Con te e senza di te

di KALINKA89
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO 1 – L’alba di un grande amore ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 2 – La partenza ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 3- La telefonata improvvisa ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 4- La vendetta è un piatto che va servito freddo ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO 1 – L’alba di un grande amore ***


CAPITOLO 1 – L’alba di un grande amore
 
 
Il mio nome è Noel.
Il mio nome è Noel.
Il mio nome è Noel.
 
Continuavo a ripetermelo per infondermi autostima, cercando di far sì che il mio cuore smettesse di battere così veloce. L’avevo vista la ragazza dei miei sogni, era una vera dea.
Volevo uscire e andare a conoscere i nostri nuovi vicini, ma ero nervoso. Alla porta accanto viveva questa ragazza magnifica – probabilmente di circa dieci anni, come me – e quando vidi che portava un cappellino rosa e delle scarpette dello stesso colore che sembravano quelle di una bambola di stoffa, sorrisi. Le altre ragazzine del quartiere non si vestivano in quel modo così grazioso e al contempo buffo. Tra l’altro, lei era anche carina. Fu amore a prima vista. L’atro giorno l’avevo sentita parlare al telefono, probabilmente, con una sua amica: Parlava con un tono di voce sottile, gentile, educato. Quando parlava lo faceva con il cuore. Non era come le altre, era diversa. Aveva negli occhi e nei suoi movimenti eleganti qualcosa di magico. Mi sembrò una fata alata, ecco, così l’ho immaginata nei miei sogni. Un principessa splendente.   
Tra una fantasticheria e l’altra, mi appoggiai, con sguardo sognante, al davanzale della mia finestra dai vetri luccicanti e pulitissimi, tenendo d’occhio la porta d’ingresso della casa dei vicini: si sentiva della musica ed era tutto illuminato come se fosse un giorno di festa. Nessuno vi abitava da molto tempo e in ogni caso gli ultimi inquilini erano stati una coppia di anziani morti, poi, di tumore, abbracciati nel letto mentre attendevano che la loro ora sopraggiungesse. Tra le nostre due case c’era un grande albero, ma io riuscivo comunque a vedere la finestra della ragazza dei miei sogni attraverso il fogliame.
“Ehi, tesoro”.
Mi voltai e vidi mia madre appoggiata allo stipite della porta della mia stanza da letto. Aveva un sorriso gentile stampato in volto, ma gli occhi erano umidi e gli abiti tutti stropicciati.
Stava di nuovo male. Stava sempre male quando si attaccava alla bottiglia.
“Ho visto che abbiamo dei nuovi vicini», continuò. «Li hai già conosciuti?”.
“No”. Scossi il capo, tornando a guardare fuori dalla finestra e sperando che se ne andasse. Avevo dei segreti che volevo nascondere a mia madre, si intrometteva troppo nella mia vita ma le volevo un bene dell’anima.
“Hanno una figlia femmina. Niente maschi”, dissi io.
“E tu non puoi fare amicizia con una femmina?”, la voce le si incrinò e la udii deglutire. Sapevo cosa stava per succedere e sentii una morsa allo stomaco.
“No che non posso, le femmine sono sempre un problema, un laccio che fa male al cuore”.
Non mi piaceva parlare con mia madre. In effetti, nemmeno sapevo come fare. Passavo un sacco di tempo da solo e lei, dal canto suo, mi teneva alla larga.
“Noel …”, cominciò, ma poi si interruppe. Dopo un istante, la sentii allontanarsi e sbattere una porta al piano di sotto. Probabilmente era andata in bagno a vomitare. Mia madre beveva un sacco, soprattutto nel weekend. Tutt’a un tratto mi passò la voglia di andare a conoscere la ragazzina, dai capelli nerissimi e lucidi, della porta accanto. Non voglio sognare per poi restare deluso ancora una volta. Avvertii una forte fitta al cuore e un senso di vuoto immenso. Anche, se, devo ammettere che questa ragazza sembrava davvero speciale, divina, quasi ultraterrena. Una dea dell’amore.
Tutto d’un tratto sentii la musica degli Evanescence provenire dalla sua stanza. Almeno credevo che fosse la sua stanza. Le tende erano chiuse ma erano rosa come le sue scarpette minute e il cappello.
Mi tirai su, pronto a dimenticare i nuovi vicini per andare a prepararmi qualcosa da mangiare. Solo il cibo non mi delude mai, mi gratifica sempre. Quella sera probabilmente mia madre non avrebbe cucinato.
Ma poi vidi le tende aprirsi e mi bloccai.
 
Lei era lì. Mio Dio! Quella era proprio la sua stanza!
 
Per qualche strana ragione sorrisi e il cuore mi si colmò di gioia infinita e sconfinata. Mi piaceva l’idea che le nostre stanze fossero una di fronte
all’altra. Mi sentivo più vicina a lei, come se facessi già parte della sua vita, del suo dolce mondo. Socchiusi gli occhi per vederla meglio mentre apriva le persiane, ma poi quando mi accorsi di cosa stava facendo li sgranai.
Cosa? Era impazzita?
Aprii di scatto la finestra e guardai fuori nella notte. “Ehi!”, le gridai.
“Che stai facendo ragazzina?”.
Lei tirò su la testa e mi si mozzò il fiato quando la vidi ondeggiare sul ramo dell’albero di ciliegio sul quale cercava di rimanere in equilibrio. Agitava le braccia come se stesse per perdere l’equilibrio e io uscii immediatamente dalla finestra, arrampicandomi a mia volta per salvarla da quella che ben presto poteva essere per lei una pericolosa caduta.
“Sta’ attenta!”, le urlai mentre lei si chinava e afferrava un grosso ramo.
Avanzai lentamente, tenendomi forte.
Che stupida. Ma che stava facendo?
Aveva dei grandi occhi di un nero brillante e procedeva carponi, aggrappandosi a un ramo che tremava pericolosamente sotto il suo peso.
“Non puoi arrampicarti su un albero da sola, è troppo pericoloso per te”, le feci notare. “Stavi per cadere. Vieni qui”. La raggiunsi e le afferrai la mano delicatamente. Lei arrossì completamente di botto.
Le dita mi formicolarono all’istante, come succede quando si addormenta una parte del corpo. Lei si alzò, le gambe che le tremavano, e io mi tenni a un ramo in alto, mentre riportavo entrambi verso il tronco.
“Perché lo hai fatto?”, si lamentò lei. “So come si fa ad arrampicarsi. Mi hai spaventata, rischiando di farmi cadere” disse ad occhi bassi con molta timidezza e arrendevolezza. Il suo tono di voce era intimorito e basso come se avesse paura di me.
Cosa sono un mostro? Possibile che tutte le ragazze hanno sempre paura di me?
 
La fissai un po’ deluso, e mi sedetti su un ramo nella parte più interna dell’albero. “Sì come no … Io ti faccio paura vero? Perché hai quell’espressione indifesa stampata sul volto?! Devi essere più sicura di te stessa!”. Mi pulii le mani sui pantaloni sportivi color blu mare.
Dall’alto dell’albero guardai giù la strada di casa nostra, “Via Sanctum”, ma non riuscivo a smettere di pensare alla sua mano, che poco prima stringevo nella mia e al suo viso rosso come un peperone. Quello strano formicolio mi risalì il braccio e si diffuse in tutto il corpo. Avevo la pelle d’oca e mi veniva da ridere, come se qualcuno mi stesse facendo il solletico. Lei rimase in piedi per un po’, probabilmente impaurita, poi però, dopo pochi secondi, si sedette molto lentamente accanto a me. Le nostre gambe penzolavano giù dal ramo. E i nostri sguardi erano fissi al cielo senza stelle.
“Quindi”, fece lei, indicando casa mia, “tu vivi lì?”.
“Sì. Con mia madre”, risposi, e la guardai giusto in tempo per accorgermi che aveva abbassato lo sguardo e aveva preso a torcersi le dita per l’agitazione. Si incupì, poi corrugò la fronte e parve che si stesse sforzando di non piangere.
 
