The Scientist

di Applepagly
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima parte ***
Capitolo 2: *** Seconda parte ***
Capitolo 3: *** Terza parte ***



Capitolo 1
*** Prima parte ***


 
Salve a te, lettore o lettrice che hai deciso di dare una sbirciata a questa storia.
E' la prima che scrivo per la sezione delle originali, ma l'avevo in mente da un pezzo. La scrissi tempo fa ascoltando The Scientist dei Coldplay; motivo per cui nel primo e nel terzo capitolo (in tutto sono tre, per l'appunto) compaiono alcune strofe del testo.
Probabilmente è la cosa più sconclusionata che abbia mai scritto, ma è ispirata a qualcosa di reale, perciò ti prego di accettarla così com'è.
Ora ti lascio alla lettura e spero tu possa apprezzare. Ci rivediamo, se ti va, martedì 21.
TheSeventhHeaven
 
The Scientist
Prima parte
 
 
  Non so se vi sia mai capitato di tornare a casa da scuola e scoprirvi di cattivo umore. Non avete idea del perché, sapete solo che mettere il broncio sembri la cosa più giusta da fare; pur sapendo che gli altri potrebbero non sopportare più, l'atteggiamento scostante che assumete. Arrivate con un'espressione a dir poco seccata, scaraventate la cartella dell'angolino più remoto del salotto o della cucina e vostra madre, come un mantra, vi chiede cosa sia successo.
"Niente." è la risposta secca che riceve quel giorno; come quelli precedenti e a seguire. E, anche se lo ripeterete fino alla nausea, lei saprà sempre e comunque che non sia per nulla vero. Quel "niente" in realtà significa "Sono successe tante cose, ma non ho voglia di parlarne, né potresti capirmi. Ho solo bisogno di mangiare e mettermi a studiare quanto prima.", e lei lo sa, lo sa molto bene.
Quel giorno, forse, non era poi così diverso dagli altri.
 
Come up to meet you, tell you I'm sorry
 
Come al solito, all'intervallo ero andata da loro, da lui. Nella vana speranza che starne in compagnia potesse servire a qualcosa. Che sciocca, ero. Avevo davvero i prosciutti sugli occhi; o forse, non abbastanza da non notare come lui la fissasse mentre parlava, famelico. Bla, bla, bla; ecco cosa arrivava alle mie orecchie, di tutto il lungo sproloquio di quella stupida biondina che, non senza malizia,  rispondeva alle sue occhiate, nella tacita richiesta di continuare a divorarla con gli occhi.
  Avevo fatto carte false, per potergli parlare, almeno una volta. La mia amica mi avrebbe presentata; lo aveva promesso. E, benché odiassi dover uscire allo scoperto in un modo del genere, sapevo bene che fosse l'unico, per non fare una pessima figura con un tipo come lui. O forse, già in partenza avevo commesso un errore, intrufolandomi in una compagnia di ragazzi molto più grandi di me, in tutti i sensi. Forse era colpa della mia vigliaccheria, se non mi calcolava, mentre io mi nascondevo dietro alla mia timidezza; la stessa che ostentavo davanti agli sconosciuti e che crollava inesorabilmente con tutti coloro che mi erano amici. Ma per quanto potessi illudermi, sapevo che con lui non sarei mai stata capace di mostrarmi per com'ero in realtà, nemmeno dopo averlo frequentato per dieci anni.
  Ricordo che aspettavo con sincera ansia il momento in cui lei ci avrebbe presentati. Saremmo stati io e lui, il resto del mondo non sarebbe esistito. Aspettavo con ansia il momento in cui i suoi occhi da stronzo allucinato avrebbero scrutato i miei, ed i miei soltanto. E, quando pronunciò il mio nome per la prima volta e ne scandì le lettere come fossero note musicali, credevo sarei morta sul colpo.
  - Non credi anche tu? - mi ridestò la mia amica. Non avevo idea di che stessero parlando, ad essere sinceri; sapevo solo che tutti mi stessero fissando in attesa di una mia risposta. Tutti meno che uno. - Sì. - mi ritrovai a rispondere, meccanicamente; ripresero a conversare, mentre io iniziai ad avvertire un prurito alle mani.
Sì, quel genere di pizzicore che ti assale quando provi la voglia matta di prendere a sberle qualcuno. Ma non sberle qualunque. Veri e propri ceffoni a mano aperta, che avrebbero fatto male, molto male; non tanto perché fosse un Karateca, a tirarli. Non ero una combattente eccezionale, avevo iniziato da poco; no, era più perché li avrei sferrati con quanta più cattiveria e rabbia avessi. Solo che ci insegnavano l'autocontrollo. E poi, picchiarlo sarebbe equivalso a toccarlo; impensabile, insomma.
 
Tell me your secrets and ask me your questions
 
  Eccolo là, appoggiato alla ringhiera verde del portichetto, con la sua dannata sigaretta perennemente accesa e quello sguardo. Non so come descriverlo; qualsiasi aggettivo sarebbe troppo poco eloquente. Diciamo che aveva un'espressione totalmente distante e disinteressata da tutto quello che stava avvenendo attorno a lui ma, allo stesso tempo, i suoi occhi da stronzo sembravano assorti in qualche genere di ricordo oscuro. Una moneta per i tuoi pensieri...
  - Hey, Lino. - era il suo più grande amico; l'unico, forse, a cui rivelasse ciò che gli passava per la testa. Gli tirò una sonora pacca sulla spalla, facendolo trasalire; ma l'unica cosa sui cui aveva ancora la presa solida, e su cui l'avrebbe sempre avuta, era la sua sigaretta. Quella dannata sigaretta che non gli mancava mai, mai.
- Matt. - fece un cenno con il capo, in risposta. Non capivo proprio Matt come riuscisse a sopportarne il menefreghismo assoluto. Da quel che sapevo, erano amici più o meno da quando avevano iniziato le superiori. - Ciao, Anita! - il che significava da cinque o sei anni, più o meno.
  - Ciao, Matt. - sorrisi timidamente al suo saluto. Matt era forse l'unico che mi stesse veramente simpatico, di quella corposa compagnia. - Che mi racconti, piccola combattente? - oltre alla mia amica, ovvio. - Devo confessarti che diverse persone, stamane, sono rimaste sconvolte, quando ti hanno vista. Ann, - affermò serio. - come diavolo ti sei procurata quell'occhio nero e quel taglio?
Continuai a sorridere, nonostante la mia voglia di fare a botte aumentasse ad ogni tiro di sigaretta di più che quello stronzo faceva. - Nulla di che. - replicai, sfiorandomi istintivamente lo squarcio sulla guancia. - Mi allenavo e... beh, sono cose che succedono, quando sei scarsa.
- Non farmi ridere. - continuò lui, con uno sbuffo divertito. - Beh, la cosa è effettivamente ridicola. - borbottai.
  - Lo è sul serio. - intervenne quella voce che capitava raramente di sentire; almeno, alle mie orecchie. Finalmente dedicava le sua bocca a qualcosa che non fosse fumare; e, no, non erano le mie labbra.
 Ridacchiai, nervosa. Chi diavolo si credeva, per uscirsene con un commento del genere? E, soprattutto, chi aveva chiesto il suo parere? - Sta suonando. - intervenne la mia amica. Aveva già intuito il mio turbamento e forse temeva che potessi saltargli addosso. Per picchiarlo, s'intende. - La campanella. - chiarì.
  Ringraziai quel burattinaio che sta dietro al doloroso teatro di cui noi siamo le marionette; quel burattinaio comunemente chiamato Dio. Non ne potevo più.
  Salutai gli altri e decisi che mai, mai, mai più avrei perso là il mio prezioso intervallo. Lo avrei benissimo potuto sfruttare per andare in bagno e partire alla ricerca della carta igienica; spiluccare qualcosa, o inveire contro le macchinette del caffè quando si mangiavano i soldi, tirare calci a quelle dell'acqua quando le bottiglie rimanevano incastrate; disegnare o, semplicemente, lasciarmi assalire da un finto panico e ripetere per la lezione successiva, come facevano molti. Ma no; io avevo preferito illudermi e perdere il mio tempo là, a fare la spettatrice, quella che non spiccicava mezza parola a meno che non gliela tirassi fuori con le pinze.
Chissà quanto dovevo apparirgli ridicola. - Anita. - era quasi un sussurro, il suo. Ah, già; mi ero dimenticata che facessimo un tratto di strada insieme, per tornare alle rispettive aule. Non mi voltai. No, non avevo alcuna intenzione di inciampare nei suoi occhi, un'altra volta. Anche se dovevo ammettere di amare il modo in cui pronunciava il mio nome.
- Anita, ti sanguina il taglio. - affermò, placido, mentre io gli davo bellamente le spalle ed acceleravo il passo. Mi fermai di colpo; la mia mano andò a controllare ed era vero: usciva sangue. Beh, in realtà, così sarebbe stato un eufemismo. E' più corretto dire che mi sgorgasse a fiordi. Perché diavolo non avevo messo un cerotto?
  - Ah. - replicai, fingendo poco interesse. Una domanda mi ronzava per la testa: come accidenti aveva fatto, ad accorgersene se, nemmeno quando mi aveva in un certo senso deriso, aveva avuto premura di guardarmi in faccia? - Vado in infermeria.
Sapevo cos'avrebbe detto. Lo sapevo. - Ti accompagno. - e infatti. Avrei preferito non sentirlo. Insufficienza multiorgano; ecco, cosa mi avrebbe 'diagnosticato' la signora Tessie. - Grazie, ma non è davvero necessario. - provai a dissuaderlo, anche se pareva gli stessi suggerendo il contrario.
Si strinse nelle spalle. - Ci devo andare comunque. - sbuffò, incamminandosi. Ah, ecco. E io che quasi iniziavo a gasarmi. Che idiozia; non era certo per me.
E poi, anche lo fosse stato - cosa quanto mai inverosimile -, sarebbe stata solo la premura di un fratello maggiore, o un baby-sitter, cariche che potevano benissimo competergli, nei miei confronti. Non tanto per la differenza d'età tra di noi.
  - E' permesso? - bussai alla porta dell'infermeria, esitando. Anche se forse era colpa del tono di voce con cui lo avevo farfugliato, fui davvero contenta di non ricevere risposta; me ne sarei potuta tornare in classe senza dover fornire giustificazioni al professore per il mio ritardo; in orario, insomma. E, soprattutto, non sarei rimasta in compagnia di un soggetto improbabile come Lino. - Lascia fare a me. - disse, scostandomi con gentilezza - stranamente, aggiungerei.
- Tessie!- quasi sbraitò alla porta, sfoggiando una gamma di decibel così vasta che non avrei mai creduto fosse sua. - Tessie, sono Lino!- neanche a dirlo, dei piccoli passi frettolosi si alternarono verso la soglia, fino a che una signora bassina e paffuta ci aprì con un sorrisone stampato in faccia. - Entrate, ragazzi! - ci invitò.
  Ero stata in infermeria solo una volta, per accompagnare una mia compagna che non si era sentita bene. Era un bel posto, per quanto piccolo. - Che posso fare, per... oh. - mi si avvicinò, preoccupata. - Che brutte ferite... Vuoi un cerotto, cara? - mi domandò. Annuii, aspettando che ne tirasse fuori uno dal cassetto in cui si mise a cercare. Ma erano finiti. - Vado a prenderne; aspettami qui, mi raccomando. - normalmente, avrei sorriso un "Non vado da nessuna parte!", ma le circostanze mi fecero davvero desiderare di disubbidire alla sua raccomandazione. E anche di sorridere, ovvio.
  Mi sedetti su uno dei tre lettini disposti lì, quello che dava sul giardino. Finsi interesse per le automobili dei professori. Sapevo di aver i suoi fanali puntati sulla mia schiena, con la chiara intenzione di passarmi da parte a parte. Oh, guarda! Quella è della Warray!, mi dissi. Quella invece... mi sembra di averci visto salire la Zilli ma... lei non ha la patente, quindi...
 
