GoT: La Mano della Dama

di Laire
(/viewuser.php?uid=826781)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Inizio ***
Capitolo 2: *** Matrimonio ***
Capitolo 3: *** Giustizia ***



Capitolo 1
*** Inizio ***


T R I S T A N
Tutt'un tratto faceva troppo caldo. Come se il sole si fosse improvvisamente avvicinato a tutta Westeros, quello sforzo cominciò ben presto ad accaldarlo più del dovuto. Ma erano tempi duri quelli, sopratutto per lui. < Dai muoviti! Un cavaliere che si muove così lentamente non l'avevo ancora visto! > si sentiva fulminato con lo sguardo da dietro la schiena: solo davanti a quelle parole trovò il coraggio di fermarsi, almeno per un secondo. Le mani scivolarono dalla balla di fieno, lasciandola proprio innanzi a sè, ferma. E in tutta risposta, fu lui a pungere con il suo sguardo quella sagoma d'uomo. Il vecchio era là davanti e lo guardava a braccia conserte: una sorta di cappello ombreggiava quel viso barbuto e puntiglioso, mentre in quella posizione le braccia facevano risaltare più i muscoli che altro. Doveva esserci abituato a giudicare da questi ultimi, ma maneggiare una spada non è comunque così faticoso come questo lavoro. Quanto a lui... anche se non peccava di muscoli, non ne aveva troppi. La sua figura era molto più slanciata, alta per la norma, allenata, ma non certo così tanto. < Ah, certo. Ora ti devi pure riposare eh? Lascia che faccio io, non vorrei che quel visetto si sporcasse. > continuava il vecchio, sorridendo beffardo. Aveva già compiuto i primi passi verso lui, quando il cavaliere scosse la testa, convinto che l'altro lo facesse apposta. < Faccio io. > aveva detto Tristan, e così fu. Non era certo stato allenato per compiere questo genere di sforzi, ma era sicuro che una volta maneggiata una spada sapevi fare qualunque cosa. In realtà però, se aveva rifiutato l'aiuto era perchè odiava chi richiamava in quel modo il suo aspetto: tra le mura appartenenti alla sua casata molte volte gliel'avevano rinfacciato. Il suo viso era fanciullesco almeno quanto il viso del vecchio, di cui nemmeno ricordava il nome, già accusava segni dell'età. Erano riccioli quelli che carezzavano il suo capo fermandosi poco sopra il collo, neri come la pece, mentre gli occhi bruni "hanno il colore del fango", diceva sua sorella ogni volta che si presentava l'occasione. E lui ogni volta non sapeva che rispondere, non perchè non ci fosse di che ribattere, ma per quella sua eccessiva bontà. Di anni ormai cominciava ad averne qualcuno, era giovane, eppure rimaneva incapace di ribattere almeno a sua sorella. < Però muoviti! > ancora una volta, imperiosa la voce tuonò alle sue orecchie. S'era fermato ancora una volta, preso dai troppi pensieri. Sbuffò prima di riprendere con quel duro lavoro. Una balla di fieno dopo l'altra, alla fine riuscì a trasportarle tutte prima del tramonto, con l'enorme contentezza del vecchiaccio che per tutto il tempo gli aveva sbraitato contro. Lui lo chiamava "incoraggiare", Tristan meglio non definisse cosa fosse.

< Sei sicuro di voler partire domani? > una soave voce, invece, quella della moglie del vecchio. Gli porse la zuppa prima di chiederglielo, era ora di cena. 
< Certo che si, sennò non arriverei mai a destinazione. > sicurezza quella nelle sue parole. Tristan si strinse tra le spalle, in fondo non ci poteva fare proprio niente. Quando fu la vecchia ad allungargli la ciotola le sue dita si strinsero su questa ancor prima che l'altra compisse un movimento completo, e non per fame o avarizia, quanto perchè non la voleva far affaticare. Appariva fragile ai suoi occhi, una donnina molto meno alta di lui, con una simpatica gobba. Il vecchio Ricard, il nome l'aveva scoperto soltanto rientrando verso casa, l'aveva avvisato che sua moglie era malata, e non poteva fare troppi sforzi. Nella sua bontà dunque in questi giorni aveva fatto di tutto pur di rendersi utile anche in tal senso, anche perchè unguenti e latte di papavero sono molto meno pesanti di balle di fieno.
< Peccato, ti siamo debitori comunque. > 
< Debitori? Davvero? > naturalmente anche Ricard era con loro, e non esitò un solo attimo a contraddire quanto era appena stato detto. Tristan si voltò di scatto come se se ne fosse appena accorto, ma continuò a mangiare mentre lo ascoltava.
< Abbiamo cominciato stamattina, ha finito stasera. Non erano poi così tante le balle di fieno, anche adesso ci avrei messo molto, molto di meno. >
< Ha ragione, mi dovete scusare signora. > era intervenuto lui, gentile e pacato, giusto per dar ragione a chi ha torto e, dunque, concludere il discorso lì. < Non sono abituato a questo lavoro, anzi, stimo vostro marito per riuscire a farlo tutti i giorni. > ridacchiò non appena sentì un qualche verso stizzito provenirgli da dietro le spalle, cosciente del fatto che probabilmente, quelle parole il vecchio non se le aspettava. Pure la donnina annuì compiaciuta, ma in seguito calò il silenzio. Tristan studiò per un'ultima volta quella piccola, minuscola casetta in legno: era rovinata, qualche asse era fuori posto persino nel tetto, eppure aveva un'ambiente talmente familiare che i difetti riuscivano a diventare dei pregi. Si era fermato lì soltanto perchè era allora tremendamente affamato e necessitava cibo, cosa che già aveva previsto durante il viaggio, ma non aveva potuto portarsi approvvigionamenti adatti. Dopo la guerra, dopo tutto ciò che era accaduto, la sua casata non era delle migliori in campo economico. Dopo aver scommesso sull'uomo sbagliato durante la Guerra dei Cinque Re, era riuscita a tirarsi indietro, e per quante ragioni potesse aver avuto cadde comunque nel baratro della povertà. E' per questo che con tutti i dovuti consensi aveva cominciato questo viaggio, per riscattare l'onore perduto in mezzo a gente che dell'onore, in realtà, potrebbe conoscere ben poco. Ed infine eccolo qui, a sorseggiare della scadente, ma buona, zuppa, assieme a una famiglia che gentilmente, neanche troppo, gli aveva offerto ospitalità in cambio di qualche lavoro manuale.
< E dove andrai, se ci è permesso sapere? > dolce la voce della vecchia che lo richiamava alla realtà. 
