Can you feel my heart?

di DarkEvilStiles
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Wake me up when September ends ***
Capitolo 2: *** Demons ***
Capitolo 3: *** Lost in the echo ***
Capitolo 4: *** When I was your man ***
Capitolo 5: *** The diary ***
Capitolo 6: *** Let her go ***
Capitolo 7: *** Burn the pages ***
Capitolo 8: *** Turning tables ***
Capitolo 9: *** Forever Halloween ***
Capitolo 10: *** Take me to church ***
Capitolo 11: *** The only exception ***



Capitolo 1
*** Wake me up when September ends ***


Quando sentii il campanello suonare, già sapevo chi fosse.
Anastasia entrò in casa. Non mi salutò neanche, mi si avvicinò lentamente, con la testa bassa, gli occhi intenti a fissare le mattonelle chiare. Trascorse qualche secondo. Poi, con voce tremante, disse: — C’è una cosa di cui dovremmo parlare…
Iniziò a vacillare. Credo non fosse molto lucida in quel momento. Mi stava spaventando a morte.
— Anastasia, ti senti bene? Cosa succede? Vuoi dirmi cosa c’è che non va?
— Rick, non mi sento bene…
Anastasia perse l’equilibrio e cadde tra le mie braccia. Aveva perso i sensi.




 
Fulmini e tuoni squarciavano il cielo, cupo. La pioggia batteva incessante sulla finestra. Il temporale non sarebbe finito presto, e io me lo godevo sdraiato sul letto, alle 3:45 del mattino, ascoltando i Coldplay. Nel mentre, ripensavo alla mia vita: avevo una ragazza bellissima, degli amici fantastici, voti alti a scuola. Cosa potevo chiedere di più? Ah già, altri cinquanta giorni di vacanza, dato che poche ore dopo sarebbe iniziato il mio terzo anno al liceo scientifico. Non ero pronto, e sebbene la mia media fosse alta, essa era solo una conseguenza dello studio disperato ed incessante da settembre a giugno, dal primo all’ultimo giorno. Ricontrollai l’orario. Erano le 4:00. Dovevo decisamente dormire. Impostai la sveglia per poche ore dopo, posai il cellulare sul comodino e mi misi in posizione fetale, abbracciato al cuscino. Mi addormentai felice, perché, sebbene il giorno dopo sarei tornato a scuola, avrei anche rivisto Anastasia, la mia ragazza, che era tornata da una vacanza di due settimane a New York con i genitori solo il giorno prima e aveva preferito riposarsi, poiché era distrutta. Mi mancava da morire.
 
Inutile dire che, quando la sveglia suonò alle 6:30, avrei voluto prendere il cellulare a martellate. Due ore e mezza di sonno erano decisamente troppo poche. Il temporale, intanto, era terminato, e il sole stava sorgendo. Decisi di rimanere altri cinque minuti a letto, ma mia madre cominciò ad urlare appena si accorse che erano passati due minuti dal suono della sveglia e non ero ancora uscito dalla mia camera, così raccolsi tutta la forza di volontà possibile e mi alzai. Lo specchio che si trovava in camera fece risaltare tutti gli aspetti negativi del non potersi più svegliare alle 11:00: occhiaie, espressione a dir poco cadaverica da aspirante liceale suicida e continui sbadigli.
Ma almeno avevo una motivazione per la quale affrontare al meglio il primo giorno: Anastasia. Lei si trovava nella mia stessa classe; ci eravamo conosciuti proprio lì, a scuola. Stavamo insieme da quattro mesi, e le cose andavano davvero alla grande tra noi due. Mentre non c’era, rimanemmo comunque in contatto, anche se negli ultimi giorni ci eravamo un po’ allontanati in quanto, stando a quanto diceva, era stata piuttosto impegnata. Anastasia era bellissima: capelli biondo rame, lentiggini, occhi verdi, labbra sottili, alta e con un fisico quasi impeccabile: insomma, il genere di ragazza che chiunque vorrebbe.
Sciacquai la faccia e feci colazione, dopodiché mi lavai e vestii in fretta. Indossavo Vans e pantaloni stretti, entrambi neri, e considerato che quel giorno faceva particolarmente caldo, una maglia bianca a mezze maniche. Prima di uscire, diedi un ultimo sguardo allo specchio: i capelli neri ribelli non facevano poi tanto schifo come al solito, e poi speravo sempre che gli occhi azzurri distogliessero l’attenzione da quella chioma deforme. Peccato che il primo commento dei miei amici quando mi vedevano era sempre “ma che capelli di merda”, e come dar loro torto. Salutai mia madre, che nel frattempo stava pulendo la cucina, ed uscii di casa.
 
Arrivato davanti il cortile, l’orologio segnava le 7:50. Il luogo si stava rapidamente affollando, e nel frattempo stavo cercando Anastasia con lo sguardo. Non la trovai. Trovai, invece, quell’idiota di Matteo. Anche lui era in classe mia e faceva parte del gruppo di deficienti che se la credevano un po’ troppo. Insomma, il tipo di persone che ho sempre evitato nella vita. Infatti non parlavamo mai, e come io non sapevo niente della sua vita, lui non sapeva niente della mia. Ed era giusto così: alle persone con jeans a cavallo basso e risvolti, maglie lunghe fino alle ginocchia, ciuffo laccato in quantità industriali ed espressione schifata, io non avrei mai rivolto la parola nella vita. A volte odiavo Roma per l’enorme quantità di gente: c’era molta più possibilità di incappare in certi elementi.
Col passare dei minuti, arrivò altra gente della classe. Arrivò anche Mattia, il mio migliore amico. Era alto qualche centimetro in più di me, aveva i capelli neri e corti e gli occhi castano scuro. Portava dei jeans, delle scarpe da ginnastica e una maglietta a mezze maniche azzurra della Guru. Andai da lui e ci abbracciammo forte, sebbene ci fossimo visti l’ultima volta due giorni prima.
— Hey, hai per caso visto Ana? — domandai.
— No, in realtà credevo fosse con te.
— Capisco, è che non riesco a trovarla. Sarà in ritardo.
In quell’istante, la campanella suonò. Io e Mattia ci fissammo per un istante e ci capimmo al volo. Iniziammo a correre per le scale, districandoci tra la folla, in direzione della nuova classe annunciata pochi giorni prima. Fummo i primi ad arrivare, occupammo gli ultimi due banchi della fila centrale e ci battemmo il cinque. Pochi secondi dopo, arrivarono tutti gli altri. E fu in quel momento che la vidi: Anastasia entrò in classe, ed era bellissima. Portava una maglia a maniche corte azzurra, i lunghi capelli sciolti e un jeans aderente. Feci per salutarla, ma non mi guardò nemmeno. Si andò a sedere dall’altra parte della classe, anche se eravamo d’accordo che si sarebbe seduta davanti a me. Strano, ma non ci diedi molto peso.
 
Sostanzialmente, fu una mattinata tranquilla. Facemmo conoscenza dei nuovi professori e parlammo delle nostre vacanze.
Uscito di scuola, raggiunsi Anastasia nel cortile.
— Hey, Ana! — La abbracciai calorosamente, e lei ricambiò, ma sembrava un po’ rigida.
Quindi, mi allontanai dall’abbraccio, poggiai le mani sulle sue guance vellutate e le chiesi: — Hey, è tutto okay? Ho visto che oggi mi hai evitato, a scuola. Stai bene?
Lei mi fissò, e per un attimo avrei giurato di vedere la paura nei suoi occhi, ma sorrise e mi disse: — Certo che è tutto okay! Ma capiscimi, oggi era il primo giorno di scuola, e due giorni fa sono tornata da New York. Insomma, sto cercando di riprendermi. — Guardò l’orario, alzò la testa e aggiunse: — Cavolo, è tardi, devo andare a casa per aiutare mia madre a fare una cosa. — Mi diede un bacio a stampo, mi salutò e se ne andò.
Mattia, che nel frattempo aveva visto la scena da lontano, mi si avvicinò.
— Ma cosa è successo?
— Non lo so, ma non me la racconta giusta. Sento che è successo qualcosa, ma non vuole dirmela. E non saranno di certo un sorriso ed un bacio a stampo a farmi cambiare idea. Devo andare più a fondo.
— Cosa hai intenzione di fare, Rick?
— Scoprire cosa ha combinato a New York.

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Capitolo 2
*** Demons ***


— Ana, no!
La poggiai delicatamente a terra, corsi a prendere il cellulare e, con un po’ di difficoltà dovuta alle mani tremanti, chiamai il 118. Poi, tornai da lei e pregai che non le fosse successo nulla di grave e che quello fosse solo un abbassamento di pressione.
 
Dieci minuti dopo, arrivò il 118. La caricarono immediatamente sull’ambulanza dopo averla controllata per pochi secondi, ed entrai anch’io dentro.
 
Arrivati in ospedale, rimasi in sala d’attesa, nervosissimo. Cosa poteva esserle successo? Perché ci mettevano tanto?
 
Dopo quella che sembrò un’eternità, ma in realtà dovevano essere una trentina di minuti, uscì dalla stanza in cui avevano portato Anastasia in barella una dottoressa, magra, sulla cinquantina, con capelli lunghi e castani, legati. Scattai immediatamente, mi diressi velocemente da lei e domandai: — La prego, può dirmi cos’ha la mia... — esitai per un secondo — ... ragazza?
Mi fissò per qualche istante, poi rispose: — Bisogna avere il consenso dei genitori della ragazza. Mi dispiace. Quando arriveranno saranno informati, poi spetterà a loro decidere se darti la notizia. Sono informazioni cliniche riservate.
— Ma... — Avrei voluto replicare, convincerla, ma venni interrotto da un forte rumore. Mi voltai, e vidi la madre di Anastasia, Stefania, che in quel momento stava azzardando una corsetta nel corridoio, affiancata dal marito.
 
 
 

 
Erano passati dieci giorni dall’inizio della scuola, e la routine era sempre la stessa. Anastasia si era ammorbidita, e iniziavo a pensare che forse era davvero solo stanca. Insomma, tornò più o meno a comportarsi come prima. Qualche sospetto ce l’avevo sempre, ma quando parlavamo di New York sembrava non sentirsi più molto a disagio. Come se non avesse assolutamente nulla da nascondere. Persino quando le facevo domande a trabocchetto, lei ne usciva indenne. Avevamo passato delle belle serate insieme, a coccolarci, a dirci cose carine, a guardare film e cose così. No, niente sesso. Anastasia era una che voleva aspettare e fidarsi ciecamente di qualcuno per poterci fare l’amore, ed era una persona davvero, davvero diffidente, quindi sarebbe passato un altro po’ prima che se ne convincesse. Comunque, io non le facevo pressioni: in fondo, se l’avessimo fatto, sarebbe stata anche per me una prima volta. Ma il desiderio c’era.
Mattia, invece, ci stava provando con una ragazza di primo conosciuta una settimana prima a scuola.
— Amico, è davvero troppo complicata per me! Ma come diamine fai tu a mandare avanti una storia da quasi cinque mesi? Io ci provo con lei da una settimana e ho già fantasie suicide. Secondo te qual è il modo più indolore di farla finita? Tanto non mi si fila nessuna, e questa mi lascerà con le mani in mano, e io farò la figura del pesce lesso!
Scoppiai a ridere e gli diedi un piccolo spintone. — E smettila! Quanti drammi!
— Siamo tutti dei grandi saggi, quando abbiamo una ragazza e non ci preoccupiamo di non essere cagati, eh?
La campanella suonò.
— Ma deve sempre durare così poco la ricreazione?! — esclamò Mattia, e si diresse con me in classe.
Quando entrammo, notai che Anastasia teneva la testa poggiata sul suo banco e tremava.
Mi avvicinai a lei, e le chiesi: — Stai bene?
Lei alzò la testa, strofinò gli occhi e, tra uno sbadiglio e un altro, rispose: — Sì, sono solo un po’ assonnata. Ho dormito molto poco stanotte.
— Ma mi avevi dato la buonanotte alle undici e quaranta dicendo di avere sonno… — replicai, perplesso.
Lei fece un’espressione stupita, come se avesse dimenticato di avermi scritto quel messaggio. Si ricompose subito dopo, e rispose: — Sì, hai ragione, ma alla fine non sono riuscita ad addormentarmi subito. Sono un po’ stressata ultimamente, fatico a dormire.
— Oh... non me ne avevi mai parlato.
— Mi sarà sfuggito. — Sorrise.
Prima che potessi aggiungere altro, entrò la prof e andai a sedermi.
 
Quando uscii da scuola, raggiunsi Anastasia e la baciai intensamente, poi le dissi: — So io come farti passare lo stress. Per domani abbiamo pochi compiti, quindi passa da me e li facciamo assieme. Poi andiamo al cinema, e dopo il film usciamo con Mattia e gli altri. Devi svagarti un po’, e magari stare con più persone potrà aiutarti.
Sorrise debolmente, poi si posò una mano sulla fronte. Il colore del suo viso mutò in bianco cadaverico in pochi istanti. — Senti, Rick, mi piacerebbe, ma... davvero, non sono dell’umore giusto per... — non riuscì a finire la frase, perché non riuscì a tenersi in piedi. La afferrai prima che cadesse.
— Ana, ti senti bene?! — esclamai, preoccupato.
Mattia, a pochi metri da me, stava parlando con Michele, un nostro amico di quarto con cui uscivamo. Aveva i capelli biondissimi e lunghi (per questa ragione portava il codino), che facevano contrasto con gli occhi castano scuro. Indossava una maglia viola a maniche lunghe, jeans e Nike bianche. Quando gridai, si voltarono entrambi e, notate le condizioni di Anastasia, mi aiutarono a reggerla e a portarla fuori dal cancello, sotto gli sguardi di tutta la scuola. Accorse anche la sua migliore amica, Giorgia, che iniziò a dire una decina di Ave Maria, credendo che avessero aiutato a farla riprendere.
— Ma che cazzo, Giorgia, avrà avuto un semplice giramento di testa, ha detto che è stressata in questo periodo! Se fosse in forze credo ti prenderebbe a schiaffi lei per prima, la stai assillando! — Ero incazzato, perché l’idea che ci fosse qualcosa che non mi dicesse si faceva sempre più concreta, per quanto non volessi ammetterlo. C’era per forza qualcosa di più. Sembrava essersi finalmente calmata, ma era tornata stranissima, come il primo giorno di scuola. Giorgia ci rimase male, perciò si zittì.
La casa di Anastasia si trovava vicino la scuola, quindi in pochi minuti eravamo lì. Frugai tra le sue tasche mentre blaterava qualcosa (mi era parso di sentire, tra le tante cose, un “mi dispiace”, ma forse era solo una mia impressione), presi le chiavi e aprii. I genitori non erano in casa, ovviamente: lavoravano entrambi in provincia. La mettemmo subito a sedere sul divano e le demmo un bicchiere d’acqua e zucchero.
— Ti senti meglio? — domandai pochi minuti dopo.
Alzò la testa, mi guardò con gli occhi lucidi e rispose: — Sì, Rick. Non ti preoccupare.
Mi voltai verso gli altri. — Grazie per l’aiuto, ma potreste andarvene? Vorrei restare un po’ da solo con lei, devo parlarle.
Mattia aggrottò la fronte e disse, a bassa voce, “buona fortuna”. Sapeva che avrei iniziato un discorso molto serio con Anastasia, e stavolta non avrebbe potuto evitarmi, perché eravamo solo io e lei, da soli.
Quando la porta di casa si chiuse alle nostre spalle, mi sedetti accanto a lei, che intanto sembrava essersi ripresa abbastanza, ma aveva ancora gli occhi lucidi e tremava. Le presi la mano.
— Anastasia, senti, da quando sei tornata dalla vacanza a New York... sento che c’è qualcosa che non va. Mi eviti, sei strana, tremi di continuo, a volte sei assente, e poi oggi sei quasi svenuta. Non è lo stress. Non ti credo. C’è qualcosa che mi stai nascondendo, Anastasia. E mi piacerebbe sapere... — In quel momento fui interrotto dal suono del campanello. Guardai un’ultima volta Anastasia, sospirai e mi diressi verso il portone.
Quando lo aprii, sgranai gli occhi.
— E tu che cazzo ci fai qui?

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Capitolo 3
*** Lost in the echo ***


Era vestita in modo piuttosto appariscente, come al solito: adorava gli occhi puntati su di lei, sulla sua stravaganza, sul suo trucco troppo accentuato o sulle giacche dai colori fin troppo accesi. Accanto a lei, il marito, Mario, un cinquantenne basso e in carne, con una folta barba, i capelli arruffati e gli occhi piccoli e grigi. Aveva indosso una giacca grigia, pantaloni dello stesso colore e scarpe di cuoio nere.
La dottoressa li prese in disparte, abbastanza da non permettermi di sentire. Pochi secondi dopo, la madre di Anastasia si girò verso di me e i suoi occhi divennero lucidi. Iniziò a piangere, portandosi le mani sul volto. La dottoressa le poggiò una mano sulla spalla, cercando di confortarla, e le disse qualcosa. Mario, invece, sospirava e stringeva i pugni per trattenersi dal piangere, ma tremava. Quell’uomo mi faceva pena e tenerezza: era fin troppo buono e calmo, in qualsiasi situazione.
Finito di parlare, si voltarono a guardarmi. Poi, si avvicinarono lentamente. Restammo lì a guardarci per qualche secondo, ma alla fine Mario sospirò e cominciò a dire: — Riccardo, Anastasia...
La porta della stanza di Anastasia si spalancò. Era lei. Aveva un camice bianco e il trucco che colava, ma, a quanto pareva, si era ripresa.
Stefania e Mario la fissarono. La donna si avviò verso di lei, spalancò le braccia tentando un abbraccio, ma Anastasia si scansò. Non mi toglieva gli occhi di dosso. Anche gli altri tre mi fissavano, come se provassero pena.
— Qualcuno può dirmi cosa sta succedendo?! — esclamai. Nessuna risposta.
Poi Anastasia, esasperata, gridò:





Mi voltai lentamente verso Anastasia.
— Mi spieghi cosa significa tutto questo?
— Togliti dal cazzo! — Matteo mi spintonò, poi corse da lei ed iniziò ad accarezzarle i capelli. — Non ero ancora uscito di scuola quando non ti sei sentita bene, appena l’ho saputo sono corso qui da te. Come stai? Tutto okay?
La sua noncuranza riguardo il fatto che Anastasia stesse con me era a dir poco disarmante.
— Breaking news: sono il suo ragazzo! Staccati immediatamente da lei o giuro che...
Matteo si avvicinò a me, lentamente, fino a quando il suo viso si trovò a un centimetro dal mio. Sentivo perfettamente il suo respiro, che col passare dei secondi si faceva sempre più intenso. Poi disse, scandendo con precisione le parole: — Oppure cosa mi fai?
Vidi Anastasia con la coda dell’occhio: stava scuotendo la testa freneticamente. Era spaventata da quello che avrebbe potuto farmi Matteo, ma io non lo ero: non doveva nemmeno avvicinarsi a lei. Perché l’aveva fatto?
Arrossii per la rabbia. Strinsi i pugni, mi avvicinai ancora di più a lui e a denti stretti risposi: — O giuro che ti prendo a pugni fino a farti sanguinare.
Inizialmente credevo di averlo colto di sorpresa: non ero solito affrontare qualcuno, e lui aveva un fisico palestrato ed era qualche centimetro più alto di me. Ma, diversamente da quanto mi aspettassi, scoppiò in una fragorosa risata. Si allontanò e continuò a ridere per qualche secondo. Poi, si fece serio all’improvviso.
— Ma vaffanculo.
 
