Jurassic World - The Grants' Chronicles

di thebrightstarofthewest
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La telefonata ***
Capitolo 2: *** Benvenuti a Jurassic World ***
Capitolo 3: *** Rivelazioni ***
Capitolo 4: *** La carne ***
Capitolo 5: *** Il piano ed il ragazzino ***



Capitolo 1
*** La telefonata ***


1. La telefonata

“Ellie!”, chiamò Alan Grant con voce cavernosa, “Ellie, il computer lo sta facendo di nuovo!”.
C’erano due cose al mondo che Alan Grant  non era mai riuscito a sopportare: la tecnologia ed i bambini.
Per quanto riguardava la tecnologia, il sentimento pareva essere reciproco. La sua professione da paleontologo –lavoro in cui tra l’altro eccelleva- lo aveva spesso portato a confrontarsi con attrezzi elettronici di varia natura ed i risultati che aveva ottenuto nell’utilizzarli non erano mai stati troppo incoraggianti; per quanto i suoi studenti e collaboratori tentassero di spiegargliene il funzionamento, Alan pareva proprio non riuscire a comprenderlo. I macchinari, d’altro canto, non facevano niente per venirgli incontro: al contrario, spesso si guastavano non appena lui iniziava a capirne i meccanismi. Era una guerra continua in cui il professor Grant era ormai dentro fino al collo e le cui battaglie erano pressoché sempre vinte dalla fazione avversaria.
In quell’istante, Alan era di fronte al proprio portatile, proteso in avanti con fare comico, tentando di decifrare le frasi che apparivano sullo schermo. Sbuffò. Continuava a preferire il buon vecchio telefono a quelle stupide video chat, o quel che erano.
“Ellie!”, chiamò ancora, scuotendo appena il PC, come se quel gesto potesse in qualche modo risolvere il problema in cui era incorso.
“Arrivo, Alan, calmati”, rispose una voce ridente dal piano superiore. Pochi secondi dopo Ellie Sattler, paleobotanica di primordine, scese le scale rapidamente e gli si avvicinò, posandogli una mano sulla schiena. “Allora, qual è il problema?”.
Ellie Sattler, paleobotanica di primordine… E, ormai da diverso tempo, anche sua moglie. Era di alcuni anni più giovane di lui, con gli occhi azzurri ed i capelli biondi legati dietro la testa.
“Ha chiuso il coso”, bofonchiò il professor Grant, “Sì, insomma, il computer ha chiuso il programma”.
“Skype, intendi?”, domandò lei, prendendo controllo del mouse. Lui si strinse nelle spalle e assentì distrattamente. Soltanto pochi click ed ecco che la schermata celeste di Skype era di nuovo al centro del desktop del personal computer; Alan si passò una mano sul volto con fare affranto: un’altra battaglia persa.
Ellie rise appena e, dopo avergli schioccato un bacio sulla fronte, gli porse un paio di occhiali da vista. “La prossima volta usa questi, così magari riesci a leggere qualcosa!”. Detto questo, lanciò un’ultima occhiata al marito e fece per andare, ma lui le prese la mano.
“Stavo per chiamare i ragazzi, non vuoi rimanere?”, le domandò.
Era due, infatti, le cose Alan Grant non sopportava affatto: la tecnologia ed i bambini. Con la tecnologia ormai si era arreso da tempo. Per quanto riguardava i bambini, invece, si era dovuto ricredere: c’era stato un tempo in cui pensava fossero solo piccole creature appiccicose e petulanti, sempre pronte a far qualche danno o qualche domanda fuori posto. Poi, l’esperienza al Jurassic Park gli aveva ben fatto cambiare idea. Già, il Jurassic Park: ricordava in modo vivido gli eventi che erano avvenuti, come se fossero passati pochi giorni, e non più di venti anni. Quando l’eccentrico magnate John Hammond lo aveva invitato sulla sua isola al largo della Costarica, Isla Nublar, mai si sarebbe aspettato di trovarvi un parco… Un parco con dei dinosauri. Dinosauri vivi.
Mai si sarebbe poi immaginato che quei dinosauri avrebbero preso il sopravvento sulle misure di sicurezza e che quella che a prima vista era apparsa come una visita innocua si sarebbe trasformata in una corsa per la sopravvivenza. Proprio durante quella corsa trafelata, Alan aveva conosciuto i due nipotini di Hammond, Lex e Timmy, due bambini svegli ed intelligenti. Due bambini che aveva dovuto salvare da continui contrattempi e pericoli, due bambini a cui aveva finito per affezionarsi infinitamente.
Dunque, quando Alan e Ellie erano usciti vivi dal parco, metter su una famiglia era stata la cosa più spontanea che potessero fare: l’essere stati così vicini alla morte, aveva instillato in loro una voglia di vivere che non avevano mai prima di allora conosciuto. Dapprima si erano sposati… E poi avevano avuto due bambini, per la precisione due gemelli: Bernard e Nicholas. Adesso entrambi i ragazzi avevano vent’anni e non vivevano più in casa con loro, dunque, per rimanere in contatto coi genitori, spesso li chiamavano su Skype.
“Va bene, rimango”, rispose Ellie, aiutando Alan a far partire la telefonata. Dopo pochi secondi di attesa, due volti pressoché identici apparvero sullo schermo.
“Sono stato preso!”, gridarono entrambi i gemelli, contemporaneamente. Seguì un attimo di silenzio e poi delle risate.
Alan ed Ellie assunsero un’aria perplessa, continuando a guardare i lineamenti sgranati dei figli sul computer: Bernard indossava gli occhiali, aveva il viso sottile, i capelli biondi a zazzera ed una corta barba gli incorniciava il mento; Nicholas, d’altro canto, aveva la testa un po’ più schiacciata ed i capelli più tendenti al castano chiaro, ma per il resto appariva tale a quale al fratello. Entrambi avevano i grandi occhi azzurri del padre ed il caldo sorriso della madre.
“Vuoi iniziare tu a dare le notizie a mamma e papà, Bernie?”, domandò Nicholas al gemello.
Notizie’, rimuginò tra sé e sé Alan Grant, ‘Speriamo non siano cattive’.
Bernard sospirò e poi iniziò a parlare, sfoggiando una mimica facciale che ricordava tanto quella di Ellie. “Beh, vi avevo detto che l’università aveva indetto un concorso per i migliori studenti della facoltà, giusto?”.
I due coniugi Grant si scambiarono uno sguardo interdetto. “Beh, per la verità no”.
“Oh”, borbottò il ragazzo, passandosi la lingua sulle labbra, “Comunque… era stato indetto questo concorso, no? E nel bando c’era scritto che i primi classificati avrebbero avuto un’occasione straordinaria di studio sul campo… Dunque mi sono iscritto, così, per provare e… Sono arrivato primo!”.
“Complimenti, tesoro”, esclamò la madre, sorridendo, “E quindi, cosa hai vinto?”.
Il figlio esitò per un secondo, come se fosse preoccupato. Alan, per la verità, non capiva cosa ci potesse essere di così allarmante nel vincere un concorso universitario: Bernard, come i genitori, aveva scelto la via della paleontologia ed il suo talento negli studi era evidente. Per un ragazzo volenteroso come lui era una manna dal cielo avere la possibilità di cominciare studi sul campo così presto.
“Bernard?”, domandò allora, un poco preoccupato.
“Beh, ecco…”, il giovane alzò un secondo gli occhi al cielo, poi biascicò una frase incomprensibile.
“Cosa hai detto?”, domandò Nicholas, “Non ho sentito!”.
“Io…”, decise infine di concludere la frase, “Passerò un periodo tra i tre ed i sei mesi ad Isla Nublar, al Jurassic World, dove studierò il comportamento dei dinosauri”.
Mentre la mascella di Ellie si spalancò, lasciandola a bocca aperta, quella di Alan si contrasse, in un grugnito rabbioso, quasi stizzito. Il Jurassic World. Per lui, quel luogo era il male: anni dopo il disastro del Jurassic Park, difatti, il parco era stato riaperto, con un nuovo nome, una nuova gestione, nuove misure di sicurezza… Ma per lui rimaneva il luogo dove delle persone innocenti erano morte, soltanto a causa della presunzione umana di voler controllare qualcosa che non può essere controllato.
“Papà, non mi guardare così”, mormorò Bernie, passandosi una mano sul volto, “Lo sai bene che è un’occasione irripetibile… L’hai vissuta anche tu, perché io dovrei…”.
“Vogliamo ricordare cosa è successo quando io e tua madre l’abbiamo vissuta, quell’esperienza? Vogliamo parlare di coloro che sono stati dilaniati dai Raptor, o di quelli che sono stati divorati dal Tirannosauro?!”, gridò Grant, sbattendo il pugno sulla scrivania.
“Alan, non urlare”, lo pregò Ellie, prendendogli la mano tra le sue, “Non ce n’è ragione”.
“Nostro figlio vuole andare sulla stessa isola dove abbiamo visto morire delle persone e tu dici che non c’è ragione di urlare?”, sbottò lui, adirato più che mai. Adirato perché desiderava tenere la sua famiglia lontana dal pericolo.
“Quel che volevo dire è che…”.
“Mamma, papà…”. Questa volta era la voce decisa e profonda di Nicholas a chiamarli. Lui che aveva intrapreso una carriera ben diversa dal fratello, prediligendo sempre tutto ciò che vi era di pratico o fisico, rispetto allo studio. Non che non apprezzasse i dinosauri, al contrario: quella per i giganti antichi che avevano dominato il mondo era una passione che i Grant avevano tramandato ad entrambi i figli; l’unico problema era che le materie scientifiche proprio non facevano per lui
“Che c’è, tesoro?”, domandò Ellie, pacatamente, sempre stringendo la mano del marito.
“Sapete che avevo fatto diverse richieste di lavoro, diversi test, cose del genere… Sono stato ammesso od accettato a diversi, ecco. Ma la migliore offerta arriva anche per me dal Jurassic World”. Andò subito a cercare lo sguardo del padre.
“E questo”, balbettò Alan, piuttosto confuso, “Che vorrebbe dire?”.
“Che vado a lavorare al Jurassic World, papà. Non so bene a fare cosa, ma nel test che mi hanno fatto fare risulta che sia la mia prestanza fisica sia la mia conoscenza nel settore paleontologico e zoologico sono superiori alla media… E, beh, la paga è buona”. Scrollò le spalle, non aveva nulla da aggiungere.
Alan deglutì. Un sapore amaro gli invase la bocca.
“Anche tu sarai al Jurassic World? Quando, Nick?”, domandò Bernard, boccheggiante e sorridente.
“Parto dopodomani, stavo facendo adesso le valige”, rispose Nicholas.
“Anche io! Ma è assurdo! Queste sono coincidenze che…”, smise di parlare non appena si rese conto che il padre li stava osservando, scuro in volto, “Papà, va tutto bene?”.
Lo sguardo del professor Grant si abbassò, poi chiuse gli occhi. Nell’oscurità delle sue palpebre serrate una moltitudine di ricordi lo raggiunse, aggrappandosi a lui con rabbia, dilaniandolo come artigli e zanne. No, non andava tutto bene. Ovvio che no. Dal momento in cui aveva realizzato di essere padre, dal momento in cui Ellie aveva tenuto tra le braccia quelle due creature minuscole che si assomigliavano così tanto e che gli assomigliavano così tanto, aveva avuto mille dubbi e paure, ma una sola sicurezza: lui non avrebbe mai abbandonato la sua famiglia. Non l’avrebbe mai messa in secondo piano. Mai avrebbe lasciato che il pericolo la minacciasse. Aveva paura, paura che i suoi due bambini si mettessero nei guai: non voleva che vedessero tutto il terrore che anche lui aveva vissuto.
E quindi no, non andava tutto bene, andava tutto una merda.
Sospirò, riaprì gli occhi e guardò prima il computer e poi Ellie. Lei ricambiò il suoi sguardo, apprensiva.
“Beh, ragazzi, sarà meglio che vi lasci alle vostre valige, allora”, disse, alzandosi in piedi, con sguardo vacuo e con un sorriso mesto sul volto, “Ci sentiamo presto”.
Prima che potessero in qualsiasi modo protestare, chiuse la videochiamata.
“Alan…”, mormorò Ellie, alzandosi a sua volta. Si avvicinò al marito e lo baciò delicatamente sulle labbra. “Conosco le tue preoccupazioni, perché sono anche le mie. Ma Nick e Bernie hanno la fortuna di vivere in tempi diversi, tempi più sicuri. Non vivranno la nostra stessa esperienza, lo sai”.
Il professor Grant le carezzò i capelli biondi. Gli anni passavano, ma lei rimaneva sempre stupenda. Fece per rispondere, ma un suono lo fece bloccare. Era il suo cellulare.
Ellie si avvicinò alla scrivania dove era riposto lo smartphone e diede un’occhiata al nome impresso sullo schermo. Una risata argentea uscì dalle sue labbra.
“Chi è, tesoro?”, domandò allora Alan, perplesso.
“Non ci crederai mai”, esclamò la donna, sempre ridendo. Girò il telefono verso il marito, a cui ci volle qualche istante per mettere a fuoco il nome.
Ian Malcolm”, mormorò, inarcando le sopracciglia, “E che cazzo vuole, adesso, Ian Malcolm?”.