< Non so se lo conoscete, ma mi è giunta voce ci sarà un torneo nell'Altopiano. Mi pare che la casa Footly sia quella che lo inaugura. >
< E' dovuto a un evento speciale? > 
< Ma quale evento speciale! I nobili sono tutti uguali, basta che abbiano tutti un nome in comune, non gli resta poi che sbandierarlo ai quattro venti. Ah dei! > Ancora una volta quel vecchiaccio dietro non aveva esitato nemmeno un secondo a intervenire a sproposito, e sempre con l'intento di criticare. Sbuffò quando sia Tristan che la vecchia gli cacciarono l'ennesima occhiataccia: la bontà è una cosa, la stupidità tutt'un'altra. Fu Ricard dunque ad alzarsi, anche piuttosto velocemente, e ad andarsene, abbandonando i due da soli e mugugnando di tanto in tanto qualcosa qua e là. 
Fu sempre il giovane a riprendere il discorso: < Non saprei... devo informarmi meglio. Le mie cose sono nella stalla? > 
< Accanto a Fiamma. >
< Perfetto. >
Un cenno col capo, mentre la mano accantonò la ciotola, anch'essa di legno. Aveva finito di mangiare, e ora non vedeva l'ora di dormire fino all'alba. Poggiò i gomiti sul tavolo e affondò le sue mani tra i capelli, mantenendosi la testa tra queste. Nel volto era un poco preoccupato e non lo poteva negare, nè voleva farlo, dato che venne notato subito dalla vecchia che cominciò a puntarlo con quegli occhi stanchi e imprecisi, particolari grazie alle zampe di gallina. 
< Ragazzo, hai paura? > lo ferirono soltanto, quelle parole. Come prima, la sua bontà non gli lascia nemmeno nascondere certe cose come fan tutti. Parve muovere le labbra per rispondere, e invece proseguì sempre lei < Non devi averne. O è mio marito ad averti spaventato così tanto? >
Lì, di fronte a quelle parole, fece velocissimo a rispondere. < Oh no no, figuratevi. E' stato bravo con me. > 
< Ne sei sicuro? >
< Sicurissimo. >
< Potrebbe stupirti se lo conoscessi meglio. >
E invece, Tristan si stupì di quelle parole, al punto che dapprima boccheggiò incapace di dir qualcosa, ma quando trovò qualcosa da dire era già passato troppo tempo, e il discorso andava già avviandosi verso altri lidi. Ben presto andò a riscattare il suo meritato riposo, e le candele di quella piccola casa in legno si spensero tutte quante.

La mattina dopo, capì che era comunque andato troppo tardi a dormire. In effetti, probabilmente a qualunque ora sarebbe andato a dormire non gli sarebbe bastato per niente. Non appena si sedette su quel letto improvvisato, un dolore gli percosse tutta la schiena al punto da digrignare i denti. E per alzarsi, pensava quasi d'aver perso l'uso delle gambe. Sbuffò più e più volte prima di riuscire a prendere una posizione eretta, e quando lo fece, notò qualcosa di strano vicino al suo "letto". Un sacchetto, probabilmente persino in cuoio, racchiudeva un ipotetico contenuto. Si massaggiò la testa spaesato chiedendosi se ci fosse sempre stato, ma infine lo prese e curiosò al'interno. Non sapeva se essere contento, o essere ancora più stupito. Balbettò qualcosa tra sè e sè, buttando occhiatacce in giro per vedere se c'era qualcuno. Poi guardò meglio all'interno, e notò che tra le tante monete di rame un bigliettino riportava il suo, di nome. Era contento, ma era spaesato. Occhieggiava in giro come fa una bestia prima di essere macellata, con la sola differenza che lui non doveva essere macellato, e dunque quel momento poteva essere infinito. Solo successivamente si ricordò quanto gli disse la notte scorsa la vecchia, e soltanto allora capì. Il vecchio, burbero e scontroso probabilmente aveva una bontà che nemmeno Tristan poteva avere nè conoscere, e ciò lo fece sorridere. "Ecco perchè c'è qualcosa di buono anche nell'essere cattivo" pensò. Non perse un minuto di più: si vestì, ma stavolta indossò una cotta di maglia, imprecando più e più volte per i dolori dovuti al giorno ormai passato. Radunò le sue cose in vari sacchetti, che infine con grande parsimonia si impegnò a portare fino alle stalle. 
< Come te la cavi, Fiamma? > ironico lui, mentre buttava finalmente qualche occhiata bruna pure sul suo cavallo. Nero il pelo,  nera la criniera, ma da quando lo vide galoppare così velocemente durante un piccolo incendio scoppiato una notte di tanto tempo fa, il nome non fu più un problema. Carezzò il suo muso, ma poi subito caricò il peso sulla sella, una volta montata pure questa. Corse infine verso le sue cose, quelle che avevano un poco di valore: la sua armatura e la sua spada. Nemmeno uno scudo, che non poteva permetterselo. "Sono troppo pesanti gli scudi" se l'era sempre ripetuto "Graverebbe soltanto sulla mia velocità" continuava a ripetersi, quando ci ripensava. Fatto sta che ora, da indossare, aveva un'armatura e una spada col fodero. Prima la corazza, poi gli schinieri, infine gli spallacci e ora i fiancali, a cui legò nella cinta il fodero della spada. L'elmo decise di non metterselo, in fondo contava soltanto di cavalcare: in armatura aveva l'aspetto di un vero e proprio cavaliere luccicante, dato che ogni parte della stessa era di un colore argento e soltanto alcune parti secondarie erano sul nero-grigio. La parte migliore per lui stava nella corazza, la parte innanzi al petto infatti riportava sette stelle a sette punte, simbolo della sua casata.
Il resto del tempo lo passò dunque a pensare, in attesa che il sole spuntasse quel minimo in più che gli permettesse di avere una completa visione dell'ambiente circostante durante il galoppo, mentre Fiamma si divertiva a dare qualche calcio qua e là sul suolo, come intorpidito.
< Sei pronto a partire, eh? > gracile, la vecchietta gli si avvicinò con fare cauto, fermandosi a un punto abbastanza lontano dal cavallo.
< Non dovreste stare qua, c'è ancora freddo. > ed era così, per quanto in realtà non ce ne fosse troppo. Era semplicemente preoccupato.
