La tregua

di EsterElle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La tregua ***
Capitolo 3: *** Spirito della Terra ***
Capitolo 4: *** Soldato del re ***
Capitolo 5: *** Mercenario ***
Capitolo 6: *** Profeta ***
Capitolo 7: *** Destino ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


La tregua

 





Prologo




Era ormai sera quando il vecchio giunse in vista della città di Merkedek.
Camminò lentamente fino alla cinta muraria e aggirò le macerie ricoperte di edera e di muschio. Non c’era nessuna traccia del massiccio portone di legno e ferro dei suoi ricordi, né carri o mercanti, non un solo contadino, un pollo, un vecchio asino sul suo cammino.
Il vecchio trascinò il mantello lercio per le strade silenziose della città fantasma e tese l’orecchio ad ogni rumore: del legno sulla nuda terra, del vento tra le finestre senza vetri di case abbandonate. Un gruppo di cani, magri e nervosi, gli si avvicinò, annusando l’aria attorno a lui. Ringhiarono, famelici, e si allontanarono, lunghe ombre sui muri spogli della città, padroni di quel mondo in rovina.
Il vecchio continuò a camminare e si accorse di non essere più solo.
Una donna, nascosta tra le ombre della sua casa, chiuse d’un colpo la porta al suo passaggio. Un ragazzo, per sbaglio sulla sua via, chinò il capo e non volle incontrare il suo sguardo.
Quando giunse in vista della piazza principale il vecchio abbassò il cappuccio che gli nascondeva il volto. Mille rughe ricoprivano la pelle sottile del suo viso, stranamente candida, e gli angoli della bocca piegavano verso il basso. Le mani magre stringevano convulsamente il bastone mentre oltrepassava il Tempio e il palazzo della Corporazione dei Mercanti, ormai in rovina. Inciampò nella lunga veste e per poco non cadde quando alcune galline in libertà gli razzolarono tra i piedi.
Quel giorno era stato giorno di fiera a Merkedek; non più di una ventina di persone si affollavano in quel momento, al calar della sera, intorno ai banchi che scarseggiavano di mercanzia. Il vecchio sapeva che la città non doveva essere molto più popolosa né le merci più numerose.
Un mercante fece un gesto pigro nella sua direzione, come un richiamo svogliato; eppure, non appena il vecchio posò lo sguardo su di lui, l’uomo si ritrasse, timoroso, stringendo tra le dita la saccoccia piena di monete.
Il vecchio sapeva bene che effetto faceva alle persone.
Quando raggiunse il centro della piazza, finalmente si fermò: lasciò correre ancora per un momento gli occhi tra la piccola folla e represse un sospiro. In quel momento una donna schiaffeggiò sonoramente il suo bambino e quello iniziò a piangere forte.
“Gente di Merkedek, ascoltate!” urlò allora il vecchio con quanta voce aveva in corpo.
Qualcuno lo guardò, vagamente interessato.
Un gruppo di armigeri passò in quel momento e il clangore delle loro armature e il rumore sordo degli zoccoli dei loro cavalli risuonarono nella piazza insieme alle grida disperate del piccolo monello.
“Ascoltate un uomo che conosce il futuro” continuò.
Una donna anziana gli si avvicinò, incuriosita, e un allampanato ragazzino la raggiunse borbottando. Quando incrociarono lo sguardo del vecchio, entrambi rabbrividirono.
“Questi miei occhi hanno visto la morte. No, non quella portata dalla guerra, dalle incursioni, dalle razzie. Non quella provocata dalle carestie, dalle piogge, da una cattiva stagione. Siamo abituati a tutto questo, noi povere creature del mondo, siamo abituati a soffrire. Ho visto, invece, il sangue di ognuno di voi e di ogni uomo su questa terra. Ho visto le membra straziate delle vostre mogli e gli occhi vitrei dei vostri figli e dei figli dei vostri figli. Non c’è salvezza alcuna, né misericordia nel futuro!”.
Una donna grassa e pesantemente truccata gli si avvicinò, il vestito profondamente scollato e dai colori sgargianti. Passò di lì un contadino, diretto ai campi fuori le mura, e un olezzo di terra e letame si diffuse nell’aria, sommandosi all’odore acre di corpi sporchi e acqua stagnante.
Il vecchio non si accorse di nulla; le sue mani tremavano e lacrime scendevano lente lungo le guance avvizzite.
“Credete a ciò che sto per dirvi: non c’è fine per questa guerra centenaria se non la nostra fine! La fine del mondo che conosciamo, degli Umani, delle Creature, dei Portatori. Non ci sarà un vincitore, questa volta: solo morte e dolore”.
L’anziana donna si allontanò scuotendo la testa e trascinando con sé il ragazzo. Un gruppo di bambini cenciosi corse lungo la piazza, gridando: travolsero il vecchio che, malfermo sulle gambe, cadde.
La donna truccata non lo soccorse: lo guardò, ebbe pietà di lui e se andò.
Il vecchio rimase per terra, troppo debole per alzarsi.
“Ricordo un tempo in cui questa città contava centinaia di abitanti, la sua fiera era ricca e i suoi mercanti prosperavano. C’erano musica, colore evita. Ricordo un tempo in cui la paura non paralizzava le membra e il sole splendeva senza essere oscurato dalle polveri delle pire funebri. Che fine ha fatto il mondo della mia giovinezza? Ebbene, io so chi l’ha portato via” mormorò, sapendo che nessuno poteva né voleva ascoltarlo.
Ancora per terra, vide l’orlo di un bell’abito e dei sandali di cuoio avvicinarsi. Un fresco profumo di lavanda, infine, lo raggiunse senza stregarlo.
“Gli Déi ci hanno condannato: ci distruggeremo con le nostre stesse mani e un mondo nuovo sorgerà dalle nostre ceneri per loro volere. Se non cerchiamo la pace, almeno una tregua, porpora e nero saranno i colori del nostro futuro e le Divinità del Tempio banchetteranno con i nostri resti” esalò, senza più forze, senza interesse per il nuovo arrivato.
Quando sentì una mano piccola e lieve, di donna, sulla sua testa restò sorpreso: a fatica si sollevò, appoggiandosi al vecchio bastone, mentre lei lo sosteneva per un gomito.
Quando finalmente furono faccia a faccia ci furono silenzio e sguardi e tremori.
No, il vecchio non si aspettava di rivederla.
La donna era bionda e molto bella; non temeva lo sguardo del vecchio, non i suoi occhi color dell’oro, profondi, che sembravano scrutare l’anima.
“Moira” gracchiò quello, infine. “Dopo tutti questi anni …”
Sentiva il peso del mondo sulle spalle, sentiva la vita scorrere via. Non aveva più la forza per reagire, per soffrire, per morire.
“Amico caro, sei più grigio e stanco che mai. Ma ti ringrazio” aveva la voce dolce come il suono di un flauto, quella donna.
Si chinò e gli baciò delicatamente la fronte.
“Grazie per aver diffuso il mio messaggio, grazie per aver testimoniato in tutto il regno il tuo dolore. Ogni guerra, dopotutto, ha il suo profeta di sventura”.
Detto questo sorrise e a passi svelti se ne andò, mentre il suo mantello ondeggiava nella direzione del Tempio.
Il vecchio restò in quella piazza fino a notte fonda: poi, stancamente, si accasciò per terra, posò la testa sulle mani, chiuse gli occhi e morì.
Bagliori di fuoco ed echi di urla lontane accompagnarono i suoi ultimi istanti di vita.
 
 




Note
Benvenuti lettori!!
Voi che siete arrivati qui in fondo avete letto il breve prologo di questa mia nuova storia: spero che sarete abbastanza interessati da continuare! :)
Dato che la storia partecipa al contest The Ancient Tales indetto da Tsunade e Ino;Chan sul forum di Efp, ho già scritto tutti i capitoli (7 in totale) e li pubblicherò abbastanza velocemente, nel giro di una decina di giorni!
Così, se siete curiosi, dubbiosi, se avete voglia di scoprire chi è il vecchio profeta o la donna misteriosa, cosa è successo alla città di Merkedek e quale guerra è in corso, vi aspetto al prossimo capitolo!
A presto,
Ester

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Capitolo 2
*** La tregua ***




Capitolo 1
La tregua






 
 
“Thea? Thea, puoi sentirmi?”
“Adiamo! Thea!”
“Ehi, tu! Smettila”.
“Thea mi senti? Sono io, ti ricordi?”
“Sei molesto, Arciere. Fa silenzio”.
“Ti prego, apri gli occhi”.
“Vedi di non metterti a frignare, ora”.
“Perché diavolo non taci, una buona volta?”
“E perché diavolo a te importa tanto di una Creatura ripugnante?”
“Dì un’altra parola, prova solo a sfiorarla, e non vivrai un secondo di più, soldato del re!”
 

 
La Foresta del Re mutava sotto i colori del sole al tramonto. Mentre le sue foglie si tingevano di rosso, mentre il fiume rifletteva sprazzi di luce dorata e la terra nera fioriva al calore della primavera, un brusio di parole saliva dal bivacco condiviso.
Correva il quarantacinquesimo anno della Guerra dei Popoli e la Foresta era un luogo incantevole ma non un posto sicuro.
A quel tempo il vecchio re Wulfric si avvicinava pericolosamente alla fine dei suoi giorni, malato e stanco ma determinato a non arrendersi. Comandava un esercito possente e guidava gli Umani con pugno di ferro nella lotta contro le Creature da più di trent’anni. Le sue truppe si erano ormai insinuate in ogni angolo del regno e trattavano abilmente con le Comunità dei Portatori. Le Creature, d’altra parte, mantenevano quell’alone di mistero e sacralità che le aveva sempre circondate e restavano nascoste nel cuore profondo della Foresta. Attaccavano a sorpresa, schierando comparti della loro Armata in veloci e violente azioni di guerriglia, per poi ritirarsi in fretta all’ombra della natura millenaria. Nelle loro mani era racchiusa tutta la magia della terra e dei cieli.
Umani contro Creature, Creature contro Umani, era semplice ed efficace e sembrava un conflitto destinato a durare per molti anni ancora. I Portatori, figli degli Umani ma detentori degli straordinari poteri delle Creature, si accontentavano di fare la guerra e la pace con entrambi, senza riuscire a decidersi mai, divisi all’interno delle loro stesse Comunità ma quanto mai essenziali per l’una o l’altra battaglia.
L’odio e il sospetto serpeggiavano nelle città e tra le campagne e niente era più arduo del riporre fiducia nel proprio vicino.
Quarantacinque anni di guerra avevano dilaniato la terra che tutti i Popoli condividevano, infettato la Foresta di sangue e veleno, inasprito e indurito gli animi con morte e povertà.
Da quasi mezzo secolo ognuno combatteva per sé contro il resto del mondo.
 


“Per la grazia degli Dèi, Thea!”
“Tu?”
“Sì, proprio io. Come ti senti?”
 “Sei veramente tu? Tu qui, con me? Non posso crederci … credevo sarei morta senza mai più rivederti ”
“Shh, non affaticarti. Va tutto bene”
“Sì, molto bene, ora”.
“Mi hai fatto davvero spaventare, piccolo Spirito. Bevi questo, da brava”.
“Qui c’è qualcuno che vorrebbe riposare, vi ricordo”.
“Tra poco è pronta la cena, soldato, porta pazienza” la Bella dai capelli biondi intervenne.
“Chi sono queste persone?” sgranò gli occhi Thea.
“Alcuni compagni con cui ho stretto una tregua. Tranquilla, non ti attaccheranno”.
“Siete Umani e Portatori, non è così?”
“Sono un Soldato del re, Spirito, rivolgiti a me con rispetto”.
“Non far caso a lui, bambina. Sì, hai ragione, siamo di fazioni diverse ma per questa notte non ci combatteremo” disse la Bella, con un sorriso dolce.
 


Il gruppo si era accampato ai piedi di un grosso albero carico di foglie e strani frutti dorati.
Il fuoco ardeva in una fossa improvvisata e un giovane incappucciato sedeva lì vicino senza far nulla e senza parlare. Portava ricamato sul mantello il simbolo dei Portatori, una quercia dalle foglie rosse circondata da mura di pietra. La donna bionda e bella, d’altra parte, controllava la cottura della selvaggina appena cacciata e scostava i lunghi capelli dal viso accaldato. Il soldato se ne stava in disparte, basso e massiccio, i radi capelli rossi imperlati di sudore per la caccia nella Foresta; sdraiato, contemplava le sfumature purpuree del cielo al tramonto. Infine, un uomo alto e moro, arco e faretra gettati di traverso sulle spalle, stava chino su un giaciglio, fatto di qualche foglia secca e del suo mantello scuro. Rimirava un piccolo viso sottile, dalla pelle ambrata e rimarcata di tatuaggi complessi. I disegni erano luminosi e percorrevano tutto il lato destro del corpo basso e minuto del giovane Spirito della Terra, Thea, che lentamente si stava riprendendo.
Era una strana situazione: essere lì insieme e non farsi la guerra.
Mangiarono in silenzio, guardarono il cielo tingersi di scuro e il fuoco abbagliare la notte. C’era una strana pace, in quell’angolo di Foresta così lontano dalla realtà.
Era una tregua.
 


“Siete viaggiatori?”
“Che t’importa, Spirito?”
“Adesso esageri, vecchio infame!” ringhiò tra i denti l’Arciere.
“No! Non fa niente, tranquillo” rispose mogia Thea.
“Ecco, bevete questo: per placare gli animi ed essere più a nostro agio gli uni con gli altri” disse la Bella e passò una fiaschetta.
“È buono e caldo, noi Creature non abbiamo nulla di simile. Ti ringrazio”.
 “È solo vino …”.
“Anche per te, ragazzo”.
“Vorrei … vorrei chiedervi un favore”.
“Cosa c’è, Thea?”
“Non preoccuparti, va tutto bene, sto bene. Solo, vorrei condividere con voi un’antica tradizione del mio popolo. Mi sentirei più tranquilla, ecco”.
“Non se ne parla”.
“Di che si tratta?”
“È buona regola presso le Creature della Foresta rendere agli stranieri ben accetti un’ottima ospitalità. Per questo motivo vengono condivise le storie e i ricordi di chi affolla la casa e la tavola; conoscersi è il primo passo per un legame saldo e piacevole”.
“Ripeto: non se ne parla! Non m’importa nulla delle schifose tradizioni barbare di un popolo crudele”
“Se vi conoscessi meglio dormirei senza il coltello tra le mani, questa notte, è probabile” ponderò l’Arciere.
“Per me va bene, stranieri. Ma non parlerò per prima” sorrise la Bella, dolcissima.
“Inizierò io” esclamò Thea, rincuorata.
 


Nessuno protestò e l’Arciere aiutò il giovane Spirito a mettersi dritta, restando alle sue spalle.
Il crepitare del fuoco era piacevole e l’aria della sera profumava di resina e terra. La fiaschetta continuò a passare di mano in mano e ben presto i volti di tutti divennero più accesi, i lineamenti più rilassati.
Qualcuno sorrise, addirittura.
Così quello strano, assurdo, bivacco divenne un posto di poesia; tutti si prepararono ad ascoltare la storia di Thea come bambini, cullati dalla voce della madre nella vulnerabilità che precede il sonno.
Thea si schiarì la gola, allontanò i corti capelli dal volto e iniziò a parlare con voce decisa.
 


«Quando questa mattina mi sono svegliata …» raccontò.
 
