The City of Monsters

di StellaDelMattino
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Welcome to the City ***
Capitolo 3: *** Nobody's love ***
Capitolo 4: *** Someone New ***
Capitolo 5: *** The ones you shouldn't trust ***
Capitolo 6: *** The Family ***
Capitolo 7: *** Creatures ***
Capitolo 8: *** Smile, the worst is yet to come ***
Capitolo 9: *** Before all Hell breaks loose ***
Capitolo 10: *** Helpless and Lonely ***
Capitolo 11: *** The Price ***
Capitolo 12: *** Waiting ***
Capitolo 13: *** That's what you became ***
Capitolo 14: *** Rebirth ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


The City of Monsters

Prologo

An unconscious journey

 

Che gran mal di testa.

Madison aprì gli occhi.
Sopra di lei si stagliava il cielo azzurro, meraviglioso, macchiato solo da un paio di nuvole. Per un secondo sorrise, era bellissimo.
Poi fece leva sulle proprie braccia, mettendosi seduta. Tutti i suoi arti erano doloranti e la testa le girava come dopo la peggiore delle sbronze. Aveva davvero bevuto così tanto? Eppure non le sembrava. Madison rise fra sé: era probabile che semplicemente non si ricordasse tutto ciò che aveva bevuto.
Mentre si massaggiava le tempie si guardò intorno: era in un campo. In un campo di girasoli, precisamente.
Perfetto, pensò, come diavolo ci sono finita in un campo di girasoli?
L'idea iniziale fu quella di stare lì, per aspettare di riprendersi almeno un po' prima di camminare, ma non passarono che pochi minuti prima che si stufasse e decidesse di andare in una direzione totalmente casuale.
Si sgranchì le gambe e si sistemò brevemente i lunghi capelli castani dietro le orecchie, cercando di evitare che le cadessero continuamente sugli occhi. Facendo scorrere velocemente lo sguardo sull'infinito campo che la circondava, con le mani andava cercando il proprio cellulare, sicuramente confinato in una tasca dei pantaloni.
Fu allora che si accorse di essere in pigiama.
Imprecò ad alta voce, sperando che qualche contadino la sentisse e andasse in suo soccorso. Subito dopo pensò che se qualcuno l'avesse udita, probabilmente l'avrebbe denunciata per non-sapeva-quale delitto.
Scrollò le spalle e si mise a camminare, pensando che anche se avesse avuto con lei il cellulare non avrebbe avuto nessuno da chiamare in suo soccorso, quindi tanto valeva non averlo.
Più camminava più le sembrava pesante il peso delle proprie palpebre: era sfinita e ogni passo che faceva le lanciava fitte ovunque. Aveva sonno come mai ne aveva avuto.
Nonostante ciò, riuscì a uscire dal campo e arrivò in quello che sembrava un semplice e tranquillo paesino deserto. Madison si guardò un po' intorno, notando che un uomo piuttosto anziano se ne stava seduto sulla veranda della propria casa e leggeva il giornale.
La ragazza pensò che avrebbe potuto chiedere a lui esattamente dove fosse, o se non altro voleva sapere la direzione in cui camminare. Se era arrivata fino a quel campo di girasoli solo la sera prima, non poteva aver camminato troppo da Hampton, sua città natale.
“Scusi” iniziò rivolta al vecchio, attirando la sua attenzioni. Questi alzò il suo sguardo lievemente, fissando la ragazza con aria truce. Non disse nulla.
“Da che parte devo andare per Hampton?” continuò allora Madison.
Lui rimase a guardarla ancora per qualche secondo, poi abbassò lo sguardo sul giornale e mormorò con una voce bassa e roca: “Non sono in vena di scherzi.”
Sbuffando, la ragazza si diresse allora verso la fine della via, dove c'era un bar con un insegna rossa mal funzionante. Lì sperava di trovare qualcun più disposto ad indicarle la strada.
Mentre camminava, sentiva le ginocchia indebolirsi e gli occhi chiudersi. Un sonno profondo si stava lentamente impossessando di lei e Madison non sapeva come contrastarlo. Continuò quindi a ignorarlo, sperando che se ne sarebbe andato semplicemente stropicciandosi gli occhi.
Quando entrò nel bar, non riusciva quasi più a vedere: la sua vista si sfocava e ogni cosa sembrava smaterializzarsi. La cassiera, che ormai le sembrava essere solo una macchia nera, rosa e rossa le stava dicendo qualcosa, ma lei non capiva. Chiese vagamente la direzione per Hampton, ma non riusciva ad udire neanche la sua stessa voce.
Poi, il buio. Era caduta in un sonno che in nessun modo avrebbe potuto affrontare.
“Come? In Texas non c'è nessuna città con questo nome” disse perplessa la cassiera.

***

Nella Città tutto andava avanti con la solita routine.
Veloci, le persone percorrevano le vie con l'urgenza propria di chi si sente rincorso dalla morte e guardavano gli altri con un odio smisurato. Erano sempre popolate dalla diffidenza delle persone, le strade della Città.
Si sentivano tutti prede, alla luce del sole, e specialmente coloro che erano parte di un gruppo sentivano la solitudine pesare sulle loro spalle come non mai.

Partecipi di questo agitato movimento, quasi nessuno si fermò a guardare la ragazza dai lunghi capelli castani che ad occhi chiusi valicava il confine della Città e quando questa cadde a terra con un tonfo, il movimento generale accelerò notevolmente, non sapendo che ad essere caduto non era un morto, ma una nuova preda.


*Angolo autrice*
Salve a tutti! Dopo mesi di assenza ritorno con questa nuova storia!
Cercherò di aggiornare spesso, ma come linea di massima pubblicherò una volta a settimana. E niente, spero che siate incuriositi e vi sia piaciuto il prologo! Fatemi sapere che ne pensate, mi raccomando!
Al prossimo capitolo,
StellaDelMattino

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Capitolo 2
*** Welcome to the City ***


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Capitolo 1

Welcome to the City

 

Madison aprì gli occhi, finalmente sveglia.
Si guardò intorno, meravigliata ma anche preoccupata, perché non riconosceva minimamente dove fosse. Di fronte a lei si stagliava una città sconosciuta, con alti edifici grigi e cupi, che stavano su di lei guardandola minacciosi.
Perfetto, pensò, ora mi sento guardata anche dai palazzi.
Cercando di far mente locale, si chiese come fosse potuta finire lì e si ricordò subito del campo di girasoli e del paesino. Che fosse diventata sonnambula? Le sembrava impossibile, ma fra tutte le alternative sentiva che quella fosse la meno strana.
Ci avrebbe pensato dopo, in ogni caso, la cosa importante in quel momento era trovare un modo per tornare a casa, ovunque lei fosse. Non aveva soldi, né un cellulare o comunque persone da chiamare, ma un modo l'avrebbe trovato.
Si alzò in piedi, imbarazzata di dover camminare per le strade di una città nel suo pigiama a pois verdi, ma tutte le persone passavano freneticamente e nessuno sembrava badare a lei, se non con qualche sguardo vagamente minaccioso.
Madison fece un respiro profondo e attraversò la strada, entrando in un locale. Era una specie di bar, ma sembrava più adatto alle ore notturne: era illuminato in ogni angolo di una luce soffusa e una lieve nebbia circondava ogni persona e riempiva l'intera stanza. A destra c'era un lungo bancone, dietro il quale stavano una giovane ragazza e un uomo.
La ragazza aveva un'aria quasi infantile ed era tanto pallida da sembrare vetro. I suoi occhi chiarissimi erano contornati da un trucco nero troppo calcato e i suoi abiti erano di quello stesso colore, attillati e scollati. Mentre stava servendo a un cliente un liquore rosso scuro, la sua attenzione fu attirata da Madison, che si sentì ancora più a disagio per il proprio abbigliamento, ma comunque si avvicinò.
La barista la guardò con un accenno di panico e scosse la testa, come a dirle che doveva andarsene.
“Scusami, potresti dirmi esattamente dove siamo? Sono di Hampton e mi sono ritrovata qui...” iniziò comunque Madison, sperando in qualche aiuto.
“Senti, so che sei nuova e tutto, ma tu non puoi stare qui, assolutamente” rispose quella con urgenza.
“Ho solo bisogno di sapere dove sono, poi toglierò il disturbo, lo assicuro” rincarò imperterrita. Aveva assolutamente bisogno di risposte.
La barista esitò un secondo, poi parlò.
“Sei nella Città e non puoi tornare a casa. Oggi è l'11 giugno. Ti sarà spiegato tutto, fra circa una settimana, ma ora devi andartene, Angelique non vuole che qui stiano altri se non per affari. Se vuoi un consiglio, sii prudente. Non attirare l'attenzione e aspetta che ti trovino, poi ti sarà spiegato tutto, te lo assicuro. Ora vai!”
Madison la guardò in modo interrogativo, confusa da quelle parole, ma lo sguardo della barista e le occhiate minacciose e quasi fameliche degli altri clienti la persuasero ad andarsene.
Uscita da quel locale, era molto più confusa di prima. Cosa voleva dire che non poteva tornare a casa? Poi, era impossibile che fosse l'11 giugno, solo il giorno prima era il 2. Cosa e da chi le sarebbe stato spiegato dopo una settimana? Chi era Angelique?
Iniziò a camminare, essendo tanto agitata da non riuscire a stare ferma, mentre una marea di domande le affioravano nella mente e l'unica spiegazione che riusciva a dare era che quella barista si era presa gioco di lei, che aveva messo in atto uno strano scherzo da punk davvero poco divertente.
“Che ne dici, tesoro” disse una voce sconosciuta attirando la sua attenzione e facendola fermare “se ti do qualche spiegazione sul perché ti sei svegliata in mezzo a una marea di matti?”
Si parò davanti a Madison lo sconosciuto, proprietario della voce, un giovane dall'aspetto terribilmente eccentrico.
Se ne stava tranquillo davanti a lei, con le mani nelle tasche dei pantaloni viola acceso. Aveva una maglia verde acido, sotto la camicia dello stesso viola dei pantaloni, e una cravatta rossa. Sopra i corti capelli ramati, poi, era appollaiato un grande cilindro rosso.
La guardava con aria quasi derisoria, con un lampo di interesse negli occhi scuri.
“Sarebbe fantastico, stavo iniziando a chiedermi se non fossi morta e finita in una specie di inferno personale” rispose Madison.
Lui ridacchiò squadrandola.
“All'inferno ci siamo, se poi tu sia morta o meno devi dirmelo tu.”
La ragazza sospirò, seccata da quella risposta.
“Sinceramente non ho voglia di sentire spiegazione apocalittiche sul perché io sia qui, quindi evita di prendermi in giro. Non sono né stupida né una credulona e voglio solamente tornartene a casa” disse acidamente. Iniziava ad averne basta di quella situazione assurda.
Lo sconosciuto la guardò inclinando un po' la testa e sorridendo, ma non disse nulla.
In quel momento arrivò verso i due un corvo nero come la pece, che gracchiando attirò la loro attenzione. L'animale sembrava avere intenzione di appoggiarsi sulla spalla del ragazzo, come su un trespolo, ma nel momento in cui posava le zampe, queste si trasformarono in zampe da scimmia ed insieme ad esse anche tutto il corpo.
Madison strabuzzò gli occhi, doveva essere completamente impazzita.
Intanto l'animale parlava animatamente all'altro e ogni tanto lanciava uno sguardo alla ragazza, che lo fissava a bocca spalancata.
“Interessante... e Brownie?” diceva l'eccentrico sconosciuto, rivolto alla scimmia. “Ci aspetta lì?”
Quella gli rispose in una lingua dalla dubbia comprensione.
“Perché lei ti fissa?” chiese il ragazzo indicando Madison, probabilmente riportando le parole dell'animale. “Beh, ma è ovvio! Non vedi? Il suo dubbio gusto in fatto di vestiti dovrebbe suggerirti che è nuova.”
La scimmia rispose con altri versi confusi.
“Sì, lo so che ho anche io un completo uguale che non è un pigiama, ma sai com'è la gioventù d'oggi: non ha gusto per il colorato.”
“Perché parli con una cornacchia che è diventata un macaco?!” intervenne finalmente Madison, al massimo dell'incredulità. Quasi urlava.
Lo sconosciuto le rivolse uno sguardo divertito e ridacchiò, mentre l'animale la guardava offeso.
“Non devi essere razzista” incominciò il ragazzo, avvicinandosi di qualche passo, lentamente. “Io parlo con tutti, cornacchie e macachi compresi. Con chiunque possa essere un potenziale alleato.”
“Non riesco a capire se tutto questo sia uno scherzo, un incubo o se io sia solamente diventata matta” rispose quasi rassegnata e più che altro a se stessa, mentre nella sua mente cercava qualche spiegazione razionale e una nuova soluzione su come tornare a casa.
“Facciamo un giro, ti va?” le chiese lui, con una punta di comprensione e gentilezza nella voce.
“Perché dovrei fidarmi di te?”
“Prima regola per sopravvivere alla Città: non fidarti mai di nessuno. Per nessun motivo” rispose con decisione e imperiosità, agitando in aria l'indice. “Però io posso dar le risposte ai tuoi dubbi. Risposte a cui non crederai finché non vedrai tutto con i tuoi occhi. In questa città c'è tutto ciò che non ci dovrebbe essere, vive tutto ciò che non dovrebbe neanche esistere e, che tu lo voglia o meno, ormai ne fai parte anche tu.”
Madison rimase in silenzio per qualche attimo, chiedendosi cosa avrebbe dovuto fare. Seguire quello sconosciuto eccentrico e probabilmente pazzo le sembrava una follia, ma qualcosa, nelle sue parole, le faceva credere che stesse dicendo la verità. Lei non aveva mai messo da parte l'eventualità che nel mondo ci fossero strani esseri, ma era tutt'altra cosa averci a che fare. Farne parte, poi, era impensabile.
Forse fu la curiosità o forse fu la mancanza di alternative, ma Madison decise di andare con lui.
“Ti seguirò” affermò decisa. “Ma almeno dimmi il tuo nome.” Poi, vedendo che la scimmia prendeva un cipiglio offeso aggiunse: “I vostri nomi.”
Il ragazzo sorrise soddisfatto e scambiò uno sguardo veloce con l'animale.
“Puoi chiamarmi Red” disse facendo un inchino teatrale e togliendo il cappello, per poi rimetterselo. “E questo” continuò indicando la scimmia “è Gianduiotto, ma puoi chiamarlo Whisky.” Anche il macaco fece un inchino.
“Io sono Madison” disse quasi sussurrando.
Red la guardò qualche secondo, questa volta con un'espressione seria, poi sorrise lievemente e rimise le mani in tasca. Quindi incominciò a camminare, non curandosi se lei li seguisse o meno.
Madison stava dietro ai due, sperando che nel viaggio iniziasse qualche spiegazione, cosa che non successe. Attraversarono varie viette piuttosto putride e non incontrarono mai nessuno: probabilmente non volevano attirare l'attenzione percorrendo le strade secondarie.
Red e Gianduiotto -o Whisky, Madison non sapeva ancora come chiamarlo- la precedevano e ogni tanto si scambiavano parole che non capiva. A volte il ragazzo rideva e il macaco si girava a guardarla sospettoso. Ma, a Madison, nessuno rivolse mai la parola.
Quando la ragazza ormai stava iniziando a pensare che l'avesse presa in giro e stessero vagando a vuoto, Red si fermò davanti ad un edificio all'apparenza abbandonato. Si girò verso di lei e le fece cenno di entrare.
In quel momento Whisky si trasformò in una cornacchia e volò via gracchiando, lasciandola interdetta ancora una volta.
I due entrarono e, sebbene in fondo alla stanza ci fosse un ascensore, la cui luce sfarfallava in modo inquietante, loro salirono per una scala lì vicino, sempre in silenzio, fino ad arrivare al terzo piano. Allora Red aprì la porta di un appartamento semplicemente spingendola: ogni stanza era vuota o conteneva semplicemente scatoloni. Le ragnatele abbondavano.
Lo attraversarono completamente, fino ad arrivare ad una terrazza piuttosto ampia, dove ritrovarono Whisky. Vicino a questi c'era un uomo, dell'altezza di un nano, che tranquillamente fumava una pipa.
“Ci avete messo un'eternità” disse quest'ultimo acidamente a Red.
“Non fare sempre lo scorbutico, Brownie” lo rimproverò il ragazzo, poi fece un cenno verso Madison “Abbiamo ospiti.”
“E chissenefrega” borbottò imbronciato.
La ragazza sorrise senza nemmeno rendersene conto: c'era qualcosa di tremendamente buffo in quel nano.
Red alzò gli occhi al cielo, poi si avvicinò alla ringhiera e rivolse uno sguardo a Madison. Indicò qualcosa, nella strada a cui dava la terrazza.
Lei si avvicinò e si accorse di un gruppo di persone: due ragazzi tenevano ferma una ragazza che si divincolava e sembrava soffiare come un gatto. Un uomo, poi, stava a braccia incrociate, con un'espressione di puro astio e guardava un'altra ragazza vestita completamente di bianco, che aveva un aspetto etereo e sembrava quasi un fantasma. Quest'ultima si mise davanti alla prigioniera e la guardò per qualche secondo. Poi si voltò verso l'uomo e annuì. Questi fischiò e in qualche secondo, correndo, arrivò un numeroso gruppo di persone, che li accerchiarono.
“Gatto dei Nekomusume, che non sei neanche degna di far sapere il tuo nome” disse l'uomo alla prigioniera “Sei colpevole del brutale assassinio del nostro Lucien War, grande amico e stimato guerriero, e per questo io, Connor Wallace, ti condanno a morte.”
Madison strabuzzò gli occhi, girandosi verso Red per una qualche spiegazione. Questi guardava la scena in silenzio, così come anche gli altri due. Lei allora riportò lo sguardo alla macabra scena.
La ragazza in bianco aveva iniziato a piangere e urlare, mentre la prigioniera si divincolava con anche più forza di prima, il suo corpo che lentamente veniva ricoperto da una peluria nera e il suo volto che lentamente prendeva fattezze feline.
Connor ululò verso il cielo e il suo corpo iniziò a mutare: il viso si allungava, la cassa toracica si ingigantiva e gli arti si irrobustivano. Quando l'ululato terminò, i suoi occhi erano gialli e, Madison lo avrebbe potuto giurare, quello era un lupo mannaro.
La creatura non esitò un secondo: si lanciò sulla prigioniera, affondando i denti nella sua giugulare e il sangue schizzò sporcando tutti quelli che stavano intorno. La sbranò, devastando il corpo che ormai aveva perso ogni traccia di vita, mentre tutti gli altri ululavano, ancora con le fattezze umane ma con gli occhi gialli intrisi di gloria.
La ragazza vestita di bianco urlava ancora, ma le sue grida erano di trionfo, anziché di dolore.
Connor tornò umano repentinamente, coperto solo dai brandelli dei vestiti che aveva prima, il volto ancora insanguinato e un'espressione di felicità vittoriosa, l'aspetto di una bestia feroce.
Madison era congelata nell'orrore, incapace di distogliere lo sguardo e allo stesso tempo col desiderio di andare via e di dimenticare la scena che aveva appena visto.
“Benvenuta nella Città” le sussurrò Red.



*Angolo dell'autrice*
Ciao a tutti!
Ecco qua il primo capitolo!
Beh, avete incontrato alcuni dei nuovi personaggi! Alcuni un po' strani, alcuni un po' macabri, ma, credetemi, ancora non avete visto nulla ;)
Per quanto questo capitolo possa farvi nascere nuove domande, nel prossimo Red spiegherà a Madison alcune cose e le insegnerà preziose lezioni. Quali, lo scoprirete solo leggendo ;)
Un ringraziamento a chi ha letto, recensito, inserito la storia nelle seguite/ricordate/preferite!
Un ringraziamento speciale va a  IlaMyPerson per la magnifica immagine!