< Smettila di preoccuparti così tanto per me, ragazzo. Si potrebbe rivoltare contro di te, questa cosa, fuori da questa casa. E' la prima volta che fai una cosa simile? > pareva schernire, stavolta, lo stesso Tristan, che dopo poco tempo in cui sgranò gli occhi rispose sincero. < Si. >
< Ricorda che l'ambiente in cui andrai è fatto per chi guarda unicamente il suo obiettivo, giovanotto. E sopratutto, dovrai fornire un nome a chiunque te lo chiederà. > Solo dopo queste parole, Tristan si trovò di nuovo a stupirsi. Per quei giorni in cui aveva ottenuto ospitalità dai due vecchi, non aveva ancora dato il suo nome. E solo ora, si rese conto, ma non colmò subito il vuoto. < Dov'è Ricard? > domandò infine, veloce, mentre alzò lo sguardo al cielo, impegnandosi a guardare oltre gli alberi. Era ora.
< Non era a letto, lo fa spesso. > accennò un sorriso il giovane, quando sentì questa risposta. Nemmeno la vecchia sapeva niente, eppure era stata una sua frase ad avvisarlo e metterlo in allerta, a fargli capire la gentilezza oltre ciò che ha di serio e imperscrutabile suo marito. Montò in sella ancor prima di spiccicare una parola, afferrando le redini del cavallo e guardando in basso, verso l'anziana. < Mi chiamo Tristan Sunglass, signora. Portate i miei ringraziamenti a Ricard, vi sono debitore. > un cenno col capo, prima di ricominciare il suo viaggio. Il debito, in poche parole s'era invertito. Osservò la vecchia mostrare cenni di saluto, mentre lui, pian piano, si immerse tra gli alberi assieme al suo fedele compagno. 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Matrimonio ***


E V E L Y N
La reggia in cui viveva e la corte che la abitava ormai erano diventate entrambe troppo noiose. Da quando suo fratello era partito per compiere "il suo dovere", Evelyn Sunglass soprattutto era diventata la persona più silenziosa di tutte le Terre della Corona. Anche lei aveva inizialmente sofferto la crisi in cui era caduta la sua casata, eppure probabilmente era l'unica ad aver mantenuto un aspetto regale. Due trecce erano annodate e sfilavano lungo i lati del capo, carezzando appena le sue ossute spalle prima di proseguire oltre, mentre il resto dei capelli le seguiva dietro la schiena. Labbra sottili, ed uno sguardo vacuo che cercava di inoltrarsi oltre la finestra della sua camera: era seduta su uno scannetto in legno quasi al centro tra le quattro mura, mentre una delle sue due mani passava la spazzola sulle ciocche nere. Dai suoi occhi verdi si capiva quanto in realtà fosse in un altro mondo, probabilmente pensando a qualcosa che per ora, per lei, era irraggiungibile. Sognava troppo, e non otteneva mai niente. Spesse volte se l'era rinfacciato, a voce o meno, eppure non smetteva di farlo. Anche stavolta sicuramente se lo sarebbe rinfacciata, più e più volte, ma evidentemente non era questo il momento.
< Avanti. > severa, ma al contempo dolce la sua voce. Naturalmente qualcuno aveva bussato, e in mezzo al silenzio non era un qualcosa che poteva passare indisturbato. Si voltò veloce, con quello sguardo puntiglioso che scrutò la soglia della porta quando questa si aprì. Lentamente, dunque, venne rivelata un'altra figura femminile. Slanciata e molto più alta della stessa Evelyn, con le guance ricolme di lentiggini, e capelli castani. Non vestiva nemmeno minimamente con abiti di corte, anzi, erano ben considerabili degli stracci sporchi, per fortuna non maleodoranti.
< Evelyn! > e la sua voce era così esuberante che, probabilmente, se ci fosse stato un qualche specchio esposto da qualche parte ora sarebbe stato in mille pezzi. Non un inchino, nè un attimo di pausa: con veloci passi avanzò, buttandosi al collo della Sunglass, che di tutta risposta concluse l'abbraccio, anche se probabilmente soltanto per non cadere dallo scannetto.
< Leila! > appena soffocata dal gesto altrui, la voce era comunque contenta. < Cosa ci fai qui? Non dovevo raggiungerti? E togliti però, ci ho messo due secoli a fare le trecce! > entrambe dunque mollarono la presa, rimanendo comunque assai vicine. Mentre Evelyn rimaneva seduta, impegnandosi soltanto a porsi di fronte all'amica, Leila s'inginocchiava per arrivare alla sua altezza. La cosa buffa era che, anche così, era la più alta.
< L'hai saputa l'ultima? > sfarfallò con quegli enormi occhioni marroni, ma non aspettò nemmeno un secondo una risposta dall'amica. < Ser Triston ha mandato un'altra lettera! L'ha ricevuta la vostra Septa, e credo stia andando a riferirla proprio ora a tua madre! >
Improvvisamente, fu Evelyn a gettare un'occhiataccia sull'altra. < E tu come lo sai? > le chiese, astuta.
< Beh... ti stavo aspettando al solito posto. > si strinse nelle spalle lei < Poi mi sono stufata. Quindi sono venuta da te, e beh, il messaggio è stato consegnato davanti ai miei occhi. Non potevo non ascoltare! Avrei dovuto tapparmi le orecchie. >
< E perchè non l'hai fatto? > pareva seria nel volto, quasi offesa, tant'è che subito si alzò mandando indietro lo scanno. Passi lenti, sinuosi, quelli che la condussero sempre più vicino alla finestra che prima guardava. E infatti lì riponeva nuovamente la sua attenzione, ponendo le mani accanto al muro pietroso. Leila si alzò lentamente, avvilita e con gli occhi posti a terra, quando Evelyn riprese. < Te l'ho detto mille volte, mi ascolti mai? Innanzitutto, Ser Triston deve sempre essere accompagnato da un appellativo che indichi la sua provenienza. Non sei come me, Leila. > si voltò di scatto, mordendosi il labbro. < Davanti a me, per prima cosa, devi inchinarti. Hai chiesto il permesso a qualcuno oltre alle guardie qua fuori, prima di entrare? Come sei entrata? >
< D-di nascosto. >
< Ecco. > Evelyn aveva le mani tra i capelli. L'amica aveva smesso di guardarla, e quando lei se ne accorse avvicinandosi, allora sorrise furbamente. < Ci hai davvero creduto? > la sua mano si posò sulla spalla dell'altra, affrontando la differenza di altezza, e solo allora entrambe cominciarono a ridere.
< Sei crudele! >
< Secondo te, è possibile che volessero dare il nome di Ser Triston a mio fratello? Pensaci, mia madre che quando gli venne chiesto il nome di suo figlio appena nato richiama il nome di Ser Triston, avendolo affidato alla sua memoria. Urlando però fa intuire una "a" al posto della "o". >
Risero di nuovo, entrambe e di gusto. In effetti, all'interno della sua camera, passarono molto tempo a ridere su quanto era appena accaduto senza che si rendessero della reale gravità dei fatti: visto il momento di crisi che colpiva la casata, non era possibile invitare chiunque tra le mura della reggia.