 






Note
Il secondo capitolo a voi!! :D
Questi primi sono stati due capitoli molto brevi e entrambi piuttosto introduttivi: dal prossimo in poi saranno molto più corposi e complessi, promesso!
Si affacciano, questa volta, più personaggi sulla scena e credo che ben presto, proseguendo con la lettura, riuscirete a conoscerli a fondo …
Nella speranza che ciò che avete letto vi sia piaciuto e che vogliate continuare a chiarire i dubbi e le curiosità, vi aspetto nelle recensioni ma, soprattutto, al prossimo aggiornamento!
A presto,
Ester




 

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Capitolo 3
*** Spirito della Terra ***




Capitolo 2
Spirito della Terra






« Quando questa mattina mi sono svegliata, tutto era bello.
Il Villaggio di Fenice, tra questi boschi, si apriva pian piano al nuovo sole e gli Spiriti della Notte tornavano ai loro nidi in cima agli alberi più antichi, cantando con le voci acute. Gocce di pioggia, residui d’acqua, colavano giù, rimbalzando da foglia a foglia, da ramo a ramo, bagnando la terra già umida mentre il sottobosco brulicava di vita.
La mia casa, nel cavo di una grossa quercia, era calda e accogliente, profumava di terra e di foglie verdi e giovani; mio fratello non c’era già, mattiniero come solo gli Spiriti di Sole possono essere. Di solito lui occupa quasi tutto lo spazio della nostra casa, con le sue ali piumate e le gambe lunghe, ma io sono felice di dormire accoccolata sul suo petto nella mia vera forma. Questa mattina nulla è stato diverso nel rituale mattutino mio e di tutti gli Spiriti della Terra come me; pulizia del muso, del lungo pelo rossiccio, della coda, il mio miglior vanto. Poi ho sporto il naso fuori dalla tana, finalmente, annusando l’aria fresca, con un vago sentore della pioggia e dell’umido del giorno prima. Ho zampettato fino in cima al nostro albero, ben attenta a schivare tutti i nidi e a non disturbare gli Spiriti d’Aria, appesi a testa in giù; dall’alto, tutto sembrava così tranquillo!
Il Villaggio di Fenice è quasi invisibile a occhi poco esperti, tanto è in simbiosi con la foresta che lo ospita. Il popolo delle Creature vive in armonia con la natura; le case sono gli alberi, il sottosuolo umido e caldo, casa è il cielo, un cespuglio, il cappello di un fungo, una bacca. Noi Creature siamo gli Spiriti della Foresta, la magia della natura, la vita semplice. Per questo motivo, per i nostri poteri, gli Umani ci odiano tanto.
Mi beai dei primi raggi tiepidi del sole, in cima a quell’albero: poi, senza pensarci due volte, mi lanciai di sotto. È la sensazione più bella, quella che amo di più in tutta la giornata: nel mezzo del mio folle volo, da scoiattolo qual ero divenni donna, atterrando leggermente sulle punte dei piedi, appesa a una ramo lungo ed elastico. Al Villaggio i tatuaggi brillano sempre: ogni Spirito ne ha alcuni e ci permettono di distinguerci facilmente gli uni dagli altri quando siamo nella nostra forma più umana. Gli abiti non sono un vero obbligo, per noi; cambiando forma, ne restiamo spesso privi. Così, con pazienza, intrecciai alcune grosse foglie cadute per creare una vestina corta, leggera.
Stavo finendo di sistemarmi quando Gavos, un vecchio Spirito di Legno, mi salutò allegramente, le grosse guance ballonzolanti e la barbetta corta ben acconciata. Non rimasi sorpresa nel vederlo lì, quasi attendesse il mio arrivo.
“Buongiorno cara Thea” sorrise.
“Salve, Gavos. Vai al gruppo?”
“Come sempre. Facciamo la stessa strada?”
“Sì, sono pronta” dissi allora, aggiustando questi miei capelli corti, a ciocche verdi, e i leggeri ciondoli di legno che porto da quando sono nata.
A piedi nudi, la terra, le radici, i fluidi sotterranei, le vibrazioni, mi sono visibili come immagini, come i dipinti degli Umani nelle loro grandi case di pietra e di legno. Così, mentre passeggiavo tranquillamente con Gavos, percepì qualcosa di strano.
“Tutto bene, mia cara?”
“Sì, credo. C’è gran movimento alla casa dello Spirito Fenice questa mattina. È insolito”.
“Qualche Spirito Foglia di ritorno dalle città di ferro, magari” suggerì lui, accennando un sorriso.
“Magari”.
Continuai a camminare e, ben presto, raggiunsi il mio gruppo intorno all’Albero Giovane, separandomi da Gavos che continuò fino al fiume. Altri Spiriti della Terra come me erano già radunati e Candas, la nostra Capogruppo, stava spartendo il lavoro quotidiano. Io fui affidata alla sorveglianza dei cespugli da bacche, insieme ad alcuni vecchi amici d’infanzia.
“Ehi, Thea” mi si avvicinò Junian, per cui un tempo avevo avuto una simpatia speciale.
Non avermene Aster, ti prego!
Junian è alto, per essere una Creatura, e ha i capelli completamente verdi, caratteristica piuttosto comune tra noi Spiriti della Terra. È bello, ecco tutto.
“Sarai tu la mia guardia, oggi?” dissi, lanciandogli uno sguardo di sbieco e accennando un saluto agli altri membri del mio gruppo.
“Indovinato. Cercherò di essere un controllore piacevole, però” ribatté lui, posandomi una mano sulla spalla e guidandomi nella giusta direzione insieme a Konnie e Dresda.
Io risi: mi piaceva, Junian e, dopotutto, avevo avuto controllori peggiori.
“Farò la brava, sta tranquillo”.
Un gruppo di Spiriti d’Acqua ci tagliò la strada, svolazzando a mezz’aria, con grossi contenitori di legno grezzo appesi al collo. La mia amica Jen, inconfondibile anche in quella formazione stretta, mi strizzò l’occhio beccandosi un rimprovero dal suo Capogruppo.
Controllare ogni cespuglio nel perimetro del Villaggio e far si che il terreno fosse prospero di sostanze era il nostro compito: noioso, ma non complicato. Junian era costantemente al mio fianco, sorridente e allegro, brillante come sempre; finché, prepotente e cupa, la guerra entrò nei nostri discorsi.
“Hai sentito dell’ultimo attacco, Thea?” mi chiese lui, dopo un momento di silenzio.
“Si. Mio fratello cerca di tenermi aggiornata, nonostante il divieto” risposi io, lasciando fluire dalla punta delle dita quel po’ di magia verde che possedevo.
“Beh … che ne pensi?”
“Ma che è orribile, è ovvio!”
“Scusa non volevo offenderti, ma sai … la storia con quell’Umano … io non sapevo bene cosa ne pensassi, ecco” inciampò nelle parole, un po’ più goffo del solito.
“Stanne certo: non tradirei mai il mio popolo” lo rassicurai, scostando i capelli dal volto per far si che leggesse la sincerità nel mio sguardo.
I suoi tatuaggi rilucevano sulla pelle d’ambra; sorrise, più tranquillo.
“Gli Umani hanno completamente distrutto il Villaggio di Fonte. Ho sentito di alcuni sfollati che sono giunti fin qui questa mattina all’alba, ridotti assai male” continuò, bisbigliando per non farsi sentire da Dresda che lavorava poco lontano.
“Allora è per questo che c’era tanta agitazione stamattina alla casa dello Spirito Fenice”.
“Hai sentito anche tu?”
“Come avrei potuto ignorarlo? Dovevano essere almeno venti Spiriti in forma animale!”
“Si, hai ragione. Quegli schifosi Umani!” inveì Junian all’improvviso, con rabbia, sputando per terra il suo disgusto.
“Dici che i Portatori si schiereranno dalla nostra parte a questo punto?” chiesi allora, mentre aggiravo il grosso cespuglio e m’inginocchiavo sulla terra nuda, i palmi delle mani a contatto col suolo.
“Molti credono di si. Ora che gli Umani hanno iniziato a dare fuoco alle nostre case, non risparmiando neanche i piccoli, sarebbe come dichiarare guerra alle Creature non giungere in nostro soccorso. Eppure molti altri pensano che Kimberly non prenderà parti nemmeno questa volta. Molti credono che i Portatori non si rivolteranno mai contro i loro antenati” spiegò Junian, pulendosi le mani l’una contro l’altra.
“E noi, che facciamo nel frattempo?”
“Thea, tesoro, non siamo certo noi a decidere: tutto sta nei Consigli alla casa dello Spirito Fenice. Ma vedrai: lui ci proteggerà” mi rassicurò Junian, strizzandomi l’occhio al di là dei rami corti e spinosi del cespuglio.
Qualcuno, in quel momento, fischiò.
“Raccogliete le bacche di oggi e portatele all’albero rosso. Grazie per il vostro lavoro prezioso, Spiriti della Terra” ci ordinò Candas, gentile e distaccata, mentre passava di lì durante i suoi giri di controllo.
Junian chinò il capo, rispettoso, e così io.
In fretta, intrecciai un vassoio con alcuni lunghi fili d’erba, e lo resi resistente con la mia magia. Insieme, lo riempimmo di bacche rosse e non parlammo più di guerra.
“Allora, come sta il giovane Phen?” mi chiese Junian mentre ci avviavamo alla quercia rossa con il nostro prezioso carico.
Phen è il mio fratellino, ciò che resta della mia famiglia.
“È entusiasta del suo nuovo lavoro alla roccia sacra. Quando torna a casa, la sera, ha le mani impastate d’inchiostro e lo sguardo felice” risposi io, sorridendo senza volerlo.
“Non ho mai visto uno Spirito di Sole infelice, a dir la verità” commentò lui.
“Beati loro. Sono così vicini agli Spiriti Guida: è come se potessero vederli, potessero parlare con loro. È un potere straordinario”.
“Chissà cosa ha fatto, questa mattina: non era in casa quando mi sono svegliata” commentai distrattamente.
Ben presto, però, i miei pensieri deviarono su qualcosa di ben diverso, di ben più doloroso di una vaga preoccupazione per mio fratello. La Quercia Rossa, il grande albero-deposito della nostra comunità, era in subbuglio: io e Junian ci avvicinammo in fretta.
“Diteci, cosa sta succedendo?” chiese Junian a uno Spirito di Pietra che correva nella loro direzione.
Era una femmina dai lineamenti duri, scavati, lo sguardo grigio e spaventato. Di più, in quegli occhi, in quelle mani tremanti, nelle labbra dischiuse, lessi terrore puro.
“Lasciatemi andare, vi prego, devo trovare i piccoli. È una catastrofe” mormorò, la voce come un tremito.
Junian non ebbe cuore di trattenerla e lei corse via senza voltarsi, un grosso pacco sotto il braccio.
“Ma cosa vuol dire tutto questo?” chiesi a nessuno in particolare mentre il panico mi aggrediva.
“Vediamo di capirci qualcosa, Thea” disse il mio amico, risoluto, afferrandomi un polso e trascinandomi con sé.
La folla radunata intorno alla Quercia Rossa era di tutti i tipi e di tutti i colori, di tutte le forme; alcuni Spiriti della Notte si aggiravano in volo, bassi, lanciando strida acute e fastidiose, pronti a calarsi dal cielo per afferrare un sacco o un pacco di provviste. Gli Spiriti di Legno erano i più numerosi e i più violenti e danneggiavano la corteccia del vecchio albero, incidendo ferite profonde. Qualche Spirito Foglia lì vicino urlava di sdegno, cercando di curare con la sua magia i tagli alla quercia. E poi, Spiriti d’Acqua, di Roccia, di Neve, d’Ombra e di Stelle si accalcavano l’uno sull’altro, chi in forma animale chi meno, i loro tatuaggi più luminosi che mai. Tutti erano decisi ad arraffare qualcosa, un poco di cibo.
Io ero allibita e non sapevo che fare; mi lasciavo sballottare qua e là senza capire fino in fondo quanto fossimo affacciati sull’orlo di un precipizio.
“Ehi, Gillan!” urlò Junian.
Mi voltai e vidi un giovane Spirito Foglia correre verso di noi e afferrare il braccio che il mio compagno gli tendeva. Gillian era sottile come un fuscello, i lunghi capelli restavano impigliati tra le mani, tra i vestiti, tra le borse di quella folla impazzita. Lo tirammo in salvo, l’incarnato verde pisello pallido come mai.
Io, Junian e Gillian siamo stati dei piccoli insieme e, pur avendo avuto Spiriti diversi per maestri, siamo rimasti piuttosto amici.
“Che diavolo succede Gil?”
“Oh, non avete idea della nostra disgrazia, davvero!”
“Andiamo, Gil, parla!” intervenni io, scuotendolo leggermente per un braccio.
“Mi trovavo qui con la mia squadra per intrecciare i cesti e i pacchi per le provviste quando un gruppo di Spiriti d’Aria di ricognizione si è precipitato di corsa vero la casa della Fenice, urlando a squarciagola che il nemico era alle porte! Da allora in poi, è stato il delirio” disse, prendendosi il viso tra le mani.
“Cosa? Il nemico?” Junian non voleva crederci.
“Parli degli Umani, Gil?” chiesi io, per dissipare ogni dubbio.
Tremavo, come una foglia, come un alberello in balia della tempesta.
“Sì, vi dico di si! Sono qui, e vogliono attaccarci. Non sappiamo quando, non sappiamo dove, non sappiamo nulla di più. Il Villaggio non è pronto, non ha difese, i protettori sono lontani e non arriveranno in tempo. Bisogna mettere da parte un po’ di cibo e partire; tutti gli spiriti che hanno sentito il messaggio dei Ricognitori sono qui per questo” i tatuaggi del piccolo Spirito Foglia brillavano a intermittenza, veloci, come il ritmo del suo cuore in preda alla paura.
Gli Umani ci avevano trovato, infine; dopo Il Villaggio di Fonte e molti altri, era arrivato il nostro turno di cadere in ginocchio, di vedere le nostre case tra le fiamme e i nostri amici morti tra gli arbusti bassi. Ancora una volta, la foresta sarebbe stata scenario di distruzione, rosso sangue: sarebbe stata la nostra fine.
Ma io, io dovevo reagire, per forza.
C’era qualcuno che aveva bisogno di me.
“Phen!” esclamai, in preda al panico.
Phen era ancora giovane, molto giovane, quasi un bambino. Era uno Spirito di Sole, uno dei pochi, aveva un compito importante e passava molto del suo tempo alla roccia sacra, vicino alla casa dello Spirito Fenice. Lo avrebbero trovato subito e lui non avrebbe saputo come difendersi; lo avrebbero torturato e poi ucciso, gli avrebbero strappato le belle piume bianche delle ali, avrebbero lasciato la pelle viva e sanguinante della sua schiena a contatto con la nuda terra per infliggergli il colpo di grazia. L’unico potere degli Spiriti di Sole è di poter astrarsi, dialogare con gli Spiriti Guida, trasportarsi in una dimensione di anime e fumo. Sono creature profonde, luminose e fragili.
Non riuscivo a respirare.
“Shh. Thea, ti prego, resta calma” mi diceva Junian, al mio fianco, le mani sulle mie braccia.
Le sue mani tremavano e la sua voce era macchiata di panico.
“No, io vado a cercarlo” dissi, guardandolo.
“Thea, non essere sciocca. La Fenice proteggerà tutti gli Spiriti di Sole, sono preziosi per la nostra comunità. Tu devi trovare delle provviste e venire via con me” mi disse, gli occhi di un pazzo.
Gillian, intanto stava raccogliendo da terra le bacche che avevamo lasciato cadere una volta arrivati alla quercia rossa. Senza dire una parola, se ne riempì le mani e poi filò via. Registrai la sua inettitudine solo con una parte minima del mio cervello. Tutto il resto era orrore.
“Tu non capisci. Solo io so come prenderlo, solo io so come rassicurarlo!”
In quel momento, da lontano, sentimmo il suono forte, potente, di una detonazione.
Fu il panico.
“Arrivano! Arrivano gli Umani!” gridavano tutti, camminando l’uno sull’altro vicino alla quercia, mettendosi in marcia verso l’esterno.
“Dov’è lo Spirito Fenice, perché non viene ad aiutarci?”
“Moriremo tutti!”
“Chiamate i guerrieri dell’Armata, l’esercito che protegge tutte noi Creature. Abbiamo bisogno di aiuto!”
“Idiota, quelli combattono sulle Piane da giorni!”
“Salvate i piccoli!”
- Devo trovare Phen e poi trovarci un rifugio - , pensavo.
“Senti Thea, io vado. Tu fa quel voi” mi disse Junian all’improvviso, pallido come latte, tutto tremante.
E così, mi lasciò sola, precipitandosi verso la quercia rossa sotto forma di un grosso tasso. Io non avevo pensieri da rivolgere a lui; senza perdere altro tempo, mi voltai e imboccai il sentiero per la roccia sacra.
Le strade erano piene di Spiriti impauriti, che correvano da ogni parte. Era difficile camminare tra quella fiumana impazzita, e caddi spesso. Infine tornai alla mia forma animale; come scoiattolo ero molto più agile, arrampicandomi su un albero e viaggiando tra i rami lunghi e intricati.
La roccia sacra è ai confini del perimetro del Villaggio; è un semicerchio di grosse rocce scure, ricoperte di muschio e licheni dove noi Creature del Villaggio di Fenice ringraziamo e preghiamo gli Spiriti Guida, accompagnati dai nostri mistici, dagli Spiriti di Sole dalle grandi ali bianche. Sembrerebbero dei grossi e cicciotti bambini umani, gli Spiriti di Sole come il mio Phen, se non fosse per quelle loro meravigliose ali!
Piangevo mentre zampettavo veloce tra gli alberi e sui loro grossi rami.
Quando finalmente tornai per terra, tra quelle rocce, ridivenni ragazza senza fatica, i tatuaggi che rilucevano, ben visibili in ogni centimetro della parte destra del mio corpo nudo. Ero allo scoperto, sotto gli occhi di tutti, di ogni nemico nascosto nell’ombra.
Ebbene, non c’era nessuno.
“Phen!” urlai, disperata.
“Phen?”.
Dov’erano tutti loro? Potevano essere già … no, non volevo pensarci.
M’inginocchiai tra le foglie e il muschio di quella zona bella, piena d’ombra, illuminata soltanto da lame di luce che scendevano tra le fronde fitte degli alberi lì intorno.
Che fare, mi chiedevo.
Poi, una formica salì sulla mia mano e mi morse. Non fui sorpresa: era uno Spirito d’Ombra che voleva parlare con me senza abbandonare la sua forma animale.
Magari sa qualcosa, pensai, permettendomi di sperare un po’.
Avvicinai la mano all’orecchio: tutte le Creature sono in grado di comprendere ogni linguaggio.
“Se cerchi gli Spiriti di Sole, non li troverai qui. Pochi minuti fa lo Spirito Fenice è venuto con due dei suoi consiglieri e li ha portati via tutti. Per proteggerli, ha detto” mi disse la formica.
“Sai dove li ha portati?” chiesi.
“Fuori dal Villaggio”.
“Ma gli Umani saranno ovunque là fuori, ormai!”
“Lo Spirito Fenice li difenderà” concluse quella, avviandosi verso la punte delle mie dita.
La lasciai andare, per nulla tranquillizzata.
Avevo bisogno di vedere Phen, di sapere che stava bene; l’avevo promesso a nostra madre molto tempo prima, quando il bozzolo di Phen era appena stato assegnato alla nostra unità familiare. I confini del Villaggio erano vicinissimi ed io avevo deciso: tornai scoiattolo e corsi fuori, alla ricerca del mio fratellino.
La foresta era silenziosa ma questo non mi rendeva serena: temevo un’imboscata, un attacco alle spalle, le spade e quelle grosse macchine spara bombe degli Umani. Avevo paura, davvero molta; pensai a te, Aster, come una vera sciocca.
Mi tornarono in mente i tempi in cui ero stata davvero felice.
Innamorata, per la verità.
In quelli che potevano essere gli ultimi momenti della mia vita, quando correvo disperata per trovare mio fratello, pensai al mio amore impossibile e mai dimenticato e lasciai scorrere l’ennesima lacrima amara.
Avevo sempre avuto la speranza di rivederti, un giorno, nonostante tutti quelli che si erano frapposti tra noi; in quegli attimi realizzai che dovevo abbandonare quel sogno. Mi resi conto che la morte era per davvero dietro ogni tronco, ogni cespuglio, ogni fiore selvatico, pronta a spezzare ogni sogno.
Odiosa, terribile, guerra!
Ho odiato gli Umani, in quel momento di paura disperata.
Ho odiato gli Spiriti Guida, che non intervenivano per portare la pace, per salvare il Villaggio.
Infine, quando sentì un rumore di passi distinto, mi fermai e atterrai con le zampe al suolo. Da scoiattolo il mio udito è migliore e percepii i passi di due persone. Passi leggeri, di qualcuno nascosto fra gli alberi, con il respiro sottile. Qualcuno che non vuole farsi sentire.
Che fossero gli Spiriti di Sole?
No, sarebbero molto più numerosi, mi corressi.
Ma allora chi?
Non ebbi tempo di pensare altro che qualcosa di affilato mi tagliò.
Gridai, per il dolore, con la brutta voce degli scoiattoli. Subito decisi di tornare nella mia forma più umana per controllare quanto esteso fosse il danno. Era un lungo taglio sulla coscia; mi gettai per terra, dolorante, le lacrime agli occhi. Il mondo prese a vorticare proprio in quel momento; no, non era solo dolore quello che provavo.
“Veleno …” mormorai, toccando il sangue che scorreva sulla mia gamba nuda.
Subdolo, vigliacco veleno. Vigliacco Umano!
Ricordo che poggiai la testa per terra, sconfitta. Ecco, pensai, è tutto finito; non salverò Phen, non rivedrò mai più Aster. Stavo morendo, era questa la verità.
Poi, sentii due braccia forti sollevarmi e stringermi a sé. Mi mancò la terra sotto i piedi e il respiro divenne più affannato; aprire gli occhi per guardare in faccia il destino fu la fatica più grande della mia vita.
Ma, quando puntai lo sguardo sul viso pallido sopra di me, tutto tornò al suo posto, la paura scivolò via e non sentii più i dolorosi spasmi del mio corpo.
C’eri tu, Aster, con me, e mi stavi portando via verso un luogo più sicuro.
Non feci domande, non mi sembrò strano che tu fossi lì proprio quando avevo più bisogno di te; sapevo da sempre che ci saremmo rivisti, te l’ho detto. Avevo quasi perduto le speranze quando tu mi hai salvata. Arrivammo qui, credo, e tu mi curasti con le erbe giuste. Riposai a lungo, immagino: al mio risveglio eravate tutti qui, sconosciuti dal passato oscuro, in fuga come noi. »
 