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Capitolo 2
*** Benvenuti a Jurassic World ***


2. Benvenuti a Jurassic World


Molo n. 7, Isla Nublar, 120 miglia al largo della Costarica, ore 10:30

Bernard Grant si tolse gli occhiali e li strofinò contro il bordo della camicia. Era sudato fradicio.
Nonostante fosse appena sbarcato sull’isola, già l’umidità ed il calore gli facevano pizzicare la barba, strizzare gli occhi ed appiccicare la zazzera contro la fronte. Alzò lo sguardo verso il sole, con aria mesta, poi ripose gli occhiali sul proprio naso ed afferrò i pesanti bagagli.
Diede un’occhiata attenta all’ambiente che lo circondava: si trovava ad uno degli attracchi per le navi che trasportavano dipendenti e studiosi, e tutto intorno vorticavano il verde della vegetazione, il giallo del sole ed il blu del cielo. Della famosa nebbia da cui derivava il nome dell’isola non ve n’era alcuna traccia.
Aveva intrapreso l’intero viaggio assieme agli altri studenti che erano risultati tra i primi dieci classificati del concorso universitario ed aveva scoperto con stupore di essere il più giovane: non che ciò lo mettesse in soggezione in alcun modo. Al contrario, provava una sorta di recondito piacere nel sapere di essere la prima tra quelle menti brillanti, nonostante l’età. Sorrise, mentre una goccia di sudore gli colava giù per la tempia.
Si trovava sul molo con i suoi compagni, in attesa del “comitato di benvenuto”. O almeno, era quello che diceva il depliant che gli avevano dato prima di imbarcarsi sul traghetto. D’un tratto, una figura esile apparve sul lato opposto del pontile, muovendosi elegantemente verso di loro. Alcuni dei ragazzi che lo circondavano ammiccarono e sogghignarono l’un con l’altro: il cosiddetto “comitato di benvenuto”, difatti, consisteva in una donna sulla trentina, capelli rossi dal taglio ordinato, occhi verdi come la flora costaricana, che camminava su un paio di tacchi alti ed il cui corpo sottile era perfettamente messo in risalto da un leggero abito color pesca. Giunse dinnanzi al gruppo di studenti, sfoggiando un sorriso tirato.
“Buongiorno”, esclamò, con non troppo calore, osservando con occhio critico i loro vestiti sudati e stropicciati, “e benvenuti a Jurassic World. Il mio nome è Claire Dearing e sono la manager principale del parco; dovete sapere che è per noi un onore avervi qui, non solo per rendervi partecipi delle grandi innovazioni genetiche che abbiamo raggiunto nel tempo, ma anche per darvi la possibilità di far assumere ai vostri studi una piega diversa… E più emozionante!”. Accompagnò l’ultima parola con un ampio gesto, come per attribuirgli più enfasi. Poi cominciò a stringere la mano ad ognuno degli universitari, stando però ben attenta a non entrarvi troppo a contatto.
Bernard sospirò ed attese che arrivasse il proprio turno, massaggiandosi le dita umidicce contro i pantaloni.
“Claire Dearing”, ripeté lei quando gli si trovò davanti, stringendogli poi la mano con quella che sarebbe dovuta apparire cortesia, ma risultava piuttosto distacco, “E tu sei…?”.
“Bernard Grant, signora”, rispose il ragazzo, abbassando appena la testa in segno di saluto.
“Grant”, mormorò lei, sillabando il cognome come se qualcosa di ovvio le sfuggisse, “Grant…”. Lo scrutò, passando il proprio sguardo indagatore sui suoi lineamenti; all’improvviso, parve illuminarsi.
Quel Grant?”, domandò allora, con un piccolo sogghigno stampato sulle labbra, “Il figlio di Alan Grant?”.
Bernard si tolse i capelli dalla fronte, in un gesto nervoso. Non amava essere riconosciuto come ‘il figlio di Alan Grant’ o ‘il figlio di Ellie Sattler’.
“Sì, signora”, confermò suo malgrado, “il dottor Alan Grant è mio padre”.
“Tale padre, tale figlio, si potrebbe dire”, aggiunse Claire. Bernie non riusciva bene a capire quali fossero le sue intenzioni: da un lato sembrava volerlo accogliere e far sentire a suo agio, ma dall’altro un alone di malcontento e noia sembrava sempre nascondersi dietro i suoi lineamenti contratti. Era appena arrivato sull’isola e già gli si presentava dinnanzi un primo mistero.
“O tale madre, tale figlio”, rispose pacatamente allora, “Nel mio caso si adatta pur sempre bene”.
Claire Dearing non aggiunse altro ed, anzi, passò subito allo studente successivo. Se non altro aveva tentato di scambiare due parole con lui, niente male. Quando la donna ebbe finito di porre i propri saluti, li invitò con un cenno della mano a seguirla e li condusse nei pressi di un binario, dove ben presto fece la sua comparsa una vettura simile ad un tram, ma più slanciato e moderno. Sulla fiancata il simbolo di Jurassic World era impresso in bianco ed azzurro.
Uno dopo l’altro gli universitari presero posto nella navetta e Bernard si posizionò in prima fila, contenendo a stento la propria emozione: in casa Grant, nonostante la condivisa passione per i dinosauri, non era neppure contemplato nominarlo, Jurassic World; suo padre era molto rigido a riguardo, e con ragione, d’altronde. Ciononostante, il ragazzo aveva a lungo sognato di poter vedere quelle creature che da sempre avevano attratto la sua attenzione, di poterle studiare non soltanto come fossili, come ricordi di un mondo ormai passato, ma come creature viventi. Cosa poteva esserci di sbagliato, in ciò?
Il mezzo di trasporto fece per muoversi e, proprio prima che incominciasse il proprio percorso, Bernard notò con enorme stupore che Claire Dearing si era seduta esattamente accanto a lui. Respirò profondamente, sperando di non aver a che fare con una fanatica del lavoro dei suoi genitori: gli era già capitato, in passato, di avere a che fare con persone simili, ed i risvolti di quegli incontri erano sempre risultati… Particolari.
Durante i primi minuti del tragitto, l’intero vagone pareva immerso nel silenzio e soltanto i meno impressionabili osavano chiacchierare, di tanto in tanto. Bernard Grant si divertiva a guardarsi intorno, prendendo mentalmente nota delle piante che vedeva, catalogandole e cercando di ricordarne le peculiarità.
“Scommetto che tuo padre aveva il tuo stesso sguardo quando è arrivato a Jurassic Park per la prima volta”, esclamò d’improvviso Claire, risvegliandolo dalle proprie elucubrazioni, “Per quanto ho visto nelle copertine dei suoi libri, avete gli stessi occhi”. Bernie assentì distrattamente.
“Vede, signor Grant”, continuò poi, “Non appena ho saputo chi è lei, mi sono allarmata: un Grant che torna ad Isla Nublar, cose da non credere”. Il ragazzo si trovò sul punto di dirle che anche suo fratello si trovava lì, ma si limitò a sorridere, decidendo di non interromperla.
“La sua presenza qui può avere due risvolti: da un lato può essere positiva, perché il suo nome è famoso e sicuramente porta con sé una certa curiosità. Dall’altro, signor Grant, diciamocelo… Lei è una piaga”.
Bernard sgranò gli occhi, esterrefatto. Una risata spontanea gli uscì dalle labbra. “Mi creda, signora, sono stato definito in molti modi in vita mia, ma piaga… Credo proprio sia la prima volta”.
“Suo padre è un famoso detrattore di Jurassic World e non fa che ribadirlo aspramente in interviste ed articoli, quindi la avverto… Una sola parola fuori posto, una sola osservazione che non mi va a genio… E lei è fuori, Grant, la rispediamo a casa”, la donna inarcò appena lo sopracciglia, quasi a sottolineare la propria minaccia, “Sono una persona efficiente, io, e molto organizzata. Lei non fa parte dei miei piani, dunque farà meglio a comportarsi come le dico”.
Il giovane paleontologo sogghignò, quasi indifferente. “Va bene, signora”, rispose, con fare volutamente militare. Claire lo fulminò con lo sguardo, poi si alzò in piedi e fece per andarsi a sedere in un altro posto, ma prima si bloccò per un istante. “Un’ultima cosa, Grant”, bofonchiò, “io non sono una signora, sono una signorina”.
“Non credo ci sia da domandarsi il perché”, rispose il ragazzo con un ampio sorriso stampato sul volto; proprio in quell’istante, un rumore metallico risvegliò la sua attenzione: guardò di fronte a sé e vide la porta del parco aprirsi, inghiottendo la vettura.
“Benvenuto al Jurassic World, Grant”, mormorò Claire, con un tono di sfida che lasciava intuire solo una cosa: più che il benvenuto, era senz’altro nei guai fino al collo.
E sono appena arrivato’, rimuginò Bernard e l’ennesimo sorriso gli apparve sulle labbra.