Quando aprii gli occhi, vidi delle sagome che mi fissavano. Li strofinai per qualche secondo, e riuscii a distinguerle: erano i miei genitori.
— Rick! — Mia madre mi abbracciò, mentre papà sorrise.
Non dissi niente, ero ancora troppo confuso.
Mi guardai intorno, e mi resi conto di trovarmi su un lettino d’ospedale. Improvvisamente, sentii un forte mal di testa. — Ma cos’è successo?
In quel momento, entrarono Mattia, Michele ed Anastasia.
— Grazie al cielo stai bene! — Anastasia mi baciò.
— Vi lasciamo da soli — disse mio padre.
Quando i miei genitori uscirono, i tre si sedettero attorno a me. Mattia teneva in mano una pallina anti-stress, che continuava a premere. Sembrava davvero incazzato.
Anastasia iniziò a parlare. — Ricordi che eravamo a casa mia? Mi ci avevate portato perché non mi ero sentita bene.
Dopo aver riflettuto per qualche secondo, risposi: — Uhm, sì. Stavo... stavo litigando con Matteo.
La sua espressione si fece improvvisamente triste. — Ecco, lui ti ha mollato un pugno e tu sei caduto a terra. Poi ha iniziato a prenderti a calci. Io ho provato a calmarlo, lo giuro, ma lui non la smetteva. Quando mi sono accorta che stavi sanguinando ed avevi perso i sensi, mi sono messa ad urlare, e lui è fuggito via. Allora ho chiamato l’ambulanza.
Wow. Avevo minacciato Matteo, e alla fine lui me le aveva date di santa ragione. Ripensando a ciò che mi aveva appena detto Anastasia, iniziai a sentire dolori ovunque.
Lei cominciò a piangere.
Mi voltai verso Mattia: era ancora più infuriato di prima. Michele aveva lo sguardo fisso a terra, i pugni stretti e sussurrava insulti.
Mattia ruppe il ghiaccio. — Rick, quanto è vero che siamo amici, io giuro che gliela farò pagare.
Avrei voluto rispondere, ma un pensiero affollò la mia mente.
— Cosa sanno i miei?
— Che sei caduto per le scale. Eri disteso molto vicino alle scale che portano al secondo piano, quindi non è stato difficile ingannare quelli che ti hanno soccorso — replicò Anastasia.
Cercai subito di alzarmi, ma mi sdraiai subito dopo: i dolori erano troppo forti.
— Perché cazzo sanno che sono caduto per le scale?!
— Ci sarebbero stati troppi casini, e non so come...
Mattia sbatté la pallina a terra, poi si alzò. — Troppi casini?! Hai idea di ciò che hai detto? Ci avevi assicurato di aver detto tutto, quando siamo arrivati!
— Lo so, ma... vi sembrava davvero il caso? Insomma... — Anastasia fece spallucce. — In fondo, si è fatto prendere dal momento e...
— COSA?! — gridammo all’unisono io e Mattia.
I miei genitori si affacciarono all’ingresso della stanza, preoccupati.
— Tutto bene?
— Sì, mamma — risposi.
Tornarono fuori dalla stanza.
Mattia mi fissò, incredulo. — Ma perché non glielo hai detto?!
— Ci ho riflettuto, e ho deciso che gliela farò pagare io.
Michele mi indicò dalla testa ai piedi, e rispose: — Ne sono sicuro. Lo pesterai a sangue, guarda.
Mi voltai a guardare Anastasia. Evitò il mio sguardo, forse si sentiva anche lei colpevole delle mie condizioni. Lo era. Avevamo un discorso in sospeso.
— Non dovete dirlo ai miei, okay? Sono caduto per le scale, ho battuto la testa e ho perso i sensi.
— Non ci posso credere, davvero, non ci posso credere. — Mattia raccolse la pallina anti-stress e riprese a torturarla. — Solo perché ti voglio bene.
— Vale lo stesso per me — aggiunse Michele.
— Quanto tempo mi terranno qui?
— I dottori hanno detto che ti terranno sotto controllo per qualche giorno, dato che ti stanno imbottendo di antidolorifici e continuando così il male dovrebbe diminuire in poco tempo — replicò Anastasia.
In quel momento, avrei voluto farle le domande cruciali: perché Matteo era andato a casa sua? Perché l’aveva accarezzata? Cosa diamine mi stava nascondendo? Pensandoci meglio, però, quello non era il momento migliore. Appena mi sarei rimesso in forze, le avrei fatto il terzo grado. Dovevo sapere. In quel momento, tuttavia, non volevo che al dolore fisico si associasse anche quello psicologico. Anche se Anastasia, con la trovata della caduta dalle scale, mi aveva fatto incazzare non poco.
Dopo qualche minuto, i tre e mio padre mi salutarono: l’orario di visite era finito. Rimase solo mia madre con me, quella notte, ma anche tutte le altre notti che seguirono.
Era una routine piuttosto noiosa: visite da parenti, amici e dottori, continue dosi di antidolorifici, dormite di quindici ore. Così passarono quattro giorni.
 
La sera del 29 settembre fui dimesso. Mi sentivo quasi totalmente in forze. Il giorno dopo sarei tornato a scuola. Avrei rivisto Matteo.
 
Non feci in tempo a realizzare tutte le cose che avrei dovuto fare quel mattino che arrivò il momento di uscire.
Sembrava essere rimasto tutto immutato, a scuola. Michele mi batté il pugno dandomi il bentornato. Mattia, invece, era ancora incazzato per ciò che mi aveva fatto Matteo. Io continuavo a rassicurarlo, dicendogli che prima o poi gliel’avremmo fatta pagare in qualche modo. Prima che la campanella delle 7:55 suonasse, mi prese in disparte sul retro della scuola.
— Rick, so che vuoi vendicarti, ma sei meno forte di lui. Di tanto, anche. Un solo affronto e potrebbe ridurti anche peggio. Se non ci fosse stata Anastasia, le cose sarebbero andate diversamente. Se non ci fosse stata lei, Rick, io avrei potuto perderti e... — non riuscì a finire la frase, perché scoppiò a piangere.
Mi vennero gli occhi lucidi. Mattia ci teneva davvero troppo a me, mi reputava un fratello, rimaneva sempre accanto a me, qualunque cosa accadesse. Era un ragazzo d’oro, e io gli volevo un bene dell’anima. Lo strinsi a me e dissi: — Non preoccuparti. — Eppure, non smetteva di piangere. — Hey, stai inzuppando la mia maglia di lacrime! — esclamai, ironicamente. Lui scoppiò a ridere, e si allontanò dall’abbraccio.
— Mattia, ti voglio davvero bene — conclusi.
Sorrise, poi asciugò le lacrime. — Anch’io, Rick, anch’io.
In quel momento, la campanella suonò, e ci dirigemmo in classe.
Pochi minuti dopo essere entrati, arrivò Anastasia. Venne da me, mi baciò sulla guancia e corse al suo posto. Matteo, invece, entrò senza dire una parola. Andò a sedersi, ed attese l’inizio delle lezioni. Strano, perché era solito fare baldoria col gruppetto in della classe. Difatti, loro lo incitarono ad alzarsi, ma rifiutò. Sembrava pensieroso. Per un attimo, mi balenò in mente la possibilità che stesse pensando a qualcosa che mi avrebbe fatto stare male.
Le ore passarono abbastanza tranquillamente, ma Anastasia continuava inevitabilmente ad avere dei momenti in cui era totalmente assente, come se non facesse parte di questo pianeta. I conati di vomito che la perseguitavano erano piuttosto visibili. Ma forse, ero io che la fissavo troppo spesso.
 
Usciti di scuola, la accompagnai a casa. Lei mi salutò, e io le diedi appuntamento per quella sera. Saremmo usciti con Mattia, Michele e Giorgia (sì, quella pazzoide bigotta). A volte mi chiedevo cosa Anastasia ci trovasse di bello in lei. Magari aveva delle qualità nascoste. Lo speravo.
 
Erano le 20:00 quando suonai al campanello di casa di Anastasia. Ero con Mattia. In realtà, sarei dovuto andare lì alle 20:40, ma volevamo farle una sorpresa.
Okay, lo ammetto: era tutto un piano di Mattia per vedere se, colta di sorpresa, avremmo scoperto qualcosa su di lei che non sapevamo. Se avessimo fallito, l’avrei tenuta sotto torchio quella stessa sera.
Comunque, non arrivò nessuna risposta.
— Riprova, dai — mi esortò Mattia.
Suonai nuovamente.
E, per la seconda volta, nessuno venne ad aprire.
Stavo per telefonarla quando, finalmente, aprì.
Ma non era Anastasia. Era Matteo.
Portai le mani alla testa. — Non è possibile, non è possibile...
Era bagnato dalla testa ai piedi, e portava solo un asciugamano legato alla vita. Mi sorrise. Poi, disse: — Sono stanca, ho bisogno di riposare. A domani, Rick. Ti amo.
In quel momento, Anastasia gli apparve dietro con indosso un accappatoio e cominciò a gridare e a tirargli pugni dietro la schiena. — NON DOVEVI APRIRE, NON DOVEVI!
Matteo non smetteva di ridere. Richiuse il portone.
— No... — cominciai. — No, no, no... NO! — tirai un calcio al portone. — CAZZO!
Mattia, sconvolto quanto me ma confuso, chiese: — Rick, cosa cavolo significa quella frase che ha detto Matteo?
Mi voltai a guardarlo, con le lacrime che mi rigavano le guance.
— Non l’ha dimenticato, Mattia.
— Cosa? Non capisco, spiegati!
Cercai di parlare, tra i pianti. — Qualche giorno fa, Anastasia mi ha mandato un messaggio alle 23:40, e c’erano scritte esattamente quelle parole. — Esitai per un attimo, e respirai profondamente. — La mattina dopo mi ha detto che aveva dormito poco, quella notte. Io le chiesi come fosse possibile, dato che mi aveva dato la buonanotte relativamente presto. Aveva detto che era per via dello stress, che non riusciva a dormire, che aveva problemi.
Mattia rifletté qualche istante, poi sgranò gli occhi. — Ma non era per via dello stress... lei aveva... no...
— Non mi ha scritto lei quel messaggio, Mattia. — Mi feci forza, e pronunciai quella maledetta frase: — L’ha scritto Matteo.

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Capitolo 4
*** When I was your man ***


— Rick, dove vai?! Rick! — Mattia continuava a gridare, ma io ero già troppo lontano, e in poco tempo non sentii più la sua voce.
Stavo correndo affannosamente. Per andare dove? Non lo sapevo. Non mi sarei fermato fino a quando non avrei perso il respiro, fino a quando non mi sarei accasciato a terra, inerme, e sarei rimasto lì a morire.
Non potevo non pensare a ciò che mi aveva fatto Anastasia. Non poteva essere vero. Sembrava di essere in un film, ma era la realtà: in poche parole, una merda.
Continuai a correre per qualche minuto, poi mi fermai. Ero distrutto. Mi trovavo in un piccolo parco, che nemmeno conoscevo. Essendo il posto deserto, mi sdraiai sull’erba, guardai le stelle e mi lasciai cullare dalla leggera brezza autunnale che faceva muovere dolcemente le foglie degli alberi.
 
— Hey! — Qualcuno mi stava strattonando. Non diedi molto peso alla cosa, e mi girai dall’altra parte.
— HEY IMBECILLE, TI VUOI ALZARE O NO?
Scattai immediatamente. Confuso, strofinai gli occhi e mi accorsi di essere ancora al parco. Mi ero addormentato guardando le stelle. Alzai la testa, e vidi colui che mi aveva svegliato: non lo conoscevo.
Sospirò. — Alla buonora! Ma lo sai che ore sono?
All’improvviso, mi preoccupai. Ero fuggito, non sapevo che ore fossero, i miei genitori dovevano avermi chiamato un miliardo di volte. Mattia doveva essere preoccupatissimo. E Anastasia... ah, no, Anastasia se la stava sicuramente spassando con Matteo.
— Ma ti hanno mozzato la lingua? Hai perso la memoria?
— N-No... — riuscii a dire.
— Bene, allora immagino dovrai usare la lingua per bene per spiegare ai tuoi genitori il fatto che alle due e mezza del mattino tu non sia ancora tornato a casa.
Sgranai gli occhi. — Oh, merda. Senti, devo andare. — Mi alzai rapidamente e mi incamminai verso una via principale della città, in modo da poter ritrovare facilmente la via di casa.
— Grazie, eh! — esclamò quel tizio. — Imbecille.
Mi voltai. — Grazie, perfetto sconosciuto.
— Gli amici mi chiamano Francesco.
— Allora grazie, Francesco!
— Di niente, imbecille.
 
Quando tornai a casa, i miei erano seduti sul divano, svegli.
— Rick, dove diamine sei stato?! — esclamò mia madre, poi corse ad abbracciarmi.
— Ci devi delle spiegazioni. — Ora mio padre era in piedi, dietro di lei.
— Niente di che... insomma, siamo stati a casa di Michele, e non c’era molto campo. Non ci siamo resi conto dell’orario, e quando abbiamo visto l’orologio siamo subito scattati a casa.
— Allora Mattia non mentiva.
— Cosa?
— L’abbiamo chiamato, dato che non rispondevi. Ci ha detto che eravate da Michele.
— Perché avrei dovuto mentirvi? — Io amavo letteralmente Mattia. Sul serio.
— Perché ultimamente sei strano — replicò mia madre. — Non so, è come se qualcosa ti tormentasse.
— Ma no, niente, le solite cose...
— Riccardo... — cominciò mio padre.
— Sentite, le cose non vanno alla grande con Anastasia, okay? Adesso posso per favore andare a dormire? Questo terzo grado mi sta mettendo a disagio.
— Ma pochi giorni fa, all’ospedale... — rispose mia madre.
— Era tutta finzione, mamma! Lei non mi ama!
Detto questo, mi diressi velocemente verso la mia camera e chiusi la porta.
 
Il mattino dopo, fui scontroso con tutti, persino con Mattia. Non mi andava di parlare, di esprimere sentimenti, nemmeno di vivere. Anastasia mi aveva tradito, per tutto quel tempo mi aveva tenuto all’oscuro della sua relazione con Matteo. Non riuscivo davvero a capire come potesse essersi innamorata di lui, cosa avesse di speciale. In fondo, non mi sentivo chissà chi, ma credevo almeno di essere un buon fidanzato. Qualcuno su cui poter contare. Ma, a quanto sembrava, Anastasia se ne fregava. Tutta quella faccenda dell’aspettare per il sesso, poi! Era solo una scusa, magari quando ne parlavamo per messaggio lei era a letto con Matteo. O, peggio ancora, Matteo scriveva a me. Lo odiavo dal profondo del cuore. Non meritavano un lieto fine, no. Di tutte le cose che mi sarebbero potute capitare nella vita, proprio quella a cui cercavo di non pensare ed evitavo come la peste era successa. Ormai, non avevo più niente da perdere. La mia vita non aveva più molto senso, senza Anastasia. Sì, c’era Mattia, ma non sarebbe mai stato capace di colmare il vuoto che c’era in quel momento dentro di me. Avevo bisogno di qualcuno di nuovo: una persona che, per un attimo, mi avrebbe fatto dimenticare tutti i miei problemi. Ma, in primis, quella persona di sicuro non esisteva. Poi, sebbene mi avesse ferito, io amavo ancora Anastasia. In fondo, eravamo stati insieme più o meno cinque mesi. O meglio, credevo stessimo insieme. Chissà da quanto stava con Matteo. Da quanto mi prendeva per il culo.
La mattinata proseguì, con tutti quei pensieri che affollavano la mia mente, che non mi davano un attimo di tregua.
 
Tornato a casa, misi le cuffie ed ascoltai musica in riproduzione casuale. Ovviamente, Spotify sembra capire ogni volta i tuoi sentimenti, e partì When I was your man di Bruno Mars. Cominciai a piangere. Ma non era come la sera prima. Non era un pianto silenzioso. Singhiozzavo. Non riuscivo a fermarmi. Ripensai a tutti i bei momenti che avevamo passato insieme, mano nella mano, sicuri che non ci saremmo mai lasciati, senza avere paura di niente, contro tutto e tutti. Quei momenti erano ufficialmente finiti. Avevo chiuso con tutto quello schifo. Dovevo dimenticare Anastasia, prima che la tristezza aumentasse e che arrivassi ad un punto di non ritorno. Mi sarei potuto chiudere in me stesso, escludere tutti, come già avevo iniziato a fare. Era una sensazione orribile, ma anche se avessi voluto parlare, le parole mi si bloccavano in gola, come se mi avessero tagliato le corde vocali. Forse, come aveva detto quel ragazzo della sera prima, mi avevano mozzato la lingua.
 
Quando sentii il campanello suonare, già sapevo chi fosse. Mi alzai, scocciato. Non volevo parlarle, ma feci uno sforzo e andai ad aprire.
Anastasia entrò in casa. Non mi salutò neanche, mi si avvicinò lentamente, con la testa bassa, gli occhi intenti a fissare le mattonelle chiare. Trascorse qualche secondo. Poi, con voce tremante, disse: — C’è una cosa di cui dovremmo parlare…
— Lo so bene — replicai, freddo.
Lei, di punto in bianco, iniziò a vacillare. Credo non fosse molto lucida in quel momento. Mi stava spaventando a morte.
— Anastasia, ti senti bene? Cosa succede? Vuoi dirmi cosa c’è che non va?
— Rick, non mi sento bene…
Perse l’equilibrio e cadde tra le mie braccia. Aveva perso i sensi.
— Ana, no!
La poggiai delicatamente a terra, corsi a prendere il cellulare e, con un po’ di difficoltà dovuta alle mani tremanti, chiamai il 118. Poi, tornai da lei e pregai che non le fosse successo nulla di grave e che quello fosse solo un abbassamento di pressione.
 
Dieci minuti dopo, arrivarono i soccorsi. La caricarono immediatamente sull’ambulanza dopo averla controllata per pochi secondi, ed entrai anch’io dentro.
 
Arrivati in ospedale, rimasi in sala d’attesa, nervosissimo. Cosa poteva esserle successo? Perché ci mettevano tanto? Sarebbe mai finita tutta quella sofferenza? Sembrava una caduta libera verso il vuoto, l’eterno, l’infinito.
 
Dopo quella che sembrò un’eternità, ma in realtà dovevano essere una trentina di minuti, uscì dalla stanza in cui avevano portato Anastasia in barella una dottoressa, magra, sulla cinquantina, con capelli lunghi e castani, legati. Scattai immediatamente, mi diressi velocemente da lei e domandai: — La prego, può dirmi cos’ha la mia... — esitai per un secondo — ... ragazza?
Mi fissò per qualche istante, poi rispose: — Bisogna avere il consenso dei genitori della ragazza. Mi dispiace. Quando arriveranno saranno informati, poi spetterà a loro decidere se darti la notizia. Sono informazioni cliniche riservate.
— Ma... — Avrei voluto replicare, convincerla, ma venni interrotto da un forte rumore. Mi voltai, e vidi la madre di Anastasia, Stefania, che in quel momento stava azzardando una corsetta nel corridoio, affiancata dal marito. Era vestita in modo piuttosto appariscente, come al solito: adorava gli occhi puntati su di lei, sulla sua stravaganza, sul suo trucco troppo accentuato o sulle giacche dai colori fin troppo accesi. Accanto a lei, il marito, Mario, un cinquantenne basso e in carne, con una folta barba, i capelli arruffati e gli occhi piccoli e grigi. Aveva indosso una giacca grigia, pantaloni dello stesso colore e scarpe di cuoio nere.
La dottoressa li prese in disparte, abbastanza da non permettermi di sentire. Pochi secondi dopo, la madre di Anastasia si girò verso di me e i suoi occhi divennero lucidi. Iniziò a piangere, portandosi le mani sul volto. La dottoressa le poggiò una mano sulla spalla, cercando di confortarla, e le disse qualcosa. Mario, invece, sospirava e stringeva i pugni per trattenersi dal piangere, ma tremava. Quell’uomo mi faceva pena e tenerezza: era fin troppo buono e calmo, in qualsiasi situazione.
Finito di parlare, si voltarono a guardarmi. Poi, si avvicinarono lentamente. Restammo lì a guardarci per qualche secondo, ma alla fine Mario sospirò e cominciò a dire: — Riccardo, Anastasia...
La porta della stanza di Anastasia si spalancò. Era lei. Aveva un camice bianco e il trucco che colava, ma, a quanto pareva, si era ripresa.
Stefania e Mario la fissarono. La donna si avviò verso di lei, spalancò le braccia tentando un abbraccio, ma Anastasia si scansò. Non mi toglieva gli occhi di dosso. Anche gli altri tre mi fissavano, come se provassero pena.
— Qualcuno può dirmi cosa sta succedendo?! — esclamai. Nessuna risposta.
Poi, Anastasia lo gridò.
— Aspetto un figlio da Matteo.