 
Così Thea, il giovane Spirito della Terra, finì il suo racconto, ancora debole e accoccolata sul petto dell’Arciere, sorretta da lui. Sorrise, timidamente, prima che un velo di apprensione calasse sul suo viso.
Non aveva saputo più nulla di suo fratello Phen.
Il fuoco scoppiettava piano e tutti restarono in silenzio, pensierosi. Il Soldato dai capelli rossi lanciò distrattamente un ramoscello tra le fiamme. Lo guardò prendere fuoco e consumarsi.
Era stato burbero e riluttante sin dal principio, ma aveva bevuto molto vino e un’espressione malinconica era impressa sul suo volto.
“Bene, vi racconterò di me, stranieri” disse, con una certa alterigia.
L’Arciere sbuffò piano, sorpreso.
Il ragazzo incappucciato annuì, piano.
“Non perché m’interessi di voi o perché voi v’interessiate a me. Vi racconterò chi sono e perché porto con orgoglio i colori del mio re, così che nessuno possa pensare a me come a un disertore e a un traditore” continuo, molto serio.
“L’onore è tutto ciò che mi resta, come presto scoprirete” aggiunse.
Raddrizzò la schiena mentre tutti si mettevano comodi per una nuova storia.
 

«Il mio racconto ha radici lontane, stranieri …» iniziò.
 
 







Note
Ecco fatto, il primo vero capitolo di questa storia!
Oggi avete conosciuto Thea e il suo mondo e spero possa sembrarvi abbastanza originale e interessante! Presto avremmo a che fare con qualcosa di molto diverso, invece! :)
Attendo vostri parerei, per migliorarmi!!
A presto,
Ester






 

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Capitolo 4
*** Soldato del re ***