Che cosa avevo detto?
 
Portava ancora gli stessi abiti che aveva quella mattina quando l’avevo vista scaricare il furgone con suo padre. Aveva i capelli sciolti e nerissimi che ondeggiavano al vento, lunghi fino alla fine della schiena e a parte qualche macchia di sangue sulla gonna, sembrava pulita. “Perché sei sporca di sangue?”
Chiesi incuriosito e un po’ amareggiato al pensiero che potesse essere stata picchiata o ferita. La ragazza non mi rispose e guardò ancora il cielo come se i suoi occhi si fossero persi nell’immensità dello spazio vuoto del cosmo. “Mi piacciono le stelle …” mi disse voltandosi, poi, verso di me e sorridendo. Il suo volto sembrava emanare una luce dorata e brillante. Aveva un’aura misteriosa e allo stesso tempo delicata e gentile. Restammo seduti lì per un minuto circa, a guardare la strada e ad ascoltare il vento che faceva frusciare le foglie intorno a noi.
 
Che pace! Che beato silenzio! Avvertii il calore della sua mano che stava appoggiata vicino alla mia. Lei sembrava proprio minuscola accanto a me, come se rischiasse di cadere giù da un minuto
all’altro, incapace di tenersi. Aveva le labbra atteggiate a una smorfia triste, ma io non sapevo perché fosse di così cattivo umore. Tuttavia ero certo di non volere andare da nessuna parte finché non si fosse sentita meglio.
“Ho visto tuo padre”, le dissi. “Dov’è tua madre?”.
Il labbro inferiore le tremò e lei alzò lo sguardo verso di me. “Mia madre è morta in primavera. Quando sono nata”.
Aveva le lacrime agli occhi, ma trasse qualche profondo respiro come se stesse cercando di fare la dura.
Non avevo mai conosciuto nessuno della mia età che avesse perso il padre o la madre e mi sentii in colpa per il fatto che mia mamma non mi piaceva, che mi lamentavo sempre di lei. «Io non ho un papà», le dissi, cercando di farla sentire meglio. “Se n’è andato quando ero piccolo
e mia madre dice che non era una brava persona. Almeno tua mamma non l’ha fatto apposta a lasciarti da sola, giusto?”.
Mi rendevo conto di aver fatto la figura dello stupido. Non volevo far sembrare che lei se la cavasse meglio di me, ma solo dire qualcosa che potesse aiutarla a riprendersi. Avrei anche potuto abbracciarla, che poi era proprio quello che desideravo.
Ma non lo feci. Cambiai argomento per non spaventarla.
“Ho visto che tuo padre ha una macchina d’epoca”.
Lei non mi guardò, ma alzò gli occhi al cielo. “È una Chevy Nova. Non una macchina d’epoca qualsiasi”.
Io lo sapevo, ma volevo vedere se lo sapeva anche lei.
“Mi piacciono le macchine”. Mi tolsi le scarpe con un calcio, lasciandole cadere per terra. Continuammo a dondolare i piedi, ormai scalzi.
“Un giorno correrò al Loop”, le dissi.
“Il Loop? E che cos’è?”
“Un circuito in cui vanno a correre con le macchine i ragazzi più grandi. Potremo andarci anche noi quando saremo al liceo, ma ci servirà una macchina bella e potente. Tu puoi venire e fare il tifo per me”.
“Perché non posso correre pure io?”, mi guardò con aria un po’ da tonta.
 
Diceva sul serio?
 
“Non credo che facciano correre le femmine, è uno sport per maschi”, risposi, sforzandomi di non scoppiarle a ridere in faccia. Lei socchiuse gli occhi e tornò a fissare la strada. “Magari potresti convincerli”.
Mi venne da ridere, ma mi trattenni. “Forse”.
Sì come no.
 
Mi tese la mano. “Mi chiamo Yeul, ma tutti mi chiamano Yu per abbreviare” disse con voce dolce e sottile.
Annuii, le strinsi la mano e sentii un po’ di calore irradiarsi di nuovo nel braccio. Una fitta di gioia mi invase il cuore fino a farmi provare benessere e amore verso di lei.
“Io sono Noel”.
“Hai dei bei capelli, Noel” e sorrise di nuovo a occhi chiusi. Era fantastica quando mi sorrideva. Il viso le si illuminava di felicità. Un vero angelo caduto in terra. Mi pareva che potesse essere una di quelle stelle cadenti che illuminano il cielo e cadono ogni 1000 anni. Una di quelle stelle che si vedono solo per pochi istanti per poi scomparire per sempre dalla tua vita. Pochi istanti di amore eterno. E poi il buio più totale.  
 
Sotto il cielo notturno e nero come la morte,
Sotto il ciliegio in fiore
Ci siamo appena incontrati. Io e te.
Grazie di cuore per ciò che mi hai dato Yeul.    


 
 
 

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 2 – La partenza ***


CAPITOLO 2 – La partenza
-Sei anni dopo … -
 
Il labbro inferiore della giovane Yeul sta sanguinando e il sangue gocciola sul pavimento come pittura rossa.
Le riempie la bocca e poi sgorga fuori: le fa tutto troppo male per sputare.
“Papà, ti prego”, lo implora con la voce incerta e il corpo scosso da brividi di paura.
Sua madre aveva ragione quando le è apparsa in sogno. È una brutta persona e Yeul non avrebbe mai dovuto chiederle il permesso di lasciarla andare a trascorrere l’estate con lui.
La giovane crolla in ginocchio sul pavimento della cucina, tremante, con le mani legate dietro la schiena.
La corda le prude e le affonda nella carne.
“Mi stai pregando, femminuccia che non sei altro?”, ringhia, ricominciando a frustarla. “Io desideravo un figlio maschio, non sei mai stata voluta in questo mondo. Solo la tua stupida madre che è morta dopo averti dato alla luce: Solo lei poteva amarti.”
La piccola Yeul tiene gli occhi chiusi, trasalendo, mentre il fuoco le divampa tra le scapole. Chiude anche la bocca, cercando di non produrre alcun suono e respirando dal naso fino a quando il bruciore non si affievolisce. Ha le labbra gonfie e tumefatte e sente il sapore metallico del sangue.
Noel ...
Yeul ha un flashback del suo volto e cerca di concentrarsi su quella parte della sua mente in cui c’è  solo lui che le sorride e la saluta da lontano agitando entrambe le braccia.
Un luogo in cui ci siamo io e lui, insieme. I suoi luminosi capelli neri, scalati, che fluttuano al vento mentre ci arrampichiamo sulle rocce vicino al laghetto. I gabbiani si alzano in cielo. I momenti in cui Noel si metteva sempre dietro Yeul, in caso lei inciampasse. I suoi occhi di un nero come la notte che gli sorridono. Ma poi  quel mostro di suo padre interrompe il flusso dei suoi pensieri .Non pregarmi ragazzina! Non scusarti! Ecco cosa sei diventata, da quando ho permesso a quella abbattona di tua madre di partorirti. Una sciocca. Sei solo una ragazzaccia senza valore. Non meriti di vivere!”.
La afferra per i capelli, facendole scattare indietro la testa, per guardarla negli occhi. Yeul ha il voltastomaco quando sente l’odore dell’alito di suo padre, che sa di birra e sigarette.
“Almeno tua sorella Yuka mi ascolta!”, sbotta l’omaccione. Yeul ha i conati di vomito. ”Non è vero, Yuka?”, urla il padre, voltandosi appena.
Lascia andare Yeul e si dirige verso la grossa ghiacciaia in un angolo della cucina. Bussa due volte sullo sportello. “Sei ancora viva?”.
Yeul tenta di trattenere le lacrime e ogni muscolo del viso le si infiamma di dolore. Non voleva piangere né mettersi ad urlare, ma Yuka, sua sorella , è chiusa nella ghiacciaia da quasi dieci minuti. Sono dieci minuti che non si sente nulla da là dentro.
Perché mio padre le fa una cosa del genere? Si chiede Yeul. Perché punisce Yuka se in realtà è con me che ce l’ha? Pensa ancora.
Ma Yeul sta buona e tranquilla, perché è così che il padre vuole che facciano le sue due ragazze. Forse se ottiene ciò che vuole, lascerà uscire mia sorella. Pensò Yeul. Non devo pensare  a me ma alla mia sorellina. Si starà congelando lì dentro e non so nemmeno se ha abbastanza aria. Quanto a lungo si può sopravvivere chiusi dentro una ghiacciaia? Forse è già morta. Dio, è solo una ragazzina! Yeul ricaccia indietro le lacrime. Per favore, per favore, per favore padre, per favore basta, non ne posso più…
“Insomma…”. Il padre si avvicina alla sua fidanzata, Yona, una pazza che si fa di crack, e al suo amico Gordon, un losco malvivente che fissa Yeul con un sorriso macabro e perverso. Siedono entrambi al tavolo di legno della cucina,sporco di sangue, godendosi gli effetti di qualsiasi droga ci sia oggi sul
menu, senza prestare la benché minima attenzione a ciò che stanno passando le due ragazzine inermi che si trovano nella loro stessa stanza.
“Che ne pensate voi?”. Il padre-padrone mette una mano sulle spalle sia a lui che a lei. “Come possiamo insegnare a mia figlia a comportarsi da uomo?”.
 