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Capitolo 5
*** The diary ***


10 agosto 2014
 
Caro diario,
La mia vita è un po’ un casino, ultimamente. Sono felice con Riccardo, ma Matteo continua a perseguitarmi con i messaggi. Ci prova con me da settimane, ormai. Io, però, amo solo il mio ragazzo. Non entrerà così nella mia vita, non rovinerà tutto quello che io e lui abbiamo costruito in quasi tre mesi e mezzo. Matteo deve capire che deve smetterla di provarci, sto benissimo così. Soprattutto, spero la smetta presto: non riesco più a nascondere questa cosa a Rick. Lui lo odia, potrebbe finire molto male, ed è l’ultima cosa che vorrei.
Comunque, oggi io e Rick siamo stati sulla riva del Tevere, ed è stato romanticissimo. Quel ragazzo è davvero adorabile.
 
Tua,
Ana
 
 
 
13 agosto 2014
 
Caro diario,
Se esistesse una parola per definire Matteo, sarebbe una delle più volgari mai ideate. Se ne frega della mia relazione, ed è davvero il momento di finirla. Gli ho detto di vederci domani e di porre fine a tutto questo.
Riccardo continua a sorprendermi ogni giorno che passa, mi fa regali, mi porta in posti in cui non sono mai andata. Lui sì che è un ragazzo d’oro, non Matteo. Inizio a fidarmi di lui davvero tanto, non vedo come una persona del genere possa farmi del male.
Ah, e tra diciotto giorni sarò a New York! Non vedo l’ora!
 
Tua,
Ana
 
 
 
14 agosto 2014
 
Caro diario,
Ho fatto una cazzata grande quanto la Reggia di Caserta.
Ho incontrato Matteo alle 19:00. Stavo sul serio per dirgli che la doveva finire, ma lui evidentemente ha recepito il messaggio in cui gli dicevo di vederci in modo un po’ diverso. Mi ha baciata. Ma non è stata questa la cosa peggiore, perché io mi sono lasciata prendere e ho ricambiato il bacio. L’ho respinto pochi secondi dopo, ma ormai era troppo tardi. Sono fuggita via piangendo.
La parte peggiore è che alle 20:30 mi sono vista con Riccardo e sono stata con lui, ma non gli ho detto niente. La situazione diventa sempre più incasinata col passare del tempo. Forse dovrei dirglielo.
Anzi, sai cosa ti dico? Fanculo. Fanculo tutto e tutti. Tra due settimane andrò a New York, e non penserò a niente. I problemi possono aspettare. Merito di staccare la spina, con tutto quello che sto passando.
Ti farò sapere se ci saranno novità.
 
Tua,
Ana
 
 
 
20 agosto 2014
 
Caro diario,
Matteo continua ancora ad inviarmi messaggi. Certo, dopo quel bacio è normale. Dice di volermi vedere ancora. Io visualizzo e non rispondo, perché non so che dirgli, e lui mi telefona. Allora io lascio che il telefono squilli. Ma lui viene a casa, e io non gli apro. Per quanto continuerà ancora questo strazio?
Solo dieci giorni, e me ne andrò.
Spero che, tornata, avrò le idee chiare su cosa fare.
Comunque, inizio a pensare che Riccardo debba sapere: la situazione sta prendendo una bruttissima piega.
 
Tua,
Ana
 
 
 
29 agosto 2014
 
Caro diario,
Ti scrivo solo per informarti che domani partirò, e starò dal 31 agosto al 13 settembre a New York. Ma non preoccuparti, ti porterò con me! Hai bisogno di sapere cosa combinerò una volta arrivata lì, scriverò pagine su pagine, che tra qualche anno rileggerò sorridendo e ripensando a tutto il divertimento che mi aspetta. Sto per visitare una città bellissima, e credo di essere la ragazza più felice del mondo in questo momento. Riccardo già mi scrive papiri su whatsapp dicendo che gli mancherò, ma sembra più il discorso per il mio funerale. Matteo, invece, non si fa più sentire da qualche giorno. Non so perché, ma direi che è meglio così: forse il problema è risolto. Lo spero tanto!
 
Tua,
Ana
 
 
 
31 agosto 2014
 
Caro diario,
Ho preso l’aereo ieri pomeriggio, e considerato il fuso orario, sono arrivata a New York in serata. Sono state dieci ore di volo tranquille. Ora mi trovo nella mia stanza d’hotel, la 134, al terzo piano. I miei sono al piano terra a sbrigare le ultime faccende nella hall. Ho sistemato le mie cose alla meglio, ieri, e ora sono seduta sul letto, appena sveglia, a scriverti. Stamattina andremo a visitare l’Empire State Building, e sono a dir poco elettrizzata: finalmente lo vedrò dal vivo, non più in foto!
 
Tua,
Ana
 
 
 
1 settembre 2014
 
Caro diario,
Quella che doveva essere una vacanza in realtà è diventata il mio incubo peggiore. Ti racconto.
Ieri sera, tornata da una lunga giornata in città, mi stavo dirigendo verso la mia stanza d’albergo. Distrattamente, sono andata a sbattere contro un ragazzo. Indovina chi era? MATTEO! Gli ho chiesto che ci facesse qui, e ha detto che pochi giorni fa è partito per una vacanza qui, a New York, e che la sua stanza è la 145. Quindi, si trova sul mio stesso piano. L’ho subito scansato e sono fuggita via, non volevo nemmeno rispondergli, ma lo sentivo ridacchiare.
Sai cosa significa questo?! Che questa vacanza non sarà una vacanza, ma un inferno! Mi sento perseguitata da quel ragazzo! Scommetto che prima o poi mi chiederà di andare nella sua stanza a fare cose che sa solo lui, ma se pensa che io sia una facile si sbaglia eccome! Il mio ragazzo è Riccardo, e anche se trovo che Matteo sia attraente non è assolutamente il mio tipo!
Riccardo mi tempesta di messaggi, mi chiede come sto, cosa faccio, come va qui. Vorrei rispondergli che fa tutto schifo, ma fingo che vada tutto per il verso giusto e alla grande.
Coglierò il momento per chiudere definitivamente con Matteo. Basta, non posso più tollerare il suo comportamento.
Sono alquanto incazzata in questo momento, non so se l’hai notato, quindi credo non mi farò sentire per qualche giorno. Ti scriverò quando sarà tutto risolto e io sarò finalmente libera da Matteo e felice.
 
Tua,
Ana
 
 
 
5 settembre 2014
 
Caro diario,
Sono sconvolta. Non voglio più uscire da questa stanza. Continuo ancora a tremare.
Ieri sera stavo tornando nella mia stanza. I miei sono andati a cena in un ristorante lì vicino. Io ero stanchissima e avevo deciso di non andarci. Indovina chi ho incrociato nel corridoio? Matteo. Mi sono avvicinata a lui e gli ho detto di smetterla, che non provo nulla per lui, che l’unica persona con cui voglio stare è Riccardo. La sua espressione è cambiata immediatamente. Il suo sguardo era diverso. Mi ha presa per le braccia con forza e ha detto che si era rotto di fare il bravo ragazzo, che gli piaccio e non voleva usare le maniere forti per farmi sua, ma che ora le avrebbe usate. Ho cercato di liberarmi dalla sua stretta, ma non ci sono riuscita. Ho provato a gridare, ma mi ha portato una mano sulla bocca e ha sussurrato: “Prova a fiatare e ti prendo a calci”. Mi ha spaventata a morte, così sono stata zitta. Siamo andati nella sua stanza. Ha chiuso a chiave. “Spogliati”, mi ha detto. Mi sono rifiutata. “Spogliati”, ha ripetuto. Ma non ho fatto nulla comunque. Allora mi ha preso per la vita, mi ha sbattuta al muro e ha detto lentamente, scandendo ogni singola parola: “Spogliati, o finirà molto male”. Mi sono sentita minacciata di nuovo, così ho tolto la maglietta e il jeans. Ero in intimo. Ma a lui non bastava. “Tutto”, ha detto. Allora ho tolto anche quello. Mi ha presa e buttata sul letto subito dopo, si è denudato velocemente, mi ha bloccata con la sua presa e mi è entrato dentro. Col passare dei minuti, il ritmo aumentava sempre di più, e io non potevo fare altro che sopportare. Prima dell’orgasmo, ha avvicinato le sue labbra al mio orecchio e ha detto “sei bellissima”. Così, gli ho sputato in un occhio. Ha ridacchiato, poi mi è venuto dentro. Non aveva il preservativo. Si è alzato. “Molto bene, sei stata bravissima. Ora, prova a dirlo a qualcuno, e te la faccio pagare”. Detto questo, mi ha ordinato di rivestirmi, e l’ho fatto. Subito dopo, sono uscita dalla sua camera. I segni sui polsi erano piuttosto evidenti, e dovevo trovare un modo di nasconderli. Sono scoppiata a piangere e sono tornata nella mia stanza. Ho continuato a singhiozzare fino ad addormentarmi. Quando mi sono svegliata pochi minuti fa, avevo le guance appiccicose per le lacrime. Comunque, i miei non si sono accorti di nulla. Mi sono posizionata sul letto in modo che non si notassero i polsi. Spero che i segni si tolgano. Intanto, credo metterò un po’ di correttore per far sì che non si notino. Ora però sono costretta ad uscire dalla stanza, devo scendere a fare colazione. So già che lo vedrò. E sorriderà, come sempre.
 
Tua,
Ana
 
 
 
13 settembre 2014
 
Caro diario,
Sono le 21:00 (ora Italiana) e io sono finalmente a casa. Credo di aver passato l’inferno, lì a New York. Matteo l’ha rifatto, altre due volte. Mi fa schifo, lo odio. Mi minaccia. Ho cercato di oppormi, ma mi ha schiaffeggiata. “Non farlo più”, ha detto, incazzato.
Non posso dirlo a Riccardo. Vorrà opporsi, mettersi contro di lui, e già so come andrà a finire. Devo subire in silenzio, sperando che prima o poi questa sua ossessione finisca.
Ho detto a Riccardo di essere stanca, che ci vedremo il primo giorno di scuola. Non sono stanca, sono incazzata, triste, vorrei fare qualcosa, dirlo ai miei, ma ora che siamo tornati non saranno quasi mai in casa per lavoro. Oltretutto, Matteo potrebbe prendersela a morte con me. Potrebbe fare cose brutte. Non voglio pensarci. Ci dormo su.
 
Tua,
Ana
 
 
 
15 settembre 2014
 
Caro diario,
Oggi mi sono svegliata più incazzata e depressa del solito. A scuola ho evitato Rick, non riuscivo nemmeno a guardarlo in faccia dopo tutto quello che era successo. Mi ha abbracciata nel cortile, e ho risposto piuttosto freddamente. Mi ha chiesto se stessi bene. Avrei voluto rispondergli di no, che era tutto una merda, ma ho mentito, dicendogli che ero solo stanca dopo la vacanza. Per uscire da quella situazione difficile, ho detto di avere un impegno a casa con mia madre. In realtà, lei non era nemmeno a casa. Arrivata, ho trovato Matteo seduto davanti il portone. Non capisco come abbia fatto ad arrivare così in fretta. “Allora, che dici, ci divertiamo?”. Ho provato a scansarlo, ma mi ha minacciata. “Se non mi fai entrare e non ti fai scopare, dico a tutta la scuola che a New York hai fatto la puttana e hai messo le corna al tuo bel ragazzo”, ha sussurrato. Così, come al solito, l’ho lasciato fare. Ormai non mi oppongo più, è inutile. Vincerà sempre lui.
 
Tua,
Ana
 
 
 
23 settembre 2014
 
Caro diario,
Sto dando il meglio di me stessa nel nascondere a Riccardo ciò che è successo a New York, e sembra che ci stia riuscendo. Comunque, da qualche giorno a questa parte sento di avere un po’ di nausea. Credo sia dovuta al caldo di questi giorni, soffro anche di pressione bassa. Sto prendendo degli integratori. Matteo non torna da me dal 13 settembre, e spero continui così. Magari le cose si sistemeranno, e tornerà tutto come prima. Magari dimenticherò tutto quello che è successo.
 
Tua,
Ana
 
 
 
27 settembre 2014
 
Caro diario,
Sono successe troppe cose. Non so nemmeno da dove cominciare. Posso dirle solo a te.
Innanzitutto, Matteo è tornato tre notti fa. I miei non erano in casa, come al solito lavoravano. Stavo messaggiando con Riccardo, ma lui ha preso il telefono, ha scritto un messaggio della buonanotte e si è buttato su di me. Quando ha finito, è andato via. Ho pianto ancora. Il giorno dopo, Rick mi ha quasi scoperta, dato che avevo dimenticato che Matteo gli avesse inviato quel messaggio. Sono stata anche piuttosto fredda, di nuovo. All’uscita, mi ha proposto di andare da lui a fare i compiti, poi saremmo andati al cinema e dopo usciti con tutti gli altri. Ho rifiutato, perché sapevo che sarebbe potuta venirmi la nausea, e si sarebbe preoccupato inutilmente. E no, non gli ho detto nemmeno degli abbassamenti di pressione. E poi avevo paura che Matteo si facesse vivo, dopo ciò che era successo la notte prima. Se non mi avesse trovata a casa sarebbe successo un casino. Ma proprio in quell’istante, non mi sono sentita bene. Riccardo, Mattia, Michele e Giorgia mi hanno accompagnata a casa e mi hanno fatta riprendere. Rick si è seduto dopo aver mandato via tutti, e ha iniziato a chiedermi cosa ci fosse che gli nascondessi. Proprio in quel momento, indovina chi è arrivato? MATTEO! Appena mi ha vista ha fatto una scenata ridicola, fingendo di provare qualcosa, accarezzandomi i capelli. Riccardo si è incazzato, e lui l’ha pestato a sangue. L’ho implorato di smetterla, e alla fine mi ha dato retta. Mi ha minacciato di non dirlo agli altri, che dovevo fingere che quello fosse stato un incidente e che era caduto per le scale. E così ho fatto. Hanno portato Riccardo in ospedale, ho detto ai medici che era stato un incidente, e mi hanno creduto, dato che era steso vicino la scalinata che portava al secondo piano. Quando gliel’ho detto, lui si è incazzato. Anche Mattia e Michele. Come dar loro torto. Ma Matteo mi minaccia, se lo dicessi a qualcuno quasi sicuramente mi picchierebbe. Comunque, alla fine se ne sono fatti una ragione. Per fortuna, dimetteranno Riccardo tra non molto, non ha riportato ferite gravissime.
 
Ti aggiornerò.
Ana
 
 
 
1 ottobre 2014
 
Caro diario,
La mia vita è un casino. Non riesco a smettere di piangere. Sono le 15:00, l’ora in cui la mia vita cambia definitivamente.
Ti racconto.
Innanzitutto, ieri Matteo era silenzioso ed alquanto incazzato. Forse era dovuto al fatto che Riccardo era tornato a scuola. Non sono stata molto bene, infatti Rick continuava a fissarmi, mentre ero assalita dai conati di vomito che ho cercato di nascondere come meglio potevo. Usciti da scuola, mi ha accompagnata a casa e mi ha dato appuntamento più tardi. Peccato che alle 19:00 si sia presentato lì Matteo. Ha fatto ciò che era solito fare, e poi, diversamente dalle altre volte, ha detto: “ora facciamo una doccia”. Ho dovuto assecondarlo. Appena usciti, hanno suonato al campanello. Erano le otto in punto. Ho pensato subito che potesse essere Riccardo (anche se con quaranta minuti d’anticipo), così ho guardato Matteo e l’ho implorato di non aprire, dicendogli che era sicuramente lui. Nel frattempo, hanno suonato al campanello una seconda volta. “Credo sia il momento che la nostra relazione diventi ufficiale, no?”. L’ho scongiurato, ma non mi ha dato ascolto. Matteo è andato ad aprire, e ha detto ad alta voce il messaggio della buonanotte inviato alcuni giorni fa a Riccardo. Sono corsa da lui e l’ho preso a pugni dietro la schiena, urlandogli che non avrebbe dovuto aprire. Lui è scoppiato a ridere, poi ha chiuso. “Senti come sclera”, diceva, mentre Riccardo tirava calci al portone. “Deve essere davvero molto dura per lui”. Poi, mi ha stretto il polso destro e ha detto a bassa voce: “Raccontagli tutto e ti farò venire lividi che non riuscirai a nascondere con un po’ di correttore”. Detto questo, è andato ad asciugarsi e vestirsi ed è andato via. Avrei voluto chiamare Riccardo, ma sono stata in silenzio a soffrire. Perché a me?
Ah, giusto, non ti ho detto ancora la cosa peggiore. Tralasciando il fatto che Riccardo mi ha ignorata, oggi ho fatto il test di gravidanza, ed è risultato positivo. Aspetto un bambino da Matteo. Come potrò dire una cosa del genere a Rick?!
Devo farmi forza.
Vado da lui.
 
Ti aggiornerò.
Ana
 
 
 
2 ottobre 2014
 
Caro diario,
L’ho perso. Ho perso Riccardo per sempre. Volevo dirglielo, vuotare il sacco, ma non mi sono sentita bene. Mi hanno portata in ospedale, hanno fatto controlli ed accertamenti, e hanno scoperto che sono incinta. Mi ero ripresa abbastanza dopo una quarantina di minuti, così sono uscita, ho guardato Riccardo negli occhi e gli ho detto di aspettare un figlio da Matteo. Si è guardato intorno, ha cominciato a piangere e ha gridato: “SEI UNA TRADITRICE DEL CAZZO! DIVERTITI CON QUELLO STRONZO!”, poi è scappato. Mi hanno mandata a casa. I miei non realizzano ancora. Non metabolizzeranno presto la cosa. A scuola si parlerà solo di me, della puttana che la dà via a chiunque e tradisce il suo ragazzo. Ma ho deciso di arrendermi. Che senso, poi, avrebbe dire ai miei genitori cosa ha fatto Matteo? Ormai sono incinta, e non posso fare niente per cambiarlo. Non credo nemmeno di voler uscire più di casa. Tanto, a chi fregherebbe? Il mio destino è segnato. La mia vita è rov merda, hanno suonato al campanello, e se è Matteo?! Cosa faccio? Che gli dico? So che ieri mi ha contattata più volte, ma ovviamente non ho risposto. Sta suonando con insistenza ora, so che è lui. Devo andare.
 
Tua,
Ana
 
 
 
3 ottobre 2014
 
Caro diario,
Questa è molto probabilmente l’ultima volta che ti scrivo, quindi ascoltami molto attentamente...

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Capitolo 6
*** Let her go ***


3 ottobre 2014
 
Caro diario,
Questa è molto probabilmente l’ultima volta che ti scrivo, quindi ascoltami molto attentamente.
 
 
Non riuscivo credere a quello che aveva appena detto Anastasia. Non volevo. Mi guardai intorno: diventò tutto sfocato a causa delle lacrime che iniziavano a scendere. Mi girai verso di lei, e con tutta la rabbia che avevo in corpo gridai: — SEI UNA TRADITRICE DEL CAZZO! DIVERTITI CON QUELLO STRONZO! — Detto questo, girai i tacchi e fuggii via, verso casa.
 
 
Ieri, come avevo previsto, era stato Matteo a suonare il campanello. Sono andata ad aprire, e l’ho trovato incazzato nero. “Mi dici dove cazzo sei stata?!” ha gridato.
 