Nobody said it was easy
 
  - Nemmeno io sono contento di trovarmi qui. - mi irrigidii all'istante. Ma non poteva starsene semplicemente e stupendamente muto? - ... Ehm... eh? - bofonchiai io.
- So di non esserti particolarmente simpatico; cosa credi? - andò avanti imperterrito; e, quando ebbi il coraggio di voltarmi, mi accorsi della lieve nota di disappunto che gli turbava i lineamenti. Non risposi subito. Mi soffermai sui suoi occhi.
  Amavo il mare; sapete? Era una delle poche cose che mi potesse rendere la calma e la tranquillità, come a cancellare tutto ciò che poteva avermi scocciata. Insomma; le onde spumose, l'acqua cristallina e fredda, la sabbia fine... quanto di più bello avessi visto in natura.
Ecco, guardare nei suoi occhi era un po' come specchiarsi nel mare, solo che si trattava di un mare piuttosto burrascoso, lunatico. Era un stronzo, un menefreghista, lo avevo intuito dalla primissima volta in cui avevo incrociato il suo sguardo. Ma, dietro a tutta quella apparenza, ero certa ci fosse ben altro.
  Cos'avrei dovuto rispondere? Ridacchiai, nervosa come mai prima. - Oh, ti sbagli. - presi a tremare. - E di grosso. Sei tu, quello a cui non sono particolarmente simpatica. Ma non importa. - ritrovai la calma, quella che da sempre mi caratterizzava. Apparentemente. - Non si può avere la simpatia di tutti, credo.
Lui alzò un sopracciglio, con poca convinzione. Oh, come avrei voluto smontargli la faccia. - Non capisco.
Oh, nemmeno io... - Cosa, di preciso? - mi sorpresi di quanto mi venisse facile parlare con lui, in quel frangente. Se per mesi avevo pensato che ci fosse qualcosa di straordinariamente speciale, in lui, mi disse che, no, non c'era, lui non lo era e, soprattutto, quella conversazione non lo era. Il classico battibecco tra i due protagonisti di un film d'amore. Con l'unica differenza che io e lui non saremmo finiti insieme.
  - Sei ostinata. - sentenziò. Bella, questa. Mister simpaticone se ne usciva con affermazioni sul mio carattere; carattere che nemmeno conosceva. - Non è per te. Il nostro gruppo. - asserì, con un tono che non ammetteva repliche. - Non è per te.
Fu come venire colpiti una seconda volta all'occhio; solo che la botta la ricevette tutto il resto e fu molto più dolorosa. Almeno, la mia compagna di Karate non lo aveva fatto apposta. - Lo so.
- Tu non sei come noi. - continuò. Che diamine! Dov'era finita, Tessie? - Lo so! - esclamai. - Io non sono come voi; lo so. Non ho mai preteso di esserlo. - ne ero ben conscia; perché doveva ribadirlo?
- Se lo sai, perché ti ostini? - ebbe il coraggio di chiedermi. Dalla mia gola uscì un suono non meglio identificato come una risata. Una risata molto, molto inquietante.
  Di nuovo; che cos'avrei dovuto rispondere? Che era per lui? Che da ottobre a quella parte non avevo fatto altro che cercare un briciolo d'attenzione? - Faccio io una domanda a te. - masticai, allora. - Se credi tanto di sapere tutto, sugli altri; se noti o ti inventi tante cose, su di loro, se è così allora perché ti ostini a fingerti disinteressato? - evidentemente la mia reazione lo sorprese, e un po' sorprese anche me stessa. Ci avevo parlato poche, pochissime volte. - Mh? - soggiunsi. Non avrei creduto di riuscire a prendermi tante libertà, con lui. - Non si risponde ad una domanda con un'al...
- Non me ne frega un accidente! - sbottai io, laconica. Perché non arrivi, Tessie...?
  Lino sospirò, buttando gli occhi al soffitto. - Dubito che capiresti.
Già, certo. Io ero troppo piccola, troppo una mocciosa, per capire. - Sei così... ingenua ma allo stesso tempo... matura... Così... pura. - procedette, raddolcendosi. Non volevo né dovevo lasciarmi incantare. - Così pura che... - NON dovevo. - ... non voglio che ti sfigurino e ti portino via. Non voglio macchiarti.
- Perdonami se lo dico francamente, ma non credo tu sia il tipo di persona che si fa questo scrupolo, con le ragazze. - borbottai ironica, ripensando alla bionda di poco prima. Mi fissò, ammonitore. - Non con tutte.
- Giusto; solo con le bambine. - sogghignai, rendendomi conto di quanto effettivamente la cosa stesse diventando assurda. Diedi un'occhiata all'orologio, che segnava le undici e quaranta. Fantastico; e ora chi glielo spiegava, al professore, che fosse tutta colpa di Tessie e di quei maledetti cerotti introvabili? - Non sei una bambina. - smentì. - E allora che...?
- Ma non voglio che tu ne prenda parte. Non voglio che diventi come quella ragazza; né tantomeno come me. - mi interruppe. - Non sono una buona compagnia.
- Tsk. - sputacchiai. - E' come chiedere a qualcuno se è onesto o no; quelli che ti risponderanno di non esserlo, lo saranno per davvero. Quelli che affermeranno di esserlo, non lo sono.
- O forse si tratta solo di gente molto consapevole. - cercò di convincermi. - Anita... - sussurrò, avvicinandosi a me. Bene, ora era uno scontro a tu per tu, corpo a corpo. Il legno e l'acqua; chi vincerà? - ... non voglio che qualcuno lo faccia. - e, prima che potessi chiedermi di che caspita parlasse, si stava chinando su di me.
  Se avevo sognato una cosa del genere per mesi... se l'avevo desiderato con tutta me stessa fino a quel momento... capii che fosse tremendamente sbagliato. Gli diedi appena il tempo di sfiorare le mie labbra con le sue, screpolate e fredde; no, non gli avrei permesso di portarsi via il mio primo bacio.
Un tonfo ed un improvviso spostamento d'aria e lui era finito per terra, con la cattedra di Tessie ribaltata accanto. Avevo il fiatone e probabilmente anche uno sguardo omicida; ma lui, rialzandosi a fatica, mi sorrise. Notai che gli uscisse un po' di sangue dal labbro inferiore. Non volevo davvero credere di averglielo spaccato. - Era proprio questo, che intendevo. - mi sorrise.
E, non appena vidi comparire la signora Tessie con dei cerotti tra le mani ed un'espressione sconvolta, mi fiondai fuori di lì.
  Forse spintonai qualcuno, mentre correvo a riprendere la mia roba. Forse contrariai Gemma, una mia compagna di classe, quando non prestai minimamente intenzione a quel che mi riferì, compreso il fatto che il professore di quell'ora, quella maledettissima ora, era in malattia e non lo avremmo avuto per qualche giorno.
Forse, e solo forse, mi pentii di non essere rimasta in infermeria e dirgli le peggio cose in faccia. E, quando rincasai e mia madre mi fece la stessa domanda di tutti i giorni, io risposi con il solito "Niente".
  Era proprio quello, il problema. Non era ancora successo niente.
 