< Bene... adesso è il caso di uscire. Hai imparato a diventare invisibile? >
< No, però ci sto lavorando. Vogliamo vedere che riesco a uscire senza farmi vedere da nessuno? >
< Senza il mio aiuto? >
"E' impossibile, ci sono comunque troppe guardie" pensò Evelyn, lanciando altre profonde occhiatacce sull'amica. Era la verità, una persona comune non poteva farcela.
< E secondo te come sono entrata? >
Anche questo era vero. In effetti, Leila aveva un'innata dote per passare inosservata. Le due erano amiche da moltissimo tempo, e questo non aveva fatto altro che confermare, in più occasioni, quanto la ragazza fosse brava nel non farsi notare. Per un periodo Eve l'aveva accusata di essere una strega per questo, e ogni volta che dimostrava di poter essere "invisibile" continuava a farlo.
< Sei una strega. Usi la magia del sangue, sei una strega! > così le disse ancora una volta, appena fuori dalle mura, anche stavolta ce l'aveva fatta. < Strega! > continuò a rinfacciarglielo anche quando cominciarono a incamminarsi. Il tragitto non contava di essere lungo, ma quella parola venne ripetuta almeno venti o trenta volte durante questo.

Là c'era tutto ciò che era sempre servito alle due per stare assieme e trovare qualcosa su cui discutere per passare il tempo. Privo di fogliame, un albero si ergeva dal terreno contorcendo il suo legno ed alzando i suoi grossi e nodosi armi in difesa delle due ragazze, che ai piedi di questo potevano godere invece di ogni singolo filo d'erba che spuntava dal terreno. Era un effetto visivo parecchio strano, e per questo aveva sempre affascinato le due: in fondo un albero così smorto non poteva per natura stare in un paesaggio così rigoglioso, era qualcosa di anomalo. Proprio questa particolarità aveva dato sfogo alla fantasia delle due: un giorno si convinsero che l'albero non avesse mai avuto un'anima, e per questo non avesse mai avuto nemmeno una foglia. Il giorno dopo pensarono che potesse essere un cavaliere, trasformato in albero perchè aveva sfidato una maga cattiva. A Evelyn era sempre piaciuto questo luogo, e continuava a piacerle, sfidando gli ordini della madre che invece voleva tenerla molto più tempo tra le mura della reggia. E' sempre stata punita per tutto: perchè andava a passeggiare senza il permesso, perchè frequentava persone non del suo stesso ceto, un giorno provò persino a maneggiare un coltello da cucina fingendo fosse una spada vera e propria, e fu rinchiusa per tre giorni dentro la sua camera. Allora era piccola, ma già scaltra, tant'è che non ci mise troppo a trovare il modo di sgattaiolare fuori quando sua madre era impegnata. La Septa stessa di nascosto la malediceva per quella che lei chiamava "arroganza", e che non si rifaceva certo a una donna vera e propria. Ma ad Evelyn non era mai importato troppo, e più le si veniva proibito di avere a che fare con persone oltre alla corte, più aveva voglia di infrangere le regole. Era l'unica che davvero manteneva l'aspetto di una vera e propria principessa, ma in quanto al carattere si distanziava nettamente. Infine col tempo si arresero tutti e ottenne il permesso di fare quello che voleva, quando voleva. Con la morte del Lord suo padre, infine tutti si dimenticarono dei suoi piccoli difetti. Così crebbe lei, spontanea ma anche matura.
Proprio adesso affiancava Leila, entrambe rivolte allo strano albero nodoso, parlando del più e del meno, con quell'abito moderatamente pregiato che nella sua bellezza non faceva altro che incastrarsi sotto i piedi.
< Se potessi usare la magia, cosa faresti? > Leila era scaltra, nel trovare argomenti di cui parlare.
< Forse trasformerei un'altra persona in un albero simile. Uno non mi basta più. >
< Saresti così cattiva? >
< Certo che lo sarei, perchè no? > spuntò un altro sorriso sulle sue labbra, con l'attenzione ferma sull'amica. Era curiosa della sua risposta.
< Perchè ora non lo sei, credo. > si strinse nelle spalle, incapace di dire altro.
< Ma una maga deve sempre essere cattiva. Le maghe buone ci rimettono sempre nelle storie, quindi io sarò quella cattiva. >
< Sarà, a me basterebbe un vestito come il tuo. > ridacchiò Leila, squadrando l'altra. < O qualcosa per sembrare un poco meno... povera. >
< Chi fa sfoggio di bellezza, a volte, è soltanto perchè ha paura di non essere abbastanza bello per gli altri, strega. >
< E chi fa sfoggio di arroganza, signorina? > all'improvviso una voce nettamente più severa di quella di Evelyn solcò l'intero luogo, come un colpo dietro la nuca. Entrambe le ragazze si irrigidirono, girandosi lentamente e scorgendo l'avvicinarsi di Septa Baylie. Occhi scavati, viso provato e occhiaie profonde, probabilmente nemmeno oggi aveva chiuso occhio. Soffriva di insonnia, e questo lo sapevano entrambe. Spuntavano ciocche argentate a dipingerle il volto, ma erano di meno dell'ultima volta. < Ah dei... questo posto selvaggio non si addice a voi, ve lo ricordo. > si rivolgeva soltanto a Evelyn, mentre Leila guardava altrove. Fu infatti la prima a prendere parola.
< Septa Baylie! Non potete stare qua! > la fulminò con lo sguardo, in quel momento. Imbronciato il muso, probabilmente sarebbe stata in grado di ferirla, in quel momento. Quello era il loro posto, nessun altro era ben accetto.
< Si che posso invece. Adesso se non vi spiace, dovreste seguirmi. Voi, non lei. > un cenno col capo, stizzito, indicando Leila, che in tutta risposta abbassò lo sguardo.
< E allora non mi muovo. >
< Lady Evelyn! > la Septa sgranò gli occhi < E' qualcosa di importante, l'ha richiesto vostra madre in persona! > La ragazza, richiamata, afferrò saldamente il braccio dell'amica più per timore che per altro. Furono quelle parole però, a rinsaldare la sua decisione.
< Non. Mi. Muovo. > capricciosa da un lato, semplicemente sapeva quello che voleva. Sapeva come agire per ottenere il permesso, e con un veloce sorriso lo fece ben capire anche alla Septa, che si rassegnò come tante altre volte.