 
Mia madre, che nel frattempo era tornata, notò che ero in lacrime e mi chiese, preoccupata: — Rick, cosa c’è che non va?
Dapprima esitai. Non avevo molta voglia di parlarne con lei, ma alla fine l’avrebbe scoperto nel giro di non molto tempo, tanto valeva dirglielo.
— Anastasia... — Sospirai. — Anastasia è incinta.
Sgranò gli occhi e si portò una mano al petto. — Come?!
— Non è mio il figlio, ma di un ragazzo della classe.
Tirò un sospiro di sollievo, poi realizzò cosa significasse il fatto che fosse di qualcun altro. — Ti tradiva con un altro ragazzo?! Ed ora è incinta di lui?
— Già.
Rimase senza parole. Quella notizia l’aveva turbata non poco. Poi, disse dolcemente: — Vieni qui, fatti abbracciare.
Fu un abbraccio molto lungo, in cui, per la prima volta, sentii tutto l’affetto e l’amore che mia madre provava per me. Mi fece sentire meglio in un momento in cui credevo che niente mi avrebbe risollevato di un minimo il morale.
— Andrà tutto bene — ripeteva, dandomi delle pacche sulla spalla. — Se hai bisogno, io ci sono, lo sai.
Sorrisi debolmente. — Grazie, mamma.
Detto questo, mi diressi nella mia camera e telefonai Mattia. Dopo quattro squilli interminabili, rispose.
— Hey, Rick!
— Hey, puoi venire a casa? Sono successe delle cose, e ho bisogno di parlartene.
— Fammi indovinare: riguardano Anastasia.
Singhiozzai. — Sì.
— Va bene, arrivo subito, dammi una ventina di minuti. Non ti muovere.
— Okay.
Riattaccai. Mi sdraiai e abbracciai il cuscino, attendendo il suo arrivo.
 
 
Gli ho detto che sono stata in ospedale, e ha voluto sapere perché. Dopo alcuni giri di parole, mi sono fatta forza e gli ho detto tutto. Sa che sono incinta, e sa che il figlio è suo.
 
 
Erano passati esattamente venti minuti quando sentii il campanello di casa suonare. Mia madre andò ad aprire, e disse qualcosa a Mattia, ma non capii esattamente cosa. Probabilmente gli aveva detto che in quel momento ero particolarmente incazzato e fragile e che avevo bisogno di essere consolato.
Pochi secondi dopo, venne in camera.
— Hey!
— Hey.
Si sedette sul bordo del letto e, poco dopo, esclamò: — Amico, sei ridotto davvero male! Cos’è successo?
— Un casino, ecco cosa — risposi, triste.
— Rick. — Mattia si fece serio all’improvviso.
— Anastasia è incinta — dissi, tutto d’un fiato.
Scattò in piedi. — EH?! Dio, il mio cuore ha appena perso un battito! — Rifletté per qualche secondo, poi continuò: — Aspetta, non mi dire che il bambino...
— Sì, è di Matteo.
Si portò le mani sulla testa. — Cazzo. Che casino. Rick, mi dispiace davvero tanto... — Mi abbracciò.
— Senti, scusa se oggi sono stato scontroso con tutti, soprattutto con te — dissi, mentre mi stringeva a sé. — Mi hai salvato da una situazione difficile, e ti ho ringraziato facendo lo stronzo. Non te lo meriti. Sei il migliore amico che io possa desiderare, sul serio.
Si staccò dall’abbraccio e rispose:— Ma no, dopo tutto ciò che è successo è comprensibile, non devi preoccuparti. Anzi, perché invece di startene qui a deprimerti non esci a fare un giro?
Sorrisi malinconicamente. — Mi piacerebbe tanto, ma oggi preferisco stare a casa a pensare. Magari domani.
— Ci conto, eh!
Mattia restò per qualche ora a casa. Parlammo del più e del meno, di cosa pensavo di fare, di Anastasia e Matteo e cose così.
Erano le 20:00 quando se ne andò.
Rimasi sdraiato sul letto, a fissare il soffitto. La verità era che non sapevo cosa fare, come comportarmi, come uscire da quella situazione difficile.
Tormentato dai pensieri, mi addormentai, saltando la cena.
 
 
Diversamente da quanto mi aspettassi, è scoppiato a ridere, e ha detto che ora sono vincolata per sempre a lui. Si è avvicinato e mi ha abbracciata. “Staremo per sempre insieme, adesso” ha detto.
 
 
La mattina dopo, non avevo nessuna voglia di andare a scuola, ma mi feci forza e mi alzai dal letto.
Anastasia non si presentò: prevedibile. Neanche Matteo, però, e pensai che magari aveva saputo ed era sconvolto. Chissà qual era stata la sua reazione, se l’aveva lasciata, o se semplicemente aveva esultato e se la stavano spassando alla grande per festeggiare.
Comunque, fu una giornata scolastica piuttosto noiosa, e non vedevo l’ora che arrivassero le 13:00.
 
 
L’ho respinto, e gli ho detto che non staremo mai insieme, che lo odio, che mi fa schifo. “Sei proprio testarda, eh? Magari una bella lezione ti aiuterà a capire meglio” ha detto.
 
 
Arrivato a casa, diedi un bacio sulla guancia a mia madre. Quando mi chiese cosa volevo a pranzo, risposi di non avere molta fame.
— Ma Rick, hai già saltato ieri la cena, e oggi non hai nemmeno fatto colazione. Di questo passo ti sentirai male — rispose, preoccupata.
— Mamma, tranquilla, è solo che il cibo mi fa un po’ schifo ultimamente, sai com’è.
Andai in camera mia, feci i pochi compiti per il giorno seguente e guardai serie tv in streaming per distrarmi.
Erano le cinque e mezza quando il telefono squillò.
— Allora, Rick, stasera esci? — domandò Mattia.
Ad essere sincero, non mi andava tanto a genio l’idea. Avrei preferito restare a casa a vedere Teen Wolf, ma glielo avevo promesso.
— Ehm, okay. A che ora?
— Alle otto e mezza veniamo a casa tua.
— Perfetto, a più tardi allora.
— Ah, Rick...
— Cosa?
— Ti raccomando, non suicidarti nel frattempo, o giuro che ti faccio resuscitare solo per ucciderti con le mie mani! — esclamò.
Scoppiai a ridere. — Okay, okay, non lo farò.
— Bravo, così ti voglio! A dopo!
Riattaccò.
 
 
A differenza delle altre volte, in cui mi schiaffeggiava, stavolta mi ha sul serio picchiata. Mi ha fatto davvero male. Ho lividi su, più o meno, tutto il corpo, ma ha strategicamente evitato la pancia e i dintorni. Ha detto che è per il mio bene, che è meglio se impari da subito come funziona, che devo capire che lui mi ama e io non devo oppormi per nessuna ragione. Dopo essersi sfogato, se n’è andato. I miei erano fuori per lavoro, stanotte, quindi ho avuto tutto il tempo di piangere e ripensare a quanto tutta questa situazione sia sbagliata. Fino a quando ho avuto una specie di illuminazione.
 
 
Dopo aver passato il pomeriggio a recuperare Teen Wolf, andai a prepararmi per uscire. Non feci altro che ripensare ad Anastasia, e a ciò che mi aveva fatto, al suo folle ed inspiegabile amore per Matteo. Diceva di odiarlo, ma in realtà era tutta una presa per il culo. Chissà quando avrei realizzato.
Alle otto e mezza in punto, Mattia e Michele vennero a casa.
— Allora, come stai? — chiese il primo.
— Potrebbe andare molto meglio, lo sai — risposi.
— Dai, vieni — disse il secondo.
Ci incamminammo verso le vie principali. Fu un giro molto lungo, quello che facemmo, e senza accorgercene ci ritrovammo nei pressi della scuola.
— Ragazzi, sapete in che direzione stiamo andando, vero? — chiesi.
 
 
Non dovrò passare tutta la vita vincolata a lui. Non sono costretta a farlo. Non voglio vivere una vita di minacce e violenza, una vita che non voglio.
 
 
— Certo, stiamo per passare davanti la casa della tua ex ragazza che ti ha tradito col ragazzo che odi, e allora? — chiese Michele. Poi, aggiunse: — Il miglior modo di superare questa situazione è accettare il fatto che Anastasia ti ha fatto del male e tradito ed andare avanti, così ogni volta che la incrocerai o ti ritroverai a passare per casa sua proverai indifferenza totale. Hai presente la mia ex, no? Ricordi cosa ha fatto? Mi ha tradito col mio allora migliore amico, Marco. E devo dire che è stato davvero un colpo basso. Un anno di relazione mandata totalmente a puttane. Ma, ripensandoci, meglio: ho perso una persona che non mi meritava, perché sì, credo di meritare molto più di questo. E anche tu, Rick. — Mi diede delle pacche sulla spalla. — Puoi superarlo.
Sorrisi debolmente. — Grazie, Michele.
 
 
Grazie, diario, per aver ascoltato tutto ciò che avevo da dire sulla mia vita. Grazie per essermi stato sempre accanto.
 
 
Pochi minuti dopo, ci ritrovammo a passare per casa di Anastasia.
— Night club a ore nove — disse Mattia.
 
 
E Rick, amore mio, anche se non leggerai mai ciò, sappi che sei un ragazzo fantastico.
 
 
Sputai a terra, disgustato.
— Troia.
 
 
Addio.
Ana
 
 
E fu in quel momento che Anastasia si spiaccicò a terra, davanti ai miei occhi.

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Capitolo 7
*** Burn the pages ***


“L’hai voluto tu. Se non mi avessi tradito con quel puttaniere, se fossi stata sincera, se ti fossi presa le tue responsabilità, oggi non saresti sdraiata in una tomba, e i tuoi parenti non starebbero piangendo la tua perdita. Ma ovviamente, era tutto troppo difficile per te da digerire, vero? Mi chiedo se hai mai pensato a me, mentre facevi la zoccola con quello lì, ma non credo. Alla fine sapevi ciò che stavi facendo, e quando l’ho scoperto è sta una pugnalata dritta al cuore. Hai fatto una cosa imperdonabile, per la quale ti odierò per sempre. Non capisco come possa averti anche solo attraversato la mente l’idea di potermi fare questo. Ma soprattutto, ricorda che suicidandoti sei stata non egoista, di più. Ti sei arresa di fronte al primo problema. Hai ucciso anche tuo figlio, che non c’entrava un cazzo con tutta questa storia. Credevi forse che, facendola finita, i sensi di colpa ti avrebbero abbandonata? Sarebbe stato davvero troppo facile: se esistesse l’inferno, tu ci staresti bruciando dentro. E quanto godo pensandoci. Perché, sai, una persona come te non meritava amore, nemmeno un briciolo, ma solo sofferenza. Tutto quello che è successo nell’ultima settimana mi ha aperto gli occhi. Finalmente, libero da te e dalle tue bugie, potrò vivere meglio. Ti auguro di riposare nella minor pace possibile. Divertiti a succhiare il cazzo anche a Satana.”
 
Ripiegai il foglio e lo lanciai verso il cestino, centrandolo.
— Hai davvero letto questa cosa davanti alla sua tomba? — domandò Mattia.
— Certo. Ci ho anche sputato sopra.
— Rick, non ti sembra di stare esagerando? Alla fine, tu ed Anastasia siete stati insieme per quasi cinque mesi. Non puoi aver cancellato tutto nel giro di una settimana. Tu la amavi, e sono sicuro che ancora adesso provi qualcosa per lei, ma la rabbia ti sta accecando.
— Quanto tempo ci ha messo lei a cancellare quello che avevamo quando ha deciso di darla a Matteo?
Rimase a bocca aperta. — Questo non sei tu...
— E CHI SAREI IO?! — gridai.
— Di certo non la persona che stai mostrando! Sei freddo, scontroso, nelle tue parole percepisco la cattiveria. Sembra quasi che tu stia cercando di soffocare le emozioni. Pensi che questo basti? Pensi che le emozioni abbiano un interruttore, che puoi accendere e spegnere a tuo piacimento? Riccardo, Anastasia è morta! Morta! Come puoi provare tanta freddezza davanti alla sua tomba?!
— Posso tollerare tutto, Mattia, ma non un tradimento che è sfociato in una gravidanza. Ma hai per caso idea di quello che ha combinato?! A lei piaceva solo Matteo, ma per non far soffrire me, il povero cane bastonato, non ha detto mai niente e ha preferito convivere con questa bugia. Ma il karma ha fatto il suo dovere, come vedi. Anche da viva, mi avevate detto di doverla trattare con indifferenza e di ignorarla, come se fosse morta. Ora che lo è per davvero, dove sta la differenza? Tanto non sarebbe cambiato niente, lo vuoi capire sì o no?!
Abbassò la testa e fissò le mattonelle scure di casa sua. In quel momento, ci trovavamo al secondo dei tre piani. Non erano molto grandi, presi singolarmente, ma c’era ciò che serviva in ognuno di essi.
Pochi minuti prima stavamo giocando a GTA 5, poi Mattia aveva messo in pausa e con fare serio aveva detto che dovevamo finirla col far finta di niente e che dal funerale (al quale non mi ero neanche presentato) non parlavo più di Anastasia. Così, ci ritrovammo a parlare di lei e gli dissi che ero stato al cimitero la sera prima, da solo, e volle subito sapere cosa avessi detto. A giudicare dalla sua reazione, non ciò che si aspettava. Credeva davvero che avrei fatto un discorso strappalacrime, dove esprimevo tutto il mio amore e la mia sofferenza? Che mi sarei inginocchiato piangendo e chiedendomi perché si fosse uccisa? La risposta già la sapevo: pensare di essere una persona di merda era troppo per lei, così aveva deciso di porre fine alle sue “sofferenze”. Già, facendo soffrire tutti quelli intorno a lei. Pensavo che, dopo il tradimento, non avrebbe potuto fare nulla di peggiore, e invece l’aveva fatto.
Dopo qualche secondo, Mattia rispose: — Come vuoi. Ma credo che prima o poi te ne pentirai. Vuoterai il sacco, dirai che quello che stai facendo ora è una cazzata.
— Fino a quel momento, lasciami fare — risposi.
Riprendemmo a giocare, ma dopo una decina di minuti i sensi di colpa mi pervasero. In fondo, Anastasia mi aveva fatto del male, ma Mattia? Cosa c’entrava lui? Mi era sempre stato vicino ed io, come al solito, continuavo a comportarmi male. Stoppai la partita, posai il joystick sul divano e lo abbracciai. — Scusa — dissi.
— Non ti preoccupare, è normale — rispose.
— No, non è normale. Come al solito, ci rimetti tu per il mio carattere. Rovescio sugli altri tutto il mio odio represso, e questa cosa deve finire, perché ti voglio bene, Mattia, e vorrei solo dimostrartelo, invece di fare così.
Non rispose. Si limitò ad accarezzarmi i capelli e a tenermi tra le sue braccia.
Passarono alcuni minuti, quando replicò: — Riccardo, pensi di essere  una persona di merda, ma non lo sei. Sei il mio migliore amico, ti voglio bene sia per i tuoi pregi che per i tuoi difetti, non dimenticarlo mai.
— Oh oh, così mi fai arrossire! — esclamai.
— Tanto sei già rosso — rispose.
— Cavolo! — Mi coprii il volto con le mani.
— Stavo scherzando! — Scoppiò a ridere.
— Ma sei un bastardo! — Mi misi a ridere anch’io.
Stetti molto bene, in quel momento. Dimenticai tutte le cose accadute in quell’ultimo periodo. Mattia era davvero un ragazzo d’oro.
— Se fossi gay ti scoperei violentemente, lo sai? — dissi.
Scoppiò a ridere di nuovo. — Non dire cavolate, se lo diventi giuro che ti disconosco e non ti parlo più.
— Tranquillo, tranquillo, non lo sono, e non lo diventerò.
— Ecco, bravo — continuò, tra le risate.
 
Quella notte, dato che i suoi genitori non erano in casa per lavoro, dormii lì.
La mattina dopo, a scuola, Matteo sembrava essersi un po’ ripreso. La morte di Anastasia l’aveva piuttosto scosso, difatti nei giorni precedenti era stato molto silenzioso. Meritava di soffrire come un cane e di pentirsi delle sue azioni.
Alla fine, l’unico che sembrava essere uscito indenne da quella situazione sin da subito ero io. La gente mi guardava storto perché, seppur la notizia del tradimento e della gravidanza avesse fatto il giro della scuola, mi pensavano quantomeno triste per la sua perdita. Ma nemmeno quello.
Giorgia mi stava evitando sia a ricreazione che all’uscita, in quei giorni. Per quanto mi stesse antipatica, però, tirai un sospiro e mi avvicinai a lei.
— Hey, senti... — cominciai.
— Non rivolgermi la parola! — gridò.
Tutti quelli presenti nel corridoio si voltarono a guardarci.
Dopo un attimo di esitazione, continuò. — La tua ragazza è morta e tu fai finta di niente, sei felice! Ma guardati! Deve essere di sicuro colpa di Satana, che ha approfittato della tua tristezza e depressione per insinuarsi nella tua mente! Sei diventato irriconoscibile! — Cominciò a piangere.
Sentii delle risatine provenire dalla folla che si era creata intorno a noi.
— Volevo chiarire con te questa situazione, ma a quanto pare non vuoi saperne, quindi cazzi tuoi. — Feci per girarmi ed andare in classe, ma aggiunsi: — Ah, comunque, l’unica posseduta da Satana che ora sta bruciando tra le fiamme dell’inferno era quella zoccola della tua ex migliore amica. Se magari l’avessi benedetta con l’acqua santa prima della vacanza a New York, la sua anima pura non avrebbe mai accettato di farsi ingravidare da un coglione patentato.
Rimase a bocca aperta. Come lei, tutti gli altri che stavano seguendo la lite.
 

In quel momento fui interrotto dal suono del campanello. Guardai un’ultima volta Anastasia, sospirai e mi diressi verso il portone.
Quando lo aprii, sgranai gli occhi.
— E tu che cazzo ci fai qui?
 

Poi, dal nulla, uscì Matteo.
 

Mi voltai lentamente verso Anastasia.
— Mi spieghi cosa significa tutto questo?
— Togliti dal cazzo! — Matteo mi spintonò, poi corse da lei ed iniziò ad accarezzarle i capelli. — Non ero ancora uscito di scuola quando non ti sei sentita bene, appena l’ho saputo sono corso qui da te. Come stai? Tutto okay?
La sua noncuranza riguardo il fatto che Anastasia stesse con me era a dir poco disarmante. 


— Hey, cazzone! — gridò. — Stavolta ti sei messo in una brutta, bruttissima situazione!
Corse verso di me, ma fui più veloce e mi scansai in tempo. Sentivo di essere più sicuro di me stesso, di poter affrontarlo.
 

— Breaking news: sono il suo ragazzo! Staccati immediatamente da lei o giuro che...
 

Mi fissava, con gli occhi iniettati di sangue. — Prova a parlare di lei così un’altra volta e giuro che...
 

Matteo si avvicinò a me, lentamente, fino a quando il suo viso si trovò a un centimetro dal mio. Sentivo perfettamente il suo respiro, che col passare dei secondi si faceva sempre più intenso. Poi disse, scandendo con precisione le parole: — Oppure cosa mi fai?
 

Mi avvicinai lentamente a lui, fino a quando i nostri volti si trovarono vicinissimi l’uno all’altro.
— O giuri che cosa?
 

Vidi Anastasia con la coda dell'occhio: stava scuotendo la testa freneticamente. Era spaventata da quello che avrebbe potuto farmi Matteo, ma io non lo ero: non doveva nemmeno avvicinarsi a lei. Perché l'aveva fatto?
 

Mattia, nel frattempo, si era accorto del casino e si era districato tra la folla, fino ad arrivare in prima fila. Lo vidi scuotere la testa: aveva paura che mi mettessi, come l’ultima volta, in una situazione pericolosa. Non sarebbe riuscito a sopportare un altro pestaggio.

 
Arrossii per la rabbia. Strinsi i pugni, mi avvicinai ancora di più a lui e a denti stretti risposi: — O giuro che ti prendo a pugni fino a farti sanguinare.
 

Matteo strinse i pugni, e rispose: — O giuro che la mia sarà l’ultima faccia che vedrai.
 

Inizialmente credevo di averlo colto di sorpresa: non ero solito affrontare qualcuno, e lui aveva un fisico palestrato ed era qualche centimetro più alto di me. Ma, diversamente da quanto mi aspettassi, scoppiò in una fragorosa risata. Si allontanò e continuò a ridere per qualche secondo. Poi, si fece serio all'improvviso.


Non mi spaventarono per niente le sue minacce. Credeva davvero che, dopo avermi picchiato, fossi diventato uno con la coda tra le gambe? Su di me stava accadendo l’effetto contrario.
 

— Ma vaffanculo.


E con tutta la forza che avevo, gli mollai un pugno dritto in faccia.