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Capitolo 3
*** Nobody's love ***


Capitolo 2

Nobody's love

 

Madison non era in grado di muovere un muscolo.
Se ne stava lì, impalata, a fissare la scena senza nemmeno vederla. Non pensava a nulla, ancora congelata sul posto, e sembrava quasi che il tempo, per lei, si fosse fermato.
I lupi se ne erano andati da un bel po', ormai, portandosi via anche il cadavere e, dall'espressione gloriosa e da alcune parole che aveva captato, Madison intuiva che avrebbero esposto la ragazza con un trofeo, invece che come un corpo senza vita.
Ridevano, quegli assassini, e la ragazza sentiva ancora l'eco di quelle risa molto più forte delle urla dell'assassinata.
Brownie borbottava qualcosa, impaziente e annoiato dal silenzio di Madison, Gianduiotto saltellava qua e là per svago.
Red guardava la ragazza, zitto, appoggiato alla ringhiera con le braccia incrociate. Sembrava incuriosito dalla sua reazione, ma la sua espressione era impassibile.
“Perché sono qui?” iniziò Madison. Aveva un tono tremendamente freddo, risoluto, gli occhi privi di emozione. Non poteva né voleva negare più l'evidenza: il mondo era totalmente diverso da quello che conosceva e doveva adattarsi, capirlo.
“Perché non sei umana” rispose Red, senza mezzi termini. Si mise le mani in tasca, poi ciondolò verso l'interno dell'appartamento, facendole cenno di seguirlo. Si sedette su un divano polveroso e in alcuni punti sfasciato e così fece anche lei.
“Ora ti dirò alcune cose” disse lui, con un sorriso che chiunque abbia un po' di tatto non avrebbe avuto in quel momento. “Fammi indovinare: per tutta la tua vita non sei mai stata amata da nessuno, né dalla tua famiglia, né dai tuoi amici, anche se dubito che ne avessi. Forse un briciolo d'affetto da una sola persona.”
“No” disse Madison, fissandolo negli occhi. “Neanche una persona.”
“Proprio nessuno ha avuto affetto per te!” ripeté lui, con un'espressione quasi entusiasta. “Il che significa che hai abbastanza potere.” Fece una pausa, avvicinandosi un pochino a lei. “Beh, Mad, avrai passato tutta la tua vita a chiederti perché nessuno ti amava: è la maledizione della Città. Prima di venire qui, tutti percepiranno l'oscurità che c'è in te, talmente tanto da non riuscire a starti vicino.”
Uno spasmo colse la mascella della ragazza, che stava stringendo i denti che quasi le facevano male. Il suo sguardo, però, continuava a essere impassibile. Non disse una sola parola.
“Quindi... hai qualche domanda in particolare?” continuò Red, un po' a disagio per il suo silenzio, ma sempre sorridendo.
Madison rise.
“Mi fai assistere a un omicidio, mi dici che non sono umana e che nessuno mi ha mai amato per una maledizione e mi chiedi se ho qualche domanda? Sei anche più pazzo di quello che pensavo!” disse, ridacchiando, ma non con gli occhi. Lui la guardò perplesso, poi rise anche lui aspettando le domande. “Hai detto che non sono umana. Allora cosa sono?”
Red alzò le braccia, girando i palmi verso l'alto facendo capire che non lo sapeva. “Esistono tantissimi tipi di creature, alcuni più facili da riconoscere, altri meno. Se sei arrivata nella Città ora, vuol dire che fra non molto si svelerà la tua natura.”
“Cos'è davvero la Città?”
“La Città è, beh, una città particolare. Lei è viva, attira le creature non umane e le porta qui: ci fa abbracciare il nostro lato oscuro. Solo dopo te ne puoi andare” disse, pesando ogni parola e agitando le mani come se stesse disegnando un pensiero nella sua testa.
“Hai detto che tutti percepivano la mia oscurità prima che venissi qui. Quando me ne andrò cosa succederà?” Un lampo di interesse passò per lo sguardo di Madison mentre lo diceva.
Red sembrò contrariato, quasi infastidito dalla domanda. Probabilmente fra tutte le cose soprannaturali che c'erano in quella Città, non aveva voglia di rispondere a una domanda “normale”.
“Nel momento in cui hai messo piede in questa città, la tua maledizione è stata spezzata per sempre.”
Lei annuì, poi stette zitta per qualche secondo, alla ricerca di altre domande.
“Parlami delle... creature” disse poi.
“Come avrai capito, quelli che hai visto erano lupi mannari. Ma non solo: la ragazza assassinata era un Nekomusume, una specie di gigante gatta con poteri inerenti al fuoco. Queste creature le sentirai anche chiamare Bakeneki, che sono i gatti maschi. La ragazza vestita di bianco che urlava era una banshee: sono creature che si legano a una persona o più spesso a un branco o una congrega e percepiscono la morte: se sono vestite di bianco è lutto, se sono vestite di rosso hanno un presagio di morte. Quando vedi una banshee vestita di rosso, ti consiglio di cambiare parte della città.”
Quelle erano un bel po' di cose da assimilare e Madison faceva fatica a capire, ma soprattutto a credere. Si sarebbe ricordata ogni parola di quello che Red stava dicendo, ma ora aveva bisogno di conoscere, tanto era avida di risposte.
“Imparerai a conoscere le creature man mano” rincominciò il ragazzo. “Il tuo catalogo di mostri sarà sempre incompleto e non serve a nulla che ora li conosca tutti. Ci sono altre cose molto più importanti che devi capire.”
Lei lo guardò: un turbine di emozioni stava dentro gli occhi blu della ragazza, ma ancora una volta la sua espressione era fredda e, ora, concentrata.
“Cosa devo sapere?” sussurrò.
“Una volta al mese tutti i nuovi arrivati vengono prelevati e trasportati fino al centro della Città, dove verranno messi al corrente di tutte le cose che ti sto anticipando. Questo incontro avverrà fra circa una settimana e farai conoscenza con la Famiglia” disse Red, con una serietà che Madison non gli aveva mai visto. Sembrava che da quelle informazioni ne valesse la sua vita.
“La Famiglia...” ripeté lei, quasi per imprimere quelle parole nella sua mente.
“Hanno il potere, governano la Città e niente succede senza che loro lo sappiano. Hanno la prima e ultima parola su ciò che succede, su
chi vive e chi muore, su ogni cosa. Non fidarti di loro, mai. L'incontro è la vera occasione che hai per sopravvivere e quello che devi fare è essere invisibile. Probabilmente uccideranno uno o due di voi e devi essere certa di non essere tu: non devi mostrarti spaventata a morte, non devi essere spavalda, non devi fissarli, non devi tenere lo sguardo sul pavimento tutto il tempo, non devi essere calma e non devi tremare. Ma soprattutto non guardare Alexander Morales per più di un secondo o sarà l'ultima cosa che vedrai.”

“Chi è? Dovrai descrivermelo, o non saprò mai chi non devo guardare.” Madison era leggermente intimidita. Pensava che in quella Città ci fosse semplicemente un gruppo di matti che si uccidevano l'un l'altro, non aveva pensato che ci fosse davvero qualcuno a cui dar conto delle proprie azioni. Un qualcuno che non bisognava neanche guardare.
“Alexander Morales è il capo della Famiglia. Fidati, non ci sarà bisogno che te lo descriva, capirai subito chi è.” C'era asprezza, nella voce di Red, odio perfino. “Per il resto, nella Città vivrai come si vive in qualsiasi città. Ti devi trovare un lavoro, un posto dove stare e un modo per vivere la tua vita il meno terribilmente possibile.”
Vivere normalmente in una città di mostri. Era davvero possibile? Ora che sapeva tutte queste cose, l'andare avanti normalmente sembrava l'ultimo dei suoi pensieri, sembrava anzi impossibile.
Madison non disse nulla, però, vagando con lo sguardo per l'appartamento: magari sarebbe potuta rimanere lì. Avrebbe sistemato un po' le cose, spolverato e pulito, anche solo per passare il tempo in un posto relativamente sicuro. Di certo più sicuro delle strade.
Riportando lo sguardo su Red, le vennero in mente altre domande.
“Tu invece cosa sei?” chiese in modo diretto.
Lui esitò, poi sul suo viso comparve un ampio sorriso piuttosto inquietante.
“Ricordi quando ti ho detto che non devi fidarti di nessuno? Vale anche per me.” Si alzò, poi, e fischiò. Brownie e Gianduiotto, che prima stavano litigando piuttosto animatamente sul terrazzo, si zittirono e andarono da lui. “Il dovere chiama” iniziò Red, rivolto a Madison. “Puoi stare qui, stanotte. Cerca di non farti scoprire e ragiona su tutto quello che ti ho detto .”
Lei annuì, ma aveva ancora una domanda che da tutta la serata le stava urlando di essere chiesta. “Perché mi stai aiutando?”
Red scrollò le spalle, sempre con quel sinistro sorriso, per nulla rincuorante. “Era un bel po' che non parlavo con qualcuno di nuovo e mi stavo annoiando. Ora riposa.”
I tre fecero per uscire, ma appena prima di varcare la soglia, Gianduiotto fece un salto, trasformandosi repentinamente in un enorme panda. Si avvicinò a Madison, che da parte sua voleva scappare, ma quando fu di fronte a lei si fermò. La abbracciò, avvolgendo le enormi braccia pelose intorno al suo corpo, e lei rimase rigida per qualche secondo. Poi ricambiò l'abbraccio, immergendosi nel petto morbido dell'animale.
Dopo qualche secondo, Gianduiotto si allontanò e tornò da Red, che uscì sghignazzando. Brownie se ne andò per ultimo, brontolando.
Solo quando il silenzio invase la casa, solo quando il buio abbracciò ogni cosa, solo quando quel terribile divano sembrò meno scomodo e quando le membra le smisero di tremare per il freddo, solo allora Madison sentì gli occhi riempirsi di lacrime.
Il fiato corto, un macigno sul petto che le faceva sudare ogni respiro, la testa che pulsava, un groppo in gola che faceva diventare difficile deglutire. Lottò, ancora una volta, perché le sue lacrime non scendessero, ma alla fine perse.
Pianse perché il mondo non era quello che pensava, pianse perché tutto ciò che aveva saputo non le sembrava così strano come sarebbe dovuto sembrare, pianse perché Red rideva, perché non si poteva fidare di lui, pianse perché Gianduiotto in qualche modo strano l'aveva fatta sentire meglio, con quell'abbraccio, e aveva intuito che lei stesse male, pianse perché non sapeva se ci fosse per lei un futuro, perché aveva solo iniziato a conoscere quel nuovo mondo. Pianse perché era solo colpa della sua natura se nessuno l'aveva mai amata, se la sua famiglia non l'aveva sostenuta, se tutti le avevano spezzato il cuore così tante volte. Pianse perché ancora una volta era sola.
Pianse per tutto ciò che poteva essere ma non era stato.
E si addormentò con le guance ancora rigate dalle lacrime, con il petto ancora sconquassato dai singhiozzi, ma con una nuova speranza nel cuore, che le dipinse un dolce sorriso sul triste volto.


*Angolo dell'autrice*
Salve a tutti! Eccomi qui di nuovo :)
Finalmente qualche spiegazione! Si fa un po' luce sulla Città, ma anche sul passato di Madison, finalmente.
Se avete ancora molte domande non preoccupatevi: ci sarà una risposta a tutto e prima o poi sarà tutto molto più chiaro. Intanto, però, ci stiamo addentrando nella faccenda!
Spero che vi piaccia la storia e ringrazio tutti coloro che leggono, ma soprattutto chi recensisce! 
Al prossimo capitolo
StellaDelMattino

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Capitolo 4
*** Someone New ***


Capitolo 3

Someone new

 

Madison si svegliò quando il sole era ormai alto nel cielo.
Ci mise qualche secondo a mettere a fuoco l'appartamento in cui si era addormentata il giorno prima, ancora disordinato e polveroso quanto il giorno prima.
Gli occhi le bruciavano, probabilmente perché il giorno prima aveva pianto, e si sentiva un po' scombussolata.
Si alzò e si stiracchiò, scrocchiando un braccio intorpidito. Quel divano era veramente scomodo, la ragazza già ringraziava di esser riuscita a dormire.
Massaggiandosi il collo, fece un giro per la stanza e meditò sul prossimo passo da fare. Fu sul punto di urlare, quando vide una strana presenza sul balcone.
Quando realizzò che era Red, tirò un sospiro di sollievo.
Lui la guardò divertito e la salutò con un cenno del capo.
Madison, osservandolo meglio, scoppiò a ridere. Aveva un completo bianco a pois verdi, uguale al pigiama che lei stava indossando. Sopra la testa, poi, era appollaiato il solito cilindro rosso.
“Perché ti sei vestito come me?” gli chiese ridacchiando.
Lui sbuffò, contrariato. “Io non sono in pigiama.”
“Se lo dici tu.”
“A questo proposito, direi proprio che è il caso che ti cambi, questo tuo completo è ormai logoro” disse lui, sardonico.
Madison si guardò, notando subito tutto lo sporco che la copriva. Pensò che probabilmente puzzava parecchio, ma questa cosa invece che ricoprirla di imbarazzo la fece sorridere.
“Mi stai proponendo di andare a fare shopping?” gli chiese, con uno sguardo sospettoso che più che altro era una presa in giro.
“No” rispose Red, con fare fintamente sofisticato “io porto lo shopping direttamente da te.”
In quel momento entrò in casa un asino -doveva essere Gianduiotto, pensò Madison-, che portava un enorme baule. Dietro di lui c'era Brownie, che brontolava come al solito.
L'animale si trasformò nel macaco, appena dopo aver messo giù il carico ai piedi della ragazza, e saltò sulla spalla di Red.
“Devi sapere che un modo per riconoscere le creature è anche vedere il loro abbigliamento: i vampiri sono soliti vestirsi di nero, grigio o un po' alla punk, i mannari sembrano usciti dall'armadio del nonno, le arpie non escono mai senza i tacchi: molto alla reginetta del ballo” diceva gesticolando e facendo delle buffe espressioni di quasi disgusto.
Mad ridacchiava. “Quindi se voglio capire cosa sono, l'abbigliamento mi può aiutare.”
“Esattamente.” Red schioccò le dita “Fammi vedere che sai fare.”
La ragazza aprì il baule, in cui c'era davvero di tutto.
“Quale creatura va in giro con un tutù rosa?” chiese leggermente sconvolta quando ne trovò uno. Dall'espressione del giovane capì che lui l'avrebbe potuto benissimo mettere.
Trovò un paio di jeans scuri e una maglia a mezze maniche color crema. Tirò poi fuori anche un giubbotto di pelle marrone, ma quello non aveva intenzione di metterlo, dato il caldo. Cercò il bagno e si cambiò.
Red sospirò e si passò una mano sulla fronte. “È uno stile tutto sommato normale, è possibile che il tuo stile cambi man mano che la creatura in te nasce, per ora non saprei dirti nulla.”
Le fece prendere alcuni altri vestiti, poi la guardò in modo piuttosto malizioso.
“Beh, non ti abbiamo preso la biancheria per ovvie ragioni. Quella dovrai comprarla tu” disse poi.
Mad arrossì leggermente. Ci pensò su, poi si schiarì la voce. “Non ho soldi, con me, e non so dove siano i negozi...”
Red rise. “Dato che sei nuova, ti darò io dei soldi, ma ti devi trovare un lavoro al più presto. Andiamo, figlia del potente guerriero.”
La ragazza lo fissò, interrogativa. E quello che avrebbe dovuto significare?
Notandolo, lui scrollò le spalle. “Non conosci neanche cosa voglia dire il tuo nome?”
Mad alzò un sopracciglio, ma non replicò.
I quattro si incamminarono, percorrendo le vie che bene o male Madison si ricordava aver attraversato quando erano giunti per la prima volta all'appartamento.
“Più o meno dove è la Città?” chiese la ragazza. Voleva sapere quanta strada aveva percorso dormendo, per semplice curiosità.
“Nessuno lo sa” rispose Red, scrollando le spalle. “Non importa da dove tu sia partito: tutti arrivano nove giorni dopo essersi addormentati. Tieni presente che qui c'è gente da tutto il mondo e sia australiani che norvegesi arrivano nove giorni dopo.”
“Avrei detto che è impossibile, ma in questi giorni ho deciso di mettere questo termine nelle parole che non esistono” replicò Madison, che si stava iniziando ad abituare a quella realtà. Ormai non si stupiva più così facilmente.
“Metaforicamente, spero. Non hai davvero una lista termini che non esistono, vero?” chiese Red. La ragazza lo guardò per vedere se stava scherzando e, vedendolo serio, alzò gli occhi al cielo.
“Certo che era metaforicamente.”
“Ah, se ti stai chiedendo se il GPS qui funzioni, la risposta è no” disse poi lui, ritornando alla domanda di prima.
“E i cellulari invece? Si possono utilizzare?” Madison non pensava che ne avrebbe potuto trovare uno lì.
“Solo per comunicare all'interno della Città. E niente social network, te lo posso assicurare: scordati Internet.”
Madison assimilò queste informazioni non senza un po' di confusione. Avrebbe capito pian piano.
A un certo punto, Red si fermò.
“È meglio che io non ti accompagni, non so quanto ti possa essere utile farti vedere con me. Di qui in poi ti accompagnerà Gianduiotto” disse.
Da parte sua, il macaco spiccò un salto dalla spalla di Red e si trasformò gradualmente in un umano.
Madison spalancò la bocca, Gianduiotto non era solo un ragazzo. Era un ragazzo bellissimo.
“Ti sei scelto proprio un aspetto niente male!” esclamò la ragazza, guardando il bel fisico del mutaforme e poi concentrandosi sui suoi occhioni blu. Fu felice del fatto che, per qualche strana legge che ancora non conosceva, Gianduiotto non fosse nudo.
Red e Brownie se ne andarono, mentre gli altri due proseguirono e si inoltrarono nel fiume di gente che abitava le strade.
Lui aveva una voce squillante, ma non fastidiosa. Le spiegò che non amava prendere aspetto umano, cosa che si vedeva molto bene dal modo in cui si muoveva, piuttosto impacciato. Le espressioni del suo volto riflettevano chiaramente tutto ciò che pensava: non era proprio degli animali tenere segrete le proprie emozioni, cosa che gli umani invece facevano quasi senza rendersene conto. Nello stesso modo anche le sue parole erano molto schiette e forse fu per questo che Madison si trovava molto a più a suo agio con lui che con Red, che era così misterioso e spesso vagamente ambiguo.
“Prima di entrare nella Città com'eri?” chiese la ragazza a un certo punto.
“Così. Meno bello, però: penso di avere inconsciamente adattato la mia forma al mio ideale di perfezione” disse, senza mezzi termini. “Però preferisco gli altri animali.”
Madison sorrise: non le sarebbe dispiaciuto essere una mutante. Di certo non per migliorare il suo aspetto fisico, ma per vedere cosa si prova ad essere qualcos'altro. Volare, respirare sott'acqua, o anche solo correre come fanno i gatti.
Arrivarono finalmente in una zona piena di negozi soprattutto di vestiti: la ragazza non riconobbe nessuna delle marche che c'erano nella sua città.
Gianduiotto le indicò un negozio di intimo e i due ci entrarono.
Madison prese ciò che le serviva e lo provò: per tutto il tempo che era stata nel camerino, il mutante era rimasto davanti allo scaffale dei reggiseni, visibilmente perso nei suoi pensieri. Non sembrava per niente interessato agli oggetti che vedeva, come avrebbe fatto un animale, e nemmeno minimamente imbarazzato quando la ragazza glielo fece notare.
“Perché è strano? Sono solo cose. Non sono prede, non mi interessano” aveva replicato lui.
Un brivido corse lungo la spina dorsale della ragazza. La persona, o più che altro l'animale, con cui lei più si sentiva a suo agio, si interessava solamente alle prede. E lei stessa avrebbe potuto essere una si quelle.
Si sforzò di cacciare quel pensiero dalla sua testa.
“Come mai il tuo soprannome è Whisky?” chiese Madison.
“Lo ha scelto Red” replicò, con la stessa espressione seria ma allegra che aveva da quando si era trasformato in umano. “Quando sei in difficoltà chiedi sempre aiuto al Whisky. Queste sono state le sue testuali parole e a me piaceva come parola: è armoniosa.”
Mad scoppiò a ridere: Red era ancora un mistero per lei, ma la ragazza aveva capito che, qualsiasi cosa fosse, lui era molto strano. E per questo, la nascita di quel soprannome era molto da Red.
Questo pensiero le fece venire un'idea per avere maggiori informazioni su di lui.
“Come mai sei così attaccato a lui, a Red?” chiese allora.
Gianduiotto non mutò la sua espressione. “Red è molto potente” disse “e di sicuro tutti conoscono il suo nome. Da qualcuno è benvoluto, da altri è odiato, ma è in ogni caso molto influente. Per me è un punto di riferimento: io sono i suoi occhi, lui è il mio modo di sopravvivere.”
Madison annuì, pensando che fosse quello il motivo per cui l'aveva accompagnata al negozio: se l'avessero vista con lui le sarebbero stati buttati addosso dei pregiudizi che difficilmente l'avrebbero fatta integrare. Ciò che disse Gianduiotto, però, non fece aumentare il mistero che ricopriva Red.
Dopo un po' che camminavano, Madison riuscì a intravedere il verde ambiente che circondava la Città. Fuori da essa, si estendevano campi di prato verde, che per qualche strana ragione la fecero iniziare a pensare ai Campi Elisi, il Paradiso della mitologia greca. Forse perché la Città era così tetra e il vento che passava tra gli edifici soffiava macabre minacce di morte, o perché Madison aveva ormai appreso che quello sarebbe stato un Inferno, eppure vedendo quel paesaggio fu invasa da una sensazione di pace interiore.
Qualcosa macchiò quella sua visione idilliaca: il movimento incerto di qualcuno che barcollava fino al limitare della Città.
Una ragazza dai lunghi capelli biondi, spaghetti che ondeggiavano seguendo il vento, si fermò sul confine con gli occhi chiusi. Stette immobile per qualche secondo, Madison la fissava senza riuscire a fare alcuna cosa.
La ragazza aprì finalmente gli occhi e in essi passò un'espressione di stupore e terrore. Poi crollò a terra.
Madison iniziò a correre verso di lei, mentre diverse emozioni passavano nel suo cuore: preoccupazione per quello che sarebbe successo e sollievo perché almeno non era più sola. Gianduiotto la chiamò e la affiancò, poi le prese un braccio fermandola.
“Cosa stai facendo?” esclamò “Red non aveva previsto un'altra nuova.”
Un moto di rabbia si accese in lei. Non avrebbe lasciato che quella ragazza se la cavasse da sola in quel mondo di mostri.
“Io non sono il cagnolino di Red” disse lei in un sussurro.
Si girò senza guardarsi indietro, decisa ad aiutare la nuova ragazza, con o senza l'aiuto di Gianduiotto.