Appena al di fuori del recinto dei Raptor, Isla Nublar, 120 miglia al largo della Costarica, ore 11:00

Nicholas Grant portò la grande mano forte sopra gli occhi per ripararsi dal sole: il caldo era insopportabile e quella ridicola divisa da lavoro che gli avevano affibbiato era troppo piccola e pizzicava in posti che Nicholas neppure sapeva potessero pizzicare. Apparentemente, erano solo due i nuovi arrivati nello staff dell’isola, perlomeno nel settore a cui era stato assegnato; accanto a lui infatti, un ragazzo mingherlino con indosso un cappellino di lana si guardava intorno con occhi pavidi. Come diavolo avevano fatto ad assumere uno così? Era quanto più di diverso ci potesse essere da lui.
Il viaggio era stato tremendamente lungo ed era arrivato sull’isola soltanto il pomeriggio prima, già rosso come un’aragosta a causa del sole cocente e delle punture di chissà quale insetto tropicale. Dopotutto, la fauna costaricana era famosa per la sua ampiezza, soprattutto per quanto riguardava le razze di insetti.
Finora non aveva visto niente del parco, se non il molo a cui era attraccato, il suo alloggio e quello strano recinto a cui adesso si trovava davanti. Per la verità non si trattava neppure di un vero e proprio recinto: almeno esternamente appariva di più come un intricato labirinto di metallo e pietra, rinforzato da fili elettrici da più lati; non vi era dubbio alcuno su cosa potesse esservi contenuto. Dinosauri. Con ogni probabilità, neppure dei più mansueti.
Non gli avevano detto molto a riguardo mentre lo trasportavano lì con una jeep, bofonchiando che il suo nuovo “boss” gli avrebbe spiegato tutto a tempo debito. L’unica cosa che sapeva per certo era che quello era il luogo in cui avrebbe lavorato quotidianamente.
Dalla vegetazione circostante, all’improvviso, apparvero due figure –fortunatamente umane- che parlottavano tra loro. Il ragazzo di fianco a Nicholas ebbe un sussulto. Il primo uomo che gli si avvicinò indossava una camicia hawaiana aperta sul davanti, infradito e shorts. Si presentò come Barry, lasciandosi sfuggire le parole con un certo accento francese. Il secondo dei nuovi arrivati, invece, portava degli abiti molto più simili alla stupida divisa di lavoro di Nicholas: la camicia con le maniche arrotolate ed gilet di pelle marrone gli facevano assumere un aspetto quasi militare, autorevole.
“Owen Grady”, si presentò, porgendo la mano ad ambedue i ragazzi, “Vedo che questa volta dal continente ci hanno spedito della carne fresca”. Il giovane con il cappello di lana si fece paonazzo e deglutì.
“Dai, era sola battuta”, commentò Grady, ammiccando e poi chiese loro i propri nomi. Quando Nicholas glielo disse, l’uomo parve un attimo titubante. “Nicholas Grant, hai detto?”, gli domandò, pensieroso, “Beh, mi limiterò a chiamarti Nick”. Scrollò le spalle e fece per girarsi, non fosse che il suo sguardo fu catturato da un piccolo sorriso apparso sulle labbra di quel giovane che pareva così serio.
“Che c’è da ridere?”, domandò, ponendo le mani sui fianchi.
“Niente, signor Grady”, rispose Grant, mordendosi il labbro inferiore, “Solo i miei familiari normalmente mi chiamano Nick. Mi pareva solo strana tanta informalità”.
Owen si grattò la fronte con l’indice, fissandosi i piedi; poi pose una grande mano callosa sulla spalla di Nicholas, guardandolo dritto negli. “C’è un motivo, amico, per cui non ti posso chiamare Nicholas”, gli mormorò con voce gutturale, “Pensa a trovarti lì dentro, solo per un secondo”. Indicò la recinzione. “Pensa che sei caduto mentre lavoravi su una delle passerelle e ti trovi nel bel mezzo della gabbia, solo e disarmato. Hai una sola possibilità di uscirne vivo: facendo estrema attenzione. Se uno di quei cosi ti piomba addosso, non avrò tempo di gridarti ‘Nicholas’. Forse, chiamandoti Nick avrai una minima chance in più”. La stretta sulla spalla si era fatta più rigida, ma Nicholas non abbassò lo sguardo. Una sola domanda gli rimbombava nella testa.
“Adesso venite, voi due, vi mostreremo le vostre mansioni”, aggiunse Grady, staccandosi da lui, “Tu!”, chiamò, riferendosi all’altro ragazzo, “Va’ con Barry; Nick, con me”. Le mani giunte dietro la schiena, il giovane Grant si mosse a larghi passi dietro al suo nuovo boss, un po’ dubbioso ed intimorito. Le larghe spalle di quell’uomo facevano apparire le sue, che comunque erano piuttosto muscolose, come sottili fuscelli. Forse era stato un militare o qualcosa del genere. Ma che diavolo di lavoro si era andato a trovare?
“So molto di te, Grant”, commentò Owen, senza girarsi e continuando a farsi strada. Lo stava portando su un camminamento sopraelevato che circondava il recinto. “Almeno, so molto sul test che hai condotto per essere qui. Un fisico eccellente, una conoscenza piuttosto buona di scienze, roba che io mi sogno, insomma”, scrollò le spalle, “Per questo ho deciso di prenderti in carica come mio apprendista”. Nicholas non capiva bene se dovesse esserne fiero o no; quella domanda insistente continuava a vagargli per la mente. Aveva bisogno di chiedere.
“Scusi, signore”, osò allora, “Mi chiedevo…”.
“Dimmi pure, Nick”, esclamò l’altro, girandosi verso di lui.
“Cos’è di preciso che facciamo qui?”, disse allora in un soffio.
Il ghigno che si presentò sulla faccia di Owen non prometteva niente di buono. “Come immaginavo”, rispose, “Non te lo hanno detto. Beh, vedi, noi siamo la sezione di ‘Addestramento animale’, forse ne hai sentito parlare o forse no. Abbiamo il compito di allenare gli animali, di far sì che ci capiscano ed ascoltino, cerchiamo di rendere possibile che si crei un feeling, possiamo dire”.
“Intende dinosauri erbivori?”.
“Oh, Nick, certo che no”, sogghignò nuovamente Grady, “Erbivori? Troppo semplice, troppo scontato. No, hanno già addestrato alcuni erbivori e sono stati necessari solo pochi esperti di cavalli, roba del genere. Ma perché chiamare due come te e me in quest’isola sperduta?”. Un ringhio sommesso arrivò dal basso, nella recinzione. Fu un istante: un’enorme figura si mosse sotto di loro, troppo veloce per poterne distinguere le fattezze con precisione. Il respiro di Nicholas si fece affannoso. ‘Oh cazzo’.
In un attimo, realizzò. Non era stato chiamato lì come guardia, non era stato chiamato lì per chissà quale banale professione: era stato assunto per addestrare Velociraptor.
Il rettile si fermò dinnanzi a loro, con solo pochi metri di altezza che li divideva; li scrutò entrambi con i suoi occhi gelidi e poi emise un suono roco ed acuto al tempo stesso.
“Benvenuto al Jurassic World, Grant”, mormorò Owen Grady.