 
Noel versò lacrime durante il sonno.
Mi risvegliai di soprassalto, con il cuore a mille. Avevo la schiena sudata e sbattei le palpebre,rimettendo a fuoco la mia stanza. Cosa ho sognato? Yeul? Da dove provengono questi suoi ricordi? Lei non mi ha mai raccontato nulla. Che sogno bizzarro ...
Tutto bene. Avevo il fiatone. Era solo un sogno.
Ero a casa mia.
Tutto sotto controllo.
Comunque avevo sempre il bisogno di assicurarmi che lei stesse bene. Dovevo andarla a trovare.
Nonostante avessi gli occhi gonfi di lacrime, mi tirai su e mi affrettai a esaminare la stanza. La luce del mattino filtrava dalla finestra e dovetti portarmi una mano sugli occhi per proteggermeli dai raggi del sole.
Tutta la roba che c’era sul cassettone era finita per terra, ma combinavo sempre un casino nella mia stanza quando bevevo troppo. A parte il disordine, era tutto tranquillo.
Buttai fuori l’aria e trassi un profondo respiro, cercando di rallentare i battiti del mio cuore, mentre continuavo a guardarmi intorno. Solo alla fine i miei occhi si posarono su una specie di fagotto che giaceva sotto le coperte accanto a me. Ignorando le fitte alla testa, dovute all’alcol della sera precedente, scostai il piumone per scoprire a chi – troppo stupido o troppo ubriaco per impedirlo – avessi permesso di trascorrere tutta la notte a casa mia.
Grandioso.
Un’altra dannata bionda nel mio letto.
Ma che diavolo mi era passato per la testa?
A me le bionde non piacevano. Avevano sempre quell’aria da brave ragazze, ingenue e scuipa-uomini. Nessun dettaglio esotico o lontanamente interessante. Niente capelli neri che io adoravo tanto. Non c’è nessun calore nel loro cuore solo sesso e alcolici. Troppo finte come le bambole. Le classiche tipe della porta accanto che incontri, ti seducono e poi ti chiedono di passare la notte con loro.
A chi mai potevano piacere?
Ma quanto ho bevuto ieri? Oddio! Sono stato drogato … Solo ora me ne accorgo.
Tuttavia negli ultimi giorni – da quando erano ricominciati di nuovo gli incubi – non desideravo altro che bionde. Come se avessi un qualche distorto istinto autodistruttivo nei confronti dell’unica ragazza che amavo odiare perché non potevo tenerla accanto a me: Yeul la conosco da 6 anni. Dolce, bruna, dagli occhi grandi e allungati, sensibile e pura come l’amore che sapeva provare nel suo cuore. Pronta a sacrificarsi per gli altri e per il mondo che la circondava. Avvertiva la sofferenza delle piante, della natura e poteva parlare con gli spiriti da quanto mi disse. Era davvero una ragazza particolare.  
Ma… dovevo ammetterlo, Yeul si stava allontanando sempre di più da me. Non ci parlavamo ormai da settimane ed era troppo timida per chiamarmi lei, per fare lei il primo passo.
Mi parve che avesse detto qualcosa a proposito del fatto che era tornata a casa dall’università per trascorrere l’estate in tranquillità con suo padre. Non credevo di averle detto di avere sedici anni e di essere ancora alle superiori. Yeul è più grande di me di 3 anni. Forse avrei potuto rivelarglielo che sono ancora un bambino rispetto a lei, l’avrei fatto di sicuro al momento più opportuno.
Riappoggiai la testa sul cuscino: mi faceva così male che non riuscivo nemmeno a sorridere al pensiero della sua reazione.
 