*Angolo autrice*
Salve a tutti!
Eccoci col nuovo capitolo!
Beh, non ho molto da dire se non che spero vi piaccia la storia. Ci stiamo addentrando nel vivo della faccenda e fra non molto si farà la conoscenza con la Famiglia. Che vi aspettate? Cosa pensate dei personaggi?
Mi raccomando fatemelo sapere!
Cosa importante: le creature presenti nella storia hanno tutte un'origine folkloristica, ma sono state tutte reinventate da me, quindi ci tengo a dire che non sono completamente farina del mio sacco e che non sono neanche completamente uguali a quelle del folklore.
Al prossimo capitolo, 
StellaDelMattino

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Capitolo 5
*** The ones you shouldn't trust ***


Capitolo 4
The ones you shouldn't trust

 

Red la fissava con un'espressione impenetrabile. La stessa, da ormai un po' troppo tempo.
Madison aveva iniziato tutto un discorso per convincerlo del perché avesse portato lì quella ragazza, del fatto che volesse aiutarla e che avrebbe fatto a meno di lui, se avesse rifiutato. Era agitata, non più tanto certa delle sue azioni e, tanto per aggravare il tutto, Red la fissava in modo inquietante.
“Odio ripetermi” disse lui ad un certo punto. “Quindi le dirai tu quello che io ti ho detto finora. Può stare.”
Mad sospirò di sollievo.
La ragazza nuova, in compenso, se ne stava immobile, con gli occhi spalancati a fissare il vuoto. Era bianca in volto, quasi cadaverica. Ogni tanto aveva degli spasmi o si metteva a tremare.
Quando Madison era andata da lei dopo averla vista crollare, Gianduiotto si era trasformato in un orso e l'aveva sollevata, per poi portarla nell'appartamento. Ora era tornato umano e stava di fianco alla ragazza nuova, osservandola ma non dicendo nulla.
“Qual è il tuo nome?” chiese Mad, andandole vicino e posandole una mano sulla spalla. La nuova si girò di scatto, come improvvisamente risvegliata.
“Connie” mormorò. “Connie Douglas. Come posso tornare a Londra?”
Mad sorrise lievemente, con la tristezza negli occhi.
“Non puoi.”

***

Nei giorni successivi fu difficile far credere a Connie tutto ciò che Madison aveva appreso. Nonostante Red pensasse che un'altra esecuzione fosse l'ideale, Mad rifiutò categoricamente e prese come esempio Gianduiotto, che si trasformava continuamente molto volentieri.
Connie era timida, maldestra e sembrava anche molto ingenua. Madison stentava a credere che la nuova avesse davvero subito la maledizione, ma quando parlava del suo passato leggeva nei suoi occhi un dolore insostenibile, probabilmente lo stesso che avrebbe potuto leggere nei propri.
Inoltre, se anche poteva credere che Red non sapesse cos'era lei, era abbastanza certa che sapesse cos'era Connie. Aveva uno sguardo misterioso, mentre la guardava, e quando Mad faceva ipotesi su cosa potesse essere la nuova, lui sorrideva senza negare o confermare. Una volta gli aveva chiesto se lo sapesse davvero e lui aveva annuito: “Devi imparare a riconoscere le creature da sola. Questa sarà la tua prima vera chance.”
In quei giorni, inoltre, aveva iniziato a cercare un lavoro: qualcosa di semplice, cameriera o barista sarebbe andato benissimo, quindi era andata in ogni bar che vedeva. Per ora senza alcun successo.
Una sera entrò nell'ennesimo pub, con poca speranza. Il “De Vil” non era troppo lontano dall'appartamento di Madison, dove ora stava anche Connie, perciò sarebbe stato comodo lavorare lì.
All'interno, potevi trovare ogni genere di persone: c'erano quelli che se ne stavano in disparte, quelli che sembravano confabulare un attacco di stato, quelli che bevevano e si divertivano apparentemente senza pensiero. Mad si avvicinò al bancone, cercando di attirare l'attenzione della barista.
“Cosa ti servo?” chiese questa, con una voce tremendamente monotona. Aveva un aspetto eccentrico, con dei capelli rosa sparati in aria, ma aveva gli occhi spenti.
“In realtà volevo chiedere se fosse possibile per me lavorare qui, se vi serve personale...” rispose lei.
L'altra scrollò le spalle e sospirò. “Una barista è morta da poco.” Si girò e indico la foto di una ragazza sorridente. A Mad ricordò tanto la ragazza assassinata dai lupi e un brivido le percorse la schiena. “Ma il proprietario non c'è, ora. Torna domani, lo avvertirò.”
Madison sospirò, annuendo. Magari era la volta buona.
La barista fece per andarsene, ma la ragazza la fermò attirando la sua attenzione con una mano.
“Già che sono qui, non è che potresti darmi il cocktail più forte che fai?” chiese, prima di sedersi su una sedia davanti al bancone.
L'altra annuì, ma Madison la fermò di nuovo. “Non metterci cose strane, sangue o intrugli magici, per favore.”

La barista alzò un sopracciglio. “Certo. Mica siamo in un ristorante.” Poi se ne andò.
Mad rimase interdetta. “Questa è la cosa più inquietante che mi abbiano mai detto” si disse fra sé.
La sua attenzione fu attirata da qualcuno che si era messo a ridere, di fianco a lei. Evidentemente aveva sentito tutto il discorso.
“Non sei da molto nella Città, non è vero?” le chiese questi. Era un giovane, sui venticinque anni, con corti capelli biondi.
“No, lo ammetto” replicò Mad “Devo ancora abituarmi a tutte queste stranezze.”
“Fidati di me, per ora ne hai viste ancora poche” disse lui sorridendo: aveva un'aria sicura di sé e uno sguardo intenso, nonostante l'espressione divertita.
“Comunque io sono Madison” si presentò lei.
L'altro esitò, guardandola per qualche secondo senza muoversi.
“Capisco tutta la cosa del 'non fidarti di nessuno'” disse allora Mad “Ma non penso che un nome possa essere una condanna a morte.”
“Al” Le porse la mano il giovane.
La barista le portò in quel momento un bicchiere con un liquido blu e dei cubetti di ghiaccio. Madison la ringraziò, ma guardò il cocktail titubante.
“Secondo te davvero non ci ha messo cose strane?” chiese ad Al.
Lui sorrise. “Magari solo qualche allucinogeno.”
Madison impallidì e guardò il bicchiere come se fosse una bomba. Atomica.
Al rise, di gusto. “Stavo scherzando, puoi stare tranquilla.”
La ragazza sospirò di sollievo, poi gli sorrise. “Non farlo mai più.”
“Però dopo aver finito quello, non ti ricorderai neanche il tuo nome, ti avverto.” Lui bevve un sorso del proprio drink, probabilmente whisky. Che ironia della sorte.
“È solo un drink” replicò lei, prendendone un piccolo primo sorso dalla cannuccia. Per poco non sputò tutto: non era forte, era fortissimo. Così tanto che gli occhi le iniziarono a lacrimare e le orecchie a fischiare. “Cosa c'è qui dentro!” balbettò tossendo.
Al rideva, ma dopo un po' che tossiva le mise una mano su una spalla. Mad sentì una lieve scossa, nel punto in cui l'aveva toccata. Senza neanche rendersene conto, arrossì.
“Stai bene?” le chiese lui. I suoi occhi scuri erano bellissimi, sembrava che nelle iridi scorresse un vortice continuo, lento, pensò Mad, poi annuì, leggermente confusa.
Al chiamò la barista, dicendole di portare qualcosa da mangiare, poi questa arrivò con un mega hamburger e patatine fritte.
“Se non lo bevi con lo stomaco pieno rischi davvero di non tornare a casa.”
Madison gli lanciò uno sguardo divertito. “Sei un grande intenditore.”
“Non sai quanto” rise l'altro.
In ogni caso la ragazza seguì il suo consiglio e, dopo poco, il drink non sembrò così forte.
Mad si guardò intorno. La luce sembrava più tenue, rispetto a quando era entrata, i tavolini sparsi per il locale tutti occupati, il piccolo palco a ridosso di una parete era momentaneamente privo di spettacoli. Era tutto molto tranquillo, non sarebbe stato male lavorare lì.
Quando iniziò ad avere la vista leggermente sfocata, Madison decise che era meglio smettere di bere quel cocktail e che forse sarebbe dovuta andare a casa, non appena fosse tornata un pochino più lucida.
“Che c'è, begli occhi?” chiese ad Al, vedendo che la stava guardando, sorridendo. Il giorno dopo si sarebbe maledetta per quell'epiteto.
“Nulla” replicò lui, alzando le spalle.
Un gracchiare alle spalle di Mad attirò la sua attenzione: un corvo la fissava da dietro una delle finestre. Un corvo che repentinamente si trasformò in un macaco. Mad si chiese perché Gianduiotto fosse lì, ma sapeva di dover uscire dal locale.
“Devo andare” disse a Al. Cercò di attirare l'attenzione della barista, ma lui la interruppe.
“Ti offro io quello che hai preso. Come benvenuto nella Città” le disse. Lei sorrise e ringraziò gentilmente, prima di dirigersi verso la porta.
“A presto” la salutò Al.
Quando Madison uscì dal locale, Gianduiotto aveva forma umana. Guardava torvo dentro il pub, così perso nei suoi pensieri che la ragazza pensò che non si fosse accorto di lei.
Si schiarì la voce e lui girò lentamente il viso verso di lei.
“È meglio se non vai in giro da sola la notte. La Città è pericolosa di giorno, di notte è quasi sempre letale” disse, con un tono imperturbabile.
La riaccompagnò a casa, zitto e pensieroso.
Mad non fece caso al suo comportamento, un po' per l'alcool che aveva nel suo organismo, un po' perché Gianduiotto era spesso lunatico e leggermente bipolare.
In ogni caso, la ragazza pensò ad Al. Dal momento in cui l'aveva visto, le aveva dato una sensazione strana, quasi di sicurezza, ma anche di calma e sconvolgimento insieme. Era simpatico, gentile, spiritoso. Diffidente e tenebroso.
L'aveva fatta sentire a sua agio e anche fuori posto.
Di certo un po' troppe emozioni per un primo incontro: che creatura poteva essere, lui? Magari era uno stregone, si disse. Non aveva ancora inquadrato bene le streghe, anche se da sempre ne era attratta. Mad in cuor suo sperava di essere una di loro, ma ancora non conosceva le alternative abbastanza bene.
Ma se Al le aveva fatto provare quelle emozioni, si chiedeva ancora, quali erano fonte del soprannaturale, quali qualcosa di reale?
Per la prima volta, Madison si ritrovò a pensare che davvero non si poteva fidare di nessuno: se uno sconosciuto poteva davvero infonderle sensazioni che lei non avrebbe provato, chissà cos'altro poteva succedere.
Pensò a Gianduiotto: lui poteva diventare chi voleva, in quanti ancora avrebbero potuto pretendere di essere qualcuno che non erano?
In ogni caso, di Al, forse solo inconsciamente, si fidava. Il perché era ignoto. Se fosse causato dall'oscurità in lui, anche.


*Angolo autrice*
Buonasera a tutti! Ecco il nuovo capitolo!
Ve lo dico subito: dal prossimo capitolo si entrerà davvero nel vivo della storia. Come? Beh, con un incontro speciale e tanti nuovi personaggi.
Cosa ne pensate? Non ho descritto i primi giorni nella Città di Connie, più che altro perché avrei ripetuto un sacco di cose che già erano state dette a Mad. In ogni caso, impareremo a conoscerla :)
Al, invece? Cosa ne pensate di lui? Questo personaggio sarà molto.  Ma non vi anticipo altro: ancora non lo conosciamo.
Lasciate una recensione, se vi va, fa piacere :)
Ah, il prossimo capitolo arriverà fra qualche settimana: domani parto e starò via per un pochino. 
StellaDelMattino

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Capitolo 6
*** The Family ***


Capitolo 5

The Family

 

La mattina dopo, Madison non aveva altro che un leggero mal di testa.
Ringraziò di non aver avuto postumi peggiori, mentre sollevando la testa dal cuscino notava con piacere che la stanza non girava.
Arricciò il naso, mentre si accorgeva di un gradevole odore dolce, senza dubbio proveniente dalla cucina. Si alzò, incuriosita ma anche contenta e seguì il profumo, sempre più forte.
In cucina, Connie stava armeggiando con una padella, mentre canticchiava una canzoncina che Mad non riconosceva. Mentre si muoveva per la stanza, la coinquilina sembrava quasi fluttuare, i passi aggraziati involontariamente, i lunghi capelli biondi che tagliavano l'aria sembravano trasportati da un vento gentile.
Quando vide Madison, le rivolse un sorriso entusiasta e le indicò qualcosa nella padella.
“Ho fatto i pancake” disse. L'altra alzò un sopracciglio, non pensava neanche che quei fornelli funzionassero davvero. In ogni caso, la cucina sembrava più pulita e funzionante.
Vedendo che era confusa, o perlomeno stranita, Connie scrollò le spalle. “I nostri tre amici ci hanno dato una mano” spiegò.
Con “i nostri tre amici” non poteva che intendere Red, Gianduiotto e Brownie, pensò Madison, e già si immaginava la scena: Red che ciondolava qua e là, Brownie che si lamentava in continuazione e che così facendo faceva lamentare anche Red, mentre Gianduiotto si limitava a lavorare, per nulla affaticato, ignorando gli altri due.
Il fatto che Connie li avesse definiti come loro amici, fece adombrare l'umore di Madison: anche per lei erano la cosa più vicina a un amico che avesse avuto, ma fin da quando era entrata nella Città le era stato chiarito che non doveva fidarsi neanche di loro, cosa che Connie ancora non aveva ben capito.
“Sono venuti qui ieri sera, quando non c'eri, e hanno messo a posto tutta la cucina. Sono stati molto veloci! Non chiedermi cosa hanno fatto” continuò l'altra, scrollando ancora una volta le spalle.
Madison si sedette al tavolo, Connie le avvicinò un piatto con un pancake e una tazza di caffè, poi prese il suo pasto e si sedette al tavolo. La carnagione era ancora più chiara, da così vicino, a volte sembrava che fosse quasi vitrea.
Chissà se esistono i fantasmi, pensò Mad. Se la risposta fosse stata positiva, allora era piuttosto certa che Connie fosse uno di essi.
Mangiò la colazione e decise che la coinquilina sarebbe stata una cuoca perfetta, poi si concentrò sul da fare della giornata.
Si chiese per quale motivo Red e la sua combriccola non si fossero ancora fatti vivi e, quando un piccione passò di fianco alla loro finestra, Mad si ritrovò a pensare che fosse Gianduiotto. Incredibile ma vero, dopo aver capito che non era lui, la ragazza si chiese se effettivamente ci fossero animali che erano animali e basta, in quel luogo. Si appuntò mentalmente di fare quella domanda a Red, quando l'avesse visto.
Inizialmente aveva pensato di andare al De Vil di sera, ma si era instaurato nella sua mente come pensiero costante e continuamente non faceva che agitarsi a quel proposito. Il pensiero che doveva trovare un lavoro l'aveva preoccupata tanto, in quei giorni, e ora che aveva la possibilità di essere assunta, non riusciva a concentrarsi su altro. Una piccola parte del suo cervello pensava inconsciamente che se avesse lavorato lì, avrebbe rivisto Al, ma Madison si rifiutò di pensare che anche quello fosse un motivo della sua impazienza.
Decise, quindi, di andarci verso mezzogiorno, sperando che fosse aperto e che il proprietario ci fosse, quella volta.
All'ora stabilita, dunque, si incamminò.
Compiaciuta che davvero il pub non fosse molto lontano da casa loro, entrò in esso col cuore in gola.
C'era molta meno gente, di giorno, ma a lei non dispiacque più di tanto. Si avvicinò al bancone, riconoscendo la stessa barista del giorno prima. Dovevano essere davvero a corto di personale.
“Ciao” cominciò Madison, con un sorriso che mascherava l'ansia. “Sono passata ieri sera per il posto di lavoro, non so se...” Non fece in tempo a finire di parlare che la barista la interruppe.
“Io sono Zwinky, tu hai parlato con la mia gemella Twinky. Io ho i capelli blu” disse, con una tonalità tremendamente monotona, come la sorella. “Mi ha informata, in ogni caso. E io ho informato il proprietario. E lui ha detto di farti due domande, prima di assumerti. E poi di assumerti se avessi dato le risposte giuste.” Fra una frase e l'altra, la barista faceva brevi pause in cui respirava profondamente.
“Cioè delle specie di indovinelli?” chiese Madison vagamente divertita e atterrita allo stesso tempo. Zwinky non rispose alla sua domanda né cambiò tono o espressione.
“Hai esperienza?” chiese dopo aver respirato abbondantemente.
“Ho lavorato due anni in un bar e un anno in una discoteca” rispose Mad riprendendo la serietà.
Zwinky inspirò. Passarono un paio di secondi di troppo, poi espirò.
“Cosa sei?”
Madison esitò. Se quella era una domanda per l'assunzione, era davvero messa male.
“Sono nuova. Per ora sono... Non lo so ancora” rispose. Stava per dire che era umana, ma un dubbio nella sua mente l'aveva fermata. Effettivamente, lei non sapeva se era mai stata davvero umana.
Dopo un momento di pausa in cui la barista stette completamente immobile, diede il suo giudizio.
“Assunta." 

Madison si sentiva felicissima.
Dovette davvero trattenersi per non iniziare a saltellare per il locale, cosa che di certo non sarebbe stata molto gradita.
Avrebbe iniziato lavorando solamente tre sere a settimana: il venerdì, il sabato e il martedì, ma a lei andava benissimo. Ora aveva fatto un passo verso la sua completa indipendenza.
Avrebbe fatto alcuni mesi di prova, aveva detto la barista, più che altro per vedere se sarebbe sopravvissuta alla Città abbastanza a lungo da poter avere un contratto. Mad non fece troppe domande e si accontentò, almeno per il momento, per esser sicura di non far cambiare idea sulla sua assunzione.
Quando fu uscita dal bar, fece qualche passo, poi non riuscì più a contenere l'emozione. Saltellò sul posto sussurrando qualche “sì” e stringendo i pugni. Poi si fermò, respirò profondamente e si incamminò verso la strada di casa.
L'euforia stava calando e ormai era quasi arrivando all'appartamento, quando gli si parò davanti uno sconosciuto. I capelli neri erano rasati al lato della testa, mentre erano più lunghi sopra, in una pettinatura da marine, l'orecchio sinistro era pieno di piercing e un altro c'era anche su un sopracciglio. Gli occhi, scurissimi, si incontrarono con quelli di Madison e un ghigno si formò sul suo viso, un luccichio proveniva anche da un labbro, per un altro piercing. Le mani erano infilate nelle tasche del giubbotto di pelle nero e nella sua altezza incombeva sulla ragazza. Di fianco a lui, si stagliavano ombre scure con sembianze umane.
Il cuore di Madison iniziò a martellare nel suo petto e lei sobbalzò, poi congelandosi sul posto. Questo tizio non sembrava avere alcuna buona intenzione e sebbene Mad cercasse di pensare che non avrebbe dovuto giudicare all'apparenza, lo sconosciuto non sembrava proprio il tipo che chiede una firma per il sostegno dell'ambiente o per l'aiuto agli anziani. Tutt'altro, era sicura che se fosse stato un pluriomicida, sarebbe stato uno di quelli che non si fanno beccare mai.
Pensò di scappare, ma era certa che quel “Jack lo squartatore” aveva pensato all'eventualità e aveva scagnozzi o complici lì da qualche parte. Combattere? Impossibile. Forse chiedere aiuto prima che fosse troppo tardi avrebbe potuto essere l'unica soluzione.
Mad aprì la bocca per urlare, ma con una prontezza imprevista, “Jack” ci mise una mano sopra.
Prima ancora che pensasse a qualcos'altro, fu avvolta dal buio.