Oh, take me back to the start

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Capitolo 2
*** Seconda parte ***


Buon pomeriggio!
Spero che tu non stia soffrendo il caldo come me; in caso contrario, consolati pensando che non sei solo/a. Comunque, come promesso, ecco il secondo capitolo, il penultimo, quello in cui non compaiono frasi dal testo della canzone; è più un ricordo in cui spiego (più o meno) il perché del titolo e della scelta.
Che altro dire...? Buona lettura e buon'afa!
Ci rivediamo con l'ultimo capitolo martedì prossimo, ottimisticamente parlando.
TheSeventhHeaven
 
 
 
The Scientist
Seconda parte
 
 
  Tutta quella storia aveva avuto inizio diversi mesi prima, ad ottobre.
Anzi, per essere precisi, tre giorni esatti dopo il mio compleanno. E' buffo pensare che si sia trattato solo di un malinteso, sulle prime.
  - Sono buonissimi! - esclamò Sarah, con un sorrisone ad illuminarle il viso. Stava ancora masticando un muffin. - Cosa c'è, dentro? - mi chiese, analizzando la cartina colorata che lo avvolgeva, come avrebbe fatto un dottore con un paziente. - Cioccolato e banana! - affermai.
Avevo trascorso una domenica intera per preparare quei dolci e, siccome quel giorno si sarebbe tenuta la festa di fine anno, avevo deciso di abbondare. Tre cesti pieni delle mie creazioni troneggiavano sul tavolo della nostra sezione, in corridoio. Anche se, a pensarci bene, non passava molta gente da noi, dal momento che la nostra aula era in un'ala della scuola desolata come poche. - Sono i muffins del buonumore! - continuai.
  La mia compagna di classe rispose con un sorriso e poi s'incamminò alla volta di altro cibo. Anche io avrei voluto andarmene in giro per la scuola con la scusa di assaggiare le varie leccornie; ma non potevo allontanarmi di lì. E poi, avrei rischiato di incontrare lui e non mi andava. Da quel giorno infausto erano passate due settimane; io non mi ero fatta più viva, agli intervalli, né lui era venuto a cercarmi. E, dopotutto, perché mai avrebbe dovuto?
  - Com'è andata, la gara di ieri pomeriggio? - mi domandò Gemma. Lei aveva preparato delle piccole brioches ripiene di marmellata. Com'era adorabile. - Oh, bene... cioè, diciamo che dopo aver gareggiato mi sentivo soddisfatta, ma... poi ho realizzato di essere un'incompetente, guardando l'esibizione di altri ragazzi. - scossi la testa. La strada era ancora molto lunga. - Però va bene così.
- Avrei tanto voluto esserci... - sospirò lei. - Ma no; non fa niente! - smentii io. Forse era meglio che non fosse venuta o avrei sicuramente sbagliato tutto, per il panico.
  Certe volte mi domandavo cosa sarebbe successo, se Lino fosse venuto ad una mia gara di Karate. Immagino che mi sarei ritirata, pur di non avere i suoi occhi di nuovo fissi su di me; e sarebbe stato ancor più imbarazzante se si fosse trattato di un combattimento. Ancora mi bruciava, il suo commento di quel giorno...
Però, mi chiedevo... chissà come doveva essere, avercelo per casa... - Oh, eccolo là! - sentii sorridere Gemma; e per un attimo ebbi davvero paura che si riferisse a Lino. Ma poi mi tranquillizzai, ricordandomi che lei non lo conosceva.
  Alzai la testa in direzione dello sguardo della mia amica. - Beh? - chiesi, con la stessa enfasi di un pesce. - E' solo un rappresentante d'istituto.
- No, Ann. Vedi ciò che ha in mano? - lo indicò. Mi stava simpatico, quel ragazzo; era sempre gentile e sorridente. - Li vedi, quelli? - aveva dei foglietti scuri, tra le mani e, la cosa più strana era che una folla di ragazze lo stesse seguendo, smaniando per uno di quei cosi. - Quelli - proseguì - sono i biglietti per il ballo della scuola.
- Il cosa? - andiamo, non era certo una scuola da americanate, la nostra! O forse sì...? - Sì, il ballo. Non è il primo anno, che lo organizzano. - spiegò Gemma. - Davvero non ne sapevi nulla?
  Scossi la testa; ma in quei pochi minuti mi ero già fatta una mezza idea di cosa significasse. Abiti lunghi, tacchi, musica assordante e, soprattutto, cavalieri da trovare. O meglio, introvabili; almeno, per gente come me. - Beh, io vado a prenderne uno. - mi avvisò, frugando nella sua borsetta per prendere dei soldi.
Per un attimo pensai di seguirla. Però... no, non ero il tipo di ragazza che prendeva parte a certi eventi. - Okay. - e poi, non avrei avuto un accompagnatore.
  - Oh, accidenti! - sbuffò, tornando poco dopo. - Non ho abbastanza soldi! - quanto diamine veniva a costare uno di quei cosi, allora?
- Ora controllo, però penso di non avere nemmeno una moneta, con me... - bofonchiai, constatando quanto effettivamente il mio portafogli fosse vuoto. Ci mancava soltanto che una farfalla se ne svolazzasse fuori dalle tasche. Tutta colpa di quella macchinetta infame. - Non fa niente. - agitò le mani. - Domattina i rappresentanti saranno qui a scuola, a vendere biglietti. Così possiamo prenderli.
Io ridacchiai. - Non crederai che io abbia intenzione di venire! - e lei mi guardò come se avessi detto la cosa più stupida del mondo. - No, Gemma. Non ho nemmeno qualcuno con cui andare.
- Guardati attorno, Ann. - scosse la testa, facendomi un cenno in direzione di quella marmaglia di ragazze. - Credi davvero che abbiano tutte un ragazzo con cui andare?
  Effettivamente, su venti potevano averlo al massimo sei o sette. - Beh... - o magari lo avevano tutte ed avevamo preso un granchio. - Te lo dico io: no. La maggior parte ci va per divertirsi con gli amici, per ballare, o fare nuove conoscenze. - spiegò.
- Beh è perfetto, perché di amici con cui divertirmi non ne ho, fare nuove conoscenze non mi interessa e, soprattutto, non so ballare. - risi, ricevendo un'occhiataccia. - Non quella roba che si balla al giorno d'oggi, almeno.
- E cosa, allora? Il minuetto? Il valzer? - lo disse ironicamente, non potendo davvero credere possibile una cosa del genere. Solo quando vide le mie guance imporporarsi, fu costretta a cambiare idea. - Oh, mio Dio! - tuonò, agghiacciata. - Tu balli sul serio il valzer! - scoppiò a ridere. Tutto ciò era solo molto umiliante. - D'accordo, d'accordo. - cercò di contenersi, alla vista della mia occhiataccia. - Accompagnami, almeno.
  Annuii. - In cambio, però, vorrei chiederti di restare qui a badare al tavolo. - dissi. - Ho voglia di sgranchirmi le gambe.
- Sì; tanto tra poco arriverà Adriano con i giornalini della scuola. - sospirò. Povera Gemma: anche lei attanagliata da problemi di cuore. Certo, non era esattamente la stessa cosa; almeno io lo conoscevo, Lino. - Anita! - qualcuno mi chiamava... no, era solo una mia impressione. Beh, forse "conoscere" è una parola troppo grossa.
  Neanche a dirlo, avevo attraversato mezza scuola. Non avevo idea di dove stessi andando, ad essere onesti. - Anita! - ma allora, non me lo ero immaginato!
  - E' un sacco che non ti vedo! - esclamò la voce della mia amica Rina, venendomi incontro. Era lei, quella che mi aveva presentato a lui e gli altri. Sorrisi; solo vederla era in grado di mettermi di buon umore. - Come va? - chiese, prendendomi sotto braccio. Era l'ultimo giorno di scuola, non faceva troppo caldo ed avevo appena bevuto un bicchierone di soda; andava bene... no? - Non lo so. - ammisi, più a me stessa che a lei. Rina era l'unica a conoscenza di quel che era successo in infermeria, perciò capì al volo il motivo della mia titubanza; o forse era solo il fatto che fossimo molto simili e lei avesse tre anni in più.
- Oh, tesoro... - mi sorrise, fraterna. - Non fa niente, davvero. - interruppi quello che supponevo stesse per dirmi. Non mi andava di essere commiserata; neppure se fosse stata lei, a farlo. - Va tutto bene. L'estate è lunga e...
  E mentre dicevo così, eccolo sbucare dalla porta di un'aula. Maledizione...
 "II A" recitava la targhetta. Che diamine ci faceva, là? - Lino, - lo chiamò la mia amica. Diedi una rapida occhiata all'ambiente intorno a me. Non c'erano piante, né pilastri, e se fossi entrata in una classe qualsiasi, avrei dovuto dare spiegazioni. No, non avevo alcun posto dove nascondermi. Pregai di diventare invisibile, anche se sapevo che non mi avrebbe degnata della minima attenzione, comunque. Era tutto nella mia testa; capite? - vai al ballo? - gli domandò.
  Non potevo nascondere che la questione incuriosisse anche me. Avrà avuto una schiera di ragazze, al suo seguito, disposte a lucidarsi e lustrarsi solo per lui... giusto? - Ciao, Linnie! - starnazzò una voce, dietro di noi. Ah, ecco cosa era andato a fare, là; avevo dimenticato che quella biondina fosse di quella classe. Che schifo... , pensai quando lei gli si avvicinò. Anche l'espressione di Rina, accanto a me, pareva dire "Andiamo, Lino; puoi cercare di meglio.".
- Rina ha ragione: vai o no? - chiese, civettuola. Di nuovo quel pizzicore alle mani; ma questa volta i miei istinti violenti non erano nei confronti di quello stronzo colossale. La cosa curiosa era che io e quella ochetta avevamo la stessa età; eppure, agli occhi di Lino, solo io apparivo una mocciosa? - Potremmo andarci insieme. - ipotizzò.
  Trattenni il respiro e digrignai i denti, in un riflesso involontario; e doveva essersene accorto anche lui, perché mi diede una rapida occhiata. Non avevo colto nulla, dal suo sguardo. Sapevo solo che Rina avesse avuto ragione, quando mi aveva detto che gli avevo spaccato il labbro. Quasi mi venne da ridere.
  Lino non rispose alla sua proposta. Si limitò a scrollare le spalle - gesto che avevo scoperto essergli d'abitudine - e si allontanò, con la sua solita andatura lenta e disinvolta, e l'espressione scostante che assumeva tutti i giorni. Andava preso per un sì o per un no? Oh, al diavolo...
Non avevo voglia di rovinarmi la giornata e l'estate intera pensando a quell'imbecille. Avevo già perso abbastanza tempo, dietro a quel sogno adolescenziale. - E tu? Vai al ballo, Anita? - mi chiese quella stupida oca, con il suo solito sorriso ebete. Che pena, mi faceva. - Ci sto ancora pensando, ma non credo.
  Sembrò soddisfatta della mia risposta; probabilmente, pensava che le povere plebee come me non potessero partecipare, a quella festa. All'improvviso, provai una voglia matta di andarci solo per sbatterle in faccia la verità. - Non so se lui verrà o meno, Ann, - riprese Rina, quando quell'intrusa se ne andò. - ma vorrei che la tua decisione non dipendesse da questo. Lascialo perdere, Anita. Lui ... - si fece pensierosa. - è un tipo un po' singolare.
Risi. - Questo lo avevo intuito. - lo avevo intuito sin dalla prima volta che lo avevo visto. Un malinteso, ho detto. - Ma penso che non andrei comunque. - scossi la testa.
  Lo ricordo ancora perfettamente, sapete? Un freddo mercoledì pomeriggio. Il sole era ancora troppo stanco, per riscaldare qualcosa; ma almeno dava l'illusione di essere là a confortarci. Io stavo solo andando ad allenarmi, in fin dei conti. Non avrei mai immaginato di ridurmi così.
  - Me lo auguro. - mi sorrise, salutandomi. Non potevo far a meno di sentirmi in debito, verso di lei. Rina, che aveva sempre fatto tanto, per me... ed io? Cos'avevo fatto, per lei? Che ingrata, ero. Mi aveva raccolto con la stessa amorevolezza con cui si raccoglierebbe un pulcino bagnato per strada.
  Decisi che avrei pensato dopo, al da farsi. Ovviamente finii per rimandare tutto alle mie giornaliere sei ore di sonno. Come recitava, il detto? Ah, sì; "la notte porta consiglio". Beh, non nel mio caso, evidentemente.
 Mentre mi rigiravo sul letto, scervellandomi, non riuscii a prendere una decisione concreta. Era tutto un "Ma, forse posso provare." e "Non ho soldi né tempo da perdere, là". Il mio lettore mp3 doveva aver riprodotto lo stesso brano almeno cinque volte; ma dato che non avevo prestato la minima attenzione alle parole che Chris Martin stava sussurrando, non avevo idea di quale canzone si trattasse. "The Scientist" mi rese noto il display, nell'oscurità della mia stanza. Un brano breve e triste, ma bello nella sua semplicità.
  A volte, sulla strada per andare a scuola, immaginavo quella canzone a farmi da sottofondo e mi perdevo ad osservare le foglie mentre svolazzavano leggiadre per aria, o la silenziosa pioggia che cadeva sulle nostre teste, talvolta anche in piena primavera. A volte era come se sentissi l'eco di alcune strofe, strofe che non seguivano l'ordine in cui erano disposte nel testo, ma volavano libere in base alla circostanza. E quando questo mi succedeva, non potevo fare a meno di domandarmi se lui si soffermasse mai su questi dettagli, se smettesse mai di vivere la sua vita frenetica e spericolata per un attimo, se spendesse un minuto a pensare.
Ma poi mi davo della sciocca; era ovvio che no. Lino era una persona enigmatica, non solo per me; ma ciò che saltava subito all'occhio, era la sua passionalità, la sua impulsività, in tutto. Anzi, mi sorprendeva che si fosse fermato anche un solo istante per riflettere su... me.
Insomma, aveva detto che quello non era il mio mondo; e lo sapevo. Avevo sempre accantonato l'idea di impegnarmi sul serio, non perché non mi ritenessi capace di farlo. Ero piuttosto perseverante e determinata, in ciò in cui credevo davvero; anzi, direi quasi cocciuta. Forse era proprio quello, il problema: non ci credevo davvero.
  Compresi che non sarei riuscita a dormire, non in quelle condizioni, almeno; perciò mi alzai.
Sì; io non ci avevo mai creduto per davvero, perché sin dall'inizio mi ero accorta che fossimo troppo... diversi. Non ero mai stata dell'idea che due persone dovessero essere uguali, per stare bene insieme, tutt'altro; ero convinta che sarebbe stato noioso, e che la diversità fosse la carta vincente per l'affinità. Ma così... forse eravamo davvero troppo incompatibili.
  Scesa in cucina aprii il frigorifero; una bottiglia di tè fresco al limone brillava come non mai. Ai miei occhi, perlomeno. Ringraziai mentalmente mia madre per averlo preparato perché senza dubbio non giovava alla conciliazione del sonno, ma era buono. Incredibile come quell'unico motivo fosse abbastanza valido da farmi dimenticare dei risvolti negativi che trincare come un beone avrebbe avuto.
 Ed eccomi là, appoggiata all'angolo cottura, a sorseggiare il mio tè con la stessa enfasi con cui mi sarei messa a cominciare i compiti delle vacanze. Prima li finisco, prima avrò del tempo per crogiolarmi nella mia disperazione, mi dissi. Tanto li avrei iniziati e poi lasciati sulla scrivania, a marcire; fino a metà agosto, quando sarei stata assalita dal panico per aver oziato. Andava sempre così.

