I supereroi non esistono

di lilac
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Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno: Indifferenza ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due: Paura ***
Capitolo 4: *** Capitolo Tre (Prima Parte): Diffidenza ***
Capitolo 5: *** Capitolo Tre (Seconda Parte): Incredulità ***
Capitolo 6: *** Capitolo Quattro: Rabbia ***
Capitolo 7: *** Capitolo Cinque: Rancore. ***
Capitolo 8: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



Credits:
- La frase del sottotitolo è dello scrittore Clive Staples Lewis (1898-1963).
- I nomi di alcuni personaggi minori di questa storia sono espliciti riferimenti a noti personaggi dei fumetti, ovvero Batman, Spiderman, Wolverine (X-Men) e L’Incredibile Hulk. Sono quindi proprietà dei loro creatori e degli aventi diritto e sono, in questo caso, semplici citazioni.

Alcuni ringraziamenti doverosi:
A Gianluca: grazie per le consulenze sui tizi in calzamaglia, per l’ispirazione e per la marmellata di fragole;
A Orochimaru: grazie per la consulenza tecnica e/o tecnologica;
A Taisa: a very special thanks (che fa molto rock star XD) per avermi convinto a scrivere la storia ma, soprattutto, per aver dato un volto ai miei personaggi. Ovviamente, [credit supplementare] il disegno che troverete a fine storia è opera sua (chi copia e/o se ne appropria senza permesso se la vede con lei e tanti, tanti auguri u.u).
ATTENZIONE! Trovate un link nel mio account autore per vederlo in anteprima. Ma devo avvertire che è un'immagine fortemente spoiler.
A vostra discrezione^^.

Questa storia è stata scritta per il contest/sfida "My Hero", su Writers Arena.
Grazie, come sempre, a chi ha aperto questa pagina e buona lettura^^.




I SUPEREROI NON ESISTONO
Nessuno mi ha mai detto che il rimpianto si sente come la paura. (C. S. Lewis)



PROLOGO


Central Maze City, sobborgo di Hell’s Court.
18 Dicembre, 7:27 p.m.


È molto veloce per essere un bambino, corre per i corridoi semibui dell’istituto con le ali ai piedi. È terrorizzato. Sente le loro voci dietro di lui e lo scalpiccio frenetico dei loro passi che lo incalza. Sa che cosa vogliono fargli. Ed è terrorizzato. Eppure sa anche dove sta andando; forse, pensa, lì non lo seguiranno.
Singhiozza ansimando e deglutisce a forza il groviglio di saliva che gli opprime la gola, respira l’aria fredda che entra da una finestra del piano terra, con la bocca aperta, fissando il cortile buio. Si volta indietro e li sente.
“Jason! Piagnone cagasotto! Dove scappi, stupido!”
Arriva a malapena alla maniglia della porta che dà sulla corte, ci si aggrappa con tutta la forza e la spalanca. Si getta sotto la pioggia. Fuori è buio e un tuono lo fa sussultare brutalmente. È terrorizzato, ma ha molta più paura di loro.
“Jaaaasoooon?! Dove credi di scappare, ritardato!”
“Che stupido! È uscito in giardino, con questo tempo schifoso!”
Li sente ridere. Le loro voci si distorcono nel frastuono del temporale e la pioggia sembra volerle zittire, ma le sente. Si volta, il chiarore improvviso di un lampo illumina i loro visi grottescamente sfigurati dalle risa, sotto il porticato. Scorge nitidamente quello che hanno in mano. Il cuore gli spicca un salto in petto, accelera i battiti convulso. Uno di loro agita beffardo quella cosa verso di lui, ma quando vede che due di loro s’infilano le cerate, si volta di nuovo e corre; verso il locale delle caldaie.
Si muove rapido, nel buio, ignorando l’odore stantio di polvere, terra bagnata e muffa. Ha paura, ma non vuole che lo trovino. Non gli importa dei topi, delle ragnatele, del rumore sinistro delle autoclavi che sibilano sottovoce il suo nome; un tutt’uno col vento che penetra stridendo dagli infissi. Continua a camminare svelto fra gli scatoloni, accatastati qua e là, e non si volta a guardare le macchine. È terrorizzato all’idea che quei mostri si animino come deformi marionette e si scaglino verso di lui, che lo afferrino con i loro artigli di metallo. Si sente osservato dagli occhi luminosi che lo scrutano come spie e lo seguono verso il locale dei quadri elettronici. Quel posto fa paura; e la signorina Banner lo punirà severamente per essere uscito a quell’ora, con quel temporale. L’istituto ha delle regole, non vuoi finire in mezzo ad una strada, Jason, vero? Gli sembra di sentirla. No, non vuole finire di nuovo in mezzo alla strada, da solo, senza un posto dove andare, senza niente da mangiare. Lì fuori è pieno di gente cattiva che gli fa paura. Ma adesso ha più paura di loro.
È tutto bagnato e sta tremando di freddo. E continua a sentire le grida dei suoi compagni che lo prendono in giro, attutite dalla pioggia.
Un rumore alla sua sinistra lo fa trasalire. Un topo. Ha paura dei topi, una paura terribile. Il vetro di una delle finestre si scuote all’ennesimo tuono. Ha paura dei temporali, una paura del diavolo. Di nuovo, la luce sfolgorante di un lampo illumina per un momento il locale e gli scaffali sembrano quasi piombargli addosso. Singhiozza più forte. È terrorizzato, ma non vuole che lo trovino. Non vuole che lo facciano...
“Che accidenti ci fai tu qui?!”
La voce roca e indispettita che rimbomba dal fondo della stanza lo pietrifica per un momento, si volta di scatto e intravede una sagoma che si staglia sulla porta, in controluce. Fa per fuggire, ma le luci al neon che si accendono improvvise lo abbagliano e lo costringono a chiudere gli occhi. Li riapre dopo un istante, a fatica, e non può fare a meno di osservare il vecchio che si sta avvicinando a lui con aria inquisitoria. Ha una grossa cicatrice che gli attraversa il viso rugoso e due occhi stranamente limpidi; sembrano quelli di un uomo molto più giovane, intrappolato nel corpo sbagliato. Jason lo fissa, improvvisamente titubante, rapito da quegli occhi e da quello sfregio che sembra dividergli in due la faccia; è incapace di scappare.
“Ti ho chiesto che cosa stai facendo qui, mi hai sentito?!” L’uomo insiste. Il tono minaccioso, burbero e il suo aspetto sinistro sembrano contrastare con l’espressione del suo volto, assolutamente pacifica.
“Ti prego, non dirgli che sono qui o lo faranno di nuovo!” piagnucola lui, tornando improvvisamente alla realtà.
“Non dirlo a chi? Cosa vogliono farti?” chiede l’altro spazientito.
“Jimmy e gli altri. Vogliono tirarmela addosso di nuovo! Non lo sopporto! Ho paura! Ti prego, non dirgli che sono qui, ti prometto che me ne vado subito, appe...”
“Che cos’è che vogliono tirarti addosso?”
Jason lo fissa indeciso. Deglutisce per farsi coraggio; il solo pensarci accelera i battiti del suo cuore.
“Marmellata di fragole” confessa in un sussurro, abbassando lo sguardo.
Ora il vecchio si metterà a ridere, lo prenderà in giro, gli dirà che è uno stupido, che avere paura della marmellata è proprio da idioti senza speranza. Se la farà sotto, dalle risate. Poi lo butterà a calci fuori di lì. Ma lui non lo sa, come gli altri; non lo sa quanto fa paura! La sola idea di quella cosa dolciastra e appiccicosa che gli imbratta la faccia e gli impedisce di respirare lo annienta. Lui non lo sa! Nessuno lo sa che vuol dire avere tanta paura! E quelle... cose; viscide, rosse come il sangue, con tutti quei semi che sembrano tanti occhi... Comincia a respirare affannosamente, se la sente addosso, sente di nuovo le loro voci là fuori. Ora il vecchio si metterà a ridere, ora gli dirà...
“Capisco.”
Jason lo guarda sorpreso. Il vecchio sospira e si avvicina a lui.
“E non hai avuto paura a uscire con questo tempo, al buio, e a venire qui?” gli chiede sinceramente curioso, ma sembra più un’affermazione divertita.
Jason nega deciso, scuotendo leggermente la testa. Poi, imbarazzato, ritorna a fissare il pavimento. Giocherellando con un laccio della scarpa allentato, comincia a fare cerchi sul pavimento impolverato. “Un po’” ammette.
Il vecchio sorride per un attimo. La cicatrice si deforma appena, si assottiglia fra le rughe profonde che si contraggono sul suo volto. Ma Jason non lo sta guardando, solleva la testa solo quando sente l’uomo avvicinarsi ancora. Incrocia i suoi occhi e prova una sensazione indescrivibile. Si sente strano, è come se fosse caduto dentro quello sguardo pulito e vivace, e un calore insolito lo avvolge.
“Sai perché quei vigliacchi sono più forti di te?” chiede il vecchio senza particolare emozione.
Jason nega, senza comprendere appieno.
“Perché sanno cosa ti fa paura.”
Ora annuisce; come a scuola, quando la signorina Banner lo rimprovera perché non sta attento, ma non riesce a staccare gli occhi da quelli dell’uomo.
“Vuoi essere più forte di loro?” gli chiede poi con lo stesso tono piatto, sereno.
A quel punto acconsente convinto, ha una buffa espressione determinata e imbronciata. Il vecchio sorride di nuovo, solo per un istante, poi si fa serio. “Allora smettila di avere paura. Tu non sei un vigliacco come quelli.”
Jason ha come l’impressione di aver visto qualcosa, in quegli occhi, sbatte appena le palpebre. “Anche loro hanno paura, che credi?” assicura pacatamente l’uomo.
“Come si fa a non avere paura?” chiede lui, imbarazzato e curioso. Quel vecchio non ha tutte le rotelle a posto, si ritrova a pensare dall’alto dei suoi cinque, lunghi anni.
“Beh, questo devi saperlo tu.”
“Io non lo so! E quelli non hanno paura di niente!” protesta, non troppo convinto e un po’ indispettito.
“Tutti... hanno paura di qualcosa.”
Il vecchio sorride, solo un momento. Poi gli posa una mano sul capo con un gesto affettuoso; la sofferma un istante e gli scompiglia i capelli. Jason sta per dire qualcosa, sta per dirgli che non riuscirà mai a capire di che cosa sta parlando, ma improvvisamente tace. Si sente di nuovo strano, come quando l’ha guardato negli occhi. Ma c’è qualcosa in più, adesso; è come se non avesse più bisogno di capire niente. Le voci, fuori, le sente ancora, ma accenna un sorriso confuso.


CONTINUA...

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Capitolo 2
*** Capitolo Uno: Indifferenza ***




CAPITOLO UNO:
Indifferenza.


Central Maze City, Hell’s Court West.
22 Dicembre, 1:43 p.m.
Vent’anni dopo.


“Ecco... Mi secca chiedertelo, ma...” L’anziana donna si bloccò esitando per un momento, evidentemente in imbarazzo.
“Ma?” la invitò a proseguire il ragazzo con noncuranza. Affondò nuovamente il cucchiaio nel barattolo che teneva indolente in una mano e se lo portò alla bocca. Poi la scrutò distrattamente, dal basso verso l’alto, mentre si appoggiava con nonchalance allo stipite della porta, gettando leggermente indietro la testa a scostare una ciocca di capelli dalla fronte. Lei esitò ancora, soffermò per un momento lo sguardo sulla t-shirt sgualcita, sui jeans logori e infine sui piedi scalzi di lui, incrociati comodamente sul pavimento gelido del pianerottolo come non sentissero minimamente il freddo. Il giovane sembrava assolutamente a suo agio, continuava a magiare la sua marmellata di fragole, servendosi direttamente dal vasetto con generose cucchiaiate; e pareva prestarle la minima attenzione.
“Senti, Jason” sospirò la vecchietta stringendosi nella giacca. “Il fatto è che io avrei bisogno dell’affitto. Sono tre settimane di ritardo. Sai che non ho problemi, normalmente, ma è Natale...”
S’interruppe di colpo, leggermente confusa, quando il ragazzo incrociò per un momento il suo sguardo all’improvviso. L’aveva guardata, apparentemente, con la stessa naturalezza con cui aveva affondato nuovamente il cucchiaio nella marmellata, ma lei si era sentita strana.
“Già. Però, lei non vuole proprio i miei soldi” replicò lui in tono tranquillo.
“N... No... Infatti” rispose lei, quasi bisbigliando, aggiustandosi nervosamente il vestito. Stava serrando istintivamente la presa sulla borsetta, ma non se ne accorse.
“Non abbia paura, signora Parker.” Il ragazzo sorrise gentilmente tornando a guardarla negli occhi. “Non ci penso proprio ad andarmene; anche se non dovessi avere più i soldi per pagarla.”
La vecchietta gli rivolse improvvisamente un sospiro sollevato. “Oh, beh, sono molto felice di sentirtelo dire, Jason.” L’imbarazzo sembrò sparire del tutto, si lasciò andare persino a una risata liberatoria. “Sai, ormai ho una certa età. E non si trovano spesso inquilini educati come te in questo quartiere. Per l’affitto non preoccuparti, caro.”
Agitò una mano, a sminuire la questione, e lui si limitò a ricambiare nuovamente il sorriso, attendendo che se ne andasse senza farle fretta.
Due occhi vivaci, intanto, che lo osservavano di nascosto dalle scale, alle spalle dell’anziana padrona di casa, lo trapassarono con un’espressione indispettita di rimprovero. Jason li incrociò per un momento e sollevò impercettibilmente lo sguardo al cielo, esasperato.
“Naturalmente, appena potrò, passerò in banca e le farò avere i soldi.” puntualizzò con una tonalità lievemente scocciata, sottolineando marcatamente l’intenzione di farlo con tutta calma.
“Certo! Certo, caro!” La donna sorrise di nuovo, avviandosi nella direzione opposta da cui era venuta. “E poi passa a prendere la crostata di fragole!” Il sorriso si allargò ulteriormente. “Ora ti saluto, prima che faccia tardi. Molly è da me, oggi.” aggiunse, ormai a metà della rampa di scale, sbottando in un’altra risata allegra e un po’ confusa e continuando a parlottare qualcosa tra sé e sé.
Lui rimase sulla porta. La seguì con lo sguardo, mentre scompariva svoltando nel pianerottolo inferiore. Fece per affondare di nuovo il cucchiaio nella marmellata, ma qualche pensiero lo bloccò, manifestandosi un secondo dopo in un’espressione infastidita. Lasciò andare il cucchiaio nel barattolo con un gesto stizzito e sollevò appena lo sguardo in direzione della rampa di scale che portava al piano di sopra. Quando vide che la ragazzina si era alzata e stava scendendo verso il suo appartamento, fece per darle le spalle e tornarsene in casa.
Lei lo raggiunse in due balzi e s’intrufolò dietro di lui con un’aria tra il divertito e il severo. “Beccato!” Lo rimproverò chiudendo la porta dietro di sé; ma il ragazzo non si era girato nemmeno a guardarla, limitandosi ad appoggiare il barattolo di marmellata sul tavolo.
“Mi avevi promesso che con mia nonna non avresti usato i tuoi poteri, Jason! Sei proprio uno stronzo!”
“E tu mi avevi promesso che saresti stata alla larga da me e da casa mia, Molly” replicò lui gelido, voltandosi finalmente a squadrarla con fare intimidatorio. “E invece mi ritrovo quest’affare ridicolo e ingombrante fra i piedi. Ti avevo espressamente detto che non ne volevo sapere.”
La ragazza osservò maliziosa il grosso albero di Natale in un angolo e ridacchiò un momento, cercando a stento di trattenersi. “Uffa, Jason. È Natale! Tutti hanno un albero di Natale in casa.”
“Io no” rispose lapidario.
Lei si sedette al tavolo della cucina e ammirò soddisfatta le decorazioni che aveva allestito con cura. Seguì Jason con lo sguardo, mentre oltrepassava il basso divisorio tra la cucina e il salotto e si gettava a sedere sul divano. “Non ti piace?” domandò a voce alta, alzandosi in un gesto esasperato e andandogli dietro.
“Per niente. E non mi piace che entri di nascosto in casa mia. Quell’affare deve sparire. Adesso!” Accese la televisione senza guardarla. “E fai compagnia a tua nonna, invece di perdere tempo con me.”
La ragazza si mordicchiò il labbro inferiore leggermente in imbarazzo, fece qualche passo e si sedette sulla poltrona a lato del divano. Lui si voltò appena, continuando ad ignorarla del tutto un secondo dopo. Seguitò a cambiare canale finché non trovò un notiziario e alzò il volume, come invitandola implicitamente a levarsi di torno.
“Così, la nonna ha paura di restare da sola...” disse lei a voce bassa, quasi in un sussurro, mantenendo gli occhi sulle dita che teneva intrecciate in grembo e che avevano preso a giocherellare nervosamente. Il giovane le osservò di sfuggita le mani, poi tornò a guardare la tv. Sentì per un momento i due occhi verdi fissi su di lui, poi percepì il movimento del suo sguardo verso lo schermo.
“Sai, Jason” esordì all’improvviso, con un tono deciso. “Dovresti usare i tuoi poteri per aiutare la gente! Questo quartiere... Questa città fa schifo!” Lui si voltò a squadrarla con l’espressione esasperata di qualcuno che aveva sentito quella frase ormai troppe volte. “Potresti essere un vero supereroe!” aggiunse lei, per niente intimidita e con crescente entusiasmo. Lo fissò, occhi negli occhi, quasi a sfidarlo. “Potresti usare i tuoi...”
“Devi smetterla di leggere quei fumetti da quattro soldi. E soprattutto smettila di rompere con questa storia, non ne posso più!”
“Smettila tu di essere così cinico!” proseguì lei con rinnovato impeto. “I fumetti non c’entrano nulla. Tu li hai veramente dei poteri speciali!”
“E tu hai quindici anni.”
“Che vorresti dire?” replicò piccata.
“Che i supereroi non esistono.”
“Vaffanculo!”
L’altro rispose senza scomporsi minimamente. “Che altro vuoi da me, Molly?”
“Voglio vivere in una città meno pericolosa e vorrei che Oliver Shark non fosse il mio padrone!” pontificò la ragazza, con l’aria furbescamente infantile di chi aveva appena segnato un punto a suo favore.
Jason si limitò a squadrarla con una smorfia beffarda. “Lo stai chiedendo alla persona sbagliata, credimi. E poi basta, non voglio parlarne più.”
“Ma tu potresti fare qualcosa, se solo volessi!”
Ma tu... non hai qualcosa di meglio da fare che passare i pomeriggi qui? Non hai delle amiche della tua età? Non devi andare a comprare i regali?” Quell’ultima domanda in particolare suonò satura di sarcasmo e disprezzo.
Lei si alzò dalla poltrona con aria offesa e scrutò per qualche istante l’espressione impenetrabile di lui, che era tornato a guardare la tv. “Certo che ho delle amiche!” Incrociò le braccia al petto imbronciata, in un moto di rivalsa. “Ho anche un fidanzato, se è per questo” puntualizzò poi puntigliosa.
L’espressione del giovane mutò leggermente, mentre si voltava di nuovo a scrutarla dal basso verso l’alto. Inarcò un sopracciglio vagamente perplesso, prima di rivolgersi di nuovo a lei in tono piatto. “Ma davvero. E chi sarebbe?”
Lei sorrise, lo sguardo le s’illuminò nuovamente, attraversato dall’emozione e dal divertimento per la reazione dell’altro. “Un mio compagno di scuola, si chiama Martin. Mi ha chiesto un appuntamento.” rispose quasi d’un fiato. “E dopodomani andiamo a pattinare allo Shark Center.”
A Jason sfuggì una sorta di sorriso, mentre osservava l’espressione radiosa e infantile di lei, che non riusciva a nascondere la sua eccitazione all’idea. “E come mai sei qui a rompere e non sei a casa a scegliere cosa metterti?”
“Spiritoso.” abbozzò lei ironica. “Non sono quel tipo di ragazza, io” precisò ridendo. “Però...” Si fece seria, riflettendo su qualcosa. “Devo comprargli un regalo, secondo te? In fondo dopodomani è la vigilia...”
“Compragli un paio di occhiali. Così si accorge della racchia a cui ha chiesto di uscire.” rispose serio.
Lei lo ignorò, seguendo le sue riflessioni. “Sì, forse gli compro qualcosa; un pensierino. Altrimenti pensa che non m’interessi.” Poi si avviò verso la porta. “Ti saluto, Superman!” esclamò a voce alta, in tono canzonatorio. “E, a proposito...” Quando era ormai sul pianerottolo, si affacciò alla soglia mostrandogli il dito medio. “Crepa!”
Non appena sentì sbattere la porta, Jason si alzò con calma dal divano, recuperò il barattolo di marmellata di fragole dal tavolo in cucina e ricominciò a servirsi. Osservò distrattamente l’albero di Natale e si avvicinò per staccare le luci. Notò solo allora il pacchetto sotto l’albero, seminascosto. Si spostò verso la finestra, appena in tempo per intercettare la ragazza che correva per strada e la seguì con lo sguardo lungo la via.