Madison non capì esattamente cosa successe dopo. Fra lo spiacevole incontro con lo sconosciuto e la situazione attuale, c'era solo una confusa sensazione di giramento di testa e voltastomaco, per niente piacevoli.
In quel momento si trovava da qualche parte non meglio identificata, seduta da qualche parte, probabilmente con un sacco nero in testa: molto da rapimento o base top secret.
Sentiva rumori differenti: più che altro tonfi e parole sussurrate che non capiva.
Durante quel momento confuso, un'idea si fece strada nella sua mente: quello doveva essere il colloquio con la Famiglia, non c'era altra spiegazione. Se non altro, quello era uno dei pochi motivi per cui “Jack” non l'avrebbe uccisa.
Gli altri motivi erano un commercio illegale di persone o uno scienziato pazzo che la voleva analizzare, ma Madison si cercava di convincere che in una Città dei mostri quelle cose non fossero possibili.
In ogni caso era agitata da morire.
Si ripeteva continuamente le regole che le aveva detto Red, regole essenziali per la sua sopravvivenza, e cercava di calmarsi pensando che in ogni caso aveva appena ottenuto un posto di lavoro. Sapendo di rischiare la morte, però, non era una gran consolazione.
Ad un certo punto, pensò che lì da qualche parte ci doveva essere anche Connie e sperò che non avrebbe dimenticato cosa doveva e non doveva fare, soprattutto perché lei non era il genere di persona che crede che esista davvero il male. Era così ingenua, nonostante la maledizione della Città, tanto che Mad iniziò a preoccuparsi per lei più che per sé, che almeno sapeva ciò che doveva fare.
Finalmente le fu tolto il sacco dalla testa e Madison sbatté le palpebre qualche volta per riabituarsi alla luce. La prima cosa, o più che altro persona, che mise a fuoco fu lo sconosciuto che l'aveva rapita. O, come lo aveva ormai soprannominato nei suoi pensieri, Jack lo Squartatore. Era di fronte a lei, in piedi, con un cipiglio severo. La sua attenzione, però, non era su Madison.
La ragazza si concentrò poi sul posto in cui era. Si trovava decisamente in una villa, piuttosto lussuosa, in una grande stanza che avrebbe anche potuto identificare come un ipotetico ingresso. A destra e a sinistra c'erano delle scale che portavano al piano superiore e, probabilmente, convergevano a una terrazza interna che dava proprio alla stanza in cui si trovava lei: non lo verificò, provando la strana sensazione che sarebbe stato meglio se non avesse alzato lo sguardo. Di fianco a lei, altre persone erano sedute o inginocchiate, con le mani legate.
Sulla sinistra, distesa su un lungo divano rosso, stava una donna sui trentanni, che fumava tranquillamente. Aveva un lungo vestito rosso chiaro ed era di una bellezza inquietante, si identificava in tutto nelle femmes fatals che a volte Mad leggeva nei libri o vedeva nei film. Dalla parte opposta della stanza, alcuni uomini chiacchieravano o guardavano torvi verso di loro.
Jack ridacchiò, attirando l'attenzione di tutti i rapiti.
"Scusatemi" disse poi "ma avete proprio un'espressione divertente, sembrate dei topi in gabbia."
Madison sentì il ragazzo di fianco a lei sbuffare. Sperò che fosse un rantolo o un singhiozzo, così magari non sarebbe morto, ma qualcosa le disse che quello non poteva essere che il primo segno di un'anima insubordinata. Cercò Connie con lo sguardo, vedendola un po' più in là. Sembrava un po' spaventata, ma in linea di massima sembrava avere un certo contegno.
In tutto, i rapiti erano solamente una decina.
“Nel caso voi non lo sappiate, noi siamo la Famiglia” riprese allargando le braccia e indicando tutti i presenti.
Nessuno fiatò.
“Questo colloquio è una cosa per voi, quindi non siate spaventati o almeno non troppo. Vi aiuteremo a capire perché siete qui, ma soprattutto cercheremo di farvi capire cosa siete. La Città non è molto indulgente con chi ha dubbi.” Rise, da solo, come se trovasse divertente il vedere delle povere anime in preda al terrore. E probabilmente era proprio piacevole, per lui, cosa che di certo non poteva essere rassicurante.
Il ragazzo di fianco a Mad, un magrolino con grandi occhi azzurri chiaro, sbuffò per una seconda volta. “Perché ridi, se vuoi aiutarci?” chiese in uno strano tono fra l'innocente e l'insolente. 
Un lampo sembrò passare negli occhi di Jack. Sembrava una vena omicida, ma la mascherò con un po' di fastidio.
“Nuovo, non pensare che perché vi aiutiamo non siamo da temere. Già solo questa tua frase ti potrebbe costare la vita, quindi sta zitto” rispose quasi con rabbia.
Quel ragazzo sarebbe morto, Mad se lo sentiva. Lo vide scrollare le spalle, ma tacere, quindi sperò che l'altro sarebbe stato indulgente.
Doveva essere lui il temuto Alexander Morales, pensò.
Certo, aveva senso: era l'unico che parlava e sembrava essere il capo. Se fosse davvero stato lui, per il magrolino non c'era alcuna chance di sopravvivenza.
La cosa che però sembrava strana a Mad era che era stato lui ad andarla a rapire. Quando mai un capo avrebbe fatto una cosa del genere, andare a recuperare un'insignificante ragazza di persona?
“Stavo dicendo...” ricominciò Jack “Molti di voi sapranno che siete in una città di esseri sovrannaturali, specificamente nella Città dei mostri. Magari ora pensate che non fareste mai del male ad una mosca, magari avete già imparato che nella Città ciò non è possibile. Che vogliate o no, diventerete dei mostri.”
Madison rabbrividì. Quella era forse la parte che meno preferiva della Città, quella che in un certo senso le faceva più paura. Molta più paura.
Il ragazzo di fianco a lei a quanto pare non era dello stesso avviso: mentre Jack/Alexander li guardava con fare minaccioso, lui gli rivolgeva uno sguardo curioso, ma allo stesso indifferente dai pericoli. Doveva essere pazzo. O stupido.
“Cosa non hai capito del fatto che ti potrei uccidere?” gli chiese lui quando notò lo sguardo. Si avvicinò, lentamente, ma il ragazzo non distoglieva lo sguardo. “Dimmi il tuo nome” gli impose.
“Virgil Ash” rispose l'altro, lo sguardo ancora sicuro.
“Bene, Virgil” riprese Jack “Devo ammettere che dato che sei così coraggioso, meriti che il tuo nome si sappia, ma la tua morte sarà un esempio per gli altri, che devono tenere la bocca chiusa e devono temere fin da subito!” urlò quasi, accecato dalla rabbia. Mentre Jack stava probabilmente per colpire mortalmente Virgil, qualcosa si mise davanti a lui: anzi, qualcuno.
Con un salto, probabilmente dal terrazzo che dava sulla stanza, una persona si parò davanti al membro della Famiglia.
“Andiamo, Amon” incominciò il nuovo arrivato. “Ti sembra questo il modo di dare il benvenuto ai nuovi arrivati?” Si girò allora verso i rapiti e passò uno sguardo su tutti loro, con la lentezza e la crudeltà di un aquila che sceglie una preda. Mentre incrociò lo sguardo di Madison, strinse la mascella e nei suoi occhi passò un lampo di dispiacere. La ragazza non poté fare a meno di fissarlo, le labbra che si dischiudevano in un'espressione di stupore puro.
“A lui non piacciono molto quelli che parlano molto” riprese poi indicando Amon. “Devo dire che neanche a me fanno impazzire, ma oggi sono di buon umore.”
Non c'erano dubbi, quello era Alexander Morales.
Ma, prima che quel pensiero giungesse alla mente di Madison, ne era arrivato un altro: quello era Al. Il ragazzo simpatico e tenebroso che aveva conosciuto il giorno prima e le aveva offerto da bere si era rivelato la persona da temere di più in tutta la Città.
Lei non aveva solo guardato Alexander Morales: ci aveva anche parlato.
E lo aveva chiamato “begli occhi”. Quella fu forse la consapevolezza più spiacevole di tutta la sua vita.

*angolo autrice*
I'm back! 
Buonasera lettori! Mi scuso della mia assenza: sono stata via due settimane senza avere a disposizione un computer nè il tempo di scrivere un capitolo. Spero di essermi fatta perdonare con questo, che è un po' più lungo del solito e che è denso di avvenimenti. Suvvia, qualche commento! Non vedo l'ora di sapere cosa ne pensate! I nuovi personaggi vi piacciono? 

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Capitolo 7
*** Creatures ***


Capitolo 6

Creatures

 

Madison rimase con la bocca spalancata per qualche secondo, fissandolo.
Alexander Morales non ricambiava il suo sguardo, ma percepiva la sua espressione, la sua sorpresa, la sua confusione. Stava in piedi, imperioso su tutti i rapiti, con un'espressione superba, divertita. Con uno sguardo sembrava dirti che la tua vita era nelle sue mani.
Temetemi, annunciava il suo comportamento.
Quando, finalmente, posò il suo sguardo su Mad, si fermò per qualche secondo.
La ragazza si ricordò ciò che le aveva detto Red, quindi distolse lo sguardo repentinamente, con il cuore che batteva all'impazzata. 
Sono morta, pensava, ma non riusciva davvero a credere che lui l'avrebbe uccisa.

“Il motivo per cui siete qui” incominciò Alexander dopo qualche secondo “O meglio, ciò che vi vogliamo insegnare, è quale creatura siete.”
Rivolse uno sguardo ad Amon e con un gesto della mano gli fece segno di continuare. Questi dunque fece un passo avanti e prese parola.
“Innanzitutto, le creature si dividono in tre principali categorie: vivi, non-morti e mai-vissuti. Se siete creature vive, beh, lo sappiamo tutti cosa si prova ad essere vivi. Le altre due tipologie di creature partono essendo vive: i non-morti, banalmente, prima o poi muoiono. Quindi non preoccupatevi se in questi giorno vi sembrerà di essere finiti in una copia più inquietante di Final Destination, significa semplicemente che state per morire. Se invece smetterete progressivamente di vivere, allora sarete una creatura mai-vissuta. Cosa vuol dire smettere di vivere? Un giorno vi sveglierete e il vostro cuore non batterà più.”
Aspetta, cosa?
Madison aveva ascoltato attentamente, ma non aveva potuto fare a meno di aggrottare un sopracciglio e storcere il naso, sempre di più, fino a che i muscoli della sua faccia non iniziarono a farle male. Allora capì che forse era il caso di rilassarsi un secondo e riflettere su ciò che aveva sentito.
Ok. Tre tipologie di creatura.
Aveva due possibilità su tre di morire in quei giorni e solo una possibilità di morire di morte violenta, se avesse calcolato solo quelle che prevedevano che lei rimanesse viva dopo la morte, più o meno. Non troppo morta, più che altro.
Non era un granché come inizio.
Amon ridacchiava sotto i baffi, palesemente. Giocherellò con un piercing che aveva al sopracciglio, prima di ricominciare a parlare.
“Le creature vive si riuniscono in branchi o congreghe, i primi per i lupi e i gatti, le seconde per le streghe e le arpie. Questi quattro sono i più comuni tipi di creature vive.” Smise di parlare ed andò verso il primo della fila dei nuovi. Lo guardò per un secondo, poi, camminando, fece scorrere il suo sguardo su tutti.
Dopo aver finito il giro, ritornò verso una ragazza, dai tratti vagamente orientali, o più che altro dai tratti felini. “Congratulazioni” le disse, mentre questa tremava “non morirai. O almeno, non per tua natura. Sei una Nekomusume: un gatto, praticamente. Appena uscirai di qui, cerca un branco.”
Amon fece poi un passo indietro e tornò a parlare a tutti i nuovi. Alexander Morales, intanto, si era appoggiato ad una parete un po' più in là, gambe e braccia incrociate. Guardava l'altro fare il suo lavoro, con aria distaccata.
Madison ogni tanto lo guardava, ma non incrociò più il suo sguardo.
“Gli altri vivi semplicemente possono diventare creature aiutanti. Bracci destri, tirapiedi. Cose del genere. In ogni caso, così come fanno gli esseri umani, non conoscono il concetto “chi fa da sé fa per tre”. Così sono i mutanti, ad esempio, oppure le banshee.”
Il sarcasmo vagamente disprezzante che Amon metteva in quella spiegazione faceva venir voglia a Madison di prenderlo a randellate sui denti, ma al tempo stesso la faceva tranquillizzare, allentava un po' la tensione. Lo avrebbe volentieri preso a randellate in ogni caso.
Mad pensò a Gianduiotto: lui era proprio questo, alla fine, un braccio destro. Le banshee, in compenso, per lei erano ancora un mistero, sebbene riconoscesse che ne era in qualche modo affascinata. Voleva saperne di più.
“Per quanto riguarda i non-morti e i mai-vissuti: entrambi possono sia stare in comunità sia adattarsi alla completa solitudine. Ciò che è certo è che le emozioni legate alle altre persone, sono molto diverse. I legami affettivi si limitano al tutto o niente. O do la mia vita per te, o ti uccido per sopravvivere felicemente.”
Madison rabbrividì.
La convinzione di non voler morire crebbe a dismisura.
Lei voleva solo essere normale. Voleva solo essere una semplice umana.
Si chiese in quanti in quel momento stavano pensando alla stessa cosa e, dagli sguardi che vedeva, capì che erano davvero in molti. La ragazza che Amon aveva indicato come essere un gatto sembrò sospirare di sollievo.
Madison avrebbe voluto fare lo stesso.
“Esistono gli zombie?” chiese una voce nello sconforto generale. Mad capì subito che a parlare era stato Virgil Ash, il ragazzo di fianco a lei, che a quanto pare voleva proprio morire. Forse, semplicemente, doveva morire.
Amon lo guardò con l'espressione più umana che Madison gli avesse visto da quando l'aveva rapita. Esasperazione, pura e semplice esasperazione.
Si girò, lanciando uno sguardo ad Alexander, che da parte sua se le rideva.
Amon sbuffò contrariato, girandosi verso Virgil e guardandolo con un'espressione al limite dell'omicida.
“Gli zombie non sono altro che umani sottoposti al contatto di un aerico, che è un demone infettivo” spiegò, scocciato. Alla parola 'demone' nacque una sorta di brusio spaventato, mentre tornava l'atmosfera da film dell'orrore che Amon aveva instaurato con tanto divertimento e, anche se non l'avrebbe mai ammesso, orgoglio.
“Eh, già, demoni. Fanno parte quasi tutti dei mai-vissuti.” Si zittirono tutti alle parole di Amon, che palesemente gongolava fra sé e sé. Quello doveva essere il suo argomento preferito, pensò Mad. “Anzi” aggiunse poco dopo, con un'espressione diabolica. “Dovrei dire: facciamo parte quasi tutti dei mai-vissuti.”
Tutti i nuovi si gelarono sul posto.
Beh, quasi tutti.
Mad non era troppo impressionata, in realtà, più che altro perché mentre il demone parlava con tutto il suo orgoglio gli sembrava molto più umano di quanto avrebbe detto all'inizio. Quasi le sembrava di vedere chiaramente i balletti che si svolgevano nella sua mente in quel momento: quello di certo non era un qualcosa di demoniaco. La ragazza per poco non si mise a ridere.
Nell'apoteosi della momento di soddisfazione del demone, intervenne Virgil, per nulla impaurito.
“E gli alieni esistono?”
Mad avrebbe detto che neanche Alexander sarebbe riuscito a trattenere Amon, in quel momento. Divenne completamente rosso di rabbia in viso e i suoi occhi quasi sembrarono essere iniettati di sangue.
“Giuro che ti...” Amon non fece in tempo a finire la frase che interrotto da Alexander, che ridendo si era avvicinato, nel tempestivo tentativo di non fare uccidere Virgil, di nuovo.
“Felix” iniziò Al rivolto ad Amon. “Non prendertela troppo se un bambino ti interrompe” disse con disprezzo.
Felix? Madison storse un sopracciglio. Davvero qualcuno aveva chiamato Felix quell'irascibile demone presuntuoso? Non sapeva se augurarsi che fosse solo un infelice soprannome o che fosse il suo nome di battesimo, dato da dei genitori ancora ignari della sua natura. Amon allora doveva essere il cognome.
In ogni caso, Alexander Morales andò davanti a Virgil e lo guardò con uno sguardo gelido.
“Alzati” ordinò.
Per la prima volta, Madison vide titubanza, forse timore, nello sguardo del ragazzo di fianco a lei.
Virgil si alzò. Non era molto più basso di Alexander, eppure sembrava essere un bambino di fronte al padre severo, proprio dopo aver fatto una marachella che gli sarebbe costata cara. Molto.
Non ucciderlo, pregò Madison. Non era ancora pronta ad assistere ad un omicidio così ravvicinato, né a vedere Al essere un assassino.
Alexander non fece assolutamente nulla. Stava semplicemente davanti all'altro, lo fissava. Eppure qualcosa stava succedendo in Virgil: sembrò essere improvvisamente colto da un incredibile malessere, come se un uragano stesse passando dentro di lui. Forse lo stava uccidendo davvero.
Si accartocciò su se stesso, cadendo in ginocchio.
Quando Alexander smise di guardarlo, Virgil riprese a respirare, prima ancora che si rendesse conto di aver smesso di farlo.
Il capo della Famiglia si piegò verso di lui. “Ringrazia che sono intervenuto io o Felix non sarebbe stato così gentile” gli sussurrò.
Madison si chiese cosa gli avesse fatto. Forse per questo Red le aveva detto di non guardarlo: con un semplice sguardo aveva causato molto, molto dolore.
Non riuscì a fare a meno di pensare ai suoi bellissimi occhi che sembravano contenere un tornado. Forse in sé ne conteneva davvero uno.
“No, non esistono alieni. O almeno voi avete problemi più grandi da affrontare, qui e ora” riprese Alexander rivolgendosi a tutti i nuovi. “E quei problemi siete voi stessi. Dovete imparare a capire e gestire quell'oscurità di cui non potete fare a meno, che voi lo vogliate o meno. Chi deve morire morirà, chi non lo deve fare, vivrà. Ma tutti voi ucciderete, siete qui per questo. La vera domanda che dovreste porvi è: in una città in cui tutti sono destinati a uccidere, sarete vittime o mostri?”

Non dissero molto altro, dopo l'ultimo intervento di Alexander, né cose che Madison ancora non sapeva.
Per la prima volta da quando era nella Città, la ragazza sentì che davvero qualcosa era cambiato. L'oscurità in lei, quel giorno, le sembrò reale.
La morte, vicina.
La sentiva attorno a lei e ogni volta che vedeva una persona si chiedeva se sarebbe morta in quella città.
Percorse le notturne strade con Connie, ma stettero in silenzio per tutto il viaggio. Sembrava che per entrambe il mondo si fosse terribilmente incupito nel giro di poche ore.
Red le stava aspettando davanti alla porta di casa.
Mad sperava di poter semplicemente andare a dormire, dopo tutti gli eventi della giornata, ma l'altro non sembrava dello stesso avviso.
Gianduiotto e Brownie non c'erano, stranamente: con amarezza, Mad pensò che stavano facendo il lavoro sporco per Red, di sicuro. Ripensò poi alle parole di Felix, i sentimenti “tutto o niente” provati dai morti e rabbrividì. Di sicuro Red era morto. E sapeva che i sentimenti verso di lei erano "niente": cosa avrebbe dovuto impedirgli di sacrificarla per un qualsiasi motivo?
Connie salutò Red con meno affetto di quello che usava solitamente, forse le parole di Amon avevano toccato anche lei. Forse era solamente stanca.
Le due ragazze entrarono in casa, ma quando Red cercò di entrare, Mad fermò la porta.
“Dimmi che creatura sei o non metterai più piede in questa casa” affermò più decisa che mai.
Red, in risposta, sorrise. “Vedo che stai iniziando a capire” commentò tranquillo. “Scommetto che hanno ucciso due nuovi.”
Lui sapeva che l'incontro con la Famiglia sarebbe stato quel giorno, pensò Mad. Per quello non si erano fatti vedere di mattina, come avevano sempre fatto. Si diede della stupida per non averci pensato prima: ovviamente Red lo sapeva. Lui sembrava sapere ogni cosa.
“Non è morto nessuno” replicò lei a denti stretti. Ora era arrabbiata, molto arrabbiata. Quasi ferita.
Red sembrò essere stupito. Solo un lampo di sorpresa passò nei suoi occhi, leggermente si aggrottarono le sopracciglia. “Strano” mormorò quasi impercettibilmente.
“Amon stava per uccidere un ragazzo, ma...” Deglutì, doveva dire quel nome. “Alexander lo ha fermato. Due volte: la seconda ha guardato il nuovo e gli ha fatto qualcosa, ma non saprei esattamente dire cosa.”
Red strinse la mascella, ma la sua espressione non mutò. Scrutava Mad con un'espressione quasi da predatore, avvicinandosi leggermente.
“Cosa sei?” chiese ancora Mad. “E voglio i dettagli o non farti più vedere.”
Aveva preso una decisione: mai più di allora si rendeva conto di quanto le apparenze potessero ingannare e ormai sapeva che in quella città ognuno aveva un lato oscuro. Era ora di limitare le proprie amicizie -sempre che si potessero definire tali- a coloro dei quali, almeno, conosceva la natura.
E che non sembravano volerla usare per chissà quale motivo.
L'arrivo di Red nella sua vita non aveva fatto altro che farla sentire in gabbia. Lui l'aveva aiutata, ma da subito aveva capito che non era stato un aiuto per amore del prossimo. Red non si preoccupava di lei, non gli importava se fosse vissuta o morta, per lui era un niente sacrificabile. Un oggetto per uno scopo che lei ancora non conosceva.
In quella Città non esisteva l'altruismo, Mad l'aveva capito. Doveva imparare anche lei a compiere azioni che avessero un fine ben preciso.
O Red avrebbe smesso di fare il misterioso, iniziando col dire che creatura era, o le sarebbe dovuto stare lontano.
La guardò ancora per qualche momento, poi si tolse il cilindro rosso e fece una reverenza muovendolo.
“Addio, Mad, cerca di non impazzire troppo in questi giorni.”