 
Anita... ah, è così, che ti chiami. Ho capito.
 
Ecco, ci mancavano solo il classico profluvio di ricordi a farmi sentire uno di quegli ubriaconi da due del mattino in un bar.
  Quella frase era ormai indelebile. Dovete sapere che non ho mentito, quando ho affermato di essere diventata ossessionata da Lino per un malinteso. Un puro e semplice malinteso.
  Quel mercoledì pomeriggio, l'allenamento era stato posticipato di un'ora, perciò non avevo preso il bus al solito orario, con la gente che incontravo di solito.
No, quel dannato giorno il pullman era mezzo vuoto; fatta eccezione per qualche vecchietta ed un ragazzo. So cosa starete pensando, ma non era lui. Anzi, ora che ci penso mi domando proprio come avessi fatto a scambiarlo per Lino.
Beh, poco importa; ciò che conta è che quel giovincello aveva gli occhi più luminescenti che avessi mai visto, azzurri e limpidi, come il mare di mattina. Certo, presto scoprii che quelli di Lino fossero completamenti diversi per tono di celeste e, soprattutto, per quel che ci avrei visto; ma questo mi bastò per prendere un granchio la mattina successiva quando, andando a scuola, vidi quello stronzo e lo scambiai per il ragazzo del giorno precedente.
  E fu così, che arrivarono i problemi. Sì perché, sebbene avessi subito capito che i suoi occhi fossero indice di un alto - se non eccessivo - tasso di stronzaggine e strafottenza, me ne invaghii e brancolai in un limbo di adorazione e odio per mesi e mesi, fino a che non feci la conoscenza di Rina.
  Mi versai un altro bicchiere. Non che dopo essere diventata amica della mia "sosia" le cose fossero cambiate molto, comunque.
Bagnai un po' le labbra nel tè; aveva un sapore acidulo, ma dal retrogusto inevitabilmente dolciastro. Era così anche Lino?
Avevo sempre pensato che fosse un tipo freddo, diffidente e aggressivo, menefreghista ed irrispettoso; un ribelle, ecco. Eppure... eppure...
Eppure ero convinta che non fosse tutta lì, la sua personalità. Perché lo vedevo, lo avevo visto la prima volta, attraverso il suo sguardo: c'era una parte di lui completamente diversa, più... dolce. Non mi era ben chiaro quando, come e con chi ne desse sfoggio, ma ero certa che ci fosse. Era un po' come il tè, dunque? Che casino...

