io e lui non parliamo molto... anzi, non parliamo affatto. George è sempre per i fatti suoi e–»
Sentii la porta chiudersi di nuovo, ma non vidi uscire nessuno. Guardai Eva come per chiederle se avesse visto qualcosa, ma lei scosse le spalle.
«Magari è un po' di vento», azzardò.
«Vento?» Sollevai un sopracciglio. «È più facile vedere Janson che gioca a nascondino con Thomas piuttosto che del vento che fa sbattere le porte, qui dentro.»
«Okay, allora in quella stanza c'era George che se la spassava con qualcuno. Oh, santo cielo, beata chiunque fosse», disse con aria sognante. «Me lo mangerei tutto in tanti modi diversi!»
«Evangeline!»
«Che c'è? Sono sincera! Ma dico, l'hai visto? È un figo da paura!»
Risi ancora, poggiando la testa contro la parete. «Okay, prometto che te lo farò conoscere, prima o poi.»

E invece quella promessa non venne mai mantenuta.
Il giorno dopo Eva scomparve.
La cercai ovunque per tutta la base della C.A.T.T.I.V.O.
Chiesi a Jillian se l'avesse vista.
Chiesi a Janson, ma rispose un semplice “Forse”.
Chiesi a chiunque, ma nessuno mi diede una risposta vera.
«Tutto okay?», chiese il biondino davanti a me, mentre finalmente, dopo un ora di silenzio, sollevava il volto da quel foglio bianco che aveva davanti.
L'avevano avvisato dei piani che Thomas aveva per noi, riguardo al progetto D2, e ci avevano dato una settimana di tempo per lavorarci. Una decisione presa però da Janson, visto che Thomas avrebbe voluto darci un po' più tempo.
«Mh-mh», risposi, sospirando.
«Vedrai che la tua amica sta bene, Eli, magari l'hanno spostata in un altra base. Sai bene che la C.A.T.T.I.V.O. ha diverse basi anche in zona!»
«Sì, ma lei apparteneva al nucleo centrale principale, come noi, lo sai bene.»
«Beh, ieri ha veramente fatto girare le scatole a Janson, sai bene anche tu che Evangeline lo provocava di continuo», ridacchiò, cercando di sdrammatizzare la cosa. Non ci riuscì.
Evangeline era stata praticamente la mia migliore amica lì dentro.
Per quanto passassi la maggior parte del mio tempo a lavorare ai vari progetti e ai test che mi proponeva la C.A.T.T.I.V.O., in qualche modo, ogni volta che potevo, mi ritagliavo un po' di tempo da passare con lei.
Tenevo a lei come tenevo al mio compagno di lavoro, che lì dentro, anche se era il mio rivale, era come il mio migliore amico. O almeno, io lo consideravo tale.
«E dai, fammelo un sorriso.» Corrucciò le labbra. «Uno e basta!» Continuò con questa solfa per un'ora buona, finché, stufa di sentirlo, non gli rivolsi il sorriso tanto atteso.
«Speriamo che stia bene sul serio», dissi infine, facendo sparire il mio sorriso falso pochi secondi dopo.
«Ma sì, vedrai, Evangeline è una ragazza forte e lo sai bene anche tu.»
«Penso che sarà offesa a morte con me», risi, tirando indietro i capelli con la mano. «Le avevo promesso di presentarle un ragazzo.»
«Ah sì? Chi?», sorrise, abbassando di nuovo lo sguardo sul foglio.
«Il fratello di Rachel, George.» Scrollai le spalle.
Lo vidi trasalire, sollevando lo sguardo lentamente. I suoi occhi color verde oliva all'improvviso si spensero, come se avessi detto una parola magica che aveva annullato ogni traccia di vitalità in lui.
«Perché?», domandò con un tono distaccato.
«Beh... ieri l'abbiamo visto uscire da una stanza e lei dice che lo trova carino, niente di che... perché me lo chiedi con questo tono?»
«Avete visto altro?»
«No... ma ora mi metti paura. Che c'è?»
«No, niente, così, semplice curiosità», mormorò, arrossendo leggermente.
«Da come l'hai detto pensavo che fossi geloso», risi, ed allora notai che arrossì ancora di più. Schiusi le labbra, indicandolo con la penna accanto a me. «Okay, cosa mi stai nascondendo?»
«Io? Niente, pensiamo ad iniziare questa benedetta bozza e chiudiamo qui questa discussione che sta prendendo una piega un po' strana», brontolò, prendendo velocemente il fascicolo col progetto D2.
Lo tirai via dalle sue mani, fissandolo negli occhi. «Dov'eri ieri sera?»
Corrugò la fronte. «Dormivo», rispose con un tono fermo e convinto.
«Ah sì? Dormivi?»
«Sì, dormivo.» I suoi occhi tremavano nel tentativo di reggere il mio sguardo. Conoscevo quel segnale, non riusciva a stare fermo. Le sue mani tremavano.
«Sii sincero con me», dissi infine, cercando di convincerlo. Volevo che si fidasse di me come io mi fidavo di lui... e, a detta sua, si fidava ciecamente.
Sospirò e si guardò attorno, mormorando qualcosa che non riuscii a capire nonostante fossimo a pochi centimetri di distanza.
Scossi la testa e lo guardai, sollevando un sopracciglio. Non ci fu bisogno di dirgli esplicitamente “non ho capito”.
Sospirò di nuovo, in modo più rumoroso. «Ero in quella stanza con George.»
«E...?»
«E niente... ti devo fare un disegnino dettagliato?»
«Beh, tutto questo mistero per dirmi che cosa?» Sollevai di nuovo un sopracciglio, incrociando le braccia. «Che sei gay? Wow, capirai il problema! Che facevate in quella stanza?»
Arrossì ancora di più... capii che forse potevo immaginarlo da sola. Allora abbassai lo sguardo e diedi un finto colpo di tosse, mormorando un “Okay, ho capito”.
Scoppiò a ridere e scosse la testa. «Ci guardavamo in faccia... secondo te?»
«Ho capito, ho capito.» Risi anche io, sollevando appena lo sguardo. «Da quanto state assieme?»
«Non stiamo assieme», mormorò. Il suo sguardo si spense. «Non so cosa siamo, onestamente. Sono solo scappatelle, nulla di che, poi non mi calcola più fino a quando non ci ritroviamo di nuovo... in quella situazione.»
Provai pena per lui. C'era una sola cosa che poteva andare bene in tutta quella situazione? Sembrava andargli tutto storto.
«È tutto okay?», domandai quando notai che tra di noi, da dieci minuti buoni, era calato il silenzio.
Si limitò ad annuire distrattamente, poi sollevò lo sguardo verso di me, rivolgendomi un sorrisetto. «Vado in camera mia a lavorare al progetto. Ci vediamo dopo.»
«Okay», mormorai, guardandolo allontanarsi.

Passò una settimana di tempo, ci ritrovammo faccia a faccia con i nostri progetti in mano ben avvolti a mo' di pergamena, stretti in un elastico rosso.
«Sei agitato?», chiesi per spezzare il silenzio. Lui scosse le spalle con noncuranza.
Eravamo fuori dalla stanza dei piani alti, da lì a pochi minuti avrebbero valutato i progetti e deciso chi avrebbe condotto i lavori sul progetto del D2 e chi, probabilmente da quel momento in poi, se non avesse soddisfatto le loro aspettative, sarebbe finito nel test dei Gruppi A e B.
Una ragazza aprì il portone che dava sul corridoio. Aveva un camice bianco che arrivava fino ai piedi.
Ci rivolse un sorriso (palesemente forzato) e indicò la cartellina che aveva tra le mani.
«Voi due siete Justin ed Elizabeth, vero? Prego, potete entrare.»



{L'angolo dell'autrice}
Salve pive!
Sono tornata (finalmente) con un nuovo capitolo!
Okay, okay, avete il diritto di mandare i dolenti, siete autorizzati, mi farò trovare sulla soglia della porta solo per voi, promesso!
Seriamente parlando, anche se sparisco e ci sono poco su EFP (capitemi, la scuola mi riempie di impegni durante tutta la settimana), giuro che non mordo nelle risposte alle recensioni, non vi ucciderò se vi lamentate o cose così. Al contrario, mi fanno piacere ^^
Chiedo venia per il capitolo, questo era solo un breve sguardo al passato. Serviva solo a far capire un po' di cose (o forse no?).
Cercherò di far uscire il prossimo capitolo il prima possibile, promesso!
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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***




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 Avete presente quel genere di giornate in cui ci si sveglia pieni di energie dopo aver passato finalmente una nottata di riposo come Dio comanda?
Bene, io no.
Temo che in un posto come la Radura una cosa del genere potesse capitare una o al massimo due volte all'anno. La mia, probabilmente, era già passata.
Solo negli ultimi giorni ero riuscita a tornare a “lavoro”, e da quando avevo ricominciato ero riuscita solo a fare piccoli guai. Come per esempio rovesciare il latte nella pentola con l'acqua calda dentro.
Nulla di troppo grave, per fortuna, ma la cosa, dovevo ammettere, mi demoralizzava parecchio, visto che il lavoro lì dentro era l'unica cosa che riuscisse a rilassarmi senza avere per forza bisogno di qualcuno che mi stesse dietro. Non che non mi facesse piacere avere Newt come “calmante”, ma non potevo stare attaccata a lui in eterno. Anche lui necessitava dei suoi spazi senza avere un koala bisognoso d'affetto attaccato alla schiena, ed aveva bisogno di riposo almeno quanto me, se non di più.
I miei piccoli danni in cucina almeno erano riparabili, non erano così gravi da impedire il normale andamento della giornata, e Frypan per fortuna non si arrabbiava mai con me perché, a detta sua, mi capiva.
Ma cosa c'era da capire? Ero semplicemente perseguitata dalla sfortuna e assonnata come poche volte da quando avevo memoria. E non era così tanta, c'era da ammetterlo.
Il poco sonno era dovuto anche alle mille domande che avevo per la testa, non mi davano un secondo di pace nemmeno mentre dormivo.
Cominciavano a rimbalzare da una parte all'altra del mio cervello, cercando invano delle risposte che però non potevo darmi da sola.
Per esempio, perché la mutazione di Justin stava durando più del previsto? Che fosse perché magari era stato punto più volte?
No, impossibile, i Medicali si sarebbero accorti di più punture, ma ne avevano trovato solo una ed era abbastanza evidente anche senza troppi controlli.
Ed in ogni caso, George era stato punto più volte e la sua Mutazione non era durata di certo cinque giorni.
Che fosse perché Justin aveva una soglia del dolore diversa dagli altri? Magari era stato punto talmente affondo e per questo il Dolosiero ci stava mettendo più tempo ad agire... Avrei voluto così tanto avere delle risposte, così magari finalmente il mio cervello mi avrebbe dato tregua.
Ogni tanto andavo a controllare come andava la ripresa di Justin, ma non mi avevano mai dato una risposta certa perché “non era qualcosa che mi riguardava”.
Eh certo, gli unici che potevano saperne qualcosa, lì dentro, erano Newt ed Alby. E Newt non sembrava essere molto contento di rispondere alle mie domande su Justin, sopratutto perché non sapeva come rispondermi di preciso, per cui, se poteva, cambiava direttamente discorso.
Alby, invece, si limitava a dirmi “Migliorerà”, senza darmi troppe risposte. Come se fossi stata ancora una Fagiolina che stava in quel posto da nemmeno due giorni. Ormai in quel posto c'ero da quasi un mese, a breve sarebbe arrivato il nuovo Fagiolino, quindi perché continuavano a trattarmi come la Fagiolina di turno?
In ogni caso era mio amico, avevo il diritto di sapere qualcosa e allo stesso modo avevo il diritto di essere preoccupata per lui.
A parte la storia di Justin, c'era anche un altro pensiero che mi dava costantemente il tormento...
Chi aveva creato i Dolenti? Ero stata davvero io? Non potevo credere ad una cosa del genere, sotto sotto pensavo che chi avesse creato degli esseri del genere doveva essere un genio, ma anche un pazzo. Ci voleva una mente troppo perversa per creare creature così... crudeli.
Anzi, forse crudele era un termine anche troppo dolce.
George si divertiva da matti a tenermi sulle spine in quel modo, e lui, come gli altri, non osava darmi neanche una sola risposta.
Era più divertente lasciarmi il dubbio, così da farmi uscire fuori di testa.
Non volevo fare il suo gioco, non dovevo farlo... eppure, dannazione, c'era riuscito.
Era diventato il mio pensiero fisso, i miei sogni spesso finivano con quel punto interrogativo. 
Forse era anche per quello che ero così distratta in cucina, non riuscivo a levarmi di dosso quell’incognita.
Non avevo nemmeno detto a Newt di essere andata a parlare con George: si sarebbe infuriato e avrebbe avuto ragione, visto che quest’ultimo aveva cercato di farmi fuori ben due volte ed ora era riuscito a mettermi in testa un chiodo fisso che sentivo che presto o tardi mi avrebbe fatto scoppiare l'emicrania permanente a furia di pensarci.
L'unica cosa che mi consolava di quella storia era che ci ero andata assieme a Minho... nel senso che non sarei stata l'unica a beccarsi la strigliata da parte di Newt in caso l'avesse scoperto.

Quella mattina la luce dalla finestra entrava in modo davvero disturbante. Il sole sembrava essere più forte del solito, come se fosse stato in grado di bruciarmi viva.
Il sole... perché in quel momento quella parola mi metteva i brividi? Avevo fatto un sogno, quella notte. Un sogno che però non ero stata capace di afferrare.
Era così disturbato, ormai la mia mente l'aveva quasi completamente dimenticato. Ricordavo solo la luce, i tavoli, i vari schermi, dei fogli... ma nient’altro, e quei pochi ricordi che avevo stavano scomparendo alla velocità della luce.
Nel mio stomaco c'era come una sensazione di vuoto d'aria, la mia testa era pesante ed il mio cuore batteva all'impazzata, come se avessi corso ininterrottamente per ore e ore. Era un sogno agitato, questo lo ricordavo. Il sole era davvero caldo.
«Il sole mi brucerà?», pensai.
Il sole brucia la zona... George aveva detto questo mentre era in preda alla Mutazione, no? Il sole brucia la zona...
Il mio subconscio voleva dirmi qualcosa. Sentivo che c'era qualcosa che volevo ricordare, qualcosa di veramente importante. C'era qualcosa e quel qualcosa c'entrava col sole.
Qualcuno si piazzò davanti a me, riuscivo a vederne la sagoma sebbene avessi gli occhi chiusi.
Si avvicinava lentamente e minacciosamente e teneva qualcosa in mano.
Aprii gli occhi di scatto, tirandomi dietro la coperta del sacco a pelo. Indietreggiai di colpo.
Era un uomo, indossava di grossi occhiali neri nella quale riuscivo a vedere la mia immagine riflessa. Il suo naso e la sua bocca erano nascosti dietro una mascherina bianca, indossava un camice bianco e dei guanti in lattice. In mano teneva una grossa siringa dall'ago cannula piuttosto grosso. Continuava ad avvicinarsi e dirmi che sarebbe andato tutto bene.
«È per il tuo bene, sta ferma!», disse.
Non potevo indietreggiare di più per via della parete alle mie spalle. Potevo solo gridare.
Perché i Radurai erano tutti addormentati? Perché nessuno si accorgeva di nulla nonostante stessi gridando aiuto?
«È inutile che gridi così forte, sono tutti addormentati», rispose l'uomo, come se mi avesse letto nel pensiero. «Abbiamo messo qualcosa nel loro cibo sta notte, così non si sarebbero svegliati prima di mezzogiorno, quando ormai le cose si saranno sistemate. Sta calma, è solo una puntura ed è per il tuo bene!»
No, non era solo una puntura. Ne ero certa.
Afferrò il mio braccio, cominciai a divincolarmi, non volevo che mi toccasse con quella cosa.
Continuai a gridare, tirando forti strattoni col braccio nel tentativo di liberarmi. Ma la sua stretta era forte. Davvero forte. Sentivo che mi sarei spezzata come un grissino se avessi continuato a dimenarmi in quel modo.
Puntò la siringa verso il mio braccio e scattò per pungermi con quella dannata cosa. Lo fece velocemente, con un’innata sicurezza.
Poi Aprii gli occhi. Mi guardai attorno.
Non ero per terra, ero sul letto.
Non c'era nessuno a parte i Radurai, che dormivano ancora beatamente.
La luce del sole entrava debolmente nella stanza, non puntava contro il mio volto, ma appena sotto il letto.
Ero ugualmente terrorizzata nonostante vedessi che la situazione era effettivamente del tutto tranquilla. Presi una grossa boccata d'aria per cercare di rilassarmi, accasciandomi contro il materasso. Sollevai di più il sacco a pelo e mi rannicchiai su me stessa più che potevo, fissando un punto indefinito della stanza.
Attorno a me era tutto silenzioso, cercai di consolarmi con quello.
Beh... tutto silenzioso, tranne che per il pesante russare degli altri Radurai, ma preferivo quello a qualsiasi altro suono.
Chiusi gli occhi e cercai di riprendere sonno... tentativo seriamente impossibile, tutto per merito del mio cuore che batteva così forte da darmi la sensazione che potesse uscire fuori dal petto da un momento all'altro e fuggire da quel posto solo rotolando via.
«Possibile che ti svegli sempre così presto?», brontolò Newt alle mie spalle. Aveva la voce impastata per via del sonno. Almeno uno dei due riusciva a dormire.
Mi girai e lo guardai con la fronte corrugata... a pensarci bene, cosa ci facevo nel letto? Sopratutto... perché ero lì con lui? Non che la cosa mi desse fastidio, anzi... semplicemente non ricordavo il passaggio in cui mi ero alzata dal pavimento per coricarmi accanto a lui, a meno che non fossi diventata sonnambula... il che, onestamente, non mi avrebbe stupito.
Cosa avrebbe potuto stupirmi ormai in un posto come quello?
In più ero tutta rannicchiata su me stessa contro il suo fianco. E lui non faceva una piega per questa cosa.
«Perché mi guardi così?», brontolò come un bambino, quasi infastidito, tant'è che si girò dall'altra parte rivolgendo lo sguardo alla parete e dandomi le spalle.
«Perché sono nel letto con te?», domandai, grattandomi la fronte.
«Non ci sei da molto, tranquilla. Hai cominciato ad agitarti come un pazza, brontolavi parole incomprensibili e cose così. Mi sono preoccupato e per non lasciarti sola, dati gli “ultimi” avvenimenti con le tue strane crisi, mi sono alzato, ti ho presa in braccio e ti ho portata sul letto con me. Le altre due opzioni erano svegliarti o sdraiarmi con accanto a te. Stavo fortemente optando per la prima opzione, dato che tu hai svegliato me», brontolò ancora, affondando il viso contro il cuscino.
Corrucciai le labbra e mi girai a guardare la parete davanti a me, come se improvvisamente fosse diventata dannatamente interessante. Mi sentivo un po' in colpa, ogni volta che mi succedeva qualcosa in qualche modo ci passava lui anche senza volerlo.
«Non l'ho fatto apposta!» Abbassai il volto, affondandolo anche io nel cuscino per cercare quasi di soffocare l'imbarazzo che stavo provando. Possibile che anche mentre dormivo facessi così tanto casino da svegliare proprio l'ultima persona che avrei voluto disturbare?
«Ecco perché non ti ho svegliata, infatti, Fagio», ribatté a sua volta, spostando il volto dal cuscino. «Ed era anche troppo presto. Ti ho lasciata dormire, anche se tu non hai lasciato dormire me, dovresti ringraziarmi.»
«Aspetta... mi hai presa in braccio?»
«Sì, perché?»
«Hai ragione, dovrei ringraziarti.»
«Certo che dovresti!», disse ridacchiando, il tono assonnato che si stava dissolvendo alla svelta.
«E dovrei anche prenderti a pugni per esserti sforzato quando non avresti dovuto farlo, stupida testapuzzona!», risposi con tono fermo. Seriamente, mi faceva piacere che si preoccupasse per me, ma io ero ancora preoccupata per lui, per via di quella ferita sul petto che continuava a cicatrizzarsi in modo piuttosto lento.
«Prego, Fagio...» Scosse la testa, portando il braccio dietro di sé e cercando la mia mano. La trovò in poco tempo, la prese e fece un respiro profondo. «La prossima volta, però, ci dormi tu sul letto, e non voglio sentire storie.»
Okay, era palesemente in procinto di addormentarsi di nuovo.
«Assolutamente no, il pavimento è troppo duro e –»
«Non m'interessa.» Sollevò la testa dal cuscino e si girò verso di me, allora mi girai anche io a guardarlo, alzando leggermente gli occhi al cielo.
Inarcai un sopracciglio, era assonnato, dava l'impressione di qualcuno che non dormiva da secoli, ma riusciva comunque a mantenere un aria seria.
«Sopravvivo ogni giorno in questo posto, non sarà un pavimento duro ad uccidermi.
E poi non devo fare sforzi, non c'è scritto da nessuna parte che non posso dormire per terra.»
Beh, dovevo ammettere che non aveva tutti i torti.
Sollevò un sopracciglio anche lui e si girò completamente verso di me.
Perché sembrava così dannatamente carino anche da mezzo addormentato?
Sospirai e scattai seduta, la mia parte orgogliosa detestava ammettere che aveva ragione lui. E poi ero ancora dell'idea che doveva stare comodo nel letto per riposare meglio ed intendevo mantenere la mia idea, ma non avevo voglia di discutere.
«Okay», dissi semplicemente e scesi dal letto, facendo attenzione a non fare rumore, non volevo svegliare anche gli altri Radurai.
Era meglio sbrigarsi ed andare a fare la doccia prima che i miei compagni aprissero gli occhi all'alba del nuovo giorno.
Come se fosse legato a me con uno spago, Newt si alzò e mi seguì come un cane da guardia.
Chiaramente rimase fuori dalla porta ad aspettarmi, per poi entrare lui appena uscii.
Andammo in cucina una volta puliti e freschi, mangiammo qualche boccone e mi aiutò nel preparare la colazione agli altri. Insomma, la routine che ormai per noi era diventata quotidiana. Solo che sta volta aveva deciso che mi avrebbe aiutata a stare attenta a quello che facevo, e dovevo ammettere che il risultato fu piuttosto positivo dati gli ultimi disastri in cucina.
Aveva notato che avevo la testa tra le nuvole ma non fece nessuna domanda, probabilmente convinto che fosse semplicemente perché non ero più abituata ad entrare in cucina con Frypan che lucidava anche il tavolo come se fosse fatto di cristallo.
E Frypan, apparso quasi per magia in cucina, tirò un sospiro di sollievo quando notò che non c’erano stati danni gravi allo splendore immacolato del suo tanto amato pavimento.
«Oh, sia ringraziato il cielo», disse in seguito ad un grosso sospiro.
«Hai visto? Sono stata brava!», sorrisi, sistemando le scodelle della colazione in fila sul tavolo.
Newt sollevò gli occhi al soffitto e scosse la testa, portando le scodelle dai Radurai.
Non mi azzardai nemmeno ad uscire a guardare la faccia che fecero notando la sua comparsa come “cameriere”, anche se sotto sotto ero piuttosto curiosa di vederla.
Lasciai da parte una sola scodella, per portarla a George... anche se andare da sola non era una buona idea, non mi fidavo granché di lui, per quanto ne sapevo poteva essere benissimo in grado di creare una freccia dal nulla e tirarmela contro non appena mi fossi avvicinata alla Gattabuia.
«Beh, come va, futura Pive?», domandò Frypan mentre controllava attentamente le scodelle, come si aspettasse che da un momento all'altro queste cominciassero a sputare ragni a raffica.
Ehi, non ero mica così inaffidabile!
«Sopravvivo, non è cambiato granché da ieri, sai?», risposi con un tono sarcastico, sentendomi in colpa subito dopo. Forse passare così tanto tempo con Newt mi faceva male.
«Mai dire mai, con te è una continua sorpresa!» Prese due scodelle e le avvicinò a Newt mentre tornava a mani vuote. Sbuffò, ma sapevo che sotto sotto era contento di dare una mano. Erano giorni che si lamentava del fatto di essere fermo senza poter muovere un solo muscolo per ordine di Alby.
«Già... è una continua sorpresa anche per me», mormorai tra me e me, sperando che non mi avesse sentita. Speranza che poi divenne realtà, grazie a Dio, o forse mi aveva semplicemente ignorata.
«Elizabeth?» Mi girai sentendo la voce di Minho, era poggiato alla porta della cucina col suo solito fare da divo. Che ci faceva lì? Avrebbe dovuto essere nel Labirinto, no?
Mi fece cenno di avvicinarmi, ma di fare silenzio.
Lo feci, notando con mia grande sorpresa che né Newt né Frypan si erano accorti del mio allontanamento, troppo intenti a servire i Radurai affamati. Strano, erano il doppio del solito.
Mi prese la mano velocemente e mi trascinò fuori. Aveva parecchia fretta nel farlo, come se non volesse essere visto da nessuno. Cominciò a correre e... ho mai detto quanto odiassi correre?
Sbuffai e lo seguii. Di malavoglia, ma lo seguii. Era complicato tenere il suo passo, d'altronde io non ero una Velocista e di certo non avevo il fisico per farlo.
Inciampai un paio di volte, rischiando seriamente di farmi male, ma non si fermò nemmeno un secondo per chiedermi se mi ero ferita o cose simili.
«Dove andiamo?», domandai, ma non ci fu nemmeno bisogno di una risposta perché ormai ci eravamo fermati davanti al capannone dove nessuno poteva entrare.
«... ehi, ma questa non è la Stanza delle Mappe?», chiesi indicandola.
«Già», rispose semplicemente, aprendo la porta e dandomi una pacca sulla spalla. «Entra.»
«Credevo che potessero entrare solo i Velocisti!»
«Entra», rispose con tono fermo, guardandosi attorno. «Sbrigati. Non voglio che ci vedano gli altri, okay?», brontolò. La cosa cominciava a preoccuparmi, ma non feci ulteriori storie ed entrai.
Sul tavolo c'erano diversi fogli tutti disegnati, alcuni sparsi, altri in ordine. La stanza, tutto sommato, era piuttosto ordinata, il che era strano perché immaginavo i Velocisti come persone sempre di fretta che non avevano il tempo di badare all'ordine e cose così. Rimasi piacevolmente colpita dalla cosa.
«Dobbiamo parlare», disse con un tono quasi triste della cosa, causandomi i brividi perché non si presentava come una conversazione piacevole o allegra.
«Okay...», mormorai poggiandomi al tavolo ma facendo attenzione. Avevo paura di rovesciare dei fogli o qualcosa del genere ed avevano l'aria di essere abbastanza importanti, non volevo combinare guai.
Minho si avvicinò al tavolo, indicando i fogli, appunto. «Queste sono delle mappe del Labirinto disegnate da noi Velocisti. Ecco, il Labirinto è diviso in sezioni, vedi? Ogni giorno cambia sezione, perché è una struttura sempre in movimento. Noi la esploriamo da cima a fondo, poi la mappiamo e le confrontiamo in modo da avere un quadro completo», disse, guardandomi poi con la coda dell'occhio. «Di solito percorriamo le sezioni in tranquillità e senza essere disturbati... fatta eccezione per i Dolenti, che però escono principalmente la notte.» Schioccò la lingua. «Alla fin fine con quei cosi ci conviviamo. Ma ecco, ora ti spiego dove sta il problema... sembrano essere moltiplicati e non sappiamo cosa fare. Non abbiamo dato un bando o qualcosa del genere, non vogliamo creare uno scompiglio generale.»
«Ehi, ehi, ehi... aspetta. Perché lo dici a me?»
«Perché tu sei un piccolo genio incompreso, mia dolce Giulietta», disse con un sorrisetto beffardo stampato sul volto, poggiandosi al tavolo ed incrociando le braccia.
Cancellò il sorriso dal volto e tornò serio, sospirando. Ormai conoscevo Minho, sapevo che quando voleva mascherare le sue emozioni diventava particolarmente sarcastico, facendo battutine o cercando comunque di sdrammatizzare. Voleva sempre apparire superiore a qualsiasi difficoltà gli si parasse davanti.
Si passò le mani tra i capelli e scosse la testa, guardandomi con la coda dell'occhio. «Seriamente parlando, perché mi fido di te. Se non fosse così oggi non avrei saltato la mia esplorazione quotidiana per perdere tempo a parlare con la Fagiolina di turno. Sento che tu puoi aiutarci in qualche modo. Sarà forse per quello che ha detto quello svitato di George, o per il fatto che c'era il tuo bel problemuccio sulla zampetta carina carina del D2MH, perché in qualche modo sai qualcosa di loro che noi non sappiamo... non saprei di preciso quali di queste tante cose mi spinga di più a potermi fidare di te. Ma, seriamente parlando, ho bisogno di una mano. Non voglio esporre altri Velocisti a dei rischi.»
Il suo sguardo rimase fermo su un punto, era come se fosse perso a rimuginare su tutt'altro e non riuscisse a non pensarci. Capivo bene quella sensazione, la provavo ormai da così tanti giorni che mi sembrava quasi di conviverci da secoli.
«Quindi... in breve mi stai chiedendo di scoprire qualcosa sui Dolenti in modo da aiutarvi nel Labirinto, giusto? Okay, ma …. come? Voglio dire, non c'è un diario segreto sui Dolenti nascosto da qualche parte nella Radura, quindi come faccio?»
Scosse la testa, facendo le spallucce. «Chiaramente dovrai andare nel Labirinto, Beth», rispose semplicemente, come se fosse stata la cosa più normale del mondo.
Sbiancai e schiusi le labbra. Sentii il mio cuore cominciare a battere velocemente, come se bussasse nel petto chiedendo il permesso per poter uscire.
Come faceva a dire una cosa del genere con così tanta calma? Okay, forse per lui andare nel Labirinto era normale, ma dimenticava un piccolo dettaglio: io non avevo mai messo piede lì dentro.
«Cosa?!» Per qualche strano motivo, sentii il mio labbro inferiore tremare.
Che fosse per paura? Era probabile.
Oltre alla paura per quel posto, c'era anche un altro problema, per esempio il fatto che avevo promesso a Newt che non avrei mai messo piede lì dentro, e non volevo farlo incazzare troppo. Forse a dire il vero era l'unico pensiero che mi interessava davvero.
Una buona parte di me sapeva benissimo che sarebbe stato in grado di non parlarmi più per aver infranto proprio quella promessa.
Minho sembrò quasi spiazzato dalla mia risposta, poi scosse le spalle con noncuranza della cosa ed annuì, come se d'altronde quella proposta fosse la cosa più normale del mondo.
Tuttavia leggevo nei suoi occhi che non era molto convinto nemmeno lui di quell’idea, ma cercava di apparirlo il più possibile davanti a me.
Scossi la testa con convinzione, non volevo litigare con Newt per questa storia.
«No, non se ne parla! Sopratutto da sola, in un posto come il Labirinto! E se mi perdo? E se mi succedesse qualcosa? Io non conosco il Labirinto, non sono mica una Velocista!» Cercai di sviarmela in quel modo, sperando di ottenere un suo ripensamento senza dargli a vedere il vero motivo per cui non volessi mettere piede in quel posto.
«Effettivamente non avevo pensato a questo dettaglio...» Si grattò la fronte, abbassando lo sguardo. Corrucciò le labbra, passandosi una mano tra i capelli, poi rialzò lo sguardo e scosse le spalle. «Ti accompagnerò io. D'altronde chi meglio di me può farti da guida nel Labirinto? Insomma... io sono Minho, il più figo dei Velocisti!» Ammiccò, ridacchiando, poggiandosi le mani sui fianchi.
«Beh... si... vero...» Sorrisi, cercando di essere il più spontanea possibile. Onestamente parlando, il tono che avevo usato non convinceva nemmeno me, ma non riuscivo a scrollarmi di dosso il pensiero che andare nel Labirinto fosse una pessima idea.
Cercai di trovare una frase per tirarmi indietro da quella situazione.
Seriamente, avrei fatto di tutto per aiutare Minho e gli altri, perché anche a me interessava riuscire ad uscire da quella prigione, ma volevo farlo possibilmente senza correre il rischio di lasciare la pelle nel Labirinto.
«Allora? Andiamo?» Era curioso di sapere la mia risposta, era ansioso, batteva il piede sul pavimento e teneva le braccia incrociate contro il petto.
«Io... non lo so...» Sentivo i sensi di colpa nel vedere la sua espressione quasi delusa dalla mia risposta... o forse lo era davvero.
Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, schiudendo le labbra.
«Come sarebbe “non lo so”? Di cos'hai paura? Ti farò io da guida, sai che puoi fidarti di me.» Corrugò la fronte. «Perché tu ti fidi di me, vero?»
«Sì, caspio, ma non ho paura di quello. Voglio dire, non ho paura di nulla, ma... non mi piace l'idea di entrare nel Labirinto, ecco... sai... ci sono i Dolenti...» Cercai di essere il più convincente possibile. Abbassai lo sguardo sul pavimento, fingendo di calciare via qualcosa.
Dopo un po' lo sentii ridacchiare di gusto, così alzai lo sguardo.
A
veva incrociato di nuovo le braccia contro il petto e sollevato la testa al soffitto, schioccando rumorosamente la lingua contro il palato. «Hai paura di Newt, vero?» Assunse l'aria di chi aveva fatto la deduzione del secolo, abbassando lentamente lo sguardo su di me. Il suo sorrisetto la diceva lunga su quanto in quel momento si sentisse estremamente intelligente per quella deduzione.
Arrossii ed abbassai di nuovo lo sguardo sulle mie scarpe. «N-no! Non è per quello», bofonchiai imbarazzata.
«Sì invece. Hai paura che ti becchi e che si arrabbi con te! Tranquilla Fagio, se ci becca me ne prenderò io la responsabilità, promesso. Gli dirò il perché siamo andati nel Labirinto e tutto il resto, così Romeo non si arrabbierà con Giulietta.» Sollevò il mignolo e lo piegò un paio di volte, sorridendo. «Promessa del Raduraio. Ora, ti spiacerebbe dirmi “sì Minho, andiamo nel Labirinto”? Così prima finiamo e prima torniamo, ti pare?»
Non ero molto convinta di quel piano, una parte di me sapeva benissimo che tanto si sarebbe arrabbiato ugualmente anche se Minho avesse detto tutti i buoni motivi che l'avevano spinto a farmi infrangere la regola del non entrare nel Labirinto... e la promessa che gli avevo fatto.
Si sarebbe arrabbiato sia con uno che con l'altra. Ma sopratutto con me.
Ma d'altronde Minho c'era sempre stato quando avevo bisogno di lui, mi bastava pensare a quando mi accompagnava da George per dargli il cibo, anche se pensava vivamente che piuttosto che del cibo sano si meritasse del veleno puro.
Sì, mi fidavo di Minho, ma sentivo ugualmente la coscienza sporca anche se non eravamo ancora andati.
Forse dovevo pensarci meglio, ma non avevamo tutta la sera a disposizione. Il Labirinto aveva i suoi tempi e, se volevamo andare fino in fondo, dovevo sbrigarmi a fare una scelta... anche se era ovvia.
Sospirai ed annuii, giocando con le punte dei miei capelli. «Okay, ma solo per questa volta. Non voglio infrangere le regole e beccarmi un'altra strigliata da Alby – e da Newt –»
Minho rise, annuendo anche lui e prendendomi sottobraccio. «Non ci staremo molto, promesso. Ti prometto che sarà una gita piuttosto interessante!»