C’erano poche persone che potessero nascondergli qualcosa. Gli bastava un semplice sguardo e l’intimità più inviolabile di ogni mente, per lui, diventava limpida e chiara come il sole. Indifesi, nudi, le loro paure e qualsiasi loro segreto inconfessabile, lui li teneva in pugno come fossero giocattoli. Le stesse persone diventavano giocattoli, burattini nelle sue mani; poteva farne ciò che voleva, tutto ciò che voleva. Avrebbe potuto torturarle, perfino ucciderle. E non aveva rimorsi per averlo fatto, in passato. Aveva avuto le sue vendette. E ora li usava semplicemente come fossero strumenti, quando ne aveva bisogno. Le persone non erano altro. Ma l’unica cosa che contava davvero, per lui, era poter vivere in pace. Quella piccola casa a Hell’s Court, il quartiere in cui era cresciuto, un lavoro che gli permetteva di sopravvivere, abbastanza lontano da quello schifo che si spandeva a macchia d’olio in tutta Central Maze; probabilmente in tutto il mondo. Lontano. Era solo questo che voleva, starsene lontano da tutto e da tutti. Il mondo ormai non gli faceva alcuna paura; semplicemente, era lontano.
Osservò il gatto della signora Parker che si aggirava quatto sotto la sua finestra, quasi certamente aveva percepito la presenza di un topo e si muoveva piano, i sensi all’erta.
La sua mente s’insinuava strisciando silenziosa nei pensieri altrui, muovendosi come quell’animale; il minimo movimento della sua preda ed era pronto a scattare, a ghermirla con i suoi artigli e a farla a pezzi. Poteva liberarsi di quella ragazzina petulante in meno di un secondo, eppure non l’aveva mai fatto.
C’erano poche persone che potessero nascondere qualcosa a Jason Shandler. E la maggior parte di esse erano soltanto persone su cui lui aveva semplicemente deciso di non usare i suoi poteri. Fra queste, Molly Parker era l’unica che poteva dire in giro di essere anche sua amica.



Deserto, 140Km a ovest di Central Maze, laboratorio sotterraneo di ricerca della Shark’s Tech & Applicatons.
In quello stesso momento.


Jack Fellon aveva aspettato quel momento da tutta una vita. Certo, non era esattamente così che se l’era immaginato, ma non aveva neanche la minima intenzione di mettersi a sottilizzare. Era appena diventato il responsabile tecnico del progetto Fearless, uno dei più rivoluzionari e importanti del secolo; ecco cosa contava. Denaro, fama, potere e probabilmente un posto di primordine sui libri di scuola, un giorno. Alcuni non ci riuscivano nemmeno in sessant’anni di carriera; lui aveva ottenuto tutto questo a soli quarantatre!
Era stato sicuramente un colpo di fortuna, ma non era stato solo quello; ne era certo. Sapeva bene che il suo predecessore avrebbe commesso un passo falso prima o poi. Il dottor Russell era un grande scienziato, ma era fin troppo legato alla vecchia scuola. Continuava a porsi troppi dubbi e non faceva altro che ostacolare il progetto e creare inutili dissapori tra l’equipe e i finanziatori. Negli ultimi tempi, poi, aveva davvero esagerato; stava rischiando di mandare all’aria sette anni di lavoro!
Lui aveva saputo aspettare pazientemente il suo turno, invece, era stato al suo posto e l’aveva seguito come un’ombra tutto quel tempo, imparando e lavorando a testa bassa da vero stacanovista. Aveva avuto ragione; e si era trovato al posto giusto nel momento giusto. E, perdio, se l’era meritato!
Certo, Shark si sarebbe preso quasi tutto il merito; poco ma sicuro. Ma Shark non era uno scienziato e, nel mondo accademico, il vero trionfatore sarebbe stato lui e lui solo, il futuro uomo di scienza più ricco e famoso del mondo. Era a tanto così dall’evento più straordinario che avrebbe mai potuto sognare, era questo il punto; e non riusciva a smettere di pensarci.
Nella sua stanza, mentre riordinava le sue cose in attesa di trasferirsi nell’ufficio dell’ex-capo, si era concentrato principalmente su simili pensieri e sui primi dati dell’esperimento, alternando una concentrazione quasi ossessiva sui tracciati cerebrali del paziente alle fantasie più sfrenate sugli effetti immediati che la notizia avrebbe prodotto. Si era peraltro sforzato di ridimensionare le sue aspettative con non poca fatica, in realtà.
Il progetto Fearless, data la natura dei committenti e lo scopo per cui era stato ideato, avrebbe continuato ad essere top-secret ancora per molto. Il mondo non era pronto per quello che ne sarebbe derivato, ne era perfettamente consapevole. Ma era proprio questo che lo eccitava maggiormente; l’idea di aver travalicato la storia, di aver trasformato il futuro in realtà, lì, in quel laboratorio. E il giorno in cui sarebbe stato reso noto a tutti, lui ci sarebbe stato a prendersi gli applausi. Cazzo, se ci sarebbe stato!
Erano esclusivamente queste le riflessioni su cui lo scienziato si era focalizzato nelle ultime ore. Quasi inconsciamente, infatti, aveva evitato di ripensare al modo in cui erano andate le cose, come se sperasse in qualche modo di dimenticare. Ancora pochi minuti e ci sarebbe riuscito, d’altra parte. Non era stato poi così difficile. Ancora pochi minuti e avrebbe cancellato definitivamente dalla sua mente Oliver Shark e i suoi continui scontri con il Dottor Russell; avrebbe cancellato quell’ultimo, violento litigio, le minacce e Russell che afferrava il portatile e faceva per abbandonare il laboratorio. Tutto; la telefonata di Shark alla sicurezza, quell’energumeno di Morris e i sui compari che immobilizzavano il povero dottore, la siringa ipodermica che faceva tacere le sue urla e i suoi strepiti. Pochi minuti e avrebbe ricordato solo la voce di Oliver Shark, che in quel momento l’aveva fatto trasalire. Fellon, da adesso è lei a capo del progetto. Non mi deluda. E quell’espressione non l’avrebbe ricordata più così agghiacciante.
Ancora un po’ e Jack Fellon si sarebbe definitivamente convinto che tutto era andato com’era giusto che andasse; che il suo mentore ed amico, Teo Russell, aveva reso solo un servigio alla scienza e che, adesso, alla luce dei primi risultati che cominciavano ad arrivare, tutti i suoi dubbi e le sue perplessità sarebbero stati completamente fugati. Sarebbe potuto persino arrivare a credere che lui, Russell, ne sarebbe stato contento. Proprio lui, il soggetto Alfa. A quel punto, man mano che i dati continuavano ad arrivare, Jack Fellon era ormai persuaso che ce l’aveva fatta.
Sarebbero bastati solo pochi minuti ancora.

L’allarme, in realtà, risuonò improvviso nell’edificio con un tempismo perfetto e la deflagrazione nella zona ovest percosse i nervi dello scienziato non meno violentemente delle fondamenta del laboratorio. Fellon rimase impietrito per un tempo indecifrabile in preda ad uno stato di disorientamento, finché la telefonata di Oliver Shark, tempestiva come un colpo di grazia, finì per intimidirlo a morte in modo definitivo; ancor più delle grida spaventate fuori della stanza e delle continue scosse, che si susseguivano violente a ritmo irregolare e che sembravano sul punto di far crollare l’intero edificio.
Nel mio ufficio! Subito! Che cosa sta aspettando, che mandi qualcuno a prenderla?! Click.
Raggiunse l’ufficio quasi in trance, mentre i boati si facevano più lievi e meno frequenti, riuscendo a malapena a tranquillizzarsi. Ma un altro terremoto, ben peggiore, si abbatté su di lui appena oltrepassata la porta, nelle sembianze dell’uomo più potente del paese e del suo sguardo sinistro e glaciale... e in qualcosa di molto più grande di lui.
“Dove accidenti era, Fellon?! Si può sapere che cosa stava facendo?!”
“Ec... ecco. Io...”
“Lasci stare! Abbiamo un grosso problema qui. Russell, o come diavolo dobbiamo chiamarlo adesso, è riuscito a scappare!”
“Come sarebbe è riuscito? Non... I dati sembravan...”
“La smetta di farfugliare idiozie, Fellon! Dobbiamo fermarlo prima che combini qualche disastro. Si rende conto di che cosa potrebbe accadere se il dispositivo fosse distrutto?! O peggio, se cadesse nelle mani sbagliate?!”
“S... sì, certo.”
“Si muova! Dobbiamo trovare il modo di riacchiapparlo senza fare alcun danno al circuito integrato. E in fretta! Quel bastardo è dannatamente veloce.”
“Certo, ma io, cioè noi... che possiamo fare contro...”
“Ho già mandato una squadra, non si preoccupi. Ma mi serve il suo aiuto; potremmo dovergli espiantare il congegno a tempo di record, non so se mi spiego... Non posso fare tutto quello che mi pare, Fellon, nemmeno se sono il padrone della fottuta città! ... Che diavolo sta facendo ancora qua?!”
“M... mi dia un minuto. Prendo l’indispensabile.”
Sarebbero bastati solo pochi minuti ancora e Jack Fellon avrebbe scordato proprio tutto, persino i dubbi di Russell su quegli effetti collaterali.


CONTINUA...



taisa: I ruoli s'invertono e la cosa fa molto ridere XD. Cercando di essere seri, piuttosto, ti ringrazio per la recensione e per i complimenti^^. Mi fa piacere essere riuscita a rendere una certa atmosfera e, soprattutto, sono contenta che si noti che Jason sia un tipo un po' particolare fin da bambino ^_*. Per placare la tua ansia XD ho aggiornato in fretta, come vedi. Grazie ancora^^.

E un grazie, come sempre, a chi sta seguendo questa storia^^.


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Capitolo 3
*** Capitolo Due: Paura ***




CAPITOLO DUE:
Paura.


Central Maze City, Big Jumble (quartiere affaristico).
Sede della S.I.T.S. (Shark’s Information Technology & Systems).
22 Dicembre, 15:05 p.m.


“Bene. Fatemi sapere.” Oliver Shark richiuse con un gesto nervoso il cellulare, senza rallentare l’andatura e ignorando l’ennesima segretaria che si prostrava letteralmente ai suoi piedi. Fellon faceva fatica a stargli dietro; arrancava letteralmente dietro di lui, appesantito dalla grossa borsa con le attrezzature che lo costringeva a sbilanciarsi da un lato e reggendo a malapena in equilibrio il computer portatile. Lo scienziato si ritrovò per l’ennesima volta a disagio, mentre constatava definitivamente la sua scarsa prestanza fisica e la paragonava all’uomo, di quasi sessant’anni, che lo precedeva incedendo a passo spedito e lo stava lasciando notevolmente indietro. Shark, la corporatura robusta e atletica, i capelli brizzolati, che conservavano ancora quasi del tutto il biondo cenere dei tempi in cui aveva certamente fatto strage di cuori, e lo sguardo vigile, dimostrava sicuramente almeno dieci anni in meno della sua età; e questo non era di certo solo apparenza. Fellon, in quel preciso momento, dal basso della sua corporatura esile, della sua prominente pancetta e della sua calvizie incipiente, cominciò per la prima volta a sentirsi davvero inadeguato; sempre di più, man mano che si avvicinava all’imponente ufficio all’ultimo piano del palazzo della SITS.
“In città non si è ancora visto” affermò deciso Shark, senza voltarsi a guardarlo. “A quanto pare, siamo riusciti ad arrivare prima di lui. Lei è proprio sicuro che stia venendo qui?” chiese poi in tono scettico, lanciandogli di sfuggita un’occhiata poco rassicurante.
“Sì, beh. I risultati hanno finora hanno evidenz...”
“La pianti con questo linguaggio da scolaretto modello, Fellon!” sbottò improvvisamente Shark. “Non ci sono per nessuno, a parte Morris” intimò alla segretaria un secondo dopo, spalancando la porta dell’ufficio. “Non sono il suo capoufficio, perdio! Parli chiaro una buona volta!” proseguì senza soluzione di continuità, ignorando nuovamente le efficienti moine della donna che era scattata in piedi come un soldato.
Qualcosa nell’atteggiamento deferente della collaboratrice costrinse Fellon a trattenersi dal fare a Shark le sue scuse.
Era così che teneva in pugno la città, accidenti! Quell’uomo era capace di far sentire un idiota anche l’uomo più capace e intelligente del pianeta. E se quell’uomo non era lui, poco ci mancava. Beh, non era così che avrebbe dovuto trattarlo, lui non era uno dei suoi energumeni senza cervello con la pistola nella fondina o, peggio, una delle sue puttanelle! Lui era un fottuto genio!
“Ebbene?!” insistette Shark, scrutandolo con aria impaziente e irritata, una volta occupato il suo posto dietro la massiccia scrivania.
Fellon entrò con calma e richiuse la porta dietro di sé, deciso a non lasciarsi intimidire. Per tutto il tragitto in elicottero fino a Central Maze, aveva controllato file e file di appunti senza ricavarne nulla d’illuminante ai fini del problema, ma era pur sempre uno fra i più brillanti studiosi del pianeta e, in quel momento, responsabile almeno quanto l’altro. Il gioco valeva di certo la candela. Doveva solo mantenere la calma e avrebbe risolto la cosa senza troppi danni collaterali.
“Sì, sono sicuro che stia venendo qui.” Shark si limitò a fissarlo in silenzio. “Naturalmente c’è un fattore di rischio nelle mie ipotesi” proseguì in modo deciso e autorevole.
“Che intende dire?” Il tono dell’altro si era fatto meno irritante.
“Che è pur sempre il primo essere umano a sperimentare Fearless.” continuò, dopo aver depositato la sua roba sul tavolo destinato alle riunioni, a lato della scrivania. “Le mie considerazioni si basano sui risultati degli esperimenti sugli animali, soprattutto, e sui modelli meno recenti, oltre che su quello che ho appena avuto il tempo di verificare.”
“Capisco.” Shark si passò una mano fra i capelli, sovrappensiero. “Così quel bastardo continua ad avercela con me.”
“Direi che, se quello è il dottor Russell, sì; ce l’ha a morte con lei.”
Il suo interlocutore si lasciò sfuggire una sorta di sogghigno e Fellon si sforzò di ignorarlo; impegnato a mettersi a suo agio, aveva iniziato a sistemare il portatile e a trafficare con i collegamenti. “In realtà” proseguì lo scienziato, sedendosi e sollevando lo schermo del laptop, “si è sempre verificata una tendenza a mantenere certe abitudini comportamentali, nonché una labile traccia della personalità originaria in ogni soggetto testato. E, poiché Russell la odia, penso che cercherà in qualche modo di vendicarsi. D’altra parte, il soggetto Alfa non è propriamente il dottor Russell e non possiamo prevedere esattamente che cosa abbia intenzione di fare.”
“Be’, che si faccia avanti!” ringhiò l’altro con aria di sfida. “Ho l’intera città pronta a farlo a pezzi.”
“Dovremmo stare attenti a non sottovalutarlo.” proseguì Fellon, sollevando lo sguardo dal monitor per un momento e scrutando l’espressione del suo interlocutore. “Il dottor Russell è... era dotato di un Q.I. decisamente sopra la media. E lo dimostra il fatto che abbia sottratto diverse armi dal laboratorio. Inoltre non dimentichi che è praticamente una macchina, non prova alcuna emozione primaria se non probabilmente la rabbia. E la sua forza, attualmente, è innaturalmen...”
“Ok. Ok, Fellon” lo interruppe. “Non c’è bisogno che mi ripeta la lezioncina a memoria. Lo so benissimo anch’io.”
Lo scienziato si limitò a concentrarsi sul computer, aggrottando leggermente la fronte. “Non credo di doverle ricordare che non c’è modo di neutralizzare Fearless dall’esterno, dunque.” seguitò in tono accondiscendente. “Senza danneggiarlo, perlomeno; dovranno stare molto attenti con le armi ad imp...”
“Mi dica qualcosa che non so.” sbuffò l’altro, interrompendolo nuovamente.
“A meno che...” Lo scienziato sembrò ignorarlo, seguendo qualche ragionamento.
“A meno che cosa?”
Le sue mani si bloccarono sulla tastiera, esitando per un momento. “C’è qualcosa che non va” esclamò Fellon all’improvviso.
“Che cosa?” Shark affilò all'istante lo sguardo e si fece guardingo.
“Non ho accesso al mio dominio.”
“E con ciò?”
“Non ho acceso al sistema” precisò Fellon con crescente trepidazione, mentre ricominciava a pigiare i tasti sul portatile in modo nervoso. “Niente dati. Niente comunicazione. La rete non va!” L’espressione sorpresa e insieme notevolmente allarmata che rivolse al suo interlocutore fu più che eloquente.
“Dannato figlio di puttana!” imprecò a denti stretti questi, afferrando il telefono come fosse un rapace sulla preda.