 
Sono Lino. Piacere.
 
  Per non parlare di quel dannato giorno in cui io e Rina stavamo tornando a casa sul bus e lui capitò a fagiolo. Forse l'ho già detto, ma quando la mia amica mi avrebbe dovuta presentare, o non c'era lui, o non c'era lei. E quel giorno, beh... non credo che non si fosse mai accorto che la mia attenzione fosse perennemente rivolta a lui. Quel "è così che ti chiami" mi aveva sempre fatto pensare che se lo fosse chiesto, una o due volte. Comunque, forse è proprio vero che le cose succedono quando meno te l'aspetti.
 
In effetti vi somigliate molto.
 
  Era vero, io e lei sembravamo due sorelle, per quanto fossimo simili. Ma questo significava forse che, se a lui lei non piaceva, io avrei avuto anche meno possibilità. Perché io, a differenza di Rina, ero ingenua, una sprovveduta, come lui stesso aveva sottinteso. "Pura". Tsk... Ma lui non ne sapeva niente, di me. Poteva solo rifarsi a quelle poche cose che si era preso la briga di conoscere, sul mio conto. E se mi veniva in mente che quasi mi aveva rubato un bacio, il mio primo bacio...
Per mesi e mesi avevo fantasticato proprio su questo. Cioè, avevo sempre fantasticato su come sarebbe stato riceverne uno, ma... un bacio da Lino...
  No, basta; avevo questioni più importanti, che affogarmi nei ricordi e nelle considerazioni su una persona con cui non volevo più avere nulla a che fare.
Il problema più urgente era decidere se partecipare a quel maledetto ballo o meno.
Più e più volte avevo elencato e preso in considerazione gli aspetti positivi e negativi che avrebbe comportato presenziare; ma ancora non riuscivo a venirne a galla. E se lui ci fosse andato? La cosa mi avrebbe messo in una soggezione tremenda, anche perché temevo che sarei parsa ancor più ridicola, imbellettata. Anche perché, che diamine mi sarei dovuta mettere, addosso? Uno di quei sacchi neri che Gemma mi aveva raccontato andasse in voga per i balli? Per non parlare poi del trucco... non avrei avuto la minima intenzione di scarabocchiarmi la faccia neanche fosse quella di un clown!
... D'altra parte, mi conoscevo: sapevo che se non fosse venuto, ci sarei rimasta male. Era sempre andata così, nei miei rapporti amore-odio. La smetti di pensare a quel balordo o no?
  Scossi violentemente la testa; cos'avrei dovuto fare? La notte non mi stava portando null'altro se non ulteriori dubbi. Forse la cosa più saggia da fare era chiedere l'opinione di qualcuno.
  - Ti ho già detto come la penso, Anita. - affermò Gemma, la mattina seguente. E' inutile dirvi che avessi subito interrogato lei.
Arrivata a scuola, scoprii anche che ancora metà della mia classe doveva comprare i biglietti; perciò non fummo solo noi due, ad andare dai rappresentanti, come delle ritardatarie. - Però se non sei convinta, non devi venirci per forza. Dico solo che devi darti una mossa, a scegliere. - mi sorrise, mentre entravamo nell'aula in cui avveniva la vendita. Diamine; aveva perfettamente ragione. Non poteva risolvermi lei, i problemi.
  - Ah, guarda che abbiamo qui, Nils! - rise sornione il ragazzo che stava al banco dei biglietti. Un altro ci lanciò una rapida occhiata. - Sembra che un'intera comitiva non abbia ancora le prevendite! - ghignò, squadrandoci tutti. - Dunque, ragazzi, - tornò quasi serio. - ritenetevi fortunati. Ce n'è ancora qualcuno, ma cercate di non ridurvi all'ultimo, il prossimo anno; okay?.
  I primi biglietti di quella scatola volavano. I miei compagni si allontanavano soddisfatti. La scatola si faceva sempre più vuota. Il tempo stringeva.
La questione era tutta lì: andare, o non andare?
  Mentre mi accorgevo che un certo tizio avesse fatto una domanda simile, qualche centinaio di anni prima, arrivò il mio turno.
Eravamo io e la scatola, io e uno di quei tre foglietti scuri ancora rimasti. Uno scontro frontale, un faccia a faccia e... ma non avevo detto una cosa del genere, quel giorno, in infermeria? - Beh? - chiese il rappresentante d'istituto, impaziente. Dovevo davvero avere un'espressione stralunata o assente e... beh, credo sia quel che succede quando ti trovi davanti due sentieri e non sai quale seguire. Ma perché poi mi stavo facendo tanti problemi? Gli risposi, quasi tremando. Forse stavo sbagliando tutto, non avrei dovuto farlo. Sì, avevo decisamente sbagliato.
  Sospirai, assorta, rigirandomi la carta nera e plastificata tra le dita.

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Capitolo 3
*** Terza parte ***


 
Buon lunedì, caro lettore!
Lo so, questo capitolo avrei dovuto postarlo domani mattina, ma non sono sicura che mi sarà possibile, perciò anticipo di qualche ora.
E così, eccoci qua, con la terza parte, quella conclusiva.
Ti dico subito che non ci sarà un lieto fine. Dopotutto, tra i generi di questa storia c'è anche quello "triste" ( ti confesso che ero indecisa tra questo ed il "drammatico").
Tutto sommato, mi ero affezionata a questi personaggi, che hanno un po' delle persone a cui si ispirano ed un po' di tutto quello che vedo io in loro.
Ora ti lascio alla lettura, sperando di non turbarti troppo con il finale.
Ti ringrazio per l'attenzione!
TheSeventhHeaven
 
 
 
The Scientist
Terza parte
 
 
  La cosa più stupida che avessi potuto fare era andare ad infilarmi in mezzo a quella ressa. Non si sentiva niente oltre alla "musica" di sottofondo; non si vedeva niente e, cosa più importante, si moriva di caldo.
Non ce la facevo più, a stare tra gente che si dimenava neanche stesse ricevendo delle scariche elettriche. Oltretutto, avevo in mano un bicchiere traboccante di tè al limone, che rischiava di cadere rovinosamente a terra ogni qualvolta che qualche ragazza particolarmente distratta mi veniva addosso. Beh, il vantaggio dell'essere bassi stava nel poter sgattaiolare fuori dalle stanze passando attraverso gli spazi angusti che si creavano tra una persona e l'altra. Certo, ad un ballo di classe, forse non doveva essere esattamente un toccasana per la mia immagine; ma in fondo, cosa me ne importava? Di tutta quella marmaglia conoscevo forse i due quarantesimi. Un numero abbastanza esiguo, insomma. E, no, le frazioni non erano il mio forte ma mi piacevano.
  Appena mi trovai in un'altra stanza, con un po' di luce e meno caos, cercai un posto per sedermi, gustare il mio tè e riprendere un po' di fiato, magari. Ma guarda chi si vede..., pensai, alla vista di quella stupida, tediosa ed inutile biondina. Appena mi vide, mostrò il suo bianchissimo sorriso; in perfetto contrasto con la sua personalità, direi. - Ciao, Anita!
- Ehm... - biascicai, cercando di apparire quantomeno non indignata, alla vista di lei e quel poveretto che stava molestando. Anche se non sembrava che a lui dispiacesse. - Ciao.
  Risi tra me e me; alla fine non ce l'aveva fatta ad andarci con Lino, eh? - Mi piace molto, il tuo vestito! - esclamò, e dedussi che fosse un po' brilla, data la sua inusuale difficoltà a parlare. Non a dire qualcosa di sensato; no, quella facoltà non credo l'avesse mai avuta. - Sembri un fiorellino!
Non sapevo se prenderlo per un complimento o una critica. Cercai di convincermi del primo; anche perché non avevo proprio voglia di soddisfare le richieste del mio prurito alle mani. Non quella sera, almeno. - Grazie. - replicai quindi. - Anche il tuo è molto... - lo guardai per bene. Lungo, tempestato di paillettes blu scuro e nero e con uno scollo così profondo da mostrare quel che non aveva. Allora Gemma aveva ragione... Certo, non che io fossi molto più fornita. Beh, se non altro non era truccata pesantemente come mi sarei aspettata. - ... particolare. - conclusi, non sapendo esattamente cosa dire.
Sfoderò la sua abituale risata da ebete e decisi che fosse finalmente arrivato il momento di allontanarmi. L'anno prossimo spero proprio di non incrociarla nemmeno per sbaglio...
  Ovviamente, tutte le sedie e i divanetti erano già stati occupati da mielose coppiette che si sbaciucchiavano o cerchie di amici intenti a brindare alla loro felicità. Fu subito chiaro che mi sarei dovuta arrangiare in ben altro modo.
 