Ci misero troppo poco tempo ad arrivare a destinazione, e dato che la Septa aveva così tanta fretta, Evelyn e Leila avevano approfittato di questa per rimanere dietro e ipotizzare quale fosse il motivo di questo richiamo. Ben presto furono di nuovo tra le mura della reggia, superarono un corridoio dopo l'altro anche con grande sorpresa da parte delle guardie, che da molto tempo non vedevano passare una persona esterna alla corte. Infine, arrivarono alla Sala del Consiglio. < Oh! > Leila fu l'unica a stupirsi della grandezza della sala, curiosando qua e là con lo sguardo. Ciò che più la colpì fu l'arazzo davanti all'entrata, recante le sette stelle a sette punte emblema della casata. Come tutti, alla fine si concentrò unicamente sul tavolo centrale, circondato da più sedie. Solo una era occupata, e l'unica persona che sedeva la squadrava dall'alto in basso. Pareva che le mura chiare della stanza fossero fatte apposta per risaltare la bellezza ormai in decadenza della madre di Evelyn: entravano in contrasto col nero dei suoi capelli, tuttavia risaltavano il colore pallido della pelle. E gli occhi, neri e inflessibili, la guardavano con insistenza.
< Septa Baylie... cosa ci fa lei qui? > fu la madre di Evelyn, dunque, a lanciare una frecciatina verso l'anziana, che in sua discolpa avanzò mestamente e rispose. < Mia Lady... la signorina non sarebbe venuta senza di lei. >
< La prossima volta fa pure uso delle guardie se serve. > nessuna vergogna da parte della madre, che pareva quasi disprezzare la ragazza con il solo sguardo. Tutt'un tratto, Evelyn captò la tensione che cominciava a cingere il luogo e cominciò a domandarsi se la sua scelta fosse stata giusta. Badò anche al cambio d'umore dell'amica, la trovava molto più in soggezione. Dunque sorrise con un'aria parecchio altezzosa, squadrando a sua volta lei sua madre dall'alto in basso. Non c'era mai stato un rapporto d'amore tra le due, ecco il perchè di quel suo comportamento ribelle.
< Mi hai chiamato per infastidirmi, o c'è qualcosa di serio? > disse, con una voce abbastanza alta da far sembrare quella domanda un semplice affronto.
< Signorina! > sbottò la Septa < Le buone maniere! >
< Non c'è bisogno Septa Baylie... puoi ritirarti. > così annunciò la Lady, che in seguito a queste parole non fece altro che seguire l'allontanamento dell'anziana. < Sei sicura, dunque, di voler sapere ciò che ti sto per dire davanti a lei? > un cenno col capo, sommario, con cui indicò sempre Leila. Le due si guardarono, ed Evelyn scettica annuì col capo.
< Una tua scelta. > la madre mise le mani davanti come per togliersi ogni responsabilità, così riprese a parlare, mentre le due rimasero ad ascoltare, in piedi.
< Come ben tu sai, cara figlia, la nostra non è una delle condizioni migliori ultimamente. > un cenno con la mano, quasi invitando l'altra a prestare attenzione < Non voglio rievocare spiacevoli ricordi. Nè infierire sul tuo comportamento, pressochè inutile a una signora che si rispetti quale dovreste essere voi. > ridacchiò, lasciando intuire ad Evelyn di aver fatto apposta questo riferimento. < E gli unici che continuano a rimanerci fedeli nonostante tutto, essendo nella nostra stessa situazione, sono i... >
< La casata dei Rambton. > Evelyn la interruppe, la madre come sempre parlava troppo. Perdeva tempo, ed Eve era tutt'altro oltre che paziente. < Già. > rispose la Lady < Non abbiamo più, dentro la nostra casata, un punto di riferimento. Il lord vostro padre, figlia, sapete che è... > morto. Stavolta la ragazza si morse la lingua pur di non attaccare verbalmente la madre. Pareva che lei non soffrisse di niente, era sempre ferma e schietta, e sicura. Non aveva pianto quando era giunta la brutta notizia, quando si seppe che il Lord loro padre era stato arso vivo da Stannis Baratheon, a cui la casata Sunglass aveva allora prestato giuramento. Sopratutto durante il periodo della Battaglia dei Cinque Re, era sempre stata fredda, e la figlia la detestava per questo. Tuttavia, non la interruppe e la fece proseguire. Leila invece rimaneva in silenzio. < Ho ricevuto l'ennesima lettera, stamani. Credo sia ora che voi vi assumiate le vostre responsabilità. > quell'ultima parola fece spazientire totalmente Evelyn.
< Cosa state cercando di dire, madre? >
< Che la casata Sunglass deve molto, alla casata dei Rambton. E poichè i tempi sono quelli che sono, forse è giunta l'ora di mostrare i nostri ringraziamenti, e così unire le due casate in una sola. Tu, mia cara, andrai moglie all'ultimo figlio della loro famiglia reale. Un giorno gli scudi dei nostri cavalieri porteranno un montone dalle corna d'oro, circondato dalle stelle, le nostre sette stelle. Non sarà Tristan a guidare la nostra rinascita, ma tu cara. >
Sgranò gli occhi, spalancò le labbra, stupefatta. La madre era immobile, che la guardava con occhi di vetro, mentre Leila, lì accanto, condivideva la sua stessa reazione. Il cuore cominciò a sussultare forte, troppo forte, e l'ansia creò in lei un nodo in gola. Non poteva dire niente, "quel progetto" era troppo grande per lei. Non aveva mai avuto un impegno tanto enorme, nè una responsabilità tanto grande. Per la prima volta nella sua vita, Evelyn Sunglass non potè controbattere.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Giustizia ***


T R I S T A N
In realtà, il percorso era stato meno lungo e ostico di quanto lui si era aspettato. Quando alzò gli occhi verso l'alto, speranzoso che il tramonto non si fosse già inoltrato troppo, trovò un cielo macchiato di un candido arancione, segno che prima di scomparire il sole gli avrebbe concesso abbastanza luce ancora a lungo. Con un sorriso dunque diede di sproni a Fiamma in modo che accellerasse il suo passo. Per Tristan era stato un infinito viaggio senza riposo: non aveva fatto nient'altro che alternare brevissimi momenti di pausa al cavalcare, talvolta obbligando sè stesso a procedere a piedi per far riposare l'animale. Dietro continuava a portare il dolore che aveva provato la mattina della partenza, peggiorato, tant'è che durante la "passeggiata" aveva dovuto eliminare alcuni pezzi di armatura, cacciandoli dentro la sacca rimasta attaccata alla sella. Ora infatti non indossava più gli spallacci, ma solo la parte della corazza, i bracciali e gli schinieri. Durante il tragitto ogni gesto gli era risultato infatti meno macchinoso e dolorante, ma data quella sua indole profondamente prudente raramente aveva chiuso occhio. E' questo il