Qualche passo e mi ero già pentita della mia scelta. Chi me l'aveva fatto fare? Oserei dire il mio buonsenso, ma di certo il mio buonsenso non mi avrebbe fatto mettere piede lì dentro.
Minho mi aveva costretta a fare una breve (ma intensa) corsetta fino all'interno del Labirinto.
Avevo i brividi lungo tutto il corpo ed eravamo appena entrati. Se ero già spaventata solo dall'entrata di quel posto, come sarei stata una volta arrivata al centro? Mi sarei strappata i capelli uno ad uno in preda al terrore?
Non volevo nemmeno pensarci più di tanto, mi sentivo già abbastanza in trappola.
L'idea di correre via da lì mi sfiorò più volte, ma il continuo spronarmi di Minho mi tratteneva. Sembrava così dannatamente convinto di ciò che voleva fare da riuscire a coinvolgermi più di quanto pensassi. Era dannatamente concentrato, aveva tutta l'aria di chi avesse studiato attentamente un piano e lo stesse seguendo passo per passo.
«Okay, avanti, non può succedermi nulla di male, dai! Pensa positivo, Elizabeth, pensa positivo», mi dissi, ma una buona parte di me sentiva quel pensiero come un qualcosa di non mio.
Poggiai le mani sulle tempie, facendo un respiro profondo e chiudendo gli occhi. Qualcosa che era a mio rischio e pericolo, visto che quel posto non lo conoscevo e rischiavo di cadere come un salame.
«Okay, Elizabeth, d'altronde ormai sei dentro. Non puoi più tirarti indietro. Fa vedere a questi Pive del caspio di che fatta sei pasta!» Corrugai la fronte e scossi la testa, riaprendo gli occhi e spostando le mani. «Volevo dire, di che pasta sei fatta. Cominciamo bene, inverto anche le parole. A posto. Ci manca solo che cominci a camminare con le mani invece che coi piedi», brontolai, spostando i capelli dietro l'orecchio e dando un finto colpo di tosse.
«Oh, ma dai, ti stai sploffando così tanto addosso che ti sei messa anche a parlare da sola? Caspio Beth, ti facevo più tosta! Fortuna che non sei una Velocista, se no a quest'ora saremmo stati tutti fregati!»
Gonfiai le guance e borbottai qualcosa tra me e me. Mi sentivo agitata, non avevo bisogno di sentirmi anche in imbarazzo. Decisi di non rispondergli nemmeno, anche perché non sapevo cosa dirgli.
Forse per il fatto che mi sentivo seriamente in soggezione e debole... non mi piaceva sentirmi così indifesa.
Minho rise ancora e cominciò a correre lentamente, lasciandomi il tempo di mettermi in moto anche io così l'avrei seguito.
Onestamente parlando, non avevo esattamente voglia di correre... o meglio, sì, ne avevo, ma volevo farlo per andare via da lì, però!
E poi tenere il passo di Minho era seriamente sfiancante. Il suo concetto di “corsetta lenta” probabilmente era distorto.
Oltretutto, non avevo nemmeno capito dov'eravamo diretti di preciso.
Cercavamo i Dolenti, forse? Probabilmente sì, ma ero abbastanza sicura che ci avrebbero trovato prima loro visto il casino che facevano i nostri piedi contro il pavimento.
O meglio, era il casino che facevano solo i miei piedi. Li battevo così forte che mi sembrava di emettere un suono dannatamente tonfo. Sembravo un elefante in un negozio di cristalli!.
Non appena riuscii a raggiungerlo, lui abbassò lo sguardo verso di me e prese la mia mano, senza stringerla troppo.
Fissai le nostre mani, corrugando la fronte con fare interrogativo.
«Non voglio correre il rischio di perderti qui dentro solo perché non riesci a reggere il mio passo», disse con calma. «Newt mi darebbe in pasto ai Dolenti. O probabilmente mi macellerebbe, mi cucinerebbe e mi spaccerebbe per carne di bovino. Sono troppo bello per essere spacciato per un bovino! Sai che spreco sarebbe?» Scrollò le spalle. La cosa peggiore era che mentre diceva queste cose sembrava anche serio!
Risi e scossi la testa, guardandomi attorno. «Basta semplicemente camminare, ti pare?» Il mio sguardo passava da una parete all'altra, dandomi perfettamente l'idea di quanto fosse claustrofobico quel posto.
Era vero, c'era abbastanza spazio per correre in cerchio, ma quelle mura di cui non si riusciva a vedere la fine verso l'alto non erano rassicuranti.
L'edera rampicante ricopriva gran parte delle mura di pietra, in lontananza scorgevo il cartello con scritto “Catastrofe Attiva Totalmente: Test Indicizzato Violenza Ospiti”.
Cosa doveva rappresentarmi una scritta così poco rassicurante?
Sentivo che c'era qualcosa di importante nascosto in quella sigla, eppure nella mia mente c'era il vuoto totale.
Decisi che non era il caso di cercare una risposta, sarebbe venuta da sé. Non volevo correre il rischio di qualche altra crisi che mi avrebbe portata all'autodistruzione come al solito.
«Ti piace questo posto?», domandò Minho, interrompendo – per fortuna – il flusso dei miei pensieri.
Scossi la testa distrattamente.
Non che non mi piacesse, ma... aveva un non so che di strano, non sapevo come definirlo.
C'era sicuramente un lavoro lunghissimo dietro quella struttura, tutto creato e schematizzato solo per dare un unica sensazione che, sicuramente, non era né rassicurante né di piacere.
Mi affascinava e mi inquietava allo stesso tempo.
Fissai una parete, fermandomi per qualche istante. Non eravamo troppo lontani dall'entrata del Labirinto.
Abbassai lo sguardo sul pavimento. Ebbi come un flashback. Quel posto... l'avevo già visto.
Quello era il punto in cui Newt era atterrato dopo essersi buttato dalla parete.
Chiusi gli occhi e mi strofinai una mano contro questi, sospirando. «Questo è il punto in cui Newt si è schiantato a terra, vero?», domandai, ma già sapevo la risposta.
Ci fu un attimo di silenzio tombale, nulla di più.
Di colpo sentii Minho tirare il mio braccio e cominciare a correre. Persi quasi l'equilibrio. Che aveva da correre ora?
Mi fermai, o almeno ci provai, puntando i piedi contro il pavimento. L'unica cosa che ottenni fu uno sbalzo in avanti che mi fece definitivamente perdere l'equilibrio, facendo però fermare Minho.
«Muoviti, svelta!», disse in preda all'agitazione.
«Perché, che succede?»
«Se non ti sbrighi lo capirai a tue spese!» Mi sollevò di peso, facendomi rimettere in piedi quasi contro la mia volontà e riprese a correre, trascinandomi con lui.
Pochi passi e capii il perché di tanta agitazione. Lo capii a mie spese. Sul serio.
Davanti a noi c'era un Dolente. E non era solo. Riuscii a sentire lo sferragliare dei loro artigli contro il pavimento e contro le pareti del Labirinto. Camminavano sul muro come se fossero ragni, rotolavano sul pavimento con un fare così strano da mettere i brividi. Ma erano rapidi e non avevano l'aria di voler giocare come dei cucciolotti.
Emettevano versi da farmi venire la pelle d'oca. Provai ribrezzo, non riuscivo a fissarli.
Eravamo circondati. Il mio cuore batteva all'impazzata, ma nonostante tutto avevo ancora la mente lucida. Mi guardai attorno, non volevo fare movimenti troppo bruschi, temevo che se avessi fatto un solo passo falso si sarebbero avventati tutti contro di noi.
Notai che Minho era come paralizzato, gli tremavano a stento le mani e deglutiva di continuo, mentre il suo sguardo passava da un Dolente all'altro.
Non che io fossi messa meglio, ma almeno cercavo di non dare a vedere quanto fossi dannatamente preoccupata.
«Che si fa?», domandò Minho con un tono bassissimo. La sua voce traballava, ma cercò di camuffarla nel tono più calmo che poteva.
«Non lo so, sto pensando», sussurrai, deglutendo a fatica.
Il Dolente davanti a noi si avvicinò lentamente, il suo “muso” rimase a pochi centimetri dal volto di Minho, come se lo stesse annusando, poi si spostò verso mio viso. Puzzava, la sua pelle era viscida e nera. M'irrigidii e girai leggermente la testa dall'altra parte per evitare il più possibile il contatto con lui.
Emise un verso quasi contrariato. Forse il gesto era troppo impulsivo e non gli andava a genio.
Quasi come se quello fosse stato un segnale per gli altri, di colpo tutti loro tirarono fuori quei mille bracci meccanici pieni di strumenti di tortura. I suono che fecero era simile a quello che facevano le budella quando Winston le spostava tra loro. Viscido e nauseante se ascoltato a lungo.
I Dolenti si fecero avanti di colpo, scagliando i loro bracci verso il punto dove eravamo io e Minho, stretti come bambini impauriti la notte di Halloween.
«Beth!», gridò lui, spingendomi nell'unico punto in cui sembrava ci fosse un minimo di via d'uscita. Era un pezzo strettissimo e ci passammo di striscio.
I miei vestiti si impigliarono nelle braccia metalliche dei Dolenti, si strapparono un po', ma non importava.
«Corri! Seguimi!», gridò di nuovo Minho, riprendendo a correre.
In quel momento, per quanto odiassi farlo, era la soluzione migliore. Ma correre dove? Dove si poteva andare in un Labirinto?
Decisi di non chiederglielo, dovevo risparmiare il fato per la corsa e per tenere il suo ritmo.
I Dolenti emisero una sorta di grido, poi si sentii uno schianto alle nostre spalle. Si erano messi di nuovo a rotolare. Ci stavano seguendo.
Ebbi un déjà vu. In quel momento avrei pagato oro per poter tornare indietro nel tempo e dire “No, non ci vengo nel Labirinto, fine della discussione”.
Fissai l'edera, mi fermai e la toccai con fare frenetico. La legai tra le mie mani e poggiai un piede sul muro cominciando a fare leva. Presi una spinta e cercai di tirarmi su. Volevo arrampicarmi, cercare di salire il più in alto possibile, cercare di mimetizzarmi lì in mezzo così magari avrei avuto una chance in più e magari tornare indietro appena i Dolenti fossero stati abbastanza distanti da me.
«Minho, vieni, ho un piano!»
Si fermò, era già più lontano di me. Girò la testa con fare quasi scocciato e mi fissò, senza fare ulteriori passi verso di me. «Ma che caspio stai facendo?!», gridò, guardando poi oltre me. I Dolenti erano vicini, giravano molto velocemente. «Scendi subito da lì e raggiungimi, caspio!»
«Arrampichiamoci sull'edera e nascondiamoci! Correre è inutile!», insistetti.
Scosse la testa e rise in modo isterico. «È inutile anche arrampicarsi sul muro, ti sei rincaspiata tutta d'un botto? Non hai visto che si arrampicano sul muro come se nulla fosse! Corri caspio, prima che ci raggiungano del tutto!» Cominciò a correre sul posto.
Aveva ragione, non avevo pensato a quel dettaglio.
Feci per lasciare andare l'edera, ma questa cedette ancor prima che potessi scendere, spezzandosi e facendomi cadere contro il pavimento marmoreo.
Sentii una scossa di dolore percorrermi la gamba, ma nonostante questo mi rimisi a correre, sebbene zoppicando un po'. Non potevo permettermi il lusso di fermarmi a massaggiare la caviglia.
Svoltammo a destra, ma ci fermammo subito. Un vicolo cieco.
Guardai Minho, che corse in avanti e cominciò a toccare il muro in preda al panico. «È impossibile! Caspio, no, non è possibile! Qui c'era il muro che svoltava a sinistra e portava alla scarpata! Perché è tappato?! Perché caspio è tappato!», cominciò a sbattere i pugni, poi tirò l'edera come se sperasse che quel gesto avrebbe potuto far scomparire il muro per magia.
Era la fine. Dovevo farmene una ragione. Mi sedetti ed aspettai, fissando la scena davanti a me. Quattro Dolenti che ruotavano ad una velocità assurda verso me e Minho, pronti a prenderci, pungerci e qualsiasi altra cosa facessero quei mostri alle loro vittime.
L'avevo accettato, ma cercai comunque di sentirmi in pace con me stessa. Chiusi gli occhi, sentendo il tocco freddo dei miei brividi sulla schiena provocati dal pensiero di ciò che stava per accadere. Speravo solo che quel incubo finisse in un attimo, sebbene accompagnato dalle grida e dalle imprecazioni di Minho.
Poi un grido. Il grido più terrificante e grosso che avessi mai sentito in vita mia. Era più simile al ruggito di un dinosauro che un grido vero e proprio.
Sbarrai gli occhi e mi voltai in preda al panico. Era un rumore che riecheggiò per un bel po'. Non capivo da dove venisse, ma fu come una mano dal cielo. I Dolenti si fermarono ed indietreggiarono lentamente.
Minho cadde all'indietro, atterrando a pochi centimetri da me. Respirava faticosamente e fissava la parete come se fosse quella la causa di quel verso. Le sue mani erano arrossate e gonfie a furia di dare pugni alla parete
«Cosa caspio...?», mormorò con una voce tremante e roca. Forse il troppo gridare gli aveva fatto sparire la voce. «Proveniva da lì dietro, ne sono sicuro!» Indicò la parete, mostrando ancora di più il rossore della mano.
«Vuoi ancora che quel muro sparisca?», domandai senza spostare lo sguardo dai Dolenti. Erano fermi, come se stessero aspettando.
«No. Temo che qualsiasi cosa ci sia dall'altra parte, sia più pericoloso di quei Dolenti del caspio. A Proposito, dove sono?» Si voltò anche lui. Non disse nulla, si limitò anche lui a fissarli con uno sguardo accigliato.
Sentii un fruscio tra le foglie che catturò subito la mia attenzione, poi un piccolo lampeggiare di una luce rossa. Si muoveva velocemente tra le foglie.
Cercai di mettere a fuoco la vista il più possibile, ed allora notai il colore grigiastro della Scacertola.
Si muoveva velocemente e a scatti. Ero abbastanza sicura che ci stesse osservando con fare vigile... e forse era stata lì per tutto il tempo.
Mi avvicinai lentamente, stranamente non si mosse nemmeno di un centimetro.
Spostai leggermente l'edera e sfiorai il suo corpo freddo e metallico. Era un piccolo robot, che reagì fuggendo a quel mio gesto.
Corse su per il muro, sparendo tra l'edera, facendo cadere qualche fogliolina. Ero sorpresa del fatto che non fosse fuggita subito, ma avesse avuto quasi uno scoppio ritardato.
Il pavimento tremò. Digrignai i denti sentendo il rumore di raschiamento della pietra contro altra pietra. Il muro davanti a noi si stava spostando così lentamente da farmi pensare che avrei preferito andare ad abbracciare i Dolenti piuttosto che sentire anche solo cinque minuti di più quel suono odioso.
«Ma cosa caspio...» Minho si mise in piedi, fissando con stupore la parete che, lentamente, prendeva velocità nello spostarsi.
I Dolenti rotolarono via, come se fossero terrorizzati a quel pensiero.
Cosa poteva esserci di tanto terribile dall'altra parte del muro?
L'unica cosa che riuscii a vedere era l'immensità di polvere causata dallo spostamento del muro. Nulla di che, per i primi 5 minuti, quando ancora questa era bella che densa. E la situazione rimase calma anche quando la polvere smise di esserci.
Di colpo fu come se avessi realizzato ciò che era successo. Mi fissai le mani, notando che erano sporche di sangue. Ero insanguinata. Anche i miei vestiti erano insanguinati.
«Sono stata punta...», sussurrai, sorridendo in modo nervoso.
«Cosa?» Minho abbassò lo sguardo su di me, inclinando la testa.
«Sono stata punta!» Mi toccai la maglietta. Avevo una pozza di sangue dallo stomaco in giù. La pelle bruciava, mi sentivo andare a fuoco. Sentivo la gola andare in fiamme, le mie guance rigate dalle lacrime. Mi abbassai e mi accucciai su me stessa.
«Sono stata punta! Non ci credo, sono stata punta!» Dondolai avanti e indietro tenendomi la testa tra le mani. Chiusi gli occhi. Non volevo vedere ulteriormente il mio corpo sporco di sangue.
«Beth, calmati!» Poggiò le mani sulle mie spalle, scuotendomi ripetutamente finché non alzai la testa.
«Calmarmi? Calmarmi?! Sono stata punta, cosa c'è da stare calmi?!», gridai e mi liberai dalla sua presa. «Guardami, sono sporca del mio stesso sangue! ed è tutta colpa tua!» Lo indicai nervosamente, continuando a piangere. Continuavo a sentire la mia pelle bruciare, come se avessi avuto il sole a pochi centimetri di distanza. Sentivo di sudare freddo, che avevo bisogno di aria.
Vidi la sua espressione farsi gelida, poi scosse la testa. «Beth...»
«Cosa “Beth”? Beth un corno! Minho, dobbiamo tornare nella Radura, devo prendere assolutamente il Dolosiero prima che sia troppo tardi!» Feci per alzarmi, ma le mie gambe non volevano collaborare.
«Beth!» mi spinse a terra, non mi faceva spostare, mi teneva piantata contro il pavimento.
Lo fulminai con lo sguardo e cominciai a dimenarmi. Volevo liberarmi. Avevo bisogno del Dolosiero, mi terrorizzava abbastanza l'idea di finire come Justin, ma prima avrei passato la Mutazione, prima sarebbe finito tutto.
Newt si sarebbe infuriato a morte, aveva già altri problemi per la testa ed ora ci mancava solo quello.
Cominciava a mancarmi il respiro, ad ogni boccata d'aria era come mandare nei polmoni il fuoco vivo. Annaspavo, tossivo, respiravo a fatica... mi sentivo come se stessi per svenire. Non volevo perdere i sensi.
«Lasciami andare!», gridai, continuando a dimenarmi. Cercavo di liberarmi in tutti i modi, cercavo di spingerlo via, ma nulla. Era più forte di me e riusciva a schivare i miei colpi. «Minho, lasciami andare!»
«Beth, ascoltami, caspio!», mi prese i polsi, tirando un sospiro di sollievo nel vedere che era riuscito ad immobilizzare almeno una parte di me. Respiravo con i denti serrati, creando un suono simile ad un ringhio, solo molto affaticato.
«Lasciami andare, devo andare nella Radura prima che sia troppo tardi!»
«Non sei stata punta, Beth, caspio!», disse con un tono fermo.
Corrugai la fronte e scossi la testa. «Ma cosa stai dicendo! Guardami, sono insanguinata, mi fa male ovunque, sto sudando freddo e... e...» Mi guardai le mani. Erano pulite, ma piene di graffi, così come le mie braccia. Graffi superficiali, nulla di troppo profondo.
«Quello era un attacco di panico», disse, poggiando le mani sul mio volto. «È tutto okay, ora torniamo indietro, promesso. Forse avevi ragione: entrare nel Labirinto è stata davvero una pessima idea.»
«Lo fissai negli occhi, schiusi le labbra come per dire qualcosa, ma l'unica cosa che sentivo era un nodo alla gola.
Tremavo, volevo solo tornare nella Radura e dimenticare quell'incubo che stavo vivendo.
Annuii ed abbassai lo sguardo, passandomi le mani sulle guance per asciugarle. Volevo solo sentirmi forte in quel momento, dire che non ero spaventata, ma la verità era che tutto ciò mi stava schiacciando.
Sentivo di avere la responsabilità di quella situazione e non ne capivo il motivo.
«Abbiamo rischiato per nulla», mormorò Minho, spostandomi le mani dalle guance ed accarezzandole con premura per asciugarle meglio. Quel gesto spontaneo che non aveva l'aria di essere fatto come un qualcosa di romantico o simili, ma più con l'affetto di un fratello maggiore verso una sorella. Una sensazione totalmente nuova per me.
In quel momento capii che era il miglior alleato che avessi potuto trovare e l'amico più fidato che potessi avere.
«Non è vero, non è stato inutile. Abbiamo capito che i Dolenti temono qualcosa di ben più pericoloso.»
Ridacchiò e spostò le mani, aiutandomi ad alzarmi. «E questo dovrebbe rassicurarmi? Caspio, nemmeno mi avessi detto che nel Labirinto ci sono delle pecorelle!»
Mi sistemai i vestiti e feci per parlare, ma venni interrotta dal rumore dello sferragliare contro il muro.
No... non di nuovo!, pensai, rivolgendo a Minho un’occhiata terrorizzata.
Lui mi rivolse lo stesso sguardo e mi diede una pacca sulla spalla.
«Okay, penso che sia il caso di muoverci ad uscire!», disse, cominciando a correre.
Notai che il rumore si faceva sempre più forte verso la nostra parte, ma era greve, dava proprio l'idea dello spostamento di un corpo veramente grosso e pesante.
Si sentì un ringhio spaventoso che mi causò i brividi lungo tutto il corpo. Decisi che non era il caso di rimanere lì ulteriormente e cominciai a seguire Minho.