Central Maze City, Big Jumble.
East Mayhem Bank.
In quello stesso momento.


“Signor Shandler, lei deve capire. Io sono una semplice cassiera e il suo conto è in rosso. Non posso riattivarle il bancomat, né tantomeno le posso far fare un prelievo, finché non provvede a saldare almeno il fido.”
L’impiegata di là dello sportello sembrò quasi supplicarlo a desistere; pareva davvero dispiaciuta, al punto che faceva fatica a guardarlo negli occhi.
“Capisco.” Il tono dimesso e rassegnato della risposta la indusse tuttavia a sollevare lo sguardo sul giovane. “Veramente lei potrebbe, se davvero volesse.”
Jason la fissò distrattamente, pronunciando quelle parole, e la donna ebbe un impercettibile scatto nervoso. Per un momento le sembrò che il tono di quel ragazzo dall’aspetto trasandato era mutato improvvisamente e sgranò gli occhi, in preda ad una strana sensazione di stupore. Si sentì inquieta e disorientata un attimo dopo; e cominciò quasi a temere che fosse un malvivente. Ma dovette ricredersi in un istante. In effetti, sembrava proprio un bravo ragazzo e lei voleva fare esattamente ciò che le stava chiedendo.
“Senta, io l’aspetto qui. Facciamo milleduecento, ok?”
“Certo, arrivo subito” si affrettò a rispondergli sfoderando un sorriso cordiale. Non fece nemmeno in tempo a scomparire negli uffici sul retro, in realtà, perché il colpo di pistola che esplose improvviso all’ingresso, la pietrificò sul posto.
“Tutti a terra, presto!”
“Sdraiatevi a terra! Buoni, signori. E non vi succede nulla.”
Jason si voltò con calma verso l’entrata e gettò un’occhiata sfuggente alla guardia giurata che giaceva a faccia in giù sul pavimento, in una pozza di sangue, e ai due individui armati che avevano fatto irruzione nella banca. Si abbassò lentamente e si sedette sul pavimento incrociando le gambe, cercando di ignorare il fastidioso piagnucolio di una donna alla sua sinistra. Con malcelata irritazione, si trovò improvvisamente a ricordarsi del perché odiasse tanto frequentare le banche. Ormai, anche una filiale piccola e insignificante come quella veniva presa di mira praticamente un giorno sì e uno no, da qualche disperato come quei due. E, decisamente, aveva imbroccato il giorno sbagliato.
Detestava quel tipo di situazioni. Tutta quella gente presa dal panico, terrorizzata, gli andava direttamente alla testa come un’onda d’urto. Presi uno alla volta non erano niente, ma nel momento in cui gli capitava di trovarsi a stretto contatto con la paura di un mucchio di gente, tutta insieme, doveva concentrarsi parecchio per evitare di lasciarsi andare. E ormai accadeva fin troppo di frequente, in quella maledetta città.
Cercò di isolarsi; da quei due tizi che sbraitavano, dalla gente che vociava e piangeva... Da tutta quella paura, che stava urlando nella sua testa a un volume assordante. Cercò di calmarsi, chiuse gli occhi. Pian piano il rumore si attenuò fino ad essere sopportabile, una specie di basso ronzio. All’improvviso, però, una voce attirò la sua attenzione, emergendo da un angolo della sua mente e divenendo forte e chiara in mezzo al fruscio di tutte le altre. Ho paura. Non voglio. Vi prego, non fatelo di nuovo... Jason aprì gli occhi, istintivamente, e individuò altri due occhi colmi di lacrime dall’altra parte della sala, di un bambino sui cinque anni, che stringeva il braccio di sua madre e singhiozzava rumorosamente.
“Cos’è, te la sei fatta nel pannolino, moccioso? Guarda che non ti faccio nulla... forse...” Uno dei due rapinatori rideva sguaiatamente, a pochi passi dal ragazzino. Il complice gli gettò un sacchetto pieno di soldi e questi finse di farli cadere. Con un gesto brusco puntò l’arma contro il bambino, che sussultò terrorizzato. “Ops!” Rise ancora una volta, con più gusto di prima. “Ci sei cascato, stupido! Non lo sai che gli uomini non frignano! O sei una femminuccia?”
Jason si alzò lentamente e si diresse senza fretta in quella direzione.
“Ehi!” L’altro malvivente, impegnato con un cassiere, fece appena in tempo ad accorgersi di lui e ad incrociare il suo sguardo per un momento. “Che cos...” S’irrigidì, impallidendo. “Mio Dio, no! Che cos... noooo!”
L’altro si voltò dapprima preoccupato, poi si fece perplesso. “Ma che cazzo ti prende, Sammy?!” Il suo compagno stava letteralmente singhiozzando disperato, sbatteva i pugni con tutta la sua forza su qualcosa d’immaginario e aveva un’espressione sgomenta. Era in preda al panico. Fu solo in un secondo momento che notò il ragazzo con i capelli scuri e spettinati che gli ricadevano a ciuffi sugli occhi; indossava un paio di vecchi jeans e un maglione di almeno due taglie di troppo. Si stava avvicinando a lui. Ma che cazzo si era messo in testa di fare quello sfigato?!
“Senti, bello...” Quello aveva decisamente una rotella fuori posto. Sembrava la persona più a suo agio del mondo.
Con un gesto naturale, il ragazzo si scostò i capelli dalla fronte. L’uomo notò che i suoi occhi avevano un che di innaturalmente furioso, rispetto al resto del volto. Sentì immediatamente crescere dalla bocca dello stomaco una sensazione inarrestabile di panico, le mani cominciarono a tremargli incontrollate e la pistola semiautomatica gli scivolò. La osservò cadere come al rallentatore, incapace di reagire, sentendo la coscienza che gli sfuggiva di mano assieme al controllo del suo corpo.
Jason si avvicinò di un altro passo appena e incrociò per un momento gli occhi umidi e confusi del bambino. “Non avere paura” affermò serio, ignorando il resto delle persone che lo fissava sbalordita, senza capire cosa stesse succedendo. Lo osservò impassibile, mentre annuiva convinto. Poi tornò a concentrarsi sul criminale. E diventò acqua.
Acqua, un getto d’acqua violentissimo e gelido cominciò a investirlo in pieno volto. Non riusciva ad aprire gli occhi, né la bocca, che inghiottiva sorsate d’acqua stagnante e putrida, annaspando, nel tentativo di gridare aiuto. I piedi affondarono nella fanghiglia marcia, nelle alghe morte e nell’immondizia; si sentì sprofondare. Prendimi! Prendimi, se ce la fai! ... Attento Bobby, lì è pericoloso, la mamma ha detto di non andare nella palude ... Splash ... Aiuto! Aiu... to! Affog... Aiut... Aria, aria. Stava annegando! Dio santo. Qualcuno mi aiuti! No, non riusciva a gridare. Aria! Non riusciva a respirare. L’angoscia e il terrore troncavano il respiro più brutali di quell’acqua. Una boccata avida e bagnata. Un’altra. Acqua. No... Dio, aiutami! Poi più nulla.
Jason lasciò scorrere l’angoscia come un fiume in piena, nelle vene, spinta dall’acqua. La abbandonò a se stessa finché non sentì il rintocco del suo cuore accelerare al massimo, il respiro mozzarsi all’estremo. Poi si concentrò e inspirò a fondo, rallentò i battiti fin quasi a fermarli e lasciò scorrere se stesso in quel fiume d’acqua, focalizzandosi sul rumore limpido dello scroscio e della corrente, che attutiva i gorgoglii e le grida affannate della sua vittima. Era acqua ed era paura. Lo guardava morire. E lo stava uccidendo.
Il telefono cellulare vibrò in una delle sue tasche all’improvviso. Esitò per un momento, poi uscì dalla mente di quell’uomo. Come se fosse stato realmente nel suo corpo, non appena distolse la sua attenzione, il rapinatore si afflosciò a terra come svuotato. Dall’altra parte della stanza, anche l’altro smise improvvisamente di gridare; si guardò intorno con aria smarrita e si accasciò al suolo, continuando a piangere in silenzio in preda a convulsioni nervose.
“Pronto?” Mentre rispondeva al telefono, Jason si chinò sull’uomo senza conoscenza e ascoltò il suo respiro. “Sì, sono io.” Gli poggiò due dita sul collo, per saggiarne il polso. L’espressione impassibile osservò che era ancora vivo. “Qual è il problema?” Continuò la conversazione, mentre cercava qualcosa sul pavimento, scostando il corpo inerme dell’uomo con la stessa cura che avrebbe riservato a un mucchio di stracci. “Mm, dovrei darci un’occhiata.” Raccolse il sacchetto con i soldi da terra e ne tirò fuori alcune mazzette. “Ora?” Alzandosi, se le mise in tasca e si aggiustò il maglione per coprire le banconote che spuntavano visibilmente. “Ok, sono nelle vicinanze. Sarò lì fra un quarto d’ora al massimo.” Chiuse il cellulare e uscì dalla banca, in tempo per incrociare la polizia a sirene spiegate che convergeva all’esterno dell’edificio e, soprattutto, per lasciare più di cinquanta persone ammutolite e turbate, che non riuscivano a spiegarsi come avesse fatto quel ragazzo a ridurre i due malviventi in un simile stato. Non li aveva nemmeno toccati. Anzi, era rimasto semplicemente a guardarli, continuando beato a sorseggiare un frappé.

Accartocciò il contenitore di cartone e lo gettò in un cesto dei rifiuti lungo la strada. Il tizio che l’aveva chiamato sembrava avere una fretta del diavolo, ma Jason camminava con calma. Una camminata di qualche minuto era giusto quello che gli ci voleva. Il leggero formicolio che sentiva alla base del collo stava quasi svanendo e l’adrenalina si stava dissolvendo lentamente, ad ogni passo.
Ispirò istintivamente una boccata d’aria, con un respiro profondo, e sollevò per un momento lo sguardo, fermandosi a osservare il rettangolo di cielo che s’intravedeva tra gli imponenti edifici del quartiere della borsa.
Era in quei momenti, dopo aver sperimentato le paure più atroci e soverchianti della gente, che gli capitava di sentire quella specie di effetto di rimbalzo; quella sorta di brivido che lo investiva, dapprima violento, e poi si trascinava nella sua testa lentamente, scemando piano, fino a scomparire in una specie di eco. Era come una traccia, un ricordo.
Socchiuse gli occhi, passando di fianco a una fontana, e ascoltò lo scorrere dell’acqua.
Era il ricordo delle sue paure, quelle che aveva provato un tempo e che aveva lavato via come fossero macchie, imperfezioni. Era come un colore sbiadito, che affiorava dalla sua trasparente insensibilità all’orrore degli altri; lo stesso orrore che era costretto a provare ogni volta, nella stessa, identica e terrificante forma, insieme alle sue vittime.
Quella sensazione la sentiva solo dopo. E gli ricordava cosa fosse la paura; ora che lui non la temeva più, nemmeno quando si sentiva affogare o sentiva cosa significasse essere rinchiuso in una cella brulicante di scarafaggi, insieme con un malcapitato rapinatore; ora che lui non aveva più paura nemmeno della stessa paura, perché lui stesso era diventato paura. Era lui stesso l’acqua che lo soffocava, le pareti umide e striscianti che si chiudevano opprimenti su di lui. Ogni volta sentiva quel brivido, quel formicolio alla base del collo che gli ricordava tutto quello che significava essere un uomo come gli altri. E a volte se lo chiedeva... se avrebbe mai incontrato qualcuno le cui paure non sarebbe riuscito a dominare.

Impiegò meno del previsto ad arrivare al palazzo della SITS. Davanti all’enorme porta girevole, sentiva ancora una certa eccitazione scorrergli silenziosa nel sangue. Assumere due forme contemporaneamente, anche se così insignificanti, era una seccatura che non aveva previsto quel giorno; così come quel lavoro. I server del database sono off line, sia il master che il back up... Piuttosto inusuale, in effetti. Dal PDC ci risulta che sono operativi, ma non riusciamo ad accedere ai dati... Probabilmente il server di bridge era saltato. Certo, se fosse stato quello il problema, forse poteva anche sbrigarsela in poco tempo.
Pensò di riposarsi per qualche minuto, visto che era in anticipo. Ma cambiò idea quasi subito ed entrò nell’edificio palesemente controvoglia.
I soldi che aveva preso in banca gli sarebbero bastati per un bel po’, ma rifiutare un lavoro del genere, oltre che fruttargli dei bei soldi in più, poteva costargli un mucchio di lavoro in futuro. Non poteva permettersi di essere l’ultimo della lista di Oliver Shark, visto che almeno il novanta per cento delle società e delle compagnie della città erano sue; e, a quanto pareva, attualmente era tutt’altro che l’ultimo sulla sua lista di tecnici. Se rifiutava adesso, gli ci sarebbero voluti mesi per riguadagnarsi quel contatto.
“Shandler, tecnico informatico. Mi hanno chiamato dal CED... Centro Elaborazione Dati...” precisò, notando lo sguardo esitante della segretaria.
“Sì, attenda un momento, prego.”
Notò che la receptionist si era sforzata di essere gentile, senza riuscire a nascondere uno sguardo perplesso sul suo abbigliamento.
Quando le diede le spalle e fece per appoggiarsi al bancone, mentre la donna componeva qualche interno, il contraccolpo violento che lo scaraventò contro il marmo, improvviso, lo colse di sorpresa e del tutto impreparato. Sentì un dolore sordo al fianco, che aveva urtato con forza, senza avere il tempo di rendersi conto di cosa l’aveva colpito. Capì quasi subito, in realtà, che era stato uno spostamento d’aria, un’esplosione ravvicinata. L’enorme atrio si riempì infatti all’istante di polvere e fumo denso, di grida concitate. Jason si raddrizzò come poté, premendosi una mano sul fianco e una sulla bocca per evitare di respirare, cercando al contempo di capire da che parte sarebbe dovuto uscire. C’erano diverse persone senza vita sul pavimento, altri vagavano confusi in preda al panico. La paura della gente ricominciò a urlargli rabbiosamente nella testa, disperata.
Poi, successe tutto ancora più velocemente.
Dalle macerie sul lato est, vide emergere in mezzo al fumo una strana sagoma. Era un uomo, ma sembrava equipaggiato con una bizzarra tuta da combattimento, che ricordava vagamente un abbigliamento militare; niente che Jason avesse mai visto. Imbracciava un’arma, una specie di grosso fucile dalla forma allungata senza canne, altrettanto insolita. Per un momento, mentre metteva a fuoco quello strano individuo che incedeva minacciosamente verso di lui, Jason si trovò a essere curioso e a chiedersi subito dopo se non fossero appena sbarcati gli alieni. Gli sfuggì spontaneamente un sogghigno ironico, ma quell’espressione scomparve quasi subito dal suo volto, non appena l’uomo si tolse il casco e lo fissò rabbioso, rivolgendosi a lui in un tono innaturalmente piatto e inespressivo. “Ti uccido, ruffiano tirapiedi. Vi uccido tutti, uno per uno. Tutti.”

Jason era capace di assumere, letteralmente, la forma delle paure più atroci degli esseri umani. Per lui non c’era nulla di più facile. Un potere incredibilmente devastante il suo, perché, come aveva imparato fin da bambino, tutti avevano paura. E la maggior parte della gente si trovava totalmente annientata di fronte ad essa. Aveva un unico punto debole, o almeno così pensava. Era costretto a provare ciò che sentivano le sue vittime, esattamente quello che infliggeva loro. Tutto.
In realtà, col tempo, aveva semplicemente imparato a non avere paura. Jason Shandler, realmente, non aveva paura di niente.
Non ebbe paura, infatti, quando guardò negli occhi quello strano uomo, lo vide puntargli contro quell’arma insolita e premere quello che sembrava un grilletto. Fu solo sorpreso, molto sorpreso, perché nella sua mente non aveva visto nulla.
E mentre cadeva a terra e sentiva la vista annebbiarsi e i sensi venire meno, pensò quanto fosse strana quella sensazione e gli venne ancora da sorridere. Appena prima che tutto diventasse buio, gli era sembrato di vedere un gatto, attraverso la vetrata; e quello sì, che era davvero strano.