“Noel?”. Mia madre bussò alla porta, e io scattai su.
La testa mi faceva male come se qualcuno mi avesse picchiato per tutta la notte, e non volevo avere a che fare con lei proprio in quel momento.
E se si accorge che ho portato una ragazza nel mio letto?! Non deve accorgersene, non deve entrare in stanza. Comunque, mi alzai dal letto e mi diressi verso la porta prima che la ragazza al mio fianco si svegliasse. Aprii uno spiraglio e lanciai a mia madre lo sguardo più paziente che riuscii a produrre.
Indossava dei pantaloni della tuta rosa e una maglietta aderente a maniche lunghe – un’ abbigliamento appropriato, in effetti, considerando che era domenica – ma dal collo in su era un disastro come al
solito. Aveva i capelli legati alla bell’e meglio e spettinati e il trucco della sera prima tutto sbavato sotto agli occhi.
Probabilmente si era ubriacata anche più di me. L’unico motivo per cui era già in piedi e attiva era che il suo corpo era molto più abituato del mio alle sbornie. Quando si dava una ripulita, comunque, si notava che era ancora giovane. La maggior parte dei miei amici, quando la vedeva per la prima volta, pensava che fosse mia sorella.
“Che vuoi?”, le chiesi.
Pensavo stesse aspettando che la facessi entrare, ma ovviamente non glielo avrei permesso.
«Yeul sta partendo», disse a bassa voce.
Il cuore cominciò a martellarmi nel petto.
Era oggi?
All’improvviso fu come se una mano invisibile mi avesse sferrato un pugno allo stomaco, tanto che trasalii per il dolore. Come se una mano invisibile avesse afferrato il mio cuore e lo stesse stritolando a pugno chiuso facendolo sanguinare copiosamente. Non so se fu per i postumi della sbornia oppure perché mi ero ricordato che stava partendo, ma dovetti stringere i denti per ricacciare indietro la bile.
“E quindi?”, mormorai, fingendo dolorosamente uno spietato disinteresse.
Lei mi fissò. “E quindi pensavo che potessi alzare il deretano e andarla a salutare. Starà via per tutto l’anno, Noel. Eravate amici un tempo. Cosa vi è successo?”.
Già, fino a due anni fa… l’estate prima del primo anno delle superiori ero andato a trovare mio padre e, una volta tornato a casa, mi ero reso conto di poter contare solo sulle mie forze. Mia madre era una donna debole, mio padre assente per lavoro, e Yeul … Yeul era la mia unica luce, la mia unica ancora di salvezza. E adesso stava partendo per sempre. Cercai di trattenere le lacrime e rifiutai di esprimere le mie emozioni. Avrei potuto scoppiare a piangere come un bambino ferito. Ma mi controllai. Mi limitai a scuotere il capo, prima di richiudere la porta e chiedere a mia madre di lasciarmi solo.
Certo, come se potessi semplicemente uscire e abbracciare Yeul per salutarla. Non mi importava che se ne andasse, anzi ero contento di liberarmi di lei.
Ma avevo un nodo in gola, e non riuscivo a deglutire.
Mi appoggiai contro l’uscio, sentendo il peso di migliaia di mattoni sulle spalle. Mi ero dimenticato che partisse oggi. E praticamente ero ubriaco da due giorni, ovvero dalla festa dei miei migliori amici.
Dannazione! Dannazione a me! Sono così debole da non riuscire nemmeno ad abbracciare Yeul. Sferrai un pugno contro la porta e poi picchiai la fronte contro di essa.
Riuscivo a sentire le portiere di una macchina che sbattevano e mi dissi di rimanere dov’ero. Non avevo alcun bisogno di vederla.
Che se ne andasse pure a studiare all’estero. La sua partenza era la cosa migliore che potesse capitarmi. Mentivo a me stesso.
“Noel!”.
Mi irrigidii quando mia madre mi chiamò dal piano di sotto. “Il cane è scappato. Faresti meglio ad andarlo a prendere”.
Grandioso.
Di sicuro l’aveva fatto apposta a far uscire il cane, ci avrei scommesso. E avrei scommesso anche che l’aveva fatto uscire dalla porta che dava sul cortile. Mi accigliai così tanto che quasi mi fece male la fronte.
Mi infilai al volo i jeans della sera prima, spalancai la porta della mia stanza, fregandomene di svegliare la ragazza bionda nel mio letto, e mi precipitai giù dalle scale. So di essere un bastardo! Ma Yeul, ti supplico, non abbandonarmi ancora per seguire i tuoi sogni e compiere il tuo dovere! Sussultarono nel mio cuore questi pensieri troppo tristi per non farmi del male.
Mia madre mi stava aspettando sulla soglia, sorridendo come se si sentisse particolarmente intelligente e porgendomi il guinzaglio. Glielo strappai di mano, uscii e mi diressi verso il cortile di casa di Yeul.
Black era anche il suo cane, per cui di sicuro era andato da lei.
Yeul che era voltata di spalle, ella sentii il cane abbaiare e quando si voltò i suoi capelli neri si sparsero nel vento come un velo mosso dalla tempesta, i suoi occhi erano gentili e semichiusi, fissavano verso il basso. Come al solito mostravano tristezza. “Sei venuto a salutarmi Black?”. Yeul si era inginocchiata sul prato vicino alla macchina di suo padre e io mi fermai di colpo, paralizzato dal suono della sua risata, divertita e innocente. Rideva come se fosse la mattina di Natale e teneva gli occhi chiusi, mentre Black le strofinava il muso sul collo.
La sua pelle color latte brillava nel sole mattutino, e le sue labbra piene e rosee erano schiuse, rivelando un’incantevole fila di denti bianchi.
Il cane era chiaramente felice, a giudicare da come scodinzolava, e io mi sentii quasi un intruso. Yeul era così felice. Non mi aveva nemmeno notato. Era così semplice e naturale ma i suoi movimenti erano scenici come in una recita teatrale.
Il cane e la mia amata Yeul erano una coppia affiatata, si amavano a vicenda, e le farfalle cominciarono a svolazzarmi nello stomaco.
Dannazione. Strinsi i denti.
Come faceva? Come era possibile che riuscisse sempre a farmi sentire felice di vederla felice?
Sbattei le palpebre.
Yeul continuò a giocherellare con il cane. “Sì, sì, ti voglio bene anche io!”. Sembrava una bambina, con tutte quelle smorfie buffe e affettuose, e Black  continuava a leccarle la maglietta.
Non avrebbe dovuto volerle così bene. In fondo cosa aveva fatto lei per catturarsi tanto la simpatia del mio cane?
“Black, vieni”, ruggii, anche se non ero davvero arrabbiato con lui.
Yeul  posò lo sguardo su di me e si alzò. Finalmente mi notò. Inclinò la testa su un lato e mi riempì il cuore con il suo dolce sorriso. “E’ stato bello averti conosciuto, Noel”. Aggrottò le sopracciglia amareggiata per la partenza e solo allora mi resi conto di che cosa aveva indosso.
La maglietta che le avevo dato quando avevamo quattordici anni. Per qualche strana e stupida ragione, gonfiai il petto.
Mi ero dimenticato che ce l’avesse lei.
Be’… non proprio. Più che altro non pensavo che ce l’avesse ancora. Probabilmente nemmeno si ricordava che era un mio regalo.
Mi chinai ad agganciare il guinzaglio al collare di Black e feci una piccola smorfia. “Mi stai parlando di nuovo, Yeul. Dopo tante settimane … “. Non la chiamavo mai “Yu”. Odiava il suo nome abbreviato e quindi era il nome per intero che usavo per stuzzicarla e farla sentire male.
Assunsi un’espressione di annoiata superiorità.
Starò meglio quando lei non sarà più nei paraggi, mi dissi. Non era niente per me.
Eppure udii una vocina in un angolo remoto della mia testa. Lei era tutto.
Yeul scosse il capo e se ne andò dopo avermi salutato con la mano.
Non avrebbe mai replicato, immaginai, educata com’era non mi avrebbe mai detto quel che pensa veramente di me. Non quel giorno.
“Indosserai quella maglia, che era mia, durante il tuo viaggio?”, le chiesi sogghignando. Avrei dovuto semplicemente girarmi e andarmene ma, diamine, non potevo trattenermi dal provocarla. Era una specie di droga. Mi piaceva vedere il suo sguardo triste, quella luce fioca che brillava nei suoi occhi tanto da sembrare sull’orlo di un pianto a causa del mio comportamento scorretto. Le ombre che sono nascoste nel mio cuore mi suggerivano, contro la mia volontà, che avrei voluto sicuramente proteggerla da tutto e tutti ma anche ferire il suo cuore fragile per poi essere io l’unico e il solo a risanarlo di nuovo. La tristezza aiuta a tenere le persone che amiamo vicine al nostro cuore. Ero disposto pure a ferirla pur di non farmi abbandonare, proprio perché la stavo vedendo partire la mia rabbia, quella che cercavo di soffocare, era evidente.    
Lei si voltò, i pugni stretti. “Perché mi tratti sempre così? Cosa ha che non va la tua maglietta addosso a me? E’ un tuo ricordo”. Le lacrime sembravano affacciarsi sul volto ferito della piccola Yeul.
“Ti dà un’aria sciatta”. Che sfacciata bugia.
Quella maglietta nera era sì un po’ vecchiotta, ma le aderiva come se fosse stata fatta apposta per lei, e i jeans scuri le fasciavano completamente le gambe. Stava benissimo vestita così. Con quei suoi capelli splendenti e la pelle luminosa, era allo stesso tempo il fuoco con cui avrei voluto bruciarmi e il cielo in cui avrei voluto sollevarmi in volo. Yeul era unica e inimitabile, stupenda nel cuore e nell’aspetto ma non se ne rendeva conto.
E, cio che mi colpiva maggiormente era che non fosse bionda, era di sicuro il mio tipo.
“Ma non c’è bisogno che ti preoccupi”, continuai. “Tanto l’ho capito”.
Lei socchiuse gli occhi. “Capito cosa?”.
La provocai con un sorriso compiaciuto. “Ti è sempre piaciuto metterti i miei vestiti”.
Sgranò gli occhi e arrossì: non c’era dubbio che l’avessi ferita e intimidita. Il suo faccino era infiammato dalla vergogna.
Sorrisi tra me e me. Diamine, quanto mi divertivo.
Comunque sia, corse via nascondendosi il viso tra le mani.
“Aspetta un attimo! Hey, dai, scherzavo!”. Mi puntò contro un dito “Tu mi hai sempre odiata! E non so perché, ma cosa ti ho mai fatto?” le lacrime le inondavano il viso e aveva dipinta in volto una smorfia di dolore. Rimasi a bocca aperta. Cosa avevo fatto? Non mi aspettavo questa sua reazione, proprio lei che era sempre felice e forte. Diamine, sono proprio un bastardo! Yeul si diresse verso la macchina correndo.
Rovistò sotto il sedile davanti, nella valigetta che suo padre teneva lì per le emergenze, tirò fuori qualcosa e poi richiuse delicatamente la portiera. Quando tornò da me, vidi che aveva in mano un foglio.
Prima che potessi rendermi conto di ciò che stava accadendo, me lo lanciò addosso.
Il cuore mi batteva fortissimo.
Diamine. So perfettamente di cosa si tratta.
Senza fiato, la osservai tenere il suo dito puntato contro di me. “Te la ricordi Noel quella lettera? Quella che scrivesti per me?” si calmò e con la manica della maglietta si asciugò le lacrime passandosela distrattamente sul viso.
Che tonta!
Che diavolo le aveva preso? Non capiva che l’amavo troppo e perciò non volevo soffrire e mi comportavo così per autodifesa? Non lo immaginava. Non conosceva bene il mio carattere sono sempre stato chiuso e freddo. Non le ho mai rivelato chi davvero sono.
I nostri sguardi si incontrarono e il tempo parve fermarsi, facendoci dimenticare la lettera. I capelli le svolazzavano e i suoi occhi burrascosi mi perforarono la pelle, il cervello, rendendomi incapace di muovermi o parlare. Le braccia le tremavano un po’ e il petto, si abbassava e si alzava per il suo sfogo, era affannata. Era scossa. Mi amava, lo sapevo. Ma perché sono così debole? Non riesco a dirglielo. Ho paura di innamorarmi di lei, tanto da distruggermi.
Strinsi i pugni con rinnovata energia e all’improvviso rimasi paralizzato al pensiero di quanto mi sarebbe mancata. Non il fatto che la odiassi e la provocassi per divertimento.
Mi sarebbe mancata. Solo lei.
Una volta che me ne fui reso conto, serrai la mascella così forte che mi fece male.
Dannazione.
Aveva molto potere su di me.
La lettera stropicciata era caduta a terra, davanti ai miei piedi. La raccolsi. Non riuscivo a leggerla. Era la lettera che le scrissi per insegnarle i valori della vita. Quei miei valori che ora avevo perso, ma che poi sono diventati i suoi. Lo so, è per questo che ora ha paura di me più di prima. E’ perché sono cambiato tanto che Yeul si chiude nel suo guscio senza più rivolgermi la parola per giorni interi. Quella era la lettera su cui lei pianse, 6 anni fa, per la contentezza. 
“Yeul!”, gridò suo padre dal portico, facendoci tornare entrambi alla realtà. Ci corse incontro e la strattonò. “Quante volte ti ho detto che non devi parlare con questo ragazzaccio!?”.
Un tuffo al cuore mi pervase. Eh già, perché io sarei un mostro?
Non avevo distolto gli occhi da quelli di Yeul, ma l’incantesimo si era rotto e fui finalmente in grado di ricominciare a respirare. “Ci vediamo l’anno prossimo, Yeul”, sbottai, sperando che suonasse come una minaccia. Non voglio soffrire per amore. Yeul è troppo per me. Troppo importante sia per perderla che per averla al mio fianco. Ho paura.
Lei tirò su il mento e si limitò a fissarmi, singhiozzando, mentre suo padre le ordinava di tornare dentro l’autovettura. Yeul mi voltò le spalle e sparì dalla mia vista.
Addio mia Yeul ...
Feci ritorno a casa con Black al mio fianco e mi asciugai il sudore freddo dalla fronte.
Dannazione. Inspirai, sollevato, come se l’avessi scampata bella.
Perché non riuscivo ad arginare l’effetto che mi faceva quella ragazza? E le sue lacrime non mi avrebbero aiutato a dimenticarla.
Quell’immagine mi sarebbe rimasta stampata in testa per sempre.
La paura mise radici nel mio cervello non appena mi resi conto che stava davvero partendo. Non avrei avuto più alcun controllo su di lei. Non avrebbe più pensato a me ogni giorno. Sarebbe uscita con qualsiasi deficiente che avesse mostrato interesse per lei. E, cosa forse ancor peggiore, non l’avrei più vista sorridere con il suo viso luminoso di felicità né avrei sentito più la sua voce delicata. Avrebbe vissuto la sua vita senza di me, e ciò mi spaventava a morte.
Tutto, all’improvviso, mi parve alieno e sgradevole. La mia casa, il mio quartiere, l’idea di tornare a scuola nel giro di una settimana.
«Dannazione!», ringhiai a mezza voce.
Tutta questo schifo doveva finire.
Avevo bisogno di una distrazione. Di molte distrazioni.
Una volta dentro,liberai il cane e salii le scale diretto alla mia stanza da letto, tirando nel frattempo il telefono fuori dalla tasca.
Bastarono tre squilli, poi un ragazzo dalla voce roca rispose al telefono.
“Pronto, Noel, sei tu?”
“Si. Sono io. Ascolta Snow … “
“Si, lo so cosa vuoi dirmi. La festa è ancora da organizzare, Noel”
Guardando la Opel che percorreva il vialetto e la mia amata Yeul seduta al sedile posteriore, di spalle, che non si voltò nemmeno una volta a guardarsi indietro, schiacciai forte il telefono contro l’orecchio. “Bionde. Un sacco di bionde voglio che ci siano alla festa, capito Snow?!”.
 Snow proruppe in una risatina. “Ma tu odi le bionde”.
Tutte. Le odio tutte.
Sospirai. “Invece, in questo preciso momento, ne voglio in quantità”. Non mi importava che si stupisse del mio tono. Non avrebbe fatto domande. Per questo era il mio migliore amico. “Manda qualche
messaggio e procurati da bere. Io mi occupo del cibo e ti raggiungo tra poco”.
“D’accordo, Noel ma sappi che io sono impegnato con la mia fidanzata e non voglio che disturbi ne me ne la mia dolce metà alla festa intesi?”
Questa risposta mi provocò dolore. Yeul mi mancava ancora di più, sempre di più. Dannatamente di più.
“Affare fatto”.
Udii un piccolo gemito provenire dal letto e mi voltai. La ragazza bionda – avevo dimenticato il suo nome, non mi importava – si stava svegliando.
Riattaccai: il mio letto era l’unico posto in cui volessi stare
in quel momento.
 