Correvamo così veloci che mi sembrò di aver corso anche di meno rispetto a prima. Minho conosceva veramente bene il Labirinto, correva fluido a differenza mia che tendevo ad inciampare anche nei miei stessi piedi.
«Pensi che Newt si sia accorto della nostra assenza? D'altronde sono sparita all'improvviso... caspio, ci sto pensando solo ora!» Mi poggiai le mani sulla fronte. Che domanda stupida, certo che si era accorto della mia assenza! Ero con lui fino a pochi attimi prima di sparire!
«Non preoccuparti di questo, andiamo... avrà pensato che sei andata a nasconderti da qualche parte per.... non so, per riposarti!»
Sollevai un sopracciglio. «Mi avrà sicuramente cercata in lungo e in largo, Minho...»
Schioccò la lingua e scrollò le spalle, facendo per parlare, ma zittendosi poco dopo e fermandosi davanti all'entrata.
Mancavano pochi passi e saremmo usciti dal Labirinto, poteva esserci un solo motivo perché si fosse fermato così all'improvviso.
Guardai oltre a lui, vedendo Newt con le braccia incrociate ed uno sguardo glaciale rivolto verso di noi.
Chiuse gli occhi per un attimo e fece un respiro profondo, riaprendoli poco dopo e fissandoci.
Si avvicinò e ci indicò entrambi. «Ma che caspio vi è saltato in mente ad entrambi?! Infrangere così le regole! Tu, Liz, che sparisci e non dici nulla! Tu invece brutto testapuzzone di un Pive che la porti nel Labirinto quando sai benissimo che è contro le regole far entrare qualcuno che non sia un Velocista!» Mi fissò. Era infuriato, ma si stava trattenendo. Riuscii a vedere le sfumature di oscurità nei suoi occhi.
L'ho portata nel Labirinto per vedere se almeno lei aveva qualche risposta, è colpa mia, se devi prendertela con qualcuno, prenditela con me», rispose in tutta tranquillità Minho.
Newt annuì e sollevò un sopracciglio. «Certo che me la prendo con te, con chi altro dovrei prendermela?», disse a denti stretti.
«Oh, beh, allora se la metti così prenditela con lei!» Mi indicò e sollevò le braccia verso il cielo.
Né io né Newt spiccicammo parola.
«Dio,, Pive, scherzavo!»
«Mi hai seriamente deluso», sussurrò Newt, guardandomi negli occhi.
Ebbi la sensazione di aver perso un battito. Mi sembrò di sbiancare.
«Newt, io...»
«Mi avevi promesso che non avresti mai messo piede nel Labirinto. Ti avevo chiesto di promettermelo, Liz!»
Minho sbuffò. «Ti ho già detto che è colpa m–»
«Chiudi la bocca Minho!», sbottò Newt, fulminandolo con lo sguardo. «Lasciaci soli!»
«Non penso proprio, ma ti vedi? Sei una belva!»
«Bene, vorrà dire che ci allontaneremo noi.» Mi afferrò il polso e fece per trascinarmi via.
Minho mi prese per l'altro polso, restando fermo dov'era.
«Lasciami andare», sussurrai con un tono smorto. Non volevo litigare ulteriormente, stavo già uno schifo.
Minho mi guardò come per chiedermi se ero sicura di ciò. Gli risposi annuendo, allora mi lasciò andare il polso e rimase fermo tra le Mura mentre io e Newt ci allontanavamo.
Era furioso, lo si capiva anche dal modo in cui camminava.
«Dove andiamo?»
Dove possiamo stare da soli senza che gli altri Radurai rompano per sapere cosa ci stiamo dicendo. Non voglio fare uno show.»
«Nel posto segreto?»
«Nel posto segreto.»

Smantellammo velocemente tutto ciò che nascondeva l'entrata del nascondiglio e ci intrufolammo lì dentro.
Non mi era mai sembrato così tanto claustrofobico come in quel momento.
Sospirai e mi raggomitolai più che potevo, fissando Newt che, nel frattempo, aveva sollevato il ginocchio sinistro e ci aveva poggiato sopra un braccio.
Reggeva il mio sguardo con una serietà da far paura, ed ecco che i miei sensi di colpa aumentarono a dismisura.
Poggiò la fronte contro il braccio e sospirò pesantemente. «Perché caspio sei andata lì dentro, Liz? Ti avevo chiesto di promettermi di non farlo!» Sollevò la fronte e digrignò di nuovo i denti. «Non è difficile da mantenere come promessa! Caspio, è la promessa più semplice che ti potessi chiedere! Non ti ho chiesto di rincaspiarti il cervello per risolvere l'enigma del Labirinto, ma solo di starci lontana!»
«Mi dispiace...»
«E se ti fosse successo qualcosa lì dentro, come avrei fatto? Non sapevo in che punto ti saresti trovata ed in ogni caso sarei arrivato troppo tardi!»
«Sei arrabbiato perché sono entrata o perché non ero con te?»
«Perché sei entrata e perché non mi hai detto niente. Volevi fare una gita dentro il Labirinto con Minho? Dannazione, Liz!»
«Non era una gita! Minho mi ha chiesto di aiutarlo! Non volevo entrare perché volevo mantenere la promessa, ma mi sono lasciata abbindolare perché, insomma, lui per me c'è sempre stato! Per una volta che mi ha chiesto un favore non potevo tirarmi indietro!»
«Oh, certo, quindi giustamente tralasci la promessa che hai fatto a me. Mi pare giusto! Più che giusto!» Si passò le mani tra i capelli, mordendosi nervosamente il labbro inferiore.
Sentii una fitta al petto, mi sentivo in colpa. Dannatamente in colpa. «Dimmi una cosa. Voglio sentire la verità.»
«Dimmi...»
«Perché sei andata nel Labirinto, Liz?» Mi guardò, passandosi di nuovo la mano tra i capelli.
«Te l'ho già detto, Newt», sospirai, chiudendo gli occhi.
«Non è magari ci sei andata perché... beh... volevi un po' di privacy con Minho?»
Riaprii gli occhi e li feci ruotare verso l'alto. «Ma figurati!»
Mi fissò e annuì, abbassando lo sguardo. «Okay», e senza aggiungere altro, liberò il passaggio ed uscì dal nascondiglio.
Non disse nulla. Non spiccicò una singola parola in più. Nulla.
Mi guardai attorno. Quel nascondiglio era vuoto. Silenzioso. Un po' come mi sentivo io in quel momento.

Andai a prendere il cibo che avevo messo da parte e, accompagnata da Minho – che nel tragitto si era fatto raccontare in sintesi ciò che era successo nella mia breve ma intensa discussione con Newt –, andai a portare il cibo a George.
Non ero dell'umore per stare fuori. Volevo stare sola, ma non volevo stare sola.
«Vedrai che gli passerà, deve solo metabolizzare la cosa», disse Minho, cercando di rassicurarmi. «Conosco Newt, si preoccupa per tutti anche se non lo da a vedere. Dovrebbe, metterebbe in mostra la parte migliore di lui. È piuttosto chiuso in sé stesso, purtroppo.»
«Non lo è con me... ma penso di essermi giocata questo privilegio.»
«Non dire rincaspiaggini, non è vero, è solo preoccupato per te.» Scrollò le spalle, fermandosi appena raggiungemmo la Gattabuia.
Mi avvicinai lentamente e bussai alle grate. «George? Ti ho portato il cibo», dissi, vedendo i suoi occhi azzurri attraverso la debole luce della torcia accanto alla Gattabuia.
«Era ora!», sbottò secco. Gli passai il cibo e sospirai. «Che hai adesso, stupida Fagiolina?»
«E che t'importa, ingozzati e strozzati, rincaspiato del caspio», rispose Minho al posto mio, sdraiandosi sul prato.
George grugnì, cominciando a mangiare con gusto. Mi chiedevo come facesse a mangiar quella roba fredda, ma pensai che probabilmente anche io avrei mangiato in quel modo se fossi rimasta a digiuno per tutto quel tempo.
«Nulla di che, non preoccuparti, è una giornata un po' così.»
«L'hai combinata grossa, mh? Scommetto che sotto sotto ti arrovelli ancora il cervello per cercare di capire chi ha creato i Dolenti. Vuoi una risposta a questa domanda?»
Fissai i suoi occhi. Erano così chiari che quasi riuscivo a vedere il mio riflesso. Mi ero dimenticata di quella domanda, finalmente mi aveva dato pace, ma ora che l'aveva nominata di nuovo... eccola lì.
Annuii, schiudendo le labbra. «Me la daresti davvero?» Non mi fidavo ad essere sincera, ma per qualche strano motivo mi sentivo incuriosita.
Lui annuì, scuotendo il cibo che gli avevo portato. «Beh, sotto sotto, è il minimo che posso fare per ringraziarti di questo.»
Guardai Minho con la coda dell'occhio. Fissava il cielo, ma stava ascoltando la nostra conversazione, infatti aveva sollevato un sopracciglio a quella proposta.
«Okay.»
«Bene, avvicinati», disse George con calma, «non voglio che gli altri sentano questa cosa. Voglio che sia un segreto tra me e te, Fagio». Il suo tono era sorprendentemente calmo e tranquillo, quasi ispirava sicurezza, ma allo stesso tempo metteva i brividi.
«Attento a ciò che fai, Pive», disse Minho, mettendosi seduto.
Mi avvicinai alle sbarre. Il mio volto era vicino al suo, riuscivo a sentire l'odoraccio di quel posto, mi dava il voltastomaco, dovevo ammetterlo.
George allungò una mano e prese il mio volto. Mi fissò negli occhi, contrasse la mascella e accennò un sorriso.
Cercai di stare calma. Il massimo che poteva fare era darmi una testata... non che la cosa mi facesse piacere, ma era sempre meglio di una pugnalata.
«Preferisco che sia tu a ricordare. È stato doloroso ricordare certe cose, Elizabeth. Davvero, davvero doloroso. Credimi. Dovrai soffrire come ho sofferto io, se vuoi ricordare qualcosa. Ti darò un piccolo assaggio di ciò che potresti ricordare. Hai mai sentito parlare del Bacio della Morte?» Avvicinò di più le labbra alle mie. «Beh, ti darò un assaggio di cos'è.»
Sgranai gli occhi, e pochi attimi dopo, le sue labbra incontrarono le mie. Un bacio a fior di labbra che, per mia fortuna, durò poco. Non so chi dei due era più disgustato da ciò. Mi allontanai velocemente dalla Gattabuia e mi passai una mano sulle labbra.
«Ma che caspio ti è preso?!», sbraitai, sentendolo ridere.
«Non ricordi nulla di qualcosa chiamato il Bacio della Morte? Uhm, strano. Ma chissà, magari dopo questa sorta di bacio, litigherai con Newt. Qualcosa almeno l'avremo ottenuta!» Scoppiò a ridere.
Minho sollevò un sopracciglio e mi guardò, mentre mi pulivo le labbra per l'ennesima volta. «E tu continui anche a dargli da mangiare?»




 

{L'angolo dell'autrice}
Salve pive!
Ringrazio per quelli che recensiscono ancora qui su EFP, mi spiace solo non riuscire ad aggiornare ogni settimana come prima, ma Ahimé, ma scuola non mi da tregua e non mi da la possibilità di farlo, per quanto ci siano le buone intenzioni.
A
mmetto che è una cosa che detesto, perché io ADORO scrivere e mi dispiace lasciarvi così tanta attesa :/
Cerco comunque di impegnarmi per fare in modo che l'attesa ne valga la pena!
A presto!
Licenza Creative Commons
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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***






Cominciai a pensare seriamente che quello che stavo vivendo fosse solo un incubo e nulla di più. Era possibile? Forse sì. Doveva essere così per forza e presto mi sarei svegliata.
Mi sentivo abbandonata a me stessa anche se non lo ero. Mi sentivo vulnerabile e sull'orlo di un filo di seta pronto a spezzarsi da un momento all'altro. Rimaneva solo da scoprire da che parte sarei caduta e come, consapevole, tutto sommato, che mi sarei fatta male sia in un modo che nell'altro.
Non credevo che una persona potesse provare così tante cose. Sentivo che presto o tardi la mia testa sarebbe esplosa.
Newt era furioso, o forse semplicemente deluso da me. O magari entrambe le cose. E chi lo sapeva? D'altronde aveva deciso che non rivolgermi la parola fosse la cosa migliore. Gli sarebbe mai passata?
Non mi rivolgeva nemmeno lo sguardo, neanche per sbaglio, a stento mi indirizzava un “Ciao” sussurrato, ma come se stesse sputando veleno nel farlo.
Qualcuno gli aveva detto del bacio di George. Non capivo perché mi facessero questo... ma sopratutto, non capivo chi ci avesse visto. O meglio... chi avesse visto George baciarmi. Io ero innocente... giusto?
Non avevo ricambiato il bacio (e non avrei mai fatto. Mai!).
C'era solo Minho presente, e di certo non era stato lui a dirlo.
Probabilmente, era passato qualcuno non me n'ero nemmeno resa conto. Non ne avevo la benché minima idea. Volevo solo svegliarmi da quell'incubo.
Poggiai le mani sulle tempie e cominciai a premerle, sospirando rumorosamente. Volevo solo sdraiarmi da qualche parte e stare sola. Volevo spegnere il cervello, non volevo pensare.
«È tutto okay?», domandò Chuck, mandando giù un boccone del panino che aveva tra le mani. Era più grande della sua testa.
Il piccolo Chuck, sempre all'erta nei miei confronti. Forse l'unico che in quel momento era riuscito ad avvicinarsi senza correre il rischio che gli staccassi un dito per il nervoso.
Annuii, non volendolo far preoccupare per colpa dei miei intrugli mentali. Lui doveva star fuori da quella storia, non doveva entrarci in alcun modo. Chuck era comunque come il mio fratellino minore, avrei fatto qualsiasi cosa per tenerlo al sicuro, anche dai miei pensieri piuttosto negativi.
Ripresi a mescolare il minestrone che avevo davanti, controllando che non si attaccasse alla pentola. «È tutto okay, ho solo mal di testa», mormorai con fare distaccato. Frypan mi aveva dato un solo compito quel giorno. Uno solo. Avevo intenzione di non deluderlo.
«Perché caspio mi menti in questo modo? Elizabeth, sarò anche più piccolo di te ma non sono così rincaspiato da non capire quando qualcosa non va!»
«Chuck, sto bene, sul serio!»
«Sì, certo, ed io sono un bel figurino di diciotto anni!» Si poggiò le mani sui fianchi e corrucciò le labbra, facendomi scappare una risata. Il suo visino tondeggiante divenne ancora più rotondo in quel modo.
«Davvero, Chucky, sto bene» Poggiai le mani sulla sua testa, scompigliandogli i capelli ed incasinandoli un po'. «Dopo una bella dormita sarà di nuovo tutto okay. Promesso!»
«È vero che hai baciato George?», domandò, addentando di nuovo il panino e guardandomi incuriosito.
Trasalii, concentrandomi di nuovo sul minestrone. «No. Lui ha baciato me, io non l'ho fatto.»
«Quindi Newt è arrabbiato con te per questo caspio di motivo?» Si grattò la fronte, masticando in modo abbastanza rumoroso.
Annuii, e lui sospirò dopo aver ingoiato il boccone. «Non voglio mai avere una ragazza, se comporta tutti questi rincaspiamenti mentali», borbottò.
Frypan entrò nella Cucina, poggiò uno straccio a terra e cominciò a pulire (forse l'aveva già fatto venti volte nel giro di una giornata). «Inutile, queste caspio di macchie non vanno via!», borbottò, strofinando lo straccio contro il pavimento sotto il tavolo. «Avrò strofinato lo straccio non so quante volte!»«Cosa sono quelle macchie?», domandai, avvicinandomi lentamente a lui e chinandomi per osservarle meglio. Non le avevo notate prima di allora. Erano piccole, tutte a forma di... sole.
Corrugai la fronte e alzai lo sguardo verso Frypan, concentrato nel cercare di smacchiare il suo adorato pavimento. Mi sembrava quasi di vederlo sudare tanto sfregava forte, rischiando anche di staccare il legno da terra. Teneva la lingua tra le labbra e gli occhi socchiusi.
«Non lo so, Fagio, ma non vanno via. È da ieri che sono qui! Poi hanno una caspio di consistenza strana e, non so se l'hai notato, ma puzzano da morire!»
«A me sembra quasi sangue.»
«Non penso sia sangue... voglio dire, non vedi che più passo lo straccio più questo coso, qualsiasi cosa sia, sembra insinuarsi nel legno? Caspio è odioso!», brontolò, lanciando lo straccio contro il pavimento con fare disperato. «Ho provato a metterci l'acqua calda, poi quella sorta di detersivo, poi del limone... mi manca solo di cercare di farci la pipì sopra!»
«Ew, ti prego, non provarci nemmeno!» Assunsi un'espressione disgustata, rimettendomi in piedi.
Chuck diede un finto colpo di tosse, salutò con la mano e corse fuori ancor prima che Frypan potesse ufficialmente metabolizzare il fatto che fosse in Cucina. Non voleva che entrasse, temeva che mangiasse tutto ciò che c’era nella dispensa (cosa impossibile e alquanto crudele da pensare).
«Hai sentito di quello strano animale che ieri è comparso nella Radura?», chiese Frypan, raccogliendo lo straccio e portandolo al lavandino per pulirlo.
«Che strano animale?»
Scrollò le spalle. «Non l'ho visto, ma da come l'ha descritto Winston, sembrava una Scacertola. È sgusciata fuori dalla stanza dove si trova Justin ed è corsa via velocissima.» Scrollò di nuovo le spalle, come se fosse percorso da un brivido lungo la schiena, poi scosse la testa e schioccò la lingua. «Qualsiasi cosa fosse, spero vivamente di non trovarmelo mai davanti. Giuro su ciò che vuoi che, se mai dovesse presentarsi qui, gli tirerò contro una padella!»
Un animale simile ad una Scacertola? Da come le avevo viste non potevo nemmeno considerarle animali. Tutto quel metallo, quel rumore di ingranaggi quando camminavano... potevano essere degli esperimenti perfettamente riusciti, magari animali modificati o... non ne avevo la benché minima idea, ma lo scoop del giorno non riguardava di certo un “Cosa sono le Scacertole?”.
«Beh, che ha fatto di tanto eclatante questo strano animale? È pericoloso?», domandai, sistemando i capelli sulla spalla.
Frypan rimase in silenzio, girandosi poi lentamente verso di me come se gli avessi fatto la domanda del secolo. «Non lo so... vorremmo saperlo tutti.»