 


*Angolo autrice*
NB: per chi non sapesse cos'è Final Destination: è un horror in cui tutti i personaggi sono destinati a morire, molti in modi davvero molto... pittoreschi.
NB2: a proposito dell'ultima frase di Red: è un gioco di parole. In inglese, Mad vuol dire anche pazzo e to get mad vuol dire impazzire. 
Buonasera! Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Ora sappiamo un po' di più sulle creature e nei prossimi capitoli, già ve lo anticipo, pian piano scopriremo cos'è Mad. E non solo lei.
Dispiaciuti dell'addio di Red? Lo rivedremo, tranquilli. Quando e come, lo scoprirete continuando a leggere!
Al prossimo capitolo, 
StellaDelMattino

 

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Capitolo 8
*** Smile, the worst is yet to come ***


Capitolo 7

Smile, the worst is yet to come

 

“Perché non me lo hai fatto uccidere?” gridò Amon, camminando a grandi passi verso Alexander. Stringeva i pugni e i suoi occhi scuri erano pieni di rabbia.
L'incontro era ormai finito da qualche ora, ma non riusciva a passar sopra al fatto di non aver potuto uccidere quell'impertinente.
Alexander alzò un sopracciglio, vagamente annoiato. Si girò verso di lui, con calma, ed incrociò le braccia sul petto.
“Perché lo volevi uccidere così tanto?” chiese allora di rimando.
Felix avrebbe voluto rispondere con un banale “L'ho chiesto prima io”, ma sapeva che sarebbe risultato infantile. Già solo con la prima domanda, Alexander lo aveva messo in un angolo, facendolo sentire stupido. Strinse i pugni e serrò la mascella, soppesando le parole da pronunciare.
“È di protocollo: uccidere i temerari e i troppo vili per insegnare agli altri ad essere cauti.”
Alexander sorrise e si avvicinò a Felix, dandogli qualche leggera pacca su una spalla.
“Per questo ti ammiro molto e so di poter contare su di te, tu riesci a vedere il motivo dietro a un assassinio” disse a voce bassa, fissandolo negli occhi, sapendo così di addolcire l'umore dello scontroso Amon. “Ma ho pensato di fare un esperimento oggi: ora devi capire che a volte c'è un motivo anche dietro a un salvataggio. Semplice: i più stupidi penseranno semplicemente che abbiamo compassione, poveretti. Gli altri avranno compreso anche meglio che la loro morte o sopravvivenza dipende da noi ancor più che da loro stessi.”
Felix non replicò. Il suo animo era ancora turbato: ogni volta che si sentiva placato rivedeva gli occhioni insolenti di Virgil, ma sapeva bene che la risposta di Alexander era definitiva e non ammetteva repliche.
Era stato più che altro un dialogo fra bugiardi: risposte plausibili, giustificazioni che loro stessi si davano a una domanda a cui non era ancora tempo di dare una risposta.

***

Per quanto Mad si aspettasse di passare la notte in bianco, in realtà sia lei che Connie si addormentarono non appena toccarono il letto.
“I nostri cervelli saranno stati un po' traumatizzati e si sono presi una pausa fino a mezzogiorno” disse Mad alla coinquilina il giorno dopo, guardando l'orologio. Aveva mal di testa e si sentiva terribilmente giù di morale.
“Avrei preferito si prendessero una pausa di un anno almeno, mi sarebbe servita” replicò Connie. Aveva un velo di tristezza, negli occhi, ma sorrideva leggermente.
Con il suo passo fluttuante, la ragazza si diresse in cucina e Madison la seguì in silenzio. Si sedette a tavola mentre l'altra cucinava, con i lunghi capelli raccolti in una coda disordinata.
“Ora come prima cosa dobbiamo capire cosa siamo. Anche se non so come possiamo fare...” disse Mad, passandosi una mano sulla fronte.
Connie annuì. “Ho paura che l'unica cosa che possiamo fare è aspettare.”
In quel momento qualcuno bussò alla porta.
Davanti all'entrata dell'appartamento c'era Gianduiotto, in forma umana.
Madison, di primo istinto, gli chiuse la porta in faccia.
Connie alzò le sopracciglia e sorrise. D'un tratto, il suo sguardo si era illuminato.
“Non ti sembra di esagerare un pochino?” chiese ridacchiando.
Mad scosse la testa. “Non mi aspettavo di vederlo.”
Gianduiotto bussò di nuovo e questa volta la ragazza lasciò la porta aperta, senza però farlo entrare.
“Se Red ti ha mandato qui per convincerci a cambiare idea, puoi anche tornare da dove sei venuto” gli disse, decisa.
Lui scosse la testa. Teneva lo sguardo fisso su Mad, ma spesso lanciava occhiate a Connie, che stava dietro di lei.
“Io sono un mutante, lo sapete, quindi perché non posso entrare?” chiese con voce neutra e uno sguardo di ghiaccio, come al solito.
“Perché sei il braccio destro di Red, i suoi occhi, la sua spia, il suo cagnolino, dillo come ti pare. Avere te qui è come avere Red” replicò Madison.
“E voi allora non ditemi niente. Voglio solo assicurarmi che non moriate.”
“Perché?” Quelle parole sembravano aver fatto arrabbiare Mad, più che mai. Vedeva in esse tutto l'utilitarismo che fin da subito le aveva impedito di fidarsi di Red e, ora che finalmente si era liberata di lui, il suo cagnolino voleva entrare in casa sua. “Perché vuoi che non moriamo, a cosa ti serviamo? Quali sono i piani di Red per noi?!” urlò quasi. La cosa che forse le faceva più male era che in fondo sapeva bene che Connie non aveva a che fare con il progetto di Red, era stata lei, cercando di aiutarla, a metterla in quel pasticcio, ma Mad non pensava di essere abbastanza forte per conoscere l'oscurità in sé, sopravvivere e resistere ai misteriosi piani dell'eccentrico Red da sola.
Gianduiotto la fissò per qualche istante, nel suo sguardo c'era una vivida scintilla di dubbio, confusione. Come se lui stesso si stesse chiedendo quale fosse la risposta.
“Non lo so” disse.
Connie le mise una mano su una spalla. “Parliamone un attimo” le sussurrò.
Di nuovo, chiusero la porta lasciando Whisky fuori.
“Non possiamo lasciarlo entrare o aver mandato via Red non sarà servito a nulla” disse Madison.
“Sì, però sai bene che quel pazzo è potente e se vuole controllarci, un modo lo troverà in ogni caso. Se lasciamo che sia Gianduiotto a controllarci almeno sappiamo chi ci controlla: un mutante. In più, lo conosciamo, anche se non molto. Potrà sembrare poco, ma poco è sempre meglio di niente” replicò Connie. Madison, suo malgrado, riusciva a capire tutte queste ragioni e sapeva che lasciare entrare Whisky era la loro migliore possibilità per avere il controllo.
Annuì con il capo, quindi andarono ad aprire al mutante e, questa volta, lo fecero entrare.
Quella sera, Madison doveva andare a lavorare al De Vil per la prima volta. Una grande serie di preoccupazioni si fece spazio nella sua mente. Al primo posto sicuramente stava Connie, che non sapeva se fosse più al sicuro con Gianduiotto o da sola. Poi, beh, a giudicare dal drink che aveva bevuto solo un paio di sere prima, di certo avrebbe avuto molte cose da imparare e sperava di non combinare guai.
Una vocina le suggeriva che un altro suo timore era quello di incontrare Alexander: cosa gli impediva di andare lì, magari tutte le sere? Di sicuro non il fatto che lei, una nuova con cui aveva parlato una volta, lavorasse lì.
Mad si costrinse a pensare che non importava, ma in cuor suo rimaneva un po' di ansia.
Dopo essersi preparata, aveva deciso di mandare via Gianduiotto, almeno per quella sera, ma quando vide che lui, trasformatosi in un panda, e Connie erano addormentati sul divano, mentre una cassetta riproduceva un vecchio film in bianco e nero sul televisore quasi rotto, si addolcì.
Sorrise, pensando a quando Gianduiotto l'aveva abbracciata mentre era un panda, dopo l'omicidio della ragazza gatto. Quello non glielo aveva ordinato Red, o almeno così credeva.
Alla fine il mutante era vivo, vivo davvero. Ed era possibile che a loro ci tenesse veramente, magari per ora solo limitatamente, ma comunque le sue emozioni non erano tutto o niente. Un po' gli doveva importare.
Madison uscì di casa, piuttosto tranquilla, dopo aver lasciato un post-it sul frigorifero.
“Sono andata a lavoro, ci vediamo domani. Mad” diceva.

La serata al De Vil fu più tranquilla di quanto si aspettasse.
Quella sera c'era Twinky, la gemella con i capelli rosa, che le spiegò con molta calma che per il primo periodo Mad non avrebbe dovuto occuparsi dei drink, almeno finché non li avesse imparati. Inutile dire che la ragazza ne fu enormemente sollevata.
In ogni caso osservava ogni cosa che Twinky preparava, con avida curiosità e vera voglia di imparare, e alla fine della serata già aveva capito un paio di cosette nuove.
Perlopiù puliva i bicchieri e gestiva quel poco cibo che richiedevano, che consisteva soprattutto in patatine fritte. Bevevano più birra di quanto pensasse, così Mad ebbe il suo daffare anche senza preparare cocktail.
Chiusero a un orario della notte che poteva esser considerato già mattina.
Madison uscì dal De Vil che il sole cominciava a sorgere. Era di buon umore e la stanchezza non le pesava molto, anche se ben sapeva che, una volta arrivata a casa, sarebbe crollata.
Sotto il cielo rosato, si incamminò verso l'appartamento, con un sorriso.
Quella sera non aveva visto Alexander. Si chiese se fosse stato solo un caso che due giorni prima fosse andato al De Vil: il capo della Famiglia probabilmente non andava al bar, non si comportava come una persona normale.
Chi fosse normale, in quella città, poi, era impossibile dirlo. Sembravano tutti stravaganti, eccentrici, misteriosi e spesso inquietanti: quella notte ne aveva ben vista gente strana, avevano tutti lo stesso sguardo gli occhi, uno sguardo che diceva “abbi paura” e chiedeva “dovrei aver paura?”. Bene o male, però, ognuno si faceva i fatti suoi. Il locale era ospite di svago e, almeno per ora, non di guerre. Mad sperava che non lo sarebbe mai stato.
In cuor suo, però, sapeva che da qualche parte la guerra si doveva pur svolgere e, da quello che aveva visto, sospettava che si combattesse proprio nelle vie della Città.
Era giusto così probabilmente: loro, gli abitanti della Città, erano al sicuro finché erano nelle proprie case, insieme ai propri simili o da soli, ma rischiavano la vita non appena si incrociavano con altri nello scheletro dell'oscurità che altro non era che la Città stessa. Lì morivano, all'aria aperta, sotto quel cielo che doveva appartenere anche agli umani, ma con le membra percosse dalla risata macabra di quella città che li voleva rendere mostri.
Mad scosse la testa. Da dove venissero quei pensieri, lo ignorava, eppure le venne l'istinto di passarsi le mani sulle braccia, per riscaldarsi, come se fosse penetrato fra le sue ossa il sibilo della voce della Città, che sussurrava qualcosa che non capiva.
Di nuovo, Mad scosse la testa e finalmente si riscosse dal torpore in cui l'avevano portata questi pensieri. Guardandosi intorno, alzò un sopracciglio. Dov'era finita?
Davanti a lei si stagliava una grande casa all'apparenza abbandonata. Prima di essa, un enorme cancello arrugginito sembrava aprire i suoi artigli verso chiunque volesse entrare. Poi un giardino, composto solamente da rami, con spine grandi come non ne aveva mai viste, dai quali sbocciavano rose rosse come il sangue da cui sembrava colare del liquido dello stesso colore. Come se non bastasse, l'alba aveva abbandonato il cielo, dove ora si addensavano minacciose nuvole scure che minacciavano tempesta e già mandavano i primi fulmini.
Madison scoppiò a ridere.
La protagonista stupida di un film horror sicuramente sarebbe entrata in quella casa, ma lei non aveva alcuna intenzione di farlo. Quando qualcosa ti manda così tanti segnali di pericolo, non stuzzica la curiosità, solo il tuo suicidio. Mad non desiderava di certo la morte.
La ragazza si girò e iniziò a camminare, ma la sua mente dopo qualche secondo ricominciò a vagare e, persa nei suoi pensieri, si ritrovò di nuovo davanti alla casa. Così successe per tre o quattro volte. Sembrava che qualcosa volesse che lei entrasse, ma Mad aveva paura di sapere che cosa.
Non poté far altro che entrare, suo malgrado, così superò il cancello e camminò lungo lo stretto percorso lasciato libero dai rovi. Arrivò dunque davanti al grande portone di legno. Si sentiva la protagonista stupida di un film horror.
Ispirò e spinse.
Andò a sbattere contro qualcuno, cadendo nel panico e cadendo anche letteralmente. Il cuore sembrava uscirle fuori dal petto, i suoi neuroni già elaboravano una fuga o una difesa, quando si accorse che una ragazza la guardava.
“Pessimo tempismo” disse la sconosciuta. “Stavo giusto uscendo.” Vedendo che Madison la fissava imbambolata, alzò un sopracciglio. “Ci conosciamo? Non ti ho mai vista nella congrega.”
Mad finalmente si calmò. Respirò a fondo, poi si alzò, passandosi le mani sui vestiti per pulirli.
“In realtà mi sono persa” disse scrollando le spalle. “Stavo tornando da lavoro, mi sono ritrovata qui e non riesco ad andarmene, ecco.” Sembrava piuttosto stupido da dire, effettivamente, e già si aspettava che la sconosciuta scoppiasse a ridere.
Quella, invece, si limitò a sorridere.
“Sei nuova, ora si spiega tutto.”
Le fece segno di entrare, ma Mad esitò, non si fidava. Non aveva altre alternative, però, quindi dovette entrare comunque.
La stanza in cui entrò era tutto l'opposto dell'esterno: era una stanza ampia, illuminata, con le pareti e il pavimento di un caldo beige chiaro. Ai lati c'erano due scale, mentre appeso al soffitto c'era un meraviglioso lampadario enorme.
“Mi chiamo Maude Maggots e sono una strega della congrega della Mezzaluna, che ha sede in questa casa” chiarì la sconosciuta, con un sorriso affabile. I suoi piccoli e vispi occhi scuri esprimevano sicurezza e intelligenza.
Madison avrebbe descritto una strega proprio com'era Maude: aveva abiti scuri, dei jeans neri e una canottiera dello stesso colore, con sopra una camicia blu scuro, al collo portava delle collane lunghe composte da un filo nero sottile e diversi ciondoli, fra i quali Mad notò un paio di mini boccette. Molti erano anche i suoi anelli e braccialetti e ai piedi aveva degli stivaletti con qualche centimetro di tacco.
Quello era decisamente uno stile che a Mad piaceva, e anche molto.
“Non so se per te sia una buona o una cattiva notizia” continuò Maude “A volte succede che i nuovi arrivati siano attirati da un branco o da una congrega, questo perché ne è attirata la loro oscurità. Quindi... probabilmente stai per diventare una strega.”
Questa era davvero una buona notizia. Essere una strega voleva dire essere viva, quindi in un certo senso più vicina all'umano, senza considerare che non sarebbe dovuta morire.
“Come ti chiami?” le chiese Maude, che era molto felice di vedere la nuova così contenta e sollevata all'idea di diventare una strega.
“Madison Huddle” rispose. Si strinsero la mano e già provavano simpatia l'una per l'altra.
“Purtroppo non puoi stare nella congrega se non ne fai parte, quindi dovrai aspettare che si mostri la natura di strega per entrare a farne parte, però almeno sai cosa aspettarti. Ah, a differenza di quello che si pensa, non hai bisogno di bacchette o manici di scopa, né altro. Ogni incantesimo ha bisogno di parole, ma per quelli basi basterà una parola da pensare” spiegò Maude con un sorriso gentile.
Madison storse il naso. “E come farà la mia natura di strega a... manifestarsi se non so gli incantesimi?” chiese.
“Una parte di te già li conosce, diciamo che ti sembrerà naturale. Almeno per i più semplici.”
Se non altro era un buon inizio.
D'un tratto, Mad aveva dimenticato la sua preoccupazione. Lo scenario da film dell'orrore che le si era presentato poco prima sembrava essere lontanissimo. Non vedeva l'ora di dirlo a Connie.
Per un secondo si incupì, pensando che non avrebbe dovuto dirlo a Gianduiotto, così che non lo sapesse anche Red. Il primo segreto, insomma, anche se aveva la sensazione che lo avrebbero seguito molti altri. In ogni caso, non era quello il momento di pensarci.
Senza troppi convenevoli, Mad chiese alla strega di indicarle come tornare a casa.
“Ti consiglio di non passare all'interno del territorio del branco di Connor, quindi devi allungare la strada. Appena uscita di qui vai dritta, invece di girare a destra alla prima via, gira alla quarta. Percorri la via e poi dovresti trovare la zona del De Vil.” Da lì, Mad sapeva come orientarsi.
La ragazza uscì dalla casa, dopo aver salutato Maude.
Era davvero contenta di essere una potenziale strega.
Essere in una congrega, pensò, doveva anche essere più sicuro. Se non altro in caso avrebbe avuto qualcuno che la proteggesse. Nell'impeto di ottimismo, Mad si disse che la congrega avrebbe di sicuro garantito la propria protezione anche a Connie, sempre che anche lei non fosse una creatura da congrega o branco.
Dovevo girare alla terza o alla quarta?, si chiese quando fu davanti alla terza via. Alla fine decise di girare lì, sentiva la stanchezza che le pesava sulle spalle, quindi era meglio non allungare la strada. In ogni caso avrebbe fatto in fretta per evitare eventuali pericoli.
Non si era accorta di esser caduta nuovamente nel torpore dei pensieri, che tante volte l'aveva portata verso la congrega. Questa volta, condotta dallo spirito della Città, non stava tornando alla casa, ma fu forse in quel primo momento che Madison Huddle veniva sospinta verso il proprio destino. Da quando era arrivata nella Città, Mad aveva già imparato molto, era già cambiata molto, ma ciò che stava per succedere era ciò per cui quella Città stessa esisteva. La Città dei mostri sorrideva maligna, nella sua forza trascinava Madison, le annebbiava la mente e la spingeva verso quello stesso punto in cui anche un'altra persona era spinta.
La Città rideva, mentre Madison finalmente si risvegliava da quel torpore, rideva mentre un lupo mannaro, l'altra anima destinata a quel momento, le andava incontro, chiedendole cosa ci facesse nel territorio di Connor.
La Città si vantava della propria forza, mentre il lupo mannaro accusava Mad di essere un gatto lì per trovare informazioni.
“Non è vero!” gridava Mad, nel tentativo inutile di fargli cambiare idea, di fargli capire. Cercò di spiegargli, ma lui non ascoltava. Quando vide che gli occhi dell'uomo avevano cambiato colore, quando capì che i suoi arti stavano iniziando a mutare, Madison scappò.
Corse, ma dopo non molto capì che non ce l'avrebbe mai fatta, il lupo l'avrebbe raggiunta. Si infilò in un condominio apparentemente abbandonato, tanto simile a casa sua, e salì le scale, guidata da nient'altro che l'istinto di sopravvivenza. Non aveva un piano, non aveva nessuna possibilità di sopravvivere e questa consapevolezza la schiacciava e la uccideva. Ma non poteva fermarsi, non aveva alternative.
Entrò in un appartamento e in un istante seppe che il lupo era dietro di lei. Questi cercò di colpirla con un artiglio, ma Madison si tolse velocemente. Poi il mannaro avvicinò le sue fauci a lei, ma prima che mordesse ancora una volta la ragazza si era spostata. Mad arretrava, velocemente, finché non si trovò su una terrazza, gemella a quella che aveva nel suo appartamento. Con due artigli il lupo la ferì su un braccio e la ragazza non pensava di aver mai sentito un dolore più lancinante, fece per urlare, ma l'animale stava per attaccare di nuovo, così dovette spostarsi. Il lupo finì contro la ringhiera, ma aveva dato troppo impulso all'attacco, quindi essa si era rotta e minacciava di farlo cadere.
Madison non ebbe il tempo di pensare, eppure scelse comunque.
La Città in quel momento le stava chiedendo a gran voce che cosa lei fosse, ma Mad non sentiva, non poteva sentire. Eppure rispose comunque.
Poiché l'unica domanda che ti pone la Città è se sei una vittima o un mostro, Madison rispose che era un mostro.
Spinse il lupo, che cadde con la ringhiera e si infranse al suolo. Immobile rimase lì, poi lentamente riprese la forma umana. Allora, solo allora, dal suo capo si espanse un alone di sangue rosso.
La Città rise.