motivo delle occhiaie sotto gli occhi, abbastanza evidenti anche se non in modo eccessivo. Queste, assieme alla poca cura con cui ha potuto mantenere la sua figura, possono tranquillamente nascondere la sua reale provenienza, e classificarlo magari come un bastardo proveniente dall'angolo della strada, niente di più. Certo, il mascheramento sarebbe tutto molto più semplice se non ci fossero le sette stelle a sette punte disposte in cerchio sulla corazza a renderlo riconoscibile, ma non voleva comunque essere un qualcosa di voluto. Ciò che infatti bramava lui, giunto alla locanda stabilita, era un letto e del vino. Non era mai stato amante del vino o della birra, ma ora come ora avrebbe comunque accettato di tutto pur di togliersi di dosso il dolore che incombeva adesso sulle spalle adesso verso il fondoschiena. Persino Fiamma parve accelerare il passo una volta vista l'insegna, forse percependo il cambio positivo d'umore del suo padrone. Tristan ringraziò nuovi e antichi dei, quando finalmente riuscì a scendere dal cavallo. Si guardò attorno: soltanto da quella posizione, poteva osservare le mura di Approdo del Re. Si trovava infatti fuori da queste, vicino alla Porta Vecchia, là dove sorgeva la locanda "Sole & Luna", poco lontano da un bordello di cui ricordò grazie a un suo zio. Non ricordava quale, ma nemmeno era intenzionato ad andare in fondo alla questione. Si era infatti stampato in mente le parole della vecchia, riconoscente e anche un pizzico determinato. "Ricorda che l'ambiente in cui andrai è fatto per chi guarda unicamente il suo obiettivo" ripensò, poco prima d'essere richiamato da una voce. < Ehi, dico a voi! > dura, spigolosa, pareva lo stesse richiamando. Come rinvenendo dai suoi sogni, Tristan dovette guardare a destra e a manca prima di abbassare lo sguardo e, dunque, scorgere un nano. Cercò di non spaventarsi, tanto era sorpreso, ma riuscì unicamente a limitare i danni. Improvvisamente allargò il sorriso, anche se l'essere deforme intuì. Aveva capelli castani, molto scuri, così come gli occhi. La fronte era aggrottata, le labbra sporgenti, e il naso gonfio. Lì per lì, il Sunglass sarebbe stato in grado di dire che era alto quanto la metà di lui. < Oh... scusate, non vi avevo visto. > sincero, ancora una volta con una voce gentile, tant'è che abbassò il capo in segno di rispetto. Non aveva perso le sue abitudini nemmeno una volta lontano dall'ambiente familiare, così come la prudenza gli fece stringere meglio le redini di Fiamma.
< Si, si, certo. > il nano dondolò la testa < Dovete alloggiare qua? > col pollice indicò la locanda, con una voce spinosa a dir poco.
< Si. > Tristan affermò persino con il capo.
< Bene, allora lascialo a me e avvisa la padrona. > queste parole, invece, stupirono del tutto il nobile. Il nano pareva sicuro di sè, al punto che frettoloso già aveva allungato la mano, in attesa che gli fossero consegnate le redini. Attendeva davvero che gli venisse consegnato l'animale? Il Sunglass non aveva niente contro i nani, anzi. Se sarebbe dipeso da lui, sarebbero ritenute semplicemente comuni persone. Eppure Fiamma era una cavallo forte e robusto, molto robusto. Per quanta fiducia avrebbe potuto coltivare anche ingenuamente, non poteva assegnare un lavoro che avrebbe poi quasi sicuramente causato del male. Poteva ben farlo da solo, in fondo.
< Allora? > inarcò un sopracciglio, il mezzo uomo, scontroso.
< Non posso. > ribattè dunque Tristan.
< Esattamente... cosa significa "non posso"? Dovete alloggiare qua? > la mano, mal proporzionata rispetto al resto, andò a coprire il volto del nano come nervosamente, ansioso di portare a termine il suo compito.
< Fiamma, il cavallo, è forte, potreste farvi del male. Posso farlo io? > riccioluto, in quel volto comparve una delle espressioni più innocenti e ingenue mai comparse. Era ovviamente spinto da istinti altruistici, ma da quanto si potè capire dall'espressione del nano, non erano condivisi. Egli capì eccome cosa stava accadendo e il perchè di quella domanda, eppure parve prenderla come un offesa. Fulminò con lo sguardo il nobile, per poi goffamente saltare e prendere di forza le redini, che subito furono lasciate andare.
< Ci piscio sopra il vostro buonismo. Fatevi dire dove stanno le stalle. > l'orgoglio traboccava, e Tristan non potè fare altro che accettare le condizioni, guardando come con difficoltà, il nano, alla fine riuscì a gestire Fiamma.

Aveva appena avuto il tempo di sganciare le due sacche dalla sella, quando rimasto solo decise di entrare nella locanda. Si era già concesso qualche secondo di tempo per osservarla, giungendo a una pessima conclusione. Aveva intuito che era una delle più comuni costruzioni in legno, niente di più niente di meno. Alcune assi avevano della muffa, e ciò all'esterno, all'interno la situazione doveva essere ancora più terribile. Inutile dire che non si sorprese di niente, una volta varcata la soglia dell'entrata: l'ambiente era rustico e povero, e tutto pareva essere di legno grezzo. Le mura, i tavoli, il bancone, le sedie, ci mancavano soltanto i piatti, le posate, il cibo e le persone. Il locale era assolutamente stato costruito per chi non si poteva permettere qualcosa di lusso, questo era certo, eppure nonostante questa verità non era il solo ad aver pensato di alloggiare da queste parti. Oltre alla serva che prendeva ordini dalla padrona, altre quattro persone oltre a lui stavano nella sala e sedevano ai tavoli. Un lungo mantello di stoffa consunta con tanto di cappuccio copriva una figura, un'altra ben distante dalla prima recava indubbiamente uno stemma nello scudo scheggiato e posato a terra. Tristan era sicuro che, recante tre strisce diagonali gialle in sfondo bianco, fosse lo stemma della casata Chyttering. Molto più in là, quasi solitario, sedeva un uomo grande, grosso e barbuto col volto scheggiato da una cicatrice, posta orizzontale sul setto nasale. Aveva capelli neri e lunghi raccolti in una coda. Dall'altra parte della sala c'era una graziosa donna dai capelli biondi quasi quanto quelli di una figlia dei Targaryen. Curiosando mentalmente sulle varie identità, alla fine fu lui a essere raggiunto da quella che subito gli parve essere la padrona. Goffa e panciuta, con un velo a nascondere i capelli e le prime rughe a dipingerle il volto. Accorgendosene, naturalmente, fu lui il primo a salutare. < Salve a voi. > rispettoso fece persino un semi inchino, la mano che si allargò dunque dal resto del corpo.