Temo libero, e che si poteva fare di bello?
Niente. Appunto.
Una passeggiata per sgranchirmi le gambe ed evitare di pensare ulteriormente a quanto fossi stata stupida a mettere piede nel Labirinto. Eppure dov'ero diretta? Ma chiaramente nel posto più allegro della Radura.
Le Faccemorte.
Ormai conoscevo praticamente a memoria la strada per arrivarci, e per quanto fosse inquietante come posto, era il più tranquillo. Circondato da un odorino poco piacevole, ma comunque il più tranquillo.
Cominciai a guardare tutti quei morti, le loro croci fatte con dei legni legati tra di loro. Provai ad immaginare le loro facce, come potevano essere morti. Avevano sofferto? Avevano avuto anche un solo straccio di amico o un qualsiasi legame? Cosa ricordavano? Cosa potevano sapere di loro stessi? Non era per niente allegro. Mi vennero i brividi al sol pensiero di quello che potevano aver passato...
Sorrisi amaramente perché, a pensarci bene, io ero chiusa in quelle quattro mura che contenevano quel luogo chiamato Radura. Sì, era un bel posto, ma era circondato da una prigione apparentemente senza via d'uscita. Cosa ci poteva essere di peggio?
Ebbi un improvvisa voglia di correre, volevo scappare da quel posto, sarei stata disposta a entrare di nuovo nel Labirinto se fosse servito ad aiutare tutti quanti a fuggire.
Fu come se all'improvviso non controllassi più i miei movimenti. Dovevo correre. Dovevo muovermi.
Non riuscivo quasi a pensare, eppure era come se sapessi bene cosa fare. Era qualcosa che sapevo benissimo. Era come se stessi leggendo degli ordini, quasi riuscissi a vedere quelle parole davanti a me.
Cercalo. Trovalo. Non è lontano. Lo sai meglio di chiunque altro.
Nella mia testa turbinavano queste parole, ma non erano pensieri, erano quasi ricordi. Riuscivo a sentire chiaramente la voce di una donna nella mia testa, come se mi volesse indicare qualcosa.
Toccai gli alberi attorno a me. Tutti. Uno ad uno. Sembrava quasi che il mio tocco ne analizzasse la corteccia solo toccandola. Fredda, ruvida, un pochino rovinata.
Camminavo. Correvo. Mi giravo a destra e a sinistra, finché non mi fermai davanti ad un albero dalla corteccia grossissima.
Cominciai a grattarla via con fare frenetico. Dovevo levarla tutta, o almeno, dovevo toglierla dal punto in cui la stavo toccando. Non sapevo il perché, ma sapevo che era importante. Continuai a raschiarla via, sentivo il legno incastrarsi sotto le mie unghie e tagliarmi. Faceva male, ma non riuscivo a smettere di grattare via la corteccia. Era come se non controllassi le mie mani, facevano come volevano loro. Mi fermai solo una volta che ebbi visto ciò che c'era sotto la corteccia.
Il legno era scavato, il tronco era... vuoto. O meglio, non c'era più legno, ma era un posto completamente elettrico con un piccolo spazio cilindrico al centro pieno di fili colorati.
Doveva essere stato il rifugio di qualcosa... o forse lo era ancora. Che fosse come un caricabatterie? Ma di cosa?
Quell'albero era unico o ce n'erano altri simili? Qualcuno si era già accorto prima di un albero del genere?
Rimasi a fissare quel buco, cercando di cogliere quanti più dettagli possibile. Sentivo che era un particolare importante, dovevo dirlo ad Alby o... a Newt.
Okay, anche se fossi andata da loro dicendo “Ehi, guardate qui”, mi resi conto che effettivamente non avrei saputo cos’altro aggiungere... perché non avevo la benché minima idea di cosa fosse.
Sospirai, girandomi e facendo qualche passo per andare via, ma dovetti fermarmi.
Solo in quel momento mi resi conto che mi trovavo a pochi passi dall'entrata del nascondiglio, e mi accorsi anche che l'ingresso era praticamente esposto.
Corrugai la fronte e mi misi a gattoni, spostando quei pochi rami che intralciavano il passaggio ed entrando nel nascondiglio. Piano piano, perché, per qualche strano motivo, non volevo fare troppo rumore.
«Oh, wow, perfetto, che ci fai qui?», sbottò Newt infastidito.
Trasalii, ma decisi di rimanere lì e di non uscire, sistemando l'entrata del nascondiglio. Mi sedetti davanti a lui, guardandolo e cercando di studiare la fisionomia del suo viso, sperando che in qualche modo non celasse odio o risentimento. Con mia grande sorpresa, non c'erano questi due sentimenti... non in modo prevalente almeno.
I suoi occhi erano rossi e lucidi, come se fino a pochi attimi prima avesse pianto... e l'idea che potesse averlo fatto non mi rendeva per niente felice. Quasi avrei preferito che fosse furioso con me.
«Che ci fai qui tutto solo?», domandai, cercando di smorzare un po' quella situazione tesa e pesante.
Lui sollevò un sopracciglio, scuotendo la bottiglia di vetro mezza vuota che teneva in mano. «Secondo te? Sono venuto qui perché volevo stare da solo a prendermi una bella sbronza, ma qualcuno ha rovinato il mio momento di meritata solitudine», disse a denti stretti, poggiando la testa contro la superficie alle sue spalle e chiudendo gli occhi.
«Quindi sei sbronzo?», domandai, stringendomi le gambe contro il petto.
Scosse la testa e sbuffò, poggiando la bottiglia accanto a lui. «Magari. Questo schifo mi ha a stento dissetato, di certo non mi ha fatto sbronzare. È alquanto acido a dire il vero. Una delle sbobbe di Frypan.» Schioccò rumorosamente la lingua contro il palato. «Ma devo ammettere che è migliore delle altre.»
«Bene così», mormorai, poggiando la fronte contro le braccia. «Immagino che tu non abbia voglia di parlare, giusto?»
«Già.» Sospirò e aprì gli occhi, portando lo sguardo verso di me. «Anche perché, di cosa vorresti parlare? Del modo in cui hai deliberatamente infranto la promessa, di quanto cibo portavi di nascosto a George o di quanto quest'ultimo baci bene?» Fece spallucce. «Perché non voglio sentire né una storia né l'altra. Non mi interessa più. Questo è quello che ho deciso nei miei attimi di solitudine passati in questo buco.»
Sentendolo bene, mentre parlava, aveva un tono un po'... sbronzo. Forse non lo era del tutto, aveva abbastanza lucidità da capire cosa gli succedeva attorno e da ragionare, ma forse se avesse continuato a bere... beh, non importava.
Sospirai e cominciai a gattonare verso la sua direzione, notando la sua espressione ben poco felice della cosa. Alzò le mani, come a volersi riparare da me, scuotendo la testa. «Non provare ad accoccolarti contro di me perché giuro che potrei arrabbiarmi seriamente», disse a denti stretti.
Mi fermai e presi le sue mani, scuotendo la testa. «Smettila di fare così, caspio! Secondo te mi prende così la voglia improvvisa di baciare George dopo che ha cercato di strozzarmi ben due volte?»
Corrucciò le labbra ed abbassò lo sguardo, facendo spallucce. Ora, seriamente, sembrava un bambino.
«Ragiona, per fortuna il cervello ti funziona! E poi, è stato solo un bacio, mica ci ho fatto l'amore!»
«Perché c'erano le sbarre a separarvi. Per quanto ne so, sareste potuti anche andare oltre e non mi avresti detto niente», brontolò, senza nemmeno incrociare il mio sguardo. Evitava il contatto visivo.
Schiusi le labbra e strinsi le sue mani anche se notavo che avrebbe voluto seriamente lasciare andare la presa. «Ti fidi così poco di me? Non farei mai l'amore con lui, razza di rincaspiato che non sei altro!»
Sembrò quasi trasalire, tornò più indietro con la schiena fino a poggiarsi completamente sulla superficie alle sue spalle, sospirando rumorosamente.
«È stato solo un bacio, che oltretutto si è preso di sua volontà, io non ho nemmeno ricambiato. Mi spieghi perché mai avrei dovuto farlo?»
«Magari hai visto la parte buona che c'è in lui, non so», sussurrò, come se avesse paura di rispondere. «Hai questa particolarità di vedere il lato positivo di tutto e tutti.»
«Lo vedo solo se c'è, Newt. George ce l'ha, ma questo non mi spinge a baciare uno come lui. E per quanto riguarda quel dannato Labirinto, sono entrata lì solo perché Minho aveva bisogno del mio aiuto. Per il cibo... beh, sono una stupida e perché... non lo so. Forse, in qualche modo, pensavo che facendo qualche atto buono potessi redimermi ai suoi occhi.»
Chiuse di nuovo gli occhi, girando lentamente il volto nella mia direzione. Fece un respiro profondo e portò le mani tra i capelli, stringendole. «Senti, Liz, non mi interessa più, okay? Sono nervoso, voglio solo riposarmi e non pensare a niente di tutto questo per una volta nella mia dannata esistenza.»
«Voglio solo chiarire con te, maledizione! Non voglio che tu mi tenga in muso per il resto della tua vita per una stupidaggine del genere!»
Riaprì gli occhi e sollevò lo sguardo al soffitto, sbuffando rumorosamente. «Finiscila, quando capirai che mi preoccupo e basta?» E, finalmente, mi guardò. Prese la bottiglia e la portò alle labbra, bevendone un sorso e, allo stesso tempo, assumendo un espressione quasi disgustata. La poggiò e si slanciò in avanti, portando il viso a pochi centimetri dal mio.
«Sei troppo ingenua per stare in un posto come questo, Elizabeth, devi capirlo. Okay, forse sarò esagerato con le mie pessime sfuriate da rincaspiato, ma avrò anche io il diritto di sfogarmi ogni tanto. So com'è fatto il Labirinto, per questo ti avevo chiesto di promettermi di non andarci mai, ed invece l'hai fatto. Quella di George, onestamente, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.»
Picchiettò piano l'indice sulla mia tempia, arricciando il naso. «Stupida, ingenua, Fagiolina. Apri gli occhi sulla Radura che ti circonda. Sono pochi i Radurai sui quali puoi contare veramente. Facciamo così, ti perdono solo che stavolta mi prometti seriamente che non farai più ciò che hai fatto. Intendo entrare nel Labirinto e fidarti di quel rincaspiato chiuso nella Gattabuia.»
Annuii, gattonando ancora verso di lui, costringendolo così a tornare con la schiena contro la superficie alle sue spalle.
Mi sedetti sulle sue gambe, legando le mie dietro la sua schiena. «Prometto che non metterò più piede lì dentro. Te lo giuro. E poi non voglio rischiare di morire un'altra volta. In un mese ho già rischiato qualcosa come quattro volte», brontolai, sentendolo sospirare e poggiare le sue labbra sulla mia fronte.
«Aspetta... cosa?»
«I Dolenti ci hanno accerchiato... non abbiamo capito come neutralizzarli o cose così, ma abbiamo scoperto che c'è qualcosa di ben più pericoloso che temono anche loro e che li ha fatti fuggire.» Sollevai un po' di più la manica della mia maglietta, mostrandogli il braccio pieno di quei piccoli taglietti superficiali. «Vedi? Quando ci hanno accerchiati siamo fuggiti passando attraverso un piccolo spiraglio tra due Dolenti e, beh, credevo mi avessero punta. Ho avuto una piccola crisi di panico infatti, ma è passata dopo un po' e... perché quella faccia?»
Mentre parlavo, la sua espressione si era fatta gelida, oltre ad essere sbiancato di tre toni.
«Nulla», rispose con un tono secco. «Ma credo che appena usciremo da qui andrò a spaccare un tavolo in fronte a Minho. Così, tanto per complimentarmi delle sue idee geniali.»
Sospirai rumorosamente e scossi la testa, ridendo, anche se la sua espressione non era per niente scherzosa. Al contrario, era serio come non mai.
Alla fine, però, sorrise. Forse aveva deciso che ormai, essendo cosa passata, poteva guardarla come una cosa di poco conto... o forse, semplicemente, aveva deciso che prenderla con leggerezza fosse la cosa migliore da fare?
Poggiò le mani sui miei fianchi e fece un respiro profondo, cancellando quel sorriso dalle labbra, sostituendolo con un’espressione preoccupata. «Non voglio che ti accada qualcosa di male.»
«Non mi accadrà nulla di male, tranquillo. Sarò buonissima, non farò più nulla di azzardato. Te lo prometto.»
«Lo spero.» Mi accarezzò con delicatezza il viso. «E farò in modo che sia così», mormorò, chiudendo gli occhi e riaprendoli pochi istanti dopo.
Il suo viso era veramente poco distante dal mio, ed era quasi come se, attraverso i suoi occhi, riuscissi a vedere la sua anima che batteva i pugni per cercare di incontrare la mia. D'altronde, gli occhi non erano forse lo specchio dell'anima?
Le sue labbra, così appetibili, erano come calamite per le mie, attratte nonostante la distanza.
«Ricordi la volta che tu e George vi siete messi le mani addosso?», domandai, e per un attimo pensai di aver rovinato quel momento. Invece, Newt non si mosse di un centimetro, guardando prima le mie labbra, poi i miei occhi. Si limitò ad annuire, senza spiccicare parola.
«Gli hai sussurrato qualcosa... cos'era?»
«Che se avesse provato a toccarti di nuovo, avrebbe dormito con i Dolenti. O l'avrei ucciso. E che in entrambi i casi sarei stato più che felice di farlo con le mie stesse mani» Passò la mano lungo la mia schiena, seguendo perfettamente la mia spina dorale. Mi causò i brividi di piacere, accennando un sorriso. «Sei la mia luce in questo regno di ombre, nessuno deve toccarti, caspio», mormorò infine.
Poi, finalmente, le nostre labbra si incontrarono.
Stavolta era diverso. Non era come il primo, non era un bacio semplice, era qualcosa di più... desiderato. Non sapevo perché stavolta fosse differente, ma non mi tirai indietro. Non volevo farlo.
Era come se ne avessimo bisogno per sopravvivere, quasi come se non ci vedessimo da troppo tempo.
Non so come o quando, ma lentamente il bacio diventava sempre più inteso, ricercato. A stento ci staccavamo per riprendere fiato. Una vera e propria assuefazione mia dalle sue labbra e sua dalle mie, ed ero sicura di non aver mai provato una sensazione del genere prima di quel momento.
Fece scorrere le mani lungo la mia schiena, ancora una volta, per poi fermarsi al bordo della mia maglietta. Esitò un secondo prima di sollevarla lentamente, sfiorando così la mia pelle nuda.
Lo lasciai fare senza staccarmi dalle sue labbra... o meglio, facendolo solo per un attimo per permettergli di sfilarmi la maglietta, cosa che, presa dalla foga, feci a mia volta, così da poter tornare sulle sue labbra il prima possibile. Non volevo abbandonarle, non volevo starne lontana per così troppo tempo. Avevo bisogno di sentirne il sapore.
E poi, dovevo fare tutto abbastanza velocemente, prima che la mia parte timida prendesse il sopravvento.
Spostò le mani sul bordo dei miei pantaloni, ed allora sì che si staccò dalle mie labbra. Mi guardò negli occhi per pochi attimi, come se stesse scegliendo accuratamente le cose da fare. Non sembrava per niente a disagio o cose simili. Cominciò a slacciarmi i pantaloni e ci mise davvero poco tempo, come se fosse una cosa che faceva ogni giorno.
Avere i suoi occhi piantati nei miei, in quel momento, era... strano.
Scrutò il mio corpo lentamente, passandosi la lingua sulle labbra. Inclinò la testa quasi incuriosito, passando l'indice lungo il mio reggiseno. Scosse la testa ed accennò un sorrisetto, baciandomi delicatamente le guance, scendendo poi verso il collo.
Sul serio, sembrava così sicuro di sé da farmi passare ogni sorta di timidezza e insicurezza.
Feci leva sulle ginocchia e lui ne approfittò per abbassarmi i pantaloni, seguiti poco dopo dagli slip.
Portai le mani sui suoi pantaloni, sentendolo sussultare, ma rimase fermo con le labbra sul mio collo. Lasciava dei baci delicati, che sinceramente mi distraevano abbastanza. Riuscivo veramente poco a rimare lucida su ciò che stavo facendo.
Pensai di averci messo più del dovuto a slacciargli i pantaloni, ma forse non era così. Non avevo un limite di tempo, e lo sentivo lento, lentissimo, come se quell'istante fosse destinato a durare per sempre.
Si sollevò leggermente per permettermi di abbassargli quanto bastava i pantaloni, poi i boxer, e si sistemò meglio, con me sulle gambe. Spostò le labbra dal mio collo, poggiando la fronte contro la mia. Solo in quel momento mi resi conto che i nostri respiri erano pesanti e si intrecciavano.
Poggiai le mani dietro il suo collo, facendone salire una tra i suoi capelli. Mi strinsi a lui, i nostri corpi sembravano essere fatti apposta per stare uniti. Era come se non ci fosse un solo suono nei dintorni, se non quello dei nostri respiri. Riuscivo a sentire anche il nostro cuore che batteva come uno solo.
Tornò sul mio collo e cominciò a lasciarvi dei leggeri morsi, senza premere troppo con i denti, forse per paura di farmi male. Ma ero così su di giri che quello era proprio l'ultimo dei miei pensieri.
Mi accarezzava i fianchi con delicatezza, spingendo lentamente il mio bacino verso il suo e premendolo appena, causandomi un fremito.
«Liz?», mormorò contro il mio collo. La sua voce era quasi soffocata dal suo ansimare.
«Mh?», risposi semplicemente, non essendo in grado di esprimermi in modo differente.
«È tutto okay?», domandò con un tono leggermente preoccupato. Per quanto sembrasse sicuro di sé, si preoccupava davvero per me anche in quella situazione?
Annuii, stringendomi di più a lui.
«Bene così... se ti faccio male, dimmelo», mormorò infine, riprendendo a marchiarmi con quella striscia umida di baci, fino alle labbra. Fece leggermente leva sui miei fianchi, avvicinandomi di più a lui. Tirò il mio labbro inferiore con i denti, riprendendo a baciarmi poco dopo.
Bacio che accolsi più che volentieri, stringendo delicatamente i suoi capelli con la mano, mentre l'altra scese lungo la sua schiena.
Le sue mani accarezzarono le mie cosce, percorrendole lentamente e causandomi i brividi. Ovunque mi toccasse, era quello l'effetto ottenuto. Brividi e fremiti.
Sentii una leggera pressione nel momento in cui i nostri corpi si unirono, lasciandomi sfuggire un gemito soffocato solo dalle sue labbra. Strinsi le mani a pugno pur di non fargli male. Non mi aspettavo quel dolore improvviso, anche se aveva cercato di essere il più delicato possibile.
«Scusami...», sussurrò contro le mie labbra, ansimando. Spostò una mano dalle mie cosce, facendola salire lungo la mia schiena, fino al reggiseno. Dovetti spostare le braccia dal suo corpo per farmelo sfilare, ma ve le rimisi subito dopo.
Prese a muoversi lentamente, cercando di farmi abituare a quella nuova sensazione. Perché, sì, era nuova per me. Se prima avevo avuto qualche dubbio, nel momento in cui diventammo una cosa sola ne ebbi la certezza.
Non mi sembrava nemmeno di essere in me, eravamo un’unica cosa, uniti da mille sensazioni vissute tutte insieme. Lontani da tutti, lontani da tutto. Non importava più niente di ciò che era successo negli ultimi giorni, era tutto troppo distante da noi. In quel momento esistevamo solo io e lui, tra ansimi e gemiti soffocati per evitare di fare anche il minimo rumore.
Le mie guance erano così arrossate che temevo di andare a fuoco da un momento all'altro, non riuscivo nemmeno a pensare ad una singola cosa che non fosse l'attimo che stavo vivendo, ed era forse la sensazione più bella che potessi vivere.
Il suo tocco, il suo respiro, il suo dolce ansimare sulle mie guance e sulle mie labbra... c'era forse un suono più dolce di quello? Se c'era, non l'avevo mai sentito. Ma ero piuttosto certa che nulla sarebbe stato migliore di tutto ciò.
Presi piano piano confidenza col suo corpo, con quella nuova sensazione. Sperai che non finisse mai, perché finalmente c'era la pace che tanto avevamo sperato di trovare.

Non avevo la benché minima idea di quanto tempo fosse passato, perché erano sembrati attimi infiniti. Sapevo solo che, una volta finito tutto, ci eravamo ritrovati accoccolati come mai era successo prima di quel momento. Il suo tocco sui miei capelli era così delicato da farmi venire quasi la sonnolenza, tanto ero rilassata.
Per non parlare della sensazione della mia pelle contro la sua, che era quasi una cosa unica. Unite come non mai prima d'ora. Eravamo sudati e la cosa non m'interessava minimamente. Non era fastidioso, era la conseguenza di... beh... di aver fatto l'amore. A stento riuscivo a crederci, suonava così strano.
Per quanto non avessi ricordi del mio passato, una buona parte di me sapeva benissimo che quella era la prima volta che provavo così tante cose per una persona. E ormai non avevo più paura di quella sensazione. Non dopo aver capito chi avevo al mio fianco. Forse la persona più meravigliosa che potessi mai incontrare
Il suo respiro era così leggero e caldo a farmi venire i brividi lungo la schiena, mentre le sue carezze continuavano ad essere così delicate da riuscire in qualche modo ad esprimere la pace che provava in quell'istante, finalmente, dopo tanto tempo che l’aveva chiesta e desiderata così ardentemente.
E poi esprimevano... affetto. Il bisogno di dare e ricevere affetto. Lo sentii ridacchiare per un attimo, depositando un bacio sulla mia nuca poco dopo.
Corrugai la fronte e sollevai lo sguardo, sorridendo dopo qualche istante. «Perché ridi?»
«Nulla, ho pensato ad una cosa assurda, non preoccuparti», disse, spostando una mano sul mio volto, accarezzandolo lentamente. «Magari è l'alcool che comincia a farsi sentire. Finalmente, caspio, meglio tardi che mai!»
Il sorriso lentamente svanì dal mio volto. Non mi faceva impazzire l'idea che ciò che avevamo fatto fosse solo una conseguenza dovuta ad un imminente stato di ubriachezza. O peggio, al suo non essere sobrio al cento per cento...
Feci un respiro profondo e cercai di mantenere un sorrisetto appena accennato, così almeno non gli avrei fatto notare il mio improvviso sbalzo d'umore. Se era vero che l'effetto dell'alcool stava cominciando a farsi avanti, se si fosse accorto del mio sbalzo d'umore e avessi dovuto spiegargli cosa avevo, magari non l’avrebbe presa bene e quella pace si sarebbe placata.
Abbassai leggermente il volto, fissai la cicatrice che aveva sul petto. Prima non ci avevo fatto caso, forse la mia vista era troppo appannata per soffermarsi a simili dettagli. Eppure era ancora lì ed era ben visibile.
La sfiorai lentamente, provocando un sussulto da parte sua. Il secondo in quella giornata. Forse era sorpreso, o magari la mia mano era fredda. Ne seguii la forma con l'indice. Per quanto si fosse ristretta rispetto a prima, era ancora piuttosto pronunciata. Il suo colore era rossastro, gran parte della pelle si era rimarginata, ma la parte più profonda era ancora lì.
«Forza, andiamo dagli altri prima che si accorgano della nostra assenza... siamo stati via parecchio tempo», disse, spezzando il silenzio.
Spostai la mano ed annuii. Forse era il caso, d'altronde dovevo andare in Cucina. Non volevo approfittare ulteriormente dell'enorme pazienza che Frypan stava dimostrando nei miei confronti.