CONTINUA...



taisa: Quando si parla di indifferenza e di cinismo, quel tizio coi capelli in sù di cui parli diciamo che ha fatto scuola ^_* In realtà, mi fa molto piacere che anche i personaggi cosiddetti "minori", come Molly o i due cattivoni, siano caratterizzati decentemente, nonostante le tradizioni. Per quanto riguarda Jason, ormai non ha più paura di niente. Io, invece, ho paura che dovrò continuare a ringraziarti XDD.

Grazie anche a chi sta seguendo questa storia^^.


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Capitolo 4
*** Capitolo Tre (Prima Parte): Diffidenza ***




CAPITOLO TRE (PRIMA PARTE):
Diffidenza.


Hell’s Court, appartamento di Jason.
24 Dicembre, 3:56 a.m.


Il dolore alla testa era quasi insopportabile. Fu quel pulsare ritmico alle tempie che lo riportò lentamente alla realtà, come se quelle fitte fossero capaci di ricordargli che apparteneva ancora ad un mondo concreto. I sensi offuscati cercarono pian piano di liberarsi da quello che vagamente gli era sembrato un sogno, particolarmente bizzarro, in cui si era sentito trascinare in balia di una strana corrente di emozioni contrastanti. Aveva vagato letteralmente in una dimensione rarefatta, in cui l’assoluto e soverchiante controllo che gli era parso di esercitare sul mondo che lo avviluppava sembrava anche un potere che proveniva da lontano, molto lontano; da un luogo in cui non era mai stato. Quando riaprì gli occhi, tentando di mettere a fuoco il posto in cui si trovava, si sentì immediatamente stanco, quasi stremato, e piuttosto confuso. Gli ci volle qualche istante per rendersi conto che era sul divano di casa sua.
“Ho appena fatto il caffè; sempre che questa sottospecie di brodaglia tu abbia l’ardire di chiamarla tale.” La voce profonda e quieta che giunse dalla cucina lo costrinse a sedersi e a voltarsi in quella direzione. Notò la sagoma di un uomo, nascosto dallo sportello del frigorifero e chinato a osservarne il contenuto, i cui capelli biondissimi s’intravedevano appena. “Mai sentito parlare di torrefazione da queste parti, vero?” proseguì la voce da dietro il battente, in tono calmo e lievemente sarcastico. “Espresso? Certo che no, ovvio” proseguì senza attendere una replica. “Mai sentito parlare nemmeno di qualcosa di commestibile che non sia yogurt alla fragola, marmellata di fragole o... fragole...” L’inflessione sarcastica si accentuò appena.
Jason si trovò per un istante a osservare il suo frigo, incapace di replicare.
“A proposito, la crostata è veramente squisita. I miei più sentiti omaggi alla tua amica Molly.”
Seguì con lo sguardo la mano dell’uomo che richiudeva lo sportello e sentì un moto d’irritazione farsi strada dentro di lui, al di là della sorpresa, mentre quel nome veniva pronunciato con tanta familiarità. Un secondo dopo, si ritrovò a fissare due occhi chiarissimi che gli si rivolgevano affabili.
“Una ragazza assolutamente deliziosa, proprio come le sue crostate.” commentò ad alta voce l’uomo, avvicinandosi a lui e porgendogli una tazza di caffè fumante.
Jason ignorò di proposito quel gesto. “Chi sei?!” Chiese brusco.
Non aveva mai visto quell’individuo e di certo aveva un aspetto che si sarebbe ricordato. I capelli biondissimi pettinati all’indietro e quegli occhi così azzurri, che sembravano quasi trasparenti nel contrasto col suo abbigliamento scuro, ne facevano un individuo piuttosto particolare di per sé; ma non erano l’unica cosa che avrebbe attirato la sua attenzione, in altre circostanze. Quell’uomo, apparentemente sulla trentina, era vestito in modo eccessivamente ricercato per essere uno di Hell’s Court e anche le sue maniere non sembravano quelle di uno qualsiasi; nemmeno i pezzi grossi della SITS riuscivano ad apparire così a loro agio tra le loro lussuose scrivanie di mogano e i loro soprammobili di valore inestimabile. Quell’uomo ci riusciva in un modesto appartamento di periferia, nonostante la sua giacca di pelle valesse probabilmente da sola quanto sei mesi del suo affitto. Lo osservò, in attesa di una risposta, e notò che non si era minimamente scomposto di fronte alla sua reazione; si era limitato ad appoggiare delicatamente la tazza sul tavolinetto accanto al divano e a sedersi con tutta calma sulla poltrona di fianco a lui, sorridendo appena. Anche il modo in cui lo guardava aveva qualcosa di strano, non riusciva ad afferrare appieno la sua espressione.
“Tranquillo, le ragazzine di quindici anni non sono propriamente il mio genere.” puntualizzò l’uomo mettendosi comodo e prendendo un pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca.
Jason insistette, lievemente irritato. “Si può sapere chi sei?” Esitò solo un momento, quando notò, per la prima volta da che aveva aperto gli occhi, il gatto della signora Parker, che si era accucciato ai piedi di quell’individuo e faceva rumorosamente le fusa. “Che ci fai in casa mia?”
L’uomo si accese una sigaretta e inspirò una profonda boccata, espirando lentamente mentre allungava una mano per accarezzare l’animale. “Il mio nome è D. ed è un piacere fare la tua conoscenza, Jason.”
“Come conosci il mio nome?” si ostinò l’altro, non senza una certa perplessità.
Lo strano ospite rispose laconico, sogghignando appena. “Diciamo che sei sufficientemente famoso dalle mie parti.”
“Che razza di nome è D.? E, soprattutto, quali sarebbero le tue parti?” Jason si limitò a replicare senza scomporsi, ma per un momento ebbe l’impressione di sentirsi leggermente a disagio, quando l’altro si lasciò andare a una risata divertita, per poi farsi improvvisamente serio un secondo dopo.
“Mettiamola così... ” parlò questi a bassa voce. “Ho motivo di credere che tu abbia domande più interessanti da rivolgermi, non ho ragione?” Pronunciò quella che sembrava maggiormente un’affermazione senza guardarlo. Si limitò a scuotere la sigaretta nel posacenere, sul basso tavolinetto di fianco a lui; poi sollevò lo sguardo, come si fosse ricordato qualcosa. “Non ti dispiace se fumo, vero?” domandò cordialmente, ritrovando un’espressione amichevole.
Jason rispose senza pensare, dopo aver afferrato la tazza e bevuto una lunga sorsata. “No, fai pure.” E l’altro sembrò impercettibilmente approvare quell’atteggiamento.
“Com’è il caffè?”
“Ottimo” ammise controvoglia il ragazzo, senza riuscire a nascondere la sua irritazione crescente. Tuttavia, sembrò ritrovare quasi subito la calma seguendo qualche pensiero.
Quel tizio aveva ragione, c’erano un mucchio di domande che gli stavano frullando in testa. Qualunque fosse il suo nome, la sua presenza lì non era meno incomprensibile di ciò che gli era accaduto.
“Sei stato tu a...” Non riuscì a finire la domanda. Le ultime cose che ricordava erano ancora una nebulosa confusa d’immagini e sensazioni e si sentiva stremato. Era una stanchezza inusuale, sembrava espandersi sorda per tutto il corpo a partire dalla testa.
“Sì e no” rispose ancora una volta telegrafico il suo misterioso interlocutore. “Sono stato io a ricondurti qui, se è questo che vuoi sapere” precisò dopo aver inspirato un’altra boccata. “Tuttavia, normalmente non occupo il mio tempo aiutando le vecchiette ad attraversare la strada.” Sorrise fra sé. “Diciamo che mi trovavo nei paraggi. E che questa è una circostanza del tutto particolare... A proposito” aggiunse sovrappensiero, “i soldi che hai sottratto alla East Mayhem Bank sono sul tavolo. Ci sono tutti, non preoccuparti.”
Jason non riuscì a nascondere un moto di assoluta sorpresa, a cui l’altro rispose con un’espressione divertita. “Non sforzarti, Jason.” lo anticipò. “I tuoi poteri non hanno alcun effetto su di me. E, dopotutto, immagino che sarai ancora piuttosto provato.”
L’espressione ancora più sbalordita del ragazzo, mista ormai ad una palese circospezione, sembrò divertirlo ulteriormente.
“Come fai a sapere dei miei poteri?!”
“Te l’ho detto.” rispose l’uomo con tutta calma, aspirando l’ennesima boccata. “Sei piuttosto conosciuto dalle mie parti.” Per un momento Jason esitò, fissando quegli occhi glaciali apertamente con aria di sfida. “E sembrerebbe anche che quello che si dice su di te non siano solo chiacchiere.” aggiunse in tono vagamente compiaciuto.
Il giovane padrone di casa appoggiò la tazza sul tavolino e sembrò riflettere ancora per un istante. Per qualche strano motivo, l’idea che quelle parole fossero una sorta di apprezzamento nei suoi confronti non gli era sembrata per niente gradevole e non poteva fare a meno di sentirsi diffidente.
“Chi era quello?” chiese dopo un momento di silenzio, sforzandosi di ignorare tutto quello che cominciava a passargli per la testa.
“Un tempo era il Dottor Theodore Russell, neuropsichiatra; nonché biochimico molecolare ed esperto nel campo dell’Intelligenza Artificiale.” D. spense la sigaretta ancora non del tutto consumata con fare distratto e accarezzò nuovamente il gatto, che continuava a rumorosamente a dimostrargli il suo affetto acciambellato ai suoi piedi. “Attualmente, tuttavia, potremmo definirlo più precisamente come un esperimento mal riuscito.”
“Un esperimento di che tipo?”
“Mai sentito parlare di Oliver Shark?” Jason si limitò ad annuire. “Già, certo che sì” proseguì il suo interlocutore. “Probabilmente sei anche a conoscenza del fatto che Shark finanzia da tempo una serie di progetti di ricerca per il governo... Dipartimento della Difesa.” precisò dopo un momento.
“Posso solo immaginarlo.”
“In realtà si tratta di ricerche che coprono vari campi, dall’informatica alla nanotecnologia, robotica, biochimica...”
“Armi.”
“L’idea è quella.” annuì l’altro. “In altre parole, ha sul suo libro paga una serie di esperti che lavorano a tutto campo per sviluppare armamenti di qualsiasi natura.”
“Tipo quelle che aveva con sé quel soggetto alla sede della SITS.”
D. osservò il ragazzo con un sogghigno compiaciuto. “Decisamente, ciò che si dice in giro su di te corrisponde a verità.” Ma questi si limitò a fissarlo in silenzio con un’espressione impassibile, invitandolo implicitamente a proseguire.
“Un paio di anni fa, una delle loro ricerche nel campo della nanotecnologia ha prodotto quello che definiresti un prototipo di microprocessore bio-molecolare. Sai di che parlo, giusto? Te la cavi piuttosto bene con i computer, non è vero?”
Il ragazzo annuì nuovamente. “Così ci sono riusciti.”
“Hanno fatto molto di più.” confermò l’altro. “Il suo nome è Fearless” proseguì, ignorando apparentemente il lieve contrarsi dei muscoli facciali dell’interlocutore, nel sentire pronunciare quel nome. “Ed è in grado di interfacciarsi con la corteccia prefrontale mediale e con... Aree del cervello capaci di controllare la paura e altre emozioni primarie.” precisò tagliando corto, dopo aver notato le perplessità dell’altro. L’espressione al contempo assorta di lui, tuttavia, sembrò suggerirgli che le cose cominciavano ad essergli familiari. “In altre parole, sono riusciti a creare un dispositivo capace di spegnere letteralmente tutti gli interruttori cerebrali che attivano le emozioni, soprattutto la paura.”
“Soldati perfetti” commentò a mezza voce Jason, senza una particolare inflessione.
“Macchine, più che soldati, giacché Fearless non fa distinzione sul tipo di emozioni che vengono neutralizzate.”
“Ma come possono farlo? Cioè come possono fare questo a degli esseri umani senza che...”
“Naturalmente non possono.” ammise l’altro con un’espressione indecifrabile. “La commissione etica ha sospeso il progetto ormai diversi anni fa.”
Jason si trovò involontariamente a osservare con interesse quella strana espressione. Per un momento gli sembrò di intuire che l’etica non fosse propriamente il suo principale interesse, per non dire il suo stile di vita.
“Tuttavia, ovviamente...” aggiunse l’uomo con un certo sarcasmo. “Shark non aveva la minima intenzione di gettare al vento i suoi soldi, così ha pensato bene di continuare a finanziare il progetto Fearless in segreto, in attesa di venderlo al miglior offerente.” Si passò una mano fra i capelli sovrappensiero. “Quello che hai avuto il piacere di conoscere è il suo primo esperimento su un essere umano.” Poi tornò a incrociare le dita, appoggiando i gomiti sui braccioli della poltrona in una posa rilassata. “Diciamo che lo stimato Dottor Russell aveva un po’ troppo in simpatia la commissione etica e Shark ha creduto di poterlo persuadere in modo definitivo.”
S’interruppe per un momento, scrutando la reazione quasi inesistente dell’altro. “Ora cominci a capire il perché non hai potuto fare molto con lui?”
Jason si limitò a fare le sue deduzioni in silenzio, ignorando la sensazione sempre più consistente e inquietante che quel tizio sapesse fin troppo sul suo conto.
“Ovviamente il progetto Fearless ha ancora qualche inezia da mettere a punto, come l’attivazione incontrollata di un’aggressività fuori del comune e alcuni effetti di tipo paranoico e schizoide.” Concluse D. palesemente ironico, dedicando nuovamente la sua attenzione all’animale, che continuava a fare le fusa.
Jason non poté evitare di rispondere con un tono simile. “Già, l’avevo intuito.”
L’altro sorrise appena. “Ad ogni modo” sembrò concludere, “gli effetti collaterali e il fatto che Russell lo voglia morto sono l’ultimo dei problemi di Shark, al momento. Se l’esistenza di Fearless dovesse diventare di dominio pubblico, le leggi federali sarebbero una passeggiata di salute in confronto a come reagirebbero i suoi aspiranti clienti.”
“Non capisco. Che cosa voleva da me quella specie di cyborg?”
“Assolutamente niente” ammise candidamente D. “Probabilmente ti ha scambiato per uno degli scagnozzi di Shark, che, come immaginerai, attualmente non sono sulla sua lista per gli auguri di Natale. Eri solo nel posto sbagliato al momento giusto.”
Jason lo fissò con aria interrogativa.
“Sono io che voglio qualcosa da te.”
“Tu?”
“Più precisamente, quelli per cui lavoro.”
“Già, appunto. Perché mi stai dicendo queste cose?” Il caffè cominciava a fare un certo effetto e quella strana stanchezza aveva iniziato a svanire. “Lavori per Shark o cosa?”
L’uomo si rivolse a lui con un’espressione velatamente incupita. “Direi che sarebbe più appropriato sostenere che è lui che lavora per me, ma devo confessare che mi secca parecchio essere costretto ad ammetterlo” riconobbe con un certo fastidio, in tono lievemente esasperato.
“Allora che vuoi da me?!”
“Ok, Jason.” D. lo fissò improvvisamente serio, ignorando la sua insofferenza. “Cercherò di arrivare al punto.” rispose in tono pacato. “Mi piacerebbe che tu uscissi da questo stato di apatia incondizionata verso il tuo mondo e cominciassi a darti da fare. Tutto qua.”
La risposta così schietta e diretta lo colse del tutto di sorpresa. Per un istante il ragazzo non riuscì a fare a meno di dubitare, come se non avesse compreso appieno le parole dell’altro.
“Naturalmente, mi piacerebbe anche pensare che, nel momento in cui tu ti decidessi ad usare le tue abilità, Oliver Shark e il potere che ha su questa città diventerebbero automaticamente uno dei tuoi passatempi preferiti.” proseguì l’uomo evidentemente controvoglia. “Non hai idea di quanto mi secchi dovertelo chiedere, ma ahimè non posso esimermi; sono ordini superiori.”
“Aspetta.” Jason si decise a interromperlo, vagamente confuso. “Come sarebbe? Tu non sei uno di loro? Non hai detto che Shark lavora per te?”
“Non ricordarmelo” sospirò l’altro. “La sola idea che quell’uomo si bei nella convinzione di essere dalla mia parte mi dà la nausea.”
Il suo interlocutore sembrò riflettere per un istante. “Insomma, io faccio fatica a capire. Tu sei dalla parte dei... cattivi?” D. annuì impercettibilmente. “E vorresti che io, ammesso che faccia quello che mi dici, visto che non ho idea del motivo per cui dovrei...” precisò in tono diffidente. “Mi schieri contro di te e i tuoi fantomatici amici? E solo perché Oliver Shark ti sta antipatico?”
“Non è esattamente così, ma volendo riassumere la questione in modo sintetico...”
“E si può sapere perché? In fondo l’hai detto tu. In teoria non saresti un mio nemico? Voglio dire, io detesto Oliver Shark e quelli come lui...”
“Appunto” lo interruppe l’uomo.
Jason si lasciò sfuggire una smorfia beffarda. “Da quando in qua Joker offrirebbe gentilmente un caffè a Batman pregandolo di darsi da fare contro di lui? E, tanto per sapere, dove è finita la mia batmobile?”
D. si lasciò andare ad una risata sinceramente divertita. “Si vede proprio che i fumetti non figurano tra le tue letture preferite, Jason. Però, su una cosa mi stupisci...” E la risata scemò in un sogghigno beffardo. “Pensavo che credessi che i supereroi non esistano.”
Quella frase lo colpì per un istante, ma l’assurdità di quello cui si trovava di fronte gli sembrò solo in quel momento realmente tangibile. “Dio, mi sembra di essere nel cartone animato di qualcuno che si è appena fumato un etto di crack!” commentò esasperato, rivolgendo lo sguardo al soffitto e sprofondando nel divano. Il suo interlocutore si limitò a sogghignare vagamente e ad elargire una carezza al gatto, che non si muoveva dalla sua posizione.
“Ok. Dimmi solo questo” ragionò ad alta voce Jason. Ormai la stanchezza era quasi del tutto svanita e quell’uomo lo incuriosiva, in un modo che non riusciva spiegarsi. “Cosa sono questi ordini superiori? Fai parte di una specie di organizzazione mafiosa?”
Un’altra risata divertita gli giunse in risposta. “No, nella maniera più assoluta.”
“Beh, allora direi che ti conviene essere un po’ più chiaro.” insistette con tutta calma. “Non vedo che cosa c’entro io con queste cazzate e ti assicuro che non basta offrimi un caffè per farmi cambiare idea.”
“Ok, mi sta bene.” D. ritrovò un’espressione pacata. “In realtà, a questo punto ero preparato a farlo. E immagino che, dopotutto, tu debba saperlo.”
Jason si limitò a bere un’altra sorsata di caffè e a concentrarsi sull’uomo. Questi sembrava assolutamente a suo agio, comodamente seduto sulla sua poltrona. Sembrò riflettere per un momento, poi cominciò a parlare.