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Capitolo 8
*** Turning tables ***


I miei genitori si affacciarono all’ingresso della stanza, preoccupati.
— Tutto bene?
— Sì, mamma — risposi.
Tornarono fuori dalla stanza.
Mattia mi fissò, incredulo. — Ma perché non glielo hai detto?!
— Ci ho riflettuto, e ho deciso che gliela farò pagare io.
Michele mi indicò dalla testa ai piedi, e rispose: — Ne sono sicuro. Lo pesterai a sangue, guarda.
 
Matteo cadde a terra. Si portò le mani al volto e cominciò  a lamentarsi per il dolore. Sanguinava.
Cominciarono tutti a gridare, ma non mi interessava. Volevo ammazzarlo di botte. Mi avvicinai di più a lui e feci per tirargli un calcio, quando sentii delle grida: — MAGNINI, FERMATI!
La prof di lettere si fece strada tra la folla e mi bloccò prima che potessi continuare a picchiare Matteo.
— Ora vieni in presidenza con me. Anche tu, Pastori — disse, dura. Poi si voltò verso tutti gli altri. — E VOI COSA AVETE DA GUARDARE?! IN CLASSE!
— Te la farò pagare, lo giuro — sussurrò Matteo.
 
— In conclusione, la preside ha solo convocato i nostri genitori. Non siamo stati sospesi, solo ammoniti con una nota sul registro di classe — dissi.
— Per miracolo, direi! — esclamò Mattia.
— Vorresti lamentarti, per caso? Non eri stato tu stesso a dire che gliel’avremmo fatta pagare?
— Ci sono modi e modi, Rick! Ripagandolo con la stessa moneta non hai ottenuto niente! Forse ora sei felice di avergli tirato un pugno e di averlo fatto sanguinare, ma ciò non lo farà cambiare! Serviva qualcosa che l’avrebbe fatto calmare, e invece l’hai fatto agitare ancora di più così facendo! Non dovevi reagire e basta.
— Mi sono stancato di non reagire, Mattia. Ho già subito troppi tradimenti e bugie, sono passato per lo stupido della situazione più e più volte. Credo sia il momento di cambiare le carte in tavola. — Presi lo zaino e mi alzai. — Comunque, è stata una giornata movimentata ed ora preferirei riposare. Grazie per avermi aiutato con matematica. Ci vediamo domani a scuola.
— Okay, a domani — rispose, con tono malinconico.
 
I giorni passarono piuttosto in fretta. Nel giro di due settimane, avevano dimenticato tutti la faccenda di Anastasia, quindi era tornato tutto alla normalità, più o meno. Io, Mattia e Michele avevamo raggiunto più o meno le stesse medie, a scuola, considerato che a giorni alterni ci aiutavamo a vicenda. Matteo mi evitava, non mi sfidava più, ma continuava a fare l’idiota col suo gruppetto. Giorgia, invece, mi considerava praticamente morto dal giorno in cui avevamo litigato nel corridoio. In ogni caso, di lei non c’era più nessuna traccia: da un po’ di giorni a quella parte sembrava scomparsa nel nulla, e ci chiedevamo un po’ tutti dove fosse. Nessuno aveva sue notizie, anche perché Anastasia era l’unica amica che aveva. Chissà se si era ripresa. In fondo, provavo pena per lei. Di sicuro, non stava passando un periodo roseo, e forse ero stato davvero troppo duro con lei. Ma, avendomi accusato di essere posseduto, tutto quello che potevo fare era difendermi adeguatamente.
Tutto questo fino a quando accadde l’impensabile.
Era il ventitré ottobre, quando tornò a scuola. Ci voltammo tutti a guardarla, sbalorditi, mentre attraversava il cancello ed entrava nel cortile. Non sembrava nemmeno lei.
Giorgia era solita indossare jeans a zampa di elefante e maglie piuttosto vecchie, aveva i capelli neri, ricci ed il più delle volte sporchi e non si truccava praticamente mai. Insomma, era il tipo di ragazza che non prestava particolare attenzione alla cura del proprio corpo.
Eppure, quel giorno era totalmente diversa: i suoi capelli erano lisci, e le arrivavano poco più in basso delle spalle. Inoltre, li aveva tinti di rosso mogano. Aveva indosso una maglia dei Bring Me The Horizon, pantaloni neri aderenti e scarpe altrettanto nere e basse. E, come se non bastasse, aveva il rossetto nero e il fondotinta piuttosto chiaro. Sembrava totalmente sicura di sé, mentre oltrepassava la gente.
Michele si voltò a guardarmi, sbigottito. Poi, sussurrò: — Ma non ascoltava Giusy Ferreri?
— Anche Arisa — aggiunse Mattia.
Alzai gli occhi al cielo. — Ragazzi, ma vi sembra il momento? Una santarellina si è convertita e voi pensate alla musica che ascoltava prima di diventare...  — Pensai ad un aggettivo adatto, ma non mi venne in mente niente, così conclusi: — ... così?
— Beh... — iniziò Michele.
— Avete qualcosa da dire, per caso?
Giorgia ci stava fissando, scocciata.
— No, niente — rispose Mattia. Deglutì.
Poi, posò lo sguardo unicamente su di me. Mi accorsi che ci stavano osservando tutti. C’era un silenzio tombale.
— Sai, devo ringraziarti. Se non fosse stato per ciò che hai detto qualche giorno fa nel corridoio, non avrei mai aperto gli occhi. Ci ho riflettuto bene, e ho capito che erano solo cazzate, quelle che dicevo. Ho dedicato ogni cosa a una presunta entità divina, ma mi ha ripagato col suicidio della mia migliore amica e come se non bastasse con la derisione da parte di tutta la scuola nei miei confronti. Sono giunta alla conclusione che non c’è nessuno al di sopra di noi. Sinceramente, sto molto meglio ora. Ah e comunque, vedi di far scoppiare quell’enorme brufolo che hai in faccia, ti rende ancora più brutto di quanto tu non sia già.
Sentii gli altri ragazzi nel cortile ridacchiare.
La campanella suonò. Ci squadrò dalla testa ai piedi un’ultima volta, poi disse: — Statemi bene.
Girò i tacchi e si avviò verso l’entrata.
Quando fu abbastanza lontana, dissi: — Ragazzi, ma che cazzo le è preso?
— Io dico: finalmente! — esclamò Mattia.
Io e Michele lo fulminammo con lo sguardo.
— Che c’è? Mi faceva paura vederla girare con i crocifissi per la scuola! Almeno ora il suo quoziente intellettivo è salito di un centinaio di punti.
— E la stronzaggine di cinquecento — aggiunsi.
— Dai, entriamo, altrimenti si fa tardi — ci esortò Michele.
 
La stessa storia si ripeté nei giorni a seguire.
Nessuno si era ancora abituato all’idea che Giorgia fosse cambiata così drasticamente e, soprattutto, all’improvviso. Beh, tranne il suo nuovo gruppo di amiche. Poteva anche aver aperto gli occhi sul fatto che fosse eccessivamente bigotta, ma non si accorgeva che ora tutti la consideravano solo perché era cambiata e in questo modo non facevano brutta figura ad andare in giro con una mezza pazza con l’olio extravergine d’oliva nei capelli.
Comunque, a nessuno importò più dello “scandalo” solo quando Halloween era ormai alle porte, ma solo perché, per l’appunto, era Halloween, e ciò valeva a dire Ballo dei Licei, quindi tanto alcol. Negli anni precedenti non ero voluto andare a nessun ballo, ma Mattia mi aveva obbligato e così avevamo comprato i biglietti. Si sarebbe tenuto in un palazzetto vicino la scuola, che al piano terra era munito di una sala enorme apposita per occasioni di quel tipo, ma anche un giardino enorme.
— MA RIESCI A CREDERCI?! Sarà uno sballo! — continuava a ripetere, mentre stavamo tornando a casa dopo cinque lunghe ore di scuola. — Ci sarà tanto, tanto alcol, ma soprattutto, potrò rimorchiare!
— A proposito, che fine ha fatto poi quella poveretta con cui ti sentivi? — domandai.
— Che fine doveva fare? Te l’avevo detto io che mi avrebbe lasciato come un pesce lesso, e così è stato.
— Tranquillo, ti rifarai alla festa. In fondo, sei un ragazzo davvero carino. — Ammiccai con lo sguardo, ironicamente.
— Hey! — Mattia scoppiò a ridere. — Quando fai il frocetto  mi fai morire, ma smettila, ancora poi lo diventi sul serio. Piuttosto, pensa a cosa mettere al ballo, perché non sarò di certo l’unico che proverà a rimorchiare!
— Ehm, non so se...
Mi interruppe a metà frase. — Senti, Anastasia era Anastasia. E, pace all’anima sua, era una gran troia. Ma non sono mica tutte come lei! E comunque, non serve conoscere il carattere di una per limonarla, quindi fai meno il filosofo e vedi come ti vengono dietro!
 
Inutile dirlo, Mattia mi accompagnò in ogni singola tappa della scelta del completo per il ballo. Sostanzialmente, era un abbinamento sportivo: Vans nere, pantaloni stretti, altrettanto neri e con le bretelle, una camicia interamente bianca e un papillon nero a pois bianchi. Il tutto contrastava non poco coi miei capelli chiari, ma era un bell’effetto, in fin dei conti. “Niente male” pensai, quando provai tutto. Non me lo dicevo da quando avevo scoperto del tradimento di Anastasia: Matteo era indubbiamente migliore di me, fisicamente parlando, e ciò giocava fortemente a suo favore, e mi aveva drasticamente leso l’autostima sapere che lei lo preferisse a me.
Mattia, comunque, aveva puntato sull’elegante: scarpe di cuoio nere e uno smoking dello stesso colore. Insolito, per uno come lui, ma gli garbava.
Si esaltava ogni giorno di più, ma io probabilmente ero l’unico a trovare un evento del genere non troppo rilevante. Insomma, ci si ubriacava, si limonava, fine. E quindi? Il divertimento, per me, era uscire, o passare serate a casa con gli amici, a giocare a giochi da tavolo e a mangiar pizza. Alla fine, però, la trovavo comunque una cosa passabile, era la mia prima volta ad un evento simile ed ero un po’ eccitato anch’io.
 
Il countdown che Mattia aveva scaricato sul suo cellulare segnava che mancavano poche ore al ballo (sì, mi aveva inviato uno screen su whatsapp e aveva aggiunto “SBRIGATI, NON VORRAI FARE TARDI”) quando decisi di andare a prepararmi.
In fondo, tutta la sua positività mi faceva pensare che magari quella sera sarebbe successo qualcosa che avrebbe cambiato la mia vita.
“Poche palle, Rick” pensai. “Queste cose succedono solo nei telefilm, e ne guardi decisamente troppi. Vai a vestirti, ora, se no sai dove ti manda Mattia”.
 
Alle 23:00 in punto, sentii il campanello suonare. Mi diressi verso il portone per aprire, e trovai i miei genitori seduti sul divano. Si alzarono all’improvviso e mi si avvicinarono.
— Rick, ti raccomando, attento a... — cominciò mio padre.
— E dai, tra pochi mesi compio diciassette anni! Non credo di aver bisogno di questi avvertimenti.
— Sì, lo sappiamo, ma tieni gli occhi aperti, potrebbero metterti delle cose nei drink!
— Mamma, non sono stupido, non-
— Non accettare caramelle da nessuno!
— Sì, okay, ho capi-
— Se qualcuno ti chiama, non andare da lui!
— Mi sembra ovv-
— Non ubriacarti, altrimenti ti caccio di casa!
— Papà, sai che non sono solito be-
— Mandaci messaggi ogni ora, così sapremo che stai bene!
— Certo, vedrò di-
— Oddio, ma guarda il papillon! Devi aggiustarlo!
— Mamma, è volutamente leggermente inclina-
— Oh, così va bene!
Suonarono di nuovo. Mattia doveva star bestemmiando, dall’altra parte.
— Sentite, devo andare — dissi. — Mattia e Michele mi aspettano.
— Okay, ma ti raccomando, facci sapere quando arrivi, per che ora torni, cosa fai e soprattutto se sei brillo o ubriaco! — esclamò mio padre.
Alzai gli occhi al cielo, uscii e chiusi la porta alle mie spalle.
— FINALMENTE TI SEI DECISO AD APRIRE! — esordì.
— Scusate, ma i miei genito-
— MA QUALI SCUSE! MA LO SAI CHE ORE SONO?!
— Sì, sono le-
— SONO LE UNDICI E TRE MINUTI! FAREMO RITARDO!
— Mattia, guarda che la festa comincia a mezzano-
— DOBBIAMO ESSERE I PRIMI!
— MA CHE CAZZO, POSSO FINIRE UNA FRASE UNA VOLTA TAN-
— NO! SBRIGHIAMOCI!
 
Erano le 23:40 quando arrivammo al ballo. Come pensavo, era deserto. C’erano solo il deejay ed altri membri dello staff, dentro. Si sentivano le prove per constatare se le casse e tutte quelle cose lì fossero a norma.
Mandai un messaggio ai miei, genitori, per evitare che telefonassero il 113.
— Molto bene, siamo i primi! — esclamò Mattia.
— Io non me ne vanterei molto, dato che inizia tra venti minuti e non c’è nessuno a parte noi — replicò Michele.
Non avevo fatto caso a come si era vestito lui, poiché per tutto il tragitto mi ero sorbito Mattia che pregava che non fosse arrivato qualcuno prima di noi: indossava uno smoking blu, e gli stava davvero bene.
— Ma è una cosa fantastica essere i primi! Vedremo questo luogo affollarsi pian piano, fino a riempirsi! Ah, e vi ho già detto che saremo gli ultimi ad andarcene? No? Bene, SAREMO GLI ULTIMI AD ANDARCENE!
— Certo che tu sarai anche un imbecille, ma i tuoi amici non sono da meno! — disse qualcuno dietro di noi.
Ci voltammo.
— E tu saresti? — domandai.
— Ma come, ti sei già dimenticato di me? Ti illumino: sono il tizio che ti ha salvato il culo quando eri disteso a terra a dormire come un ghiro in un parchetto che non si incula praticamente nessuno, solo perché passo di lì ogni maledetta sera per andare a casa! E mi ripaghi dimenticandomi?
Aggrottai la fronte, poi mi tornò alla mente quella notte. Sembrava essere passata un’eternità.
— Aspetta, sei Francesco, giusto?
— Già, e tu sei un imbecille.

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Capitolo 9
*** Forever Halloween ***