Newt mi accompagnò fino alla Cucina e per tutto il tragitto non fece altro che controllare che i miei abiti fossero a posto. Anche dopo aver varcato la soglia della Cucina, ma per fortuna una volta lì il suo primo pensiero fu quello di nascondere la bottiglia quasi vuota.
Prima di metterla nella dispensa, però, bevve l'ultimo sorso che era rimasto.
Mi preoccupai. D'altronde non era già abbastanza sobrio, in più, dopo quel goccio, probabilmente di lì a poco sarebbe stato ufficialmente sbronzo.
Fortuna che evidentemente non era così tanto alcolico da potergli fare male e che la bottiglia, d'altronde, non era nemmeno così tanto grande.
Si passò la lingua sulle labbra e mi guardò, corrugando la fronte quando notò la mia espressione. «Che c'è?», chiese, appunto.
«Credevo che ti facesse un po' schifo, invece l'hai bevuta tutta...»
Scrollò le spalle, cominciando a cercare negli scaffali della Cucina qualcosa da mangiare. «Beh, non era esattamente un dannato succo di frutta alla pesca. Per fare schifo fa schifo, ma dopo un po' diciamo che diventa abbastanza bevibile... e mi dispiaceva lasciare quell'ultimo goccio, quindi...»
«Bene così...», sospirai, girandomi verso i fornelli. C'era una pentola con del brodino già pronto, ma da scaldare. Frypan aveva già pensato a cosa cucinare, almeno mi aveva lasciato meno lavoro... Forse perché aveva già previsto che sarei arrivata tardi? La cosa certamente non mi faceva onore, dovevo ammetterlo.
A pensarci bene, perché la Cucina era vuota? La cosa mi sorprese. Non c'era nessuno dei miei colleghi, ed era davvero tardi. A quest'ora avrebbe dovuto esserci almeno uno di loro con un mestolo in mano che fremeva dalla voglia di picchiare gli altri per la loro assenza.
Ed invece c'eravamo solo io e Newt, che continuava a cercare qualcosa da mangiare (possibilmente del pane) per sostituire quel sapore amaro che ora regnava sovrano nella sua bocca, conseguenza della bevanda “alcolica” di Frypan.
«Non trovi strano che non sia nessuno?» domandai, attirando la sua attenzione.
Si voltò a guardarmi con la coda dell'occhio, mentre acchiappava trionfante il suo amato pezzo di pane. «Sì, ma sinceramente non me ne frega un caspio», rispose con tutta calma, addentando il panino.
Capii che non era davvero lui a parlare, ma l'alcool. Newt si sarebbe posto il problema della mancanza degli altri ancor prima di aver varcato la soglia della porta, perché sapeva più di me che quello non era un buon segno. E poi, il suo accento si era lievemente inclinato, era leggermente più moscio di prima.
Sospirai di nuovo e scossi la testa.
«Magari sono in bagno a fare una sploffata di gruppo», disse infine con noncuranza, poi ridacchiò da solo, come se trovasse quella battuta seriamente divertente. Decisamente, era l'alcool a parlare al posto suo. Fosse stato in condizioni normali non avrebbe mai riso di una cosa del genere. Quella era una cosa da Minho, non da Newt!
«Caspio, Newt, sei davvero ubriaco?»
Mi guardò e gonfiò le guance, come se si fosse offeso per quella domanda. Avvicinò l'indice e il pollice per farmi vedere quanto, secondo lui, fosse ubriaco. E a detta sua lo era veramente poco, forse quattro millimetri di distacco tra il pollice e l'indice.
Si poggiò al tavolo e arricciò le labbra. «Non molto, la bottiglia, come hai potuto vedere, era piccola. E poi non era così alcolico. Comunque, buono questo pane... e ultima cosa, ma non ultima...» Si poggiò una mano sulla fronte. «... forse è il caso che mi sdrai...»
«E se vomiti?»
«Non vomiterò, non preoccuparti, Fagio.» Addentò di nuovo il pane, voltandosi a guardare verso l’ingresso della stanza. Sollevò una mano in segno di saluto, sfoderando un sorriso enorme. «Guarda, c'è il mio Pive preferito sulla soglia della porta!», disse con fin troppo entusiasmo.
Mi girai, vedendo Alby con la fronte corrugata in un’espressione che diceva qualcosa come “Che ha adesso?”
«Sei ubriaco?», chiese, storcendo lievemente il naso.
Newt schioccò la lingua e corrucciò le labbra con fare offeso. «No, perché?» Il suo accento era improvvisamente tornato normale, privo di ogni sorta di carenza tipica di qualcuno ubriaco.
Dannazione, era anche un bravo attore, allora?
«Hai le guance arrossate... e non mi saluti mai in questo modo.» Alby incrociò le braccia al petto, sollevando un sopracciglio.
Newt non rispose, mi guardò con la coda dell'occhio come per chiedermi una mano. Ma cosa potevo dire io ad Alby? Le mie parole sicuramente non gli avrebbero fatto cambiare idea. Oltretutto, che fosse ubriaco era una cosa piuttosto evidente. Feci spallucce, non sapevo cosa dirgli.
Diede un colpo di tosse, passandosi una mano tra i capelli e spostandosi dal tavolo. «Pive, non sono ubriaco, caspio», ribatté brontolando. Fingeva bene, questo dovevo riconoscerlo.
Alby sollevò gli occhi al soffitto ed annuì ripetutamente, portandosi poi le braccia lungo i fianchi. «Farò finta di crederti. Ma porcocaspio, Newt!»
«Andrò nel Casolare a farmi una bella dormita, così magari mi riprendo subito... o quasi», rispose l’altro, brontolando ancora ed avviandosi fuori, facendomi cenno di seguirlo.
«Non vomitare ovunque, okay?»
«Io non vomito, caspio!» Sollevò le braccia al cielo. «Perché siete convinti che vomiterò?»
Alby non gli rispose, soffocando una risatina in gola. Feci per raggiungere Newt, ma mi prese il polso. «No, Eli, vieni con me, così appena Newt si sveglierà gli racconterai ciò che è successo.»
«Qualcosa di grave?» Sapevo che quella giornata non poteva andare tutta per il verso giusto. Troppo bello per essere vero.
«Lo vedrai con i tuoi stessi occhi. Tu», indicò Newt, «fila a dormire».
Newt sbuffò, sollevando gli occhi al cielo. «Okay. Mamma, bene così.»
Non si oppose, si fidava di Alby, sapeva che non mi avrebbe mai fatto qualcosa di male (o comunque in grado di farlo incazzare). E poi sapeva perfettamente che, una volta visto ciò che c'era da vedere, sarei tornata da lui.
Perché, però, avevo cominciato a sentire una pessima sensazione allo stomaco?

Minho era sulla soglia della porta e parlava con Jeff. Non aveva una bella cera, sembrava piuttosto preoccupato a dire il vero.
Eravamo fuori dalla stanza dove c'era Justin, ma non c'era un solo rumore che provenisse da lì dentro. Okay, era anche vero che Justin aveva smesso di gridare da un po', ma tutto quel silenzio mi metteva una pessima sensazione addosso. E poi, Minho sembrava veramente agitato.
I Radurai erano tutti lì intorno, sparpagliati, a svolgere le loro mansioni quotidiane.
«Perché non c'era nessuno in Cucina, prima?» A dire il vero mi ero resa conto pochi attimi fa che in effetti non c'era nessuno dei Radurai in giro, ed erano praticamente tutti lì.
«Eravamo tutti qui, Eli, non ti sei accorta di nulla? Piuttosto dove siete stati voi tutto questo tempo?», chiese accigliato. Voleva saperlo davvero o era solo una domanda per controbattere la mia?
Cercai di non arrossire e guardai altrove, scrollando le spalle con fare piuttosto naturale. «Ci siamo isolati un pochino perché Newt aveva bisogno di stare da solo... così... sai... sono rimasta da sola con lui, anche se lui non voleva, ma sono molo testarda, sai. In ogni caso, ora è passato, si è preso una bella sbronza, però. Io ho cercato di evitarlo, ma sai com'è fatto», dissi di getto, mantenendo un tono normale. Sperai con tutta me stessa che se la fosse bevuta... a dire il vero mi sentivo un po' sporca dentro a mentirgli in modo così spudorato, ma non volevo dirgli la verità. D'altronde erano cose private.
«Comunque, come mai siamo qui, ora?», domandai, anche se sospettavo vivamente che fosse perché era successo qualcosa a Justin.
Lui, infatti, sospirò ed indicò la porta. «Prova ad indovinare, Fagio.»
«È successo qualcosa a Justin, vero?»
Mi guardò con la coda dell'occhio, annuendo. «Non indovinerai mai cosa, però»
Okay, ora mi preoccupava. Mi ricordai improvvisamente che dovevo parlargli della scoperta che avevo fatto, ma optai per dirglielo più tardi. Ora come ora sembrava preso da ciò che era successo a Justin e la cosa mi incuriosiva parecchio.
«Avanti, vieni Fagio, devi vedere... e spero che saprai darmi una risposta almeno tu.» Si avviò verso la porta, passando tra Minho e Jeff come se nulla fosse. Loro a stento ci fecero caso. Lo seguii ed entrai nella stanza.
C'era odore di... morte.
Justin era sdraiato nel letto, immobile, inerme, completamente bagnato dal sudore. Se non avessi notato il petto che si alzava ed abbassava per come respirava avrei pensato che fosse morto.
Cosa aveva che non andava? Di cosa avrei dovuto stupirmi? Era vivo, non aveva nulla di che.
Avere il corpo perlato per il sudore era una cosa normale per via della mutazione, no? D'altronde causava n dolore non indifferente, a quanto avevo capito. Sudare doveva essere il minimo delle conseguenze che dava.
Guardai Alby con la fronte corrugata, e lui mi indicò Justin. «Guarda il suo collo», disse con tono fermo, come se mi avesse letto la domanda in volto.
Così feci, mi avvicinai a lui. Aveva la mano sinistra poggiata sul collo, come per coprirsi.
La sfiorai ed assunse un espressione infastidita, come se il mio tocco gli avesse provocato fastidio. Sgranò gli occhi di botto e prese a gridare. Balzai all'indietro, colta chiaramente di sorpresa per quella reazione. Ma che diavolo gli prendeva?
Si mise seduto sul letto e cominciò a grattarsi il collo con frase frenetico. In poco tempo, il suo collo si arrossò.
Jeff entrò nella stanza, lo spinse contro il letto e tentò di immobilizzarlo. «Passatemi qualcosa per legarlo, presto!», gridò voltandosi verso di noi. Minho salì sul letto per cercare di aiutare Jeff ad immobilizzare Justin, che continuava a dimenarsi. Tentava di liberare le mani.
Minho gli poggiò il ginocchio sul petto e gli prese le mani, premendole contro il letto.
«Lasciatemi stare!», gridò Justin. Le vene del suo collo si erano ingrossate a dismisura solo negli ultimi istanti.
«Scordatelo! Se continuerai a grattarti così finirai col farti veramente male!»
Non so perché, ma la discussione mi faceva quasi ridere. Sembrava una discussione tipica di una madre con la figlia che non riesce a smettere di grattarsi una puntura di zanzara.
Alby lanciò verso il letto due vecchi stracci. Forse erano poco, ma meglio di nulla.
Jeff si affrettò a legare le mani di Justin alla testiera del letto, stringendo più forte che poteva i nodi.
Tirò un sospiro di sollievo, passandosi le mani tra i capelli. «Dico, Pive, dannazione, dovremmo dire ai Medicali di costruire un Mini-Casolare dedicato ai Pive rincaspiati che stanno spuntando come funghi in questo periodo!»
Minho scese dal letto e si stiracchiò, sospirando pesantemente. «Già. Non credo sia neanche il caso di mandarli nel Labirinto, perché, secondo me, se i Dolenti vedono un altro Raduraio pazzo, danno le dimissioni e si stabiliscono qui.» Portò le mani dietro la testa. «Dopo aver visto George nudo credo siano rimasti traumatizzati.» Rise fragorosamente, ignorando il fatto che tutti i presenti in stanza (compreso Justin, che aveva apparentemente recuperato la calma) lo stessero guardando piuttosto male.
Justin poggiò la testa contro il cuscino, chiudendo gli occhi e respirando profondamente.
«Si è riaddormentato», sentenziò Jeff, guardando me ed Alby. «Non toccatelo di nuovo o si sveglierà come prima. Non voglio più sentire delle urla così forti.»
«Come fai a sapere che sta dormendo?», domandai, grattandomi la testa. Per quello che ne sapevo, poteva stare solo riposando gli occhi.
«Ha fatto così anche prima. Ha sclerato perché l'abbiamo toccato e pochi attimi dopo si è riaddormentato con la stessa facilità con cui Minho si vanta del suo sedere.»
«Ho un sedere perfetto!», disse Minho, assumendo un espressione fiera.
«Appunto...» Jeff si passò una mano sul volto, poi scosse la testa e sospirò. «Comunque, non toccatelo più.»
«Va bene», mormorai, guardando Alby.
Lui annuì, indicando di nuovo Justin. «Non toccarlo, ma guardagli il collo.»
Sospirai. L'idea di riavvicinarmi a Justin non mi faceva fare i salti di gioia, ma se mi diceva di farlo sicuramente aveva un motivo valido. Così, lentamente, mi avvicinai, guardando oltre la sua spalla.
Il suo collo era dannatamente arrossato, ma non era sicuramente quello che dovevo guardare. Era pieno di solchi profondi fatti con le unghie, la pelle rossissima, irritata.... ed un tatuaggio.
Schiusi le labbra e aguzzai la vista, leggendo le parole che c'erano scritte.
Gruppo A
Soggetto A20
Il Detonatore
«E questo che significa?», domandai, girandomi di scatto. «Chi è stato?!»
«Sicuramente la stessa persona – o cosa – che l'ha fatto a George.»
«Soggetto 19 e Soggetto 20... sono collegati», disse Minho. Era la prima cosa intelligente che sentivo uscire dalla sua bocca da quando ero entrata in quella stanza. «Deve essere così. Anche perché se George è il l'Innesco e Justin è il Detonatore...»
«Entrambi sono pezzi di...»
«... una bomba», mi interruppe Minho, anticipando la mia risposta. Ero incredibilmente sorpresa del fatto che avesse detto ben due cose corrette in così poco tempo. Non che non fosse intelligente, ma in casi del genere di rado tirava fuori la sua intelligenza e solitamente lasciava che il suo sarcasmo prendesse il sopravvento.
Alzai lo sguardo verso di lui, ero confusa. Perché i loro tatuaggi erano collegati e perché proprio i pezzi di una bomba?
«Okay, questa cosa non la capisco», disse Alby, poggiandosi le mani dietro la nuca.
«Nemmeno io», disse Minho, incrociando le braccia al petto. «Anche io voglio un tatuaggio», brontolò. Eccolo, era troppo strano che non avesse detto ancora una delle sue caspiate.
Alby schioccò rumorosamente la lingua, guardandolo.
Minho scrollò le spalle. «Che c'è? È vero! E ne voglio uno fico!»
«Possiamo rimanere concentrati sul problema, per favore?», sbottai, sbuffando. «Vi devo informare anche del fatto che prima, molto prima, ero vicina alla zona delle Faccemorte e... beh... ho trovato un albero cavo con dentro degli aggeggi strani. Sembrava quasi la tana di qualcosa.»
«E che aspettavi a dircelo?» Alby fece per uscire, ma si fermò, guardandomi. «Portaci lì.»
«Non ricordo bene dove sia...»
«Beh, non importa, vorrà dire che lo cercheremo.»
Non capivo l'utilità di cercarlo tutti in gruppo. D'altronde, cosa sarebbe cambiato? Non ci avremmo capito nulla comunque.
Forse volevano solo vedere com'era fatto, se c’era qualcosa di utile o cose così.

Passammo quasi due ore in cerca di quel famoso albero, finché alla fine, per fortuna, non lo trovammo. La corteccia era ancora a terra, ma si stava sorprendentemente rigenerando, forse era proprio per quel motivo che fino a quel momento non eravamo riusciti a trovarlo.
Sopra la parte priva di corteccia si era formata una sorta di patina liscia e marrone. Alby la bucherellò con l'indice, levandola poi con l'intera mano. Era viscida e molliccia, faceva venire il voltastomaco solo a guardarla.
«Ma che diavolo...?», bofonchiò, dopo aver scoperto il buco.
Era pieno di cavi e cavetti, ed emanava calore. Molto calore. Ma ciò che ci stupiva non era quello, ma il fatto che, al posto della cavità vuota che c'era l'ultima volta, ora al suo interno c'era una specie di robot di animale. Ricordava vagamente un rettile e la sua coda, lunga e appuntita, gli ricopriva tutto il corpo. Come se fosse appallottolato. I cavi che prima erano scollegati ora ricoprivano gran parte del suo corpo, come se lo stessero caricando. I suoi occhi erano chiusi.
«È una Scacertola?», domandai, guardando Alby.
Lui scosse la testa, la sua espressione era quasi sconvolta. «No e non ho mai visto nulla di simile, questo te lo posso assicurare...»
«Che caspio è?», chiese Minho, arricciando il naso. La sua domanda era quella che mi stavo ponendo anche io.
Alby avvicinò la mano, toccando la superficie fredda di quella cosa raggomitolata.
Volevo dirgli che secondo me era una pessima idea toccarla, ma non feci nemmeno in tempo ad aprire bocca che questa spalancò gli occhi. Erano neri come la pece, facevano uno strano rumore, come se stessero mettendo a fuoco le immagini.
Drizzò la coda e notai che era più a punta di quanto sembrasse. La schioccò rumorosamente, poi, velocemente, si staccò dai fili producendo alcune scintille e si spostò agilmente verso il basso per poi fuggire. Era mille volte più veloce delle Scacertole.
«Ma... Alby, dannazione, e poi ero io il combina guai, vero?»
«Chiudi il becco, caspio! Non ci ho pensato. Anche io posso sbagliare, no?» Sbuffò e si grattò la nuca. «Bel casino... e se quel coso è pericoloso?»
«Possiamo solo aspettare e vedere se succede qualcosa in questi giorni...», sussurrai. Non era molto incoraggiante da dire, ma effettivamente era l'unica cosa che potessimo fare.
Non avevamo molta scelta e la cosa era piuttosto scoraggiante. Sperai solamente che, qualunque cosa fosse, non creasse altri guai.


Tornai nel Casolare, volevo controllare se Newt dormiva o meno.
Entrai in una delle stanze col letto, tanto ero sicura che l’avrei trovato sdraiato sul materasso e non di certo per terra. Per mia fortuna, avevo azzeccato la stanza dove si era coricato, ma, come immaginavo, era sveglio. Fissava silenziosamente il soffitto, le braccia incrociate dietro la testa.
«Non avevi detto che avresti dormito?», domandai, sedendomi accanto a lui sul letto.
Non si girò a guardarmi, ma annuì comunque. «Sì, ho dormito, ma mi sono svegliato come ho sentito la porta aprirsi.» Chiuse gli occhi e ridacchiò. «Sei così fine e delicata quando apri la porta... ricordi vagamente un elefante.»
Schiusi le labbra e corrugai la fronte, gonfiando le guance. «Ah, ma grazie!»
«La cosa triste è che ricordo il nome ma non ricordo com'è fatto un elefante», mormorò con un tono leggermente cupo. Effettivamente, nemmeno io ricordavo come fosse fatto un elefante.
Ed ecco che, improvvisamente, mi tornò in mente quanto mi facesse schifo non rammentare nulla della mia vita passata. Una parte di me però pensava che forse era meglio così.
«Liz?» Si tirò su, mettendosi seduto sul letto e poggiando una mano sulla mia. «Ti fa male...?»
Corrugai la fronte. Sulle prime non capii a cosa si stesse riferendo. Più che altro non ci avevo fatto caso. Dopo realizzai e scossi la testa, sorridendo. «No, non più di tanto. Sono ancora in grado di camminare, quindi... è okay.»
«Bene così.» Depositò un bacio sulla mia fronte. Il sorriso stampato sulle sue labbra mi diede una sensazione di sollievo.
«A te è passata la sbronza?»
«Più o meno, diciamo. Te l'avevo detto che non era poi così alcolico e che io non ero così ubriaco.»
«E hai vomitato?»
A quella domanda, bofonchiò qualcosa e guardò altrove. Poi, riportò lo sguardo su di me. «No... però ci sono andato vicino. Non dirlo ad Alby, ti prego.»
«Nah, tranquillo. Senti... posso chiederti una cosa?»
Annuì. Non nego che fosse abbastanza imbarazzante da chiedere, perché comunque... beh... era imbarazzante. Presi un respiro profondo e mi morsi il labbro inferiore, guardandolo negli occhi anche se una buona parte di me voleva guardare altrove. «Eri sobrio quando... beh...»
«Quando abbiamo fatto l'amore?», completò la mia frase.
Annuii. Dovevo essere diventata rossissima, perché sentivo le mie guance pulsare come non mai.
«Sì, ero sobrio. Non l'avrei mai fatto se no. La sbronza è salita tutta dopo. Ehi, è stata la mia prima volta, non sono così cretino da farlo da ubriaco così magari non mi ricordo nulla l'indomani. Anzi, è la nostra prima volta. Nel vero senso della parola.»
Arrossii ancora di lui, poggiando la fronte sulla sua spalla.
Lui rise e poggiò il mento sulla mia nuca. «Che c'è?»
«È imbarazzante il fatto che tu abbia capito che ero vergine.»
«Era scontato, Liz. Di tanto in tanto tremavi. E poi, hai perso un po' di sangue.» Mi cinse le spalle con un braccio e fece spallucce. «E poi non m'importa. Meglio. E, comunque, era anche la mia prima volta. Devo ricordarti che sono qui dall'età di quindici anni? E, non so se l'hai notato, ma qui siamo tutti maschi, e a meno che io non sia diventato improvvisamente gay, sicuramente non ho fatto l'amore con nessuno di loro», concluse. Lo disse con così tanta disinvoltura da lasciarmi quasi a bocca aperta.
Okay, era decisamente più sciolto di me nel parlare di questo argomento. Io fino a quel momento ero stata capace solo di arrossire come una bambina e di bofonchiare qualche parolina, nulla di più. Non avevo nulla da dire per poter ribattere, e poi aveva ragione.
Decisi di cambiare discorso. Chiusi gli occhi, spostandomi e sistemandomi i capelli dietro l'orecchio. «Io, Alby e Minho abbiamo scoperto una nuova creatura. Stava in un albero cavo che ho individuato io per caso, prima di trovarti nel nascondiglio.»
Corrugò la fronte. Non sapevo di preciso se lo avesse fatto per il cambio d'argomento improvviso o per la mia scoperta. Comunque, abbassò lievemente il volto. Un modo silenzioso per dirmi di andare avanti.
«E niente. Non era come una Scacertola, sembrava un rettile robot. Aveva una coda lunga e appunta... onestamente, anche se non ricordo nulla del mio passato, sono abbastanza sicura di non aver mai visto nulla di simile!»
«Era una Marchiatrice», rispose con tutta naturalezza.
Corrugai la fronte, cosa che fece anche lui, poi schiuse le labbra. «Non ho la benché minima idea di cosa caspio sia una Marchiatrice e tanto meno so perché l'ho detto.»
«Come sarebbe a dire “non ho la benché minima idea di cosa caspio sia”?» Sollevai un sopracciglio. Per un attimo pensai che stesse scherzando, ma la sua espressione diceva tutto meno che quello. Era sincero e sembrava quasi spaventato dalla cosa.
«Liz, non so cosa sia una Marchiatrice. Come faccio a sapere cos'era quella cosa se, oltretutto, non l'ho nemmeno vista?»
«Un po' come me per i D2MH...» Deglutii, facendo un respiro profondo per cercare di essere il più naturale possibile. Quella situazione, per qualche strano motivo, mi stava seriamente mettendo i brividi di terrore. «Magari è stato una sorta di flashback... non saprei.»
«La cosa non mi consola nemmeno un pochino, onestamente parlando, caspio.» Si poggiò le mani ai lati della nuca, chiudendo gli occhi.
E di nuovo, la pace era svanita. Perché doveva sempre finire così? Non potevamo vivere il tutto in santa pace, per una sola volta da quando ero arrivata in quel posto?
«Avanti, non ci pensare.» Scesi dal letto, prendendogli la mano e tirandolo verso di me. Non gli avrei permesso di stare in quella stanza a scervellarsi su ciò che aveva appena detto, o come minimo avrebbe passato la notte in bianco.
Si alzò poco dopo, lasciando andare la mia mano per sistemarsi i capelli. «Fosse semplice», disse, poi scosse la testa. Almeno doveva provarci, non poteva di certo far diventare quel pensiero un chiodo fisso, rischiava solo di farsi venire un emicrania. Ed io lo sapevo bene, bene visto che ero la prima a soffermarsi su un pensiero e a non abbandonarlo per tutta la sera. Non volevo che accadesse anche a lui.
«Andiamo a cena?», domandò, schioccandosi il collo. «Almeno così mi distraggo.»
Annuii. Avrei fatto qualsiasi cosa pur di farlo distrarre.