Capitolo 3
Soldato del re




« Il mio racconto ha radici lontane, stranieri, sprofondate negli anni bui dell’infanzia.
Il mio nome è Brian Callhan e ho vissuto per molto tempo a Katma, una piccola città vicino Merkedek, nella regione occidentale del regno. Katma era un posto felice, un tempo, nonostante la guerra: i campi erano fertili e gli uomini per lavorarli non mancavano mai. L’acqua era fresca e pura, i bambini crescevano sani.
Fui felice, a Katma, per alcuni anni.
Mio padre era un uomo grosso, con le braccia robuste e la pelle cotta dal sole come si conviene a un bravo contadino. Era un lavoratore onesto, questo dicevano di lui. Conobbe mia madre alla fiera di Merkedek, un giorno di primavera; lei era la figlia dello speziale, giovanissima, poco più di una bambina. La gente racconta che fosse bellissima. Mio padre rimase incanto dalla sua chioma rossa, come fuoco, dal suo sguardo magnetico, dal suo sorriso.
Non capita tutti i giorni di incontrare ragazze così, mi disse, un giorno, ammiccando verso di lei.
Se ne innamorò, semplicemente. Ne era tanto innamorato da volerla sposare, realizzò ben presto. Per convincere la famiglia di lei, ben più ricca, guadagnò abbastanza da pagarsi l’apprendistato presso il fornaio del paese. Lavorò duramente per sette lunghi anni; lavorò e amò con forza, con costanza. Non si dimenticò di lei: e furono fiori e visite e lunghe passeggiate tra i filari di viti poco fuori il villaggio. Impararono ad amarsi, a desiderarsi.
Poi, quando l’anziano proprietario del forno morì a seguito di un brutto incidente al mulino, mio padre ereditò quella fiorente attività. Partecipò al funerale del vecchio, ovviamente, e pianse insieme ai suoi familiari. Il giorno dopo, però, era lavato e sbarbato, pronto per andare a sposarsi.
Così quei due giovani divennero una famiglia, la mia.
Nacqui in un giorno di tempesta, sotto una mala stella, raccontano gli anziani del paese. Mio padre m’insegnò a non credere a quelle dicerie ed io gli diedi ascolto: ancora non potevo sapere quanto fossero veritiere.
Fin da subito mostrai i primi ciuffi di capelli rossi, proprio come mia madre, la ragazza venuta dalla grande città, ma fu mio padre il mio vero maestro e il mio idolo.
Passai i miei primi anni sul pavimento del forno, mai solo, amato profondamente da entrambi. Crescendo, mia madre iniziò a consegnarmi un po’ della sua istruzione, imparai a leggere e scrivere, a contare. Mio padre m’insegnò l’arte del pane, della correttezza, della determinazione.
Era il fornaio del paese, ormai, tutti lo amavano; io sognavo di diventare forte, onesto, gentile come lui.
Era un uomo semplice e perbene, come non ce ne sono più.
Avevo degli amici, avevo una casa accogliente e dei genitori uniti più che mai. Non avevo nulla da desiderare e pregavo le Divinità affinché nulla cambiasse e tutto restasse com’era.
Perché era bello ed io ero felice.
Non mi diedero ascolto, ovviamente, quel mucchio di Déi bugiardi, arroccati nei loro Tempi.
Avevo sette anni quando il senso del dovere di mio padre lo convinse ad arruolarsi nell’esercito del re. “Dobbiamo fare la nostra parte, figlio mio”, mi diceva.
“Un sacrificio per la nostra giusta causa”, continuava.
Ricordo ancora che la mamma pianse di nascosto per giorni mentre papà le insegnava come mandare avanti l’attività, cosa fare per non morire di fame, per non restare senza un soldo.  
“Non andare, ti prego … resta con noi. Brian è ancora piccolo, ha bisogno di suo padre. Ed io ho bisogno di te” lo supplicava tra le lacrime, le mani sporche di farina.
Quando partì, eravamo entrambi sulla porta di casa, io e mia madre.
“Siete il fuoco che brucia nel mio cuore, che mi tiene vivo” mormorò lui abbracciando entrambi, sfiorando una lunga ciocca infuocata dei capelli di mamma.
“Quando torni papà?” ricordo che domandai, con l’ingenuità dei bambini.
“Presto, piccolo mio” mi rispose, scombinandomi i capelli.
Baciò la mamma e partì, un fagotto in spalla con tutti i suoi averi, pronto a raggiungere il reggimento di passaggio a Merkedek. Io e la mamma restammo a Katma, invece, consumandoci le ginocchia a furia di preghiere, troppo fiduciosi nella misericordia di Déi assenti.
La mamma non era stata educata al duro lavoro quotidiano: per mesi arrancò nel forno, riuscendo a mandare avanti l’attività solo grazie alla generosità dei vicini, troppo affezionati a mio padre per lasciar morire di fame la sua famiglia. Nessuno stimava mia madre, invece, non la sua cultura, i suoi modi, la sua maniera di parlare; tutto in lei ricordava il benessere e la ricchezza della grande città.
“Quella lì, con la puzza sotto il naso, non ha la minima idea di come mandare avanti una casa” bisbigliavano le donne l’una all’orecchio dell’altra.
Io le sentivo, sempre. Allora correvo dalla mamma, l’abbracciavo, le dicevo che l’amavo e che per me lei era perfetta. Lei mi sorrideva, sporca e sudata, e sussurrava. “Vedrai che papà torna presto”.
Papà non tornò mai più, invece.
Quando giunse a casa nostra la notizia della sua morte, uno stuolo di donne bardate di nero invase ogni ambiente, ogni stanza. Erano nel letto della mamma, a consolarla, a carezzarla, a spazzolarle i capelli. Ricordo la vecchia signora Dean al focolare, mentre rimestava la zuppa disgustosa che mi costringeva a mangiare ogni girono.
Io sedevo davanti alla porta di casa per la maggior parte del tempo e aspettavo: una lettera, una smentita, mio padre zoppicante che tornava a casa. Sentivo i commenti maligni delle vicine quando si allontanavano.
“Ben le sta, a quella smorfiosa: non è bene essere troppo fortunati nella vita. Non si meritava il nostro Tom”.
Realizzai che mio padre non sarebbe più tornato il giorno della Festa dei Lumi. La mamma era pallida nel suo abito scuro, magra, anche se erano passati mesi dal quel terribile giorno. Mi stringeva la mano mentre camminavamo per le strade del paese, diretti al piccolo Tempio.
È tradizione che durante la Festa dei Lumi il membro più anziano e quello più giovane di ogni famiglia recitino una preghiera di ringraziamento mentre portano un lume al Tempio, pronto per essere benedetto. Le strade, quindi, si riempiono di canti, di fiamme tremolanti, dell’odore della cera e di famiglie vestite a festa. Io, fino a quel momento, avevo sempre cantato il mio grazie con papà. Fu allora che mi accorsi, improvvisamente, che non avrei mai più sentito la sua voce, il suo abbraccio, che, semplicemente, non esisteva più.
“Dov’è papà, mamma?” chiesi, allora, in preda al panico.
I suoi occhi, ricordo, divennero liquidi all’istante.
“Tesoro, io non …” balbettò.
“Mamma! Dov’è papà?” urlai, in mezzo alla strada.
“Dov’è, mamma?”
Fu una vera crisi, con tanto di pianto e urla e calci. Alla fine, mi ritrovai per terra, singhiozzando insieme a mia madre, circondato dagli sguardi di tutto il paese.
Persi molto con la morte di mio padre.
Persi un maestro, una guida, un uomo forte e giusto al quale ispirarmi, l’affetto un po’ ruvido ma sincero che solo lui sapeva riservarmi. Persi il senso della carità, della misericordia: non avevo mai odiato nessuno, fino a quel momento, con la stessa intensità con cui odiavo i suoi assassini, le Creature.
Mi sentivo vuoto, a metà.
Furono anni bui quelli che seguirono: la mamma tornò a lavorare come fornaia, con scarsi successi. Pian piano diventammo sempre più poveri, abbandonati anche dalla carità dei vicini. Imparai a prendermi le giuste responsabilità, cercai di mettere a frutto ciò che avevo imparato nella prima infanzia, ma le lacune erano troppe. Lavorai, abbandonando ogni lezione, da mattina a sera, come un uomo: coltivai la nostra terra come un uomo, con grande gioia delle nostre malevole vicine. 
“Ecco come si finisce quando si sogna in grande” dicevano, scuotendo la testa.
“Il caro Tom doveva sposare la ragazza di Peter lo sciancato, ecco la verità!”
Era una vita troppo dura per noi.
Per anni piansi ogni sera sul cuscino e ogni sera sognai di vendicare l’uomo giusto e buono che era stato mio padre. Ma, con il passare del tempo, la mamma non mi fece più compagnia in quel rituale. Avrei dovuto accorgermene allora, avrei dovuto cogliere i segnali!
Passarono tre anni e nulla alleviò il mio dolore né le mie fatiche.
Per la mamma non fu lo stesso.
Quando mi presentò John Kimberly, quando quell’uomo entrò per la prima volta in casa nostra, io scappai e non tornai che dopo due giorni.
Un uomo alto, sottile, con gli occhi di un verde sorprendente mi aspettava in casa al mio ritorno, seduto al posto di papà. Cercò di affascinarmi con la sua magia di Portatore: fece danzare per me alcuni ciocchi di legno che ardevano nel camino. Controllava sorprendentemente bene quel materiale, lui, eppure io non mi feci incantare. Buttai tutto all’aria e corsi nel mio letto.
John Kimberly era più giovane di mio padre ed era un uomo importante di Merkedek, in quegli anni. Col tempo, scoprii che lui e mia madre si conoscevano fin da bambini e che erano stati grandi amici. Niente, però, poté cambiare il disgusto profondo che provai nei loro confronti da quel momento in poi.
Persi mia madre il giorno delle sue nozze con Kimberly. Persi molto: la serenità, l’ideale dell’amore, la stima di lei.
Restammo a vivere a Katma, conservammo la nostra vecchia casa e il forno.
Mia madre continuò a fare il pane con l’aiuto di tre assistenti pagati dal mio patrigno, che non si vergognò di insozzare anche l’attività in cui papà aveva creduto tanto.
La mamma era, inspiegabilmente e inesorabilmente, innamorata di quell’uomo. Ero consapevole di quanto il mio atteggiamento la facesse soffrire, eppure non sapevo e non volevo controllarmi.
La odiavo, credo.
“Brian, tesoro, John è un brav’uomo, ci amiamo, potremmo essere di nuovo felici. Saprà prendersi cura di te, anche se non sostituirà mai papà. Io non sostituirò mai papà!” mi diceva, carezzandomi i capelli.
Io restavo fermo, in silenzio, e la lasciavo fare. In quel periodo furono pochissime le volte in cui rivolsi la parola a entrambi.
Divenni un ragazzino muto all’età di dieci anni e tutti, a Katma, iniziarono a considerarmi un po’ tocco.
“Quella svergognata! Fare questo al povero Tom! Ben le sta il ragazzino ritardato: è la giusta punizioni per i suoi errori” dicevano, a quel tempo, le pettegole.
Io le sentivo, sempre, ed ero perfettamente d’accordo con loro.
La vita era orribile a Katma, con mamma e Kimberly a infangare il ricordo di papà.
Lei non mi disse di essere incinta fino a quando il suo pancione non fu troppo evidente. Avevo dodici anni e avevo sopportato troppi dolori; alla notizia, detta con voce tremante di pianto, alzai le spalle e tornai a lavorare al forno.
Non volevo un fratello, ovviamente: non volevo Kimberly in casa, non lo volevo vedere con mamma. Volevo che papà non fosse andato alla guerra, che non fosse morto. Ma non potevo fare nulla per realizzare quei desideri.
Anche Colum nacque durante una notte di tempesta e questo, ora, mi fa sorridere. Se sarà sfortunato come me, Kimberly morirà presto, pensai, sentendo il primo, disperato pianto del neonato.
Credo che fu quando me lo misero tra le braccia contro la mia volontà che cominciai ad amarlo.
Era piccolo, pulito e profumato, ma, soprattutto, aveva i capelli rossi. Come me, come la mamma, a differenza di John Kimberly che restava l’unico bruno della casa.
“Il fuoco che brucia nel mio cuore” mormorai, le prime parole dopo lunghi mesi di silenzio, carezzando la testa morbida di quel bambino.
Colum era mio fratello ed io potevo amarlo senza rovinare il ricordo di papà, realizzai stringendolo al petto.
Mi somigliava talmente tanto che, per molto tempo, feci finta che suo padre fosse anche il mio. Era tenero e dolce, durante i suoi primi anni, e adorava stare con me. Mi seguiva ovunque andassi ed io cercavo di raccontargli quelle storie, di passargli quegli insegnamenti, che mio padre mi aveva trasmesso con tanto amore.
“Per te, Brian” diceva Colum nella sua strana lingua, porgendomi un dolcetto appena sfornato dopo le nostre giornate al forno.
Aveva un buon temperamento, aperto e docile, e nessuno sapeva resistere ai suoi sorrisi grandi. Ancora non arrivava agli scaffali del pane che già si adoperava per riordinare, sistemare le pagnotte, pulire il ripiano dalla farina. Se lo premiavo con un dolce o un nuovo giocattolo mi saltava in braccio e rideva come un pazzo.
Ed io, io non potevo fare a meno di essere felice con lui, di gridare, ridere e parlare.
La mamma iniziò a sorridere più spesso da quando ci vide insieme, l’uno sull’altro, a far la lotta per gioco. Lasciavo vincere sempre il piccolo Colum; lui mi aveva restituito un briciolo di serenità, almeno questo glielo dovevo.
“Il figlio dei demoni, rosso e pieno di macchie, proprio come loro, povero bambino” dicevano le comari quando vedevano mio fratello passare per strada, davanti alle loro finestre.
Io mi arrabbiavo moltissimo per quell’ipocrisia e lo abbracciavo stretto, per fargli capire che lui era speciale per me.
Era mio fratello ed io avevo riversato su di lui tutto l’amore che avevo riservato a mio padre.
Poco dopo la nascita di Colum, Kimberly iniziò a lavorare per lunghi periodi lontano da Katma; si mormorava che fosse diventato un pezzo grosso tra i Portatori, che avesse sempre più potere nelle loro decisioni in merito alla guerra. Un politico importante, insomma. Io, d’altra parte, non ne volevo sapere nulla. Quando vedevo la mamma preoccupata, sempre in attesa di notizie sulla porta, prendevo per mano Colum e lo portavo a fare un bagno al laghetto.
Tornai a divertirmi, in compagnia di mio fratello, lontano dall’ombra oscura dell’usurpatore.
Gli anni passarono e diventai un vero uomo: a vent’anni mi assunsi ogni responsabilità del forno, che divenne mio di diritto. Kimberly aveva talmente tanti soldi che non soffrì per quella perdita. Per me, invece, quel posto era tutto: fiorì, tra le mie mani, ed io dedicai ogni successo a papà. Dedicai, invece, ogni profitto a Colum, sognando un futuro in cui saremmo stati uniti, tra quelle mura, impegnati nel lavoro che nostro padre ci aveva assicurato.
Ma il padre di Colum era Kimberly, non Tom Callhan e ben presto non potei più far finta di non saperlo.
A otto anni, Colum non aveva passato molto tempo in compagnia di suo padre; ricordo troppo bene quanto fosse agitato i giorni in cui quell’uomo era in casa.
“Ti prego, Brian, prestami la tua camicia nuova. La mia è macchiata e domani arriva papà” mi diceva, contorcendo le mani.
“Che dici, sono diventato abbastanza alto in questi mesi?” chiedeva altre volte.
Quando Kimberly tornava, baciava la mamma, stringeva la mano di Colum, mi lanciava un’occhiata di sbieco. Poi, voleva sapere ogni cosa accaduta durante la sua assenza. In particolare, si informava dei progressi di Colum.
“Fammi sentire come leggi, figliolo” diceva, facendolo sedere al suo fianco.
“Vediamo come sai far di conto” sorrideva.
Quando se ne andava gli dava una pacca sulla spalla, gli scombinava gentilmente i capelli ma non era mai davvero soddisfatto: voleva di più, sempre di più e Colum ne era afflitto.
“Che dici, mi vuol bene?” mi chiedeva, di tanto in tanto, dopo quelle visite.
Imparai a odiare John Kimberly anche per questo.
Finché, a dieci anni, Colum non ebbe la sua prima visione.
Eravamo entrambi al forno, al mattino presto, e lui stava preparando l’impasto per la prima infornata della giornata; all’improvviso annaspò e si tenne stretto al tavolo, facendo cadere il sacco della farina. Quando corsi da lui era già tutto finito: tremante, mi raccontò di come all’improvviso tutto si era fatto nero e fumoso. Delle immagini che si erano formate, rapidissime, davanti ai suoi occhi.
Sudava freddo e aveva il fiato corto.
“Cosa hai visto?” gli chiesi, piuttosto freddamente, posandogli le mani sulle spalle.
“Oggi resterà del pane invenduto” mormorò, quasi distrattamente, ancora più allucinato.
Lo accompagnai a casa ma non rimasi con lui e mamma; tornai al lavoro e rincasai solo a sera, quando loro già dormivano. Venti grosse pagnotte erano rimaste al panificio dopo l’orario di chiusura.
Il ragazzo aveva detto la verità.
Ebbene, Colum era un Portatore, proprio come Kimberly.
Lo scoprì quella sera e, quella sera, la mia vita venne stravolta per l’ennesima volta. Colum era mio fratello tanto quanto era figlio di Kimberly e mai, mai, sarebbe rimasto a Katma con me e mamma. Presto ci avrebbe lasciato per seguire suo padre e per imparare a gestire il suo potere. Per la prima volta, quella notte, pensai al mio fratellino come a un estraneo, un impostore, un traditore. Non solo si era insinuato in casa nostra in punta di piedi, con sorrisi e smorfie da angelo, ma si era fatto spazio nel mio cuore a brandelli e vi aveva trovato un posto sicuro.
Lo avevo amato tanto profondamente per tutti quegli anni, gli avevo dato ogni cosa!
Ormai, era tutto finito.
Inizia a non portarlo più al lavoro con me; vidi la delusione nel suo sguardo, vidi la sua confusione per un cambiamento tanto brusco. Io, d’altra parte, non potevo sopportare la sua vista né il suo potere. Ormai Colum aveva visioni tutti i giorni e, presto, imparò a controllarle meglio. Kimberly era finalmente fiero di lui, era il padre più orgoglioso che avessi mai visto; lo sottoponeva a lunghi esercizi e lunghe lezioni, sfiancandolo corpo e anima.
Decisi di non ascoltare più le sue confidenze.
Non volevo sapere nulla della sua nuova vita, così diversa dalla mia e da quella di papà. Non volevo avere a che fare con un Portatore come il mio patrigno.
“No, Colum, non ora: ho da fare” dicevo ogni qual volta si avvicinava a me con aria afflitta.
Mi sentivo tradito, come se il mio migliore amico mi avesse pugnalato alle spalle.
Credo che Colum avvertisse tutto questo e ben presto capì: non venne più da me e iniziammo a vivere vite separate.
Quando persi mio fratello, persi molto: la complicità, la speranza in una vita migliore, l’amicizia vera.
A venticinque anni mi sentivo un estraneo nella mia stessa casa; sentivo che nessuno conservava il ricordo di papà, né della nostra bella famiglia prima della tragedia. Sentivo che la gente di Katma aveva imparato ad apprezzare il potere, i soldi e l’influenza, i modi affascinanti di John Kimberly, dimenticando il buon, semplice, Tom Callhan.
Non c’era più spazio per me.
Quella era la loro casa, non la mia. Il loro paese, la loro vita.
Decisi di unirmi all’esercito del re come ultimo, estremo, atto di dovere nei confronti di mio padre; se nessuno più aveva memoria della sua grandezza, ebbene, le mie gesta, il mio coraggio, lo avrebbero elevato sopra ogni altro uomo di Katma. A salutarmi, davanti alla porta di casa, c’erano tutti, eppure io non provavo più nessun affetto per loro. Ricordai il bacio di papà, il suo addio di molti anni prima: io non avevo nessuno da lasciare il giorno della mia partenza.
Ricordo che Colum piangeva, un gracile bambino di tredici anni in lacrime, e mi corse dietro.
“Ti prego, Brian, non lasciarmi solo. Sarò buono, lo giuro, m’impegnerò al lavoro al forno e non avrò più visioni. So che ti ho ferito, ma sei mio fratello ed io …” diceva, stringendomi un braccio.
“Lasciami, ragazzo. Sii uomo e bada a tua madre; non temere per me” gli risposi, allontanando le sue mani.
Poi, qualcosa dentro mi costrinse a chinarmi e baciargli la fronte, cosparsa di capelli rossi come il fuoco.
Me ne andai così e così iniziò la mia carriera nell’esercito di sua maestà il re.
Non tornai più a Katma e non ho notizie di mia madre e di mio fratello da circa sei anni. Ognuno di noi qui presenti ha sentito parlare di John Kimberly, invece.
Combatto per mio padre, per riscattare il suo nome e per annientare le Creature che lo hanno portato via da me, rovinando la mia vita. Combatto per il mio popolo, per la parità e l’uguaglianza. Combatto per me stesso, per dare un senso a questo vivere. Sono un soldato per passione e per passione svolgo i miei incarichi, anche i più faticosi.
Vanto molti successi e molte vittorie, vanto grande stima tra le file dei miei superiori.
Ultimamente ero accampato poco fuori Ladsbridge insieme ad un piccolo contingente, reduce da uno scontro violento con un reparto dell’Armata delle Creature.
Da giorni era prevista l’invasione del piccolo Villaggio a nord-est della Foresta del Re, ai piedi della grande montagna, non troppo distante dalla mia posizione. Il progetto dell’Alto Comando e del re era, ed è tuttora, quello di eliminare le piccole comunità della Foresta per indebolire l’Armata e il popolo stesso delle Creature. Uno sterminio a tappeto, in parole povere.
Pochi giorni fa meditavo e affilavo la spada nella mia tenda quando il comandante mi recapitò di persona una lettera. Erano nuovi ordini per me e grandi onori; grazie alla mia integerrima condotta e alla brillante carriera, mi avrebbero nuovamente assegnato una squadra. Io stesso avrei guidato l’attacco al Villaggio, esattamente come l’ultima volta.
Ero fiero e determinato.
Lucidai lo stemma e giurai, ancora e ancora, di distruggere ogni Creatura sulla mia strada. Volevo che il mio nome risuonasse in ogni angolo della terra e, con il mio, anche quello di mio padre.
Così lasciammo Landsbridge e partimmo, una mattina umida e fredda, inoltrandoci nella Foresta.
Le Creature sono subdole e raramente si fanno scoprire, ormai lo so bene; anche i loro Villaggi sono ben nascosti, ben protetti dalla natura che li circonda. Sapevamo che la loro Armata era lontana, impegnata sulle Piane da giorni, ed eravamo più sicuri, più coraggiosi tra quegli alberi e quella luce verdastra.
Gli informatori ci avevano fornito un’indicazione sommaria sulla posizione del nostro obbiettivo ma noi sapevamo come comportarci.
Fu Jones a individuare per primo un movimento, un brusio di lingue strane; trovammo il Villaggio quasi per caso e ne ricoprimmo il perimetro.
Dovevo dare il segnale al momento giusto, in modo da orchestrare un attacco simultaneo su ogni fronte: li avremmo colti di sorpresa, privi di difese, inermi al confronto delle nostre armi e della nostra superiorità numerica.
Mi concentrai, pronto a cogliere ogni stranezza, ogni rischio.
Poi, sentimmo grida acute, starnazzanti, di uccelli in volo, e una grande baraonda salì dal perimetro del Villaggio. Capì che eravamo stati scoperti e che la sorpresa non faceva più parte dei nostri piani. Ordinai ai miei uomini di intercettare ogni Creatura in fuga e di ucciderla, senza tralasciare gli animali, nemmeno i più piccoli. Eravamo in tanti e ben armati, potevamo e dovevamo vincere ad ogni costo.
Io stesso portai a termine quel compito: avevo già fatto fuori tre lepri, un tasso e un paio di strani uccelli quando vidi la Creatura sotto forma di scoiattolo ferma davanti a me.
Ero nascosto tra gli alberi, Thea, credo che tu mi abbia sentito: sappi che ero pronto a ucciderti, come avevo già fatto con i tuoi amici.
No, non considerarmi un mostro. Sono un soldato, ragazza, e il tuo popolo ha ucciso mio padre, non dimenticarlo. Quindi, sfilai il pugnale, quello leggero, e presi bene la mira mentre ti guardavi intorno, il muso fremente per aria.
Eppure, non lo lanciai; puoi credermi oppure no, ma giuro sulla memoria di mio padre che non sono stato io a ferirti. Noi soldati del re non usiamo armi subdole come il veleno.
Il mio ultimo ricordo è di te col pelo ritto e la coda sollevata, dei miei muscoli tesi e del mio braccio pronto a scattare. Poi, è stato tutto buio e doloroso.
Credo che qualcuno mi abbia colpito, credo di essere svenuto.
Non sono morto, però, e questo mi sorprende non poco. Continuo ad arrovellarmi sull’identità del mio assalitore ma ancora non potrei dirvi di chi si tratta né a quale schieramento appartiene.
Di fatto, mi sono svegliato qui, con voi, lontano dai miei uomini, lontano dal mio re. Come vedete, io non fuggo; corro per ricongiungermi al mio popolo, al mio esercito e ai miei doveri.
Non ho più padre, madre, fratello, nessuno all’infuori di me e del mio senso del dovere e dell’orgoglio, della mia fama. Non ho nessuna intenzione di tradire me stesso.
L’esercito è casa mia, la guerra è il mio pane, ormai: non li abbandonerei per nulla al mondo. Ora sapete il perchè »
 
 

Finito il suo racconto, Brian il soldato rimase a capo chino, in silenzio, solo nel cerchio.
Il fuoco scoppiettò allegramente e lui s’incantò nei suoi riflessi, le mente chiaramente altrove.
Thea piangeva, ora, ed era chiaro che soffriva. La Bella le scoccò uno sguardo di conforto e un accenno di sorriso che lo Spirito accolse con gentilezza.
L’Arciere, invece, allentò la stretta sulla vita di Thea e se ne distanziò un momento.
“Maledizione, credo che sia arrivato il mio turno” disse, a voce bassissima.
L’Incappucciato alzò il volto, sorpreso.
“Ho da confessare qualcosa che ho fatto e di cui non vado fiero. Voi, assurdi compagni di sventura, sarete il pubblico adatto. Thea, ti prego, non odiarmi dopo questo” disse, sfiorando il braccio dello Spirito con le dita.
 