CONTINUA...



taisa: Mi fa piacere che i cattivi risultino realistici. In realtà, sono personaggi un po' "classici" del genere, come da bando, e ammetto che è una delle cose che mi sono divertita a rendere secondo le tradizioni (o almeno a provarci), ma ho cercato comunque di dare loro certe peculiarità. Ti ringrazio per averlo notato. Come vedi, i gatti non sono l'unica cosa strana con cui Jason si trova a che fare XD o, meglio, anche loro hanno un perché dopotutto. Ormai mi tocca... Grazie mille^^.

Auguri di Buon Natale a chi per sbaglio passa di qua^^.


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Capitolo 5
*** Capitolo Tre (Seconda Parte): Incredulità ***




CAPITOLO TRE (SECONDA PARTE):
Incredulità.


Hell’s Court, appartamento di Jason.
24 Dicembre, 7:40 a.m.

“Che vuoi dire con Oliver Shark non ha ottenuto tutto quello che ha in modo normale?”
Jason cominciava a sentirsi sempre più strano di fronte a quell’uomo. Da quando aveva iniziato a parlargli, non faceva altro che passare da un senso d’incredulità sempre più indispettito, quello di chi si sentiva preso per i fondelli, a una crescente curiosità e all’interessamento di chi, al contrario, sentiva istintivamente che in tutta quella follia c’era qualcosa di vero e soprattutto d’importante, che non poteva fare a meno di conoscere.
Il suo interlocutore aveva, inoltre, un modo di rivolgersi a lui che, se da un lato sembrava beffardo e dileggiante, riusciva in qualche maniera anche a rapire il suo interesse; in quelle espressioni sfuggenti e allusive, che sembravano comunicare più di quanto dicesse, e in quella sorta di serenità che nonostante tutto, dopo ormai diverse ore, continuava a mostrare come fosse un suo vecchio amico. Qualcosa in quell’ultima frase, che D. aveva accennato come fosse una tra le tante delucidazioni sulle svariate attività illegali di Shark, suggerì inspiegabilmente a Jason che era sul punto di scoprire qualcosa di rilevante.
“Insomma, spiegati meglio.”
“Voglio dire che non è dove è ora grazie a mezzi, come dire... convenzionali.” Il tono con cui aveva sottolineato quell’ultima parola aveva un che d’inquietante e Jason non aveva potuto fare a meno di notarlo. “Circa trent’anni fa, Shark fece una sorta di accordo. Potere, denaro e altre amenità da megalomane in cambio di... qualcosa cui avrebbe dovuto mostrare più affezione e attaccamento.” D. si era fatto di nuovo estremamente sarcastico.
“Non ti seguo. Mi stai dicendo che Shark ha fatto una specie di patto col diavolo o una cosa del genere?” domandò Jason palesemente scettico e vagamente derisorio.
“Più o meno, anche se ritengo che il diavolo sia un concetto semplicistico e sovrastimato, oggigiorno.”
La serietà della risposta lo lasciò all’improvviso piuttosto perplesso. “In che senso?” si lasciò sfuggire senza pensarci.
“Nel senso che non esiste” sospirò quasi annoiato l’altro. “Il diavolo. Le corna, il forcone e tutto il resto; e men che meno esiste la sua controparte con gli angioletti al seguito. E, naturalmente” precisò, come sottolineasse l’ovvio, “non sussistono patti con qualcuno che non esiste.”
Jason si ritrovò a commentare ad alta voce in tono esasperato. “Ora capisco anche meno.”
“Vedi...” L’altro, al contrario, si era fatto più riflessivo. “Come avrai avuto modo di notare tu stesso, il Bene e il Male invece esistono, in qualche forma riconoscibile.” Jason annuì involontariamente. “Ma è ovvio che non si tratti propriamente di due entità personificate.” proseguì l’uomo in tono vagamente disgustato. “Inutile dire che quelli sono solo patetici tentativi di dare un volto a qualcosa di ben più ineffabile, che trascende la dimensione e la... comprensione terrena.”
“Non mi dici niente di nuovo.”
A quel commento lapidario, D. si lasciò sfuggire un sorriso compiaciuto. “Tuttavia, per farla breve” decise di tagliare corto, notando l’espressione quasi tediata del suo interlocutore. “È possibile fare un accordo anche senza sapere con esattezza con chi lo si stia facendo; ed è quello che ha fatto Shark.”
“Spiegati meglio. Con chi, esattamente, avrebbe fatto quest’accordo?”
“Con quello che lui pensa sia il Male.”
“Quello che lui... pensa?” Il ragazzo non riuscì a nascondere ancora una volta la sua assoluta perplessità.
La reazione del suo interlocutore, invece, fu appena un sogghigno divertito. “Già. È piuttosto difficile spiegarlo in due parole...” S’interruppe un momento, seguendo un qualche ragionamento. “Beh, esiste una netta differenza tra ciò che puoi definire il concetto del Male assoluto, in sé, e l’immagine che fantasiosamente gli hai affibbiato.”
“E fin qui.”
“Ma non è questo il punto” proseguì. “Trent’anni fa, Oliver Shark ha ottenuto un grande potere, sacrificando una cosa preziosa e votandola al Male.”
“Cosa?”
“Non ha importanza” minimizzò. “Quello che importa è che quel patto ha avuto delle conseguenze spiacevoli con il passare degli anni.”
“Ovvero?”
“Si è venuto a creare un notevole squilibrio.” Jason lo fissò in silenzio. “La bilancia pende ormai da qualche tempo dalla parte del Male e le cose non tendono a migliorare. Il fatto è” ammise l’altro vagamente rassegnato, “che nonostante non possiamo fare a meno di goderci il momento, sappiamo perfettamente che, a lungo andare, questa situazione potrebbe ritorcersi anche contro di noi.”
Noi, eh?” La spensieratezza inquietante con cui D. aveva accompagnato l’ultima frase indusse Jason, quasi senza che se ne accorgesse, ad acuire il suo atteggiamento sprezzante.
L’altro non sembrò farci caso, apparentemente distratto ancora una volta dall’animale acciambellato ai suoi piedi. “Già, penso che ormai avrai capito in che squadra gioco.”
“In che modo, scusa?” Passò oltre Jason con una certa incredulità.
“Mettiamola così...” D. tornò a guardarlo negli occhi e a parlare in tono pacato. “Diciamo che l’eterna lotta che tutti pensano che si stia combattendo da sempre, in realtà, non è altro che un’amichevole partita a scacchi in cui i due avversari, a parte una cordiale antipatia dovuta a diversità di vedute, non si disprezzano affatto vicendevolmente; e tantomeno si contendono il dominio del mondo in una battaglia all’ultimo sangue... Quelle sono cose prettamente umane.” Sottolineò con un sorriso beffardo quelle ultime parole per poi farsi nuovamente serio. “Il problema è che se una delle due parti dovesse vincere davvero sarebbe un bel guaio; è questo il punto. Una volta che il Bene scomparirà del tutto, anche il Male cesserà di esistere, di conseguenza... O viceversa, se preferisci.” precisò provocatorio. “Sarebbe il caos. Capisci che voglio dire?”
“Più o meno. Ha un senso.” annuì Jason, non troppo convinto. “Non pensavo che Oliver Shark avesse tanto potere, comunque.” commentò poi in tono sarcastico.
L’altro sembrò accusare per un momento il colpo. “Non è lui in sé ad averne. Quell’uomo e i suoi favoreggiatori non sanno nemmeno lontanamente che cosa sia il Male, credimi.” Jason notò che era leggermente irritato e qualcosa, nel suo sguardo, per un momento sembrò suggerirgli di prendere sul serio almeno quell’affermazione. “Ma il potere di cui gode è un’aberrazione” proseguì D., ignorando l’impercettibile inquietudine che aveva notato nell’altro “che ha avuto i suoi effetti per più di trent’anni, proprio perché ha agito indisturbato in virtù di una circostanza innaturale. Non può continuare in questo modo. Nel modo più assoluto.”
Il giovane sembrò riflettere ancora una volta su quello che gli era stato detto. “Così, questa città è a un passo dallo sparire nel caos, eh?” dichiarò ritrovando un tono beffardo. “Saranno contenti i tizi del telegiornale; finalmente c’è qualcuno che dà loro ragione.”
L’altro sembrò per un momento scrutare sinceramente le sue reazioni, come per assicurarsi che avesse capito. Improvvisamente si alzò dalla poltrona e fece per raggiungere la porta che dava sul pianerottolo. “Ti faccio un esempio.” Jason si trovò a seguirlo con lo sguardo, allo stesso modo in cui aveva fatto il felino drizzando improvvisamente le orecchie. Quando il campanello suonò, esattamente in quel momento, non riuscì peraltro a nascondere la sua sorpresa.
“Signore, mi dà qualcosa per l’orfanotrofio di Hell’s Court? Vendiamo biscotti fatti in casa.” La ragazzina, sui dodici anni, si sforzò di sorridere all’uomo che aveva aperto la porta, con un certo imbarazzo.
“Non ho spiccioli, cara bambina, mi dispiace.” rispose gentilmente D.
Lei aggrottò per un momento la fronte con aria stizzita. “Se si vede lontano due isolati che sei ricco sfondato!” protestò. “Che ti costa?!”
“Non ti sembra di usare un linguaggio inopportuno, tesoro?” Fu la risposta cordiale che si sentì rivolgere un secondo dopo da quello strano individuo. In apparenza, tuttavia, la cosa sembrò irritarla maggiormente. “Senti, puoi anche darmi qualcosa, così me ne vado, ok? Già mi tocca farlo prima di scuola. Ci mancano solo gli spilorci come te!” sbottò insofferente.
D. si voltò verso Jason, allargando le braccia in segno di resa. “Visto? Il fatto è che le cose stanno così. Ora questa piccola insolente ti sembra insignificante, persino normale a voler essere cinico; sono le nuove generazioni, che non sanno cos’è il rispetto e blablabla... E invece, senza accorgertene, è il caos.”
“Parli come la mia maestra delle elementari” commentò sarcastico il ragazzo, a bassa voce.
L’altro sorrise sinceramente divertito, scuotendo appena la testa. “Ma guarda che mi tocca sentire.”
“Allora, signor ho–i–soldi-che-mi-escono-dal-culo, devo chiedertelo perfavoreeee? Non lo sai che i bambini poveri non possono comprarseli i tuoi bei pantaloni da damerino?” lo prese in giro la ragazzina, che aveva ascoltato le sue parole sbuffando.
D. sollevò leggermente il dito indice, facendo segno all’altro di aspettare, poi si voltò verso di lei. “E va bene, mi hai convinto.” Si chinò per parlarle all’orecchio e le disse appena due parole che Jason non riuscì a sentire, mentre le infilava in tasca un fascio di banconote. Il volto della ragazzina impallidì all’unisono con quel gesto e la sua espressione si contrasse in una maschera di terrore. Restò per un momento pietrificata, prima di riscuotersi alle parole apparentemente gentili dell’ospite, come fosse colpita da una fucilata. “Puoi andare, cara.” Scappò in preda al panico, senza farselo ripetere, correndo come un’indemoniata.
Il sorriso di Jason scemò nel nulla, quando sentì quella paura colpirlo con una violenza che non aveva mai avvertito prima. Osservò D., mentre tornava ad accomodarsi sulla poltrona come se nulla fosse, e per la prima volta cominciò a credere a quello che gli stava dicendo.
“Dicevamo?” lo apostrofò questi ricominciando ad accarezzare il gatto.
“Perché io? E cosa dovrei fare? Non potete fare qualcosa voi contro quel tipo, insomma non mi pare che abbiate bisogno di aiuto, così a occhio e croce.” commentò improvvisamente Jason, con un certo sarcasmo e una malcelata apprensione.
“Sì, giusto.” D. sembrò riprendere le fila del discorso. “Be’, ecco... In realtà è proprio grazie a questo tipo di interferenze passate che si è venuta a creare questa situazione. Non possono più verificarsi cose di questo genere, è imprescindibile.”
“E tu allora? Non è un’interferenza questa?” Il tono con cui lo chiese sembrava quasi una protesta.
“Non proprio.” dichiarò l’altro. “Io sono solo un semplice essere umano; come te. Anzi, probabilmente meno singolare di te. Che credi?”. Gli sfuggì un sorriso connivente. “E non sto facendo altro che raccontarti una storia, cui sei libero di credere o no.”
“Ma perché racconti questa storia proprio a me?” insistette l’altro.
“Perché sei una Nemesi.”
La risposta improvvisamente diretta e lapidaria, ancora una volta, lasciò Jason di nuovo senza parole. Lo fissò leggermente confuso, drizzandosi a sedere in una posa irrigidita. “Sono cosa?”
“Una Nemesi.” ripeté l’altro, assumendo nuovamente un tono accademico. “Gli antichi credevano che esistesse una sorta di giustizia compensatrice che distribuisse gioia o dolore nel mondo; per compensare, appunto, il bene e il male, affinché fossero in perfetto equilibrio fra loro.” spiegò in tono calmo. “Ovviamente, la consideravano una divinità.” Sorrise. “In realtà, al di là della mitologia, gli antichi non avevano tutti i torti. Nel tempo sono esistiti realmente degli individui particolarmente dotati, che si sono trovati in contingenze simili a quelle che viviamo oggi e hanno avuto questo ruolo... se così lo volessimo definire.”
“E sarei io, ma vuoi scherzare?!” proruppe improvvisamente Jason, iniziando a trarre le conclusioni da tutto quel discorso. Si alzò istintivamente in piedi spazientito.
Decisamente quel tipo stava oltrepassando ogni limite, con le sue storie.
“Mai stato così serio.” rispose serenamente l’altro, senza scomporsi. “In effetti, alcuni dei nostri oppositori erano propensi ad attendere che tu ti decidessi per conto tuo; quando saresti stato pronto. Ma non siamo tutti dello stesso avviso, come immaginerai.”
“Sai che ti dico? Che questa storia non è solo assurda, è semplicemente un’idiozia! A me non importa nulla di Shark, dei suoi accordi e di questa schifosa città. E tantomeno me ne frego di chi vince la partita a scacchi lassù o dove cazzo stanno giocando. Mi hai preso per un idiota, per caso?”
Nonostante riuscisse a non dimostrare una particolare agitazione, il ragazzo appariva ormai evidentemente irrequieto.
D. si limitò a osservarlo impassibile. “Già, come prevedevo.” Sogghignò sardonico, passandosi ancora una volta una mano fra i capelli. “Conoscendo la tua indole così altruistica e sensibile, immaginavo che l’idea di raccontarti tutto rendesse la cosa molto più interessante.”
Jason si voltò improvvisamente a guardare l’altro, che ridacchiava di gusto.
“Ma ti senti?!” Si sedette nuovamente, senza nascondere il suo totale scetticismo e il suo sarcasmo. “Ok. Sono qui, sul divano di casa mia, a prendere il caffè con una specie di man in black della metafisica che sostiene di essere un agente del Male, con la M maiuscola, il quale sta cercando di convincermi a usare i miei superpoteri contro il cattivo di turno, perché il suo potere è... come hai detto? Ah sì; un’aberrazione dell’equilibrio cosmico... per salvare il mondo dal caos.”
D. si limitò ad annuire pacatamente. “Direi che è un riassunto abbastanza esauriente della situazione, a parte qualche imprecisione.”
“Ma fammi il piacere! E poi, anche se ci credessi...” ammise con un’aria ormai palesemente divertita lui stesso. “Mettiamo pure che io decidessi di infilarmi un costumino attillato e una maschera da pipistrello e uscissi di casa a combattere il Male...” Quell’ultima parola suonò particolarmente beffarda. “Come diavolo pensi che ci riesca?!”
“Che vorresti dire?” chiese schiettamente l’altro.
“Dico che io non sono quello che credi.” protestò vagamente esasperato il ragazzo. “Leggo i pensieri, ok. Riesco a materializzare e a manipolare la paura della gente; ma queste stronzate psichiche funzionano con le menti deboli. Un qualsiasi ipnotizzatore ci riuscirebbe. Come pensi che possa competere con cyborg, armi tecnologicamente avanzate e tutte le risorse di cui dispone uno come Shark? Andiamo, questa storia sta diventando ridicola!”
D. sollevò per un momento gli occhi al soffitto. “E va bene, visto che ci siamo. Del resto sei rimasto ad ascoltare per tutto questo tempo.” sbuffò in un moto d’esasperazione. “Detesto il fatto che debba essere proprio io a fartelo presente, ma sei tu...” Il coltello che Jason vide saettargli contro sembrò materializzarsi dal nulla, tanto l’altro era stato veloce. “che credi di essere quello che non sei.”
La lama, ferma a mezz’aria a pochi centimetri dal suo volto, rifletté per un momento lo sguardo assolutamente sbalordito di Jason. Era stato lui a bloccarla? Con la sola forza del pensiero?
“Che cosa... Come...”
“Quello dovrebbe essere un giochetto per te.” rispose l’altro sovrappensiero.
“Come sapev... lascia stare.” si corresse da solo, mentre la lama fluttuava leggera verso il tavolino da caffè e si poggiava delicatamente su una rivista.
D. replicò con aria quasi annoiata. “Te l’ho detto, Jason, io ti ho solo ricondotto a casa.”
“Sono stato io a...” Il flusso dei suoi pensieri interruppe nuovamente le sue parole, mentre qualcosa di concreto cominciava ad affiorargli alla mente sottoforma di ricordo. Non era stato un sogno.
“Mi permetto di insistere.” affermò l’altro. “Esci da questa sorta d’inerzia in cui ti ostini a vivere. Chissà? Potresti anche scoprire che ti piace.”
Una serie di sensazioni lo colpì con violenza, mentre fissava il coltello sul tavolo. Possibile che non si era mai reso conto? Il tono divertito con cui D. aveva appena parlato lo sfiorò appena, perso ormai dentro mille domande e nella sua mente, in cui stava cominciando a scorgere cose mai viste. Possibile che quell’uomo sapesse meglio di lui... Ma chi diavolo era? Sollevò improvvisamente lo sguardo. “Aspetta, cos...” Al posto del suo interlocutore osservò una poltrona vuota e il gatto, sul pavimento, che attirò la sua attenzione con un miagolio.
Quando lo lasciò uscire dalla finestra, vide solo la solita strada; la signora Logan era appena uscita per andare a lavorare. E sotto la sua finestra, due gatti si stavano contendendo la piuma bianca di una colomba come fosse una preda succulenta.