Francesco doveva essere alto più o meno un metro e ottantacinque. Aveva i capelli neri come la pece, occhi tanto scuri da non riuscire a distinguere le pupille, naso alla francese, orecchie piccole, guance leggermente rosse e labbra rosso acceso e sottili. Indossava una camicia bianca, trasparente, a maniche lunghe e su misura, che metteva in risalto pettorali ed addominali, dei pantaloni blu notte aderenti e delle Converse All Star basse e bianche.
— Scusami, sul serio, è quella notte ero assonnato ed erano successe delle cose. Il mio ultimo pensiero era guardarti attentamente — risposi.
— Ma la conosci la parola “ironia”? — domandò. — Ti farò fare dei corsi di potenziamento, per quella.
Michele e Mattia non stavano capendo molto della situazione, si scambiavano degli sguardi e me ne ero accorto. Tuttavia, continuai a parlare, visto che non era ancora arrivato nessuno.
— Come hai fatto a riconoscermi subito? Insomma, è passato più di un mese da quella notte, io l’avevo totalmente cancellata dalla mente.
— Un bel faccino come il tuo non si dimentica — rispose. Accennò un sorriso.
— Oh, ehm... — Mi grattai la testa. Lo facevo ogni volta che ero imbarazzato, o che comunque mi trovavo in una situazione scomoda. Infatti, non sapevo cosa rispondere.
Per fortuna, il chiasso improvviso che si venne a creare a causa dell’arrivo di diverse auto e persone mi salvò dal rispondere a quel complimento, quindi feci per salutarlo, ma Mattia mi interruppe.
— Senti, è stato un piacere, ma noi entriamo dentro. — Mi prese per un braccio e mi trascinò verso la sala, che in quel momento si stava illuminando di più colori. Il ballo stava ormai per cominciare.
Mentre camminavamo, Mattia disse: — In altre circostanze non avrei interrotto la conversazione, ma andiamo, ci stava palesemente provando! Ricorda che siamo qui per far colpo sulle ragazze, non sui ragazzi.
— Non ci stava provando! — esclamai.
— Mattia, gli ha fatto solo un complimento, non ci vedo nulla di anormale — rispose Michele.
— Quando proverà a ficcarti una mano nei pantaloni, sarò in un angolo a sventolare un cartellone con su scritto a caratteri cubitali “TE L’AVEVO DETTO”.
Alzai gli occhi al cielo. — In ogni caso, abbiamo smesso di parlare grazie al tuo eroico intervento, e soprattutto, non mi interessano i ragazzi.
Giungemmo all’entrata.
Dopo aver mostrato i biglietti, il buttafuori fece dei timbri sui nostri polsi, in modo da riconoscerci ogni volta che saremmo usciti fuori.
Entrammo nel salone: era davvero grande, più di quanto immaginassi. Era di forma rettangolare, ed era suddiviso in due spazi: uno con tavolini e sedie, più piccolo; un altro sgombro per ballare, ovviamente più ampio. In fondo, poi, c’erano le casse, il deejay e lo staff, che aveva organizzato tutto. Fuori, invece, si trovava il bar.
Il deejay prese il microfono e si presentò, insieme a tutti gli organizzatori. Ci augurarono buon divertimento, abbassarono le luci e pochi secondi dopo partì I Love It delle Icona Pop remixata. La pista da ballo si riempì in fretta.
— Dai, venite a ballare! — gridò Mattia.
Ci buttammo nella mischia, urlando e saltando, come tutti gli altri. Diversamente da quanto mi aspettassi, mi stavo divertendo. Avevo svuotato la mente, pensavo solo alla musica e a scatenarmi. Il resto poteva aspettare. Meritavo un po’ di spensieratezza.
Dopo più o meno mezz’ora passata a delirare tra Madonna, Beyoncé, Jessie J e molti altri, decidemmo di prenderci una pausa. Eravamo sudati e dovevamo riprenderci.
— Io direi di andare al bar, avrei voglia di un drink — disse Michele. — E tu, Rick, berrai con noi!
— Ehm, io non amo particolarmente bere, lo sapete...
— Tranquillo, non ti faremo ubriacare, ma ci sentiamo soli se beviamo solo noi.
Fecero entrambi gli occhioni.
— Quanto siete rompipalle! — esclamai.
Scoppiammo a ridere.
Era appena partita Supamedicine dei Girls Love Shoes, quando Michele mi strattonò. — Rick, guarda.
— Cosa?
— Lì. — Indicò l’entrata.
Giorgia e le sue amiche erano appena entrate nella sala.
Un ragazzo fece cadere il bicchiere a terra. Qualcuno gridò: “PORCA PUTTANA!”. Vidi Matteo, in un angolo, che guardava interessato la scena. E lui era quello che amava Anastasia, quello che lei aveva scelto. Un ragazzo fantastico. Un fantastico coglione, direi. Tutti gli altri, invece, noi compresi, avevano gli occhi sgranati.
Giorgia, come le amiche, era piena di trucco, indossava un abito così corto e striminzito che avrebbe fatto prima ad entrare nuda ed aveva delle scarpe con tacchi di almeno dodici centimetri.
Mattia si voltò a guardarmi ed esclamò: — Amico, quella è diventata così troia che se Miley Cyrus la vedesse le batterebbe il cinque!
— Batterebbero i martelli — ribatté Michele.
— O le lingue — aggiunsi.
— O i culi — concluse Mattia.
Giorgia ci vide e si avvicinò. Stava vistosamente masticando una chewingum. Mi guardò dalla testa ai piedi schifata e disse: — Senti, non sono contraria al vestirsi da froci, ma almeno fallo bene, cristo! Se continui così il massimo che potrai fare nella vita sarà un pompino a Rosario Muniz. Aggiornati.  — Si voltò a guardare Mattia. — Tu, invece, ti sei vestito elegante per far colpo su qualcuna? Se è così, credo che stasera avrai delle brutte sorprese. Ricorda che l’abito non fa il monaco, se sei cesso non basta uno smoking di duecento euro. Oh, ma guarda, c’è anche Michele, quello inutile del trio. Lo sei così tanto che non perdo neanche tempo a giudicarti. Ma soprattutto, voi qualche altro amico disagiato non ce l’avete? Siete sempre voi tre sfigati? Oh, giusto, mi sono appena ricordata che alla gente non piace avvicinarsi a dei chiusoni come voi.
— Tu, invece, hai fatto caso a come sei conciata? Capelli rossi, trucco pesante ed una cosa che non so se chiamare vestito perché ti si vedono tette e culo in alta definizione. Insomma, il kit delle vere troie — replicai.
Mi fulminò con lo sguardo. — Coglione.
Detto questo, andò a ballare con le amiche.
— Giuro, volevo rispondere anch’io, ma ci sono rimasto troppo di merda! — disse Mattia.
— Vale lo stesso per me — aggiunse Michele.
Mi voltai a guardarlo. — Senti, non è vero che sei quello inutile del trio. Io e Mattia siamo migliori amici, questo è vero, ma, a nostra volta, siamo tuoi amici. Non lasciare che quella lì ti faccia fare strane idee, okay?
— Okay. Andiamo a bere, allora.
Ci dirigemmo verso il bar. Non era molto affollato, ancora, dato che eravamo solo ad “inizio serata”, più o meno. Ci avvicinammo al bancone. Mattia ordinò un Mojito, Michele Vodka Lemon. Dato che io ero totalmente ignorante in materia, ordinarono per me un Angelo Azzurro.
— Non vorrete mica farmi sballare, vero?
— Se non ci prendi gusto a bere, non ti ubriachi, tranquillo — mi assicurò Michele.
— Non ci prenderò gusto.
Una volta ricevuti, bevvero i loro cocktail. Io, invece, esitai per qualche secondo.
— E dai, bevi! — mi esortò Mattia.
— Voi mi rovinerete — dissi, poi mandai giù tutto d’un fiato.
Era una sensazione stranamente bella: mi sentii avvampare, e non mi girò la testa. Stavo bene, ed era buono.
Mi fissavano, in attesa di un giudizio.
— Niente male.
Michele mi diede una pacca sulla spalla. — Ecco, così ti voglio!
Una ragazza molto carina si posizionò a fianco a Mattia ed ordinò un Mojito.
— Anche a te piace? — le chiese.
— Già, è la mia bevanda alcolica preferita! — rispose quella.
— Wow, anche la mia, che coincidenza!
— Ma la sua preferita non era la Piña Col- — iniziò Michele.
Gli diedi una gomitata e lo fulminai con lo sguardo.
— Ragazzi, io e... aspetta, come ti chiami? — domandò Mattia.
— Anna — rispose la ragazza.
— Uh, bel nome! Io sono Mattia! — ammiccò con lo sguardo. Poi, si rivolse a noi: — Io e Anna rimarremo qui nei paraggi a fare una chiacchierata. Al massimo vi chiamo più tardi, okay? A dopo!
I due si incamminarono dalla parte opposta al bar. Mattia prese il cellulare e digitò qualcosa. Pochi secondi dopo, mi arrivò un messaggio: “Amico, questa qui me la limono per bene!”
Scoppiai a ridere e lo rimisi in tasca. Era incorreggibile.
— Bene, tu cosa fai ora? — mi chiese Michele.
— Uhm... credo andrò in bagno — risposi.
— Perfetto. Io vedo se c’è qualche ragazza abbordabile, altrimenti rimarrò l’unico dei tre a non concludere niente stasera. Ti contatterò dopo.
— Okay, a dopo.
Sorrise, mi diede una pacca sulla spalla ed entrò dentro. In quel momento, stavano passando This Is Halloween di Marilyn Manson remixata.
Mi avviai verso i bagni, e nel mentre inviai un altro messaggio ai miei. Era l’una e mezza.
Quando uscii, trovai qualcuno seduto su una panchina poco lontana da me. Era Francesco. Ma che si faceva lì? Perché non era dentro a divertirsi?
Mi sedetti accanto a lui. Stava fissando un punto fisso nel vuoto.
— Hey — dissi.
— Hey — rispose.
— Come mai sei seduto qui da solo, invece di divertirti come tutti?
— Semplicemente perché non ho nessuno con cui divertirmi.
— Mi stai dicendo che sei venuto qui senza i tuoi amici?
— No, è diverso: io non ho amici. — Strinse i pugni.
— E io cosa sarei, scusa?
Alzò la testa e mi guardò. — Un imbecille.
Non so perché, ma scoppiai a ridere, e lui con me. Mi trovavo stranamente a mio agio a parlare con lui, sebbene mi avesse fatto quel complimento un po’ ambiguo prima.
— Se posso chiedere... perché non hai amici?
— Sai, prima ne avevo molti. Ma, evidentemente, mi apprezzavano solo per ciò che fingevo di essere. Non stavo bene con me stesso, e quando ho deciso di fare coming out ci sono rimasti tutti di merda e mi hanno voltato le spalle, partendo dalla mia famiglia e finendo con i miei amici. Quindi, non ho niente da perdere se mi presento ad un ballo da solo. Pensavo che sarebbe successo qualcosa, un miracolo. — Rise, sarcastico. — Così eccomi qui, a deprimermi, mentre bevo una Piña Colada. Alla salute. — Fece un altro sorso.
Spalancai gli occhi. — Oh... quindi sei gay.
Alzò gli occhi al cielo. — Non va bene nemmeno a te? Sei omofobo anche tu? Molto bene, ci vediamo.
Fece per alzarsi, ma lo bloccai. — Senti, non è che sono omofobo, ma...
— Tutte le frasi che iniziano così contengono una affermazione omofoba dopo il “ma”, quindi risparmiatelo, per favore.
Notai che si stava trattenendo a stento dallo scoppiare a piangere.
— Volevo solo dire che non ho mai avuto a che fare con un omosessuale, e non so come comportarmi.
Non era vero. Più volte, con Mattia, avevo sfottuto i ragazzi gay perché la consideravamo una cosa anormale e “contro natura”. In quel momento, però, mi sentivo veramente un coglione. Sentivo di aver stereotipato l’immagine del ragazzo omosessuale, credendo fosse una cosa negativa quella dell’amare persone del proprio sesso e comportandosi da femminucce. Ma Francesco non era così: era davvero bravo, e aveva mandato a quel paese tutte le mie supposizioni errate. Mi stavo sul serio sentendo in colpa.
— Mmm... — Aggrottò la fronte. — Voglio crederti.
Passò qualche secondo, poi aggiunse: — Aspetta, ma dove sono i tuoi amici?
Sospirai. — A rimorchiare. Porca miseria, dovrei provarci anch’io, ma...
— Ma...?
— Tutti credono che non mi freghi niente della mia ex ragazza, che mi ha tradito col ragazzo che odio e l’ha messa incinta, e che poi si è suicidata, ma non-
— CHE?! — esclamò.
Feci spallucce. — Lunga storia.
Si ricompose subito. Mi fissò per qualche altro secondo, come se stesse provando a capire se quello che stessi dicendo fosse vero oppure no.
— Uhm, continua — disse, infine.
— Dicevo, pensano tutti che non mi interessi, ma non è così. All’inizio ero incazzato, l’ho insultata anche davanti alla sua tomba e ci sputato sopra, ma più passano i giorni e più sento che c’è un vuoto dentro di me. Mi manca, capisci? — Iniziai a tremare.
Francesco posò la sua mano sulla mia. — Hey, è tutto okay?
— Sì, è solo che... non ci devo pensare, davvero. Non devo. Mi passerà, tranquillo. Anzi, sono venuto qui per consolarti ed invece mi ritrovo a parlare dei miei problemi. Sono davvero egoista.
Stava continuando ad accarezzarmi la mano. — No, non lo sei. Ti sei solo sfogato, come ho fatto io.
— Sì, ma non concludo niente dicendolo agli altri! Non tornerà in vita, capisci?!
Cominciai a piangere.
Mi fissò tristemente. — Non piangere, ti prego...
— Scusa, ma non ci riesco... davvero. Ci ho provato a non piangere, ma fa tutto schifo, e...
Non riuscii a finire la frase, perché mi baciò. Fu salato ed umido, a causa delle lacrime che continuavano a scendere.
Dopo qualche secondo, mi staccai dal bacio.
— Mi dispiace... — cominciò.
Mi alzai di scatto, e senza dire niente mi allontanai.
— Ti prego, dì qualcosa almeno! — gridò.
Non risposi.
Asciugai le lacrime e raggiunsi il bar. Lì, mandai dei messaggi a Michele e a Mattia.
Dopo dieci minuti, nessuno si era fatto sentire, così ordinai un altro Angelo Azzurro. Bevvi anche quello tutto d’un sorso. Era davvero buono, ma stavolta cominciava a girarmi la testa. Noncurante del fatto che sarei potuto sentirmi poco bene e non sapendo quanto potessi reggere l’alcol, ne ordinai un altro. Mi allontanai e ricominciai a piangere. Nemmeno la confusione in testa dovuta all’alcol rendeva meno vivido il ricordo di Anastasia. Così, decisi di entrare dentro e scatenarmi: sentivo che niente poteva fermarmi, ero tutto un fuoco.
Ballai fino a quando mi fecero male i piedi e cominciai ad avere dei conati di vomito. Mi allontanai velocemente dalla mischia per dirigermi nuovamente in bagno. Mandai ancora un altro sms ai miei. Erano le tre meno dieci.
Tutto quello che ricordo dopo aver letto la scritta “messaggio inviato” è che vomitai tutto ciò che avevo nello stomaco.
 
Aprii gli occhi. Ero sdraiato. Vidi l’ora sull’orologio: erano le otto e un quarto. Indossavo solo i boxer. Non ero a casa, perché la mia camera non era affatto come quella in cui mi trovavo, stessa cosa per i muri, che erano azzurri.
Mi misi a sedere e strofinai per bene gli occhi. Poi, girai la testa e rimasi agghiacciato: Francesco stava dormendo beato accanto a me.

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Capitolo 10
*** Take me to church ***


Francesco’s POV
 
 
23 dicembre. Le vacanze di Natale erano appena cominciate, ed io non stavo più nella pelle per ciò che avevo in programma per quei giorni: nottate con gli amici, partite a carte, ma soprattutto, avrei passato molto più tempo con Andrea, il mio  ragazzo. Insomma, divertimento assicurato. Il carico di compiti assegnatoci poteva anche aspettare. Ero finalmente libero, seppur per poco più di due settimane.
I miei genitori sarebbero stati fuori, quella sera, così decisi di chiamare Andrea. Sarebbe venuto a casa e avremmo visto un film insieme sul divano. Non ci vedevamo da quasi una settimana, a causa di impegni scolastici e non.
La nostra relazione era nata totalmente per caso: ci eravamo conosciuti su facebook. Una richiesta d’amicizia che aveva cambiato tutto. Dopo aver scambiato i numeri, avevamo cominciato a parlare anche a telefono e su whatsapp, fino a diventare inseparabili. Anche lui, come me, era di Milano. Dopo due settimane, trovato un po’ di tempo libero, ci eravamo incontrati. Era un ragazzo dolcissimo, e grazie alla sua incredibile semplicità e simpatia mi aveva fatto innamorare perdutamente. Da quel giorno erano passati nove mesi, e provavamo sempre le stesse cose l’uno per l’altro, anzi, ci amavamo sempre di più.
Alle 20:00 in punto, i miei genitori uscirono.
Più o meno mezz’ora dopo, sentii suonare il campanello.
Andrea aveva i capelli castano chiaro, gli occhi verdi, naso a patata, orecchie piccole (come le mie) e labbra carnose. Quel giorno, aveva indosso Vans azzurre, skinny jeans, un maglione blu ed un giubbino in pelle dello stesso colore. Era bellissimo.
Entrò in casa e mi abbracciò forte. Dopo qualche minuto, mi baciò appassionatamente.
Gli accarezzai i capelli, dolcemente.
— Mi sei mancato tantissimo — dissi.
— Anche tu. Troppo.
Ci baciammo ancora. Col passare dei minuti, i baci diventarono sempre più intensi, fino a quando, preso dal momento, mi tolsi la maglia. Lui fece lo stesso. Ci dirigemmo verso il divano, dove mi sedetti. Si mise a cavalcioni su di me e continuò a baciarmi. Non riuscivo a staccarmi dalle sue labbra.
Prima di continuare, mi fissò per qualche istante disse a bassa voce: — Ti amo.
Stavamo per fare sesso, e per entrambi era la prima volta, ma non eravamo agitati, perché eravamo sicuri di farlo con la persona giusta.
Mi sdraiai, e lui su di me. I sui baci cominciarono a scendere. Partì dal collo, per poi passare al petto e agli addominali. Stava per sbottonarmi i pantaloni, quando disse: — Sei sicuro?
— Assolutamente sì.
Pochi secondi dopo, mi ritrovai interamente nudo. Anche lui si spogliò. Il suo corpo era stupendo, e mi ritenevo fortunato ad avere un ragazzo del genere.
Fu bellissimo, perché fatto da due persone che si amavano davvero. Rimanemmo abbracciati e ci coccolammo ancora un po’, quando mi tornò in mente il reale motivo per il quale Andrea era venuto a casa.
— Ma non dovevamo vedere un film?
Scoppiò a ridere. — Credo che ciò che abbiamo fatto sia stato meglio che vedere un film.
— Indubbiamente. — Sorrisi.
Qualche minuto dopo, riprese a parlare. — Francesco, non voglio più nascondermi. Voglio che tutti sappiano della nostra relazione.
Ne parlavamo già da un po’, ma credevo avrebbe voluto aspettare ancora, quindi mi colse un po’ di sorpresa.
— Lo voglio anch’io, ma mio padre... e i miei amici...
— Non puoi lasciare che tuo padre ti impedisca di esprimere ciò che sei. Sei gay, l’hai accettato, ci convivi, hai me. Se vorranno accettarti bene, se no fatti loro. Ci toglieremmo un enorme peso, e vivremmo meglio. Allora, che ne dici?
Stare accanto a lui mi dava forza, credevo di poter riuscire a fare tutto. Così, risposi: — A Natale pranzeremo da mia nonna. Ci sarà la maggior parte dei miei parenti. Credo lo dirò in quel momento. Tu, invece?
— Anch’io avevo pensato di fare così.
— Bene.
Poco più tardi, andammo a fare una doccia e ci rivestimmo, per poi tornare a coccolarci.
Il tempo sembrò volare, e quando Andrea mi chiese che ore fossero, mi accorsi che erano le 23:30. In quell’istante, sentii il rumore di un’auto che parcheggiava subito fuori casa. Poi, delle voci e dei passi sempre più vicini.
Ci guardammo, smarriti.
— Cazzo — disse lui.
— Corri nella mia camera — sussurrai.
I miei genitori entrarono in casa. Andrea era appena arrivato in stanza, perché sentii la porta chiudersi.
— Hey, cosa hai fatto stasera? — chiese mia madre.
— Niente, ho visto serie tv in streaming e ho fatto una doccia.
— Oh, bene — rispose.
Mio padre, come al solito, non disse niente, e a me andava bene così. Era un fan medio del calcio, che bestemmiava il sabato sera guardando le partite in tv, ma che quando si parlava di cose come l’omosessualità diventava il più religioso del mondo. Era molto chiuso mentalmente, e per questa ragione in diciassette anni non eravamo mai andati d’accordo, anzi, litigavamo piuttosto spesso.
— Voi cosa fate ora? — domandai.
— Credo vedremo un film.
— Okay, allora io vado in camera.
Aprii la porta. Andrea era sdraiato sul mio letto.
— Hey, allora, non posso farti uscire dall’ingresso principale, quindi devi per forza passare per la finestra.
Sorrise. — Sembra la scena di un film. Fortuna che la tua casa è al piano terra, altrimenti mi sarei dovuto lanciare dal tetto.
— Pur di non vederti morire davanti ai miei occhi ti avrei fatto dormire sotto il letto.
— Ma come, non sopra? — Fece un’espressione perversa. Forse non era esattamente “sopra il letto” che intendeva.
— Sì, poi arriva mia madre o mio padre nel bel mezzo della notte per una qualsiasi ragione e trova uno sconosciuto nel letto del figlio. Dai, muoviti.
— Agli ordini.
Aprì la finestra ed uscì, senza fare rumore. Prima di andare, mi guardò e sussurrò: — Ti amo.
— Anch’io — risposi.
Chiusi la finestra e lo guardai mentre si allontanava, fino a quando scomparve.
Mi buttai sul letto.
“Bene”, pensai. “Finalmente è giunto il momento di fare coming out, Francesco.”
Pensai a mille modi in cui dirlo, mi auto incoraggiai, fino a quando mi addormentai.
 
Il mattino seguente, il countdown era cominciato. Ormai pensavo solo a come avrebbero reagito i miei genitori e tutto il resto dei parenti. Secondo le mie previsioni, mia madre non l’avrebbe presa poi tanto male. Mio padre era l’unico problema, e questa cosa mi preoccupava non poco. Chissà cosa avrebbe fatto dopo averlo saputo. L’ansia mi pervadeva e il tempo, ovviamente, non era d’aiuto: ogni volta che doveva refrigerarsi, passava in fretta. Difatti, la sera arrivò presto in quella giornata piuttosto vuota. Andammo da mia nonna ad aspettare la mezzanotte, per farle compagnia. Mio nonno era morto solo l’estate prima, e lei si sentiva davvero sola. Non volevamo che passasse la sera della Vigilia senza nessuno accanto.
Mezzanotte. Milano era in festa. Il cellulare stava per esplodermi in mano, date le centinaia di messaggi da parte di amici, parenti o anche solo conoscenti con cui avevo scambiato il numero. Andrea, invece, aveva scritto l’ennesimo papiro riguardo ciò che provava per me. Lo faceva ogni volta che poteva, e stavolta aveva usato il Natale come scusa. Quasi piansi leggendo quanto amore c’era in quel messaggio, ma dovetti trattenermi per non destare sospetti.
Più o meno un’ora dopo, tornammo a casa. Mi sdraiai e, prima che me ne accorgessi, mi addormentai. Sarebbe stata una lunga giornata, quella che stava per arrivare.
 
Il rumore del cellulare che squillava mi svegliò. Erano le 8:00. Essendo troppo assonnato, non vidi nemmeno chi fosse.
— Pronto?
— L’amore della tua vita ti chiama la mattina di Natale e tu rispondi “pronto”?
— No, l’amore della mia vita mi sveglia mentre dormo tranquillamente la mattina di Natale, ed essendo vacanza è già tanto che io gli risponda a quest’ora.
Scoppiò a ridere. — Non fare il difficile, vestiti ed esci. Incontriamoci al solito posto alle nove e mezza.
In circostanze differenti, avrei risposto con un “no” secco e sarei tornato a dormire, ma era Andrea, come potevo dirgli di no?
Uscii dalla camera. I miei erano già svegli. Feci velocemente colazione ed uscii.
Pur essendo Natale, non faceva particolarmente freddo come gli anni precedenti. Difatti, le strade cominciavano lentamente a riempirsi di gente.
Incontrai Andrea. Era bellissimo, come sempre. Mi baciò.
— Hey, ma che fai? Ci guardano tutti — dissi.
— Non mi interessa più ciò che dice la gente, Francesco. Io ti amo, e voglio che tutti lo vedano, e siano invidiosi dell’amore che emaniamo solo stando vicini.
Mi vennero le lacrime agli occhi. Lo baciai con passione, ignorando tutti quelli che si fermavano a guardarci. Sentimmo qualche insulto, ma non ci importava, ormai. Eravamo liberi, e poche ore dopo l’avrebbero saputo anche i nostri parenti. Eravamo ad un passo dal rendere la nostra relazione definitivamente pubblica.
Camminammo per le strade di Milano mano nella mano, comportandoci come ogni coppia. Non vidi nessuno che conoscevo, e questa cosa in parte mi sollevò, anche se avrei voluto vedere le loro reazioni, sapere se mi avrebbero accettato e cosa ne pensavano a riguardo. Ma avrebbero saputo anche loro, di lì a poco.
Passammo una mattinata fantastica. Non credevo sarei mai potuto essere tanto felice di stare con qualcuno.
Purtroppo, il momento di salutarci arrivò in fretta.
— In bocca al lupo — disse.
— Crepi, anche a te.
— Crepi.
Mi diede un bacio a stampo e se ne andò. Mi sedetti su una panchina per qualche minuto, presi il cellulare e controllai i messaggi: stranamente, ce n’erano più di duecento sul gruppo Whatsapp della classe. Quando aprii la chat, mi accorsi che Alfonso, un mio compagno di classe omofobo, ci aveva visti e fotografati, poi aveva messo la foto lì. Lessi tutto, nella speranza che qualcuno ci difendesse, ma c’erano solo  insulti, anche pesanti. Non volli rispondere, perché potevano pensare ciò che volevano per me, non mi interessava più di tanto, ma restai molto deluso. Credevo che alcune persone fossero diverse, ed invece erano state le prime ad attaccarmi. L’unica cosa che mi consolava era che il coming out era ormai completo al cinquanta percento, dato che di sicuro si sarebbe sparsa la voce nel giro di pochi giorni.
Mi alzai e mi avviai verso casa di mia nonna. Il momento era giunto, e stavo già cominciando ad agitarmi.
 