Yeul…
 
Perdonami dolce Yeul. Ma non sarai di nessuno. Prima o poi ti troverò. E dovrai fare di nuovo i conti con me. Non ti lascio in pace.
Noel si rimise a letto con la bionda e dopo un po’ le ordinò di andarsene via e non farsi più rivedere. La ragazza con tono malizioso rispose: “D’accordo, d’accordo. Sei un ragazzo triste, tanto non mi interessi!”.     Detto ciò sbattè la porta e se ne andò.
“Yeul … Dove sei ora? Mi stai pensando ancora?”
Mi accorsi che avevo la sua lettera ancora in tasca la presi e, facendomi coraggio, la lessi.
 
Questo è l’elenco delle mie virtù e vorrei che tu le conoscessi. Yeul.
1.Non ho genitori, cielo e terra sono i miei genitori.
2. Non ho potere divino, l’onestà è il mio potere.
3.Non ho potere magico, la forza interiore è la mia magia.
4.Non ho ne vita ne morte, sono di passaggio, l’eterno procedere è la mia vita e la mia morte.
5. Non ho corpo, il cuore è la mia sola presenza in vita
6.Non ho miracoli, dovere, coraggio e forza sono i miei miracoli quotidiani.
7.Non ho progetti, i miei progetti sono l’occasione che colgo al volo.
8.Non ho principi i miei principi sono l’adattamento alle situazioni.
9. Non ho amici, i miei amici sono il mio spirito e le persoane che voglio proteggere
10.Non ho corazza, buona volontà e rettitudine sono la mia fortezza.
11.Non ho forma, il mio spirito da forma a ciò che sono
12. Non sono mai malvagio, la malvagità è degli ignoranti e dei deboli. Io sono illuminato dalla saggezza.
 