CONTINUA...



taisa: Il misterioso D. continua ad essere misterioso anche quando si decide a parlare e Jason non ha ancora avuto la sua batmobile per Natale. Potremmo riassumere così gli ultimi sviluppi, se proprio volessimo... ok, la pianto di parlare come D. XD In realtà mi fa piacere che l'entrata in scena di questo nuovo personaggio contribuisca ad alimentare un po' il mistero e a ingarbugliare ulteriormente la situazione. È vero, D. ha una particolare propensione per i gatti, ma soprattutto ha il potere di ispirare un certo sarcasmo in Jason, sono contenta che si noti. Nel frattempo, la mia situazione attuale si può riassumere così: Grazie mille^^.

Lely1441: Che bello, sotto l'albero ho trovato una nuova lettrice quest'anno!XD Detto fra noi^^, le storie di supereroi di stampo "classico" non appassionano nemmeno me, a dire la verità, e Jason è nato un po' anche per questo. Sono molto contenta che tu l'abbia trovato "umano", preso un po' in mezzo in qualcosa che avrebbe preferito sicuramente evitare. L'entrata in scena di D. e dei suoi gatti XD, in effetti, sconvolgerà non poco ironicamente i suoi piani, perciò mi fa davvero piacere che la sua apparizione ti diverta. Grazie mille per aver colto tante cose in questi pochi capitoli. Spero che questa storiella continui a piacerti^^.

Tanti Auguri di Buon Anno a chi passa di qua (per caso e non XD)!


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Capitolo 6
*** Capitolo Quattro: Rabbia ***




CAPITOLO QUATTRO:
Rabbia.


Hell’s Court, appartamento di Jason.
24 Dicembre, 7:36 p.m.


Ricordati che ogni supereroe che si rispetti deve mantenere la propria identità segreta, perciò...
Mai uscire di casa senza, per combattere i cattivi! Ti prego, non te la prendere!!!!
Non ho resistito ;)
Buon Natale!
Molly


Il cartoncino colorato fluttuò per un lungo momento nell’aria seguendo una traiettoria nervosa, poi si accartocciò su se stesso e finì nel secchio della spazzatura, accanto al lavello. Jason lo seguì con lo sguardo senza nascondere un certo fastidio, che si accentuò ben presto quando le due iridi scurissime si posarono istintivamente, un attimo dopo, sul costume di colore chiaro, afflosciato senza vita sul tavolo della cucina insieme alla carta da regalo. La sua espressione irritata tradì per un momento la tentazione di riservare la stessa fine a quel ridicolo travestimento; una mano, tesa ad afferrare qualcosa d’invisibile, si strinse a pugno a mezz’aria e la carta variopinta si ripiegò improvvisamente stropicciandosi sul piano del tavolo, strappandosi in mille pezzi un secondo dopo e spargendosi in un vortice per tutta la stanza.
Lo sguardo concentrato del ragazzo si posò solo dopo sul simbolo, in evidenza sul tessuto. Esitò per un momento sulla spirale di cerchi concentrici che sembrava muoversi sulla stoffa e abbassò la mano voltando le spalle al regalo, alla cucina e all’albero desolatamente buio.
Chissà quanto tempo aveva perso quella stupida per inventarsi quell’assurdità? Scherzo o non scherzo, dopo tutto quello che gli era accaduto nelle ultime ore, quel costume con tanto di maschera, cintura e stivali lo aveva gettato in uno stato vagamente confusionale.
Aveva passato l’intera giornata in una dimensione sospesa, lasciando una parte di sé, quel Jason che con cinismo e incredulità aveva deciso di dimenticare D. e tutte le cose insensate che gli aveva raccontato, a combattere una battaglia piuttosto violenta con un altro se stesso; il Jason curioso e assolutamente elettrizzato all’idea che la sua mente fosse qualcosa di ancora sconosciuto, che valeva la pena di scoprire.
Quella battaglia si era conclusa dopo molte ore con un nulla di fatto e fondamentalmente con un compromesso. Mentre, per ore e ore, aveva continuato a sondare i recessi della sua mente, a sperimentare e a scoprire una quantità di nuovi poteri che non avrebbe mai creduto di avere, si era al contempo isolato dal resto del mondo, evitando accuratamente di rispondere al bussare insistente della signora Parker nel pomeriggio, al telefono e, soprattutto, scongiurando nel modo più assoluto la possibilità di avere ulteriori notizie riguardanti Shark, Fearless e qualsiasi cosa potesse avere a che fare con loro; vale a dire, assicurandosi che la sua televisione restasse rigorosamente in silenzio.
Nessuno dei due Jason aveva vinto. Così, almeno, aveva creduto fino a quel momento.
Quando aveva scartato quel regalo, spinto da una curiosità istintiva che era affiorata da chissà dove qualche minuto prima, una serie di emozioni contrastanti aveva gettato scompiglio in quell’assoluto equilibrio di forze e quello che avrebbe potuto essere un efficace compromesso aveva perso lentamente ogni senso.
I suoi occhi si erano abituati pian piano all’oscurità, man mano che la sua mente aveva preso dimestichezza con un’altra vista; tanto che, assolutamente sovrappensiero, si era dimenticato di accendere persino la luce. Ormai al buio, si ritrovò a fissare lo schermo della televisione, silenzioso e vuoto, con la stessa curiosità che aveva mosso i suoi esperimenti per tutto il giorno.
Un click risuonò nella stanza quieta e il vecchio apparecchio prese vita, ubbidendo a un telecomando immaginario al di là dello sguardo assorto del ragazzo. Mentre si sedeva sul divano, la sua espressione imperturbabile non riusciva più a nascondere che, a quel punto, la curiosità o forse qualcos’altro aveva appena segnato un punto sicuramente risolutivo sull’indifferenza.
La notizia non lo colpì subito. Si fece spazio nella sua coscienza dapprima sottovoce, sottoforma d’immagini. Fumo, fiamme e macerie. Poi cominciò a sfiorarlo appena; la voce del telecronista. Una tragedia... Lo Shark Center era affollato di gente... La vigilia di Natale... Quelle poche parole cominciarono a scuoterlo lievi, poi sempre più brutali, finché ebbero la forza di altre migliaia... Un mio compagno di scuola... dopodomani andiamo a pattinare allo Shark Center... Devo comprargli un regalo? ... dopodomani è la vigilia... E iniziò a sentire un ronzio sordo, un fastidio. La pista di pattinaggio, il centro commerciale, gran parte dei negozi... completamente distrutti dall’esplosione e dalle fiamme... Che si trasformò in dolore, sempre più forte; finché quelle parole non lo percossero con una violenza inaudita, mai provata prima. Nessun sopravvissuto.
Poi non sentì più nulla, a parte una rabbia incontrollabile. Si alzò lentamente dal divano e restò a fissare lo schermo per un momento, immobile, senza accorgersi delle sue mani strette a pugno che fremevano di collera. Fissò lo schermo in silenzio; e quando le scintille e le parti meccaniche dell’apparecchio gli saettarono contro in uno schianto, immobile continuò a fissare per un momento ancora i resti fumanti di quella che era stata la sua televisione. Poi si avviò verso la porta.
Si fermò solo un altro istante a osservare il costume, ancora parzialmente avvolto dalla carta. Troppo poco tempo, per rendersi conto realmente di ciò che stava per fare.


Central Maze City, The Flan (quartiere commerciale).
24 Dicembre, 8:09 p.m.


Il centro commerciale è suo. Tutti i negozi sono suoi. Le strade sono sue. La città è sua. E le persone sono sue. Tutto deve essere eliminato e cancellato. In fretta, in modo efficiente. Lui deve essere cancellato. Perché? Un click, un’immagine. Forse è un ricordo. Qualcuno sorride. Non devo esitare. Il nemico deve essere cancellato. La situazione è questa. Sono al punto quattro della strategia. Ho eseguito i punti uno, due e tre con una percentuale di successo pari a novanta. È opportuno perseguire un approccio aggressivo. Il nemico deve essere stanato. Il nemico è lui. Perché? Un click, una voce. Ho qualcosa di strano? Non devo esitare. Un click, un fruscio. Non posso muovermi.
“Chi sei? Identificati!”
“Fottiti.”
Non lo disse nemmeno con odio. Quella rabbia era ormai solo un’energia insolita e potente che gli scorreva nelle vene assieme ad un vago senso di quiete, quello di chi aveva ormai oltrepassato un cancello da cui non sarebbe tornato indietro. L’aveva fatto istintivamente e continuava a non chiedersi niente. Né il perché, né cosa sarebbe successo dopo. L’aveva fatto e basta; e l’indifferenza a tutto ciò che sarebbe significato era più forte, nettamente più forte del vago senso di responsabilità che gli solleticava appena la coscienza.
“La tua risposta è ostile. Sei un nemico.”
La sua voce sembrava davvero quella di un uomo; l’unica cosa che riuscì a constatare.
L’arma sollevata verso di lui esplose un secondo dopo e la sua mano restò ferma a mezz’aria, nell’atto di ghermire qualcosa. Si contrasse appena; e, a quell’altezza, il rumore del collo spezzato del suo antagonista risuonò a un volume innaturalmente alto.
“Direi di sì” rispose piano.
Le sirene dei vigili del fuoco e il rumore del traffico giungevano dal basso estremamente ovattati. Jason osservò per un momento il fumo che continuava a propagarsi ad un paio d’isolati di distanza da quello che doveva essere lo Shark Center; si era quasi estinto, ma erano passate già parecchie ore. Lasciò che quello scherzo della natura si accasciasse a terra, mentre ascoltava il rumore degli elicotteri della TV farsi sempre più lontano. I notiziari della sera avevano avuto ciò che volevano. Poi si avvicinò al corpo senza vita e si chinò su di esso. Riuscì a vederlo.
“E tu chi cazzo saresti?!”
Si girò lentamente verso l’uomo che era apparso a qualche metro di distanza. Lo scrutò senza particolare emozione, mentre si rialzava e si voltava definitivamente verso di lui.
“Sono sul tetto della Mobyrent.” disse l’uomo ad una trasmittente, senza staccargli gli occhi di dosso. “L’ho trovato. Muovetevi!”
Jason osservò la sua espressione sorpresa e incuriosita, nel momento in cui probabilmente si rendeva conto di quello che era accaduto o, perlomeno, provava ad intuirlo. Quando l’uomo tornò a fissarlo, gli sembrò di notare una sorta di sogghigno divertito sul suo volto, nella penombra.
“Senti, non so chi tu sia né come abbia fatto a farlo fuori, ma...” L’uomo esitò un momento. “Cristo, non so se devo ringraziarti, o cosa; o se devo farmi una risata per quel ridicolo costume che hai addosso”. Sembrò rilassarsi. Abbassò lo strano congegno elettronico che teneva in mano e non si curò di soffocare una sonora risata. “Davvero, da dove diavolo spunti?!” bofonchiò trattenendosi a stento. “Mi spieghi come sei riuscito a neutralizzare quella corazza e quelle arm...”
Le parole, però, gli morirono in gola in una morsa soffocante.
“Così, Signor Shark.”

Jason lo fissò appena negli occhi, spalancati per lo sgomento e la sorpresa. Poi, si limitò ad assistere alla scena.
“Ma che... Oh mio Dio!” Shark impallidì all’improvviso; sussultando per lo spavento, lasciò cadere a terra il dispositivo elettronico che teneva in mano e iniziò a tremare in modo incontrollato, cercando di strapparsi di dosso la tuta che aveva indosso, simile a quella che Jason aveva appena fatto a pezzi. Gettò a terra le armi sfilandosi le tracolle come se bruciassero e cominciò ad agitarsi in modo inconsulto, le mani cercavano spasmodiche un appiglio.
Jason rimase impassibile a osservare, poi allentò appena la presa e lo seguì con gli occhi, mentre indietreggiava verso il muro e annaspava in cerca di ossigeno; il terrore gli impediva anche di emettere un suono.
Restò impassibile anche quando lo vide, la sua sorpresa durò lo spazio di un momento e si manifestò a stento nel serrarsi dei muscoli facciali.
“Oliver, è tanto che non ci vediamo, non è vero?” D. si era avvicinato all’uomo con un’espressione affabile. “Devo constatare con rammarico di non trovarti in splendida forma, tuttavia.” Sogghignò impercettibilmente.
“S... sta... l... lontano da m... me!” riuscì a intimare a fatica Shark, in un gorgoglio strozzato dal panico.
L’altro rispose fintamente dispiaciuto, continuando ad avvicinarsi. “Oh, ma perché mi tratti così?”
“T... ti preg...”
“Non è carino da parte tua, sai?” Il tono di D. si era fatto saccente. “O forse è la sorpresa?”
“Io... m... mi dispiace. T... ti giuro... Non vole...”
“Certo, deve essere così” proseguì accondiscendente, ignorando quel tono supplichevole. “In fondo, una volta concluso un affare è già tempo di pensare al successivo. E, per quello che ne sai tu, in questo momento dovrei essere all’Inferno ad arrostirmi, giusto? Qualcosa del genere, immagino.”
Il fuoco si propagò in un’esplosione improvvisa tutto intorno ai due. Per un momento, gli occhi di D. sembrarono assolutamente incolori nella luce delle fiamme e Jason vacillò per un momento, attraversato da una fugace inquietudine. Indietreggiò istintivamente di un passo.
Shark era in preda ad un terrore incontrollato, lo sentiva rimbombare nella sua testa in modo incredibilmente feroce. Tremava vistosamente, scosso da violenti spasmi e se l’era appena fatta nei pantaloni.
“Mio Dio, n... non farl...”
“Dio ti manda i suoi saluti, papà.” rispose pacatamente l’altro, sorridendo. “Non è potuto passare. Sai, gli impegni di lavoro.”
“N... non farl...”
“Fare cosa?!” L’espressione di D. divenne improvvisamente seria. “Questo?”
Le grida di Shark, che si contorceva dal dolore, con il braccio destro e parte del volto in fiamme, gli ferirono quasi le orecchie; ma Jason restò impassibile, assolutamente rapito dalla scena e incapace di distogliere lo sguardo.
Fu il rumore inaspettato dello sparo a scuoterlo, all’improvviso, e il dolore che gli infiammò la spalla un istante dopo. Cadde, letteralmente, fuori dalla testa di Shark, con la stessa violenza con cui piombò sul cemento.
“Stai lontano!” si sentì intimare da una voce poco convinta. Si sollevò faticosamente, facendo leva sul braccio che non gli doleva e notò un gruppetto d’individui nella penombra. “Fai un movimento e sei morto! Qualsiasi... arma hai con te, non muoverti!”
Sentì una fitta lancinante alla testa e una stanchezza improvvisa. Uno di loro gli puntava contro un’arma, ma sembrava evidentemente confuso e spaventato. Un altro stava aiutando Shark a rialzarsi e lo stava allontanando da lui, mentre un terzo era impegnato a recuperare il cadavere di Russell, qualche metro più dietro. Nessuno osava togliergli gli occhi di dosso, nonostante dovessero distinguerlo appena, nel buio e a quella distanza; parevano in preda all’agitazione e in evidente trepidazione, palesemente disorientati sul da farsi. Solo uno di loro aveva un’espressione diversa; era un uomo sulla quarantina o forse più vecchio, l’unico che non aveva l’aria di essere un militare, nonostante l’equipaggiamento. Sembrava curioso, stranamente eccitato.
Un’altra fitta lo costrinse a socchiudere gli occhi. Sentì una strana spossatezza invaderlo a ondate, come fosse acqua. Li osservò mentre si allontanavano e un’isolita sensazione d’onnipotenza lo spinse a rialzarsi. Per un momento fu tentato di seguirli, ma dovette fermarsi in preda ad un forte senso di vertigine. Barcollò, sul punto di crollare.