 

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Capitolo 9
*** Before all Hell breaks loose ***


Capitolo 8
Before all Hell breaks loose

 

Madison fissò il cadavere per un tempo indeterminato.
Lentamente cadde sulle ginocchia, appoggiando la schiena al muro. Lacrime calde e imperturbabili cadevano dai suoi occhi talmente lucidi che quasi non vedeva.
A uno spettatore esterno quella disperazione, pietosa, era ben chiara e nessuno avrebbe potuto negare la sofferenza della ragazza. Eppure lei, in quel momento, si sentiva completamente vuota, congelata nel tempo, nella sua mente non si affacciava nemmeno un pensiero. La gola le si stringeva a causa di un doloroso groppo e lei piangeva, ma non sentiva nulla, non provava assolutamente nulla.
Rimase in questo mutismo emozionale per un tempo che non avrebbe saputo quantificare, poi una fitta al braccio, dove era stata ferita dal lupo, sembrò risvegliarla. Aveva ucciso una persona. Era stata autodifesa, certo, ma aveva comunque ucciso una persona.
Guardò il proprio braccio, insanguinato, la ferita pulsava.
Doveva andarsene, prima che qualcuno arrivasse e finisse il lavoro dell'altro lupo, ora morto. Una parte di lei voleva rimanere lì ad aspettare la morte, che le sembrava ormai quasi meritata. Aveva ucciso, che diritto aveva di mantenere la vita?
È la Città, si disse. Madison non avrebbe mai fatto una cosa del genere, era stata obbligata.
Si alzò, tenendosi il braccio, e fu colpita da un dolore che l'avrebbe fatta urlare, se non avesse saputo che non doveva attirare l'attenzione. Strappò un pezzo della maglia, poi avvolse la ferita come meglio riusciva.
Ormai stava arrivando la sera, le membra di Madison furono scosse da un brivido.
Camminò più velocemente che poteva, tenendo la testa bassa, fino ad arrivare al De Vil, dove già iniziava ad arrivare un po' di gente. Mad ringraziò di non avere il turno quella sera, poi guardò nel bar, da lontano, individuando Zwinky che lavorava. Riabbassò lo sguardo, continuando la sua strada verso casa.
In quel momento pensò che sarebbe dovuta andare all'ospedale, chiedere indicazioni, sempre che un ospedale ci fosse, ma in realtà voleva solo andare a casa. Probabilmente Connie era molto preoccupata.
Arrivò davanti al suo appartamento, salì a fatica le scale, dunque fu davanti alla porta.
Il braccio bruciava, ma le lacrime si erano fermate. In quel momento, però, sentì una chiara esigenza: l'esigenza di non raccontare ciò che era successo. Furono forse gli anni in cui non si era mai sentita amata, quello sguardo diffidente e accusatore di chiunque la guardasse, che le provocarono questa reazione.
Il peso che l'aveva oppressa a causa di quella sensazione che in lei ci fosse qualcosa di tremendamente sbagliato, il sentirsi un mostro senza davvero capirne il motivo l'avevano portata ad essere com'era in quel momento: sola e spaventata. Non voleva ricominciare a sentirsi in quel modo, non voleva che Connie la guardasse con disprezzo e con paura. Probabilmente era solo una codarda, ma aveva già perso troppe cose per poter sostenere un'altra perdita, soprattutto dal momento che avrebbe dovuto affrontare la sua azione. Aveva preso una vita: le sue spalle erano troppo esili per sopportare quel fardello da sole.
Il modo in cui era conciata, però, non avrebbe potuto passare inosservato, né il fatto che fosse tornata a quell'ora. In quel momento Mad pregò che Connie non avesse detto nulla a Whisky.
Prese le chiavi e le infilò nella serratura, benché non si sentisse pronta ad affrontare la situazione.
In realtà, l'appartamento era piuttosto silenzioso, se non per l'acqua che scorreva. Madison sorrise: Connie era sotto la doccia.
Velocemente, Mad aprì l'armadio e si cambiò i vestiti, in particolare prese una felpa molto larga, che copriva la fasciatura improvvisata che si era fatta. Utilizzando l'acqua del lavandino della cucina, si lavò la faccia e le mani, sciacquando via il sangue, e si legò i capelli in una coda morbida. Mad sapeva di avere un aspetto orrendo, immaginava il suo volto: gli occhi lucidi e gonfi, i capillari rotti che disegnavano infiniti puntini rossi proprio dove c'erano le ampie occhiaie, il volto pallido. Tremava.
Un “clic” della porta del bagno indicò che Connie era uscita. Quando la vide, corse con impeto verso Madison e l'abbracciò con forza. Mad emise un gemito, il dolore era esploso nella ferita e le lacrime minacciarono di uscire dai suoi occhi.
“Mi sono preoccupata tantissimo!” esclamò l'amica, allontanandosi.
Madison si sforzò di sorridere in modo convincente. “Sono successe un sacco di cose” iniziò, con cipiglio divertito “Mi dispiace davvero averti fatto preoccupare. Ti pregò, però, ora concedimi una doccia.” Ridacchiò, apparentemente tranquilla. Il suo animo piangeva.
Connie annuì, leggermente delusa. “Preparo la cena” aggiunse, con un sorriso.
A Madison si strinse lo stomaco, da una parte davvero sentiva la fame, infatti non mangiava da un sacco di tempo, dall'altra ben sapeva che non sarebbe riuscita a mandar giù neanche un boccone.
Aprì l'acqua della doccia e la lasciò scorrere, mentre toglieva la fasciatura. La ferita era, in realtà, meglio di quanto pensasse. Comunque aveva bisogno di punti, ma Mad aveva ormai deciso che nessuno avrebbe saputo di quella ferita.
Sbuffò, certo non sarebbe stata la prima volta che si curava da sola.
Si ricordava di una volta, quando aveva circa sedici anni, che era salita sul tetto di casa, senza ascoltare i divieti della madre. Andare lì le piaceva moltissimo: si sentiva calma, serena, quasi felice, lì sul tetto. Un giorno era scivolata, poi si era tagliata tutte le dita cercando di aggrapparsi alle tegole e, sebbene non fosse caduta, si fece un taglio lungo tutto il polpaccio.
Se avesse detto a sua madre cos'era successo, probabilmente questa l'avrebbe buttata fuori di casa: l'ipotesi di confessare ciò che era accaduto non rientrava nelle opzioni possibili, non era neanche da considerare.
Non le restava che provare a curarsi da sola: suo padre era un medico, per questo in casa c'erano dei libri di medicina, libri che Mad aveva già letto per soddisfare la propria curiosità. Per questo, bene o male già sapeva cosa fare. Dalla teoria alla pratica, però, c'era un oceano.
In ogni caso era sopravvissuta anche quella volta e non riuscì a contenere un sorriso quando pensò che, uscita dalla Città, loro le avrebbero voluto bene, bene davvero. Per quello doveva sopravvivere, per riconquistare quella vita che era stata drammaticamente condizionata dalla maledizione della Città.
Quel lupo, si disse, era già condannato. Se lei non l'avesse ucciso, probabilmente sarebbe morto in un altro modo, perché questo era ciò che la Città voleva.
Neanche questo, però, poté scacciare l'opprimente senso di colpa di Mad, che di nuovo cercò di scacciare questo pensiero.
Decise che il giorno dopo si sarebbe procurata il necessario, per ora, dopo aver disinfettato la ferita, avrebbe solamente messo una benda e limitato i movimenti. Si lasciò scorrere addosso l'acqua, con lo sguardo fissato su un punto indeterminato della doccia. Era difficile trattenere le lacrime, che continuamente minacciavano di uscire. Non poteva piangere o Connie non avrebbe mai creduto che fosse tutto a posto.
Quindi uscì dalla doccia e si fasciò la ferita.
Quando aprì la porta del bagno, un profumo di cioccolato le invase le narici e, per un secondo, si dimenticò di tutto. La Città, il lupo, i problemi. Tutto.
Fu solo un momento, un breve, piccolo istante.
Poi la voce trillante di Connie, il suo cristallino tono vivace, la fece risvegliare in quel mondo di sofferenze.
“Allora, cos'è successo?” aveva chiesto con ingenuità.
Mad sentì una stretta al cuore, ma sorrise.
Le raccontò, dunque, tutto ciò che le era successo prima dell'incontro con il lupo. Quando Connie seppe che probabilmente Mad era una strega, pensò esattamente ciò a cui aveva pensato Mad: non doveva morire. Era viva, vicina all'umano, in un certo senso.
Connie sorrise e l'abbracciò, di nuovo.
“Hai detto qualcosa a Gianduiotto?” chiese Mad dopo un po'. Connie scosse la testa.
“No, è passato oggi verso l'ora di pranzo, gli ho detto che avevi delle commissioni da fare, sapevo che non avresti voluto che glielo dicessi.” Mad sorrise, lei e Connie non si conoscevano da molto, ma Connie aveva già iniziato a capirla. “Però mi stavo davvero preoccupando. Non si sa mai cosa potrebbe accadere in questa città, ti avrebbero potuta assalire, rapire, magari uccidere! Lo sai che se qualcosa succedesse a te o a me avremmo bisogno di lui. Quindi...”
“Se una delle due scompare, si aspetta un giorno e poi si chiama Gianduiotto, ok?” la interruppe, risoluta.
“Esattamente ciò che avrei detto io.” Connie sorrise e le porse una mano, che Mad strinse. Quello era un patto.
Dopo ciò, Connie la invitò a tavola, dove le aspettava un risotto. Mad ringraziò di avere un coinquilina con la passione per la cucina. Avvicinò la forchetta alla bocca, pronta per mangiare quello che sembrava un piatto delizioso.
Ho ucciso una persona.
Questo pensiero proruppe nella sua mente con un'irruenza spaventosa e Mad fu scossa da un brivido. La gola le si chiuse, ma doveva mangiare, lo sapeva.
Mandò giù a fatica il boccone e Connie sembrò accorgersene, ma non disse nulla, si limitò ad inarcare un sopracciglio. Le sue difficoltà a magiare diminuirono man mano, fino a che non riuscì a mangiare normalmente. Riuscì addirittura a mangiare una fetta della torta al cioccolato che la coinquilina aveva preparato.
Subito dopo cena decise che era ora di andare a dormire e, con poche parole, si congedò lamentando la stanchezza.
Prima che si sdraiasse sul letto, l'immagine del lupo morto si riaffacciò nella sua mente, prepotentemente. Mad rabbrividì, poi deglutì e si sforzò di non pensarci.
Non sapeva come reagire, al pensiero. Non si sentiva capace di affrontare quella situazione, sapeva di aver ucciso una persona, ma non sentiva di averlo fatto. Quell'azione era come dissociata da lei, forse perché non riusciva a pensare di essere un'assassina.
Rimandava il pensiero, cercando di convincersi che prima o poi avrebbe sarebbe riuscita a gestirlo, anche se ben sapeva che non sarebbe stato così.
Si mise sotto le coperte e chiuse gli occhi, ma ancora l'immagine del morto si affacciò sulla sua mente e, finalmente, le lacrime sgorgarono.
Passò così gran parte della notte, fra un tormentato sonno pieno di incubi e ore di pianti silenziosi, in cui non poteva fare a meno di pensare che stava diventando un mostro.
In uno di questi periodi insonni, circa alle 4 del mattino, mentre ancora si tormentava per ciò che era successo, sentì distintamente alcune parole nella sua mente.
“Sei un assassino” disse in un sussurro una voce che sembrava provenire dall'oltretomba, ma con una nota vagamente squillante. Una voce che, di sicuro, non apparteneva a Madison.
Di nuovo, quella frase si ripeté nella sua mente con quel tono accusatorio e Mad si accorse di una cosa: aveva detto assassino, non assassina, aveva usato il maschile.
Il cuore iniziò a battere velocemente nel suo petto. Chiunque stesse parlando nella sua testa, in qualche strano modo sapeva che lei aveva ucciso il lupo, ma non sapeva chi lei fosse, quale fosse la sua identità.
“Sei un'assassina” disse nuovamente la voce.
Ma, chiunque fosse, la stava scoprendo.

***
 

Maude Maggots uscì dalla congrega con usuale tranquillità. Niente di nuovo, quel giorno: riferisci, incassa.
Saggiamente, non entrò nella zona del branco di Connor, che notò subito essere in uno stato di allarme, molti dei volti delle sentinelle preoccupati, più vigili, alcuni erano persino arrabbiati.
Un nuovo omicidio, senza dubbio. Un gatto doveva essersi nuovamente intrufolato e, dopo esser stato scoperto, aveva ucciso un lupo. Di nuovo, sbuffò Maude.
Ecco c'era aria di vendetta fra i lupi. La situazione era sempre più tesa.
In ogni caso, Maude mantenne la sua tranquillità e non accelerò il passo, prendendosela comoda. Con calma camminava per le vie, fino a giungere alla sua destinazione, il centro della Città, dove si ergeva quel palazzo che ormai le era davvero famigliare, alla cui vista fu invasa da un sentimento di asprezza.
“Come al solito sempre puntuale, Maude” disse Alexander Morales, con ironia, mentre le si avvicinava.
“Sempre” rispose lei con altrettanta ironia, consapevole del quarto d'ora di ritardo.
Lui le fece un segno con il braccio per invitarla a entrare nel palazzo, la casa della Famiglia.
“Spero che tu abbia buone notizie” disse Alexander, appoggiandosi al muro, dopo che furono giunti in un salottino al primo piano.
Maude scrollò le spalle. “Niente di nuovo, questa settimana. Il che, immagino, non sia una buona notizia per te.”
Alexander sorrise, in modo quasi diabolico, ma non disse nulla.
“Con il branco leader in questo stato, gli altri branchi sono quieti, o più che altro confusi. Nel branco di Julien sono tutti diffidenti, hanno paura, i piani dell'alfa sono piuttosto oscuri, ma francamente non credo che sappia cosa fare. Il branco di Connor è il più forte, nonostante questa guerra li metta in difficoltà.”
“Se gli altri branchi aiutassero i gatti, la guerra sarebbe già finita” commento Alexander, vagamente sprezzante.
Maude annuì. “Sono cani, sono fedeli, nonostante il modo in cui si sta comportando Connor, non lo tradiranno mai.”
Alexander sorrise nuovamente. Maude era una ragazza intelligente, con un buon occhio per le strategie: era un'ottima alleata e una temibile nemica, lui sapeva che, sebbene ora l'avesse in scacco, non l'avrebbe potuta controllare ancora per molto.
“Cosa pensano le congreghe di questa situazione?”
Maude sospirò. “Indecisione. Non siamo soliti invischiarci negli affari di gatti e cani, ma la situazione sta degenerando. Non posso neanche passare nella zona di Connor se non voglio rischiare la vita e i gatti stanno esagerando: ieri sera hanno ucciso un altro lupo.”
Alexander, senza dire una parola, si avvicinò a un tavolino su cui era appoggiata una bottiglia contenente un liquido chiaro, senza dubbio liquore. Se ne versò un po', mentre meditava sulle informazioni che aveva ottenuto.
“Se devo essere sincera” disse Maude, interrompendo il silenzio che si era formato. “Penso che le congreghe stiano aspettando te.”
Alexander si girò verso di lei vagamente incuriosito. Inarcò un sopracciglio, guardandola per qualche secondo, zitto.
“Voglio dire” continuò Maude, avvicinandosi a lui. “Nella Città è in corso una guerra e non è una delle solite guerre in cui dopo un paio di morti e vendette ci si stringe la mano e ricominciano i dispetti. Questa guerra sta coinvolgendo tutta la Città. Nessuno si aspettava che tu avresti lasciato a Connor e ai gatti così tanto potere. Alcuni iniziano a pensare che tu non esista, come se tu fossi solo una brutta favola che si racconta ai nuovi arrivati per spaventarli e tenerli sotto controllo.”
Alexander rise, di gusto, con una certa soddisfazione. “Credono che la Famiglia sia solo una favola? Ah, non hanno ancora capito che l'uomo nero, il lupo cattivo e la strega malvagi, qui, sono tutte verità? Devo solo decidere quale cattivo essere e, credimi, quando sarà giunto il momento sarò il peggiore di tutti.”
Maude fece un passo avanti, mossa da una forza interna, come fosse comandata dalla giustizia. Provava, infatti, forse solo inconsciamente, un senso del dovere non tanto verso la Città, quanto verso i suoi abitanti.
Già era difficile sopravvivere quando c'era la pace, la guerra avrebbe significato la morte di almeno tre quarti della popolazione. Tutti sarebbero diventati mostri, forse tanto da non poter tornare indietro.
Se fosse arrivata in Città prima, Maude avrebbe saputo davvero cosa comportava una guerra nella Città e il suo pensiero non si allontanava molto dalla verità, ma la ragazza, come del resto facevano molti, credeva che la Città fosse sempre stata così e non si era mai chiesta nulla a proposito del suo passato.
La Città dei mostri ne aveva viste di guerre.
“Allora poni fine a questa situazione!” disse Maude con convinzione, alzando il tono di voce.
Alexander inclinò la testa, squadrandola. “Tu cosa mi consiglieresti di fare?”
La ragazza ridacchiò. “Vacci piano” disse “O invece di pagarmi come spia mi dovrai pagare come consigliere.” Fece una breve pausa, ma dal momento che Alexander non diceva nulla, continuò.
“Occupati dei gatti. Presentati all'assemblea dei nove capi e fagli capire la lezione. Gli altri gatti non avranno il coraggio di ribellarsi, si salveranno la pelle. Così facendo, i lupi ti accetteranno come liberatore e capo. Lo stesso Connor sarà riconoscente.”
Non faceva una piega.
Alexander sorrise compiaciuto, ma non commentò il consiglio, né diede segno di avere intenzione di seguirlo.
“Tieni, te lo sei meritato” disse lui, porgendole una boccetta, contenente alcune erbe.
Maude guardò l'oggetto, poi riportò lo sguardo su Alexander. “Quando mi lascerai libera? Julien peggior, le dosi non sono più abbastanza.”
Lui serrò la mascella, poi sorrise aspramente. “Prima o poi” si limitò a dire.
Maude sospirò, quindi afferrò la boccetta. Sul subito, Alexander non lasciò la presa.
“Sii paziente” disse lui, guardandola negli occhi. “Sta arrivando il momento, lo sento. In questo momento ho bisogno di te più che mai, poi ti lascerò andare. Sta tornando, devo essere pronto.”
La strega, in risposta, rise. “Non capisco ciò che stai dicendo, parli per indovinelli.”
Alexander sorrise, lasciando la presa. “Dovresti sentire Felix: lui sì che è incomprensibile.”
Maude non replicò. Si girò e camminò verso la porta, con la stessa indifferente tranquillità con cui era entrata. Quando fu sulla soglia, Alexander la fermò.
“Maude, so che mi odi, ma davvero ti lascerò libera.”
Lei sospirò, poi alzò le spalle. “Non ti odio, Alex. Odio il fatto che tu abbia il controllo su di me.”
“Ti prometto che non appena sarà tutto finito farò in modo che tu e tuo fratello non siate mai più in pericolo, vi proteggerò” replicò lui e in quelle parole ci credeva realmente.
“Se c'è una cosa che ho capito da quando sono in Città è che non ci si deve fidare di nessuno. Delle tue promesse non me ne faccio assolutamente niente” disse, con risentimento, e senza aggiungere una parola se ne andò.

*Angolo dell'autrice*
Quanto tempo! Scusatemi, ma è un periodo davvero molto impegnato e non ho il tempo materiale per scrivere un capitolo a settimana. Meno male che stanno arrivando le vacanze di Natale!
In ogni caso, la mia soluzione per il momento è di scrivere capitoli un po' più lunghi, invece di scriverne più corti ogni settimana. Spero vada bene!
Capitolo intenso, eh?
Mad e i suoi sensi di colpa sono tornati a casa, ma una strana voce sembra cercare la sua identità. Chi/cosa pensate che sia?
Per quanto riguarda il discorso fra Maude e Alexander: spero si sia capito che Alexander tiene in scacco Maude, usandola come spia, poichè la ragazza ha bisogno di alcune erbe (il perché lo scoprirete) per il fratello, un lupo mannaro, che si chiama Julien.