“Di nessuno ho bisogno all’infuori di me …” così cominciò.
 
 








Note
Nuovo passo avanti: ecco la storia di Brian! Tutte queste storie hanno un senso e presto lo scoprirete: io non vedo l’ora!
Grazie a chiunque abbia avuto la pazienza di leggere e … al prossimo capitolo! ;)
Ester

 
 
 

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Capitolo 5
*** Mercenario ***




Capitolo 4
Mercenario





«Di nessuno ho bisogno all’infuori di me, questo è stato il mio motto per moltissimi anni.
Giusto pochi giorni fa sono stato convocato da un pezzo grosso ed ero pronto a mettermi in tasca la più grande ricompensa della mia miserevole carriera. Attendevo da ore in una bella sala di pietra dal soffitto affrescato, luminosa a dir la verità, piuttosto inusuale per uno che fa il mio mestiere.
Come sempre nessuno aveva idea di quale fosse il mio vero nome. Come sempre, non ho voluto sapere il nome del mandante, né la sua posizione, la sua carica, i suoi perché.
Mai immischiarsi, questa è la mia filosofia.
Che se ne fa, un sicario, della politica? Cosa guadagna un mercenario impicciandosi in affari loschi e non suoi?
No, per me non c’è coinvolgimento. Nessuno sa badare ai miei interessi meglio di me.
Aster Howell non ha mai fallito il suo sporco mestiere e questo spiega perché ultimamente sono così ricercato. La gente teme questa freddezza che mostro, questa ferocità, eppure mi vuole, mi chiama, ha bisogno di me per il lavoro duro. Ed io ci sono. Sempre.
Sì, sono un assassino al soldo di tutti, basta che paghino bene.
La guerra è per gli sciocchi sentimentali, caro il mio soldato Brian, ed io, di sentimenti, non volevo più provarne quando ho imboccato questa strada.
Non provo pena quando uccido, non soffro e non raccolgo mai le ultime parole del moribondo. Non cerco la redenzione e non credo nelle Divinità o Spiriti Guida, che dir si voglia. Non odio le Creature, né gli Umani, né i Portatori: sono tutti una gran fonte di guadagno, per me.
Sì, disprezzami pure, il tuo disgusto non mi scalfisce, soldato del re.
A volte amo un ricordo, questo sì, ma è talmente sfocato da essere a mala pena tiepido.
Fino ad oggi, almeno.
Oggi, tutto è diverso.
Dunque, aspettavo in quella bella sala da ore e stavo diventando impaziente. Così, sfilai una freccia dalla faretra, giusto per mettere un po’ d’ansia al paggio davanti alla porta, un uomo piuttosto anziano e dal ventre pronunciato. Sapevo che qualcuno, là fuori, stava vivendo i suoi ultimi giorni di vita e che avrei ben presto portato morte e dolore a una famiglia di sconosciuti. Chissà come stava sprecando quelle ultime ore preziose, la mia vittima.
Sorrisi a quel pensiero.
“Ehi, paggio” dissi, per ingannare l’attesa.
“Sì, signore?”
“Hai un figlio, vero?” tirai a indovinare.
“Sì, signore” rispose quello, già terrorizzato.
“Per chi combatte questo giovane eroe?”
“Per i Portatori, signore”.
“Ed è bravo?”
“È coraggioso, si”.
“Merita di morire?”
“In … in che senso?”
“Quello che ho detto: chissà, potrebbe essere lui il mio prossimo obbiettivo. Mai dire mai, mio caro paggio” risi e gli strizzai l’occhio, mentre rigiravo la freccia tra le mani.
Quello tremava, di rabbia e paura, e questo mi divertiva.
Posso essere crudele, a volte, lo ammetto.
“Suvvia, non essere in collera” dissi ancora, sorridendo.
Poi, finalmente, fui convocato.
Fui accolto in una stanza piccola e sfarzosa, piena di fregi dorati e con due begli arazzi alle pareti. Un grosso tavolo padroneggiava lo spazio e un uomo alto e sottile mi guardava.
“Benvenuto signor Howell” mi disse, sorridendo.
Aveva un sorriso caldo e due occhi ammaliatori, ma non mi feci imbrogliare; di certo non mi aveva convocato per una tazza di tè in compagnia.
“Signore” dissi io, senza chinare il capo.
Non abbasso la testa, non più.
“Una questione urgente richiama la mia attenzione all’istante, quindi mi vedo costretto a essere piuttosto sbrigativo” iniziò l’uomo, passeggiando avanti e indietro davanti a me.
Io rimasi in silenzio, senza espormi, senza far trasparire emozioni.
“Il fatto è piuttosto semplice, a dir la verità: gli uomini per cui lavoro hanno bisogno di sbarazzarsi di un certo contingente dell’esercito del re accampato presso Landsbridge. Non si tratterà di una strage, bada bene; deve essere un lavoro preciso e pulito. Solo cinque morti, solo quelli che ti indicherò su questa pergamena. Sono uomini scelti, piuttosto coraggiosi, in particolare il loro capitano, un uomo di Merkedek dalla brillante carriera militare. Ricorda, nessuna traccia, nessuno scandalo. Poco sotto ho indicato il compenso che saremo lieti di corrisponderti per i tuoi servigi” spiegò, con un vago sorriso.
“Ebbene, accetti l’offerta, signor Howell?” disse, due occhi da perforare l’anima, porgendomi una piccola striscia di pergamena con due dita.
Lessi e considerai quegli sconosciuti già morti; sentivo il peso dell’oro promesso già nelle mie tasche e questo era ciò che contava di più.
Forse vi sorprenderanno i casi della vita, cari i miei viaggiatori intorno al fuoco, quando vi dirò che su quel foglio c’era scritto il nome di Brian Callhan e di quattro suoi compagni. Ebbene, mi era appena stata offerta una ricompensa strabiliante per far fuori il nostro soldato di Katma qui presente.
Non tremi al solo pensiero, signor Callhan?
Sta di fatto che sei ancora vivo e questo non può che essere una macchia nella mia sanguinosa carriera. Complimenti a te, questo te lo devo.
Ma non è questa la storia che volevo raccontarvi.
“Accetto, signore” dissi a quell’uomo e uscì dalla stanza e da quel palazzo lussuoso.
Ben presto fui in strada, in viaggio per Merkedek dove pensavo avrei raccolto informazioni sul mio obbiettivo principale. Chiesi qui e là nella piazza, per le strade, finché voci e pettegolezzi mi indirizzarono a Katma. Spiai la sua casa, ma vi trovai solo una donna dai capelli rossi intenta a spazzare e lavare lo spiazzo davanti alla sua porta.
La salutai e mi attardai un momento a parlare con lei.
“Signora, porto i saluti di suo figlio, un mio caro amico” dissi, aiutandola a portare la tinozza dell’acqua sporca.
“Davvero? Brian o Colum, se posso chiedere”.
“Brian”.
“Sai dirmi se sta bene? Non ho sue notizie da troppo tempo. È soldato …” cercò di giustificarsi, mentre con le mani arrossate dallo sforzo si sistemava il grembiule.
“In ottima forma, glielo posso assicurare” mentì io, senza vergogna, senza timore.
Sorrisi, persino.
“Ma prego, signore, entra a bere un bicchiere di vino; gli amici di Brian sono sempre i benvenuti. Mio marito tornerà presto” disse, tenendo la porta aperta.
Notai una certa ansia nella voce, nei movimenti, e questo mi mise allerta; decisi che non avrei aspettato il rientro del marito. Non lasciare tracce e non correre rischi inutili sono regole essenziali per chi fa il mio mestiere, potete immaginarlo.
Mi aggirai per la casa cercando di non destare sospetti in quella brava donna; è ancora piuttosto bella, devo ammetterlo, soldato. Quasi subito vidi un paio di ritratti ben curati appesi alla parete vicino al focolare.
Sai di cosa parlo, vero, Callhan?
Sì, osservai con calma quei dipinti, l’uomo bruno con un’armatura dalla foggia piuttosto antiquata e il soldato dai capelli rossi e dal volto fiero, l’elmo sottobraccio.
“È Brian, lo riconosci?” mi disse lei, affiancandomi.
Le risposi di sì.
Mi trattenni ancora per poco e, come avevo stabilito, non aspettai il rientro del marito. Avevo visto abbastanza; ora che conoscevo nome, posizione e aspetto del mio obbiettivo, nonché alcuni dettagli sulla sua triste infanzia, non c’era motivo per rinviare ciò che andava fatto.
Strinsi la mano a quella donna e le sorrisi: sapevo che presto le sarebbe giunta la notizia della morte di quel figlio tanto amato, ma questo fatto non  aveva il potere di turbarmi.
Promisi che sarei tornato a trovarla, addirittura.
Mi misi in viaggio per Landsbridge di malavoglia. Molti anni fa ho giurato a me stesso che non sarei mai tornato in quella città e non ho mai avuto la tentazione o il desiderio di violare la promessa; quella coincidenza non poteva essere che un cattivo presagio, pensai.
Landsbridge è la città della mia infanzia, se ve lo state chiedendo, la città che mi condannò e mi ripudiò, la città che più odio in tutto il regno. Ma il lavoro è lavoro e io non avevo intenzione di anteporre le mie burrascose emozioni al mucchio di soldi che mi era stato promesso.
Quando arrivai, stanco e di malumore, stava piovendo. Nulla di strano per una città umida e piovosa per contratto. Stava piovendo e una colonna di belle e lucide armature zuppe in sella ad altrettanti bei cavalli stava lasciando la città dalla porta nord, diretta alla Foresta del Re.
Ero arrivato tardi.
Quella notte mi stabilii alla locanda lasciando l’ennesimo falso nome.
I soldati si sarebbero accampati poco fuori le mura, pensai; non sarebbero andati lontano in una notte come quella. Avrei ripreso il mio inseguimento la mattina, decisi, prima del sorgere del sole.
Ebbene, fu una notte dura, lo ammetto.
Tutta colpa della maledetta città, credo, e dei ricordi che, immancabilmente e bastardamente, porta con sé.
Landsbridge, come probabilmente saprete, è l’insediamento degli Umani più vicino alla Foresta del Re e, quindi, al popolo delle Creature. La paura la fa da padrona, tra quelle strade, tra quegli abitanti: il coprifuoco, la dura guardia cittadina, le celle fredde nelle viscere della terra non fanno altro che cercare di assicurare protezione. Si cerca in tutti i modi di dare un’illusione di sicurezza, ecco la verità.
È gente ipocrita, tutto qui.
Di fatto, passai l’intera notte a guardare il soffitto e a ricordare gli anni tranquilli e banali dell’infanzia. Ero un bambino timido, ad essere sincero, un bambino davvero insignificante.
Non ho mai conosciuto mio padre, che combatte nell’esercito del re da ben prima della mia nascita; ad oggi, non ho idea di dove sia. Mamma ha lavorato come un mulo nei campi di riso per tutta la vita, invece, pur di garantirci un pasto caldo e un tetto sopra la testa. Era una donna ruvida e fredda, non facile da amare. Nessuno, come potete immaginare, mi ha insegnato ad affezionarmi, ad amare e a essere gentile. Eppure, cari compagni di sventure, io amai, un tempo.
Amo tutt’ora.
Le Divinità mi sono state avverse sin dall’infanzia, ve l’ho detto; una vita slavata e umida, fredda, senza un pizzico di colore, ecco cosa avevano scelto per me. Solo per questo, avrei dovuto odiarle.
Ma, non contenti, negli anni della prima gioventù, quegli stessi Déi crudeli e ingiusti permisero che mi innamorassi di uno Spirito.
Avevo diciassette anni e mi trovavo nella Foresta, abbastanza vicino al confine con la grande prateria, per procurare un po’ di legna. La vidi da così vicino, la vidi avvolta in quell’alone verde di magia, così bella e semplice, che ne rimasi incantato.
No, non la odiai e non provai repulsione come invece avrei dovuto, come mi avevano insegnato.
No, non c’era paura, né il desiderio di fuggire e di urlare.
C’era bellezza e dolcezza, invece, e incanto e musica e tutto ciò che nella mia vita era sempre stato assente.
Rimasi lì per lunghi minuti, ad osservare quello Spirito intrecciare larghe foglie tra loro e mormorare parole all’albero alle sue spalle.
Fu la mia rovina.
La nostra, dolce Thea.
Perché lei si accorse di me e non fuggì né mi attaccò. Lei si accorse di me e restò lì a guardarmi con gli occhi grandi e la magia che le zampillava dai palmi delle mani aperte.
Infine, fui io il primo a sorriderle, seppur timidamente.
È iniziata così, vero?
Non potrei mai dimenticare quell’attimo, né gli anni felici che seguirono. Anni sereni, anni di amicizia vera e sincera. Imparai a guardare il bello che mi circondava, a distendere le righe sulla fronte e curvare in un sorriso la bocca sempre imbronciata. Imparai a parlare, parlare per davvero, e trovai qualcuno a cui affidare i miei pensieri più profondi e le mie emozioni senza paura di essere giudicato o frainteso .
Con che pazienza, piccolo Spirito, ti sei presa cura di me!
Ero infelice e insoddisfatto, e odiavo la mia vita grigia. Tu l’hai colorata e credo che iniziai ad amarti proprio per questo.
Ma, come vi dicevo, gli Déi sono stati crudeli con me, sempre.
Conobbi due anni, forse, di felicità. Poi, il mio anziano maestro ciabattino iniziò ad insospettirsi, a storcere il naso alle mie continue assenze e ai miei silenzi, al mio sorriso muto. Informò mia madre, credo, ed insieme, incaricarono un mio vecchio compagno di seguirmi di nascosto.
Così, scoprirono ogni cosa.
Quando la guardia cittadina bussò alla mia porta, ero solo in casa. Mi portarono via con la forza e mi sbatterono senza pietà nelle celle buie del sottosuolo di Landsbridge, senza una coperta né un tozzo di pane per giorni.
Restai laggiù per sette anni dato che questa era la pena per i traditori, a quel tempo.
Ecco, cari sconosciuti, furono gli anni che trascorsi nelle viscere della terra ad avermi reso l’uomo che sono oggi: senza pietà e freddo, come la pietra.
Seppellì la mia umanità durante le notti passate alle  grandi fucine, a lavorare come uno schiavo o peggio, e la dimenticai del tutto quando mi addestrarono per diventare un arma di morte.
I traditori sono feccia, escrementi umani, pronti all’uso quando si tratta delle azioni più ignobili e ripugnanti.
Pagai un prezzo amaro per quegli anni in tua compagnia, cara Thea, e allontanai da me  ogni sogno, ogni speranza, ogni umana debolezza e sentimento.
Divenni ciò che volevano loro: inflessibile e letale.
Quando fui libero, non avevo nessuna intenzione di soffrire ancora. Ed ecco spiegato il mio mestiere; l’ho scelto con cura, ve lo giuro, l’ho amato, persino. Ero, sono tutt’ora, una persona vuota e orrida: perché insistere ancora, perché provare a migliorarsi, mi chiedevo. No, dovevo continuare la strada intrapresa in cella, dovevo coltivare quel mio portentoso talento di morte e mettermi al riparo da ogni sofferenza.
Di fatto, però, durante la notte tormentosa trascorsa alla locanda di Landsbridge poco prima dell’ennesimo assassinio, non feci altro che pensare al piccolo Spirito che aveva saputo vedere la parte migliore di me, un tempo. Tutto d’un colpo mi sentì sporco e, per la prima volta dopo molti anni, tornò il rimorso e il rimpianto a rodermi la coscienza.
Dov’era finito quel ragazzo che tu avevi amato, Thea?
L’avevo perduto, ecco la verità, sotto strati di violenza e di brutalità.
Cercai di soffocare quell’angoscia, quella sofferenza, quel disgusto: quando arrivò l’ora prima dell’alba fui lieto di occupare la mia mente con altri pensieri.
Indossai i miei panni neri, sperando di riportare quel colore nella mia anima e nella mia testa, sperando di riuscire a spegnere tutta quella confusione che continuava a vivere dentro di me. Trovai con facilità  l’accampamento dei soldati e li vidi smontare ogni cosa. Respirai profondamente, cercai quell’equilibrio e quella freddezza che la notte mi aveva portato via e inizia a inseguire il loro capo, il vecchio Callhan, come un ombra. Tu non te ne accorgesti, ovviamente, e continuasti a guidare quella spedizione di morte.
Ad essere sincero, non collegai il Villaggio nel mirino dei soldati a quello del mio Spirito; non sapevo dove fosse, né c’ero mai stato. La mia preda, invece, era inquieta e instabile, mai sola o distratta. Dovetti aspettare a lungo prima di avere l’occasione per portare a termine la missione. Più ci inoltravamo nella Foresta più mi sentivo concentrato, senza più strani pensieri; ne fui molto sollevato.
Infine, qualcosa andò storto nel loro piano e i soldati furono costretti a cambiare il loro piano d’attacco: c’era più confusione, quindi, più movimento, e compresi che era finalmente arrivato il mio momento. Sono sorprendentemente silenzioso, i miei appostamenti non sono un gioco per bambini, soldato; non essere sorpreso e non rimproverarti per non esserti accorto della mia costante presenza alle tue spalle. Come vi ho già detto, sono bravo nel mio mestiere.
Stavi seminando una scia di morte senza precedenti, Callhan, in quell’angolo di Foresta, con la determinazione di un vero guerriero; colsi l’attimo quando ti fermasti per estrarre il pugnale. Avevo già preparato ogni cosa; l’arco, la freccia, il veleno sulla punta. Incoccai, in silenzio e presi la mira nel momento esatto in cui anche tu la prendevi.
Sorrisi davanti alla tragicità di quella situazione: portando la morte saresti morto anche tu. Eccolo, lo scherzo del destino!
Ebbene, tesi l’arco e feci partire quel dardo mortale con mano ferma.
Non esitai, ovviamente, neanche per un secondo; altre quattro morti mi separavano dalla mia ricompensa ed io non avevo tempo da perdere.
Fu proprio allora che andò tutto storto e i miei piani, per la prima volta, non ebbero più alcun senso.
Scampasti alla morte, soldato del re, per non so quale ragione. Un minuto prima eri davanti a me, al mio arco teso e alla freccia che tagliava l’aria sibilando; il minuto dopo non c’eri più, trascinato a terra e poi in fuga da qualcosa, da qualcuno, non saprei dire.
Il mio compito sarebbe stato quello di seguire te e il tuo misterioso soccorritore, ed ero pronto, i piedi silenziosi sul manto di foglie e terra umida della Foresta. Guardai davanti a me un ultima volta, allibito, e, di nuovo, il mondo prese a girare dalla parte sbagliata.
Era come se, per l’ennesima, maledetta volta, le Divinità avessero deciso di impicciarsi negli affari miei e di sconvolgere ogni cosa.
Perché Thea era lì, stesa per terra e sofferente, colpita dalla mia stessa arma.
Si, ora l’ho detto: è colpa mia quella ferita, è colpa mia la tua sofferenza.
Ti prego, perdonami.
Perdonami per l’uomo orribile che sono diventato, per ciò che queste mani hanno fatto, per le parole che queste labbra hanno detto.
In quell’esatto momento, nella Foresta, tutta la mia vita, tanto miserevole, passò davanti ai miei occhi: buia, cupa, destinata ad un futuro di sangue e violenza. Gli unici tocchi di colore, di gioia e bellezza, li aveva portati quello Spirito che stava morendo davanti ai miei occhi e per mano mia.
È stato come svegliarsi da un incubo durato dieci lunghi anni: faceva male respirare e gli occhi lacrimavano e la testa, la testa, non capiva più nulla. Rivederti, Thea, è stato un segno del destino.
Il pensiero dell’oro e della gloria era completamente svanito: nulla era importante all’infuori di te e delle mie colpe da lavare. Per questo ti presi con me e corsi via, fino a trovare questo luogo lontano, nascosto. Sapevo come curare gli effetti mortali del veleno creato da me e questa fu la tua fortuna, credo.
Al tuo risveglio, dolce Thea, eri così fiduciosa e bella e felice che non ebbi il coraggio di raccontarti questa storia.
Hai paura di me, ora? Di queste mani sporche di sangue, di quest’uomo spezzato?
Ne avresti motivo, mia cara.
Di fatto, quando Brian Callhan ci trovò e si unì al nostro piccolo gruppo di fuggitivi, non provai il desiderio né il dovere di ucciderlo. Credo che Aster Howell il sicario sia morto nella Foresta quando, per la prima volta dopo lunghi anni di omicidi perfetti, mancò il bersaglio »
 