Oh, let's go back to the start
 
  Uscii dalla villa che era stata prenotata per l'evento, ritrovandomi nell'enorme giardino d'ingresso. Dovevo ammettere che si stesse davvero bene, con quella fresca brezza a scompigliare le chiome degli alberi e la mia. Mia madre aveva tentato di convincermi a legare i capelli, ma io avevo insistito per lasciare la criniera al suo stato brado. Proprio come quella di un leone, solo che molto più scura.
  Dalla lunga scalinata che faceva da ingresso, continuava ad affluire gente, tanto che mi chiesi come avremmo fatto, a starci tutti. Era chiaro che ci fosse un buon numero di "infiltrati"...
- Va tutto bene? - mi avvicinai ad una ragazzina che doveva essere del primo anno. Era seduta su un gradino e stava piangendo. - Hey... che succede?
Mi sedetti accanto a lei, cercando di capire cos'avesse. - L'ho... l'ho perso... - continuò a piangere. Si voltò a guardarmi e capii subito a cosa si riferisse. - L'orecchino... - sussurrai, fissando il suo lobo sinistro da cui non pendeva un cerchione come al destro. - Dai, non è così grave... - cercai di rassicurarla.
- Sì, invece... - mi contraddisse, cercando di asciugarsi le lacrime miste al trucco. - Mia mamma mi aveva detto di non metterli, ma io non le ho dato retta. - iniziò a raccontare. - Sono del suo matrimonio, sono preziosi per lei e io... io...
Sorrisi; per fortuna c'erano ancora ragazzi a cui interessasse delle cose degli altri. La maggior parte dei miei coetanei o di quelli più o meno della mia età non si sarebbe preoccupata di una cosa del genere. Com'è che dicevano tutti...? Ah, sì; cose come "Cazzomene" e "Fotte sega", bah...
  - Non preoccuparti, - la rassicurai. - ti do una mano a cercarlo.
- Davvero? - domandò, incredula. Dopotutto, non avevo nulla da fare e mi sarebbe dispiaciuto, non fare niente per aiutarla! - Grazie! Grazie! Mi chiamo Clodia.
La aiutai a rialzarsi. - Piacere di conoscerti. Sono Anita. - sorrisi - Hai idea di dove possa esserti caduto, Clodia?
- No... so solo che un attimo prima lo avevo e... e poi...
Cercai di riflettere. - Dove sei stata, prima? - indagai. Certo, cercare un orecchino in un posto del genere era un po' come cercare un ago in un pagliaio... - Sono stata nel parcheggio dove c'è il selciato e... nel giardino, nella parte dove ci sono le querce. - fece un rapido resoconto. - Perfetto! Allora - diedi indicazioni. - tu inizia a guardare nel parcheggio e io do un'occhiata nel giardino. Ma non piangere, d'accordo?
Mi sorrise radiosa e s'incamminò, incespicando ogni tanto per via dei tacchi che portava. Com'ero felice di aver messo dei sandali bassi! Dove ci sono le querce...
Beh, anche al buio non era difficile distinguerne una da un albero qualsiasi, soprattutto quando erano schierate tutte in un unico punto.
  Procedetti a passo spedito, prestando attenzione alla mia preziosissima bibita. Oh, e anche alla ricerca dell'orecchino, ovvio. Guardai attentamente per terra, ma la flebile luce del lampione era insufficiente; così mi feci strada con il led del cellulare. Niente; qui solo erba e qualche margheritina... Strano che le lasciassero crescere così, quando si dannavano per raggruppare tutti i fiori in aiuole ordinate.
  Le ricerche andarono avanti per una ventina di minuti quando, finalmente, intravidi un piccolo bagliore ai piedi della quercia più grande. Era una pianta davvero maestosa, dalla corteccia scura e robusta.
Mi avvicinai, chinandomi fino a constatare che si trattasse solo di una gocciolina d'acqua. Là vicino c'erano degli idranti, a pensarci bene. Sospirai, sconsolata; avrei dovuto iniziare a cercare daccapo.
  - Anita...? - sobbalzai e, nel gesto frenetico di alzarmi, tirai una capocciata contro un ramo che stava davvero basso. La risata fragorosa di Matt, mentre mi massaggiavo il capo, mi fece appurare di aver fatto un'altra splendida figura. - Hai la testa proprio dura, eh? - rincarò la dose.
Lo guardai storto e solo allora mi accorsi dell'enorme e terribile figuraccia. Matt stava fumando. Era più corretto dire che Matt e Lino stessero fumando. - Oh, merda. - balbettai, sconvolta. Non ero solita dire o pensare parolacce che non fossero "stronzo" - e quella era l'unica che usassi per una ragione-, ma in quel momento mi sorse naturale e fu come una liberazione.
 
I had to find you, tell you I need you
 
  Rimasi lì a fissarlo come una scema, non sapendo cosa fare. Alt, puntualizziamo: il mio piano prevedeva la fuga. Ma non riuscivo a muovere una singola ciglia; e sembrava lo stesso per lui. Alla fine è venuto sul serio...
Era stupito, semplicemente stupito che mi trovassi là. Come anch'io, del resto, lo ero di lui. - Che bel vestito! Sembri... - mi sorrise Matt. Non lo dire, non lo dire... - un fiorellino!
Maledizione; perché dovevano tutti dire la stessa cosa? - E' raro che le ragazze si mettano degli abiti così allegri, al ballo... - commentò. Avevo un vestito rosa antico; non mi pareva poi così sgargiante. - Ti sta davvero bene!
Biascicai un "grazie" poco convinto, ancora troppo disorientata. Adesso Lino aveva ripreso a fumare, osservando torvo il cielo scuro.
  - Porca puttana, Lino! - inveì, scherzoso. - E' rossore, quello che vedo sulle tue guance? Ed io che credevo che non ne avrei mai visto neppure l'ombra, sulla tua faccia da culo! - sghignazzò; e, effettivamente, un po' rosso in viso lo era. Ma doveva trattarsi del caldo. Per forza. Non ero io. Non ero niente di eccezionale, quella sera. Come gli altri giorni dell'anno, del resto.
- Mi sento quasi il terzo incomodo! - rise Matt, spegnendo in terra la sua sigaretta. Avrei voluto rimproverarlo, perché era sbagliato e tremendamente nocivo, per l'ambiente - e anche per lui, a dire il vero -, ma al momento ero troppo presa a rimuginare le parole che aveva appena detto. - Vi lascio soli, eh? - gli diede una delle sue pacche sulla spalla, facendolo sussultare; e mi chiesi come ancora fosse possibile che lo cogliesse di sorpresa.
Un "No, ti prego!" mi sorse sulla punta della lingua ma, come ho già detto, non ero esattamente nel pieno possesso delle mie facoltà mentali e/o fisiche. E così, era di nuovo un faccia a faccia.
Lui rimase appoggiato al fusto dell'albero, ignorandomi, ed io lì accanto, fingendo di essergli totalmente indifferente. Tanto valeva sbrigarsi e trovare quel dannato orecchino. - Spero non sia birra o qualcosa del genere. - iniziò, facendo cenno al mio bicchiere. Ma cosa gliene importava?
- E' solo tè al limone. - borbottai, bevendone qualche sorso con la cannuccia. Iniziavo ad avere caldo. - E comunque non capisco quale sarebbe il problema.
Lino scrollò le spalle, con una faccia della serie "Fa' come vuoi.". Certo, che avrei fatto come volevo! Mi chinai di nuovo, controllando la terra fresca. Quanto mi piacerebbe che ci fossi andata io, nel parcheggio... - Cosa stai cercando?
Sollevai lo sguardo; con una nota vagamente divertita, mi stava osservando. Lo sapevo: ero ridicola. Oh, ma chi se ne importa... - Un orecchino. Una ragazza lo ha perso e io la sto aiutando a trovarlo. Non è che per caso - chiesi. - lo hai visto? Lei dice di essere stata da queste parti, perciò potrebbe esserle caduto qui.
Non mi rispose, lo stronzetto. Anzi, scoppiò a ridermi in faccia. - Lo sai, - disse, scosso. Che bella risata, aveva. - sei davvero buffa.
Che stronzo... - Bene. Grazie. - replicai, acida. Ecco che mi tornava la voglia di farlo a fettine. - Intendo dire che... - cercò di tornare serio. - sei ad una festa, ti dovresti divertire e invece... ti sei messa ad aiutare qualcuno non preoccupandoti che il tuo vestito si sporchi, o...
 