Angolo dell'autrice:
Salve a tutti, approfitto di questo secondo capitolo per aggiungere un paio di righe esplicative per questa fanfiction. Ho recentemente guardato Jurassic World e, ispirata dalla visione, ho fatto l'ennesimo re-watch di Jurassic Park. Che dire? Prima di tutto, non avevo mai realizzato di shippare così tanto Ellie e Alan. Sono una coppia perfetta e, ci tengo a precisarlo, PER ME IL TERZO FILM NON ESISTE. Loro rimangono una otp più che stabile.
Ho tentato di dar forma ad una loro potenziale famiglia, qui, non solo per realizzare il mio (e forse anche vostro) sogno di rivederli insieme, ma anche per ributtarli nel mezzo dell'azione. Spero apprezziate l'idea.
Un abbraccio (cit. Gianni Morandi?),
thebrightstarofthewest

 

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Capitolo 3
*** Rivelazioni ***


3. Rivelazioni
 

Periferia di Dallas, Texas, ore 15:20

Ian Malcolm si presentò al loro appuntamento in largo ritardo. Entrò nel bar fischiettando un motivetto country e, muovendosi a grandi falcate tra il labirinto di tavolini, giunse infine di fronte ad Alan ed Ellie, che, dal canto loro, erano già seduti da un bel pezzo. Il paleontologo e la paleobotanica si alzarono in piedi per salutarlo, ma lui fece cenno di rimettersi giù, per poi prendere a sua volta posto in una delle sedie.
I primi istanti del loro rinnovato incontro proseguirono nel silenzio, mentre Malcolm li guardava intensamente negli occhi.
“Che Dio mi maledica, non siete invecchiati di un giorno”, concluse infine, sorridendo raggiante. Per la verità, neppure lui era poi cambiato molto dall’ultima volta che lo avevano visto: i capelli erano un po’ ingrigiti, l’attaccatura più alta sulla fronte, ma per il resto era sempre lui. I medesimi abiti neri, gli stessi occhiali: non sembrava neppure si fosse cambiato da quella maledetta giornata ad Isla Nublar. Ian Malcolm era stato uno degli esperti, come loro, a trovarsi invischiato nel disastro di Jurassic Park: era un caosologo, una studioso di matematica moderna, che sosteneva la teoria del caos. Questa fantomatica branca scientifica spiegava l’imprevedibilità dei sistemi complessi o, più semplicemente,  il cosiddetto effetto farfalla: una farfalla batte le ali a Pechino e a New York arriva la pioggia invece del sole. Niente si ripete mai e tutto influenza il risultato. Concetti astrusi che Alan non si era mai nemmeno preso la briga di tentare di capire.
“Neppure tu sei invecchiato”, rispose Ellie, sorridendogli amabilmente. Grant si limitò ad un sorriso sommesso ed una stretta di mano. “Tutto bene?”.
“Ma sì, tutto bene”, rispose il matematico, dondolandosi gaiamente sulla sedia, “Il lavoro non manca mai, dopotutto il caos è un argomento ampio. Voi due? Sposati, cazzo, ci avrei scommesso la testa!”. Rise e li indicò entrambi. “Anche se immaginare il professor Grant sposato con due bambini è senz’altro più utopico di qualsiasi parco dei divertimenti con mostri di quindici metri che si mangiano i turisti”.
“Sono cambiato”, bofonchiò Alan con un’energica scrollata di spalle, impassibile, e riprese a sorseggiare il suo caffè, “Cosa che tu, invece, mi pare non abbia fatto”.
Malcolm sghignazzò, raddrizzandosi gli occhiali scuri sul naso. “Hai ragione, io sono sempre rimasto fedele alla mia caotica natura: venti anni sono passati e sono sempre la stessa testa di cazzo che avete conosciuto sull’isola”.
Infine, Ellie si schiarì la voce, ed introdusse il discorso che tutti attendevano. “Perché ci hai chiamati qui, Ian?”.
Il volto gioviale del caosologo si rabbuiò repentinamente, dando mostra di un certo timore. Si guardò in giro, circospetto, poi aprì la borsa a tracolla che aveva portato con sé ed inizio a frugarvi dentro. I coniugi Grant si scambiarono uno sguardo: quell’atteggiamento li lasciava piuttosto perplessi.
Quando quel loro antico compagno di disavventure li aveva nuovamente contattati, entrambi era rimasti stupiti: cosa poteva volere Malcolm da loro dopo tutto quel tempo? Una semplice rimpatriata –cosa che non sarebbe stata troppo gradita da Alan, per la verità- o qualcosa di più misterioso? La telefonata che avevano intrattenuto si era rivelata piuttosto criptica: il matematico era apparso ansioso, turbato, come se qualcosa di pericoloso ed imminente lo minacciasse da vicino. Aveva farfugliato qualcosa riguardo Jurassic World, si era soffermato morbosamente sulle nuove attrazioni del parco: non sembrava neppure lo stesso studioso eloquente e completamente spensierato che avevano conosciuto un tempo. Alan aveva capito ben poco di quegli astrusi vaneggiamenti, ma qualcosa era stato ribadito talmente tante volte da risultare chiaro: Ian aveva bisogno del loro aiuto e doveva assolutamente vederli, il prima possibile. Aveva detto loro di prendere quanto prima un volo per Dallas e ritrovarsi al bar da lui indicato, senza portare con sé alcun tipo di apparecchio elettronico, alle quindici.
E dunque eccoli lì, tre menti scientifiche tra le più rinomate al mondo sedute in una bettola di periferia.
Dopo un lungo scartabellare tra cartelle e fogli, Malcolm parve trovare ciò che stava cercando; non sorrise, ed anzi il suo volto si fece sempre più mesto. Corrugò la fronte e porse ai coniugi un pesante fascicolo rilegato, sulla cui copertina spiccavano due lettere maiuscole, stampate a caratteri cubitali: I-R. Accanto vi era impresso in azzurro il simbolo della InGen, l’azienda fondata da John Hammond tempo addietro ed adesso acquistata dal magnate Simon Masrani.
“Leggete qua”, mormorò, aprendolo e mostrandogli la prima pagina. Si trattava di un depliant pubblicitario di Jurassic World, uno di quelli che era possibile stampare da internet o trovare in una comune agenzia di viaggi. Attraverso scritte in grassetto e foto d’effetto, illustrava tutte le novità che sarebbero state apportate a breve al parco. Alan alzò lo sguardo verso Malcolm. “Non capisco”, sentenziò, aggrottando la fronte. C’era qualcosa che non gli tornava, in quella storia: il caosologo così sotto pressione, quel fascicolo con il marchio InGen… C’era qualcosa che decisamente non gli tornava.
“E’ chiaro”, rispose serio Ian, “Per la verità non c’è molto da capire, a primo acchito. Si tratta di una semplice riepilogazione delle migliorie che si troveranno tra qualche mese ad Isla Nublar. Usano paroloni e sproloqui per convincere chi è già stato al parco a tornarci, o chi non ci è mai stato a farci un salto: pubblicità, insomma. Adesso però, guarda accuratamente le righe finali di questo paragrafo”.