La stanza era ancora praticamente vuota. Erano pochi i Radurai che si erano recati alla tavolata, ma la cosa onestamente non mi pesava. Non volevano cenare? Era un problema loro, non mio. Basta, avevo deciso che non mi sarei più posta quel problema.
Minho era seduto davanti a noi. Si ingozzava come se non mangiasse da settimane intere.
Da quando c'eravamo seduti tutti insieme non ci aveva posto nemmeno una sola domanda. Non che la cosa mi pesasse. Al contrario, mi sorprendeva, ma non sarei di certo stata la prima a chiedere qualcosa.
Mi domandavo, piuttosto, se Newt ce l'avesse ancora con lui. Non volevo chiederglielo così spudoratamente, davanti a Minho poi, ma la curiosità quasi mi attanagliava lo stomaco.
«Che caspio di nausea», brontolò con un espressione disgustata. Il suono della sua voce era così basso che quasi non riuscivo a sentirlo nonostante fossi a pochi centimetri da lui. Speravo tutta via che non gli venisse da vomitare proprio davanti a tutti... e accanto a me. O avremmo avuto probabilmente una catena di vomiti e Frypan si sarebbe messo le mani nei capelli per aver rovinato la sua amata tavolata luccicante del venerdì sera.
A parte le scene rivoltati, Newt non aveva un bell'aspetto. Aveva le occhiaie e la sua pelle era pallidissima. Sembrava sul punto di avere un calo di pressione. Prima non era ridotto così male. Okay, sì, non aveva comunque un bell'aspetto fresco, ma non era neanche così tanto messo male.
Poggiai la mano sulla sua gamba, inclinando la testa appena mi rivolse lo sguardo. «Che c'è?», sussurrò.
«Dovrei chiederlo io a te», risposi, sussurrando a mia volta.
Minho, davanti a noi, aveva finalmente smesso di ingozzarsi. Detestavo il fatto che, nonostante mangiasse come un maiale tutti i giorni, non mettesse su nemmeno un chilo. Rivolse l'attenzione a noi, poi schioccò la lingua. «Amico, fattelo dire, sembri un caspio di morto vivente.» La sua indelicatezza era da Oscar. Il solito inappropriato. «Non hai toccato praticamente cibo. Vuoi che lo mangi io al posto tuo?» Allungò le mani verso il piatto di Newt, muovendo le dita come un burattinaio esperto.
«Lascia stare il mio piatto, sono ancora incazzato nero. E accanto a me ho un coltello», sibilò tra i denti Newt, passandosi nervosamente le mani tra i capelli. «Non sto molto bene, okay? Ho una pessima sensazione. Ma seriamente pessima.»
«Forse ti sei solo lasciato condizionare da ciò che hai detto prima, Newt, non pensarci.»
«Ma mangi o no?», ribatté Minho, e in tutta risposta, Newt diede una spinta secca al piatto, facendolo scontrare con quello di Minho. «Tieni, ingozzati.»
Lo prese quasi come un ordine, cominciando a mangiare anche il cibo di Newt. «Sul serio, che hai?», chiese con la bocca piena, cosa che forse fece schifo anche a lui, dato che assunse un espressione strana, ma non smise di mangiare.
Newt scosse la testa, alzandosi di scatto dal tavolo ed uscendo dalla stanza.
Minho lo indicò, sgranando gli occhi. «Ho forse detto qualcosa che non va?», chiese di nuovo a bocca piena, mandando giù il boccone poco dopo.
«No... ha detto che quel coso che abbiamo visto si chiamava “Marchiatore” o qualcosa di simile. Solo che lui non l'ha mai visto. Gli è venuto spontaneo. Penso sia rimasto un po' scosso dalla cosa», sospirai.
«Beh... possiamo andare da George e chiedergli se sa qualcosa, no? Lui sa sicuramente cose in più di noi. Ricorrere al suo aiuto per una volta non sarà una cosa negativa, credo.»
Questa era la cosa più assurda che avessi mai sentito da quando avevo memoria. Eppure era una buona idea.

Certo che però sentir uscire una proposta del genere dalla bocca di Minho, quando era tra le prime persone a detestare l'idea che andassi da George, era veramente strano.
«E come la mettiamo con Newt?»

«Beh.. viene con noi. Hai un idea migliore? Magari se quel rincaspiato di George lo vede ci dirà il doppio delle cose!»

Mi poggiai una mano sulla fronte, facendola strisciare verso il basso poco dopo. Non ero esattamente dell'idea che Newt si sarebbe trattenuto nel vedere quella faccia di caspio per un semplice, ma valido motivo: lo odiava così tanto da avere istinti omicidi nei suoi confronti e, fosse per lui, lo avrebbe lasciato marcire senza cibo né acqua all'interno della Gattabuia.
E a pensarci bene... George mi doveva ancora qualche spiegazione. Ad esempio, a cosa si riferiva col “Bacio della Morte”?
Ci alzammo alla svelta dal tavolo, raggiungendo Newt fuori dalla stanza. Era poggiato al muro, aveva gli occhi chiusi e la testa rivolta verso l'alto. Respirava così pesantemente da permettermi di sentire il rumore del suo respiro anche ad una discreta distanza.
«Newt, tutto bene?», chiese Minho. Newt annuì, senza dare una vera e propria risposta. Era pallidissimo, le sue mani erano chiuse a pugno. Che stesse ancora così per ciò che aveva detto?
Mi morsi il labbro inferiore, stavo per chiederglielo, ma mi fermai nel vedere che si era allontanato dalla parete con un movimento così lento da farmi pensare ad uno zombie. Le sue occhiaie erano molto più visibili alla luce del sole.
«Sicuro che sia tutto okay?», domandai mormorando.
Si avvicinò a me, poggiò le mani sulle mie spalle ed annuì, accennando un sorriso.
Minho, dietro di noi, emise un “Oooow”, simile a quelli che emettono le persone nel vedere dei cucciolotti appena nati che cercano il seno materno per nutrirsi.
Feci un respiro profondo. «Senti... noi pensavamo di andare a chiedere qualcosa a George.»
Vidi il suo sorriso sparire lentamente, sostituito da un espressione seriamente contrariata da quello che gli avevo detto. Sapevo che avrebbe fatto quella faccia, anche se ad essere sincera mi sarei aspettata più un “Ma ti sei completamente rincaspiata tutto d'un colpo?”.
«È per un buon motivo, biondino.» Minho cercò di alleviare un pochino la situazione, anche se con un palese insuccesso.
Newt lo fulminò con lo sguardo, schioccando rumorosamente la lingua contro il palato. «Guarda che sono ancora arrabbiato con te», disse. Il suo tono era ancora più smorto del suo aspetto.
Minho aprì le braccia con fare teatrale. «L'ho fatto per una buona causa! Caspio, Newt, sono un rincaspiato e ho sbagliato! Sono umano anche io, sai?»
Newt fece per rispondere, schiuse le labbra, ma poi ci ripensò, contraendo la mascella. Annuì, sospirando. «Bene così» che, in breve, era un “ti perdono, anche se vorrei strozzarti”.
«Magari George sa dirci qualcosa riguardo a... ciò che hai detto prima. E riguardo ai tatuaggi che hanno sia lui che Justin.»
«Justin ha un tatuaggio?» Corrugò la fronte. «Perché nessuno mi ha detto nulla?»
«Me ne sono dimenticata...»
«Pensiamo che sia collegato a quello di George», aggiunse Minho. «Perché c'è scritto: Gruppo A, Soggetto A20, Il Detonatore.»
«Il Detonatore», ripeté Newt, sovrappensiero.
Minho ed io lo guardammo con un espressione totalmente sbigottita.
«Che c'è?», chiese Newt, quasi scocciato da quegli sguardi. «Che avete da guardare così?»
«Hai qualche ricordo al riguardo?», sollecitò Minho, come se, ormai, fosse pronto a tutto.
Newt chiuse gli occhi, facendo un respiro profondo. «Nulla. Il vuoto più totale, come sempre. Anche se per qualche strano motivo, la cosa non mi stupisce poi tanto... mi da una pessima sensazione.» Scosse velocemente la testa, sbuffando. Mi avvicinò a lui, lasciandomi un bacio sulla fronte. «Okay, andate. Io, però, non vengo. Sta’ attenta.» Poggiò il mento sulla mia nuca.
«No Pive, e che caspio, tu vieni con noi stavolta!»
«Non voglio farlo, caspio. Non ho intenzione di vedere quella faccia di caspio», sibilò Newt.
«Ti costringo a venire, anche se questo, magari, vorrà dire trascinarti fino alla Gattabuia per i tuoi caspio di boxer bianco coniglio.»
«Veramente, sono grigio perla...», sussurrai, provocando una risatina soffocata da parte di Newt, che poggiò le labbra contro i miei capelli per non darlo a vedere, passando le dita tra le ciocche.
Minho inclinò la testa. Non mi aveva sentita... ed era meglio così. «Chiaro il concetto, comunque?», chiese, indicando poi dietro di lui con un gesto della mano. «Muovi quel tuo culetto da bambola di plastica e seguici.» E, detto questo, cominciò a camminare verso la Gattabuia.
Newt sollevò gli occhi al cielo e si spostò, cominciando a seguirlo, ed io feci lo stesso. «Cavolo, da quando Minho ha queste capacità da leader?», domandai, ricevendo come risposta muta una scrollata di spalle.

Man mano che ci avvicinavamo alla Gattabuia si sentiva un pessimo odore acre nell'aria. Era come puzza di... morte. Nemmeno alle Faccemorte c'era così tanto tanfo.
«Sembra puzza di sploff fatta dopo sei settimana di indigestione della sbobba di Frypan cucinata con prodotti scaduti!» Ed ecco una delle perle di saggezza di Minho. Aveva reso perfettamente l'idea, comunque.
«Fermi!», disse Newt, indicando la Gattabuia. «Vedete anche voi quello che vedo io? O l'alcool è ancora in circolo ed ora ho le allucinazioni?»
«Se intendi la porta della Gattabuia sfondata, la vedo anche io», risposi, incrociando poi lo sguardo con quello di Newt.
Il problema non era solo la porta sfondata, e quello lo sapevo bene. Poteva essere sfondata nel senso di aperta... ma era proprio spaccata. Le travi della porta erano completamente inclinate. C'erano dei pezzi di legno a terra, sparsi tutti attorno in modo completamente a caso, il che dava a pensare che il colpo che era stato dato alla porta per aprirla fosse stato seriamente forte.
Cominciammo a correre il quella direzione, fermandoci quando fummo abbastanza vicini da riuscire a sentire un rumore di colpi di tosse, poi qualcosa di liquido che cadeva a terra.
Minho si avvicinò lentamente all'entrata della Gattabuia... poi cadde all'indietro dopo aver emesso un gridolino. «Caspio!» Fece in tempo a dire solo quello, poi un Dolente si sporse quanto bastava per guardarci, mettendo in bella mostra dei denti lunghi ed affilati. Ma non si mosse. Gridò e basta con quel suo strano verso, un misto tra quello di un animale e quello di un robot. Gli aculei sulla sua schiena si innalzarono con fare minaccioso, ma il suo obbiettivo non eravamo chiaramente noi.
«È un caspio di Dolente!», disse Minho. «Perché non ci attacca?!»
«È piccolo», risposi io. «Ed è un D2MH...»
«Vuoi dire che quei caspio di cosi si riproducono?»
«No, Minho, non si riproducono», rispose Newt.
«Non possono riprodursi», aggiunsi, avvicinandomi per vedere meglio il motivo preciso per cui non ci stava attaccando. Non osai avvicinarmi troppo per paura che potesse attaccarmi all'improvviso.
Il Dolente continuava ad emettere piccoli ringhi, a minacciarmi con le sue punte metalliche rigide, che muoveva con una delicatezza invidiabile, ma che sicuramente non invitavano a delle carezze.
Guardai all'interno della Gattabuia. Avevo un sensazione seriamente pessima e la puzza era sempre più forte. Capii che, probabilmente, era il Dolente. Ma poi m'irrigidii. Okay, forse non avrei dovuto avere così tanta curiosità.
Sì, la puzza era proveniva dal Dolente... ma non solo.
George era lì dentro. Tossiva. Dalla sua bocca usciva del sangue. Ogni colpo di tosse doveva essere dolorosissimo. Uno dei bracci metallici del Dolente era conficcato del nel suo addome, lo impalava contro la parete della Gattabuia. Sotto di lui c'era una grossissima pozza di sangue.
La sua espressione di dolore la diceva lunga. La cosa peggiore era che fosse ancora cosciente, nonostante tutto.
Sembrava che in tutto questo, lui stesse soffrendo anche per qualcos'altro. C'era qualcosa che nascondeva nei suoi profondi occhi azzurri. Riuscii a vederlo quando, con sua grossa fatica, sollevò gli occhi verso i miei. Forse sbiancai, forse provai una sorta di empatia nei suoi confronti.
Lui spostò lo sguardo oltre la mia persona. Riuscii a capire di avere Newt e Minho alle mie spalle, ma non sentii una sola parola dei loro commenti riguardanti ciò che avevamo davanti. Mi sentivo dannatamente impotente ed era la sensazione più brutta del mondo.
George fece per parlare, ma non ci riuscì. Diede un colpo di tosse piuttosto forte, sputando fuori dell'altro sangue.
Il Dolente, forse infastidito dalla nostra presenza, indietreggiò, lasciando che il corpo di George scivolasse verso il basso come un vecchio cappotto rovinato che cade da un appendiabiti.
Tornammo indietro per evitare di essere colpiti, ma il mio sguardo non riusciva a staccarsi dal corpo inerme di George. Il suo petto continuava ad alzarsi ed abbassarsi. Era ancora in vita, per quanto quel buco sul suo addome non promettesse nulla di buono. Per non parlare di quella pozza di sangue sotto il suo corpo. Non era per niente rassicurante.
Odiavo George per ciò che mi aveva fatto, ma vederlo in quello stato era veramente orribile. Era peggio di una vecchia bambola inanimata, con al differenza che era ancora vivo.
Il Dolente continuò ad indietreggiare, passandoci davanti senza nemmeno calcolarci.
«Se ne sta andando?», domandai, a nessuno in particolare. Mi guardai attorno, aspettai che il Dolente fosse un po' più lontano. Ancora un pochino... qualche centimetro in più...
Poi feci per correre dentro la Gattabuia. Sentivo il dovere di portare via George da lì.
«Liz!», gridò Newt. «Spostati subito! Non entrare!»
Mi girai verso di lui, sentendo la terra sotto i miei piedi che cominciava a tremare. Il Dolente stava tornando indietro, rotolando ad una velocità estrema.
«Caspio!» Feci in tempo a gettarmi all'indietro, il Dolente passò a pochi centimetri dal mio corpo. Le punte sulla sua schiena si scontrarono contro il corpo di George, trafiggendolo come un animale da macello.
Il Dolente non stava andando via. Aveva solo preso la rincorsa per completare la sua opera con un finale degno di nota.
George, adesso, era morto sul serio.
Mi coprii il volto con le mani e mi girai, poggiandomi a Newt. Avevo il voltastomaco. Lui passò una mano tra i miei capelli, accarezzandoli lentamente.
Sentii di nuovo la terra tremare. Il Dolente stava rotolando via. Stavolta, però, se ne stava andando sul serio.
«Caspio... e adesso?», bofonchiò Minho.
Alzai il volto, guardando quello di Newt che spostò la mano dai miei capelli, portandola sotto il mio mento per farmi alzare il volto. Non disse nulla. Mi bastò lo sguardo. Andava tutto bene... era tutto okay.
«Abbiamo un piano B a disposizione?», domandò Minho, poggiandosi le mani sui fianchi.
«Ve lo do io un piano B», disse Alby, a braccia incrociate esattamente dietro di noi. Doveva essere arrivato da poco. «Justin è sparito dalla stanza. Dobbiamo trovarlo.»
Minho sgranò gli occhi. «Come sarebbe a dire “Justin è sparito”? Non era legato?»
«Era, appunto. Qualcuno ha tagliato gli stracci con lui l'avevamo legato e l'ha liberato. Abbiamo uno psicocaspiato a piede libero per la Radura, Pive. Dobbiamo trovarlo. Ho avvisato anche gli altri.»
«Aspetta... da quanto tempo sei qui?» Newt si grattò la fronte.
Alby schiuse le labbra. «Da poco fa. Ho visto il Dolente che schiacciava George e basta...» Si voltò a guardare dentro la Gattabuia, sospirando rumorosamente. «Dovremmo dargli almeno una degna sepoltura, dopo una morte così pessima.»
«Già...» Newt, sospirò a sua volta, mordendosi l'interno delle guance. «Forza, cerchiamo quell'altro rincaspiato.»

Dovevamo trovare Justin a tutti i costi. Tutti i Radurai stavano facendo quello. Sembrava di giocare a nascondino contro la nostra stessa volontà.
Perché era scappato? Da cosa fuggiva? Ma sopratutto.... come aveva fatto a liberarsi?
Quel Dolente da dove era passato, se le porte del Labirinto erano chiuse? Aveva forse scavalcato?
Se quei cosi potevano saltare i muri, allora eravamo seriamente, ufficialmente, dannatamente fregati.
Newt camminava in modo davvero lento. Era sovrappensiero, l'unica cosa a cui sembrava prestare seriamente attenzione era a dove metteva i piedi. Non si guardava attorno, come invece doveva fare.
«A cosa pensi?», domandai, cercando di richiamare la sua attenzione.
Non rispose, scosse la testa e scrollò le spalle. Non voleva parlare, e sapevo che forse si stava solo appellando al suo orgoglio.
«Ti dispiace per George?», azzardai, mentre lasciavo che Minho e Alby ci superassero.
Ormai capivo la sua difficoltà nell'esternare ciò che provava e l'accettavo. Ma con me era diverso, riusciva a lasciarsi andare un pochino di più, ed era un privilegio che mi tenevo ben stretto.
Anche se forse in quel momento non voleva proprio parlare. Riuscivo a leggerlo nei suoi occhi. Il suo sguardo era perso, incorniciato da quelle occhiaie che sembravano aumentare ad ogni secondo che passava.
Contrasse la mascella, facendo un respiro profondo. «Non sono dispiaciuto del fatto che sia morto. O meglio, sì, mi dispiace perché alla fine è... era, uno di noi. Perdere un Raduraio, per quanto magari tu lo possa odiare, è comunque come perdere un membro della famiglia.» Chiuse per un attimo gli occhi, riaprendoli poco tempo dopo. «E noi non abbiamo una famiglia. E per quanto volessi ucciderlo con le mie stesse caspio di mani, non gli avrei mai augurato di fare una fine così dannatamente miserabile.» Si passò le mani tra i capelli. «E poi... non so... oserei dire che c'era qualcosa di diverso in lui. Avevo questa sensazione strana.»
«Allora non sono stata l'unica ad aver avuto questa sensazione.»
«No. Evidentemente no», mormorò, fermandosi quando lo fecero anche Alby e Minho. Ci fecero cenno di fare silenzio, poi si guardarono attorno.
«C'è qualcosa di strano...»
«Che c'è di strano, Alby? Oltre al fatto che, nonostante siamo vicino al recinto dei maiali, questi siano stranamente più puzzolenti del solito?»
Alby guardò Minho con la coda dell'occhio. Non c'era bisogno che gli dicesse che in quel momento, quel commento era piuttosto fuori luogo.
«Troppo silenzio per i miei gusti. Penso che dovremmo dividerci e ritrovarci tutti qui tra un’ora.»
Dividersi? Ma, dico, di colpo aveva mandato in ferie il cervello? Si era scordato del Dolente che aveva tranquillamente schiacciato George come se fosse stato una formica? Magari era ancora nella Radura. Era un rischio stare in gruppo, figuriamoci se non lo era stare da soli!
Tuttavia, decisi di non controbattere. Magari pensava che così facendo avremmo avuto meno distrazioni e saremmo stati costretti a stare più attenti, non avendo nessuno che ci guardasse le spalle. Avremmo dovuto contare solo su noi stessi.
«Dobbiamo trovare Justin», ribatté Alby. «Se è davvero collegato in qualche modo a George, come pensiamo che sia, non è il caso che giri per la Radura da solo con un Dolente che vorrebbe farlo fuori per cena come ha fatto col suo amichetto.»
Newt arricciò il naso, come se la cosa non lo convincesse affatto. Fece balzare lo sguardo da me a Minho, per poi concentrarsi di nuovo su Alby. «Pensi che il Dolente voglia farlo fuori?»
«Penso che sia probabile, dal momento che i tatuaggi sono in un certo senso collegati... o almeno, sembra così. Non è nulla di certo, ma non mi fido a lasciarlo così da solo... è pericoloso.»
Sembrava quasi che la morte di George avesse avuto uno strano effetto sui Radurai. Come se ne avessero ricevuto un lieve shock... o forse, era semplicemente che nell'ultimo mese tutto era diventato più strano?
«Forza, diamoci una mossa prima che diventi troppo buio», concluse Alby, facendoci cenno di muoverci.
E in meno di qualche secondo, mi ritrovai sola con Newt. Alby era andato a sinistra, Minho a destra, ed io e Newt eravamo rimasti nello stesso punto di prima, immobili come statue. Quasi incapaci di muoverci.
Ci guardammo per qualche attimo, poi Newt chiuse gli occhi e respirò profondamente, sorridendo poco dopo. «Sta’ attenta», disse, inclinando la testa.
«Perché?»
Scrollò le spalle, poggiando le mani sulle mie guance. «C'è un baby Dolente che probabilmente sta facendosi un bel giretto turistico nella Radura in cerca di un biondino rincaspiato. Ti basta come risposta?» All'improvviso era stranamente positivo. Riuscivo a sentire quanto fosse preoccupato, ma cercava comunque di non darlo a vedere.
Annuii, decidendo che quello non era il momento per mettersi a discutere su certe cose. Avevamo un compito ben più importante da mandare avanti.
«Ci vediamo qui tra poco, okay?»
«Okay.»
«Bene così.» E, detto questo, cominciò ad avviarsi dal lato opposto al mio.
E così mi ritrovai sola. Completamente sola.