Una lacrima scese lungo il viso di Noel La sua mente era inondata di ricordi. Desiderava ritornare a quando aveva solo 10 anni e Yeul 13.
“Non mi riconosco più”. Misi la mia testa sotto il cuscino e piansi per tutta la notte senza farmi vedere da nessuno. Il mio orgoglio non me l’avrebbe permesso.   

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 3- La telefonata improvvisa ***


CAPITOLO 3- La telefonata improvvisa


 Le settimane successive furono come un salto nel vuoto con un paracadute perfettamente funzionante, che però mi rifiutavo di usare. La scuola, mia madre, mio fratello Artis, i miei amici: mi stavano tutti
intorno perché potessi aggrapparmi a loro, ma l’unica cosa che mi spingeva a uscire di casa ogni giorno era il proposito di poter rivedere Yeul prima o poi.
Mi trascinai, irriguardoso alla lezione di Matematica, cercando di capire perché diavolo continuassi ad andare a scuola. Era l’ultimo dannato posto in cui volevo essere. I corridoi erano sempre pieni di gente e tuttavia mi sembravano vuoti. Senza Yeul la vita non aveva più senso.
Avevo un aspetto orrendo, tra l’altro. Ia mia guancia sinistra era bluastra e livida e avevo un taglio sotto l’occhio, a causa di una parapiglia con i bulli della scuola. Un vero putiferio. Stavo difendendo Serah, la ragazza di Snow, in sua assenza. Avevo promesso a Snow che quando lui non c’era mi sarei preso cura io di lei. Come se non bastasse, quella mattina mi ero trangugiato mezzo panettone, perché non riuscivo a non pensare a Yeul.
Non avevo idea di quale terribile impulso distruttivo si fosse affacciato nella mia mente, ma in quel momento mi sembrava che avesse senso.
 
“Noel, avvicinati alla cattedra, prego”, mi ordinò il professor Raines, notando immancabilmente il mio ritardo. Erano tutti già seduti, e io deglutii rumorosamente e mi fermai a guardarlo. Raines aveva un aspetto severo e autoritario. Sapevo che non avevo scampo in nessun caso. Avrei dovuto incassare il colpo e la predica.
Raines non sembrava particolarmente scomodo, tuttavia non riuscii a nascondere l’espressione incresciosa che di sicuro mi si era imbellettata in volto.
“Mi perdoni signor Raines, non capiterà più”, mi scusai con il volto abbassato verso il pavimento, mentre lui scribacchiava e imbrattava il registro di classe.
Sbuffai agognante, ben capendo che cosa significava una nota sul registro.
Infine Raines prese una penna e me la porse. “Non essere irresponsabile. Vai dalla preside”, mi disse, battendo poi il palmo della mano sulla cattedra per destare il silenzio della classe in evidente agitazione.
Incassai il colpo, considerando che è sempre vero che al cattivo lavoratore ogni attrezzo da dolore.
“Non me lo farò ripetere due volte!”, lo istigai, fissandolo intensamente negli occhi come un assassino che ha trovato la sua vittima.
Alcuni studenti, miei colleghi di classe, si sbellicarono dalle risate bisbigliando e sghignazzando mentre Raines mi fissò con occhi ben serrati avendo accolto la sfida, si alzò e proruppe fragorosamente “Mi ha sentito? Vada dalla preside … Subito!”.
 
Come si dice? Non si può mai stare in pace, a chi vuol riposare conviene travagliare.
 
Mi persuasi a non rispondergli, spalancai la porta dell’aula, curandomi di richiuderla lentamente dopo essere uscito.
“Snow!”, sentii gridare Raines, e voltandomi vidi che anche Snow era uscito dall’aula.
“Ho le mie cose, signor Raines, c’è il mar rosso in agitazione qui sotto”, disse, con aria divertita. “Non starò via a lungo”.
A quel punto si udì nettamente una clamorosa risata provenire dall’aula.
Snow non era freddo e per i fatti suoi come me. Era un tipo estroverso, coraggioso, anche se devo convenire, un po’ ciarlatano.
“Ehi, piccolo eroe!”. Mi corse dietro e con il pollice indicò la direzione opposta. “La preside sta di là”.
Chiusi gli occhi e accennai un sorriso peno di spavalderia.
“Bene, bene”. Si batté un pugno sul petto, come a volersi convincere che non era un problema far arrabbiare il professor Raines. Ma gli era davvero passato per la testa che potessi andare dalla preside, per cosa poi? Assorbirmi un predicozzo o una strigliata lunga e insopportabile come la fame.
 
“Quindi dove siamo diretti?” disse Snow con marcato entusiasmo.
“Che importa? E se ti dicessi nel mio garage per riparare l’autovettura?”.
“Hai un’auto? Grande, ragazzaccio! E com’è?”.
“E’ una Lamborghini gialla come la senape che andremo prima a metterci in un panino al prosciutto perché sto morendo di fame!”
Mi squillò il telefono, ma abbassai la suoneria. Nessun disturbo durante il “lavoro”.
Sorrisi, immaginandomi Yeul piangere per me, semplicemente perché mi piaceva il suo dolore.
Quando Snow andò in garage, in modo che potessimo mangiare mentre lavoravamo, mi rifugiai immediatamente nel lavoro più duro e stancante: Fare il meccanico.
 
“Tieni la torcia puntata sul motore”, intimai a Snow.
Lui si infilò sotto il vano motore mentre io cercavo di svitare le candele. “Fai piano”, si lamentò lui. “Se non stai attento rischi di romperle”.
Mi bloccai e strinsi la presa sulla chiave inglese, fissandolo con uno sguardo torvo. “Credi che non lo sappia?”.
Abbassai gli occhi, scossi il capo ed esercitai ancora più forza sulla candela. Quando la sentii rompersi, rimasi di sasso.
“Porco il mondo …”, grugnii, lanciando sotto il cofano la chiave inglese, che sparì in mezzo a tutto quel casino.
Mi appoggiai alla carrozzeria della macchina. “Dammi la pinza”.
Snow si chinò sul tavolo da lavoro alle sue spalle. ”Non me lo farò ripetere due volte!”, mi fece il verso, mentre mi porgeva l’attrezzo con il quale avrei dovuto recuperare la candela.
“Stai andando a fondo, amico!”, mi gridò Snow d’improvviso. “Non vai più a lezione, mandi tutti a quel paese, fai sempre a botte con qualsiasi bullo ti capiti a tiro, e ci sono tagli e lividi a dimostrarlo”.
“E’ per proteggere la tua Serah che mi sono ridotto così. Almeno apprezza il gesto”.
“Già … se quei bastardi mi capitano sotto tiro, gli faccio fare il giro del mondo in 80 giorni a suon di calci! “  borbottò tra se Snow evidentemente adirato. “Basta non voglio più pensarci”, sbottò. Le sue parole rimbombavano nella stanza. Quella che aveva detto era la
pura e semplice verità, ma io non volevo affrontarla.
 
Mi sembrava tutto sbagliato.
 
Avevo fame, ma non di cibo. Volevo ridere, ma non c’era niente che mi divertisse. Tutto ciò che mi emozionava era Yeul, un tempo come adesso mi faceva battere il cuore come un cavallo scosso, impazzito.
Mi sentivo intrappolato in una lanterna luminosa, ma senza poterne uscire più. Soffocato da tutto ciò che desideravo ma senza più
aria.
 
“Tornerà tra otto mesi”. La voce pacata di Snow si insinuò tra i miei pensieri e mi ci volle un momento prima di rendermi conto che stava parlando di Yeul.
 