< Salve. Non credo abbiate mai alloggiato qua, non è vero, Ser? > la voce era pesante, affaticata, ma per Tristan comunque simpatica.
< No. > rispose prontamente, ma all'ultimo secondo mostrò cenni di indecisione, sfarfallando appena le palpebre. < Posso chiedere a voi? >
< Certo. Gestisco io questa taverna, dimmi pure. >
Tolta anche quell'incertezza, non ci mise molto. Anzi, la padrona fu molto gentile con lui: assieme concordarono il prezzo, e per quanto la donna abbia divagato più volte sul lavoro di suo marito, il ragazzo si trovò stranamente a proprio agio. Nessuna delle persone presenti nella sala l'aveva degnato di uno sguardo, ma se n'era fatto una ragione: in compenso aveva conosciuto l'ossuta servetta, della quale ben presto apprese aveva la lingua mozzata. < E' una persona che si da molto da fare, ma... era anche una gran chiaccherona, prima che lavorasse qua. > così gli aveva detto, con molto dispiacere, la donna che gestiva questo posto. Oltre a questo misfatto, per cui Tristan propose di pagare il doppio della somma stabilita, il ragazzo si trovò ben presto dentro la sua camera, una delle poche al piano superiore. Non era per niente spaziosa, ma meglio di niente. Poichè era arrivato tardi avrebbe mangiato da solo qualche oretta più tardi, non appena la serva sarebbe accorsa a chiamarlo, ma nel frattempo gli venne data abbastanza acqua per farsi un bel bagno. In men che non si dica, il Sunglass tornò ad avere l'aspetto principesco che aveva prima di partire.

Gli bastò una sola notte su qualcosa di lontanamente simile ad un letto, per togliersi quel fastidioso dolore. La notte scorsa aveva mangiato e bevuto birra, non vino, perchè non ne avevano più. Soltanto la figura incappucciata era presente nella sala quando era sceso lui assieme alla serva. Subito dopo la cena era corso nella stanza assegnatagli e così aveva concluso il suo giorno, senza nemmeno farsi troppe domande sulla bizzarra figura del nano e su dove fosse finito, dunque, il suo cavallo. Le stalle erano state l'ultimo dei suoi pensieri. Era già sveglio, in attesa che fosse suonata la campana che avrebbe avvisato tutti l'inizio delle attività, e dunque la colazione. Ma questa non suonò nemmeno una volta, anche se attendette per molto. Si domandò se non fosse già stata suonata mentre dormiva, o se forse ci fossero state complicanze, o ancora altri problemi, quando improvvisamente, in un ambiente mattiniero e soleggiato, brusii e rumori si fecero sempre più accentuati. Dapprima pochi, incomprensibili, poi addirittura urla. Nel silenzio le voci si fecero sempre più acute, sempre più capibili. Tristan non potè fare altro che incuriorisi e, di conseguenza, prepararsi. Mentre allacciava la prima cinghia della corazza, un altro urlo percosse l'aria, e stavolta lo fece rabbrividire. In un ambiente così rustico tutto pare troppo normale, comune e familiare, tutto questo brusio gli parve inadeguato e inappropriato all'ambiente. Gli balenarono mille e mille pensieri in testa, ma la voce che urlava, per quanto si sforzasse, non la riconosceva. Un altro urlo, stavolta, lo fece sussultare quando era quasi pronto. Allacciò frettolosamente il fodero della spada, rinfoderando la stessa. L'armatura era luccicava come sempre di un bagliore argenteo, contrapposto alle parti grigie e nere. Non perse tempo a lavarsi quando anche gli schinieri furono allacciati, e subito spalancò la porta scendendo poi le scale. Un altro urlo, stavolta, lo allarmò al punto che lo costrinse a procedere a spada tratta. Si accorse che nessuno stava nelle scale, nè al piano superiore, e a quanto pare non c'era nessuno nemmeno a quello inferiore. L'ultimo urlo, quello più straziante, lo potè udire meglio dei precedenti: proveniva da fuori dalla locanda. Aveva paura, ne aveva eccome, ma per un cavaliere la paura deve essere carburante. Si tramuta sempre in adrenalina, la stessa che con un colpo preciso e abbastanza forte, gli fece spalancare la porta della struttura. Solo allora potè intuire quanto stava accadendo: erano tutti là, la bionda, la padrona e persino la serva col nano. Stavano tutti da un solo lato, e lasciavano ben intravedere quattro cavalieri. Dei quattro ce n'era uno pericolosamente alto, uno smilzo dalla lunga barba, uno privo di capelli sul capo e uno ancora non aveva in mano un'arma. Tutti e quattro indossavano la stesso scudo, dipinto con un leone marino rosso al centro di due linee parallele e verticali nere. "Casa Manning" pensò velocemente il Sunglass, senza proseguire oltre, qualche metro dopo l'entrata. Infatti, la sua "entrata in scena" aveva probabilmente attirato tutti gli occhi su di lui. Si sentiva osservato, ma non durò troppo. < Rinfodera la spada, tu, non siamo venuti qua per fare del male a una ragazzetta. > un tono ironico, aspro, quello del cavaliere alto e imponente. Così come tutti, simultaneamente, s'erano messo a guardarlo stupiti, tutti distolsero la loro attenzione, riponendola nell'oscura sagoma ai piedi dei quattro. Aveva il mantello, ma non più il cappuccio, e ora mostrava un bell'occhio nero. Il sangue colava dal naso, e i cortissimi capelli neri erano tutti mal tenuti. Sicuramente era stato strattonato, spinto e picchiato. Per quanto davvero aveva dormito? < Dicevi, dunque? > fu sempre l'omone alto a schernirlo, con un sorriso davvero inquietante. < N-non ho i soldi... ti prego... > nemmeno il tempo di pregarlo, che il barbuto della casa Manning diede un calcione alle costole, costringendolo a raggomitolarsi. Persino la voce dell'oscuro figuro era provata, ma nessuno alzava un muscolo. Anzi: per quanto spaventata, la simpatica padrona della locanda pareva essere dalla parte dei cavalieri, mentre la servetta cercava in ogni modo di non guardare, a differenza della donna bionda. Lei, metaforicamente distante da tutto e tutti, non provava alcun fastidio. Tristan invece era là, sulla soglia della porta, con la spada ancora tratta e ben mantenuta. I suoi occhi marroni scorrevano qua e là tra le varie persone, come alla ricerca di una risposta a tutto questo. Alla fine, quando un altro dei quattro cavalieri era pronto a proseguire il pestaggio, si decise a farsi avanti. Troppo buono per lasciare che tutto ciò proseguisse con lui all'oscuro di tutto. E il suo passo fu relativamente cadenzato, al punto che soltanto avvicinatosi al gruppo, il cavaliere disarmato sfoderò un'ascia dalla nera lama e gliela puntò contro. < Guai. A. Te. > gli lanciò una frecciatina, prima di chinare il capo < Non azzardarti. Rinfodera la spada. >
< Cosa sta succedendo? > tutto in un fiato, Tristan fece un passo indietro, ma senza ritirare la propria arma. Anzi la impugnò meglio, e in tutta risposta lanciò nuovamente l'occhiata.