Avevo già fatto avanti e indietro da un posto all'altro un paio di volte. Tutto quello che avevo trovato era solo polvere, terra, prato verde, Radurai che correvano da una parte all'altra gridando il nome di Justin... ma nessuna traccia di quest'ultimo.
La notte stava calando ad una velocità pazzesca, mi sembrava di avere i secondi contati. O forse era effettivamente così?
Dovevo cercare da qualche altra parte. Sapevo di doverlo fare, sapevo di doverlo trovare. La sentivo come una priorità massima. Come se fosse diventato il mio unico scopo... o meglio, come se fosse stato il mio unico obbiettivo da quando mi trovavo lì e l'avessi scoperto solo in quell'istante. Mi sentivo quasi come un predatore in cerca della sua preda.
Il punto era che alla fine non sapevo nemmeno da dove cominciare a cercarlo. La Radura era grande, o almeno, per me da sola, lo era. Non mi piaceva cercare in posti del genere... da dove cominciare?
Stavo percorrendo la strada per tornare alla Gattabuia. Il terriccio sotto i miei piedi era bucherellato dalle spine del Dolente. Mi dava quasi la sensazione di sprofondare ogni volta che passavo su uno di quei piccoli fossi. Le fiaccole vicino alla Gattabuia davano un tono ancora più tetro a quella specie di scena del crimine, ora priva del cadavere.
«Aspetta un attimo...» Corrugai la fronte, avvicinandomi con una corsa lenta. Perché non c'era il corpo di George lì dentro?
«Dov'è il...»
«Cadavere di George? Oh, non saprei. Sicuramente i Creatori l'hanno ripreso, come hanno fatto con tutti gli altri cadaveri dei Radurai, una volta seppelliti. Sai, devono analizzarli.»
Mi vennero i brividi alla schiena. Mi girai lentamente.
Justin era lì, con solo un vecchio paio di pantaloni stracciati addosso. «Ciao Elizabeth.» Nel suo tono di voce c'era qualcosa di diverso. Un timbro più basso, una calma che prima non aveva.
Anche il suo sguardo era diverso. Prima era in grado di dare una sorta di sicurezza, ora era quasi spento, come se qualcuno avesse premuto un interruttore in grado di interrompere quella capacità.
«Ti stavamo cercando... dove eri...» Non terminai la frase, mi interruppe sollevando l'indice.
«Sono sempre stato nella Radura. Stavo solo aspettando il momento in cui potevo trovarti finalmente da sola, mentre tutti gli altri Pive sono distanti e non possono né vederci né sentirci.» Avanzò lentamente verso di me. «Noi due abbiamo un grosso conto in sospeso, Elizabeth.»
«Ah... davvero?» Deglutii. Avevo una strana sensazione addosso. Mi sentivo... nervosa, agitata. Il suo sguardo mi provocava i brividi alla schiena. Era troppo spento, troppo calmo. «Senti, ne possiamo discutere al Casolare? Non so se lo sai, ma c'è un baby Dolente che probabilmente gira ancora indisturbato e non mi sembra il caso di star–»
«Lo so perfettamente, mia cara», sogghignò, inclinando la testa. «Come so mille altre cose.» Prese un grosso respiro profondo, sollevando la testa verso il cielo con fare liberatorio. «Ah, la magia della scienza! Il dolce potere della Mutazione! Quante cose che ricordo adesso, e sono tutte perfettamente intatte perché, caspio, in verità sono sempre state lì! Quali creature perfette i Dolenti, non trovi, Elizabeth?» Riabbassò il volto verso di me, ridendo. Era una di quelle risate false, da farti innervosire perché sai che chi la fa sta nascondendo qualcosa. Qualcosa di importante che dovresti sapere.
«Già... perfettamente diaboliche. Chi li ha creati doveva essere uno psicopatico.»
«Oh...» Corrucciò le labbra. «Non ricordi proprio nulla, eh? Eppure ti sono stati forniti gli indizi necessari per fartelo ricordare...»
«Ricordare cosa?»
Soffocò una risata, facendosi serio poco dopo. «Chi ha creato i dolenti, Elizabeth?»
E fu come se quella domanda avesse fatto esplodere una bomba nel mio petto. Poggiai le mani sulle mie tempie, abbassando lo sguardo.
Mi fissai le mani. Sapevo davvero la risposta a quella domanda?
Sono creature perfette. Dannatamente perfette.
Ero stata io?
Solo uno psicopatico sotto pressione poteva inventare esseri simili. Doveva avere davvero tanta, tantissima rabbia in corpo.
Era la mia descrizione, quella?
«Sono stata io?», domandai d'impulso, alzando lo sguardo dalle mie mani. Mi sentivo un assassina solo a quel pensiero.
Lo sguardo di Justin era serio. Di ghiaccio, come i suoi occhi, che sotto la luce della fiaccola che gli illuminava solo metà viso, sembravano cristallini. Poi, di colpo, scoppiò in una fragorosa risata. Quasi divenne rosso da quanto rideva. Si passò una mano sotto gli occhi, come per asciugarsi delle lacrime che, però, non c'erano. «No, razza di rincaspiata!»
Tirai un sospiro di sollievo.
«Tu hai creato i D2MH, non i Dolenti.»
Non so perché... ma quello non mi stupì più di tanto. La notizia non mi fece così tanto effetto... forse perché, infondo, sentivo una sorta di legame con quelle creature.
«Non ti sei mai chiesta il perché, il giorno in cui avevano invaso la Radura, i Dolenti quasi esitassero ad attaccarti?»
I miei occhi erano piantati nei suoi, non riuscivo a distogliere lo sguardo. Scossi la testa per rispondergli. Effettivamente a quello non avevo nemmeno fatto caso.
«Quindi la tua memoria è completamente vuota? Caspio, allora George ha fallito nella sua missione», disse con un tono quasi scoraggiato. «E dire che doveva fare solo quello.»
Corrugai la fronte. «Non ti dispiace nemmeno un po' che il tuo ragazzo sia stato ucciso? Non vuoi sapere come? Il perché?»
«So perfettamente come è morto», ridacchiò. «So più cose di te. So più cose di quanto t'immagini. Non hai mai capito nulla, Elizabeth, e la cosa mi stupisce parecchio! E pensare che eri tu la preferita di tutti. La preferita di Thomas, di Teresa, di Janson... dei piani alti. Tutti avevano gli occhi puntati sulla nuova stella della C.A.T.T.I.V.O. Non erano più i quattro d’élite. C'era anche di nuovo un quinto membro. La nuova promessa.»
«Justin... non so di cosa tu stia parlando, ma ora cominci a mettermi i brividi...»
«Avevo escogitato un piano perfetto... e George, in questo, aveva un solo compito. L'ha completato... ma poi ha cominciato a dar di matto più di quanto avessi messo in conto.» Poggiò le mani sulle sue labbra. Mi guardava negli occhi, ma era chiaro che la sua mente era altrove. «Forse non era un Immune... o forse il veleno dei Dolenti era troppo forte e la sua immunità è andata a farsi friggere. D'altronde, era stato punto più volte e in profondità. Caspio, quando si è buttato nel Labirinto e non tornava più mi sono preoccupato davvero, davvero tanto. Ho pensato al peggio.» Scrollò le spalle. «In ogni caso, è anche per la sua improvvisa forma di pazzia che l'ho ucciso. Era diventato troppo pericoloso per il piano, avrebbe mandato tutto in fumo. Oltre per questo motivo, c'è anche la sua improvvisa presa di coscienza. Stava cominciando a pensare che forse tutto quello che stavamo facendo fosse malsano e crudele, che dovevamo smettere di cercare una vendetta per qualcosa che forse non era nemmeno colpa tua. Delirava. Era da abbattere.» Si sporse lievemente, indicando sulla parete. «Oh, a questo proposito, dolcezza, credo che prima che scoccasse la sua ora, ti abbia lasciato scritto un messaggio. Quasi dimenticavo di dirtelo. Non lo trovi carino?» Ridacchiò in modo sarcastico. «Ti risparmio la lettura. In sintesi, dice che io sono il cattivo di turno, che gli dispiace di aver fatto la testa di caspio. Voleva anche metterti in guardia. Ecco perché ho preferito farlo fuori prima.»
Schiusi le labbra. Sentii una strana sensazione al petto. Le mie mani erano diventate fredde di colpo, riuscivo a stento a muoverle. Non sapevo cosa pensare. «Hai ucciso George?»
«Sì, te l'ho detto. Era diventato un giocattolo difettoso. Così ho mandato un Dolente ad ucciderlo.»
Scrollò le spalle con una naturalezza degna di nota. Non gli importava nulla. «Vuoi un paio di risposte vere, Elizabeth? Sono disposto a dartele. Sono disposto a dirti il perché di tutto questo. Sono disposto a dirti cosa è successo, cosa ho ricordato. Ricordo la pessima sensazione di sopravvivere in quel posto. Di cercare di emergere da un’ombra di grandezza come la tua. Ricordo il giorno in cui abbiamo consegnato i progetti, la sfida del capo, così che uno di questi diventasse ufficialmente il D2MH. Uno di noi due sarebbe finito nel progetto del Gruppo A o del Gruppo B. Indovina che vinse tra i due? Ma era chiaro che avresti vinto tu. Non importava il fatto che ci avessi messo anima e cuore nel progetto, che avessi speso notti insonni a lavorarci su, no? Al capo non interessava. Il tuo progetto era il migliore, il più curato in ogni singolo dettaglio. Il tuo Alpha era la macchina perfetta, degna di un serial killer di professione.» Batté le mani con fare sarcastico. «Complimenti. Un ottimo erede del precedente Creatore. Il capo decise di risparmiarmi. Non mi mandò nel Gruppo A solo perché pensò di darmi una seconda possibilità... ma per quanto mi impegnassi per stare al tuo stesso passo, sembrò non accontentarsi. Venni spedito nel Gruppo A contro la mia volontà mentre tu eri chiaramente troppo impegnata a fare qualsiasi altra cosa tu stessi facendo. Eri diventata troppo impegnata per passare del tempo con me, anche se mi consideravi il tuo migliore amico. Ero diventato troppo superficiale, vero?» Contrasse la mascella. «Non avevo dimenticato del tutto. Una buonissima parte di me si ricordava di quella bastarda che mi aveva abbandonato al mio destino. Quella che diceva di essere un'amica, ma poi si è rivelata essere una schifosa manipolatrice. Non c'è stato un solo giorno, da quando sei arrivata, in cui non abbia pensato ad un modo per fartela pagare! Arrivi qui e tutto va in rovina. Il ragazzo che amavo, beh, a parte essersi preso una cotta per l'altro biondo, era completamente impazzito dalla gelosia nei tuoi confronti.» Sogghignò. «È stato un gioco da ragazzi convincerlo a collaborare. Tra me e George, sono sempre stato io la mente di tutto. Sono sempre stato io quello che aveva il controllo di tutto, ma lasciavo credere a tutti che fosse lui. George era... il ragazzo più fantastico del mondo. Era forte, sì, anche lui aveva un carattere forte. Ma la mente di tutto sono sempre stato io, sin dal primo momento. Non avevo messo in conto il fatto che potesse arrivare alla decisione di gettarsi nel Labirinto per colpa tua. Ecco, vedi, quello... quello mi ha fatto incazzare parecchio.» Mi indicò ripetutamente. Le vene del suo collo si erano improvvisamente gonfiate, percorrendo il suo collo con filamenti violacei. «Lì è stato il momento peggiore. Quello in cui ho cominciato seriamente a pianificare i mille modi in cui avrei voluto ucciderti. Perché se la mia vita è andata in fumo tutta in una volta è stata tutta colpa tua. Tutta colpa tua! Non ricordi ancora nulla?»
Non riuscii a rispondere. Sentivo la testa pulsarmi, era come se ci fosse una battaglia interiore. Come se volessi ricordare, ma non riuscissi a rimettere insieme i pezzi del puzzle che avrebbero dovuto comporre i miei ricordi.
Vidi qualcosa camminare sulla sua gamba, ma non riuscii a capire cosa fosse finché non raggiunse la sua spalla. Strofinò il muso metallico contro la guancia di Justin, come se stesse cercando le coccole.
«Quella è una Marchiatrice?», riuscii a mormorare. Solo in quel momento mi resi conto che la mia voce tremava. Avevo un nodo alla gola. Non sapevo se fossi scioccata per la storia o per il fatto che tra George e Justin, non fosse George il manipolatore.
Annuì alla mia domanda, accarezzando il corpo della Marchiatrice, poi questa girò la testa verso di me, aprendo la bocca ed emettendo un verso simile a quello dei gatti quando soffiano.
«Sì, questa piccola adorabile creatura è una Marchiatrice. È come un animaletto domestico per me. Mi ha sempre riferito tutto quello che accadeva qui dentro, anche quando ero incosciente. Mi pungeva con la coda ed ecco che vedevo ciò che aveva visto lei. Più infallibile di una telecamera nascosta. Ha anche diverse altre doti, anche a livello sonoro. Te ne darà un assaggino a breve... se non ha già cominciato a farlo. Ed inoltre mi ha liberato lei, ed è la dolcissima artefice del mio tatuaggio e di quello di George. Carini, vero? L'Innesco e il Detonatore. Sono chiaramente collegati, dolcezza, ma tu questo già lo sapevi. Inoltre, questo dolce animaletto è stato creato dalla stessa persona che ha creato i Dolenti.» Rivolse il volto verso la Marchiatrice, guardandomi con la coda dell'occhio, come se si aspettasse che capissi di chi stava parlando.
Come potevo farlo? La mia mente era dannatamente offuscata, sentivo solo il fastidioso brusio dei miei pensieri, nient'altro. E la cosa peggiore, era che erano tutti accavallati, non capivo nulla, non riuscivo più a pensare.
«Come hai detto tu? Che chi li ha creati doveva “essere uno psicopatico”, giusto? Uhm... è un modo poco carino per definire la persona che ami, ti pare?»
Corrugai la fronte, scuotendo velocemente la testa. Schiusi le labbra. Collegai velocemente le cose. Lentamente, riuscii a ricordare qualche piccolo frammento del mio passato, anche se questo mi stava portando ad avere il doppio del mal di testa. Mi sembrava di avere il cervello in fiamme, che premeva contro il mio cranio e cercava di uscire.

«Oh sì, Elizabeth... ora ricordi? Newt ha creato i Dolenti. Newt voleva creare i D2MH, ma quelli dei piani alti, avendo capito quanto si stava rivelando pericoloso e quanto forte fosse il suo desiderio di vendetta, hanno preferito mandarlo nel Gruppo A. Ricordi quando si è lanciato giù dal muro del Labirinto? Ma certo che te lo ricordi. Eri così addolorata per lui...» Sorrise, facendo un passo in avanti. «Che sciocca che sei. Provare pietà per qualcuno che nemmeno conosci. Sentimento banale, la pietà. Errore umano, oserei dire.» Schioccò la lingua, passandosi una mano tra i capelli. «Sai il motivo per cui Newt zoppica?»
«Per la caduta dal muro...», risposi con un filo di voce.
La Marchiatrice soffiò di nuovo. Sembrò che il suo verso mi attraversasse il cervello come una lama.
Justin scosse l'indice in segno di diniego. «Parlo del vero motivo.»
Qualche altro motivo poteva esserci? Se ci fosse stato un motivo differente, Newt me l'avrebbe detto, no? Perché mai nascondermi una cosa del genere?
«Oh beh, immagino che non te l'abbia detto. Anche se... forse nemmeno se lo ricorda. E come potrebbe?» Rise con fare sadico, poi incrociò le braccia al petto. «Io me lo ricordo benissimo, perché ero lì davanti. Ero nuovo. L'hanno costretto ad entrare nella Scatola. Si rifiutava di bere quel caspio di coso per far cancellargli la memoria. Così, Janson, stufo del suo continuo non voler collaborare e fare il ribelle, prese una delle pistole degli scienziati e gli sparò alla gamba. Questo lo costrinse ad accasciarsi per il dolore e, mentre gridava, gli gettarono in bocca il liquido e lo costrinsero a mandarlo giù. Mentre era incosciente, prima di mandarlo qui, gli curarono alla svelta la ferita. Sai, alla C.A.T.T.I.V.O. hanno strumenti davvero favolosi, per cui non gli rimase nemmeno la cicatrice. In pochi attimi tornò come nuovo. Una volta arrivato nella Radura, il dolore era già passato... il trauma della caduta l'ha semplicemente risvegliato. Per questo lui pensa che sia dovuto a quella, di certo non al corpo di un’arma da fuoco.» Rise, come se trovasse quella storia divertente.
Io la trovavo semplicemente raccapricciante.
Abbassai lo sguardo, non riuscendo più a reggerlo. La mia vista cominciava ad essere offuscata, sentivo che il mal di testa mi destabilizzava parecchio. Riuscivo a stento a tenere gli occhi aperti, e mi sentivo... stanca. Stanca come non mai. I miei muscoli non collaboravano più. Era come se avessi i piedi affondati nel terreno.
«Ho soddisfatto abbastanza le tue curiosità?», domandò Justin, guardandomi mentre le mie gambe cominciavano a cedere ed io, lentamente, mi accasciavo a terra.
Quella cavolo di Marchiatrice stava emettendo un suono continuo che mi torturava il cervello.
«Quasi quasi, avrei preferito non sapere nulla», sussurrai.
«Beh, in ogni, caso... penso che il suono della Marchiatrice ti stia destabilizzando abbastanza. George ti ha parlato del Bacio della Morte?»
«No. Ma ho capito a cosa si riferisce.»
«Al fatto che lui è morto prima di te... e il Bacio della Morte è per...»
«... perché io sarei stata la prossima», sussurrai, sentendo l'ennesimo groppo in gola.
Era tutto calcolato sin dal principio.
Continuavo a ripetere a me stessa che tutto questo doveva essere un sogno, e che presto mi sarei svegliata. La mia testa continuava a pulsare. Piccoli spazi dei ricordi mancanti venivano colmati, ma veramente piccoli.
Magari Justin non aveva passato il test del D2MH, ma era uno stratega veramente terribile. Aveva studiato tutto nei minimi dettagli, ed era un dannato sadico. Come poteva aver ucciso a sangue freddo la persona che amava? Come si poteva arrivare a tanto, pur di completare la propria vendetta?
Sentii la terra sotto di me tremare. Il rumore di un respiro affannato, pesante. Si faceva avanti ogni secondo di più. La cosa che si avvicinava non stava camminando, stava rotolando.
«Ecco perché eri la loro preferita. Sei intelligente.» Ed ecco che in pochi attimi, dietro Justin c'era un D2MH di grosse dimensioni. Era diverso da quelli che si vedevano di solito in giro. Sì, era grosso, ma era... differente. Non aveva le spine della schiena come gli altri, ma era liscio, sul marroncino chiaro e con venature viola che partivano dal muso e scendevano in giù.
«Ti presento la mia bestia. Ricordi? Avevamo seguito progetti differenti. Ecco il design del mio.» Sollevò la testa verso il muso del D2MH. Sembrava essere innocuo verso di lui, non crudele o pronto ad ucciderlo, nonostante avanzasse minacciosamente. La sua altezza era veramente colossale, il suo avanzamento lento, forse dovuto all'enorme stazza. Spalancò le fauci, mettendo in bella mostra tutti i suoi denti a punta ed emettendo un profondo ringhio animalesco.
«Ed ora, Elizabeth, lascia che si compia il momento della mia vendetta.»
Nei suoi occhi brillava una scintilla mai vista prima. Era così luminosa, chiedeva la vendetta perfetta. Mi aveva odiata per tutto quel tempo, sin dal primo momento, ed io non mi ero mai accorta di nulla.
Non ero in grado di muovermi. Era come se i miei arti fossero incollati a terra. E quella dannata Marchiatrice non smetteva nemmeno per un secondo di emettere quel suono, che continuava a trapanarmi il cervello.
Per qualche strano motivo, Justin vi era immune. Magari era diverso per ogni persona, chi lo sapeva... comunque a me dava piuttosto fastidio.
La mia vista era offuscata, a stento riuscii a vedere come la mano di Justin si protese in avanti, facendo segno al Dolente dietro di lui di partire.
E questo non aspettò altro. Fece un balzo sul posto e partì alla carica. Chiusi gli occhi, rassegnandomi. Non avevo molta scelta. Sentii solo il suono delle lame che giravano. Ringhi. Tremolii del terreno.
Ma ero viva. Non ero ferita. Non sentivo nessun dolore. Riaprii gli occhi, piuttosto sorpresa. Vidi due Dolenti che lottavano tra di loro.
Quello nuovo era come gli altri, ma decisamente più grosso. Il colore era diverso, più tendente al dorato, e le punte sulla schiena erano mille volte più affilate.
«L'Alpha», sibilò tra i denti Justin. «È venuto a difendere la mammina. Come sempre, d'altronde. Ecco perché non hanno attaccato subito, alla prima invasione nella Radura. Anche se sicuramente sono stati i Creatori a mandarli qui come test. C'era l'Alpha a controllarli a distanza. Credevo che non l'avessero mandato nel Labirinto, o che fosse disattivato. Ecco perché lì dentro i dolenti si sono fermati. Era nascosto nel Labirinto, ma agiva comunque...»
Il Dolente di Justin emise un grido straziante e ancora più fastidioso del rumore della Marchiatrice, mentre l'altro, l'Alpha, ritrasse lentamente una delle lame che aveva attraversato da parte a parte il suo corpo. Cominciarono a macellarsi a vicenda, come era già successo con gli altri. Con la differenza che l'Alpha era decisamente più grande e sembrava subire molti meno danni.
Non mi ero resa conto che, nel frattempo, Justin aveva mandato la Marchiatrice verso di me.
Non sentivo più nulla e vedevo tutto sempre più sfocato.
Abbassai lo sguardo, ritrovando quell'affare attaccato al mio petto. I miei piedi erano ancora immobili. Avrei corso, avrei cercato di scappare, ma non riuscivo a muovere un solo arto. Facevo quasi fatica a respirare.
La Marchiatrice aveva aumentato il volume del suono. O forse era così forte perché era a pochi centimetri dal mio volto.
‹‹Il verso della Marchiatrice, se ascoltato a lungo e se rivolto ad una persona in particolare, può provocare emicranie fortissime, agendo a livello neuronale, e può condurre alla morte. In alcuni casi, può provocare anche un’emorragia interna. Paralizza la vittima, non permettendogli di muoversi, e questa recupera la capacità motoria dopo un breve periodo di tempo e solo quando la Marchiatrice smetterà di emettere il suo verso. Questo è ciò che diceva la descrizione di questa creatura», disse Justin. La sua voce riecheggiava nella mia testa, e di colpo non capii quale dei due suoni fosse più fastidioso. Ricordare quella cosa non era affatto rassicurante.
Cercai di muovere il braccio destro per liberarmi di quell'essere, ma era completamente addormentato. Non riuscivo a muovere un solo muscolo. Potevo solo assistere a quella scena, senza avere nemmeno la possibilità di sfuggirle.
Vidi la coda della Marchiatrice ergersi, mettendo il mostra la punta lucida. Poco dopo sentii un dolore allo stomaco. Qualcosa di pochi attimi. Per poi vederla sbalzata via dal colpo di un artiglio dell'Alpha.
Non sentivo più nessun nuovo. Non mi resi conto nemmeno del Dolente di Justin che era a terra con le “zampe” rivolte contro il petto. Era morto, ed era dannatamente messo male. Pieno di tagli ovunque.
L'Alpha non era messo meglio. Sembrava che avesse usato l'ultimo briciolo di forza per sbalzare via la Marchiatrice e schiacciarla con uno degli artigli metallici. Emise un ultimo grido, poi si accasciò a terra, non troppo distante da me.
Justin corse verso la Marchiatrice, la prese in mano e la guardò. Sembrava dispiaciuto per lei. Forse era l'unico essere che gli era stato vicino. La strinse con una mano e la infilò nella tasca dei pantaloni, lasciando metà della sua parte superiore a penzoloni.
«Caspio, sei ancora viva? Eppure ti ha trapassata con la sua coda!» Contrasse la mascella, tirando fuori un coltello dall'altra tasca del pantalone e chinandosi su di me.
Non avevo recuperato del tutto le mie capacità motorie, ma ora che la Marchiatrice era morta, riuscivo almeno a fare qualche piccolo movimento. Riuscii a strisciare... ma sapevo perfettamente che non sarebbe bastato. Mi tirai su col busto, cominciando ad indietreggiare.
«Perché fai tutto questo?!», gridai, con la poca forza che avevo in corpo. Il buco nello stomaco bruciava da matti, sanguinavo tanto... forse troppo. E sentivo le forze abbandonarmi lentamente. Non volevo lasciarmi andare così. Non potevo.
«Perché, Elizabeth... è ciò che siamo. Siamo assassini», rispose con tutta calma. C'era una nota di sadismo nella sua voce. «Abbiamo creato i D2MH, e cosa fanno loro? Uccidono. Abbiamo collaborato con la creazione di questo posto, e cosa fa questo posto? Imprigiona dei ragazzini, che muoiono nel tentativo di fuggire.» Mi fermò per una gamba, così da non permettermi più di strisciare via, lontana da lui. «Non possiamo cambiare ciò che siamo. Abbiamo fallito nel cercare una cura per l'Eruzione, siamo stati scadenti. Non so perché tu sia qui, ma... ti faccio andare via subito.» Inclinò la testa, impugnando stretto il coltello. «Addio, Elizabeth. Saluta da parte mia quel fallimento di George.» E, detto questo, spinse velocemente il coltello verso il mio petto.
Poi si fermò. Il coltello aveva appena attraversato la mia carne, ma non avevo sentito nulla. Nessun dolore, nessuna fitta... nulla. Forse l'adrenalina del colpo precedente mi aveva anestetizzata, in un certo senso. Sentivo solo il mio respiro. Annaspavo, cercavo l'aria.
Ma perché si era fermato? Il suo sguardo era... perso. Lo vidi inarcare la schiena, poi cadere all'indietro. Appena il suo corpo cadde a terra, vidi che, dietro di lui, c'era uno degli artigli dell'Alpha. Era completamente sporco di sangue.
Abbassai lo sguardo su di lui. Per la prima volta, riuscii a vedere in un essere così crudele un briciolo di affetto. Era sempre stato nel Labirinto e mi aveva salvata più volte.
Il giorno dell'invasione, i Dolenti non stavano inseguendo me, ma Newt. Il giorno in cui ero entrata nel Labirinto, il ruggito che aveva fatto arrestare i Dolenti, era il suo. Ed ora mi aveva salvata dal Dolente di Justin... e aveva cercato di salvarmi la vita.
Abbassò lentamente l'artiglio verso la mia mano. La sfiorò, emettendo un verso che sembrava essere una sorta di uggiolio. Poi la ritrasse verso il suo corpo, assumendo la posizione da morto, come facevano gli altri Dolenti.
Non so quanto tempo passò. Non molto, forse qualche minuto, ma l'aria cominciava a mancare sempre di più. Sentivo i miei arti formicolare. Cercavo di resistere, cercavo di muovermi.
Sentii delle voci lontane. I Radurai stavano tornando indietro.
Udii dei passi. Poi qualcuno si fermò.
«Ma quella non è Elizabeth?» Sentii la voce di Alby, ma ancor prima che potesse continuare, qualcuno cominciò a correre nella mia direzione.
«Elizabeth? Elizabeth!» E questo era Minho, ma lui cominciò a correre solo dopo aver finito di parlare.
«Minho! Newt! Caspio, Pive, rallentate! Jeff! Vieni qui!», gridò Alby.
Poco tempo dopo, sentii il mio cuore battere più forte.
Newt si chinò alla mia altezza, portò una mano dietro la mia nuca e mi sollevò lentamente. I suoi occhi erano lucidi come non li avevo mai visti prima di quel momento, sussurrava tra sé e sé.
Diedi dei leggeri colpi di tosse, forse sputai del sangue, non sapevo nemmeno io cosa mi stava succedendo.
Guardarlo negli occhi e non avere abbastanza forze per dire anche una sola parola che potesse essere di conforto era la cosa peggiore di tutte.
«No, no, no, no... Liz... ascolta la mia voce.» Ma la sua voce tremava.
Poggiò una mano sulla mia guancia, mi guardava, e leggevo nei suoi occhi la frustrazione di non poter fare nulla.
Soffrivo di più per quella scena che per qualsiasi altra cosa.
«Newt?», sussurrò Minho, vedendo l'amico che sembrava assente.
«Newt...», fu tutto ciò che fui in grado di dirgli.
E l'ultima cosa che vidi, fu lui che cercava di non piangere, portandosi una mano sulle labbra. Avrei voluto dirgli qualcos'altro. Ma non ne fui in grado.
Avremmo dovuto avere più tempo.
 