Ellie fece scivolare l’indice sul volantino e, trovato ciò che le interessava, iniziò a leggerlo ad alta voce: “E, ultimo ma non ultimo, la novità della prossima stagione turistica sarà una sorpresa sensazionale: preparatevi, viaggiatori coraggiosi, perché Jurassic World sta per mettervi a dura prova con un’attrazione che non avreste potuto immaginare nemmeno nei vostri peggiori incubi. Non mi pare nulla di più di uno spot promozionale, Ian, neppure dei più efficaci”, concluse, scrollando le spalle.
“Esattamente”, confermò Malcolm, ammiccando, “è quello che ho pensato anche io, quando l’ho letto la prima volta. Non fosse che… Qualcuno mi ha fatto capire cosa significhi davvero, ed è questo il dettaglio allarmante”.
Alan si puntellò al tavolo con i gomiti e si protese verso il matematico. “Va’ avanti, spiegati meglio”. Più la cosa andava avanti, più un profondo senso di inquietudine lo attanagliava; poteva vedere nei grandi occhi di Ellie il suo stesso medesimo timore.
“Ho delle… beh, chiamiamole conoscenze, a Jurassic World. Conoscenze direttamente dal laboratorio, ecco. Non pensiate che faccia spionaggio industriale, perché caschereste male, non sono il tipo… Mettiamola su questo piano: io c’ero, quel fine settimana di venti anni fa ad Isla Nublar, noi c’eravamo. Nello stesso momento in cui scoprii quel che aveva fatto John Hammond, pensai che qualcosa sarebbe andato storto. E così è stato. All’epoca eravamo solo poche persone sull’isola e comunque molti di noi sono morti, ma adesso ci sono migliaia di turisti al giorno in quel maledetto parco… Possono dirmi che hanno migliorato la sicurezza, che il personale è centuplicato, che i tempi sono cambiati, ma c’è una cosa che ancora non è stato imparato: la natura vince sempre. La vita trionfa sempre. Se non si poteva avere l’ambizione di ingabbiarla venti anni fa, perché adesso qualcosa dovrebbe essere cambiato? Perché noi uomini siamo più forti? Più tecnologici? Stronzate, ve lo dico io”.
Alan ed Ellie trattenevano il respiro: a quanto pareva, anche Ian Malcolm, scienziato all’apparenza impossibile da turbare o scalfire, portava ancora le cicatrici dell’esperienza a Jurassic Park.
“Per questo ho deciso di… premunirmi, diciamo”, continuò, dopo aver fatto una breve pausa, “E mi sono trovato i miei contatti al parco, per scoprire cosa avessero in mente quei pazzi scatenati”.
“Non credo siano cose di cui parlare in un posto così”, considerò Ellie, lanciandosi uno sguardo intorno.
“Non abbiamo apparecchi elettronici che possano essere tracciati ed almeno che qualcuno non mi stia seguendo, o non vi stia seguendo, non c’è modo che si sappia di cosa stiamo discutendo”, rispose prontamente Malcolm. La paleobotanica non appariva comunque molto convinta e, sotto il tavolo, afferrò la mano di Alan tra le sue, stringendola forte.
“Va’ avanti, Ian”, lo spronò Grant. Ormai voleva arrivare al sodo di questa storia.
“Bene, adesso che avete letto le linee finali del depliant ed avete saputo del mio contatto, posso spiegarvi quale sia il collegamento tra le due cose: questa  sorpresa che stanno preparando al parco… E’ qualcosa di quantomeno inquietante”. Girò qualche pagina del fascicolo ed aprì davanti a loro un documento ricolmo di dati genetici ed appunti su varie tipologie di caratteristiche e DNA.
Ellie cominciò a scorrere i dati. “Cos’è che sto guardando?”, domandò allora, incerta, “Qua sono elencati i tipi di DNA più disparati, dal T-Rex alla seppia”.
“Quello che stai guardando è l’ultima trovata commerciale della InGen per far sì che tutto il mondo accorra sull’isola: sai come si dice, no? Noi umani siamo incontentabile. Ridiamo vita ai dinosauri ed è tutto un ‘uh, ah, che meraviglia, incredibile, pazzesco’, ma quanto impieghiamo a stancarcene? Ormai le persone considerano i dinosauri alla stregua di comuni animaletti da zoo. Hanno bisogno di novità, per mantenere i guadagni costanti, mi seguite?”.
Alan lo guardò negli occhi per qualche istante: la sua mente stava velocemente collegando tutte le novità che Malcolm gli stava sputando addosso, senza però troppo successo. Eppure il senso di inquietudine in lui non si attenuava, ma, anzi, si faceva sempre più profondo. Strinse le mani di Ellie a sua volta, alla ricerca di una sorta di stabilità, di sicurezza.
“No, non ti seguiamo”, mormorò, quasi inciampando sulle poche parole pronunciate.
“Cosa si fa quando una cosa è vecchia, vista e rivista? Quando ormai è diventata noiosa?”, domandò allora il caosologo, passandosi la lingua sulle labbra sottili.
“La sostituisce con una nuova”, rispose Grant, perplesso, come in trance. C’era qualcosa di evidente che gli sfuggiva, qualcosa davanti al suo naso che…
“Un ibrido”, esclamò improvvisamente Ellie, staccandosi dalla salda presa del marito ed andando subito a sfogliare il fascicolo, avidamente.
“Come, scusa?”, sillabò balbettando Grant, strizzando appena gli occhi azzurri.
“Stanno creando un ibrido congiungendo sezioni di DNA di vari animali”, continuò lei, “Stanno creando in provetta il loro proprio dinosauro”.
Ian Malcolm annuì. “Non mi stupisce che tu ci sia arrivata, Ellie. E’ esattamente ciò che stanno facendo: stanno dando vita ad un nuovo mostro”. Prese delicatamente la cartella dalle mani della donna e la richiuse, poi indicò le due lettere stampate in copertina: I-R. “E’ l’Indominus Rex, così l’hanno chiamato”.
Alan afferrò bruscamente il fascicolo, strappandolo al matematico, e cominciò a leggere tutti i tipi di DNA che vi erano elencati. Furono due a colpire subito l’attenzione del paleontologo: c’erano sia il Tirannosauro che il Velociraptor. ‘Sono impazziti. Sono fuori di sé. Non possono davvero creare una cosa del genere’. Il suo primo pensiero fu rivolto alla migliaia di persone che quotidianamente camminavano per il parco, ignare della mostruosità che vi stavano crescendo; subito dopo, la sua mente ed il suo cuore si focalizzarono su due di quelle migliaia di persone: Nick e Bernie erano lì. Nick e Bernie erano sull’isola.
Muovendosi quasi a scatti, voltò tutte le pagine e tornò alla prima, al depliant. L’apertura della nuova attrazione era prevista in breve tempo, ciò significava che quella bestia doveva essere già adulta. Nella sua mente, la poteva immaginare: più grande del T-Rex, più famelica… Più intelligente, forse? C’erano talmente tante modifiche genetiche, che non era da escludere: una potenziale macchina mortale.
“Andiamo ad Isla Nublar”, affermò allora, fissando un punto indefinito del muro del bar, dove la sua proiezione mentale dell’Indominus Rex continuava a fare capolino, “Tutti e tre. Andiamo ad Isla Nublar”.