Scossi il capo.
No.
Non avevo bisogno di quella ragazza.
 
Afferrai la chiave inglese e raddrizzai la schiena, pronto a rificcargli in bocca quelle parole. Il suo sguardo si posò sulla mia mano destra, quella in cui stringevo l’arnese, poi di nuovo sul mio volto.
 
 “Quindi?”, mi sfidò. “Cosa pensi di fare Noel? Vuoi colpirmi? Ma sappi che a chi ha paura non basta l’armatura”.
La suoneria del mio telefono, che prese a vibrarmi in tasca, ci interruppe. Presi il cellulare, continuando a fissare Snow.
“Chi parla?”, sbottai.
“N-Noel…”, disse una voce debole e flebile. Sembrava quella di una donna. Non accennavo a calmarmi.
“Chi sei? Rispondimi”, dissi preoccupato per quel tono di voce sofferente che udivo al di là del ricevitore.
“N-Noel…”, biascicò lei. “Noel, s-sono io … Yeul”. Un fulmine mi colpì a ciel sereno, per sbaglio riattaccai la chiamata…
Strinsi il telefono in mano, come se volessi romperlo.
Guardai Snow scuotere la testa e sollevare le mani al cielo in un gesto di sconfortata rassegnazione e gettare sul tavolo da lavoro la pezza che aveva in mano
“Era Yeul. E lui cosa fa? Appende al tram quella povera ragazza. Mah!”.
“Oddio … Che ho fatto …”, borbottai, e ricomposi il numero di Yeul riportato tra le chiamate ricevute.
Se davvero c’era qualcuno che aveva bisogno di me, era Yeul. L’ansia si impadronì della mia testa. Sembrava essere sofferente. Il cuore mi batteva mille. La chiamata nel ricevitore bussava ma non rispondeva nessuno. Dopo pochi secondi …
“Pronto … Noel?”, la voce di Yeul era priva di vigore e il suo timbro sembrava quello di una persona morente. Cercai di mantenere la calma. Deglutii. Poi dissi : “Eccomi. Mi dispiace per prima”.
Dall’altra parte del trasmettitore ci fu una breve pausa di silenzio. Un tempo che sembrava interminabile. La mia mano, quella che tratteneva il ricevitore all’orecchio, iniziò a tremare.
“Noel. Sono scappata di casa. Ho denunciato gli abusi di mio padre Caius. Sono stata affidata a una casa famiglia”.
 
 In quel momento capii che per Yeul, io, era tutto ciò che aveva.
 
“Puoi venirmi a prendere?” singhiozzò la ragazza supplicando Noel.
 
Certo che potevo! E subito!
Ma non con la macchina in quelle condizioni. Comunque, forse potevamo prendere quella di Snow. “Dove sei?”, le chiesi impaziente e parecchio scosso.
“I-in ospedale, Noel. Sono in ospedale”.

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 4- La vendetta è un piatto che va servito freddo ***


CAPITOLO 4- La vendetta è un piatto che va servito freddo

“Scusi, posso aiutarla ragazzo?”, mi gridò da lontano un’infermiera mentre varcavo come una furia le doppie porte del reparto. Non avevo tempo per registrare la mia presenza. Dovevo trovare la mia Yeul.
Avevo le mani sudate e neanche la più pallida idea di cosa era successo. Yeul, dopo avermi detto dov’era, aveva riattaccato.
L’avevo lasciata da sola – ferita – ancora una volta. Non sarebbe accaduto di nuovo.
 
“Rallenta, amico”. Snow mi arrancava dietro. “Ci sbrigheremo prima se chiediamo dove possiamo trovarla”, aggiunse. Non mi ero nemmeno accorto che mi avesse seguito. Il pavimento era composto da mattonelle rotte e fredde, scricchiolava sotto i miei piedi mentre avanzavo imperterrito lungo i corridoi, scostando una tenda dopo l’altra, fino a quando non trovai la povera Yeul.
Sedeva su un letto con le braccia tremanti e le mani sulle guancie per tenersi la testa.
“Yeul!”, tuonai.
La luce fluorescente del lampadario a neon sul soffitto si proiettava sul viso di Yeul con riflessi cristallini e celestiali sul suo volto. Mi pareva avvolta da una luce angelica, paradisiaca, sovrumana e incantevole. Il suo viso era sciupato e tramortito. Le brillavano gli occhi colmi di lacrime e negli stessi, balenava un lampo di terrore come se si fosse appena svegliata da un terribile incubo.
 
“O Noel!” si alzò dal letto e per poco non cadeva di lato, si sosteneva a malapena in piedi, inciampò ma senza cadere e subito si gettò tra le mie braccia rompendo in un pianto straziante.
“O Noel! Sapessi cosa mi è successo! E’ stato terribile. Ho avuto tanta paura. Sembrava un inferno. Solo un incubo e invece era la realtà! O Noel!”, il suo pianto si fece sempre più sconsolato, addolorato. E quando Yeul stacco il volto affondato nel mio petto per alzarlo, in alto, verso il mio, aveva un’espressione indifesa, totalmente disarmante. Restai immobile senza dire niente. Nulla poteva essere detto in circostanze simili. I miei occhi erano colmi di rabbia e di compassione per quella povera ragazza straziata dal dolore. Avevo lo sguardo inerme perso nel vuoto. Non ero in grado di reagire al cospetto di cotanta miseria. E Yeul non cessava di piangere avvinghiata al mio torace potevo percepire la sua disperazione non solo dalla sua voce tremante e dalle sue parole toccanti ma anche perche mi stava bagnando la maglietta nera con le sue lacrime. L’ho fatta piangere ancora, non riesco a crederci. Ma stavolta non per colpa mia. Serrai i pugni e afferrai con le mani le spalle di Yeul staccandola dal mio petto, ma lei non si riusciva a reggere in piedi, era molle, e perso il mio appoggio cadde rovinosamente ai miei piedi mentre continuava a urlare con tutte le sue forze, con tutta la voce che aveva in gola tanto che accorsero gli infermieri e medici allarmati dalle potenti urla “Cosa sta succedendo qui?!”, disse un’infermiera parecchio agitata spalancando la porta.
Snow era attonito, immobile, non interveniva. Mi inginocchiai davanti a Yeul per arrivare alla sua altezza e la scossi con foga per le spalle “Basta! Mi hai sentito?! BASTA TI HO DETTO! Non sopporto vederti piangere!”, smettei di scuoterla perché vidi che la sua testa stava cedendo all’indietro e gli occhi erano strabuzzati, persi in uno stato comatoso. La mia rabbia aumentò. Non ce la facevo, scoppiai in lacrime e gridai “Ti vendicherò! Ti vendicherò! E’ una promessa Yeul! O Yeul!” e la strinsi forte al mio petto, tra le mie braccia. Più forte che potevo. Restammo così abbracciati a piangere per circa mezz’ora. Quando ci fummo calmati entrambi, notai che aveva dei punti di sutura sulla fronte,probabilmente aveva battuto la testa.
 
“Noel!”, abbaiò una voce femminile alle mie spalle, ma non capii che si rivolgeva a me, avevo pianto così tanto che non ero più lucido.
Snow mi afferrò la spalla con forza e mi diede uno scossone
“Riprenditi!” poi sorrise “Sapevo che ci tenevi a Yeul. E’ nelle circostanze estreme che si nota quanto siamo legati a una persona”  e detto ciò si rimise a braccia conserte.
“Che accidenti vi  è successo?”. La domanda dell’infermiera era rivolta a Noel.
“La colpa è di Caius!!! Suo padre!” mi rialzai in piedi e portai il pugno della mano vicino al mio viso “La pagherà cara!!!”. Yeul si era addormentata sul pavimento con il suo camice bianco che le avevano prestato i medici, quello che si dona ai malati. Ma Yeul non era malata. Era solo vittima di un’ingiustizia. I suoi capelli lunghi, neri e lucidi, ricadevano disordinatamente sulle sue spalle e sul suo viso smorto e pallido. Yeul aveva la bocca digrignata e respirava a fatica. Evidenti segni di stress psicologico.
Aveva la carnagione talmente pallida che le si vedevano le vene.
Volevo rivedere il suo luminoso sorriso. Yeul doveva ritornare a sorridere di nuovo.
La donna in divisa alle mie spalle si schiarì la gola. “Non sappiamo cosa gli sia accaduto”, sbottò. “Non ce lo ha detto del tutto, ma il fatto ora sembra più chiaro anche se non conosciamo la dinamica dell’evento”.
 