 

{L'angolo dell'autrice}
Salve pive!
Ma ciao miei amati pive!
Ebbene sì, questo era l'ultimo capitolo di questa fanfiction.
Vi ringrazio davvero tantissimo per tutte le recensioni positive che avete lasciato, mi avete fatto amare ciò che faccio e alla fine a questa storia mi ero affezionata davvero tantissimo. Tant'è che mi dispiace che sia finita, ma non poteva durare in eterno. D'altronde è ambinetata un mese prima dell'arrivo di Thomas e Teresa!
Ringrazio in particolare la mia beta,
Eibhlin Rei, per la pazienza, il lavoro e il tempo che ha speso dietro questa storia. È stata bravissima... e le dovrò fare una statua immensa.
Grazie mille, sul serio! <3

Vi avviso, comunque, che c'è ancora un'ultima cosa.
Solo che adesso non vi dico cosa (?)
Keep Calm! ;)

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Capitolo 15
*** Epilogo ***




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Sono morta.
Me ne ero fatta una ragione dal momento in cui avevo chiuso gli occhi.
Sono morta.
Vedevo ancora gli occhi lucidi di Newt, che mi guardava come se stesse osservando il mondo cadere e frantumarsi in mille pezzi. Un'altra volta. Come se non ne avesse già passate abbastanza. Doveva soffrire, era come se quello fosse sempre stato il suo unico scopo in tutta la sua esistenza. Soffrire per il bene di qualcun altro. Soffrire per il bene più grande. Farsi le spalle larghe per il bene di tutti, sopportando pesi che un ragazzo della sua età non dovrebbe nemmeno conoscere. Cosa aveva fatto di tanto grave?
Sono morta.
E non avevo potuto fare altro che lasciarmi andare, anche se volevo lottare per la mia vita, ma non ne ero stata in grado. Avevo lasciato indietro le persone che amavo.
Avevo lasciato indietro i miei amici. Forse avevo lasciato indietro una famiglia. L'unica che avevo, l'unica che sentivo come tale.
Forse.
O forse no.
Riaprii gli occhi. O almeno, credevo di averlo fatto.
Ero morta.
Avevo davvero aperto gli occhi, o era solo uno stato conscio di una vita dopo la morte?
Nessuna risposta, la mia mente era completamente vuota di qualsiasi spiegazione che potesse essere minimamente... accettabile, o comunque degna di essere definita tale.
Quindi, che cosa era successo? L'avevo fatto davvero? Avevo aperto gli occhi?
Vedevo tutto buio attorno a me. Nemmeno uno spiraglio di luce. Non un rumore.
Niente.
Il vuoto più totale.
Ero viva o ero morta?
Passai le mani lungo il mio corpo. Ero nuda. Completamente nuda. Sentii la mia pelle liscia. Sentii le cicatrici. Sentii il mio corpo.
Ero sdraiata su una superficie fredda. Poco dopo mi misi seduta. Dovevo capire cosa mi era successo. Cosa stavo vivendo, ma, soprattutto, se stavo effettivamente vivendo.
Dove mi trovavo? Ero forse nel Limbo? Era questo che c'era dopo la morte? Il nulla più assoluto?
«Salve, signorina Elizabeth.» Una voce riecheggiò nel vuoto. Allora non ero completamente sola, no? Era una voce di un uomo. Non sapevo da dove venisse.
«O forse dovrei dire “Bentornata a casa”? Si starà probabilmente chiedendo dove si trova, perché è al buio, cosa sta succedendo... è semplice. Si trova nella base della C.A.T.T.I.V.O.. Ora la prego di coprirsi con il telo che sta sotto di lei. Entrerò nella stanza per darle qualche delucidazione.» Era una voce nell'oscurità.
Sentivo il mio cuore battere così veloce che riuscivo a sentirlo nelle orecchie.
Telo? Non vedevo nemmeno me stessa, come caspio potevo vedere un telo?
Cominciai a tastare la superficie sotto di me. Per un bel po' non trovai nulla, ma quando finalmente la individuai, mi coprii alla svelta.
Ed allora le luci si accesero di botto.
Mi guardai le mani. Erano bianchissime. Ero completamente bianca.
E quel posto... io l'avevo già visto. C'erano luci al led, computer, sedie...
Io c'ero già stata.
Entrò un uomo che doveva avere una cinquantina d'anni e indossava un camice da scienziato. Indossava degli occhiali e teneva in mano una cartellina. Sembrava proprio il classico ritratto dello scienziato, ma non aveva un aria particolarmente seria.
Subito dietro di lui, c'era un uomo che sembrava vagamente... un ratto.
«Salve, Elizabeth», disse quest'ultimo, «vedo che ci rincontriamo».
«Io... sono morta? Questo è un sogno?», domandai d'istinto. La mia voce quasi mi sembrava diversa, ma non lo era.
L'uomo con gli occhiali, che aveva trascinato una sedia davanti a me e aveva incrociato le braccia, scosse la testa. «No, non stai sognando. Noi della C.A.T.T.I.V.O. ti abbiamo presa una volta che i tuoi compagni Radurai ti hanno sepolta e ti abbiamo portata qui. Ti abbiamo lavata alla svelta e ti abbiamo curata. Sai, qui abbiamo diversi esperti. Non eri esattamente morta, la Marchiatrice aveva un veleno particolare che ti è entrato in circolo appena ti ha punta. È chiamato “il Costume della Morte”. In pratica, crea uno stato di morte apparente, che dura qualche ora, poi ci si risveglia come se nulla fosse. Tutto questo per riaverti qui con noi, Elizabeth», spiegò gentilmente. «Sei speciale, e tu lo sai.»
Non sapevo perché, ma avevo la sensazione di potermi fidare di lui. Mi sentivo al sicuro. Lo stesso non potevo dire dell'uomo dietro di lui, che mi guardava con aria di superiorità.
«Che è successo?», domandai, e l'uomo col volto da ratto schioccò la lingua
«Non ricordi nulla di ciò che è successo prima che tu andassi nella Radura?», chiese gentilmente lo scienziato, ed in tutta risposta scossi la testa.
«Visto? Non ricorda proprio nulla! Te l'avevo detto che sarebbe stato uno sforzo inutile! Dovevamo lasciarla lì, d'altronde ci si è spedita lei stessa!», rispose l'altro, sbuffando rumorosamente.
«Janson, potrebbe cortesemente tacere?»
Janson? Justin aveva parlato di lui.
L'uomo davanti a me sorrise, cercando di sembrare ancora più cordiale di quanto già non si fosse dimostrato. «Elizabeth, ricordi dei D2MH, giusto? So che te lo ricordi. Sei fuggita tu stessa nella Scatola del Gruppo A, stavi fuggendo.»
«Da cosa fuggivo?» La cosa non mi piaceva affatto.
«Da tutto. Eri stanca di lavorare a questo progetto. Non eri d'accordo sul fare del male ai Soggetti ed eri stufa di farlo contro la tua volontà. Hai cercato di liberarci contro i D2MH, quasi ci sei riuscita. Ma era solo un diversivo per poter fuggire. Abbiamo cercato di fermarti, ma avevi manomesso tutti i sistemi di sicurezza. Ti sei presa un calmante, il Filtro per dimenticare, poi ti sei sostituita ad uno dei ragazzi che doveva andare nella Radura e ti sei spedita tu. Quel ragazzo... beh, penso sia fuggito all'esterno. Tanto peggio per lui, non sarebbe sopravvissuto comunque.»
Tralasciai le domande su quel ragazzo. Non volevo sapere cosa intendesse con quel “non sarebbe sopravvissuto comunque”. Non sembrava nulla di positivo ed avevo problemi ben più importanti di quelli riguardanti una persona che nemmeno conoscevo.
«Cosa volevo dimenticare?»
«Tutto ciò che hai fatto, credo. Probabilmente ti sentivi in colpa. O forse sapevi semplicemente troppe cose e non volevi più portarne il peso. D'altronde, Elizabeth, hai solo diciassette anni. Il mondo è cambiato troppo e... non è più un bel posto come poteva esserlo prima. L'Eruzione ha dannatamente fatto una strage di questo posto... le persone non sono più le stesse. Viviamo col costante terrore di sapere chi sarà il prossimo Spaccato. Noi ci impegniamo per trovare una cura. Solo che ogni tanto, per quanto questo posto sia sicuro, qualcuno di noi si ammala lo stesso e viene subito messo in quarantena. Ma non preoccuparti, quelli che si ammalano sono per la maggior parte persone che vengono da altri dipartimenti, novellini insomma. Ci disfiamo subito di loro, quando sono malati. Il giorno prima che andassi lì, un novellino ti ha svegliata nel cuore della notte per provare un vaccino inventato da lui. Ed era solo in fase sperimentale. Era stato uno scienziato che dopo aver addormentato tutti gli altri ed ha lasciato sveglia solo te per provarlo, solo per paura di testarlo direttamente su sé stesso. E quello scienziato era malato. Aveva l'Eruzione già in fase piuttosto avanzata. A dire il vero, non è stata la prima volta che è successo qualcosa del genere.»
«Ah, per l'amor di Dio!», balbettò Janson alle sue spalle. «Arriviamo al sodo. Tornerai a lavorare per noi, oppure noi ti manderemo nella Zona Bruciata a marcire insieme agli Spaccati!»
Zona Bruciata? Gli Spaccati?
Il sole brucia la zona.
«Non dire stronzate, Janson. Così la terrorizzi più del necessario, dannazione! Sta’ tranquilla, Elizabeth. Nessuno ti farà più del male. Sei al sicuro qui. Tuo padre è molto preoccupato per te e vuole vederti.»
Mio padre? Mio padre... Non ricordavo nemmeno che faccia avesse.
Non sapevo se quella fosse una cosa positiva o se dovessi sentirmi in qualche modo triste per quello.
Chiusi gli occhi, strizzandoli lievemente. Volevo soltanto tornare dai miei amici.
A pensarci bene... ero sorpresa del fatto che in verità non m'interessasse di lui, di mio padre.
E se prima avevo desiderato di fuggire dalla Radura. Se prima l’avevo odiata al punto di voler fare qualsiasi cosa... ora volevo solo tornare lì. Volevo farlo, solo per poter fuggire assieme ai miei amici.
Quella era la mia vera famiglia, ormai. Quel gruppo di ragazzi con una sola cosa in comune: la voglia di sopravvivere, di fuggire, di vedere il mondo esterno.
«Non ti ricordi di lui, non è vero?», domandò l'uomo davanti a me. «Hai lo sguardo assente.»
Scossi la testa. Era così gentile, non volevo rispondergli male. Ma ero tentata di farlo, perché mi sentivo dannatamente nervosa. Mi metteva irrequietudine, volevo tornare indietro. Quello era il mio unico chiodo fisso.
«No», risposi, cercando di tenere un tono calmo. «Ma non m'interessa. Voglio tornare lì. Voglio tornare dai miei compagni. Ho bisogno di sapere cos'è successo a loro.»
«Non preoccuparti, stanno bene. Tra poco Thomas e Teresa passeranno alla Fase Uno del test. Staranno bene. Dunque, vuoi vedere cos'è successo? Bene.» Si avvicinò ad uno dei computer e cominciò a premere diversi tasti. Fece illuminare gli schermi.
Mostravano la Radura. I Radurai erano a lavoro in tutti i posti. La vita continuava, come al solito. C'erano tutti, ma non riuscivo a vedere l'unica persona di cui mi interessava davvero.
Magari è nel posto segreto..., pensai, sentendo un vuoto improvviso.
«Contenta?»
«Che fine hanno fatto i D2MH? E i cadaveri di George e Justin?»
«I D2MH sono morti dopo la morte dell'Alpha, mentre George e Justin sono stati presi proprio come abbiamo preso te. Abbiamo analizzato i loro corpi e, sopratutto, il loro cervello. Non abbiamo riscontrato nulla di utile per la cianografia.»
«Cosa succederà adesso?», sussurrai. Perché sentivo che non sarebbe accaduto nulla di positivo?
«Una volta completato il test del Labirinto, passeremo alla Fase Due.» Si girò a guardarmi. Sul suo volto comparve un improvviso sorrisetto ambiguo. «Prenderemo i Radurai e li manderemo nella Zona Bruciata... e tante, tante altre cose. Tutte per un bene più grande, ricordi?»
Non sapevo cosa fosse la Zona Bruciata, ma quel nome non prometteva nulla di buono.
«Forza, ora andiamo. Adesso ti vesti e raggiungiamo tuo padre. Ti sta aspettando.»
«Finalmente! Comportati bene, mi raccomando... tuo padre è il capo di questo posto», esordì Janson, quasi con un tono di ammirazione.

Fortunatamente, non fui costretta a stare al mio posto precedente.
Mio padre... lo avevo immaginato in modo diverso. Era felicissimo di rivedermi, mi strinse in un abbraccio fortissimo e quasi si mise a piangere. Era contentissimo, sul serio... ma io non sentivo nulla. Mi sentivo svuotata di ogni sentimento, non provavo nulla. Nulla.
Non vidi nessuno dei “Quattro d’élite”. Ancora pochi giorni e sarebbe terminato il mese, quindi, tra poco, nella Radura sarebbe arrivato il nuovo Fagio.
Vero, non facevo nulla che riguardasse il mio lavoro precedente. E come avrei mai potuto farlo? Non avrei mai fatto del male ai miei compagni, e gli altri lo sapevano. Al contrario, avrei fatto di tutto per liberarli.
Ma mio padre mi promise che a breve sarebbe terminato tutto, e aggiunse che in ogni caso non ci sarebbe stato nulla che io avrei potuto fare. Mi confessò che anche lui odiava dover guardare quei ragazzi all'interno di quel posto, ma che era per un bene più grande.
Non riuscivo a credere a quelle parole, e nemmeno lui sembrava crederci. Era come se avesse avuto in mente un nastro registrato con quella sola falsa spiegazione.
Mi spiegò che lui era uno dei fondatori del Quartier Generale della C.A.T.T.I.V.O., ma che prima di tutto questo, era stato un dottore di fama mondiale. Uno dei primi ad aver scoperto e visto quella malattia che aveva messo il mondo in ginocchio.
Aveva scoperto che io, lui e mia madre eravamo, fortunatamente, immuni agli effetti del virus. Si era messo a cercare un vaccino, assieme a mia madre. Test su test ogni giorno.
Era stato contattato dalle persone che volevano creare questa grande associazione e avevano richiesto il suo aiuto.
Lui non voleva, non era d'accordo con la storia della cianografia. Ma la scelta era semplice: o li avrebbe aiutati, o sarebbe morto. Saremo morti tutti. Non avremmo trovato ospitalità in nessuna delle città sicure. Le poche rimaste. E non voleva fare questo né a me né a mia madre.
Mia madre... anche lei era stata una grande dottoressa e scienziata. Lo era stata davvero... poi la malattia l’aveva colpita. Forse la sua immunità non era permanente. Forse lo stress aveva solo peggiorato le cose.
Mio padre era divenuto il capo di quel dipartimento, e aveva cercato in tutti i modi di salvare mia madre.
«Sarò sincero, piccola mia, probabilmente è ancora viva», mi disse. «Ma non è più qui».

Dal giorno del mio ritorno in quel posto, avevo passato la maggior parte dei miei giorni con mio padre. Aveva bisogno di me, anche se non ricordavo nulla di lui.
Mi mostrava delle foto di famiglia, mi raccontava aneddoti e di com'era stato il mondo prima che la malattia prendesse il sopravvento ovunque...
Mi raccontava molte cose. Ma la mia testa era sempre nella Radura. Ogni giorno, ogni secondo.
Ed ero sempre lì ad osservare tutto ciò che accadeva, attraverso gli schermi che erano sparsi per tutto l'edificio. Li osservavo senza poter muovere un dito.
Ero lì a guardare Newt che si rifugiava sempre più spesso nel posto segreto. Spariva per ore.
Guardavo i Velocisti continuare le loro uscire nel Labirinto, ignari del fatto che, tanto, non sarebbe cambiato niente. I piani erano altri. Ed io volevo tornare lì, aiutarli. Non sapevo come, ma avrei voluto fare la mia parte.
Era tutto dannatamente straziante. Lo era stato fino alla fine... ma c'era davvero, una fine?
Mi stavo recando verso l'ufficio di mio padre, mentre in una delle ampie sale per gli incontri dei grandi capi, era in corso una riunione.
Papà era lì con loro, quindi io avrei dovuto aspettarlo nel suo ufficio. Potevo fare ciò che volevo.
Ma ero curiosa di sapere perché quella riunione, quel giorno, fosse così importante come aveva fatto intendere lui.
Visto che quella stanza era di passaggio, mi avviai verso di essa. Dopo qualche attimo di esitazione, una volta lì davanti, decisi di poggiare l'orecchio contro la porta e di origliare.
Non capii granché del discorso, a parlare era una donna con una voce davvero seria. Captai solamente una parte di ciò che stava dicendo...
«La prima parte del piano è stata avviata. A breve i Soggetti termineranno, finalmente, la Fase Uno e avremmo un'ottima cianografia tra le mani con eccellenti risultati, nonostante l'inconveniente di sua figlia, signor Richard. Abbiamo corso un bel rischio, ma abbiamo ottenuto risultati veramente strabilianti! E questo è stato veramente ottimo. Tuttavia, come ben sappiamo, non è ancora finita qui. Teniamoci pronti, perché appena termineremo la Fase Uno, cominceremo subito con la numero Due. Niente pause, non possiamo permetterci di sprecare un minuto in più e non possiamo sbagliare nemmeno di una virgola. Ricordatevi, è per il bene più grande.»

{Angolo dell'autrice}

Okay pive, con questo super breve epilogo (se così possiamo definirlo!) è terminata ufficialmente la FanFiction.
Ora, risponderò a qualche domanda che mi è stata fatta nel corso della FF e che magari qualcuno di voi ha ancora:

 

- Ma la FanFiction fa parte del libro? nel senso, è ufficiale?
- No, è una fanfiction a tutti gli effetti. Non esistono D2MH, Marchiatrici, Elizabeth, Justin, George, Jillian ed Evangeline.
Tanto meno è stato Newt a creare i dolenti. O almeno, non c'è scritto da nessuna parte ahahah

- Perché Newt è OOC?
- Questa è una cosa che mi è stata fatta notare una sola volta, e rispondo ora in modo chiaro e preciso.
Per un mio punto di vista, non è OOC, ma forse da autrice sono piuttosto di parte, e forse è anche perché io riesco ad inquadrare la situazione dato che la storia la sto scrivendo io.
Vi spiego subito, comunque, perché giustamente tutti meritano di capire (sopratutto ora che la storia è terminata!):
La storia è ambientata UN mese prima dell'arrivo di Thomas e Teresa, per cui ancor prima della storia ufficiale.
Essendo passato comunque un mese prima, ho deciso di giostrarmi questo tempo nel miglior modo possibile, facendo accadere delle cose che avrebbero modificato il carattere di Newt.

Una persona sottostress, come lo era lui essendo anche il secondo in comando, giustamente reagisce come meglio può per salvaguardare sé stesso, ed io ho deciso di renderlo un po' più "chiuso" in sé stesso, che diffidava delle persone che lo circondavano, tranne che dei suoi migliori amici.

D'altronde nella radura si sopravvive, se uno muore gli altri imparano a non commettere i suoi errori e vanno avanti nella loro vita. Ho voluto rendere questo concetto piuttosto chiaro, anche attraverso Newt.
Tuttavia, ho deciso anche di dare una spiegazione al suo comportamento futuro (quindi nella versione ufficiale del libro di James). Il suo essere così disponibile, gentile e "protettivo" verso gli altri.
L'arrivo di Liz, quindi, che come ultima cosa gli chiede di aprirsi di più verso gli altri.

La sua perdita avrebbe modificato questo lato di lui, rendendolo anche leggermente più vulnerabile alla morte dei suoi compagni (come per esempio Chuck).

- Come mai questi nomi per i personaggi?
- A dire il vero, questa è una cosa che non mi ancora stata chiesta (perché a nessuno frega un caspio! *applausi*), ma ci tengo a dirvela comunque, perché c'è un botto di lavoro dietro.

... No non è vero. Ci sono solo poche ricerche AHAHAH ma  ci tengo a dirvi che non è stato un lavoro fatto alla caspio di cane!
Comincio col dirvi che il nome di Justin e George compaiono nel film, quando viene inquadrata quella parete con i nomi dei radurai (grazie regista, anche se da raduraia ti maledico per aver messo una cosa che non c'entra niente. Però mi hai suggerito dei nomi, a qualcosa sei servito!).
Da lì, ho cercato a cosa potevo collegarli.
TUTTI I NOMI inseriti all'interno della FF appartenevano a scienziati o comunque persone importanti!
Justin, ad esempio, è Justin Capra, inventore del Jetpack.
George, pensavo a George Washington, ma a pensarci bene, per quanto sia stato importante, preferisco le cose più complesse, così ecco a voi George Alexander Kelly, psicologo, matematico e pedagogista! Ideatore anche della teoria della psicologia dei costrutti.
Evangeline, la ragazza asiatica ribelle che Janson chiama Jocelyn, anche lei non ha un nome a caso, ma Jocelyn Bell-Burnell è stata un'importante astrologa.
Elizabeth, invece, possiede il nome di Elizabeth Helen Blackburn, premio Nobel per la medicina nel 2009, ottenuto per le scoperte sull’enzima telomerasi (assieme a Carol W. Greider), è la presidentessa della American Association for Cancer Research.
Queste scoperte un domani potrebbero essere applicati per la ricerca della cura contro il cancro.
Per Jillian invece non ho fatto nessuna ricerca, lei non rientra nella categoria scienziati nemmeno nel racconto.


- Ci sarà un seguito?
- Sì, ci sarà un seguito, probabilmente, ma non ora.
Premetto che purtroppo non ho più così tanto tempo come quando ho iniziato a scrivere questa FF al quale mi sono affezionata parecchio, quindi, se scriverò il seguito, non farò capitoli così lunghi come questi. Anche perché qui mi potevo sbizzarrire, non avendo una trama da seguire, invece se dovessi fare sia La fuga che La rivelazione sarò costretta a seguire la trama... Chiaramente modificando diverse parti per personalizzarla il più possibile.
Perciò, vi terrò aggiornati in qualche modo! Magari, quando la pubblicherò, vi manderò un messaggio privato o qualcosa di simile. Non penso che terrete la storia nella biblioteca personale, dato che è finita e non ci conto nemmeno, perché vi posso capire ^^

- Come mai hai voluto trattare il classico argomento della prima ragazza nella radura?
- Altra domanda che non ricordo se mi è stata fatta o sono io che mi sogno le cose.... E va beh.

Comunque, in modo stupido, all'inizio pensavo che non fosse stato ancora trattato (sogna, sì.....) e la trovavo una cosa carina e nuova. Ad ogni modo, non importa, perché sin dal primo momento ho voluto proporre la cosa in modo da essere il più credibile e originale possibile.
Mi sono sentita più motivata una volta scoperto che era un argomento già trattato.
Non volevo far girare tutta la storia solo attorno ad una storia d'amore tra Newt ed Elizabeth, se no sarebbe stato troppo noioso e pesante sia da scrivere che da leggere.
Dovevo oltretutto trattare l'argomento con i guanti, perché comunque stavo lavorando su una fanfiction tratta da un libro, rischiavo di fare spoiler troppo grandi o comunque di sforare veramente troppo dalla trama originale!

Detto questo, pive, se avete ulteriori domande non esitate a mandarmi un messaggio privato o a lasciare un commento! Sarò più che felice di rispondere a tutto! ^^
Vi terrò aggiornati in caso iniziassi il seguito di questa FF.
Grazie mille per le recensioni che avete lasciato, mi ha fatto seriamente piacere e mi ha fatto amare ancora di più questa mia passione.
Non smetterò mai di dirlo e di ringraziarvi!
A presto, pive!

 

 

 

 

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