L'angolo dell'autrice:
Eccomi qua! Mi stupisce come stia riuscendo ad aggiornare questa ff con costanza, e spero vivamente di continuare per quanto mi sia possibile.
Allora, riguardo questo capitolo volevo fare solo un piccolo appunto: essendo la mia storia basata sugli eventi di Jurassic Park e Jurassic World, Il Mondo Perduto e tutto ciò ad esso collegato non saranno inclusi. Dunque, anche il personaggio di Malcolm sarà più simile a quello del primissimo film, rispetto al secondo. Spero non crei problematiche di alcun tipo.
Un dinoabbraccio,
thebrightstarofthewest

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Capitolo 4
*** La carne ***


4. La carne


Alloggi degli studiosi, Isla Nublar, 120 miglia al largo della Costarica, ore 6:01

C’era qualcosa che assolutamente non tornava: più Bernard ci rifletteva, più le informazioni che aveva a disposizione gli parevano quantomeno sospette. Quella notte non aveva dormito, ma aveva passato l’intero tempo a scartabellare furiosamente tra i documenti fornitigli dai laboratori di Jurassic World, sottolineando dati interessanti e scribacchiando appunti al lato delle pagine.
Perché diavolo ordinano tutta questa carne?’. Quella domanda, all’apparenza assurda, gli martellava in testa dalla sera prima, riempiendolo di dubbi.
Era soltanto il suo quinto giorno sull’isola e fino a poche ore prima a stento riusciva a contenere la propria gioia: non pensava che realizzare i propri sogni potesse essere oggettivamente così inebriante. Il primo momento di pura commozione lo aveva provato il secondo giorno, durante la l’uscita di ricerca iniziale: era allora che aveva visto il suo primo dinosauro. Un Apatosauro. Per suo padre e sua madre si era trattato di un Brachiosauro, il che rendeva le esperienze in qualche modo simili: anche lui, come i genitori, aveva sentito le gambe cedere sotto il peso dell’emozione e si era seduto sull’erba, ammirando l’enorme creatura che si spostava a passi eleganti dinnanzi a lui. Il suo cuore era esploso e aveva percepito i suoi occhi bagnarsi di lacrime: come potevano le persone credere che quella per i dinosauri fosse una passione stupida, infantile? Quei giganti erano stati progettati dalla natura per dominare la Terra per milioni di anni, in un regno costruito sul sangue, sulla legge del più forte, su una intramontabile battaglia per la sopravvivenza. Se non c’era fascino in ciò, in cosa poteva essercene, allora?
E così le sue giornate erano passate veloci, tanto si era calato nello studio di quei giganteschi rettili: aveva avuto modo di analizzare il metabolismo dei Triceratopi, di misurare personalmente la velocità dei Gallimimus, aveva compiuto tante di quelle azioni che non riusciva più neppure a ricordarle tutte. Nell’euforia di quei momenti, solo raramente aveva chiamato i suoi, che comunque gli erano apparsi di ben poche parole; eppure non gli interessava. Era rimasto abbagliato dalle potenzialità di quel parco, attanagliato dal suo fascino. Tutto questo, finché un particolare, forse sciocco, forse passato inosservato, lo aveva riportato coi piedi per terra.
Proprio la sera prima, avevano annunciato che lo studio del pomeriggio seguente avrebbe riguardato il T-Rex: a stento Bernard era riuscito a contenere la propria gioia, nell’udire la notizia. Mille erano i quesiti che gli balenavano in testa al pensiero di poter vedere un Tirannosauro in carne ed ossa: a che velocità andava? Com’erano i suoi riflessi? Quanta carne mangiava?
Quando aveva prontamente posto queste domande agli esperti del parco, quelli avevano riso, ma bonariamente, e gli avevano dato una copia di alcuni documenti riguardanti i dinosauri presenti nell’isola, così da saziare le propria curiosità. E le aveva saziate, molte curiosità, ma ne aveva anche alimentata una nuova, una prorompente, una inaspettata: perché ordinavano tutta quella carne?
Nei fogli che gli avevano fornito, difatti, c’era anche segnate le quantità di cibo acquistate per gli animali, ed i numeri di capi di bestiami era assurdamente alto: lo aveva fatto notare al suo compagno di camera, un tale William Brooks, il quale si era limitato a stringersi nelle spalle, ipotizzando fossero per il T-Rex. Certo, il T-Rex mangiava molto, su questo non c’erano dubbi: ma così tanto?
Ormai i suoi sospetti erano sin troppo profondi e voleva arrivare in fondo alla questione: passò l’intera notte a calcolare la frequenza delle consegne delle provviste, il numero di dinosauri carnivori, le quantità ingerite da ogni singolo animale… Continuava a non tornare. E non di poche libbre, si trattava proprio di una differenza di tonnellate e tonnellate di carne in più.
“Perché diavolo ordinano tutta questa carne?”, ripeté, ad alta voce, quasi grugnendo per la stizza. Qualcosa gli sfuggiva e doveva assolutamente scoprire di cosa si trattasse: aveva avuto l’incredibile sfortuna di nascere Grant, varrebbe a dire, curioso sino all’ossessione ed altrettanto cocciuto. Non aveva mai avuto la pazienza di sua madre o suo fratello.
Giusto, suo fratello. Un’idea gli balenò in mente e non poté fare a meno di sorridere: forse aveva trovato la soluzione a tutti suoi problemi.

Paleobar, Isla Nublar, 120 miglia al largo della Costarica, ore 8:23

“Non se ne parla nemmeno”. Con quelle cinque parole Nicholas liquidò immediatamente l’assurdità appena propostagli dal fratello, “E non ti azzardare neppure a domandarmelo di nuovo”.
Quando Bernard lo aveva chiamato alle sei e mezzo del mattino, Nick aveva pensato che si fosse completamente bevuto il cervello: al telefono aveva blaterato di incontrarsi quanto prima ad uno dei bar dell’isola, chiamato con estrema originalità ‘Paleobar’, per parlargli di una questione di massima importanza. Dapprima il ragazzo si era un po’ allarmato, temendo che il gemello fosse incappato in qualche guaio, ma adesso che lo aveva davanti seduto al tavolino, provava solo una gran voglia di strozzarlo: era il suo primo giorno libero e lui lo aveva svegliato ad un orario indecente.
“Ascoltami, Nick”, tentò di convincerlo l’altro, passandosi una mano tra i capelli sparuti, “Non sto scherzando, è una questione seria”.
Una questione seria”, gli fece il verso Nicholas, scocciato, “Senti, avranno sbagliato a scrivere sul fascicolo”.
“Allora devono aver sbagliato su tutti gli ultimi documenti”, rispose Bernie, rabbioso, “Guarda qua, guarda! Ogni mese, da ormai diverso tempo, la quantità di cibo in eccesso aumenta. Parliamo di tonnellate di carne che arrivano sull’isola e poi scompaiono nel nulla. Non sono quelle consumate dai turisti, questi sono fascicoli riguardanti solo l’approvvigionamento delle bestie”.
Nick sospirò. “Allora, ricapitoliamo”, mormorò, mescolando distrattamente il suo caffè, “Tu hai ricevuto questi dati ieri. Hai notato per puro caso che la carne che acquistano per nutrire i dinosauri è troppa. Hai calcolato che aumenta di mese in mese. Hai controllato i registri delle cucine e la carne ordinata risulta a parte rispetto a quella per gli animali… E quindi?”.
“E quindi questa gente ci sta nascondendo qualcosa!”, controbatté prontamente il giovane paleontologo. Testardo come un Pachicefalosauro, lo definiva  spesso sua madre, ed aveva ragione.
“Supponiamo tu abbia ragione, va bene? Supponiamo che ci stiano nascondendo qualcosa, cos’è che dovrei fare, io?”, domandò allora Nicholas, abbastanza estenuato, “Sono qui esattamente da quando lo sei tu. Sono a malapena un apprendista, cosa credi potrei fare?”.
Bernard sogghignò appena, con un fare saccente che fece centuplicare nel gemello la voglia di strozzarlo. Se c’era qualcosa infatti che non sopportava di suo fratello, era la sua supponenza: era sempre stato più bravo, negli studi, e non aveva mancato di fargli pesare la cosa. Non con cattiveria, chiaramente. Però lo aveva fatto, più di una volta.
“Cerca di riflettere con la tua testa, non con quella di quel gorilla del tuo boss”, lo spronò Bernie, afferrandogli la spalla, “In quanto suo secondo hai diritto ad entrare in archivi in cui io non potrei mai ficcare il naso. Non credo troveremmo risposte precise alle nostre domande, lì, ma almeno potrei farmi un’idea”.
Nicholas allargò le braccia in segno di resa, un sorriso sardonico sul volto. “Stai cercando misteri dove non ci sono, lo sai? Lo hai sempre fatto: ti sei sempre divertito ad ingigantire le cose. Non posso credere che tu sia rimasto un tale bambino”. Si staccò dalla presa del fratello con una violenta scrollata di spalle e fece per andarsene.
“Nick”, lo chiamò Bernard, a bassa voce, “Un’ultima cosa. Poi giuro che la pianto, con questa storia”.
“Lasciami andare, Bernie, per favore”.
“Fammi parlare ed io ti lascerò andare”, continuò l’universitario, sospirando, “Io non voglio coinvolgerti in niente senza la tua volontà e so di non poterlo fare, ma c’è un fatto oggettivo da considerare, e che ti dirò, affinché tu possa rifletterci su: se queste persone stanno ordinando più carne, vuol dire che qualcuno o, presumibilmente qualcosa, la consuma… E’ vero che qua non si bada a spese, ma certo i soldi non vanno sprecati. Quel che voglio dire è… Qualche animale le mangia, quelle tonnellate di carne cruda in più, e per le quantità che sono, i casi sono tre: o stanno crescendo un reggimento di Raptor senza che tu o Grady lo sappiate, o per qualche ragione tengono segreto un secondo Tirannosauro… O nascondono qualcos’altro. Qualcosa di peggio”.
Nicholas fece una smorfia con la bocca. “E cosa potrebbe esserci di peggio di un tirannosauro?”.
L’uomo, fratellino”, rispose Bernie, fissando un punto nel vuoto, “chi altri?”.