 

Tutto d’un colpo, Aster tacque e i compagni capirono che non avrebbe più continuato il suo racconto. Non poteva, in realtà, stretto nell’abbraccio disperato della piccola Thea, che lasciava cadere silenziose lacrime sulla sua spalla e parole bisbigliate sul suo orecchio.
Brian era pallido e stringeva il pugnale leggero nella mano destra, seminascosta dietro la schiena, pronto a difendersi.
“Non penso ci sia pericolo per te, soldato” gli disse allora la Bella, ammiccando verso la giovane coppia.
“Adesso, però, restiamo solo io e te, ragazzo col cappuccio” disse ancora, con la sua voce dolce, ammaliatrice.
“Se non ti da fastidio, preferirei conservare la mia storia per ultima” lo spronò, scostando le lunghe ciocche bionde dal viso.
L’Incappucciato esitò, chiaramente.
“Non aver paura; questa notte non ci sarà morte, né violenza, né guerra né schieramenti. Questa notte è una pausa dal mondo” gli disse dopo qualche secondo Thea, che ancora teneva stretta la mano del giovane assassino.
“Dici bene, Spirito. Ma non è il mondo che io temo, in questo momento” disse il ragazzo, parlando per la prima volta.
Con lentezza calò il cappuccio, scoprendo un volto sottile, molto giovane, pieno zeppo di lentiggini, e una folta massa di capelli rossi. Gli occhi erano dorati.
 

“La mia storia è stata già raccontata e poco vi è da aggiungere …” disse, fissando tutti.










 

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Capitolo 6
*** Profeta ***



Capitolo 5
Profeta






« La mia storia è stata già raccontata e poco vi è da aggiungere; a me sta solo di rivelarne il finale.
Ormai alcuni di voi l’avranno intuito e preferisco sciogliere ogni dubbio: sono Colum, Colum Kimberly.
Ciao Brian …
Ecco … io non sa da che parte cominciare.
Mi sento a disagio quando devo parlare in pubblico.
Avrei talmente tanto da dire e sento tanta confusione che …
Credo di …
Sì, certo, risponderò alle tue domande Thea. Ti ringrazio molto.
Ho diciotto anni ormai e vivo da qualche tempo nella città di Ollgan, alla sede della più grande Comunità dei Portatori.
E sì, Brian vi ha detto la verità affermando che sono un Portatore io stesso.
Sì, posso vedere il futuro.
Per favore no, non chiedermelo. Nessuno di voi mi domandi nulla sul suo domani; ho visto uomini lasciarsi morire dopo aver ascoltato le mie parole. Posso vedere solo ciò che le Divinità mi concedono ma vi assicuro che è molto quello che conosco di questa vita e di questa terra.
No, grazie al cielo.
Lo giuro, non ho idea di quale sarà il mio destino. Per quel che mi riguarda, vedo solo buio. Le Divinità sono state clementi e non mi hanno concesso la maledizione di conoscere il mio stesso futuro.
Credo di no.
Non è facile essere il figlio del grande John Kimberly. Più che altro, è molto dura reggere il confronto con il suo carisma, la sua sicurezza, la sua forza. Lui è un leder mentre io, per la mia Comunità, resterò sempre un bambino, spaventato dallo stesso futuro che ha il dono di predire.
Qualcosa da raccontare a Brian? Molte cose, Spirito, ma nessuna che lui vorrebbe ascoltare, credo.
Va bene, ci posso provare.
Poco dopo la tua partenza, Brian, papà ha chiuso la nostra attività e mi ha portato con sé a Merkedek. Da allora, non mi sono più fermato, sempre in viaggio insieme a lui da un angolo all’altro del regno a far visita alle Comunità dei Portatori sparse ovunque. Ho perso le mie certezze, tutte quante; nessuna delle mie visioni, nemmeno le più belle, hanno saputo ridarmi quel senso di sicurezza che provavo quando tu eri al mio fianco.
Sì, questo penso di averlo capito, Thea: io non ho colpe.
Ho conosciuto altri Portatori, giovani come me eppure molto diversi dal tredicenne che ero io all’inizio. Mi disprezzavo, a quel tempo, profondamente. Odiavo il mio potere e lo consideravo la causa della mia solitudine, del dolore di Brian, delle ambizioni smisurate di papà. Continuavo, nella mia mente, a rifiutarmi di lasciarlo scorrere e questo mi faceva stare male.
Sì, hai ragione: non mi accettavo e non riuscivo a convivere con me stesso. Sono un mostro, pensavo in continuazione.
C’è stato qualcuno di importante ad aiutarmi, sì, certo. Katie prima, poi Selma e il buon Dennis sono diventati miei amici, i miei primi veri amici; insieme siamo riusciti a diventare ciò che eravamo destinati ad essere.
Portatori, ovviamente.
Perché non c’è nulla di sbagliato in me, lo so.
Come faccio ad esserne sicuro, chiedi, fratello? Perché questa notte ho ascoltato il tuo racconto ed ho capito alcune cose che ignoravo. Né io né il mio potere siamo i responsabili della tua sofferenza e, forse, lo sai anche tu.
Aspettate un momento, vi prego, e continuerò: c’è ancora molto da dire.
 