“Quella delle fiamme è stata una trovata assolutamente interessante.” La voce di D., alle sue spalle, sembrò non sorprenderlo. La stretta solidissima, che gli aveva impedito di cadere, per un istante gli fece ritrovare la lucidità. “Mi rammarico davvero di non esserne realmente capace.”
Lasciò la presa sul suo braccio e si fermò di fianco a lui. Jason lo osservò in silenzio con la coda dell’occhio e notò che si era fatto per un momento pensieroso, mentre fissava il punto in cui fino a un momento prima si trovava Oliver Shark. Poi, il gatto che si strusciò sui suoi pantaloni sembrò distrarlo.
“Grazioso, il costume” affermò, dopo averlo guardato solo un istante e tornando a osservare di fronte a sé. “È davvero un peccato che si sia rovinato.”
“Sai che cos’è davvero un peccato, D.?” replicò Jason in tono serio. “Il fatto che io non possa usare i miei poteri su di te.”
L’altro si limitò a sorridere. “Già, immagino che sia una questione di punti di vista.”
“Perché li hai lasciati scappare?” chiese con una punta d’irritazione.
“Veramente sei tu che li hai lasciati scappare.” D. rispose candidamente, come fosse qualcosa di ovvio, e il suo tono spontaneo e innocente produsse automaticamente una smorfia sprezzante sul volto di Jason.
“Se eri qui a goderti lo spettacolo!”
“Uno spettacolo incantevole, non c’è proprio niente da obiettare.” ammise divertito l’altro. “Ma non dimenticarti per chi faccio il tifo.”
“Già, a proposito.” Jason si voltò per la prima volta a guardarlo. “Me lo sono goduto anch’io lo spettacolo. Tante grazie per la bella sorpresa... papà!” Si era fatto sostenuto e vagamente beffardo. “E, soprattutto, grazie infinite per avermi usato. E per avermi raccontato tutte quelle interessantissime idiozie. Stavo quasi per crederci, pensa!”
“A che ti riferisci, scusa?” D. continuava a rivolgere pacatamente il suo sguardo di fronte a sé.
“Senti, a questo punto...” proseguì Jason “Non so chi tu sia veramente e non m’interessa nemmeno, ma almeno fammi il piacere di non trattarmi come un idiota.”
D. si voltò verso il suo interlocutore solo in quel momento. “Stai sanguinando, te ne sei accorto?”
“Vedo che non ti sfugge proprio niente.” borbottò sarcastico.
Il dolore al braccio sembrava qualcosa di distante, in realtà. Quella che sentiva era una sofferenza ben più opprimente, che si espandeva dal centro della testa a tutto il resto del corpo. Le vertigini si fecero all’improvviso più intense e vacillò di nuovo, costringendosi a forza a restare in piedi. Era la stessa identica sensazione che aveva provato risvegliandosi nel divano di casa sua, la notte prima. Perlomeno sapeva che sarebbe svanita, ma il rumore morbido di quel gatto che continuava a fare le fusa gli sembrava assordante e insieme ipnotico.
D. lo osservò per un momento con un’espressione indecifrabile. Poi infilò una mano nella tasca e ne estrasse un biglietto da visita. “Tieni.” C’era solo un indirizzo, che Jason non riconobbe. “Chiedi di Wayne e digli che ti mando io.” spiegò, non appena l’altro lo prese. “Potrebbe esserti utile. E inoltre possiede un grosso pregio; è muto.”
Jason s’infilò il bigliettino nella cintura senza rispondere. Per un momento, aveva avuto la sensazione di essere sul punto di dire qualcosa che non gli apparteneva. Era come se, assieme a quella strana stanchezza, anche qualcosa di più tangibile fosse penetrato in lui. Credette di riconoscere Shark in quel qualcosa, come se un suo impercettibile residuo stesse ancora fluttuando nella sua testa. La voce di D., tuttavia, risvegliò quell’improvviso senso di torpore dopo appena un istante.
“Potrebbe esserti utile anche nel caso volessi consegnare Fearless ai federali.”
Lo scatto istintivo con cui si voltò verso di lui gli procurò una fitta al braccio, che strinse socchiudendo gli occhi in un moto altrettanto istintivo. “Come diavolo sai che sono riuscito a prenderl...”
La sua smorfia di dolore si trasformò, però, ben presto in un’espressione esasperata, quando notò che D. era scomparso di nuovo nel nulla. Al miagolio del gatto, che continuava ad aggirarsi sul tetto, rispose sollevando gli occhi al cielo e borbottando qualcosa d’incomprensibile.
Esitò per un momento prima di andarsene. Anche lui, come l’altro, soffermò lo sguardo nel punto in cui era penetrato nella mente di Oliver Shark, assorto ugualmente in qualche pensiero. Improvvisamente, un lampo d’incredulità gli attraversò lo sguardo. Poi fu consapevolezza.
Solo per un breve momento, sarebbe potuto sembrare sconforto.


CONTINUA...



La storia si avvia ad una conclusione e, passate le feste, spero di aggiornare gli ultimi capitoli più in fretta. Ringrazio le persone che hanno seguito fin qui e in particolare:

Lely1441: D. sentitamente ringrazia per il geniale, ma soprattutto per il perfetto e, anche se ne è sicuramente consapevole, non gli dispiace di certo sentirselo dire XD. A parte gli scherzi^^, mi fa davvero piacere che questo capitolo di spiegazioni non sia risultato noioso o affrettato. Come vedi, Jason si è trovato a scegliere abbastanza presto cosa fare, per quanto, dal suo punto di vista, lui non la definirebbe una scelta vera e propria^^. Spero che ti sia piaciuto anche questo capitolo. Grazie mille^^.

taisa: E va bene, i forconi esistono, ma non è il caso di sbandierarlo così ai quattro venti come niente fosse, non ti pare? U.U Passando a discorsi più seri (come se ci credessi), sono contenta che il mistero resti, nonostante le "spiegazioni" di D., e che s'intuisca che questo simpatico individuo non sia uno proprio normale, come vuole dare ad intendere... O forse essere così misterioso è proprio quello che vuole? Credo di non saperlo nemmeno io XDD. In effetti è vero, la situazione in cui si trova Jason non è tanto normale nemmeno per uno come lui, mi fa piacere che si noti anche questo^^. A questo punto mi eclisso misteriosamente anch'io, non senza averti ribadito i miei ringraziamenti ^^.


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Capitolo 7
*** Capitolo Cinque: Rancore. ***




CAPITOLO CINQUE:
Rancore.


Black Sand Island, da qualche parte nell’oceano.
31 Dicembre, 3:47 p.m.
Località sconosciuta.

“Se non rallenta un momento, non riuscirò a verificare un bel niente, Signor Shark!” protestò visibilmente spazientito Jack Fellon, impegnato a non perdere terreno e a non lasciarsi sfuggire dalle mani la strumentazione collegata al braccio dell’uomo.
“Le ho detto che funziona tutto perfettamente, Fellon.” sbottò nervoso Shark, accelerando il passo. “Abbiamo cose più importanti a cui pensare al momento. La pianti di seccarmi!”
Fellon staccò i collegamenti appena in tempo per non farsi trascinare di peso e cadere, e richiuse il portatile sospirando rassegnato. Si fermò un istante a riprendere fiato, prima di seguire l’altro, dietro una delle porte metalliche del lungo corridoio illuminato al neon.
Quando aveva saputo dell’esistenza di quel laboratorio, ne era rimasto notevolmente sorpreso, quasi indispettito, in un secondo momento. Era come se Shark non si fosse mai fidato del suo lavoro e di quello della sua equipe. Ripensandoci, tuttavia, e dopo aver trascorso gli ultimi giorni a constatare di persona come Shark delegasse ai suoi sottoposti il minimo indispensabile, aveva concluso che non avrebbe potuto aspettarsi altro da uno come lui. Non si era fatto alcuno scrupolo nemmeno quando si era trattato di braccare Russell come un animale. Nemmeno quando aveva notato gli effetti devastanti che quel mostro aveva provocato, a dispetto dei loro piani. Il motto di Shark sarebbe stato di certo ‘se vuoi che una cosa sia fatta bene, fattela da solo’! Poco importava se quel qualcosa era supervisionare il progetto di un microprocessore o stanare con tecniche di guerriglia una specie di cyborg super equipaggiato e ossessionato dalla sua morte.
Il fatto che esistesse un secondo laboratorio, assolutamente inaccessibile, la cui realtà era nota solo alle quaranta persone che vi lavoravano nel più assoluto riserbo; il fatto che Shark non si fidasse di Russell e stesse portando avanti gran parte dei progetti in altra sede, da tempo, erano tutte cose che avrebbe potuto facilmente immaginare, dopo averlo conosciuto così da vicino. Era nella sua natura diffidente, a suo modo prudente; non si sarebbe mai lasciato sfuggire neppure il minimo dettaglio. Era così che era riuscito ad arrivare tanto in alto e Fellon cominciava seriamente ad ammirare quell’uomo in modo incondizionato.
Tuttavia, Oliver Shark aveva anche un altro potere; chiunque avesse a che fare con lui non faceva anche altro che chiedersi come diavolo riuscisse a ricadere sempre in piedi, qualunque cosa gli accadesse.
Nonostante Fearless fosse stato consegnato alle autorità, infatti, non solo il lavoro non era andato del tutto perduto grazie alla sua lungimiranza, ma potevano disporre al contempo di un nascondiglio più che sicuro, fintanto che le acque non si fossero calmate. D’altra parte, i federali si sarebbero guardati bene dal rivelare la natura del progetto ai media. Avrebbero insabbiato la questione come avevano fatto altre volte e a loro occorreva soltanto un posto dove nascondersi e, soprattutto, continuare a lavorare. Non poteva smettere di pensarci, in realtà, ma in quel momento, dopo quello che aveva visto appena qualche giorno prima, c’era decisamente qualcosa su cui lavorare. Qualcosa che faceva sembrare Fearless addirittura sorpassato. I federali, poco ma sicuro, erano proprio l’ultimo dei suoi pensieri!
Fellon non riusciva a smettere di guardarsi intorno come fosse un ragazzino in un negozio di giocattoli. Non aveva fatto altro da quando era lì. E ormai si era assolutamente convinto, in una sorta di sfrenata esaltazione, che Oliver Shark possedeva davvero delle risorse infinite. Cominciava quasi ad abituarsi all’idea e a non stupirsene più. Non si stupì nemmeno di come avesse recuperato così in fretta, né, soprattutto, di come il suo fisico avesse reagito così magnificamente alle protesi automatizzate. Era convinto che quell’arto metallico e il volto parzialmente robotico gli piacessero, persino. D’altra parte gli conferivano un’aria ancor più spaventosa e autorevole; ed erano ciò che in fondo la gente si aspettava da lui; che anche il suo corpo fosse realmente un’arma pericolosa.

“Alcuni di voi lo conoscono già.” Shark se ne stava in piedi a pochi passi dalla porta, fronteggiando l’enorme laboratorio. Una squadra di tecnici in camice bianco aveva interrotto le proprie attività e ascoltava in assoluto silenzio. “Per tutti gli altri, questo è il Dottor Jack Fellon. Da oggi, a capo del settore.”
Fellon accennò un cenno di saluto e si guardò attorno, mentre con la coda dell’occhio notò che gli uomini stavano annuendo senza particolare emozione. Le apparecchiature in quella stanza superavano di gran lunga ciò a cui aveva avuto accesso finora e per un attimo si sentì elettrizzato.
Decisamente, quell’uomo possedeva delle risorse infinite.
“Fate riferimento a lui allo stesso modo in cui vi rivolgereste al Dottor Black.” concluse lapidario Shark.
Un uomo sulla cinquantina annuì più marcatamente degli altri e si avvicinò ai due. E l’attività nel laboratorio riprese automaticamente, come se quel gesto avesse sancito la fine delle comunicazioni.
“Così, Fearless è bruciato.” asserì l’uomo che li aveva raggiunti. “Che cosa pensa di fare, ora, Signor Shark? Visti anche i guai con la legg...”
“I progetti non sono andati persi.” lo interruppe bruscamente l’uomo. “E di questo se ne occuperanno nell’ala B.”
“Capisco.”
“Ho qualcosa di molto più importante per le mani adesso.” proseguì. “E mi preme di risolvere al più presto questa storia. E in modo risolutivo.” Il tono adirato di Shark non lasciava alcuno spazio per una replica e Fellon notò che il Dottor Black stava osservando con malcelato interesse l’arto meccanico dell’altro.
“Un’illusione” s’intromise, anticipando i pensieri di questi.
Black si voltò verso di lui con un’espressione perplessa e al contempo estremamente curiosa.
“Quell’uomo è capace di infliggere ferite reali, pur servendosi di illusioni.” precisò intuendo le sue curiosità. “Non c’è altro modo per definirle. Ma in realtà non siamo sicuri di ciò che può fare veramente, questa è solo una delle cose che abbiamo potuto ipotizzare.”
“Interessante.” commentò l’altro, assorto nelle sue congetture.
“Interessante un accidenti!” I due interlocutori sussultarono appena allo scoppio d’ira improvviso di Shark. “Io lo voglio morto, non m’importa come! Quel pagliaccio mi ha rovinato!” Rimasero in silenzio, colti da una velata inquietudine. “Ho perso tutti i miei contatti al governo; ho addosso i federali che mi vogliono in galera e gente ben più incazzata che mi vuole morto; metà del mio capitale è sotto sequestro e sono costretto a nascondermi come un fottuto ladro da due soldi!”
A Fellon non sfuggì il fatto che non avesse fatto parola dei suoi danni fisici. Era convinto che quello che era successo sul tetto della Mobyrent la vigilia di Natale lo avesse turbato profondamente, anche se non lo dava a vedere.
“Lo voglio morto, cazzo!” ringhiò furibondo. “E non mi basta; voglio vederlo soffrire!” Il pugno sferrato con rabbia sul piano di marmo risuonò rimbombando violento all’impatto con la superficie, facendo trasalire i due uomini in camice bianco. Per un momento l’attività nella sala si fermò di nuovo. Qualche occhiata fugace si posò sul banco completamente distrutto, non meno inquieta di quelle dei due scienziati, che avevano schivato i detriti per un soffio e si erano scostati precipitosamente. Un lieve brusio si diffuse per un momento, per poi scemare rapidamente all’occhiata minacciosa dell’uomo.
“Signore” si azzardò Fellon, facendosi coraggio. “Quell’uomo potrebbe fornirci tante di quelle informazioni che nemmeno immaginiamo!” Si sforzò di ignorare l’occhiata ancora più furiosa di Shark. “Non capisce?!” insistette caparbio. “Ha distrutto le corazze, neutralizzato le armi a impulsi e...” S’interruppe appena in tempo per evitare di ricordare troppo dettagliatamente al suo interlocutore quell’esperienza. “Insomma, potremmo avere per le mani qualcosa d’inimmaginabile. Molto al di là di Fearless!”
Il dottor Black si limitò ad annuire in silenzio, non meno convinto dell’altro. “Ha ragione” ammise, quando lo sguardo indagatore di Shark si spostò dal dottor Fellon su di lui. “Averlo qui, vivo...” aggiunse poi in tono accondiscendente e allusivo. “Non credo andrebbe contro i suoi progetti, d’altra parte.”
Shark sembrò rifletterci per un momento. “E va bene.” acconsentì, senza nascondere un interesse crescente. “Lo prenderemo vivo. Ma quel bastardo è mio!” Sogghignò maligno, nel porre l'accento sulle ultime parole. “Sia chiaro.”



Central Maze City, quartiere di Hell’s Court.
In quello stesso momento.