Per quanto riguarda il "passato della Città" a cui ho fatto cenno: ciò che intendo è che non tutto è sempre stato così. La Famiglia, lupi e gatti, come ogni cosa anche la Città non è sempre stata così, ma di questo ne riparleremo più avanti. Mi sembra di aver detto tutto :)
Fatemi sapere il vostro parere!
StellaDelMattino

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Capitolo 10
*** Helpless and Lonely ***


Capitolo 9

Helpless and lonely

 

Virgil Ash vagabondava per la Città, senza una meta precisa.
Lo faceva da quando era arrivato, senza mai stabilirsi in un posto. Incredibilmente, non era ancora incappato in nessun pericolo. Ciò si spiegava perché mentre vagava per le vie, gli succedeva di provare una strana sensazione, a volte, una specie di mal di testa che però realmente non causava dolore, più che altro un pizzicore, che sembrava dirgli che in quella zona c'era qualche pericolo. Allora, cambiava direzione.
Questo suo “sesto senso” ancora non se lo spiegava, ma sapeva che probabilmente era dovuto alla creatura che era, qualsiasi essa fosse.
Non che i pericoli non gli piacessero, anzi, lui aveva una vera passione per i casini. Fin da quando era piccolo, tutto quelle situazioni non sicure, nuove e ignote scatenavano in lui l'adrenalina e lo facevano stare bene. Erano quasi una droga per lui.
Non era stupido, però: non conosceva il posto in cui era e a questo punto sapeva di non conoscere neanche se stesso, quindi per un po' avrebbe dovuto evitare azioni avventate.
Certo non era riuscito a contenersi all'incontro con la Famiglia. Durante tutto il viaggio che l'aveva portato fino al palazzo aveva sentito il pizzicore urlare e far male, tanto che credeva che l'avrebbero ucciso.
E c'era mancato poco, soprattutto perché, senza un motivo preciso, non era riuscito a frenare la sua linguaccia e provocare quell'Amon era stato proprio impossibile da evitare. Non si era mai sentito più impulsivo.
Ora, però, aveva problemi più seri.
Tipo i crampi allo stomaco che non sembravano aver fine. O la tosse così violenta che pensava che avrebbe sputato un polmone da un momento all'altro. E, quando non tossiva, vomitava.
In poche parole, si sentiva morire.
L'unica cosa che lo confortava era che all'incontro avevano detto che la morte non necessariamente avrebbe significato, beh, la morte celebrale. Virgil avrebbe solamente desiderato che non fosse così lungo e doloroso, una vera tortura.
Vagava, dunque, immerso nei pensieri, inconsciamente trasportato dalla Città verso il suo centro, verso il palazzo della Famiglia.
Quando arrivò, Felix lo vide e aggrottò un sopracciglio, poi sorrise lievemente nel vedere il terribile aspetto di Virgil. Era davvero messo male.
Brancolava, appoggiandosi più volte al muro, a volte fermandosi a tossire, piegato a metà.
“Vedo che qualcuno sta morendo” disse Felix, vagamente trionfante.
Virgil si ridestò dai suoi pensieri e lo guardò storto.
“Sì, lentamente e dolorosamente. Immagino che tu ne sia molto felice.”
Il demone ridacchiò. “È una giusta punizione per la tua insolenza, la prossima volta impari.”
“Sono giorni che va avanti così, voglio solo che finisca. Ho bisogno di aiuto” disse Virgil, con tono pietoso e le lacrime agli occhi per
la violenza con cui aveva tossito. Si avvicinò al palazzo e Felix gli andò incontro.

“Devi morire da solo, oppure rischi di morire sul serio. Pensa che poi starai bene. In salute per sempre” disse e, nella sua voce, c'era un qualcosa di dolce. Virgil pensò che sapesse esattamente cosa stava passando, doveva averlo provato sulla propria pelle. “O, beh, fino al tuo omicidio” continuò Felix.
Virgil trovò la forza per ridacchiare lievemente. “Stai dicendo che dopo che sarò morto, mi ucciderai nuovamente?” chiese con ironia.
“Intendo che non morirai di malattia o di vecchiaia” rispose l'altro. Virgil non aveva ancora contemplato l'immortalità e, ora, capendo che quello era il suo destino, si sentì oppresso da un peso anche più grande della sua attuale malattia. Immortalità voleva dire molte cose e, fra queste, solo alcune erano positive.
“Hai perso la lingua?” chiese Felix divertito. “Questa tua malattia potrebbe essere molto meglio di quanto pensassi.”
Virgil gli lanciò un'occhiataccia. “Ho davvero bisogno di aiuto. Non solo per quello che sto passando ora, ma per quello che succederà dopo. Io non conosco le creature, non so cosa potrei essere, non so nemmeno cosa significa essere qualcosa.”
“Imparerai” disse il demone, ma a Virgil non bastava.
“Io non ho nessuno. Sono solo, non ce la posso fare ad affrontare tutto questo.” Nel suo tono c'era la disperazione.
Passare quasi un mese senza una casa e senza un'anima con cui parlare, dover temere costantemente di essere ucciso nel sonno, non avere nessun punto di riferimento lo aveva sfiancato e, quasi letteralmente, ucciso. Si sentiva in trappola e allo stesso tempo solo, abbandonato in un mondo che non capiva e, più di quanto mai avesse pensato in vita sua, aveva un disperato bisogno di aiuto.
Non sapeva perché stava chiedendo aiuto al demone che non molto tempo prima aveva minacciato più volte di ucciderlo, né perché lui fosse quasi gentile nei suoi confronti, ma quella era la sua unica possibilità.
Felix capì la sua disperazione e avrebbe accolto la sua richiesta di aiuto, non di rado capitava che un nuovo, che fosse appena morto o morente, chiedesse aiuto alla Famiglia, ma c'era qualcosa nei suoi occhi che lo rendeva diffidente.
Virgil fu scosso da un conato e sputò sangue, quasi sulle scarpe di Felix, che fece una smorfia più di fastidio che di disgusto. Gli porse un fazzoletto, con cui il giovane si pulì la parte inferiore del viso. Seriamente pensò che avrebbe sputato un polmone, presto.
Il demone guardò Virgil, che ancora aspettava una risposta, poi gli prese il mento fra l'indice e il pollice e lo guardò negli occhi, lentamente. Dall'intensità con cui lo guardava, Virgil pensò che gli stesse rubando l'anima. Era anche possibile, pensò, dal momento che era un demone, eppure non gli importava quel granché. Sentì il battito accelerare, preso da una sorta di fremito e come travolto da un vortice. Il pizzicore alla testa che pulsava prepotente.
Felix sgranò gli occhi e si allontanò repentinamente.
“Vattene, ragazzo, e se non vuoi morire davvero non farti più rivedere” disse, come se fosse appena stato scottato dal fuoco.
Virgil cadde a terra. “Ti prego, ho bisogno di aiuto” urlò, quasi piangendo. La voce spezzata dalla disperazione.
Felix sembrò arrabbiarsi. “No. Fidati, dalla Famiglia non potrai avere nessun aiuto. Posso solo darti un consiglio: stai lontano da qui, vivi nell'ombra e aspetta di potere uscire dalla Città, questo è l'unico aiuto che ti posso dare.”
Detto questo, il demone se ne andò, senza girarsi indietro. Anche se lo avrebbe voluto fare.
Virgil appoggiò entrambi i palmi sul duro cemento. Respirò, profondamente, poi cercò di rilassare i muscoli, lasciandosi andare. Si sentì condannato, per un attimo. Immortale e solo.
Si rialzò, dunque, guardando fisso nel vuoto. Doveva calmarsi, lui ce l'aveva sempre fatta da solo. Non era la prima volta, non sarebbe stata l'ultima.
Essere abbandonato quando aveva bisogno di aiuto era la storia della sua vita.
Si alzò e si girò per andare nella direzione da cui era arrivato.
Uno sconosciuto, dall'aspetto terribilmente eccentrico, gli si parò davanti.
Lo guardava con aria quasi derisoria, con un lampo di interesse negli occhi scuri.
“Che ne dici, ragazzo” disse Red con un piccolo sorriso. “Se ti spiego cosa sei e perché Felix non ti vuole aiutare?”

***

Madison non riuscì a ignorare la voce nella sua testa. Scattò il panico, per primo, che la invase rapidamente. Chi era? O meglio, cos'era? Sconosciuto era anche il motivo per cui la sentisse.
“Sei un'assassina” disse la voce femminile, con il solito imperturbabile tono squillante ma profondo. La frase si ripeteva in modo continuo nella sua mente, con instancabile costanza, e a Mad sembrava che quella voce allungasse lunghe mani dalle dita sottili e violacee, per stringerle l'anima. Mad si sentiva impazzire.
Ripensò alle parole di Red, solo qualche giorno prima. “Cerca di non impazzire troppo in questi giorni”, aveva detto. Avrebbe dovuto rivolgersi a lui, l'avrebbe aiutata, le avrebbe detto cos'era quella voce. Ripensando di nuovo alle parole dell'eccentrico Red, però, pensò che nulla impediva che fosse proprio a causa sua che le erano successe quelle cose. Forse così facendo voleva portarla a chiedergli aiuto e farle cambiare idea. Mad non avrebbe ceduto.
“Sei un'assassina.”
Lo so, avrebbe voluto urlare, lo so! Era un'assassina, un mostro, una terribile bestia che aveva ucciso un innocente. Ma no, si disse poi, il lupo non era di certo innocente, in primis dal momento che aveva cercato di ucciderla, senza neanche ascoltarla.
“Sei un'assassina.”
Non era certo una scusa, l'autodifesa, aveva comunque ucciso un uomo con amici, magari una famiglia, un branco ora era in lutto per colpa sua e solo sua. Eppure il branco era in guerra e se non avesse dato per scontato che lei era un gatto, se solo l'avesse ascoltata un momento! Avesse dubitato solo un momento della sua natura, lei non era un gatto!
“Sei un'assassina!”
Aveva ucciso! Aveva spento una vita, cancellato un futuro, negato l'esistenza a ogni ipotetico figlio e generazione, che diritto aveva? Nessuno. Meglio morire che uccidere, meglio di certo vittima che mostro! Oh, se solo non avesse sbagliato via, se solo avesse camminato più velocemente, se solo non lo avesse spinto. Ma era la Città, lo sapeva, l'aveva spinta lì, l'aveva obbligata, non era colpa sua.
“Sei un'assassina!”
Basta.
Era la voce che produceva quegli effetti su di lei, la voce esigeva senso di colpa, lo richiedeva e lo ordinava, ogni volta che Mad trovava un modo per giustificare, o meglio, motivare quella morte, la voce urlava sempre più forte. Man mano che ripeteva quella frase, cresceva una sorta di ronzio, o più che altro sembrava che la voce si sforzasse di dire qualcos'altro, ma non ci riuscisse. Forse stava solo scoprendo informazioni.
Doveva ignorarla. Doveva smetterla di pensarci ed andare avanti, senza lasciare che condizionasse ogni cosa che lei faceva. Sembrava certo impossibile, ma soccombere al senso di colpa non era di certo un'opzione.
Avrebbe dovuto chiedere aiuto, lo sapeva. Da sola, con le conoscenze che aveva a proposito degli esseri soprannaturali e della Città, non sarebbe certo riuscita a risolvere il problema. Ma a chi chiedere? L'unica persona di cui si fidasse anche solo minimamente ne sapeva meno di lei. Connie non poteva aiutarla.
Nella sua vita aveva imparato a non avere bisogno di nessuno, mai. Ora chiedere aiuto sarebbe stato più difficile di quanto pensasse. Si sentì sola, ancora una volta, come se il mondo, al di fuori di lei e del suo pesante fardello, non esistesse. Come se il mondo non fosse altro che una vuota tenebra che la opprimeva, la stringeva in un gelido abbraccio di solitudine.
Sentì Connie che canticchiava allegramente, in cucina.
Mad decise che era il momento di alzarsi: forse rimanendo occupata la voce non l'avrebbe infastidita più di tanto.
Salutò la coinquilina, cercando di sembrare il più normale possibile. Prese un succo di frutta all'arancia e lo bevve, a piccoli sorsi, cercando di vincere quel groppo alla gola.
“Che giorno è oggi?” chiese a Connie, mossa da un dubbio.
“Giovedì” rispose l'altra, alzando un sopracciglio. Era ormai sempre più chiaro che ci fosse qualcosa che non andava.
Madison per poco non si ribaltò dalla sedia. A pranzo doveva andare al De Vil. Ed era terribilmente in ritardo. Stare nel letto a pensare le aveva preso più tempo di quanto pensasse.
Corse nella sua stanza, acciuffando i primi vestiti che le capitavano. Si preparò, più velocemente che poteva, poi uscì di casa di corsa.
Se tutto fosse andato bene, sarebbe arrivata in ritardo di non più di qualche minuto. Alternò la corsa al passo spedito, consapevole di essere ormai già troppo sudata per avere un aspetto decente, ma non le importava granché.
Intanto, la voce urlava nella sua mente prepotentemente.
Quando entrò al De Vil, Twinky le riservò un'occhiata di disprezzo, ma nessuno le disse niente a proposito del ritardo.
Fu un turno piuttosto tranquillo, non molta gente andava a mangiare lì a pranzo, il che le lasciò tempo per dedicarsi al suo dibattito interiore a proposito dell'omicidio.
Ogni volta che ci pensava era sempre peggio. Si sentiva sempre peggio, un mostro, le motivazioni che si dava erano sempre le
stesse, 
ma sembravano essere inconsistenti, futili.
La voce ripeteva la stessa frase con sempre maggiore frequenza e con tono sempre più forte. Ora anche distogliere il pensiero sembrava impossibile. Alla fine del turno non riusciva più a distinguere i propri pensieri dalla vera realtà. La scena dell'omicidio iniziò a riproporsi davanti ai suoi occhi come se la stesse vivendo, ancora e ancora, come se quel momento non finisse mai. Twinky le disse qualcosa, ma lei non capì. La fissò, chiedendosi se non se la stesse solo immaginando e decise che non le importava.
Uscì dal bar, senza dire nulla a nessuno, poi fu travolta dalla brezza del vento. Neanche quello le importava.
Portò le mani alle tempie, cercando invano di tornare alla realtà.
Era un mostro, un'assassina, non si sentiva più degna di vivere.
Senza neanche rendersene conto, scelse di morire.
Le lacrime rigavano le sue guance rosee, mentre lei camminava lentamente. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé, il volto senza alcuna espressione, gli occhi vacui.
Non le importava più di nulla.
Lei era un mostro.
“Sei un'assassina, Madison” disse la voce, poi sembrò ridere.
Sono un'assassina, si ripeté lei.
Senza neanche rendersene conto, giunse nella zona del branco di Connor, dove vari lupi stavano facendo la guardia. Quando la videro, scattarono sull'attenti e concentrarono l'attenzione su di lei.
“Dove credi di andare?” chiese uno, minaccioso, tirando fuori le zanne.
Mad lo guardò per qualche secondo, poi, senza alcuna emozione nella voce, parlò. “Sono un'assassina” disse.
Il lupo spalancò gli occhi e la prese per un braccio, trascinandola senza alcuna delicatezza. Urlò qualcosa ai compagni, che guardavano la scena fra l'attonito e il glorioso. Un po' forse anche invidiosi, dal momento che non erano loro a portare il trofeo al loro capo.
Mentre trascinava Madison, il lupo non le toglieva gli occhi di dosso e non diceva nulla. Lei, da parte sua, si lasciava trascinare, come in trance.
In un certo senso si sentiva anche felice, come se fosse mossa da un senso di giustizia. L'omicidio sarebbe stato vendicato giustamente.
“Alfa!” urlò il lupo quando giunsero davanti a un gruppetto di persone, in una specie di piccola piazza, circondata da alti edifici grigi scuro.
Connor si girò, guardando verso Madison con curiosità e vittoria, non ci mise molto a capire chi fosse. Si girò verso una ragazza, la banshee, e con un cenno del capo le sembrò chiedere conferma.
“Sì, è lei” disse la ragazza. Madison subito riconobbe la voce che da tutto il giorno l'aveva tormentata. Era un potere della banshee, dunque, il trovare il colpevole facendolo impazzire? In quel modo lei era stata dunque incastrata, senza neanche rendersene conto, per quell'unico omicidio che senza vera intenzione aveva commesso.
La voce nella sua testa si zittì. Madison tornò in sé e prese finalmente coscienza di ciò che era successo.
E capì che sarebbe morta, senza ombra di dubbio.
Non che il senso di colpa se ne fosse andato completamente, ma si era affievolito, così come quel consegnarsi ai lupi ora le sembrava la peggior cosa che mai avesse potuto fare.
Connor la guardò, con un cipiglio che le parve cattivo e viscido. Sembrò esser mosso da vera soddisfazione nel sapere che la avrebbe uccisa e Madison provò quasi disgusto. Provò ad indietreggiare, ma fu subito fermata dal lupo che l'aveva portata lì.
Non c'era via di fuga.
L'alfa ululò, chiamando tutto il branco proprio come aveva fatto la prima volta che Mad aveva visto l'omicidio del gatto, quello che le sembrava essere secoli prima. Pensò a Connie, a come si sarebbe preoccupata e a come avrebbe sofferto sapendo che lei era morta.

Poi pensò alla sua vita. E tristemente capì che non c'era nulla di bello che allietasse quegli ultimi momenti.

Maledì la Città, perché, proprio come lo era sempre stata, era dannatamente sola.
Era accerchiata da lupi e davanti a lei Connor stava a braccia incrociate, imperioso.
“Gatto dei Nekomusume, che non sei neanche degna di far sapere il tuo nome” disse l'uomo alla prigioniera “Sei colpevole del brutale assassinio del nostro James Donovan, grande amico e stimato guerriero, e per questo io, Connor Wallace, ti condanno a morte.”
“Non sono un gatto!” gridò lei, nel tentativo di fermarlo, con le lacrime agli occhi. “Non ho nulla a che fare con i gatti!”
L'alfa esitò qualche momento, scrutandola per capire se stesse dicendo la verità. Fu mosso dal dubbio, ma in pochi istanti Madison capì che a lui non importa davvero cosa lei fosse, ma solo ciò che lei aveva compiuto. Il suo tentativo non aveva avuto nessun successo.
Si sentì prendere per le spalle da due lupi, che la tenevano ferma.
Il suo cuore batteva velocemente, le lacrime suo malgrado scorrevano lungo le guance. Non c'era nulla che potesse fare, oramai, e non sapeva neppure quale potesse essere il suo ultimo pensiero. Sentì che la sua esistenza fosse stata sprecata, che dalla vita non avesse avuto altro che sofferenza e il suo combattere non fosse stato nient'altro che un vano tentativo di opporsi a un destino sul quale non aveva alcun potere. Non poteva vincere contro la Città, era diventata un mostro e ora sarebbe morta, senza neanche mai poter vincere quell'odio che le era stato riservato da chiunque, quando ancora era libera nel mondo.
In quei brevi istanti capì che non aveva mai davvero posseduto la libertà e la sua esistenza era stata solamente il capriccio di un mostro diabolico.
Lei sarebbe morta e nulla sarebbe cambiato.
Quello sarebbe stato il suo ultimo pensiero.
Smise di piangere.
Se la sua esistenza non aveva avuto alcuno scopo né alcuna gioia, almeno ora ancora un diritto ce l'aveva. Sarebbe stata forte e coraggiosa in quell'ultimo istante e avrebbe guardato la morte come un combattente che guarda il suo ultimo nemico e non si sarebbe sentita debole, né avrebbe pensato che in quel duello avrebbe perso, perché l'unica cosa che le rimaneva era la dignità di perdere essendo nient'altro che lei stessa, nella sua forza. Aveva uno sguardo fiero ed era più bella di quanto non fosse mai stata, perché non aveva paura.
Non era mai stata più viva.
Connor vide questa grande forza e per un attimo ne fu destabilizzato. Ma in realtà non gli importava davvero. Si iniziò a tramutare in un lupo, lentamente.
“Mi chiamo Madison Huddle” disse lei, con aria di sfida. “Il mio nome è degno di essere conosciuto.”
“Wow! Beh, piano, ragazza” intervenne una voce, per Madison molto famigliare. “E piano, Connor, tutta questa fretta è inappropriata per un capobranco.”
Red se ne stava su una delle terrazze di un edificio, tranquillamente appoggiato alla ringhiera, con le braccia incrociate. Il suo completo a righe verticali bianche e nere faceva risaltare ancora di più il rosso acceso del suo cilindro, come al solito appollaiato sui suoi ricci.
Un brusio si diffuse fra i lupi.
Connor rise, tornando alla forma umana.
“Red Anomalies” disse “ma quanto tempo.”
Madison si sentì sopraffatta dal sollievo. Non era mai stata più contenta di vederlo, nonostante non si fidasse di lui, sperava che avrebbe impedito la sua esecuzione.
Red riprese la parola.
“Hai ragione, Connor, quindi perché rovinare questa gioiosa occasione di ritrovamento con un omicidio?” disse con ironia. Sembrava chiaro che fra i due ci fosse astio, se non addirittura odio.
“Lo sai che è il codice del branco, non lascio una morte invendicata.”
Red salì sulla ringhiera della terrazza, quindi balzò giù con un salto, andando a finire esattamente fra Madison e Connor.
“Sì, ma lei non è una Nekomusume. In più non è stata esattamente colpa sua la morte del tuo amico, non è vero, Mad?” chiese rivolto a lei.
La ragazza capì che quello era il suo momento per dire come stavano le cose. “Sono nuova e non sapevo che questo fosse il tuo territorio, ho sbagliato strada e il tuo amico mi ha aggredito pensando che fossi un gatto, senza lasciarmi parlare” disse Mad, senza riuscire a limitare l'astio nel suo tono.
Connor fece una smorfia, ma non disse nulla. Si limitava a fissare Red.
“Noi ce ne andiamo” disse quest'ultimo. “Nonostante mi piacciano molto i cestini assortiti, ci accontenteremo delle scuse da parte di tutto il branco. Scuse accettate.”
I lupi che tenevano Madison fissarono il proprio Alfa, interrogativi, e lui fece loro un cenno di lasciarla andare, senza ancora dire una parola.
Red affiancò la ragazza come si fa con gli zoppi, tenendola per un fianco e lasciandola appoggiare a lui, con un braccio intorno alle spalle.
Sotto gli occhi di tutto il branco, i due se ne andarono.
Madison aveva moltissime domande, ma per ora si lasciò salvare.