Ecco, dov’ero rimasto?
Sì, giusto. Vissi molto a lungo con le Comunità dei Portatori e, in un certo senso, divennero la mia famiglia. Tutti si sentono a casa, nelle Comunità, tutti credono di far parte di un'unica grande casata; è così che funziona laggiù. Papà non è solo mio, no: lì, lo devo condividere con ognuno dei Portatori di questo regno.
Così successe che vissi tanto a lungo e tanto serenamente in mezzo ai miei simili che, paradossalmente, inizia a considerare i Portatori come la salvezza di questo nostro mondo.
Mi spiego meglio: ero convinto che la nostra Comunità fosse la chiave per la pace.
Si, ridi pure, Aster di Landbridge; sono stato tanto scioccamente ingenuo!
Me ne vergogno moltissimo, ora.
Non ricordo con precisione cosa mi portò a formulare quei pensieri folli: forse ero stanco e spaventato da questa guerra infinita, forse volevo solo ritornare a Katma e alla mia vita. Non so.
Di fatto, a quindici anni ero solo e l’unica certezza rimasta erano le Comunità: così mi aggrappai con talmente tanta forza all’idea che i Portatori fossero nati con la missione di riportare la pace nel mondo che divenni cieco a ciò che accadeva sotto il mio naso.
“Saremo terreno di incontro, rappresenteremo l’unione felice dei popoli che abitano questa terra” credevo e dicevo ai miei amici.
Figli degli Umani, con l’aspetto e la storia degli uomini, ma dotati delle straordinarie abilità delle Creature, non poteva che essere nostro il compito di restaurare gli equilibri distorti dall’odio della guerra.
Iniziai a scavare tra le righe del tempo per cercare di capire come e quando questa lotta avrebbe avuto fine e, soprattutto, per merito di chi.
Cercavo conferme, esatto. Conferme alla mia teoria folle.
Cercare di vedere il futuro più lontano, cercare di vedere il futuro che riguarda l’intera umanità, è molto difficile: ogni visione era debole, chiazzata di rosso e di fuoco, ma sempre sfocata. Infine smisi di provarci, consapevole che gli Déi non mi avrebbero concesso quella conoscenza, ma continuai a credere nella nostra missione di salvezza.
Mi comportai come un bambino: sciocco, cocciuto e sognatore.
Un giorno, poi, scrutai il futuro di mio padre.
Non dovrei raccontarvelo, a dir la verità, perchè tradirei la mia Comunità: ma ho deciso che non voglio più essere usato o manipolato  da nessuno. Ho deciso che sceglierò da solo il mio destino e da solo prenderò le mie decisioni. Questo è uno dei motivi che mi hanno spinto a lasciare Ollgan.
Sì, vi dirò ciò che vidi.
Ho visto John Kimberly grande, potente, ricco e importante come un re: poi, la visione è cambiata e mi sono ritrovato a fissare la sua testa rotolare in un mare di sangue e di arti, di corpi martoriati. Per molti giorni non sono stato in grado di mangiare né di guardarlo in faccia.
È da allora che mi rifiuto di spiare il domani delle persone a me care.
Avevo un rapporto complicato con mio padre a quel tempo: lo ammiravo, questo è certo, ed ero piuttosto orgoglioso di essere riconosciuto come suo figlio. Lui era gentile, con me, severo anche e, soprattutto, distante. Così, nella mia mente, divenne sempre meno un padre e sempre più un eroe, un modello da imitare. Come le Divinità, lontane nei loro Tempi, John Kimberly mi pareva l’eroe del nostro secolo, troppo impegnato a portare l’equilibrio nel mondo per dedicarsi alla nullità di figlio che gli era capitato. Prima di morire porterà pace, pensavo.
E così, il culto di mio padre non fece altro che alimentare quel folle sogno di salvezza.
Forse avevo qualcosa da dimostrare anche a te, Brian, inconsciamente: forse, volevo mostrarti quanto fosse possibile far dal bene, essere una persona giusta e onesta anche per un Portatore come me.
No, non ti odiavo; eri, sei ancora, la prima persona a questo mondo che si è presa cura di me come un padre.
Sì, mi sei mancato terribilmente in questi anni.
Senza te mi sono perso, Brian, ed ho sbagliato tutto.
Per molti anni non mi sono accorto che i grandi capi delle Comunità, compreso papà, mi stavano utilizzando per i loro sporchi scopi.
Certo, Thea, sfruttavano il mio potere.
All’inizio era un divertimento, per me, predire il futuro per loro. Poi, quando sono cresciuto, mi hanno ingannato con la promessa di usare le mie informazioni solo per aiutare, per difendere, per limitare i morti. Per proteggere le nostre Comunità, anche.
Aster, sì: gli ho creduto!
Ho ceduto loro informazioni sul risultato di battaglie, sui tragitti degli approvvigionamenti, sul numero di uomini impiegati in un conflitto e sul luogo dello scontro, sulla morte dei pezzi grossi di Umani e Creature per anni.
Lo so, non c’è rimedio a quel che ho fatto. Ma, ve lo giuro, io non lo sapevo.
No, non conoscevo la vera natura, lo scopo delle Comunità e di John Kimberly.
Cosa credevo, mi chiedi? Credevo che i Portatori si difendessero dagli Umani e dalle Creature che avevano intenzione di attaccarli ma che non si schierassero, non appoggiassero nessuna fazione se non quella della  pace. Ve l’ho detto, ne ero fortemente convinto!
No, le mie visioni non mi hanno aperto gli occhi.
In quel periodo vedevo e prevedevo solo quello che mi era chiesto: mi era vietato scrutare il futuro per conto mio ed io obbedivo sempre, tranne per qualche sciocca trasgressione. Non avevano neanche bisogno di controllarmi con la magia: per la salvezza dell’umanità appoggiavo e sposavo ogni regola della Comunità.
Ero in un vicolo cieco, capite?
Alla fine ho aperto gli occhi, sì, Spirito.
Alla fine ho capito tutto.
È accaduto non molti giorni fa, a dirla tutta, quando mio padre mi ha fatto convocare nella Sala Grande, insieme a tutti i vertici delle Comunità.
In quella stanza conoscevo tutti: Ben dagli occhi di fuoco, Percy e i suoi poteri di telecinesi, Annabeth e il suo potere di persuadere, Frank, Woody e Ran, maestri del creare. E John, mio padre, ovviamente, che controllava il legno.
Erano tutti lì, seduti intorno ad un tavolo coperto di fogli, con una grossa cartina del regno aperta proprio nel centro. Era ovvio che si avvicinava una battaglia e loro tutti avevano bisogno dei miei servigi.
Diversamente dal solito, però, ero stato convocato con grande anticipo; la discussione intorno al tavolo era ancora accesa e io ebbi la possibilità di ascoltare ogni cosa dall’angolo in cui ero stato relegato, sorvegliato da un uomo armato.
Grazie ad una mia precedente visione la Comunità era venuta a sapere del piano di distruzione a tappeto che il generale Han dell’esercito degli Umani stava preparando contro i Villaggi delle Creature nella Foresta del Re. Ebbene, ero certo che, insieme ai Capi, avremmo potuto salvare quegli Spiriti e quei soldati destinati alla morte.
Mi accorsi ben presto, però, che mio padre e i suoi soci non la pensavano allo stesso modo.
“Se non interveniamo nemmeno questa volta perderemmo qualsiasi appoggio da parte delle Creature: se non facciamo nulla sarà automatico, per loro, credere che ci siamo definitivamente schierati con gli Umani” disse Annabeth dal suo posto, le mani sulle tempie.
“Ma se difenderemo il Villaggio cosa potrà credere il generale Han? Che abbiamo voltato bandiera! E noi non possiamo permetterci di avere contro il Re e il suo esercito” ribatté il grosso Frank.
“Siete nel giusto entrambi, colleghi: è per questo che credo sia giunto il momento di schierarsi. Se uniremo le nostre forze a quelle regie vinceremo questa guerra, lo sappiamo tutti” intervenne con forza Ran, la più anziana del gruppo.
“No, sciocca” fu il duro commento di Ben dagli occhi di fuoco. “Le nostre Comunità non sono unite: molte ci abbandonerebbero se dovessimo unirci al Re e si porteranno dalla parte delle Creature. Il risultato sarebbe una lotta alla pari e noi Portatori non avremmo nessun merito e nessuna ricompensa quando tornerà la pace”.
“Ben ha ragione. Se vogliamo essere riconosciuti e affermarci come popolo le Comunità devono restare unite” mio padre l’aveva appoggiato.
Affermarsi come popolo? Schierarsi? La verità si avvicinava sempre di più e io avrei voluto tapparmi le orecchie e fuggire via pur di non sentire. Avevo fondato la mia vita sulla missione pacificatrice di noi Portatori e, in quel momento, stavo osservando i miei sogni andare in pezzi.
“Chi ha una soluzione, allora?” chiese Ran, innervosita.
“Dobbiamo mantenere la nostra posizione neutrale, cari compagni, e, contemporaneamente, manovrare l’intera situazione” disse allora mio padre. “Se noi non interveniamo le Creature diverranno nostre nemiche e le Comunità dei Portatori si separeranno, giusto?”
Tutti annuirono.
“Ma se l’attacco dell’esercito del Re dovesse fallire noi manterremmo la nostra assoluta neutralità e le Creature non avrebbero un motivo valido per ripudiarci, dico bene?” continuò John.
“No, Kimberly, non sarebbe garantita la neutralità. Che ne sarà degli Umani? Diverranno nostri nemici se agiremmo contro l’esercito boicottando le loro operazioni” disse Percy, posato e ragionevole.
“Molto bene, molto bene” mio padre sorrise, vittorioso. “Non agiremo allo scoperto, mio sembra ovvio”.
“Cosa intendi fare?”
“Nulla di complicato, amici: organizzeremo una rete di sicari per ogni operazione che gli Umani organizzeranno nella Foresta. Assumeremo uomini col compito specifico di eliminare i principali condottieri di ogni spedizione rendendo così vano l’attacco” spiegò mio padre, con gelida felicità.
Io non riuscivo a formulare un pensiero coerente, nel mio angolo. Allo stesso modo, non potevo e non volevo smettere di ascoltare.
“Molto astuto, Kimberly! Così gli attacchi falliranno e le Creature non riporteranno abbastanza danni da rivoltarsi contro di noi e accusarci di non essere intervenuti. Allo stesso modo gli Umani non potranno dire  con certezza chi ha mandato all’aria l’intera operazione!” esultò Frank.
“Sospetteranno tutti ma, senza prove, non potranno incolparci” aggiunse Annabeth, già convinta.
“Dovremmo assumere i migliori sicari sulla piazza, ovviamente, e ricompensarli adeguatamente” rifletté Percy, pensoso.
“Ovviamente. I nostri forzieri sono pieni e l’oro non ci manca. Inoltre, se i nostri assassini dovessero essere catturati dall’esercito del re noi potremmo facilmente dissociarci dalle loro accuse. Senza prove scritte, è la parola della feccia contro la potente Comunità dei Portatori” specificò John.
Fu in quel momento che mio padre si ricordò di me.
Si voltò, mio guardò e sorrise. Si rendeva conto di quanto ero sconvolto? Si rendeva conto che, in pochi minuti, aveva distrutto il mio mondo e la mia idea di lui? Io non lo so.
Sostenni il suo sguardo e, finalmente, arrivai al nocciolo della verità: John Kimberly non era un eroe.
Né era giusta la sua causa.
Capii che le Comunità dei Portatori aspiravano solamente a prendere il posto del Re alla fine della guerra; capii che non avrebbero mai promosso la pace se andava contro i loro interessi. La mia Comunità faceva abilmente il doppio gioco da trent’anni e io non me ne ero mai accorto. Non solo, il mio potere, il mio contributo, era stato fondamentale per quella loro politica subdola. 
Capisci, Brian, quanto ero disperato?
E non fu tutto.
Mio padre mi chiamò e mi pregò di individuare quale sarebbe stato il prossimo Villaggio che l’esercito reale avrebbe attaccato. Stupidamente, non riuscii a rifiutarmi: io per primo volevo saperlo.
Ed ecco, qui si chiudono i giochi: perché il Villaggio sotto attacco risultò essere il Villaggio di Fenice e a comandare la spedizione un giovane soldato di nome Brian Callhan.
Ovviamente mio padre sapeva che io costituivo un pericolo per la riuscita del suo piano e, così, mi fece rinchiudere.
Voleva ucciderti, Brian, capisci?
Voleva uccidere te, il figlio di suo moglie, il fratello di suo figlio, l’uomo che aveva conosciuto fin da bambino!
Oh, no, non può essere umano John Kimberly!
L’uomo alto e dagli occhi sorprendentemente verdi con cui hai parlato, Aster, era lui.
Nulla l’avrebbe fermato, nessuno ne aveva il potere.
Chiuso nella mia stanza, passai alcuni giorni d’inferno: mi sentivo impotente e inutile, una marionetta nella mani di chi aveva saputo abilmente raggirarmi. Sapevo che non avrei potuto fare niente per evitare la morte di mio fratello; mai, in tutta la mia vita, ero stato padrone del mio destino.
Come vi ho già detto, non posso prevedere il mio futuro; com’era crudele, in quei giorni, sopportare quella limitazione! Avevo bisogno, spasmodicamente e angosciosamente bisogno, di spiare gli eventi, di conoscere, di sperare in un lieto fine che sembrava impossibile.
Continuavo a cercarti, Brian, e a leggere il tuo di futuro. Tutte le volte che ti vedevo morire con una freccia conficcata tra le scapole gridavo e venivo rimproverato dai miei carcerieri.
Smisi di magiare e di dormire ma non riuscii a smettere di richiamare immagini dal domani. Se io non potevo fare nulla, volevo tanto che qualcosa, qualunque cosa, intervenisse e cambiasse quelle scene di morte!
Ero talmente circondato dalle mie visioni, talmente immerso nel futuro, in quei giorni, che col passare del tempo ebbi la chiara e involontaria percezione di come sarebbe proseguita la vita nella Foresta del Re, a Ollgan e persino nel palazzo della Comunità. Fu così, quasi per sbaglio, che una sera uno scorcio di visione mi ridiede speranza.
Prestai maggiore attenzione a quei frammenti di immagini: si trattava del futuro prossimo di Sean Mool, il ragazzo che ogni sera mi portava da mangiare, e del mal di testa che lo affliggeva e che gli avrebbe impedito leggermi nella mente con la stessa efficacia di sempre.
Ritrovai un po’ di lucidità in quel momento.
Compresi che nonostante non avessi idea di quale sarebbe stato il mio destino, questo non mi impediva di agire. Potevo provare a fuggire anche senza una visione che confermasse la riuscita del mio piano, senza l’approvazione di mio padre, senza il sostegno della Comunità. Era arrivato il momento di lottare per costruire il mio futuro con le mie stesse mani.
Nessuno altro avrebbe più approfittato di me per i suoi scopi, promisi a me stesso.
Sarei vissuto libero, finalmente.
Avrei salvato mio fratello.
Avrei perseguito per davvero il mio desiderio di pace e di armonia per questa terra.
Era possibile ed io ne ero capace, dovevo crederci.
Lottai, nel vero senso della parola: contro Sean Mool, prevedendo le sue mosse, schivando i suoi colpi, fino a guadagnare la strada per l’uscita. Da lì correre via dal Palazzo fu facile: il mio potere guidava i miei passi.
Io potevo badare a me stesso e compiere le mie scelte per conto mio, compresi una volta fuori dal’influenza nefasta di mio padre e delle sue Comunità.
Potevo fare la differenza.
Avevo il terrore di arrivare troppo tardi: ma il futuro di Brian era già cambiato.
Io avevo permesso che cambiasse.
Forte di questa consapevolezza riuscii a non farmi sopraffare dalla paura e a portarlo in salvo, in questo angolo di bosco. Non potevo farmi riconoscere, però, non ero ancora pronto per un confronto diretto con te, Brian: forse non ho mai smesso di credere di averti deluso, in un modo o nell’altro »
 
 

Colum aveva parlato con forza e con ardore e i suoi occhi dorati sembravano contenere tutta la conoscenza e il dolore del mondo. Era uno sguardo molto strano, il suo, incastonato nel volto giovane, dalla pelle chiara, cosparso di lentiggini.
Non aveva più parole, ormai, e Thea e Brian e Aster restarono muti davanti alla sua personale lotta. Colum aveva sconfitto l’autorità del padre e l’intera Comunità dei Portatori e aveva salvato la vita di tutti loro.
Di Thea, che sarebbe morta per mano di Brian.
Di Brian, che sarebbe morto per mano di Aster.
Di Aster, che non avrebbe mai trovato la via per la vita.
“Sei stato molto coraggioso, Colum” gli disse Thea con un sorriso triste.
“Hai scelto da solo la tua strada: ora non ti resta che percorrerla” lo spronò Aster.
Colum annuì: aveva scelto di portare pace e di usare il suo dono per farla finita con la guerra.
Brian non disse nulla ma lo guardò a lungo. Pianse, in silenzio.
Quando il soldato si sfiorò la testa in un gesto strano, veloce, Colum seppe che l’aveva finalmente perdonato.
In quel momento nessuna faceva caso alla Bella e lei si alzò in piedi.
“Amici, non vi sarete dimenticati di me, spero!” sorrise.
“Ho anch’io una storia da raccontarvi”.
Thea fece per parlare ma qualcosa la bloccò, la bocca semiaperta, la mano rigida tra quella di Aster.
“Oh no, no dolce Spirito. Non ho bisogno del tuo incoraggiamento; ho aspettato questo momento molto a lungo. Quindi taci, per cortesia” disse la donna, con un sorriso sempre più grande.
Nessuno sembrò essere in grado di intervenire ancora.
 

“La mia storia sarà breve e sarà l’ultima …” cantilenò.








 

 