Villaggio turistico, Isla Nublar, 120 miglia al largo della Costarica, ore 9:42

Bernard vagava in solitaria, circondato da centinaia di rumorosi turisti provenienti da ogni angolo del mondo. Attribuiva quel sapore amaro che aveva in bocca al cattivo caffè che aveva bevuto, ma sapeva bene che non era quella la causa: aveva sperato davvero che Nick lo comprendesse. Le prove che gli aveva portato non erano infondate, erano solo apparentemente innocue. A chi interessano gli ordini di provviste di un grande parco, dopotutto? Tirò un calcio ad un giocattolo a forma di Compsognathus, abbandonato lì da qualche bambino distratto; poi ci ripensò e lo raccolse da terra, facendoselo passare da una mano all’altra.
“Signor Grant”. Un’acuta voce femminile lo distolse dai suoi pensieri: alzò lo sguardo solo per trovarsi Claire Dearing davanti, con un sorriso smagliante stampato sulle labbra. Un sorriso che non prometteva niente di buono.
Signorina Dearing”, calcò bene la prima parola con fare ironico, “Posso fare qualcosa per lei?”.
“No, per la verità no”, rispose, senza togliersi quell’espressione beffarda dal viso, “Ma sono contenta di averla incontrata”.
Bernard rise. “Questa sì che è una novità”.
“So del suo segreto, signor Grant”, esordì lei, trasformando la gioia del suo volto in sfida, “So che ha cercato di nascondermelo, ma non c’è riuscito, ne può star certo”.
A Bernie si congelò il sangue nelle vene: maledizione, aveva scoperto le contraddizioni nei dati soltanto la sera prima, come diamine faceva lei a saperlo?
“Non so di cosa stia parlando”, controbatté, facendo spallucce e sperando di apparire quanto più naturale nei comportamenti.
“Lei non mi frega, Grant”, rispose la donna, “Io so tutto. Ho occhi ovunque qui. So benissimo che anche suo fratello è sull’isola, è inutile che tenti di negarlo. Due Grant ad Isla Nublar, una doppia piaga, chi lo avrebbe mai detto”.
Il ragazzo sgranò gli occhi, esterrefatto; poi tentò di darsi un minimo contegno, trattenendo a stento una risata. “Oh, beh”, rispose sghignazzando, “Mi ha proprio beccato! Beh, peccato, vedrò di fargliela un’altra volta”.
Fu il turno di Claire di rimanere stupita. “Sta dicendo forse che non me lo stava nascondendo?”.
“Chi, io?”, esclamò lo studioso, “Al contrario, confesso, mi prostro ai suoi piedi”. A quel punto, rise liberamente. L’atteggiamento di quella donna gli era insopportabile, ma sapeva avere dei lato comici.
“Senta”, cominciò lei, ispirando a fondo con le narici, “Se lei pensa che…”.
“No, mi senta lei, per una volta”, la interruppe Bernard, con decisione, “Lei crede che io nasconda qualcosa? Da quale pulpito lei mi accusa di un atto del genere?”. Le si fece vicino, abbastanza per mormorarle nell’orecchio: “So che c’è qualcosa che tenete segreto, qui”. Claire trattenne il respiro.
“Le ho già detto cosa accadrà se non si comporterà secondo i piani, non credo che importi…”.
“No, non importa ripeterlo. Ma non creda di essere più furba di me, signorina Dearing, perché si sbaglia. Io non ho occhi dappertutto sull’isola, di occhi ne ho solo due, ma sono sempre, sempre vigili”. Si allontanò con flemma dalla donna e le sorrise, ammiccando, con un’espressione molto simile a quella che aveva lei all’inizio della loro conversazione. “Buona giornata, signorina Dearing”. Fece un breve inchino e se ne andò per la sua strada, lasciandola ammutolita, ma con una furia negli occhi che aspettava solo di essere liberata.
Bernard prese il pupazzetto di Compsognathus e lo fissò dritto negli occhi.
“E’ incredibile”, disse al piccolo dinosauro, scuotendo la testa, “E’ incredibile come riesca sempre a mettermi nei casini”.

L'angolo dell'autrice:
Ancora salve! In realtà in questo piccolo appunto scriverò ben poco, ma, una volta tanto vorrei fare dei ringraziamenti: prima di tutto vorrei ringraziare DownInTheHole_, che è sempre presente e pronta a recensire le mie nuove follie; un ringraziamento va a Everdeen Robin, che con le sue fantastiche parole mi fa sempre sciogliere; grazie anche a yumiko06 che segue la storia e radael99, che l'ha aggiunta alle preferite.
Davvero, grazie a tutte/i.
Un dinoabbraccio,
thebrightstarofthewest

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Capitolo 5
*** Il piano ed il ragazzino ***


5. Il piano ed il ragazzino
 

Traghetto diretto ad Isla Nublar, Oceano Pacifico, ore 7:25

“Dottor Grant!”. Se c’erano due parole al mondo che Alan non avrebbe mai voluto sentire, in quel momento, erano proprio quelle.
Si trovava sul traghetto diretto ad Isla Nublar ed aveva creduto che, travestito com’era, nessuno lo avrebbe riconosciuto: aveva indossato una camicia hawaiana, un cappellino della Michelin ed un paio di occhiali da sole, pensando che sarebbero bastati ad ingannare gli altrui sguardi. Erano diretti ad indagare in un luogo dove gli appassionati di dinosauri si riversavano a migliaia, ed i loro volti non sarebbero certo passati inosservati: Era necessario mantenere un profilo basso.
 “Dottor Grant!”, gridò ancora la vocina, avvicinandosi sempre di più: non riusciva a distinguerne il padrone nel bel mezzo della calca, ma sicuramente si trattava di un bambino.
Una piccola testa bionda apparve d’un tratto dalla marea di persone presenti e, con essa, una mano puntata verso di lui: “Ma lei è…”. Alan afferrò il bambino delicatamente, sperando di non attirare su di sé sguardi indiscreti, e lo portò nell’angolo del battello accanto ai bagni, dove la folla era più rada.
“Ma lei è il professor Alan Grant!”, concluse il ragazzino, fissandolo con i suoi grandi occhi azzurri.
“Beh, ecco…”. Non era ben sicuro se mentire o meno: avrebbe potuto creare qualche incidente diplomatico abbastanza spiacevole, “Diciamo di sì, sono io”. Sospirò.
“Lo sapevo!”, strillò il piccolo, estasiato, “Devo subito andare a dirlo a mio fratello!”. Fece per partire a corsa, ma l’uomo lo trattenne con fermezza.
“No, no”, esclamò, mettendosi in ginocchio così da potergli parlare faccia a faccia, “Non andrai a dirlo a tuo fratello, non… non devi dirlo a nessuno che sono qui, mi capisci? E’ molto importante che tu non lo dica a nessuno”.
“Ma io ho letto tutti i suoi libri, signore, la stimo moltissimo, mi creda, e…”.
“Io ti credo, davvero”, mormorò in risposta. Gli pareva di rivedere Tim, a Jurassic Park. “Io ti credo, ma devi capirmi: sono qui in incognito per… Un affare importante, diciamo. Non posso permettermi che qualcuno mi riconosca”.
“Che forza!”, esclamò il ragazzino, strabuzzando gli occhi. Doveva essere proprio sveglio, se era stato il primo a riconoscerlo nel bel mezzo di tutti quegli adulti.
“Come ti chiami?”, gli domandò Alan, con un sorriso.
“Gray, professore”, rispose l’altro, “Gray Mitchell”.
“La sta disturbando, signore?”. Un’altra voce giovane, ma più matura si fece udire: Grant si girò per vedere un adolescente con la zazzera scura avvicinarsi. “Mio fratello, intendo…  la sta disturbando?”.
Alan si affrettò ad alzarsi in piedi e a stringergli la mano. “Tu devi essere il fratello di Gray”, esclamò, “Non devi preoccuparti, il piccoletto mi stava solo… dando qualche lezione riguardante i dinosauri”. Lanciò uno sguardo d’intesa al bambino, che rispose ammiccando.
“Oh, beh, sì”, cianciò il nuovo arrivato, “Lo fa spesso. E con chiunque gli capiti a tiro. Deve scusarlo”.
“Scusarlo? Oh, no, lo ringrazio”, aggiunse Alan, arruffandogli i capelli.
“Beh, Gray, adesso vieni con me, dicono che tra poco si vedrà l’isola”, esclamò il fratello maggiore, prendendolo per mano con forza e trascinandoselo dietro, “Mi scusi ancora, signore”.
“Zach, vai piano, mi fai male”, si lamentò il bambino, il quale sembrava piuttosto restio a seguire il fratello. Alla fine si arrese, lasciandosi guidare in mezzo alla folla, verso la parte scoperta della nave; poco prima che scomparisse dalla vista, si girò verso il paleontologo: non parlò, ma la sua bocca si mosse. Il labiale era chiaro: il suo segreto è al sicuro con me.