And coming back as we are
 
- Beh, cos'ho, che non va? - domandai, alzandomi e fronteggiandolo finalmente negli occhi. Lui sorrise. - Niente. E' solo molto...
- Strano? Oh, beh, - ridacchiai, infastidita. - non crederai che mi metta alla stregua delle oche, spero. Pensavo saresti venuto con la tua amica bionda. - sputai, con disprezzo. In realtà, quell'affermazione celava una domanda ben precisa.
Sospirò. - Non mi andava. - disse semplicemente. - Credevo che steste insieme, o qualcosa del genere.
- Non proprio. - tagliò corto, anche se così dicendo aveva aperto un altro mondo di domande. Quel "non proprio" mi fece pensare che lui e lei fossero in quella relazione che molti definiscono "scopamicizia", se non sbaglio. Anche se il senso di tutto ciò mi era ancora ignoto, ad essere sincera. - E tu? Sei venuta da sola?
- Pare di sì. Ma avrei fatto meglio a non venire. - sospirai, decidendo di andarmene di là e porre fine a quella stupida discussione.
  Mossi qualche passo, ma non molto più tardi un getto d'acqua si diffuse per aria; e così molti altri. Erano partiti gli idranti per tutta quella sezione di giardino! Non mi misi ad urlare, come fui tentata di fare all'inizio, per lo spavento. In fin dei conti, era solo acqua, no?
Il mio vestito era leggero, perciò si bagnò quasi subito; beh, almeno avevo la fortuna di avere i capelli idrorepellenti e poco trucco. Indietreggiai verso la quercia di prima, mentre Lino si godeva la scena e ridacchiava sotto i baffi. - Io non lo trovo molto divertente! - sbottai, chiedendomi se esistesse un modo per asciugarmi in fretta. Ormai l'abito rosa antico aderiva completamente alla mia figura, ed era piuttosto imbarazzante. Non che fossi chissà quanto formosa, ma mi dava comunque fastidio che una cosa simile mi fosse successa in presenza di qualcuno e, ancora peggio, quel qualcuno era Lino. Questa dev'essere la mia serata delle figuracce...
  - Tieni. - mi porse quella che doveva essere la sua giacca. Cosa ci facesse con una sorta di key way in estate e, soprattutto, quando aveva una camicia indosso, non avrei saputo dirlo. - Non la voglio, grazie. - rifiutai, riducendo gli occhi a due fessure. Non avrei accettato il suo aiuto. E poi, a cosa mi sarebbe servito?
Gli diedi le spalle, cercando di schiodare il tessuto dalla pelle, maledicendomi per essere così dannatamente sfigata e sperando che si trattasse solo di uno dei soliti incubi in cui rimediavo qualche pessima figura. - Anita?
- Sì? - mi voltai, chiedendomi se avesse ancora intenzione di deridermi. Oh, buon Dio... Forse Matt aveva avuto ragione; l'imbarazzo sul viso di Lino era qualcosa di straordinariamente leggendario. Ci sarebbe voluta una bella macchina fotografica. Aspetta; ma io avevo il telefono, con me! - Che c'è? - insistetti.
- Niente. - si zittì, tornando al suo ormai mozzicone di sigaretta. Pensavo l'avesse già finita. Oh, no... il tè..., piagnucolai, fissando con rimpianto il mio amato bicchiere, rovesciato vicino agli idranti che volteggiavano ancora, impazziti. Lo avrei raccolto dopo, sperando che quei cosi non ripartissero e che al bancone allestito nella villa non avessero finito il tè. Anche un po' di soda poteva andar bene.
 
You don't know how lovely you are
 
  - ... Sei bella.
Quelle parole mi entrarono in un orecchio e mi uscirono dall'altro; non vi badai, insomma. Poi, come per magia, mi resi conto di chi le avesse appena pronunciate. Mi pietrificai.
  Io non ero bella, non lo ero mai stata e, sebbene molti avessero provato a convincermi del contrario, non mi ero mai lasciata incantare. Insomma; se io sapevo di non esserlo, perché si ostinavano ad illudermi? Come mio padre, che quand'ero piccola mi diceva che sarei diventata alta come lui, come le mie sorelle; e invece...
No, io non ero bella.
Lino sì. Lino era quel genere di ragazzo che sarebbe apparso bello anche se si fosse messo un costume da gufo. Non aveva quella bellezza abbagliante e rampante che potevi riscontrare su un buon numero di individui, a scuola; era più che altro questione di... fascino. Tanto, troppo fascino.
Quella sera, oltretutto, indossava una camicia celeste; capite? Una camicia! Io amavo le camicie, e vederle su di lui era una sorpresa - certo, a livello di shock, niente batteva il rossore che gli avevo intravisto sulle guance. Lui sì, che avrebbe meritato di sentirselo dire. Ma non sarei stata io, a rivolgergli un complimento, fosse anche solo per un suo ricciolo dalla particolare flessuosità. Mi sentivo andare completamente a fuoco.
Forse anche a lui era costato parecchio, ammetterlo. Intendiamoci: non era certo il tipo che si vergognasse con le ragazze, ma... non è che si vergognava con...? - Credo di doverti delle scuse. - disse, tutto d'un fiato. Oh, come mi stava sorprendendo. Avevo sempre pensato che fosse un tipo molto orgoglioso, in fatto di scuse.
Per che cosa...? Non glielo chiesi. In un certo senso, mi convinsi che fossero scuse generali. Perché forse Lino sapeva. E perché forse, forse, un po' gli dispiaceva. Forse.
  - In più, - lo sentii sorridere. - ora so che si è trattato davvero, di una svista.
- Di... di che stai...? - non capivo.
- Quell'occhio nero e quel taglio. - specificò. - Ora so che è stato per una svista, se te li sei procurati. - era un comodo giro di parole per dire che ora temeva la mia non-forza? - Pff... - sorrisi di rimando. - Quella era solo una minima parte, del mio vasto potere.
- Immagino lo sprigionerai in tutta la sua grandezza solo quando avrai di fronte a te la "stupida biondina". - mi diede corda. Io arrossii fino alla punta dei rovi che mi ritrovavo per capelli. - E tu come fai, a saperlo?
- Andiamo; - si sedette a terra, contro il tronco. - Penso che l'unica a non essersi accorta dei tuoi sguardi assassini sia proprio lei.
Oh, quindi era così poco distratto da riuscire a notare certe cose? - No, intendevo il...
- ... Modo in cui la chiami? - mi lesse nel pensiero. - Alcune fonti parecchio ciarliere non esitano a riferire informazioni da nulla, figuriamoci quelle così importanti. - ridacchiò. Matt...
- Mi spiace di odiare la tua fidanzata. - mentii. Non me ne poteva fregare di meno, di lei. Controllai che nessuno mi stesse telefonando e... perbacco, erano già le undici!
- Non è la mia fidanzata. Non è che magari... - ghignò - ... sei gelosa?
- Assolutamente no! - mi affrettai a smentire. Forse lo dissi con troppa enfasi, per essere credibile. Beh, non sarei stata credibile comunque. - Non è la mia fidanzata... - ribadì. - ... non ricordo di aver mai chiamato così una delle ragazze che frequentavo.
Non mi stupii più di tanto. - Fammi indovinare: - avrei voluto cucirmi la bocca ed andarmene, ma la curiosità mi stava davvero uccidendo. - dopo due giorni ne arrivava un'altra?
  Lino non era il tipo che si impegnava in relazioni lunghe, e questo avevo avuto modo di scoprirlo durante l'anno scolastico. Un giorno lo vedevi accanto ad una moretta, il giorno dopo stava avvinghiato ad una rossa, e quello dopo ancora ad una biondona di un metro e novanta. - Forse, fosse stato per loro, sareste durati di più. - gli feci notare.
- Oh, lo so. Alcune ci tenevano davvero. Ma il problema sono io. Mi stufo quasi subito. - ammise. Era strano vederlo senza la sua dannata sigaretta, adesso. - Tu, invece?
Quasi mi venne da ridere, a quella domanda. Diversi in tutto... - Io? Forse avrò avuto uno, massimo due fidanzati, negli ultimi due anni. Più che altro, la mia testa stava altrove. - ero sempre stata una perditempo, sapete? - Dalla prima media fino a... buona parte di quest'anno sono stata innamorata di un altro.
- Innamorata? - fece lui, dubbioso. - Sì. Non penso fosse una semplice cotta, dato che il mio pensiero fisso andava a lui nonostante poi fossimo finiti in scuole diverse e ci vedessimo pochissime volte all'anno. - raccontai. Chissà come dovevo sembrargli ridicola, in quei termini. Figuriamoci; io ero il genere di ragazza che si sarebbe imbarazzata anche solo a sentir nominare il nome del ragazzo che le piaceva... Ma io ero stata davvero innamorata, almeno, fino ad ottobre di quell'anno.
Poi era spuntato lui, ed erano iniziati i casini. Avrei voluto dirgli quest'ultimo particolare, ma lui mi anticipò. - E come mai hai smesso?
Touché... Come spiegarglielo? Come spiegargli che i suoi maledetti occhi e il suo sorriso da stronzo avessero invaso la mia mente all'improvviso? Certo, mi ci era voluto del tempo, per lasciarmi alle spalle l'altro ragazzo. A che scopo continuavo a restargli devota, se mai, mai, mi aveva riservato un trattamento simile a quello delle ragazze con cui si metteva? Cos'avevano, loro, in più di me? E, soprattutto, a che scopo io portavo avanti la mia battaglia per Lino quando, quasi sicuramente, non sarebbe mai stato capace di vedermi come una ragazza?
  - Credo tu possa immaginarlo. - O saperlo... - Senti...
Mi morirono le parole in bocca, perché ora avevo catturato la sua piena attenzione; perché ora era di nuovo lo scontro tra l'acqua dei suoi occhi ed il legno dei miei. E non c'era combattimento più bello. O forse era una cosa speciale solo per me. Forse io mi immaginavo tutto ed elaboravo una percezione distorta della realtà.
  Lino si alzò, avvicinandosi. Oh, mio Dio... Cercai di schermarmi con le braccia il petto, ancora bagnato.
La biondina non si sarebbe fatta tanti problemi, anzi. La biondina avrebbe fatto in modo di richiamare l'attenzione proprio lì, dove, in realtà, non aveva un bel niente. La biondina era sfacciata, sfrontata e, in un certo senso, naturale, in tutto quello che faceva. Diceva solo stronzate, ma tutti pendevano dalle sue labbra neanche stesse annunciando qualche verità incontestabile. Faceva la svampitella, ma in realtà era furba come poche.
Forse molto tempo prima sarei stata pronta ad imitarla, se Lino me lo avesse chiesto. Ma avrebbe davvero avuto senso? Lei poteva essere tutte queste cose senza una richiesta. E, finalmente, capii che non avrei mai voluto essere come lei.
  Intanto, lui mi era arrivato di fronte, ad un palmo di naso da me. Ero quasi pronta a ringraziare di avere alcune ciocche in faccia, che lui me le scostò, con fare insolitamente delicato. Era quindi vero? Esisteva una parte di lui sconosciuta a tutti?
Se prima mi era parso tanto strano, compresi che fosse naturale. - Non pensavo che giocassi ancora, con i bambini. - scherzai, cercando di non pensare alla distanza ridicola tra il mio capo e il suo petto. Perché, no, Lino non era un gigante, ma io ero davvero bassa. O forse era solo una mia impressione. - Una cosa, non ho del tutto chiara.
Mi scrutò, nella tacita richiesta di andare avanti. - Se io sono così piccola... perché non reputi tale anche lei? - ebbi il coraggio di chiedere.
- Perché? - si fece pensoso. Tirai ad indovinare su quale sarebbe stata l'ennesima cavolata poetica che mi avrebbe rifilato. Sospirò. - Tu sei piccola d'età, di statura... sei piccola nel senso di ingenua, ma... ma sei anche grande. Non è un controsenso. Tu sei matura, ed è questo, che vi differenzia. Tu sei...
  Okay, diciamo che l'insufficienza multiorgano sarebbe stata davvero la causa del mio decesso. Il cuore premeva per uscire dal petto, stile coriandoli; i polmoni, invece, mi stavano strozzando e scalpitavano per essere vomitati. - ... sei... - E il cervello, oh, non lo avrebbero nemmeno trovato. - ... come dicono spesso, una donna nel corpo di una ragazzina.
Boooooom. - Lei è... - organi che schizzavano in ogni dove - una bambinetta - sangue e budella a terra - nel corpo di una ragazzina. - viscere che imploravano pietà - Ecco, perché ho una considerazione diversa.
- Cioè... tu... - in effetti, era stata una visione piuttosto cruenta, del destino delle mie interiora. - Anita. - mi interruppe, sfiorandomi la guancia.
Okay; stavo decisamente raggiungendo temperature mai viste e il rossore... bah, non ne parliamo. - Tu non ne sai niente di soldi, fumo, droga... sesso. - arrossii, se possibile, ancor di più. Andiamo; credevo davvero che lui non lo avesse ancora sperimentato? Ed io che mi imbarazzavo per uno sguardo... ero proprio un'ingenua. Chissà chi era stata, o chi erano state, le ragazze con cui si era sollazzato, prima di allora... Chissà se... - Ed è giusto così. Io... sono solo un buco nero, Anita.
 