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Capitolo 7
*** Destino ***




 
Capitolo 6
Destino





« La mia storia sarà breve e sarà l’ultima e solo voi avrete il privilegio di ascoltarla.
Il mio vero nome è impronunciabile per esseri semplici come voi: potete chiamarmi semplicemente Moira, se vi fa piacere.
Ora però voglio che ascoltiate in silenzio.
Immobili, anche.
Provengo dal luogo più bello che ognuno di voi riesce a immaginare. Riuscite a pensare a un paese senza guerre, senza fame e senza morte, senza fatica, senza odio e senza dolore? Ecco, quella è la mia casa.
Per chi come voi non ha mai conosciuto la pace sarà molto difficile figurarsi l’estrema beatitudine di condividere la vita, di guardare con gioia al domani e di non preoccuparsi di dover morire giovani. Ebbene, questa è la mia realtà e la condivido felicemente con le mie sorelle.
No, Aster, da bravo: non provare a spezzare il mio incanto, ne moriresti. Ed io non voglio, non ancora.
Dovete restare fermi e ascoltare.
Vivo da sempre in quel mondo perfetto di cui vi parlavo e da sempre amo le mie sorelle, così come loro amano me. Abbiamo un solo, lieto compito da svolgere nella nostra eternità: esistere e mantenere gli equilibri. Morte, Vita e Destino rendono possibile l’esistenza di ogni cosa, mi sembra ovvio.
Siamo potenti, molto e forse troppo. Tra le nostre mani questa terra cresce e muore a nostro piacimento. Ma c’è qualcosa a cui non siamo immuni: i desideri.
Pungenti e dannosi, cambiano gli umori e le sorti di un intero regno senza pietà e senza rispetto. Viscidi, nascondono sotto una corazza d’oro un sapore amaro e velenoso.
Così, ci fu un momento in cui un desiderio strisciò ai nostri piedi e, subdolo, si insinuò nei nostri cuori immortali. Eccolo, l’attimo della nostra rovina, l’inizio delle nostre angosce!
In un momento imprecisato della nostra vita infinita ci sentimmo sole e desiderammo non esserlo più.
Infinitamente sole, non so se mi spiego, non so se riuscite a capire.
Quando la compagnia l’una dell’altra non bastò più, quando il desiderio era ormai gonfio nel nostro petto, la maggiore di tutte noi ebbe un’idea. Un’idea fantastica, pensammo, ansiose di realizzare il sogno dei nostri cuori.
È così che siete nati.
Cosa sono quelle facce stupite?
No, no; ancora non voglio che parliate.
Siete nati per un capriccio, un desiderio egoista, tutti voi; eravate il nostro gioco preferito.
Noi tre creammo per primi gli esseri umani: scegliemmo laghi e fiumi, montagne e mare per loro, nell’intenzione di donargli il mondo più bello che si potesse avere. Li creammo intelligenti e forti, autonomi e numerosi, capaci di dominare le terre a loro disposizione. Decidemmo di farli mortali e di impreziosire le loro vite con doni e privilegi, controllando ogni cosa dalla nostra casa di perfezione.
In cambio pretendemmo la loro fedeltà, la loro lealtà, i loro sacrifici e le loro offerte. Per molti anni gli Umani edificarono Tempi in nostro onore e per secoli la preghiera fu vera e sentita e il nostro cuore traboccava di orgoglio e vanagloria.  Ci sentivamo amate ed era davvero troppo bello.
Ma, ancora, non eravamo soddisfatte.
Desideravamo fantasia e diversità per scacciare la noia e sentirci più vive: così, creammo le Creature.
Fu assai strano, per noi, concedere un’oncia di quell’immenso potere che possediamo ad esseri di nostra invenzione. Poteva essere pericoloso, ne eravamo consce. Così creammo un popolo esiguo, debole fisicamente, e lo relegammo nel cuore della Foresta.
Fu molto divertente dar vita a questa specie!
Decidemmo di legare tutti i loro poteri alla natura e di creare Spiriti che mai avrebbero potuto concentrare troppe capacità in una sola persona. Donammo loro tutto ciò di cui avevano bisogno e guidammo le loro vite come già facevamo con quelle degli Umani. Per ringraziarci le Creature elessero i luoghi più belli e mistici della Foresta a luoghi di culto e per secoli venerarono gli Spiriti Guida.
Furono tempi lieti: avevamo il cuore colmo e la mente occupata e, finalmente, ci sentivamo Dée.
È stata la pare migliore della nostra eternità, credo.
Nonostante questo, non avremmo dovuto cedere al potere persuasivo di quello sciocco desiderio; ma non potevamo immaginare che da quell’idillio sarebbero scaturiti anche affanni e frustrazioni.
Il mondo che avevamo creato non era perfetto e ce ne accorgemmo fin troppo presto.
Uomini e Creature mortali lavoravano, si ammalavano, morivano e soffrivano in continuazione; la loro vita era quanto di più diverso poteva esistere dalla realtà che noi conoscevamo. Non potevamo immaginare verso quale strada il dolore e il tormento, sentimenti a noi ancora sconosciuti, avrebbero condotto i nostri figli.
Anno dopo anno i Tempi in nostro onore si svuotarono e gli Spiriti non ci offrirono più preghiere. Anno dopo anno osservammo Umani e Creature credere di essere vivi per se stessi e di bastare a se stessi. Li osservammo con crescente orrore mentre si persuadevano di non aver bisogno di Divinità e di detestarle.
Iniziarono a considerarci come inopportune impiccione delle loro vite imperfette.
Ma senza gli Déi, fu il caos.
Entrambi gli schieramenti avevano già abbandonato il nostro culto da molto tempo quando scoppiò il primo scontro tra Umani e Creature.
Un solo pensiero muoveva questi popoli: essere superiori a chiunque, compresi gli Dèi.
Così, lottarono per dimostrare la propria superiorità, per sottomettere l’altro e crogiolarsi nella propria apoteosi; i vincitori avrebbero ottenuto il potere di sopravvivere sulle spalle dei vinti e di essere come Divinità per loro.
E noi? Cosa avremmo dovuto fare, noi?
Amavamo quegli esseri, profondamente.
Ma loro ci avevano tradito. Voi ci avete tradito.
Non è cosa da poco scatenare la furia degli Dèi, dico davvero: è stato un grosso errore.
I nostri figli morivano l’uno per mano dell’altro, rinnegando la cura del creatore, affogati nel sangue del fratello; qualsiasi intervento da parte nostra fu vano.
Guardammo le morti e le violenze e le crudeltà senza poter fare nulla. Tutto questo ci rese profondamente  infelici.
Come parlare al cuore di esseri che non vogliono ascoltare, che non credono, che non hanno fede?
Ci avete ucciso, ci avete allontanato ed esiliato, spregevoli esseri terreni.
“La guerra che tanto amano sarà la loro punizione” decidemmo, allora, piene di collera.
Vi siete chiesti come è stato possibile per delle donne Umane partorire figli dotati di magia? Vi siete mai interrogati sul mistero dell’esistenza dei Portatori?
I Portatori furono la nostra vendetta, sciocchi!
Da quasi sessant’anni io, Morte e Vita scegliamo chi, tra gli Umani, deve nascere Portatore: non c’è nulla di ereditario o casuale, badate bene. Ognuna di noi fa dono al neonato di un pizzico della sua magia: i poteri di creare e manipolare sono dono di Vita, quelli di distruggere e separare di Morte, mentre io omaggio i prescelti con i poteri della mente e del mondo non materiale.
Colum, amico mio, sei una mia creatura in tutto e per tutto, non trovi? Così come tuo padre è il figlio prediletto di Vita.
Più di ogni altro popolo, i Portatori sono marionette nelle nostre mani.
Il destino di quei bambini è segnato sin dalla nascita: sono stati creati per dividere, martoriare e distruggere un mondo già in pezzi. L’esistenza di questo nuovo popolo ha diviso gli animi e complicato i meccanismi della guerra. Non avendo più il desiderio né la speranza di portare la pace tra le nostre creature, gettammo così le basi per qualcosa di definitivo.
Né completamente Umani né vere Creature, i Portatori hanno donato forze fresche e mani capaci a noi che desideravamo alimentare il conflitto e allontanare ogni possibilità di pace. I fronti si sono moltiplicati, i cuori divisi, le coscienze afflitte: di chi fidarsi? Da che parte schierarsi?
Da nessuna, figli miei.
Non esiste un porto sicuro, né una decisione giusta: ognuno di voi è destinato a far la guerra al suo vicino fino alla fine dei tempi.
Fino all’estinzione.
Capite cosa ho detto?
Capite cosa accade a chi ha la presunzione di sfidare gli Déi?
Siete destinati a morire per mano dei vostri fratelli e a sparire da questa terra, popoli indegni, stirpe ingrata! Così che questo luogo possa risorgere in mani diverse, mani caritatevoli e amanti delle preghiere.
Sarà una vendetta lunga e dolorosa, lo sappiamo e lo vogliamo!
Perché vi sto raccontando tutto questo? È questa la domanda che vorresti farmi, vero, soldato Brian?
È facile: perché non sarete in grado di raccontarlo a nessun altro.
Shh, non vi agitate, ora.
Suvvia, prometto che non farà troppo male.
Cosa, Colum, tesoro? Non capisco i tuoi mugugni.
Scommetto che vuoi chiedermi perché ho scelto di uccidere proprio voi, questa notte. Ve lo dirò in ogni caso, va bene.
Non vi siete ritrovati insieme in questo luogo per pura fatalità, questo mi pare ovvio.
Io e le mie sorelle non vogliamo che qualcuno ostacoli il nostro progetto di rinascita e la creazione di un nuovo popolo. Vogliamo che tutti gli abitanti del regno, seppur lentamente, trovino la morte.
Persone come voi sono d’intralcio, ecco la verità: sono casi rari ma sono sparsi dappertutto.
Nei vostri cuori non brucia l’odio e la paura, il disprezzo e la collera come in quelli della maggior parte dei nostri immeritevoli figli.
In un certo senso, siete gli esemplari migliori tra le nostre creature.
Compassionevoli, amorevoli, aperti alla tolleranza e alla pace, disposti a vivere insieme e ad accettare i vostri nemici.
Brian e Colum, voi siete fratelli, uniti da un legame eterno di sangue e forgiati dalla perdita: l’uno potrà mai tradire l’altro? Il Portatore potrà mai rivoltarsi contro l’Umano?
Thea e Aster, ciò che c’è tra voi è sopravvissuto al tempo e al dolore ed è la pienezza dell’amore e della dedizione: potrete mai uccidervi a vicenda? L’Umano avrà mai la forza di eliminare la Creatura?
No, va al di là di ciò che potete anche solo immaginare di fare.
Noi vi ammiriamo per questo, davvero: ma per questa esatta ragione dovete morire.
Io e le mie sorelle vaghiamo da molti anni sotto mentite spoglie per ricondurre al silenzio uomini e donne capaci di amare come voi. Da anni scongiuriamo la pace e portando la morte ai suoi migliori guerrieri.
Non può esistere una tregua, bambini.
Aster sta buono; non ti rendi conto che è finita? Che non puoi sfuggire al mio potere?
Thea, cosa sono quelle lacrime? Dovresti ringraziarmi: questa notte vi allontanerò per sempre dai tormenti e dal dolore della guerra.
Oh, Brian, Colum! Mie meravigliose creature!
Figli dal cuore puro, gioite perché state per essere accolti tra le braccia delle Dèe
»
 


Quando Moira tacque un silenzio forzato cadde sul bivacco.
L’odore acre della paura e un vago sentore di morte appestavano l’aria mentre la donna bionda e bella sorrideva alle sue vittime impotenti. Qualcosa di troppo forte costringeva ognuno di loro all’immobilità e al silenzio: l’unico movimento era il passeggiare lento e aggraziato di Moira e le lacrime copiose sul volto di Thea.
Ma i respiri erano veloci, troppo, e gli occhi sgranati non erano che un vago riflesso della disperazione.
 

Fa che sia un sogno, non può essere vero.
Che si salvi, almeno lei.
Perché deve finire ora, quando la vita era appena iniziata per me?
Maledizione! Come posso star fermo? Come posso accettare la morte così?
Non voglio morire, io non voglio.
Proteggi i tuoi figli, padre, veglia su di noi, ti prego.
Il mio futuro è tutto qui, quindi: quante cose resteranno oscure per me.
Ecco cos’è la fottuta paura. Ogni cosa, in me, trema.
 
Ecco, lei si avvicina e la paura monta.
Ecco è qui davanti e sale quel terrore cieco che fa morire dentro.
 
Aiuto!
È un grido muto.
 

Mentre la Dèa, tutti  osservarono con terrore il suo aspetto mutare orribilmente.
Oh no, non era creatura umana.
In pochi minuti nulla era rimasto della splendida donna dalla voce dolce e il sorriso caldo: lunghe e  intricate ciocche di capelli verdi serpeggiavano lungo la sua schiena e il volto le si fece più sottile e affilato. Squame cosparsero le spalle e protuberanze ossee spuntarono dalla fronte e dalle tempie dando vita a corna simili, per forma e fattura, a quelle di un giovane cervo. Persino le orecchie si allungarono e divennero appuntite. Una mano, come un lungo artiglio peloso, si tese in avanti e gli occhi dalla pupilla fredda, di un pallido verde, brillarono alla luce del fuoco.
La Dèa non aveva fretta: si chinò sul fuoco e ne raccolse una manciata.
La fiamma ardeva viva e splendida sul palmo della sua mano e lei non soffriva. Posò la fiammella poco lontano dai suoi piedi e soffiò sul legno ardente e sulle braci roventi del falò; quell’angolo di Foresta piombò, così, nella semioscurità.
Poi, lei sparì alla vista e qualcuno gridò.
 

No!
 

Gridò una volta sola e la Foresta tacque a quel suono, come in segno di muto rispetto.
Qualcuno era morto, lo sapevano tutti. Ma chi?
Quando Moira, la Dèa, fu di nuovo visibile stringeva tra le mani un teschio, piccolo e bianco, e schizzi di sangue macchiavano le povere ossa.
Tutti capirono; era troppo fragile e delicato, quel cranio, per essere di un uomo.
La fiammella ardeva ai piedi del mostro e Thea non c’era più.
Moira guardò Aster fisso negli occhi e attese, una mano sopra e una sotto i macabri resti di uno Spirito puro.
Sfidò così, senza rispetto e senza riguardo, quell’uomo distrutto.
Lui si ribellò, lottò con tutte le sue forze e cercò di gridare al mondo intero la sua rabbia e la sua paura, il suo dolore: la Dèa restò ferma nella sua posa di morte e non fece nulla. Più l’arciere si agitava, più si indeboliva; servì poco tempo perchè l’incantesimo prosciugasse l’uomo della sua linfa vitale. Sotto lo sguardo vitreo della donna Aster non tentò più di ribellarsi, restò legato al suolo, stravolto e impotente finché non respirò più.
Moira sorrise, soddisfatta.
Brian affrontò la morte a testa alta: non chiuse gli occhi quando la Dèa si avvicinò a lui, né quando si chinò sul suo volto e gli baciò le labbra. Sgranò gli occhi, semplicemente, e il suo colorito divenne sempre più pallido, sempre più terreo. Quando Moira allontanò il volto, Brian Callhan era morto con il coraggio di un vero soldato, rendendo omaggio alla memoria di suo padre fin proprio alla fine.
Erano tutti morti e Colum sapeva bene che anche lui stava per dire addio alla vita e al futuro. Lui, che per tutta la vita aveva viaggiato nell’oceano infinito del tempo, adesso non aveva che i suoi ultimi momenti da vivere e vedere.
Moira, che ancora reggeva tra le mani il teschio di Thea, si inginocchiò di fronte a lui e posò quella macabra reliquia tra loro.
“Un capolavoro, ecco ciò che sei” disse e la sua voce portò echi di mondi mai visti e di poteri immensi.
“Colum il Profeta, ecco cosa sarai, mio talentuoso figlio”.
Colum si sentiva svenire e chiuse gli occhi.
“Non temere; ho dei progetti per te” disse, afferrandogli entrambe le mani.
Il giovane decise di provarci, ad essere coraggioso; aprì gli occhi e fissò il vuoto gelido di quelli di lei.
“Oh, si. Va per il mondo, mia meraviglia, e diffondi il messaggio che hai udito questa notte; che la furia degli Déi spazzerò via ogni cosa. Tu, frutto delle mie stesse mani, amante appassionato della pace, conserva l’illusione di poterla costruire raccontando la verità” continuò, sfiorandogli il volto con un lungo dito artigliato.
Colum tremò e pianse, infine.
“Così sia: spenderai la tua vita a seminare il dubbio e la paura nei cuori delle genti ma nessuno avrà davvero fede in te. Questa è la mia maledizione, questa la mia condanna” disse ancora.
Colum non sarebbe morto quella notte ma non avrebbe mai avuto la possibilità di vivere.
Di nuovo, non era che uno strumento tra mani potenti: questa volta, però, non aveva alcun senso lottare per liberarsi.
“Si, sono convinta: dopotutto, ogni disfatta ha il suo profeta di sventura” disse Moira, con un accenno di divertimento nella voce sovrumana.
Non era che un gioco, per lei: Colum sarebbe stato un attore nella grande recita della fine del mondo.
Infine, lei si chinò, gli baciò la fronte e, lieve come la brezza di primavera, scomparve.
 

È finita.
 

Colum restò solo a lungo tra i corpi senza vita dei suoi compagni.
La notte scolorò e una pallida alba sorse tra gli alberi alti della Foresta del Re. La luce pallida del sole bagnò quello scenario di morte e illuminò i pensieri del giovane.
 

Sono solo. Realizzò.
Brian è morto.
Thea e Aster sono morti.
 

Decise di seguire suo fratello e lasciarsi morire lì, nel bel mezzo della Foresta.
Ma una forza che nulla aveva di umano lo costrinse ad alzarsi e sentì i suoi piedi scalpitare, desiderosi di intraprendere un viaggio.
Eccola, la maledizione.
 

Non è stato un sogno.
Che senso ha vivere così?
 

Non poteva che obbedire.
Raccolse il mantello di Aster e se lo gettò sulle spalle.
Scelse un bastone lungo e nodoso e lo decorò con uno dei ciondoli di legno che un tempo avevano adornato i corti capelli di Thea.
Di Brian conservò una rossa ciocca di capelli.
Partì e non fu in grado di fermarsi mai; guardò i Popoli del regno morire, giorno dopo giorno, e assistette al compiersi della vendetta degli Dèi afflitto dalla condanna della conoscenza.
Fino al giorno della sua morte.
 

 
“Dopotutto ogni disfatta ha il suo profeta di sventure”
Detto questo sorrise e a passi svelti se ne andò, mentre suo mantello ondeggiava nella direzione del Tempio.











 

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