< Ti ho detto- >
< Oh... tranquillo, tranquillo! > l'alto cavaliere, dalla sua imponenza, allungò un braccio separando i due, ma guardando male lo stesso Sunglass. < Non vuole pagare. Abbiamo provato con le buone, ma... > la sua mano corse dietro la nuca, a massaggiarla con innocenza < Non ci vuole dare retta. Sai com'è, no? E' dovere di un figlio mantenere intatto l'onore della propria madre. > disse, indicando infine proprio la panciuta donnona. < Perciò adesso, stai indietro. >
Detto ciò, nuovamente l'attenzione scivolò sulla vittima del pestaggio, compresa anche quella di Tristan. Sudava freddo, perchè non sapeva che cosa fare. Non poteva lasciare che tutto ciò avesse un continuo, non sarebbe più stato capace di guardarsi allo specchio, lui che sull'onore conta troppo. Eppure era considerata la giusta punizione, e l'omuncolo a terra se lo meritava davvero. D'altro canto... "Ci sono cose che sono poco razionali. Non posso chiedermi cosa sia sbagliato o giusto in questo contesto, la risposta è ovvia" pensò, prima di alzare la spada a separare i quattro dal fu incappucciato. Era abbastanza lunga, e sopratutto luccicava come la sua armatura. La sua fattura era ottima, naturalmente doppio taglio, ma il punto forte di questa era naturalmente l'elsa, curata nei minimi particolari.
< Non potete. > disse il ragazzo, sfidando con lo sguardo tutti e quattro. Nella sua ingenuità aveva scelto da che parte stare, e il suo lato era parecchio svantaggioso. Per quanto serio e determinato fosse, lui era probabilmente solo. Ma non c'era un sorriso nelle sue labbra, e le sue intenzioni erano nobili. In questa occasione più che mai, era certo di essere dalla parte del giusto, e dunque profondamente sicuro.
< No! > si alzò la voce della padrona, imponente anch'essa, seppur accompagnata da un pianto disperato e consolato unicamente dalla serva. Quest'ultima, adesso, guardava la scena in tutto silenzio.
< Davvero vuoi metterti contro noi quattro? Sei da solo, ragazzetta. > i cavalieri risero di lui, e pure la bionda azzardò un sorriso. Era stata una scelta avventata, quanto mai poco ragionata. Eppure moralmente giusta, per cui non ci fu motivo di indugiare.
Il combattimento ebbe inizio senza troppe altre parole. La serva cercava di tenere distante la padrona della locanda, mentre chi era estraneo al conflitto si allontanava. < Vattene. > disse Tristan all'uomo a terra, che con lentezza strisciò via pure lui senza dire una parola. Fu l'uomo dalla lunga barba a dare il primo colpo: impugnava due daghe, una per mano, e quella mantenuta nella destra colpì per prima. Il ragazzo deviò il colpo, poi, impugnando l'elsa della spada con entrambe le mani, menò un fendente, bloccato però dalla seconda daga. Grazie all'agilità del cavaliere dei Manning, questo effettuò un salto indietro, lasciando il via libera a uno dei suoi complici, quello armato d'ascia. Privo di eleganza o raffinatezza, effettuò vari colpi fendendo l'aria, ma mai nè Tristan, nè la sua spada. Al Sunglass bastò muoversi, scansare e schivare dati i movimenti prevedibili, ma quando provò a fare un affondo si accorse quanto il posizionamento dell'altro fosse del tutto apposito e pensato. Quando fallì il colpo, la punta di una spada lunga raschiò la sua armatura avvicinandosi troppo al collo. Non un colpo mortale, per cui riuscì a scansarlo, portando il suo sguardo verso l'uomo alto. < Sei già contro tre, ti aspetti che mi introduca pure io? > disse, schernendolo. La seconda carica per lui fu più fortunata: deviò tranquillamente i colpi con le daghe, intuendo il posizionamento infine tranciò una mano, quella che manteneva l'ascia. L'uomo cadde a terra dal dolore, rotolando via il più velocemente possibile. Il pelato, però, con il terzo fendente colpì il fiancale dell'armatura, ammaccandola e indolorendo di nuovo la schiena. Eppure non cadde, per quanto invece ghignò. Ancora una volta, stanco, riuscì a fermare a stento le daghe, una sfiorò il suo collo. E poi, un volo. Un dolore lancinante, insopportabile, e una forza inarrestabile che lo fece volare, separando i piedi dal terreno. Venne sbalzato di parecchi metri e il suo fianco lo paralizzava, come se gli fosse stato strappato mentre le dita avvolte nel ferro lasciavano andare l'elsa della spada. In quel momento l'unica cosa che potè fare era cercare di capire cosa fosse accaduto. Non riusciva più a mettere a fuoco lo sguardo, ma una mazza enorme, ora, era impugnata dal più alto cavaliere dei Manning. Avanzava verso di lui, intimidatorio, minaccioso e beffardo nella sua altezza. Aveva mentito. Si muoveva pesantemente grazie alla mazza da guerra, che adesso maneggiava sopra la testa, pronto a dare il colpo finale. "E' finita" pensò immediatamente Tristan, quando poi, altro acciaio comparì nel suo campo visivo. Una lunga spada a due mani vorticava ancora più in alto del forzuto cavaliere dei Manning. Partì dal capo di esso, proseguì, mostrando le viscere bluastre di colui che stava per ucciderlo. Una sola lama fu in grado di tranciare brutalmente in due l'assassino, che decisamente non si accorse di niente. E dietro, a muovere con la forza di un orso l'arma, spuntò il grande e barbuto uomo che Tristan aveva visto la notte prima, con la cicatrice e uno sguardo freddo e distaccato che per un momento lo guardò. Infine, perse i sensi.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3184179