Hotel Rex, Isla Nublar, 120 miglia al largo della Costarica, ore 9:01

“Ti sei fatto riconoscere da un bambino”. La voce di Ellie, nell’affermarlo, non aveva alcun tono di rimprovero; al contrario, pareva incredibilmente divertita.
Alan scrollò le spalle, in segno di assenso: non condivideva l’ilarità del momento con la moglie. Non era tanto l’essere stato smascherato che lo preoccupava, era Malcolm, ciò che lo turbava maggiormente. Era uscito ad incontrare il suo contatto da più di due ore ed ancora non si era rifatto vivo.
“Aveva detto che sarebbe tornato subito”, mormorò, digrignando i denti.
“Dagli tempo, sai com’è fatto”, tentò di rincuorarlo la donna, ponendogli un veloce bacio sulla fronte. Si girò verso di lei, per guardarla negli occhi, e trovò che vi era della paura.
A Dallas, non appena Alan aveva espresso l’intenzione di voler tornare ad Isla Nublar ad indagare sui piani della InGen, le reazioni che aveva ottenuto erano risultate esattamente opposte nei suoi due compagni d’avventura: mentre Ian aveva subito abbracciato l’idea con entusiasmo, Ellie era apparsa restia ad acconsentire. Quando i due si erano sposati, una delle promesse che si erano scambiati, al riparo sotto le lenzuola del loro nuovo letto matrimoniale, era stata di non farsi più invischiare in alcun modo in situazioni estreme, soprattutto riguardanti quel maledetto parco. Era stato un voto tanto spontaneo quanto veritiero, ma adesso la situazione era tale per cui romperlo pareva la giusta scelta da prendere: c’erano i loro figli, potenzialmente in pericolo, e migliaia di altre persone con loro.
La sera stessa del loro rinnovato incontro con il caosologo, i coniugi Grant avevano discusso apertamente sulla questione: Ellie ricordava i Raptor, ricordava il T-Rex, ricordava ogni singolo dettaglio macabro che aveva visto ed ogni incubo che aveva avuto dopo l’esperienza. Non era stata l’unica ad averne, certo: anche Alan si era svegliato decine di volte, nel cuore della notte, contenendo a stento un grido di terrore ed andando a cercare, dall’altro lato del letto, il conforto del respiro regolare della donna che amava.
Nessuno dei due voleva andare, era quello il punto su cui Grant si era soffermato; ma dovevano andare.
Mentre il paleontologo scrutava gli occhi blu della moglie, udì un sommesso bussare alla porta; si alzò in piedi di slancio e corse ad aprire. Di fronte si trovò Malcolm, sudato fradicio, e con un’espressione in volto impossibile da decifrare. Fece il suo ingresso in camera andando ad accomodarsi su una sedia. I Grant lo fissavano, in attesa dicesse qualcosa. Ian si leccò le labbra screpolate. “Ho una cattiva notizia ed un piano”.
“Di solito non si hanno una notizia cattiva notizia ed una buona?”, domandò sarcastica Ellie.
“Temo proprio che dovrete accontentarvi”, sogghignò il matematico.
“Va’ avanti, parla”, lo spronò Grant, passandosi una mano tra i capelli ingrigiti.
“La cattiva notizia è che il mio contatto è stato buttato fuori dall’isola a calci in culo”, andò subito al sodo Malcolm, giocando con le stanghette dei propri occhiali, “Temo sia stato scoperto che faceva il doppiogioco. Quindi niente documentazioni, niente informazioni dirette e facili, niente di niente. Però ho un piano”.””
“Oh, bene, che grande consolazione”, sbottò Alan, andandosi a versare un po’ d’acqua in un bicchiere. Non poteva concepire di essere arrivato fin lì travestito, avendo speso un mucchio di soldi, solo per trovarsi ad indagare completamente alla cieca.
“Non scaldiamoci, va bene? Prima, almeno, ascoltami”, rispose quanto più pacatamente possibile il caosologo, “Allora, l’informazione di cui abbiamo maggiormente bisogno, in questo momento, è una: dove si trova il recinto dell’Indominus Rex? Una volta individuato, forse riusciremo a dargli un’occhiata e dimostrare che è pericoloso, se giochiamo bene le nostre carte”.
Per la prima volta, Grant si rese conto di quanto fosse fallace il loro piano iniziale: erano andati sull’isola senza uno straccio di idea concreta sul da farsi. Speravano di riuscire a trovare il luogo dove era tenuto l’animale, speravano di riuscire di vederlo. Era tutto così stupido. Così stupido.
Ian, nel frattempo, non aveva smesso di parlare.“L’ultima soffiata del mio ormai ex-contatto diceva che informazioni del genere sono custodite in due differenti archivi: in digitale, nei computer della InGen, e, in forma cartacea, in una stanza del laboratorio non aperta al pubblico. Dato che nessuno di noi è un hacker”, lanciò uno sguardo ad Alan e sorrise, “qui entra in gioco il mio piano”.
Dalla tasca degli shorts estrasse una mappa, che risultò essere la piantina del laboratorio dell’isola. Con l’indice destro indicò quella che pareva essere la stanza principale, con quello sinistro puntò un minuscolo sgabuzzino, e poi vi picchiettò sopra. “Questo è l’archivio. Uno di noi deve entrarci durante la visita guidata del laboratorio”.
Ellie scoppiò a ridere. “Tu sei completamente pazzo. Questo non è un piano, è un suicidio! Ogni singola zona del parco è piena zeppa di videocamere e tu vuoi metterti a rubare dei file segreti così, alla luce del sole, con nonchalance!”.
“Improvviseremo, lo abbiamo fatto vent’anni fa a Jurassic Park, possiamo farlo di nuovo!”, controbatté il matematico.
“Lì rischiavamo la vita, Ian!”, ribatté ancora la paleobotanica, scioccata.
“Allora possiamo affermare con sicurezza che la nostra situazione è migliorata!”.
Un energico bussare alla porta salvò le orecchie di Alan dagli urli dei suoi compagni di viaggio: non era il tipo di persona che alzava la voce, né che discuteva così animatamente. Certo, il piano di Malcolm era uno schifo, ma glielo avrebbe detto a modo suo.
Andò ad aprire la porta, domandandosi chi potesse essere, e sperando non si trattasse di qualche vicino di stanza infastidito dagli schiamazzi. Si trovò davanti il piccolo Gray Mitchell, appoggiato allo stipite, che lo fissava. “Buongiorno, professor Grant”.
“Oh, no, Gray…”, esclamò in risposta Alan, trascinando il ragazzino all’interno della stanza e chiudendolo dentro, “Come sei arrivato qui?”.
“Si è registrato alla reception come John Smith, non è un nome tanto fantasioso, non mi ci è voluto molto a trovarla”, spiegò il bambino, sorridendogli. Sembrava che nulla potesse scalfirne il perenne buonumore. “Ma quella è la professoressa Sattler?”, aggiunse poi, indicando Ellie con gli occhi illuminati. La donna fece un cenno di saluto con la mano.
“E questo chi sarebbe?”, domandò Ian, abbastanza perplesso dall’intera situazione.
“Oh, buongiorno signor Malcolm”, aggiunse quindi Gray, trasecolando, “Non mi ero accorto ci fosse anche lei!”.
Lo scienziato si alzò in piedi e lanciò uno sguardo prima ad Ellie, poi ad Alan. “Qualcuno vorrebbe cortesemente spiegarmi chi è questo bambino e come sa chi siamo?”.
“Beh, ho letto anche il suo di libro, prof”, gli rispose il ragazzino, scrollando le spalle, “Però mica ci ho capito tanto in quel discorso sulle farfalle e sulla pioggia”.
Grant osservava la scena ed a stento conteneva una risata: era divertente vedere Malcolm in difficoltà, una volta ogni tanto. Soprattutto se la causa di quella difficoltà era un bambino. Gray, tutto sommato, gli era simpatico: lo conosceva da pochissimo, eppure si capiva che era sveglio, acuto, con una grande capacità di osservazione. Tanta intelligenza in un corpicino così piccolo, così sfuggente…
Improvvisamente, un’idea folle lo attraversò con la forza di un uragano: forse aveva trovato la soluzione al loro problema.
“Dovremmo mandare Gray”, mormorò, guardando Ellie, “Dovremmo mandare lui”.
La moglie parve perplessa. “Mandarlo dove, tesoro? Non capisco”.
Grant afferrò la mappa del laboratorio con entrambe le mani: vi erano segnate non soltanto le collocazioni delle varie stanze, ma anche quelle delle telecamere. Mentalmente, fece alcuni calcoli. Assurdamente, poteva davvero funzionare. “Dovremmo mandare Gray a prendere i documenti per noi”.
Un’espressione quasi scioccata di profondo stupore si dipinse sui lineamenti della donna. “Non bastava che Ian si fosse bevuto il cervello, ci volevi anche tu! Non puoi davvero pensare di coinvolgere un bambino nei nostri piani!”.
“Che piani?”, chiese il ragazzino, strattonando la camicia del paleontologo, “Che piani?”.
“No, senti, Alan”, esclamò Malcolm, confuso, inciampando sulle parole, “Non puoi pensare che…”.
“Che piani?”, domandò ancora Gray, a voce abbastanza alta da interrompere il matematico.
Grant si inginocchiò davanti a lui. “Vedi, piccolo, noi siamo venuti qui sotto copertura per recuperare alcuni documenti, documenti che si trovano in un archivio nel laboratorio dell’isola. Pensavamo di infiltrarci a… prenderli durante la visita guidata, ma siamo troppo alti per potervi entrare senza essere visti dalle telecamere… Tu, però… Potresti farcela; e nel caso tu non ce la facessi e ti scoprissero prima, puoi sempre dire che ti eri perso. Nessuno sospetterebbe di te”.
“Mi state chiedendo di collaborare con voi?”, domandò Gray, in un grido felice.
“Beh, ecco…”, tentò di protestare Ellie, ma lo sguardo di pura gioia del ragazzino la fece subito zittire.
“Vi prego, non ve ne pentirete, davvero, so tutto di Jurassic Park, della vostra esperienza lì e di dinosauri, sul serio, so tutto! Potete fidarvi, io…”.
“Ti crediamo, Gray”, mormorò Alan, tranquillizzandolo, “E per me dovresti andare tu. Ma vorrei che anche la professoressa Sattler e il professor Malcolm fossero d’accordo, tu mi capisci, vero?”. Il ragazzo si girò verso gli altri due adulti, i grandi occhi azzurri ricolmi di speranza.
Ellie esitò un attimo, giocando con una ciocca di capelli; sembrava sempre sul punto di dire qualcosa, ma poi finiva per tergiversare. Infine, si arrese. “Dovremmo dargli una possibilità, sì. Io sono con Alan: per quanto assurda sia questa idea, qualche possibilità in più di riuscita c’è”.
Ian sembrava sperduto, il che era un novità. Cominciò a camminare per la stanza, nervosamente, picchiettando il dito contro la gamba. Poi si fermò, fissò il paleontologo ed il bambino. “E sia”, borbottò a malincuore. Gray urlò di gioia, Grant sorrise.
“Hai proprio uno strano modo di coltivare il tuo amore per i bambini, Alan”; aggiunse poi il caosologo, “E poi sarei io, quello strano”.

 

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