Quando arrivai, erano già tutti presenti. Salutai, ci scambiammo gli auguri e qualche minuto dopo ci sedemmo a tavola.
Il pranzo fu davvero sostanzioso, come tutti gli anni. Sentivo di star scoppiando. Procedette tutto normalmente. Più o meno tre ore dopo, arrivò il momento dello scambio dei regali. Dovevo dichiararmi prima, però. Feci per alzarmi e cominciare a parlare, ma il cellulare squillò.
— Andrea?
— Francesco... sono in ospedale...
Scattai in piedi. — COSA?! Quale?!
Mi guardarono tutti.
— Il Policlinico... — Gemette.
— Non è lontano da qui. Arrivo subito.
Riattaccai e corsi verso l’ingresso.
— Francesco, ma dove vai?! — esclamò mia madre.
Mi bloccai, con la mano destra sulla maniglia, e mi voltai verso di lei.
— Il mio ragazzo è in ospedale — risposi.
Il caos, ecco cosa successe immediatamente dopo.
Mia nonna rischiò di avere un infarto, mia madre spalancò la bocca e cominciò a piangere, i miei zii fecero delle facce sconvolte, mio cugino di quattordici anni mi fissò schifato.
Mio padre si alzò, si avvicinò e mi afferrò il polso destro. — Tu ora vieni a casa con me e tua madre.
— Ho cose più importanti a cui pensare.
Feci per aprire la porta, ma aumentò la stretta. Cominciava a farmi male.
— Ho detto che vieni a casa con me e tua madre — replicò, duro.
Dovetti arrendermi.
 
In auto, si respirava aria pesante. Nessuno disse una parola. Quel silenzio era ancora più fastidioso degli insulti che di sicuro avrei ricevuto poco dopo.
Giunti a casa, mio padre chiuse lentamente la porta e mi fissò per qualche secondo.
Mia madre, che aveva già capito il suo intento, cominciò: — Giorgio, per favore, non fargli niente. Sono sicura che possiamo parlarne civilmente, e...
Lui non le rispose nemmeno. Sorrise sarcasticamente, poi mi tirò un pugno. Riuscii a tenermi in equilibrio, all’inizio, ma dopo il secondo caddi a terra. Sapevo che reagire non sarebbe servito a niente, perché era nettamente più forte di me, così subii. Tra un calcio ed un altro, disse: — Sei nato solo perché il mio cazzo di preservativo si è rotto, sai? Sei stato sempre un errore, sin dalla nascita!
— GIORGIO, TI PREGO! — Mia madre provò a fermarlo, ma lui la spintonò.
— Cos’è, vorresti difenderlo per caso?
— Credo solo che il modo migliore di superare questa cosa sia provare a capirlo e a parlarne. Potrai picchiarlo, sì, ma rimarrà sempre così com’è! — Non sembrava molto decisa, dato che anche lei tremava. Come me, aveva paura.
— L’unica persona con cui ne parlerà sarà uno strizzacervelli.
Mi tirò un altro calcio, ben mirato allo stomaco.
— Basta, ti prego... — lo implorai.
Si fermò. Poi, disse: — Adesso alzati.
Feci come mi aveva ordinato.
Mi mise una mano in tasca e tirò fuori il cellulare. Lo gettò a terra e lo schiacciò, rompendolo. Poi si diresse verso il mio portatile, che in quel momento si trovava sul tavolo, e fece lo stesso.
— Se solamente provi ad uscire di casa o a contattare in qualunque modo e per qualsiasi ragione quell’altro frocio, non sono sicuro che la prossima volta riuscirai a tenerti in piedi. Ci siamo intesi?
Lo guardai in cagnesco.
Mia madre si avvicinò velocemente e toccò delicatamente le ferite che mi erano state inflitte. Essendo un medico, poteva aiutarmi. Mio padre, invece, disse: — Sai, ho sempre sospettato che fossi frocio, ma provavo a convincermi che non fosse così. Credimi, se fossi stato normale sarebbe stato tutto diverso. Sei una delusione.
— E tu un padre di merda! — gridai.
— Beh, sì, è una conseguenza del tuo essere finocchio.
Detto questo, andò in camera da letto e sbatté la porta.
Mia madre mi fissava tristemente, mentre curava le ferite.
— Che c’è, ti faccio pena? — domandai.
— N-No, è che...
— Sei una dottoressa, quindi dimmi, com’è considerata l’omosessualità da voi? Come un cancro terminale?
Non rispose.
Passò qualche minuto, poi disse: — Ho finito.
— Bene, quindi ora posso andare a trovare il mio ragazzo.
— No, non puoi. Hai sentito tuo padre.
— Che c’è, hai paura di lui?
— No, ma...
— Invece sì. Una volta tanto, prova a non sottostare ai suoi voleri.
— Anche volendo, non potresti comunque. Devi metterti a letto. Tra poco inizierai a sentire dolore per ciò che è successo.
— Non mi interessa.
Mi avviai verso l’ingresso, ma sentii una fitta improvvisa allo stomaco. Caddi in ginocchio.
— Riposati, Francesco — disse. — Ti prego.
Così, andai in camera e chiusi a chiave.
 
Fu il peggior Natale della mia vita. Sembrava essere iniziato alla grande, ma ovviamente mio padre aveva rovinato tutto. E poi, Andrea era in ospedale. Cosa poteva essergli successo? Si aspettava che andassi da lui, ma non potevo. Avevo anche il cellulare fracassato. Non potevo nemmeno usare quello di mia madre, dato che non ricordavo il suo numero. Continuava a ripetermi che avrei dovuto, ma non ci davo troppo peso. In quel momento, però, era di vitale importanza. Assorto nei pensieri e nel silenzio che si era venuto a creare in casa, mi addormentai. Solo i miei singhiozzi facevano da sottofondo. Piangevo un po’ per la tristezza, un po’ per la rabbia e un po’ perché ero consapevole di essere impossibilitato a fare nulla, sbattuto su quel letto senza poter contattare il mio ragazzo e chiedergli come stesse.
 
Il mattino dopo, mia madre bussò alla porta della stanza, svegliandomi.
— Francesco, la colazione è pronta.
Sentii mio padre gridare, dalla sala: — Deve morire di fame, quella checca!
Io, comunque, non risposi. Ero così arrabbiato e triste che, anche volendo, non sarei riuscito ad emettere suoni.
Dopo qualche minuto, la sentii singhiozzare. Infine, si allontanò.
 
Tornò all’ora di pranzo.
— So che non vuoi mangiare, né vedere tuo padre, ma parliamone, almeno.
Nemmeno allora risposi. Se ne andò di nuovo.
 
La stessa routine continuò anche il giorno seguente.
 
Il 28 dicembre, decisi di uscire dalla mia stanza. I miei erano fuori, ed io stavo meglio. Controllai l’orologio: erano le 21:45. Mi diressi verso il frigorifero. Bevvi molta acqua, poi preparai da mangiare. Quando mi sentii sazio, ricordai che mio padre mi aveva ordinato di non uscire di casa per nessuna ragione. Ma se mi aveva minacciato tanto duramente, allora perché quella sera erano usciti? Mi diressi verso la porta d’ingresso e tentai di aprirla. Non ci riuscii: mi avevano chiuso dentro.
Mi buttai sul divano e accesi la tv. Dato che non volevo sorbirmi film di Natale, misi MTV. Stavano dando 16 Anni e Incinta. Pur di distrarmi, guardai quello. Eppure, il pensiero fisso era uno: Andrea. Cosa poteva mai essergli successo?
Circa due ore dopo, i miei arrivarono a casa. Il programma in tv era già finito, ed io ero di nuovo a letto.
Mi accorsi che stavano discutendo.
Mi alzai e avvicinai l’orecchio alla porta, per sentire meglio.
— Non ti sembra una decisione un po’ drastica? Insomma, non ha commesso un reato! — disse mia madre.
— Per me, è l’unico modo di farlo tornare sulla retta via, come le persone normali — rispose mio padre.
— Ma lui è normale!
— No che non lo è. Ti ho detto che ci trasferiremo, e così faremo. Appena finite le festività, cercheremo una casa nel Centro o Sud Italia. Lì, poi, lo manderemo anche da un bravo psicologo che saprà come curarlo. La questione è chiusa. — Non potevo credere a ciò che avevo appena sentito. Stavamo per andare via da Milano. — Lui non dovrà mai più vedere quel frocio. — Strinsi i pugni. Avrei voluto ucciderlo. — Lui deve guarire.

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Capitolo 11
*** The only exception ***


Francesco's POV


 
Il giorno dopo, mi ero totalmente ripreso. Dato che i miei erano fuori (come tutte le sere oramai), decisi di uscire dalla finestra situata nella mia camera per andare a casa di Andrea. Erano pur sempre passati quattro giorni, magari era uscito dall'ospedale. E poi, mi mancava un sacco.
Mi vestii velocemente ed uscii. Controllai l'orologio: 21:20. Avevo più o meno due ore per andare da lui, raccontargli tutto, sapere cosa gli fosse accaduto e tornare.
Spensi le luci, uscii ed appannai la finestra. Essendo sul retro, nessuno dall'esterno ci avrebbe fatto caso.
 
Più o meno venti minuti dopo, arrivai a casa sua.
Suonai il campanello. Nessuna risposta.
Tamburellai con le dita sulla porta, nervoso.
Suonai una seconda volta.
Dopo una manciata di secondi, finalmente qualcuno aprì: era lui. Aveva indosso solo un asciugamano. Era bagnato.
— Francesco? — Sembrava stupito di vedermi, come se ormai si fosse rassegnato all'idea che non ci saremmo mai più incontrati. Mi abbracciò forte, e io ricambiai. Poi ci baciammo intensamente.
— Scusami, ero in doccia e all'inizio non avevo sentito suonare — disse.
— Mi sei mancato — risposi.
— Anche tu, non puoi capire quanto.
Mi invitò ad entrare. A quanto pareva, nemmeno i suoi genitori erano in casa.
Ci dirigemmo in bagno, dove tolse l'asciugamano e cominciò ad asciugarsi. Mi era mancato vedere il suo viso, il suo corpo.
— Allora — dicemmo entrambi all'unisono. Scoppiammo a ridere.
Presi la parola. — Allora, perché eri in ospedale? Quando sei tornato a casa?
— Mi hanno dimesso questa mattina. A quanto pare, quel giorno, mentre camminavamo mano nella mano, tre ragazzi ci hanno seguiti. Noi, ovviamente, non ci siamo accorti di nulla. Hanno aspettato che ci separassimo, per poi seguirmi e pestarmi. — Rimase in silenzio, come se stesse rivivendo la scena. Piegò e ripose l'asciugamano, mise i boxer, poi continuò: — Per fortuna, un tizio è corso in mio aiuto. Quelli si sono spaventati e sono fuggiti via. Ha chiamato il 118 e mi hanno portato al Policlinico. Avevo perso i sensi, dato che avevo battuto la testa. Quando mi sono svegliato, la prima cosa che ho pensato di fare è stata telefonarti. Tu hai detto "Arrivo subito". Ma non sei mai arrivato. E Francesco, non sono arrabbiato con te, perché deve esserti successo qualcosa nel frattempo. In ogni caso, i miei ora lo sanno, e sanno che sei il mio ragazzo, e mi supportano, anche se dopo ciò che è successo hanno un po' paura.
— Dio... — Non sapevo cosa dire. Anche lui, come me, era stato picchiato. Ma la differenza stava nel fatto che almeno i genitori erano dalla sua parte. — Mi dispiace davvero tanto. — Non riuscii a dire molto altro, perché cominciai a piangere, pensando a ciò che invece avrei dovuto raccontare io. Mi si avvicinò, e mi abbracciò. Durò veramente tanto, quell'abbraccio, e sentii che attraverso quello tutto l'amore che lui provava si stesse incanalando dentro di me, e mi fece sentire meglio. Mentre ci stringevamo, cominciai, tra un singhiozzo ed un altro: — Stavo per dirlo ai miei parenti. Poi, è arrivata la tua telefonata. Sono corso alla porta e ho detto: "Il mio ragazzo è in ospedale". Mio padre mi ha costretto ad andare a casa, poi mi ha picchiato. Ha preso il cellulare e il computer e li ha sfasciati. Il tuo numero, come saprai, non lo so a memoria, e credo sia il momento di impararlo. Sono rimasto a letto qualche giorno. Solo oggi sono tornato del tutto in forze, e dato che il coglione non è in casa, ho deciso di venire qui a trovarti, perché mi ha vietato di uscire. Non so quante altre volte ci vedremo, Andrea. Non so nemmeno se ci rivedremo. Mio padre l'ha presa molto male. Mi terrà al guinzaglio, mi impedirà qualunque forma di contatto con te. — Lui rimaneva incollato a me, senza dire una parola, e a me andava bene così. A volte un gesto vale più di un milione di parole. Feci un bel respiro e dissi: — Ci trasferiamo.
Si staccò immediatamente e gridò: — COSA?!
I suoi occhi si riempirono di lacrime.
— Non vuole che stiamo insieme. Vuole che andiamo lontano da qui. Forse in Centro o Sud Italia.
— No... — cominciò a dire. — No, no, no. Non puoi permetterglielo. Ma tua madre?
Sorrisi, sarcastico. — Mia madre... mia madre non fa un cazzo, perché ha paura. E subisce.
— Francesco, non voglio perderti.
— Neanche io, ma... — sospirai — non posso fare niente per impedirlo. Se ha deciso così, farà così.
— Ma possiamo far parlare i miei genitori con i tuoi, convincerli, far capire loro che sbagliano!
— Sarebbe del tutto inutile. Non capirebbero. Cioè, mia madre sì. Mio padre no.
— Non posso accettarlo. Non posso pensare al fatto che questa probabilmente sarà l'ultima volta in cui guarderò i tuoi bellissimi occhi e dirò: ti amo. Perché io ti amo, Francesco, ti amo più di ogni altra cosa.
Non smetteva di piangere, e io non potevo sopportarlo. Dovevo farlo smettere. Lo baciai appassionatamente. Gli accarezzai i capelli. Le sue mani attraversarono lentamente la schiena, per poi scendere più giù. Mi spogliai. Anch'io ero in boxer, ora. Senza accorgercene, ci ritrovammo davanti la cabina doccia, ed entrammo. Presi dal momento, aprimmo l'acqua per sbaglio, e ci bagnammo. Non ci preoccupammo di chiuderla. Ci sfilammo l'intimo, e facemmo l'amore, lì dentro, per la seconda volta. Fu un susseguirsi di "ti amo" sussurrati dolcemente, una dimostrazione assoluta d'amore, amore che provavamo l'uno per l'altro incondizionatamente.
Ironicamente, quando terminammo eravamo già in doccia, così ci lavammo. Due docce nel giro di un'ora dovevano essere state un record, per Andrea. Ci rivestimmo, e rimanemmo sul suo letto a coccolarci. Non dicemmo niente, perché il rumore dei nostri pensieri era assordante e chiaramente percepibile. Stavamo entrambi pensando a cosa ne sarebbe stato di noi, come la nostra sfortunata e proibita storia sarebbe giunta al termine. Godemmo ogni secondo di quella serata, fino a quando arrivarono le 23:10.
Andrea mi accompagnò alla porta, mi guardò tristemente e disse: — Questo è un addio, allora?
— Probabilmente, ma spero sul serio di no. Non posso sopportare l'idea di non... — Scoppiai a piangere, per l'ennesima volta, e ci abbracciammo.
— Oddio, aspetta! — Corse in camera. Pochi secondi dopo uscì con in mano un foglietto di carta. — Siamo due deficienti! Ecco il mio numero. Possiamo rimanere in contatto, ma soprattutto, imparalo a memoria per le prossime volte.
— Posso usare il cellulare di mia madre, solo. Proverò.
Sorrise. — Quindi non è un addio.
— Assolutamente no.
 
Quando arrivai a casa, trovai le luci accese. Erano già tornati.
All'improvviso mi venne un dubbio: avevo chiuso la porta della mia camera a chiave? Se così non fosse stato, sarei finito in guai grossi.
La camera era buia. Sembrava non esserci nessuno. Entrai. La attraversai. Ci misi pochi, interminabili secondi. Accesi la luce: era deserta. Tirai un sospiro di sollievo. Controllai la chiave. Non avevo chiuso.
"Oh, cazzo..."
Mio padre irruppe in stanza. Feci due passi indietro, per evitare di essere colpito dalla porta, aperta violentemente.
— E così hai voluto giocare d'astuzia — disse. Si avvicinò velocemente e mi tirò un pugno. La storia si ripeté. Ma stavolta, mia madre non intervenne.
 
Non potendo più uscire di casa e avendo mio padre che mi controllava ogni cinque minuti, passai anche il Capodanno da solo, in stanza. Non entravo a contatto con nessuno, nemmeno con Andrea, date le circostanze. La sua mancanza si sentiva fin troppo. La solitudine era ormai diventata mia amica. Non potevo avere accanto la persona che amavo, quelli che credevo miei amici mi odiavano per il mio orientamento sessuale, mio padre era una merda e mia madre sottostava ai suoi ordini come un cagnolino. Ormai avevo sviluppato un senso di repulsione nei confronti di tutto il mondo, non volevo avere più niente a che fare con nessuno. L'unica cosa che mi teneva occupato era lo studio. Mi stavo dedicando interamente a quello, e per un po' mi aiutò a non pensare. Certo, avrei preferito ben altri passatempi, ma dovevo accontentarmi di quello. Era tutto ciò che potevo fare.
 
Le vacanze terminarono, e arrivò il momento di tornare a scuola. Un trauma, praticamente, per uno come me, che voleva estraniarsi da tutto e tutti.
Non fu facile riuscire a sopportare tutte le frecciatine, gli insulti, gli spintoni, anche da parte di quelli che credevo avrebbero capito. Stavo iniziando a pensare che il trasloco sarebbe stato il modo migliore di poter vivere una vita migliore, di ricominciare, ma questo valeva a dire niente più Andrea.
Mio padre mi accompagnava e mi veniva a prendere, per evitare che potessi correre al liceo scientifico da lui.
Non successe molto, in quel periodo. Ero quasi entrato in uno stato di apatia. Ormai, vivevo di studio. Mi ci ero totalmente immerso. La mia media aumentò vertiginosamente, ma poco contava, perché me ne sarei andato molto presto di lì.
 
A metà febbraio, il trasloco non fu più solo un'idea, ma qualcosa di concreto. Non vedevo Andrea da quasi due mesi, e non potevo fare niente per cambiare le cose. Mio padre aveva trovato una casa, e a fine mese ci saremmo trasferiti. Non ero pronto. Non volevo lasciare il mio ragazzo per colpa di una famiglia bigotta.
In preda alla disperazione, provai ad evadere nuovamente, sempre dalla finestra. Mio padre, però, fu più veloce di me, e le presi ancora.
Era la fine, per me e per Andrea. C'era così tanta sofferenza, nel mio cuore. Ero così maledettamente felice, con il mio ragazzo, e PUFF, era finito tutto. Per sempre.
"Quindi non è un addio" aveva detto, sorridendo. "Assolutamente no", gli avevo risposto.
"Assolutamente sì, invece" pensai.
 