Dinamica del’evento? Fatti chiari?
La rabbia mi assalì nuovamente, avevo la vista annebbiata. Stavo per scoppiare di nuovo in pianto. Mi trattenni. Ma … “Ma quale dinamica dei fatti?! Che me ne importa di come o cosa diavolo sia successo?! L’unica cosa evidente è che Yeul è distrutta dal dolore!” dissi rivolgendomi all’infermiera che rimase in silenzio con lo sguardo scioccato e torvo. 
Non mi voltai per vedere con chi stavo parlando e per guardarla in faccia. Poteva essere un dottore, un’assistente sociale, non mi importava. Oppure la polizia, poco importava! Con me si comportavano tutti nello stesso modo: come se avessi solo bisogno di qualche sculacciata. Per un attimo mi chiesi se anche Yeul avesse un posto nel quale si sentiva al sicuro, protetta e innocente. Mi ricordai del nostro albero, quello su cui ci siamo arrampicati da bambini.
Per tutto il tempo Yeul era rimasta con suo padre Caius da quando aveva quattordici anni, e non ha mai fiatato sugli abusi che riceveva.
Quello schifo era stato il suo pane quotidiano. Per non parlare della casa-famiglia in cui si trovava adesso: Perfetti sconosciuti. Yeul mi guardava come se fossi tutto il suo dannato mondo, ma io non avevo le risposte. Non avevo potere. Non avevo la possibilità di proteggerla.
Quando Yeul si riprese era già nel letto.
 
“È stato Caius a farti questo?”, le dissi “Non è vero?” insistetti. L’assistente sociale era sopraggiunta e ascoltando la conversazione mi allontanò da Yeul che sembrava ancora scossa e con gli occhi spalancati per il terrore, e stanchi, ma senza più lacrime. Io continuai a urlare mentre l’assistente sociale mi strattonava per le braccia nel tentativo di cacciarmi dalla stanza
“Mi senti Yeul! Ti vendicherò! Farò come ti ho detto! Lo giuro!”.
Yeul era in coma, fissava il vuoto e non il mio volto contorto dalla rabbia. Mi dimenai dalla presa della donna e voltai le spalle a tutti. Corsi sulla soglia della porta e parlai dando le spalle a tutti.
“Bastardo! Caius!”, feci a mezza voce, ora, con tono più tranquillo. Cercavo di tenere le mie emozioni sotto controllo per il bene di Yeul, ma sentivo un vuoto allo stomaco.
Per tutta la sua vita, lei aveva dormito in letti strani e vissuto con persone che non la volevano tra i piedi.
Ma quando è troppo, è troppo. Yeul e io ci appartenevamo. Insieme eravamo più forti. Era solo questione di tempo, poi quel che restava della sua innocenza sarebbe svanito e il cuore della piccola Yeul si sarebbe indurito troppo per permettere a qualcosa di buono di mettere nuovamente radici. Non potevo permettere che Yeul diventasse come me, e io volevo urlare a tutta quella gente che potevo amarla più di chiunque altro. I ragazzi non hanno solo bisogno di cibo e di un posto in cui dormire. Hanno bisogno di sentirsi al sicuro, amati. Hanno bisogno di avere fiducia in se stessi. In fondo quella volta quando stava partendo io l’avevo tradita, perché nel mio cuore sapevo che volevo allontanarmi da lei per il suo bene, per non ferirla o farla soffrire a causa mia.
 Ancora una volta.  
Non meritavo nemmeno di guardarla in faccia.
Ma una cosa la sapevo. Sapevo come vendicarmi.
 
 
“Stiamo andando dove penso?” disse Snow quando mi vide abbandonare la stanza, camminava accanto a me e accorgermi che era ancora al mio fianco mi diede un po’ di conforto.
Era un buon amico, anche se non lo trattavo bene come avrei dovuto.
“Non devi venire anche tu”, lo avvisai.
“Tu non lo faresti per me?”, mi chiese. Lo guardai come se fosse una domanda troppo stupida per meritare una risposta.
“Esatto”, annuì.
“Proprio come pensavo”.
Snow si mise alla guida e raggiungemmo la casa di Caius mezz’ora dopo. Saltai giù dalla macchina prima ancora che si fosse fermato. Era tardi, era tutto buio, e il quartiere sembrava senza vita: il profondo ruggito della nostra Lambroghini pareva l’unico rumore nel raggio di chilometri.
Mi voltai e lo fissai. “Vattene”.
Lui sbatté le palpebre, come se non avesse capito bene.
Gli avevo appena fatto passare un mese d’inferno, e non se lo meritava. Certo, le risse erano pericolose. E anche proteggere quella ragazza, Serah, era il mio compito per essergli grato. Non era stato male, ma Snow non si sarebbe buttato dal precipizio se non fossi stato io a condurlo fin lì.
Si sarebbe spinto fin sul ciglio, senza dubbio.
Avrebbe guardato giù.
Di sicuro.
Ma non si sarebbe buttato. Ero sempre io a spingerlo o a lasciare che cadesse. Prima o poi però non si sarebbe rialzato e sarebbe stata tutta colpa mia.
“No”, disse risoluto. “Io non vado da nessuna parte, Noel”.
Feci un mezzo sorriso, ben sapendo che sarebbe stato impossibile convincerlo ad andarsene.
“Sei un buon amico Snow, ma non intendo trascinarti sul fondo insieme a me”.
Presi il cellulare dalla tasca dei jeans e composi il 122.
“Salve”. Non distolsi lo sguardo da lui. “Sono al 1248 di Sanctum street. Qualcuno ha fatto irruzione a casa nostra. Abbiamo bisogno che venga la polizia. E un’ambulanza corrispondente alla chiamata d’emergenza all’118”.
Riattaccai e lo fissai. Snow aveva gli occhi sgranati.
“Saranno qui in circa otto minuti”, gli dissi.
Snow non aveva capito il senso di quella telefonata.
Mi incamminai sul vialetto che conduceva all’ingresso della casa a più piani in mattoni rossi e riuscii a sentire i rumori della televisione che provenivano dall’interno. Mi fermai davanti ai gradini,
infastidito perché non avevo sentito la macchina di Snow allontanarsi, e allo stesso tempo stupito dal fatto che il mio cuore continuasse a battere a un ritmo normale. Non avrei dovuto sentirmi nervoso? O eccitato?
Neanche stessi entrando in un bar a chiedere un frullato.
Strabuzzai gli occhi quando vidi la luce proveniente dallo schermo della tv, dentro l’appartamento, e trassi un profondo respiro.
Quel figlio di una’abbattona era ancora sveglio.
Bene.
 
Mentre salivo i gradini del portico, sentii i passi di Snow alle mie spalle. Entrai dall’ingresso principale e mi diressi in soggiorno, fermandomi sulla soglia.
Bussai.
Caius, il padre di Yeul, aprì ma non batté ciglio quando mi vide.
“E chi diavolo sei tu?”, ringhiò lui.
Lo afferrai per la cravatta e lo strattonai.
“Hai fatto del male a Yeul”, gli dissi in tono pacato. “Sono qui per saldare i conti”. Stranamente ero più calmo del solito. Quel pianto fatto nella stanza d’ospedale quando Yeul mi era corsa incontro afflitta, mi era servito indubbiamente.
Al cuor non si comanda

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