Quelle persone, da lassù, gli ricordavano i soldatini con cui giocava da bambino. Sfilavano lentamente verso il cancello in modo ordinato, mantenendo un passo regolare. Tutti vestiti di scuro, tutti con la stessa espressione sul volto. Un nemico invisibile, tutti contro tutti. Come quando giocava da bambino, quando i ragazzi più grandi lo prendevano in giro perché non sapeva niente di guerre e combattimenti, quando non riusciva a capire perché dovessero esistere i buoni e i cattivi e i neri dovessero categoricamente scontrarsi contro i bianchi; altrimenti era un errore, era sbagliato persino giocare. Quando gli altri ridevano e lui si chiedeva perché, perché fosse così divertente che i suoi soldatini piangessero tutti.
Quelle persone, da lassù, sembravano soldatini.
Li osservò mentre scomparivano, uno a uno, oltre il cancello di ferro battuto, poi lungo la strada, come se li stesse accompagnando. Aveva smesso di chiedersi da tempo perché; da qualche giorno, invece, aveva semplicemente iniziato a chiedersi quando.
Quando notò il gatto che si aggirava con circospezione sul cornicione e saltava leggero a un paio di metri da lui, sul pavimento scuro di bitume sbiadito dal sole, lo osservò per un momento con la coda dell’occhio. Aveva anche smesso di sorprendersi, ormai.
“Fammi indovinare” disse ad alta voce. “Non dirmi che ti piacciono i funerali.”
D. si limitò ad avvicinarsi a lui e a guardare verso il basso, al di là del muretto. “Però, è piuttosto alto qui.” commentò senza scomporsi.
Jason rimase in silenzio, seduto con le gambe ciondoloni nel vuoto. Non si voltò a guardarlo; si limitò ad accartocciare il contenitore di cartone che teneva in mano e lo gettò distrattamente alla sua destra, centrando il sacco dei rifiuti.
“Mai sentito parlare di tavoli? Bicchieri di vetro?”
Jason continuò a restarsene in silenzio.
“Noto che hai seguito il mio suggerimento, comunque.” proseguì l’uomo. “Come va il braccio?”
“Bene.”
Il vento si stava alzando e le lenzuola stese ombreggiarono per un momento l’espressione assente del ragazzo, che si era voltato per un attimo verso il felino, ormai seduto pacificamente accanto al suo interlocutore.
“Wayne ha fatto un ottimo lavoro anche con il nuovo costume, mi sembra.” D. si soffermò per un momento a osservare il simbolo che spiccava sul torace, quando lo sguardo di Jason si sollevò istintivamente fino a posarsi sul punto dove era stato ferito. Era l’unico particolare differente rispetto a quello che ricordava, a parte il tessuto; alla spirale ipnotica che appariva nel costume originale era stato sovrapposto il simbolo taoista dello Yin e lo Yang; un cerchio ipnotico diviso in due elementi complementari e contrapposti. Per un istante sembrò assorto in qualche pensiero, poi si lasciò sfuggire una sorta di sorriso. “Decisamente, niente di quello che si dice su di te è falso o esagerato.”
“Uno di questi giorni me lo dirai che cosa si dice di me, spero. Comincio a essere curioso.” Non gli era sfuggito che l’altro aveva notato il simbolo sul suo costume.
“Sarebbe estremamente spiacevole se poi ti montassi la testa.”
Quelle parole sembrarono incupire lievemente lo sguardo del ragazzo. Rimase in silenzio per qualche momento, prima di decidersi a parlare. “Tu lo sapevi, vero?”
Era più un’affermazione che una domanda. E D. non sembrò in alcun modo sorpreso di sentirla. “Sapevi quello che mi sarebbe successo usando realmente i miei poteri; che ogni volta che entro nella mente di qualcuno, ne assimilo i pensieri, la personalità.” D. continuava a fissare il cimitero, parecchi metri sotto di loro, con la stessa quiete di quel luogo ormai deserto nello sguardo; le mani comodamente in tasca, quasi sovrappensiero. “Sapevi che più tempo passo nella mente di un altro e più divento come lui.” Il tono di Jason tradì per un istante un fremito di rabbia impercettibile. “Lo sapevi. E ti sei guardato bene dal farlo sapere anche a me, visto che volevi convincermi a combattere contro quelli della tua razza.”
“Moderiamo i termini, per cortesia” ribatté vagamente ironico l’altro, interrompendolo. “Non è proprio il caso di paragonarmi a certa gentaglia.”
“Già, come no?” sogghignò sarcastico Jason. “Beh, quando?” chiese dopo un altro momento di silenzio.
D. si limitò a rivolgergli un’occhiata leggermente interrogativa.
“Quanto ci impiegherò a schierarmi totalmente dalla parte dei cattivi? Perché è questo quello che volevi fin dall’inizio, no?”
“Sai, Jason...” rispose l’altro, dopo aver riflettuto un istante. “Quello che voglio io non è poi molto rilevante, credimi. Che cosa pensi che accadrà una volta che sarai un cattivo, come dici tu? Non funziona solo in un senso, mi sembra intuitivo.”
“E la cosa dovrebbe consolarmi?” Il tono di Jason si era fatto nuovamente riflessivo. “Sapere che non sarò mai più me stesso; e che continuerò a essere qualcosa d’indefinito e mutevole fino alla fine dei miei giorni?”
“Non perderai la tua identità. Non uno come te.” D. sembrò assorto nuovamente in qualche pensiero. “Cambieranno solo le cose e le persone che ti troverai ad affrontare... E, naturalmente, il modo in cui le affronterai.” Le ultime parole furono sottolineate con un velato sarcasmo. Poi l’uomo si fece nuovamente assorto, come parlasse a se stesso. “Bene, Male. Non c’è poi una gran differenza... Tutti quanti siamo così. Solo che tu lo sei più degli altri.”
Il ragazzo tornò a fissare la strada, sotto di lui. Per un momento il tono con cui D. aveva pronunciato quelle parole gli era parso diverso.
Quel cancello di ferro battuto che separava il prato e le lapidi dall’asfalto sembrava piccolissimo, eppure era l’unica cosa che riusciva ad attrarre la sua attenzione. Scintillava, sotto il sole.
“Nessuno ti costringe, Jason.” proseguì D., sollevando le spalle con una certa noncuranza. Le sue parole suonarono nuovamente pacate. “Nessuno ti ha mai costretto fin dall’inizio. Puoi sempre scegliere di tornare alla tua vita e lasciare che le cose accadano senza di te.”
“Figurati, tanto sapevi anche questo. Come se ormai potessi dimenticarmi di Shark e di quello che mi ha fatto.” commentò sarcastico Jason. “Devo ammettere che sei abbastanza credibile, comunque. Quasi quasi stavo per cascarci di nuovo.”
D. si lasciò andare a una risata sinceramente divertita. “Quello che si dice di te è proprio tutto vero.”
“Non lascerò che la faccia franca.” aggiunse l’altro, ignorandolo, in tono estremamente serio. “Mi ha tolto più di quanto fossi mai riuscito ad avere... E non mi riferisco soltanto a Molly.” precisò poi, lanciando un’occhiata molto eloquente al suo interlocutore. Solo dopo aver parlato, ebbe la strana sensazione che avesse appena detto qualcosa d’importante. E capì di aver appena rivelato qualcosa di sé all’ultima persona con cui avrebbe mai pensato di farlo.
“In questo momento starà certamente pensando la stessa cosa di te.”
D. si fece altrettanto serio per un istante e Jason, per tutta risposta, sogghignò appena, si alzò in piedi sul muretto e si voltò verso di lui, dando le spalle al vuoto. “Lo spero proprio. Ma questa città è ancora sua. E se dovrò prendermelo un pezzo alla volta, allora è esattamente quello che farò.”
Le sirene della polizia, in lontananza, giunsero ovattate e distorte. “Fammi il favore D.” proseguì senza staccargli gli occhi di dosso. “Per una volta, resta fermo lì.”
L’altro si lasciò sfuggire un’espressione vagamente interrogativa.
“Devo andare.” Fu la risposta a quello sguardo. “Nemesis ha del lavoro da fare anche oggi” spiegò ironico, indicando con un cenno della testa la direzione da cui provenivano le sirene e i colpi di pistola.
“Così, c’è un nuovo supereroe in città.” commentò l’altro con un sorriso beffardo.
Jason rispose fingendosi appena sorpreso. “Pensavo lo sapessi.” Si lasciò cadere nel vuoto per qualche metro, poi volò via a gran velocità, non prima di aver pronunciato quelle parole a bassa voce e in tono molto serio. “I supereroi non esistono.”

D. lo osservò per un istante mentre si allontanava, con una strana espressione. In quel momento, senza che se ne accorgesse del tutto, fu come se quell’impercettibile velo di malinconia che gli era sembrato di scorgere negli occhi dell’altro fosse rimasto nell’aria, su quel tetto, e gli avesse attraversato lo sguardo senza farsi notare, spinto dall’ennesima folata di vento.
Quando, un secondo dopo, si voltò a osservare il gatto che lo fissava e faceva le fusa, quell’espressione era di nuovo impassibile e distaccata. L’animale socchiuse gli occhi ed emise un miagolio vellutato e l’uomo allungò una mano all’interno della giacca e ne estrasse un pacchetto di sigarette. Se ne accese una, con tutta calma.
“Figurati” si rivolse al felino, dopo aver inspirato una lunga boccata. “Non ha nemmeno un briciolo della mia classe nell’uscire di scena.” Si voltò e fece per andarsene, mentre pronunciava quelle parole; ma sorrise appena fra sé e sé, allontanandosi. “Ci si può sempre lavorare su, d’altra parte.”


CONTINUA...



taisa: Come da tradizione^^, Jason sceglie la sua strada (la vendetta in questo caso), pur consapevole che non sarà una strada tanto sempice da seguire, soprattutto perché, sempre da tradizione, anche lui ha un bel punto debole con cui deve fare i conti... Altro che la kryptonite! XD E D., anche se ogni tanto si degna di svelare qualcosa in più, non si capisce bene se stia dalla sua parte o meno. Chissà? Ovviamente nemmeno io ne sono tanto sicura XD. Sono contenta, comunque, che questo misterioso personaggio ti piaccia e mi fa piacere che il "ruolo" di Molly in tutta questa storia, anche se è un personaggio che compare appena, si noti. Ti rinnovo i miei ringraziamenti ^_*

Lely1441: Come ho già detto a taisa, mi fa molto piacere che Molly si sia ritagliata il suo ruolo, anche restando un personaggio marginale. Come vedi, la resa dei conti vera e propria tra Jason e Shark è un qualcosa su cui i nostri eroi s'impegneranno (da entrambe le parti) in futuro; come nelle migliori tradizioni, aggiungerei^^, anche se in questo caso entrambi hanno un conto assolutamente personale in sospeso. Intanto, quello che auspicava D. sembra essersi realizzato, sotto la consueta supervisione dei suoi gatti XD Che sia lui quello che ha in mano la situazione?^_* Anche a te confesso di non essere tanto sicura delle intenzioni di quest'uomo XD. Mi ripeto, comunque, grazie mille^^.

Avviso che il prossimo capitolo sarà anche l'ultimo. Un grazie a chi sta seguendo questa storia^^


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Capitolo 8
*** Epilogo ***




EPILOGO


Qualche tempo dopo.
Località sconosciuta.


“Così, Nemesis sta già facendo parlare di sé. Immagino sarai soddisfatto di quello che sei riuscito a combinare in così poco tempo.”
L’uomo sposta l’ennesima pedina sulla scacchiera, apparentemente concentrato sul gioco. Poi si lascia andare sulla sedia di legno, facendola dondolare appena e incrocia le braccia dietro la testa volgendo lo sguardo verso il mare. Sembra percorrere con gli occhi tutto il vecchio pontile e si sofferma sulla piccola barca a remi ormeggiata a qualche metro di distanza, solo per un momento, prima di rivolgersi nuovamente al suo interlocutore.
“Con la morte di quella ragazzina tu non c’entri proprio nulla?” chiede quasi sovrappensiero.
“No.” L’altro risponde lapidario, mentre fa la sua mossa. E l’uomo osserva l’alfiere nero abbattere la pedina bianca. Un leggero colpetto e cade; l’altro l’afferra e l’appoggia delicatamente sul tavolaccio di assi, che scricchiola, quando lui si avvicina nuovamente a scrutare la scacchiera.
Non può fare a meno di rivolgere al suo avversario un’occhiata scettica e dubbiosa, quasi di rimprovero, ma questi replica distratto, anche se lo sta guardando negli occhi. “Anche volendo, non ce n’è stato bisogno.” Sogghigna appena. “Un inaspettato colpo di fortuna, se proprio dobbiamo definirlo in qualche modo.”
“Io lo definirei un gran brutto colpo, per Jason.” commenta l’uomo, muovendo un altro pezzo. “Uno dei tanti, a quello che so.” Quella precisazione ha un tono vagamente impensierito.
“Sopravviverà.” L’altro è concentrato sulla partita o almeno così sembra, a giudicare dall’ennesima risposta distratta e distaccata.
Allora l’uomo lo scruta per un momento. Sembra voler intuire i pensieri che si celano dietro quell’espressione così imperscrutabile; poi si decide a chiederglielo. “Glielo dirai?”
“Mi sembrava di avergli detto fin troppo” risponde ancora distrattamente, dopo aver fatto la sua mossa.
“Lo so che lo sai, non fare il finto tonto con me.” L’uomo insiste, tornando a studiare la scacchiera.
“Che so cosa?”
Non lo guarda, mentre l’altro replica con quella domanda, ancora una volta elusivo. E sembra assorto anche lui nella prossima mossa, quando ribatte ormai apertamente.
“Lo so che conosci il modo in cui può evitare di assimilare i pensieri dei suoi nemici.” Sposta il cavallo deciso, la torre nera crolla; la spazza fuori dal campo di gioco con un gesto secco. E si lascia sfuggire un’espressione di sfida appena accennata. “Stai solo aspettando il momento opportuno per suggerirglielo; ovvero quando sarà abbastanza dalla tua parte e non sarà più un tuo nemico, ho ragione?”
L’altro non sembra accusare minimamente il colpo. Si limita a raccogliere la sua torre e a disporla ordinatamente accanto agli altri pezzi perduti, in seguito torna a osservare la scacchiera e si concentra di nuovo.
“Credi pure quello che ti aggrada, non ritengo di certo opportuno rivelare a te quali sono le mie intenzioni.” Risponde senza guardarlo, nuovamente evasivo.
L’uomo sospira, attende la mossa dell’avversario per un momento in silenzio. Poi si rivolge a lui in tono vagamente divertito, come stesse cambiando argomento. In realtà, sembra che sappia bene che l’altro non si farà imbrogliare tanto facilmente. “Geniale il modo in cui riesci sempre a portare acqua al tuo mulino pur non disobbedendo platealmente agli ordini, non c’è che dire”. Il suo avversario solleva di nuovo l’alfiere nero, esita per un momento, poi lo posiziona. “Il modo in cui sei riuscito a farti corrispondere la tua parte di vendetta... La tua personale soddisfazione con Oliver Shark... Ha un che di commovente.”
“Beh, ti ringrazio” sorride l’altro. Poi precisa sornione “Per il geniale, non per il commovente.”
L’uomo torna a concentrarsi sulla partita. In realtà non si aspettava quella mossa. Aggrotta per un momento la fronte. “Non t’interessa di quello a cui potresti andare incontro? Mi risulta che dalle tue parti non si usino metodi tanto spiccioli con chi fa di testa sua.”
“A me, invece, risulta che dalle tue siano in voga gli stessi metodi.” La risposta ha un che di sarcastico e di allusivo e l’uomo sorride appena, accusando la battuta, senza sollevare lo sguardo dalla scacchiera. “Dovresti conoscermi ormai, vecchio mio.” prosegue il suo interlocutore. Si rilassa per un momento e si volta ad osservare il mare. “Non sono propriamente quello che si dice un tipo incline a rispettare le regole.”
“Beh, spero solo che tu stia attento a quello che fai.” Gli rivolge un’occhiata sfuggente, come il tono di quella frase. Ha un’espressione che potrebbe sembrare connivente, ma gli occhi tradiscono una certa irritazione. Poi sembra ripensarci; sorride tra sé e sposta la regina con un gesto deciso. Quel sorriso si trasforma in un’espressione beffarda quando solleva di nuovo lo sguardo su di lui. “Scacco.”
L’altro sembra sinceramente divertito. “Non posso capacitarmene, ora non dirmi che ti preoccupi per me?” gli chiede con aria dileggiante. Per un momento, all’uomo, quello sguardo sembra comunicare disprezzo, ma gli occhi chiarissimi dell’altro giocatore sono di nuovo assorti e completamente rapiti dalla disposizione dei pezzi.
“Potrebbe anche scoprirlo da solo, ci hai pensato?” Il tono della domanda suona come un avvertimento, ma nasconde un’impercettibile incertezza. L’uomo non può fare a meno di fissare il suo avversario, concentrato sulla prossima mossa, con l’espressione curiosa di chi sa che qualcosa a proposito dell’altro gli sta sfuggendo. Qualcosa d’importante.
“Già, potrebbe...” risponde ancora una volta distratto questi, passandosi una mano fra i capelli. “Magari lo farà. Sempre che tutto quello che si dice in giro su di lui sia vero.” La sua espressione si fa per un momento serena, ma non lascia trapelare la minima emozione; e l’uomo sospira, ancora una volta, quasi rassegnato. Ha l’aria di chi si è trovato un milione di volte nella stessa situazione.
“Bah, puoi dire quello che ti pare.” Sbuffa, come fosse arrivato a una qualche conclusione, anche se l’altro non la confermerà. “Ma, in fondo, Jason Shandler ti piace.”
“Credi?” La risposta dell’altro è di nuovo irridente. Non lo guarda nemmeno, si limita a muovere il cavallo e la regina bianca è abbattuta, cade con un tonfo impercettibile e rotola verso il bordo. Poi osserva la scacchiera per un istante, prima di sollevare lo sguardo su di lui sogghignando soddisfatto. “Scacco matto.”
L’uomo osserva i pezzi, per un momento pare realmente sorpreso, poi sospira per l’ennesima volta. Forse ha intuito un errore, forse ammette soltanto la sconfitta. Succede sempre, una volta è lui a vincere, la volta dopo è il suo avversario.
Questi, per tutta risposta, si alza con calma e si allontana senza nemmeno salutarlo; e lui neppure si volta a seguirlo con lo sguardo. Resta ancora seduto, a osservare il gatto grigio accucciato accanto alla sedia vuota di fronte a lui, che inizia a stiracchiarsi lentamente e fa per andarsene. I due gatti rossicci sul muretto, a pochi passi, fanno lo stesso. Quello nero, sul tetto della rimessa, atterra leggero sul tavolo da gioco. Con la coda urta il re bianco, che cade, ma sembra non farci caso. L’uomo si alza a sua volta, senza fretta, rimette a posto il re senza pensarci e altrettanto istintivamente fa per accarezzare l’animale; ma questo si volta di scatto, soffiando e abbassando le orecchie ostile. Poi scappa, seguito dagli altri che erano sul tetto, da quello grigio, dai due rossicci e da almeno altri sette, che si aggirano furtivi per la rimessa ancora per un istante; poi scompaiono.
“Maledette bestiacce!” borbotta tra sé e sé, lievemente indispettito. Pensa per un momento di mettere via gli scacchi e osserva l’ultima mossa ancora sulla scacchiera, poi sembra cambiare idea e si avvicina al molo. Segue con lo sguardo la figura del suo compagno di gioco che si sta allontanando a piedi, lentamente, lungo la spiaggia.
“Ci si vede per la rivincita, D.” Lo saluta ad alta voce e sorride tra sé, mentre l’altro, ormai lontano, solleva il braccio in segno di risposta, senza voltarsi.
Continua a sorridere, rincorrendo qualche pensiero, e la cicatrice che gli divide in due il volto si piega beffarda, seguendo l’incurvarsi delle rughe che si contraggono in quel sorriso. Ha un che di diverso, quel sorriso; sembra quasi rivolto a una qualche, recondita aspettativa.


FINE


Nemesis & D. disegnati da taisa





Questa storia finisce qui... o forse è proprio da qui che inizia, per la gioia di chi non ama i misteriXD.
Per l'ultima volta in queste pagine ringrazio:

taisa: Eh già, questa fine sembra più un inizio, sotto molti punti di vista. I due signori che giocano a scacchi sembrano pensarla come te. Bello il simbolo, vero? E chissà se questo epilogo è riuscito a placare la tua ansia? XD A parte gli scherzi, ti ringrazio per aver seguito la storia fino alla fine, anche se sapevi già dove saremmo andati a finire e, tanto perché non te l'ho ancora mai detto, grazie di tutto!^^

Lely1441: Purtroppo, Jason ha dovuto subire una bella mazzata per scuotersi definitivamente dalla sua apatia ed è stata Molly a farne le spese. Nonostante tutto^^, mi fa piacere che questa parte ti abbia colpito e che tu abbia notato la sofferenza di Jason (in pochi ci riesconoXD). Arrivati al gran finale, tra cattivi bionici in acciao inox e propositi di vendetta, c'è qualcuno che resta a guardare cosa succederà (non mi riferisco solo ai gattiXD), un po' come farò io^^. Spero che anche questo ultimo capitolo ti sia piaciuto. E, anche a te, grazie mille per aver seguito questa storia!

Grazie anche a chi ha seguito fin qui, spero sia stata una piacevole lettura^^.
Baci, lilac.


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