Il cinque marzo, arrivai a Roma.
La nuova casa era poco più grande della precedente, a due piani, ma di certo non più bella. Ci misi un bel po' ad adattarmi. Con la scuola, invece, fu un casino: persi l'anno scolastico, quindi dovetti iscrivermi nuovamente per il quarto anno, sempre al liceo scientifico. Tutto per colpa di quella testa di cazzo di mio padre.
Cominciarono le sedute dallo psicologo: era, sì, una valvola di sfogo per raccontare i miei problemi, ma di certo non aveva una "cura" per l'omosessualità. Semplicemente non esisteva, dato che non ero malato, amavo solo persone del mio stesso sesso. E allora, il problema dove stava? Lo psicologo sembrò molto comprensivo a riguardo, ed il più del tempo parlammo proprio di questo.
Sostanzialmente, passai il tempo in casa. Di tanto in tanto uscivo da solo, e passeggiavo per le vie di Roma. Era davvero una bella città, ma Milano mi mancava. E mi mancava Andrea. Chissà cosa stava combinando. Forse si era trovato un altro ragazzo, forse mi aveva dimenticato. Meglio per lui. Non sopportavo l'idea che soffrisse senza di me. Doveva andare avanti.
Passai anche il compleanno da solo. L'unica cosa positiva fu che mia madre mi regalò un cellulare nuovo. Wow, compivo diciotto anni e non avevo nemmeno una persona accanto a me. E pensare che prima avevo tutto. O forse, era solo un'illusione. Ma quell'illusione mi faceva stare bene.
Mi ricordai, tutt'a un tratto, di avere ancora con me il bigliettino che Andrea mi aveva dato prima di andarmene da casa sua, quando ancora non sapevamo che quella sarebbe stata la nostra ultima volta insieme. C'era scritto il suo numero di telefono. Passai qualche giorno a pensare se contattarlo oppure no, ma alla fine decisi di non farlo. Avrei portato avanti una relazione a dir poco impossibile, ostacolata, oltre che da mio padre, anche e soprattutto dalla distanza. Ma anche se fossimo stati vicini, ci sarebbe stato mio padre a rendere tutto maledettamente difficile.
Inaspettatamente, col passare del tempo si ammorbidì. Io, chiaramente, lo odiavo comunque, ma il fatto che non avessi amici quasi lo cullava, era sicuro che io non frequentassi nessun ragazzo, e quindi era tranquillo. Anzi, credeva addirittura che fossi tornato etero, che fossi "guarito". Ogni tanto cercava di intrattenere una conversazione, ma io lo ignoravo totalmente. Non lo consideravo più nemmeno mio padre. Mi vergognavo di portare il suo cognome, di avere il suo stesso sangue nelle vene.
In tutto ciò, l'unica cosa che mi teneva impegnato era lo studio per l'esame per ottenere la patente di guida. Poi, con tutti i miei risparmi, avrei comprato finalmente un'auto tutta per me. Beh, oddio, non ci sarebbe mai entrato nessuno, ci avrei fatto solo tanti giri da solo, ma per il momento mi dovevo accontentare.
 
L'estate fu noiosissima. La solitudine mi soffocava, il caldo ancor di più. Uscii molto più del normale, ascoltando musica e stando seduto nei bar da solo. Era diventata un'abitudine, ormai. Mi ero arreso alla solitudine.
Un punto a favore di quella stagione fu solo il fatto che comprai l'auto, dopo aver brillantemente superato l'esame. Mi concessi qualche giorno di felicità ed euforia, perché mi ero posto un obiettivo e l'avevo raggiunto. Una piccola soddisfazione nella mia vomitevole vita.
 
E poi cominciò la scuola. Una grande opportunità per risollevare le sorti della mia triste vita, voi direte, ma no, non fu così. In primis, mi accorsi di essere cambiato. Passare tutto quel tempo da solo mi aveva reso più acido, più scontroso con gli altri. Così, tra l'essere silenzioso e il fare continue battute sarcastiche e cattive appena qualcuno mi si avvicinava per parlare, tutti impararono ad evitarmi, e mi andava bene così. Mi immersi nuovamente nello studio, che riempì i miei giorni altrimenti vuoti. Un'altra soddisfazione sarebbe stata vedere la mia media scolastica alzarsi. Cominciai ad uscire tutte le sere, per prendere una boccata d'aria e distrarmi.
 
Verso la fine di settembre, accadde una cosa strana. Quella notte feci molto tardi. Non mi ero accorto dell'orario. Ma a mio padre non importava poi molto, mentre mia madre aveva imparato a concedermi l'autonomia che mi spettava.
Sulla strada del ritorno, notai che qualcuno era sdraiato sull'erba del piccolo parco che attraversavo ogni volta che dovevo tornare a casa.
Mi avvicinai, e mi accorsi che stava dormendo beatamente. Era un ragazzo, doveva avere sedici o diciassette anni, ed era veramente carino.
Lo strattonai. — Hey!
Quello, noncurante, si girò dall'altra parte, così gridai: — HEY IMBECILLE, TI VUOI ALZARE O NO?
Si alzò immediatamente, strofinò gli occhi e mi guardò.
Sospirai. — Alla buonora! Ma lo sai che ore sono?
Nessuna risposta.
— Ma ti hanno mozzato la lingua? Hai perso la memoria?
— N-No... — rispose.
— Bene, allora immagino dovrai usare la lingua per bene per spiegare ai tuoi genitori il fatto che alle due e mezza del mattino tu non sia ancora tornato a casa.
Spalancò gli occhi. — Oh, merda. Senti, devo andare.
Si alzò e si diresse verso una delle vie principali.
— Grazie, eh! — esclamai. — Imbecille.
Si voltò. — Grazie, perfetto sconosciuto.
— Gli amici mi chiamano Francesco.
"Quali amici?", pensai.
— Allora grazie, Francesco!
— Di niente, imbecille.
Pochi secondi dopo, si dileguò.
Ripresi a camminare. Speravo di incontrarlo nuovamente, perché sembrava un tipo simpatico e a posto. Mi accorsi che non avevo avuto una conversazione decente con qualcuno al di fuori di mia madre da mesi, e per un verso era triste, per un altro ciò poteva forse segnare l'inizio di un cambiamento. "Poche palle", pensai.
Arrivai a casa. Tirai fuori le chiavi dalla tasca dei jeans (perché sì, dopo diciotto anni si erano degnati di darmi le chiavi di casa), aprii la porta ed entrai. Stavano dormendo entrambi, come previsto. Mi diressi in camera, ripassai il capitolo uno di storia e andai a dormire.
 
Ottobre fu un mese piuttosto vuoto (tanto per cambiare), ma fu movimentato dalla notizia del Ballo di Halloween. Dapprima mi sembrò una stupidaggine, poi pensai che magari avrei ricevuto un miracolo divino, avrei conosciuto qualcuno. Anche se il mio obiettivo principale era rivedere quel ragazzo. Così, comprai il biglietto. Mia madre credeva che mi fossi fatto degli amici. Illusa. Mio padre non disse nulla a riguardo, ma non gli avrei dato retta se si fosse opposto, a rischio di essere picchiato per l'ennesima volta.
 
Arrivai lì per primo. Dopo una ventina di minuti passati a sentire il deejay e gli organizzatori dell'evento litigare ("LE CASSE VANNO QUI!", "NO, IO VOGLIO CHE VADANO QUI!"), lo vidi: era il ragazzo di cui non sapevo il nome, quello che avevo trovato sdraiato a terra a dormire nel parco vicino casa. Era in compagnia di due amici. Era vestito molto bene.
Sentii uno dei suoi due compagni dire: — Ma è una cosa fantastica essere i primi! Vedremo questo luogo affollarsi pian piano, fino a riempirsi! Ah, e vi ho già detto che saremo gli ultimi ad andarcene? No? Bene, SAREMO GLI ULTIMI AD ANDARCENE!
Così, decisi di intervenire.
— Certo che tu sarai anche un imbecille, ma i tuoi amici non sono da meno!
Si voltarono a guardarmi.
— E tu saresti? — domandò il ragazzo senza nome.
Mi aveva già dimenticato. O forse ero io il maniaco che ormai, pur di far amicizia, avrebbe persino seguito la gente fino a casa per poi sbarrarle la strada e dire "HEY, MI CHIAMO FRANCESCO, E ADESSO IO E TE SIAMO AMICI DEL CUORE!". Tuttavia, cercai di contenermi, e risposi: — Ma come, ti sei già dimenticato di me? Ti illumino: sono il tizio che ti ha salvato il culo quando eri disteso a terra a dormire come un ghiro in un parchetto che non si incula praticamente nessuno, solo perché passo di lì ogni maledetta sera per andare a casa! E mi ripaghi dimenticandomi?
Aggrottò la fronte. Poi, disse: — Aspetta, sei Francesco, giusto?
— Già, e tu sei un imbecille.
— Scusami, sul serio, è che quella notte ero assonnato ed erano successe delle cose. Il mio ultimo pensiero era guardarti attentamente.
— Ma la conosci la parola "ironia"? — domandai. — Ti farò fare dei corsi di potenziamento, per quella.
I suoi due amici si guardavano di tanto in tanto, perplessi. Lui, però, continuò a parlarmi, noncurante di ciò.
— Come hai fatto a riconoscermi subito? Insomma, è passato più di un mese da quella notte, io l'avevo totalmente cancellata dalla mente.
— Un bel faccino come il tuo non si dimentica — risposi, poi gli sorrisi.
"WOAH, UN PUNTO PER ME!" pensai.
— Oh, ehm...
Si grattò la testa. Tipico atteggiamento di chi si trova in una situazione imbarazzante.
Cominciarono ad arrivare molte auto e persone, e lui sviò il complimento approfittando del baccano che si era creato.
Fece per salutarmi, ma uno dei due amici, lo stesso che aveva detto che sarebbero stati gli ultimi ad andarsene, lo prese per un braccio e disse: — Senti, è stato un piacere, ma noi entriamo dentro.
Simpaticone.
Così, mi diressi dentro. La musica e l'ambiente erano invitanti, ma da solo non avrei ballato. Mi guardai intorno. Volevo parlare con qualcuno, ma il panico prese il sopravvento. Uscii fuori di corsa. Vidi una panchina nei pressi dei bagni, e andai a sedermi.
Inevitabilmente, il mio pensiero passò ad Andrea. Era ormai passato quasi un anno dall'ultima volta che ci eravamo visti, che ci eravamo amati.
 
Dopo un po', sentii dei passi. Qualcuno si stava avvicinando.
Si sedette accanto a me: era il Ragazzo Senza Nome.
— Hey — disse.
— Hey — risposi.
— Come mai sei seduto qui da solo, invece di divertirti come tutti? — domandò.
— Semplicemente perché non ho nessuno con cui divertirmi.
— Mi stai dicendo che sei venuto qui senza i tuoi amici?
— No, è diverso: io non ho amici. — Strinsi i pugni.
— E io cosa sarei, scusa?
Alzai la testa e lo guardai. — Un imbecille.
In realtà, ero felice che mi considerasse tale. Un suo amico. Quella parola mi sembrava estranea, ormai.
Scoppiò a ridere, ed io con lui.
— Se posso chiedere... perché non hai amici?
Decisi di raccontargli come stavano le cose. Alla fine, non avevo niente da perdere. — Sai, prima ne avevo molti. Ma, evidentemente, mi apprezzavano solo per ciò che fingevo di essere. Non stavo bene con me stesso, e quando ho deciso di fare coming out ci sono rimasti tutti di merda e mi hanno voltato le spalle, partendo dalla mia famiglia e finendo con i miei amici. Quindi, non ho niente da perdere se mi presento ad un ballo da solo. Pensavo che sarebbe successo qualcosa, un miracolo. — Risi, sarcastico. — Così eccomi qui, a deprimermi, mentre bevo una Piña Colada. Alla salute. — Feci un altro sorso.
Riccardo sgranò gli occhi. — Oh... quindi sei gay.
Ed ecco l'ennesima persona che sembrava avesse saputo che avessi un cancro terminale. — Non va bene nemmeno a te? Sei omofobo anche tu? Molto bene, ci vediamo.
Feci per alzarmi, ma lui mi bloccò. — Senti, non è che sono omofobo, ma...
— Tutte le frasi che iniziano così contengono una affermazione omofoba dopo il "ma", quindi risparmiatelo, per favore.
Cercai di non piangere. Capitava molte volte, quando ero arrabbiato, ma provavo a nasconderlo sempre. Lui, però, sembrò notarlo, e rispose: — Volevo solo dire che non ho mai avuto a che fare con un omosessuale, e non so come comportarmi.
— Mmm... — Aggrottai la fronte. — Voglio crederti.
In realtà, non gli credevo poi molto.
Dopo qualche secondo, chiesi: — Aspetta, ma dove sono i tuoi amici?
Sospirò. — A rimorchiare. Porca miseria, dovrei provarci anch'io, ma...
— Ma...?
— Tutti credono che non mi freghi niente della mia ex ragazza, che mi ha tradito col ragazzo che odio e l'ha messa incinta, e che poi si è suicidata, ma non-
— CHE?! — esclamai. Quello sì che era un colpo di scena.
Fece spallucce. — Lunga storia.
Mi ricomposi subito e lo fissai per pochi secondi. Non sapevo se credere o no a ciò che stesse raccontando, non sapevo se potermi fidare di lui, se mi stava solo prendendo in giro. Ma alla fine, preferii farlo continuare a parlare.
— Dicevo, pensano tutti che non mi interessi, ma non è così. All'inizio ero incazzato, l'ho insultata anche davanti alla sua tomba e ci sputato sopra, ma più passano i giorni e più sento che c'è un vuoto dentro di me. Mi manca, capisci?
Lo capivo fin troppo bene, a dire il vero.
Cominciò a tremare. Posai lentamente la mia mano sulla sua. — Hey, è tutto okay?
— Sì, è solo che... non ci devo pensare, davvero. Non devo. Mi passerà, tranquillo. Anzi, sono venuto qui per consolarti ed invece mi ritrovo a parlare dei miei problemi. Sono davvero egoista.
Continuai ad accarezzargli la mano. — No, non lo sei. Ti sei solo sfogato, come ho fatto io.
— Sì, ma non concludo niente dicendolo agli altri! Non tornerà in vita, capisci?!
Cominciò a piangere.
Lo guardai, e lo implorai: — Non piangere, ti prego...
— Scusa, ma non ci riesco... davvero. Ci ho provato a non piangere, ma fa tutto schifo, e...
 
— Non posso accettarlo. Non posso pensare al fatto che questa probabilmente sarà l'ultima volta in cui guarderò i tuoi bellissimi occhi e dirò: ti amo. Perché io ti amo, Francesco, ti amo più di ogni altra cosa.
Non smetteva di piangere, e io non potevo sopportarlo. Dovevo farlo smettere.
 
E in quel momento, lo baciai. Mi mancava da morire sentire le labbra di qualcuno sulle mie. Fu salato, a causa delle lacrime che gli rigavano il viso, ma comunque bello.
Dopo qualche secondo, si staccò dal bacio, e realizzai di aver fatto una gran cavolata, ma ero stato preso dal momento, e il suo modo di comportarsi, il suo nervosismo, mi ricordavano troppo Andrea.
— Mi dispiace... — cominciai.
Si alzò di scatto, e senza dire niente si allontanò.
— Ti prego, dì qualcosa almeno! — gridai.
Non rispose, anzi, affrettò il passo. Nel giro di pochi secondi, uscì dal mio campo visivo.
Sì, era stata davvero una cavolata. Non mi avrebbe più rivolto la parola, non mi si sarebbe più avvicinato. Avevo rovinato tutto, come al solito. Credevo di aver trovato un amico, una volta tanto. Invece l'avevo perso prima di cominciare, in pratica.
 
Non molto tempo dopo, sentii qualcuno che correva verso i bagni. Mi voltai. Era lui. Stava digitando qualcosa al telefono. Poi, cadde in ginocchio, poggiò le mani a terra e cominciò a vomitare.
Corsi verso di lui, per aiutarlo.
Cercò di liberarsi, quando gli presi la testa fra le mani. — Cosa c'è, vuoi che ti faccia un pompino? — Vomitò ancora. — Carpe diem, eh?
Stava delirando.
In qualche modo, riuscì a liberarsi e si alzò per andarsene, ma barcollò. Lo presi giusto in tempo, ma mi vomitò addosso. Entrambi, ora, avevamo gli indumenti sporchi. Lo caricai sulle spalle e mi diressi verso la mia auto, situata subito alla destra dell'ingresso. In molti si voltarono a guardarci, ma non mi importava.
Udii qualcuno gridare: — RICCARDO!
Il suo amico rompipalle. Tempismo perfetto.
Venne velocemente verso di noi, mi fulminò con lo sguardo e disse, a denti stretti: — Ma bravo, l'hai fatto ubriacare! Il prossimo step è quello di buttarlo sul tuo letto e scoparlo?
Riccardo vomitò ancora. Lo feci scendere e lo aiutai a tenersi in equilibrio. Ci stavano guardando tutti, ed erano silenziosi. La musica era l'unica cosa che ormai si sentiva, oltre alle urla dentro.
— Senti, non sono stato io — risposi. — Mi trovavo vicino ai bagni, l'ho visto che vomitava e avevo pensato di farlo andare via di qui.
— Tu adesso lo lasci e lo fai venire con me.
— Ah, sì? Voglio proprio vedere cosa diranno i suoi genitori, quando lo vedranno rientrare ubriaco fradicio. E non credo che i tuoi saranno entusiasti di vedere il tuo amico in queste condizioni. Che idea si faranno di lui?
— Non sono cazzi tuoi, lasciamelo portare a casa e smettila di fare il frocio, perché a lui non piacciono i ragazzi!
Gli tirai un pugno. Conteneva tutto l'odio che provavo per gli omofobi come lui, quelli che trovavano perverso ogni gesto che un omosessuale compiva.
Cadde a terra. Bestemmiò.
— Tu dirai ai suoi genitori che ha dormito da te, che non si è ubriacato. Domani ti farò chiamare da lui. I miei non sono in casa, starà da me. Intesi?
— Vai al diavolo — rispose.
Sempre sotto gli occhi di tutti, caricai Riccardo in macchina, entrai, misi in moto e ci dirigemmo a casa.
I miei genitori non erano in casa, dato che erano andati a Milano, e ci sarebbero rimasti ancora qualche giorno.
Salii al piano di sopra, entrai in bagno e poggiai il ragazzo a terra (a quanto pare, si chiamava Riccardo). Si era addormentato.
Mi abbassai e cominciai a sbottonargli la camicia. Con delicatezza, gliela tolsi e la poggiai a terra. Feci lo stesso con le scarpe, i pantaloni ed i calzini. Era solo in boxer. Puzzava da morire.
"Tu guarda cosa mi tocca fare" pensai.
Glieli sfilai, lo presi in braccio e lo poggiai nella vasca da bagno. Aprii l'acqua e cominciai a lavarlo. Giuro che non guardai le parti basse. Okay, solo una sbirciatina, ma era lecita. E me la meritavo, per quello che stavo facendo per lui.
"Dio, sono davvero un maniaco. Forse avrei dovuto lasciarlo dormire con il puzzo di vomito."
Chiusi il rubinetto, presi un asciugamano pulito e tentai di asciugarlo. Non conclusi molto, ma bastava. Lo presi nuovamente in braccio, mi diressi in camera e lo feci sdraiare sul letto. Presi dei miei boxer puliti e glieli misi. Dei panni sporchi non sapevo che farmene. Ero stanchissimo. Feci una doccia veloce e mi cambiai. Chiusi la porta del bagno e mi sdraiai a fianco a lui. Era la seconda volta che lo guardavo dormire, ed era ancora più carino di quanto ricordassi. Non riuscii a resistere quando si girò dall'altra parte. Lo abbracciai. Era una sensazione bellissima. Pochi secondi dopo, chiusi gli occhi e sprofondai in un sonno profondo.
Per la prima volta dopo tanto, tantissimo tempo, avevo mostrato nuovamente segni di umanità. Segni che provavano che forse non ero diventato davvero acido e cattivo, non ero realmente cambiato, ma ero sempre un essere umano che aveva bisogno di affetto ed attenzioni, e si comportava male perché entrambi quei sentimenti erano carenti nella propria vita. Un essere umano che aveva bisogno d'amore.

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