Oh, it's such a shame for us to part
 
  Lo disse con una nota di rimorso, rimproverandosi per oscuri peccati commessi in passato; almeno, secondo lui. In quel momento realizzai di sapere ben poco, sul passato di Lino. - E' per questo che non vado bene? - azzardai, confusa. Maledetta a me e a quando mai avevo comprato quel biglietto.
Lo vidi sorridere, sorridere in un modo così... sincero ed intenerito... Ma che...? - Devi goderti i tuoi anni. Spassartela, magari fare anche qualche cazzata, ma... ma adesso... adesso sarebbe una forzatura. Sarebbe solo una costrizione. - rispose.
- Stai insinuando che sia volubile? - chiesi. Ed un po' lo ero, forse.
- Non dubito della tua fermezza, ma della mia. - replicò, semplicemente. Sospirai, scotendo la testa.
  Decisi che fosse arrivato il momento di andare via, in tutti i sensi. Ero stanca delle mezze parole, degli sguardi che dicevano un mare di cose e che alla fine non significavano niente. Forse aveva ragione: sarebbe stata una costrizione, ed io rivolevo indietro la mia libertà o, quantomeno, parvenza della stessa. - Non vi capirò mai. Non capirò mai se scherziate o siate seri. - sorrisi, amaramente. - Se vi piaccia, oppure...
  Forse mi sarei dovuta voltare. Forse avrei dovuto guardare. Era tutto un "forse", un "se", un "ma"... - Tu che dici?
 
And tell me you love me, come back and haut me

  Ed era proprio vero che fu l'occasione, a fare dell'uomo un ladro.
 
  Alla fine, Clodia aveva ritrovato l'orecchino. Era nel parcheggio. Ma dai...
Per un attimo, mi odiai con tutta me stessa per non esserci andata io, in quello stramaledetto parcheggio. Poi, però, una sequenza di immagini mi attraversò la testa.
E sorrisi. Tanto. Non so se avete presente quel genere di sorriso ebete di quando siete nel vostro mondo.
  Era quasi mezzanotte, ma io non avevo minimamente voglia di andare a dormire. Di andare a casa sì; ma solo per farmi tutti i film mentali e ripensare continuamente a Lino. E alle sue labbra dal retrogusto di ciliegia. Che cos'aveva bevuto...? E alle sue labbra sulle mie. E al suo odore di Coccolino extra morbido. Curioso come riuscisse a non puzzare di fumo, con tutte le sigarette che teneva tra le dita bell'arco di una singola giornata.
  Mia sorella aveva detto che tra una decina di minuti sarebbe venuta a prendermi, perciò mi incamminai verso quell'infausta area dove era caduto l'orecchino. Lo sguardo mi ricadde su un piccolo dettaglio. Un piccolo, quanto mostruosamente imbarazzante (almeno, lo era per me) dettaglio.
Un ragazzo ed una ragazza stavano su una panchinetta, avvinghiati l'uno all'altra come due polipi, e credo che avrebbero dato luogo a qualcosa di equivoco in mezzo alla gente, se non si fossero accorti di me ed io di loro.
Li vedevo, mentre si esploravano e si bramavano tramite il semplice tocco delle mani, il loro rossore; i loro... baci. Il tipo di bacio che Lino non mi avrebbe mai dato, forse.
Per un attimo, mi chiesi perché il suo fosse stato incredibilmente dolce, a differenza di tutti quelli che gli avevo visto scambiarsi con le sue fidanzate. - An-Anita...? - balbettò il ragazzo, cercando di ricomporsi.
Era Matt, constatai. - Puoi scusarmi un attimo? - fece alla ragazza che era con lui.
Quella sorrise ed annuì; allora Matt mi prese sotto braccio, allontanandomi dal luogo dove stava per accadere qualcosa di... - Ehm... allora... - balbettò, ancora a fuoco. - Che mi dici? Hai un sorriso ed un umore che non ti si vedeva in faccia da... beh, più o meno la prima volta che ti ho parlato.
Non sapevo cosa rispondere. - Scommetto che c'entra quel mattacchione di Lino.
Ed ecco che andai in fiamme io stessa. Buffo come mi vergognassi per un solo e casto bacio, neanche avessi appena rapinato una banca. Beh, in un certo senso, era Lino, il ladro. In tutti i sensi.
- Ma immagino non siano fatti miei... - sorrise fraternamente. - Ora ti devo lasciare, però. Chissà, magari ci si vede in giro, quest'estate. In caso contrario; al prossimo anno.
  Io annuii e lo salutai. Non potevo sapere che non lo avrei rivisto mai più; io, e come me tutti i suoi amici.
  Salii in macchina e, mentre mia sorella ghignava un "alla buon'ora; dove sei stata, cos'hai fatto; perché sei fradicia; come mai quel sorriso" e bla bla, mi sfiorai le labbra. Avevo quasi l'impressione di avvertire ancora le labbra di lui.
A metà viaggio, mia sorella aveva attaccato a parlare del più e del meno, pensando che davvero me ne importasse qualcosa; poi sentii il mio telefonino vibrare.
Gemma mi chiedeva se fosse andato tutto bene, perché ad un tratto non mi aveva più vista; ed io mi sentii una carogna a non averla neppure salutata. Ma poi lessi quel che mi diceva dopo.
Dopo il ballo, due di quarta erano stati investiti. Non sapevo perché, ma avevo come un brutto presentimento.
Cercai di non pensarci.
 
  Tornata a casa cercai di fare meno rumore possibile. Ma, ovviamente, mia madre intercettò i miei passi e se ne venne fuori con il suo solito " C'è qualcosa che non va? E' successo qualcosa?". E, stranamente, il mio solito "niente" aveva molti significati, dietro di sé.
Mi addormentai sognando Lino che mangiava un muffin alla banana e al cioccolato. Nello stesso sogno, io e lui disputavamo una partita di calcio usando un melone come palla. Ma lui non mi parlava mai.
Mi svegliai di soprassalto, turbata.
  Più o meno un'ora dopo, nell'oscurità della mia stanza, il telefono si illuminò. Lessi il messaggio la mattina successiva. Era da Rina.
Mi diceva che la notte prima, dei ragazzi si erano messi al volante ubriachi.
 
Do not speak as loud as my heart
 
  Lino era finito in coma. Matt, invece, era morto sul colpo.

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