 

*Angolo autrice*
Buonasera a tutti! Quanto tempo!
Capitolo pieno di avvenimenti eh?
Innanzitutto, spero che tutti voi abbiate passato un buon Natale e vi auguro un felice anno nuovo, vi prego di scusarmi per il mio ritardo.
In ogni caso, abbiamo assistito a un ritorno di Red e, ovviamente, un ritorno in grande stile. Abbiamo rivisto anche Virgil e Felix, cosa ne pensate di loro? 
Mad si è cacciata in un bel guaio, ma ora la situazione sembra essersi risolta.
Che dire? Aspetto un vostro commento!
StellaDelMattino


 

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Capitolo 11
*** The Price ***


Capitolo 10
The Price

 

Alexander Morales fissò a lungo l'armadio. Cosa mettersi per ciò che stava per fare?
Non che fosse così importante, certo, ma era tempo che non si faceva vedere in giro e, essendo lui il capo della Città, anche l'aspetto contava.
Fece scorrere le dita sui tessuti delle varie giacche, senza indugiare particolarmente su nessuna. Poi ne prese una nera.
Era pomeriggio tardo, fra poco il sole sarebbe tramontato e avrebbe acceso il cielo di sgargianti tonalità rossastre. E di quel colore sarebbero stati anche i palazzi, sogghignò Alexander.
Sulla soglia della porta della casa, Felix stava appoggiato guardando le strade. Sembrava pensieroso. Quando vide Alexander aggrottò un sopracciglio.
“Andiamo da qualche parte?” gli chiese.
L'altro sorrise. “Vado a far vedere che Alexander Morales esiste.”
Il demone lo squadrò per qualche secondo, con uno sguardo enigmatico. “Per dimostrare la tua esistenza dovrai mostrare solamente uno dei tuoi tanti volti. Non è il nome che devi esibire, bensì la tua essenza plasmata dalla Città.”
“Odio quando parli in questo modo” rispose Alexander, alzando gli occhi al cielo, ma Felix sapeva che non era vero.
Il demone, di punto in bianco, cambiò espressione. Il suo sguardo si fece vacuo, perso nel vuoto. Alexander capì subito cosa stava succedendo: stava per vedere nel passato o nel futuro.
“Fra non molto dovrai dimostrare il tuo nome in ogni tuo volto” disse, ma neanche lui stesso capiva cosa ciò volesse significare. Alexander, invece, capiva perfettamente.
“Lo so, Felix, lo so” rispose, senza neanche provare a nascondere tutta la sua malinconia.
Poi se ne andò.

***

Erano passate diverse ore, ma Connor ancora non riusciva ad andare oltre a quell'affronto che Red Anomalies gli aveva mosso. Gli aveva fatto fare una figuraccia davanti al suo branco intero, figuraccia che lui non aveva saputo giustificare in alcun modo, dato che quell'uomo non era altro che uno sbruffone. Avrebbe pagato per ciò che aveva fatto, questo era sicuro.
Era stato congelato dalla sorpresa: tutti conoscevano il nome di Red Anomalies e lui sapeva quanto potere avesse quell'uomo, non poche erano le voci che lo riguardavano.
Era un'ombra, tutti lo conoscevano ma nessuno ne parlava, era il diavolo con cui i mostri stringevano i patti. Gli avrebbe fatto pagare il prezzo delle sue azioni.
Ma chi era quella ragazza? Red Anomalies era uscito dall'ombra per una novellina, Connor avrebbe colpito lei. Avrebbe ottenuto la sua vendetta.
D'altronde non aveva alcuna ragione per temere Red Anomalies, lui aveva un branco. Cosa poteva fare un solo uomo contro un branco di forti lupi?
“Alfa” lo chiamò un lupo “C'è un problema.”
Connor era stufo dei problemi. Chiunque fosse stato il colpevole, di certo quel giorno l'avrebbe ucciso. La sua rabbia era ormai impossibile da contenere.
Uscì dalle sue stanze, in cui si trovava precedentemente, per andare nella piazza delle adunate a sentire quale fosse questo nuovo problema. In mezzo alla piazza, circondato da tutti i suoi lupi, stava un giovane, vestito elegantemente: aveva una camicia bianca, mentre i pantaloni e la giacca erano neri.
“Connor Wallace” iniziò questi, con un tono quasi sfacciato, completamente sicuro di se stesso. “Sono qui per ricordarti che la Città non ti appartiene. Hai oltrepassato il limite.”
L'alfa scoppiò a ridere, ma questo sembrò divertire lo sconosciuto. Aveva uno sguardo malizioso, accompagnato da un sorriso storto.
“E, Vossignoria” replicò Connor con tono di evidente scherno “Con chi ho l'onore di parlare?”
Alcuni lupi si misero a ridacchiare.
“Con Alexander Morales” rispose lui, con una certa soddisfazione.
Calò il silenzio. Nessuno osò fiatare.
Connor si sentì invadere le membra dal gelo nel realizzare che il capo della Famiglia era davanti a lui.
Eppure quella era la seconda volta in quel giorno che un uomo metteva alla prova la sua autorità e affrontava il più potente dei lupi della Città insieme al suo branco. Non importava chi diceva di essere quell'uomo, era solo uno, non poteva far nulla contro una quarantina di lupi allenati alla guerra.
“Ti dico io chi sei” lo apostrofò l'Alfa, con disprezzo. “Sei solo un impertinente e fra poco sarai solo polvere.”
Mentre parlava, le sue membra si trasformavano, il viso prima distorto da un ghigno ora si trasformava nel muso da lupi, un ringhio che nasceva nella sua gola.
Gli si scagliò contro, con rabbia, ma Alexander lo evito senza mostrare alcuna difficoltà. Connor finì nella polvere, dopo essere caduto, ma si rialzò con inumana velocità, indenne. I suoi occhi erano iniettati di sangue, ma non attaccò di nuovo.
“Lupi, uccidetelo” comandò imperioso.
Il branco, però, fu preso da un attimo di incertezza, o più che altro di timore. Il loro alfa era appena stato gettato a terra come se nulla fosse, non erano così pazzi da scagliarsi contro Alexander. In gioco, però, c'era la fedeltà e quella, per un lupo, era forse più importante della vita stessa.
“Questa è la vostra ultima occasione di sopravvivere: abbandonate il vostro capo indegno!” gridò Alexander, ma invece di scoraggiare i lupi li mosse all'azione. Lui stesso non avrebbe saputo dire quale fosse il suo fine, la pace o la guerra.
Quando i componenti del branco iniziarono a correre verso di lui, Alexander sorrise amaramente: quella loro stupida fedeltà illimitata avrebbe costato loro la vita, ma ancora non se ne rendevano davvero conto.
Un primo lupo si avventò su di lui a fauci spalancate, ma Alexander lo afferrò per la gola, sollevandolo. Lo fissò negli occhi, scatenando un turbine e sconquassando le sue membra con la sola forza di uno sguardo letale, poi scaraventò il corpo morto qualche metro più in là.
Ne arrivarono altri tre, tutti insieme, che lo attaccarono con tutta la loro forza, cercando di morderlo, ma Alexander spezzò il collo a due di loro, prima che riuscissero ad affondare i denti nella sua carne, mentre sul terzo utilizzò il proprio potere proprio come aveva fatto sul primo.
Ora, però, ad andargli incontro erano una ventina di lupi, forse di più, che lo accerchiarono con le fauci spalancate, gli occhi da predatore fissi su di lui, famelici, mentre aspettavano il momento giusto per attaccare.
Alexander sorrise, mentre nei suoi occhi adombrati nacque un vortice che, dopo aver percorso tutto il suo corpo, si espanse anche all'esterno, prima sotto forma di una leggera brezza, poi come un vero e proprio tornado di cui lui stesso era il centro, un tornado composto da buio e caos anziché da vento, che emanava quelle che sembravano delle piccole scosse elettriche, gialle e blu.
I lupi, ora terrorizzati, furono sollevati in aria dal tornado e giravano, con il corpo percosso sia dalle correnti d'aria sia dalle scosse elettriche, ma in particolare da quella che sembrava vera e propria oscurità, simile a una nuvola di tempesta che vorticava nel turbine e sembrava divorare tutte le creature, finché uno ad uno non ricaddero a terra morti o moribondi.
Il tornado tornò in Alexander, sorridente, che si scrocchiò le ossa del collo. Sembrava nutrirsi di quel caos.
I lupi che ancora erano vivi avevano un'espressione impaurita e Connor se ne stava a bocca spalancata, tremante come una foglia, sotto spoglie completamente umane.
Alexander ghignò, guardandolo, ed estrasse due pugnali che teneva appesi ai lati della cintura. Con un tale velocità che neanche un lupo sarebbe riuscito a cogliere i suoi movimenti inchiodò Connor al muro e gli pugnalò una spalla con una quantità di forza tale che la lama si conficcò nel cemento e lì rimase. L'Alfa urlò di dolore e invano cercò di rimuovere l'oggetto o anche solo di estrarlo dal muro. Non poteva scappare.
Alexander si girò verso gli altri, ormai solamente cinque, che avevano iniziato a correre per scampare alla morte, nonostante ormai avessero capito che la loro vita era finita e la loro fedeltà fosse ormai distrutta. Fuggivano più velocemente che potevano, ma lui comunque ne colpì due, avendoli raggiunti facilmente, poi ruppe il collo ad un altro e uno lo sollevò e lo scaraventò dall'altra parte della piazza. Ne mancava solo uno.
Gli si avvicinò, con il fiato corto, mentre questo correva via. Poi il lupo cadde, quindi iniziò ad arretrare, lo sguardo invaso dal terrore. Lui non voleva morire.
Alexander si fermò davanti a lui, pensando a come l'avrebbe ucciso.
“Ti prego” iniziò a supplicare l'altro, con gli occhi che si riempivano di lacrime e un tono pietoso che quasi fece disgusto ad Alexander. In quella supplica, in quel disgustoso cane non c'era dignità. “Non uccidermi.”
In realtà avrebbe potuto lasciarlo andare, pensò. Qualcuno che raccontasse cos'era successo poteva essere utile e non era detto che fosse sopravvissuto qualcuno di quelli che aveva imprigionato nel turbine. Lasciarlo vivere avrebbe potuto portare più benefici di quanto pensasse.
Vedere degli occhi impauriti che lo fissavano chiedendo pietà non era esattamente qualcosa che gli ispirava l'omicidio.
Decise dunque di lasciarlo andare, ma appena prima che lo facesse il lupo disse qualche parola di troppo.
“Devi pur avere un cuore!” gridò con la voce spezzata “Non puoi essere solamente un mostro!”
Alexander si irrigidì di colpo e con un veloce movimento del polso lo sgozzò, mentre il sangue gli schizzava sulla camicia.
“Siamo tutti mostri” sussurrò al corpo che senza vita si accartocciava sul suolo. “Siamo qui per questo.”
Si girò allora, completamente insensibile, e in pochi attimi raggiunse Connor, che agonizzante teneva una mano insanguinata sul pugnale, ancora nell'inutile tentativo di rimuovere l'oggetto dalla sua spalla.
Alexander lo guardò con feroce indifferenza e con il pugnale con cui aveva sgozzato l'ultimo lupo fece un taglio in verticale sul braccio dell'Alfa, così che uscisse una maggior quantità di sangue, poi applicò un'altra ferita più piccola sul collo.
Quei tagli, più il pugnale nella spalla, lo avrebbero fatto dissanguare abbastanza presto, dandogli in ogni caso il tempo di capire ciò che era successo al suo branco e a lui e di sentire tutto il senso di colpa nei suoi ultimi attimi di vita. Non aveva più un branco a cui chiedere aiuto.
Alexander dunque se ne andò, con i vestiti completamente inzuppati dal sangue, che lo copriva di quel rosso vermiglio che ora caratterizzava anche il cielo, nello spettacolo del tramonto, mentre l'Alfa rimase lì, solo, a morire senza neanche la compagnia del suo uccisore, ma solamente circondato da quel branco che aveva condotto alla distruzione.
Questa era la punizione per chi osava sfidare Alexander Morales.

***

Qualche ora prima


Madison tremava come una foglia, dopo che l'adrenalina aveva smesso di fare effetto, quando arrivarono sulla soglia dell'appartamento.
Red la sosteneva, aiutandola a camminare, ma soprattutto fornendole un bastone morale, le stava cercando di comunicare che non era sola.
Mad si staccò da lui, poi lo guardò negli occhi, in silenzio.
Lui sembrava essere sul punto di parlare, ma la ragazza lo interruppe scuotendo la testa e facendo un gesto con la mano.
“Per ora non dire nulla” gli disse “Poi avrò un sacco di domande che sicuramente troverai insopportabili, ma per ora voglio solamente ringraziarti, davvero. Grazie, Red, per avermi salvato la vita nonostante io ti abbia buttato fuori di casa.”
Detto questo, Mad lo abbracciò, teneramente. Red rimase un attimo interdetto, poi la strinse lievemente, attento a non fare del male, ma anche comunicandole un affetto che lei non si aspettava.
Si sciolsero dall'abbraccio, qualche secondo dopo, quindi lui bussò alla porta, continuando a guardare Mad con la coda dell'occhio.
Connie aprì la porta e spalancò la bocca, spaventata e sorpresa.
“Cosa le hai fatto?!” chiese a Red, pronta a scagliarsi contro di lui e arrabbiata.
Lui alzò gli occhi al cielo, vagamente esasperato. “Ma perché voi due date sempre la colpa a me?”
Madison ridacchiò, a fatica, poi guardò Connie cercando di rassicurarla con un sorriso. “Mi ha salvato la vita.”
La coinquilina li guardò entrambi con evidente confusione, poi scosse la testa e si concentrò su Mad, conducendola verso il divano prima di fare altre domande, per un attimo dimenticandosi che il divano era già occupato da qualcun altro.
Mad vide la figura, sdraiata e immersa nelle coperte, tanto che spuntava solamente la parte superiore del viso, e alzò un sopracciglio, interrogativa.
Ci mise un attimo a riconoscere Virgil, così com'era conciato.
Vicino a lui, su un bracciolo, c'era un gatto grigio con un'espressione tremendamente annoiata, senza dubbio Gianduiotto.
Connie sospirò. “È arrivato qui chiedendo aiuto” spiegò “Non ho saputo dire di no.”
Red sorrise.
Dopo aver incontrato Virgil lo stava per portare in un luogo sicuro, un altro appartamento abbandonato, ma era arrivato Gianduiotto a informarlo che Mad si stava comportando in modo strano in quei giorni e Connie mal celava la sua preoccupazione. Allora Red aveva lasciato Virgil davanti all'appartamento delle due ragazze, dicendogli di chiedere aiuto, sapendo che Connie era troppo buona per rifiutare, poi aveva cercato Madison, al De Vil, e in poco tempo aveva scoperto ciò che era successo.
Mad non indagò ulteriormente, limitandosi a raggiungere la sua stanza, poi si sedette sul letto e si appoggiò allo schienale.
Red indugiò sulla soglia, non sapendo bene cosa fare, poi si mise ai piedi del letto, aspettando di vedere se Mad l'avrebbe scacciato o meno, m la ragazza sembrava troppo persa nei suoi pensieri per farci caso.
Connie si pose di fianco a Madison e con una mano iniziò ad accarezzarle una spalla per confortarla, sebbene ancora non conoscesse ciò che era successo.
Mad allora iniziò il suo racconto, partendo dal suo turno al De Vil prima dell'omicidio. Non menzionò la congrega, però, poiché ancora diffidava di Red, nonostante iniziasse a dubitare della sua decisione di escluderlo completamente dalle loro vite. Prima di cambiare idea voleva sentire cosa aveva da dire lui.
Continuò, comunque, soffermandosi particolarmente sulla voce della banshee che aveva sentito nella sua testa, poi concludendo con il salvataggio di Red.
“Non è colpa tua, Mad, lo sai?” le disse Connie “Mi dispiace che tu non me ne abbia parlato, ma ti capisco. Voglio solo che tu sappia che non dovrai mai temere di essere giudicata da parte mia, ti conosco e so chi sei e cosa non faresti. Quell'omicidio l'ha commesso la Città, non tu.”
Madison si addolcì in un sorriso, poi la strinse in un abbraccio, decidendo che non le avrebbe mai più nascosto nulla.
Pianse, incapace di trattenersi, e Connie la tenne stretta. Non servivano parole per commentare ciò che era accaduto, nonostante il turbine di pensieri che ora frullavano nella mente della ragazza.
Rimasero così per una decina di minuti, prima che Connie si alzasse dal letto lasciando più spazio a Madison e dicendole che l'avrebbe lasciata riposare.
“Mad” aggiunse prima di uscire “Ricordati che io e te siamo un team. Niente più segreti.”
Madison annuì, ma quando Red, che fino a quel momento era stato zitto e immobile, fece per alzarsi, lo fermò.
“Ora dobbiamo parlare” gli disse.
Red sembrò riacquistare la sua sicurezza: le faccende più pratiche gli sembravano più facili da gestire di quelle emozionali ormai da tempo. Una delle cose che la Città a poco a poco ti strappava era proprio quell'altruismo basato sull'empatia che serviva per poter confortare una persona.
Anche Mad, però, dopo essersi lasciata andare al pianto era diventata una statua di ghiaccio, quasi avesse escluso ogni sentimento di sconvolgimento che aveva comportato ciò che era successo negli ultimi giorni.
“Sono un Alp” disse Red, andando subito al nocciolo della questione. “Ovvero un Incubo. Posso entrare nei tuoi sogni, trasformarmi in un paio di animali, diventare un'ombra e fare un paio di giochetti con la paura della gente.”
Madison lo fissò per qualche istante, senza fiatare o cambiare espressione.
“Tu sei molto potente” si limitò a dire dopo un po'.
Red annuì lentamente.
“Se Connor non ci avesse lasciati andare cosa avresti fatto?” chiese senza alcun sentimento nel tono di voce. “Avresti avuto la forza di uccidere quaranta lupi?”
“Forse, con qualche difficoltà. Avrei approfittato della loro esitazione per prenderti e scomparire. Mad, lo so che non ti fidi di me e so anche di avertelo consigliato io di non farlo. Ci sono cose che non ti ho detto e cose che non ti voglio dire, ma non c'è nessuno nella Città che possa affermare il contrario, se non un bugiardo. E io non sono un bugiardo: non ti dirò mai falsità, Mad, non risponderò alle domande a cui non vorrò rispondere oppure ti dirò la verità.”
Red sembrava quasi supplicarla, ma più con gentilezza che con disperazione.
Madison non si aspettava un tale discorso e si sentì sinceramente mossa dalle sue parole. Gli credeva davvero, ma c'era una domanda che la bloccava, le impediva di concedergli fiducia, almeno su questo punto.
Rimase a guardarlo per qualche istante, prima di proferir parola in un lieve, debole sussurro.
“Perché ti interessa così tanto la mia vita?”
Red si aspettava quella domanda, ma era chiaro che la risposta non fosse facile per lui da pronunciare.
“Tu mi ricordi tantissimo una persona” disse in un filo di voce. “Arrivò lo stesso giorno in cui sei arrivata tu, nella stessa parte della Città, tantissimi anni fa.”
Ancora una volta in pochi minuti, Red l'aveva sorpresa. Se quello che stava dicendo era effettivamente la verità, Madison lo aveva frainteso alla grande, per tutto quel tempo.
Lui le era sempre sembrato così freddo, incapace di avere emozioni, con quel suo cipiglio sempre cinico e utilitarista.
“Ne eri innamorato?” gli chiese, con un po' di imbarazzo.
Red sorrise lievemente, ma subito il sorriso scomparve e il suo sguardo si incupì. Chiaramente era pervaso dal rimpianto.
“No, ma lei è stata il mio primo peccato, il mio primo omicidio, così sono diventato un mostro.”

 

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Capitolo 12
*** Waiting ***


Capitolo 11
Waiting

 

 

Mad non riusciva a fare a meno di guardare Red, continuamente, di sottecchi. Si era aperto con lei, le aveva rivelato qualcosa di personale e Mad gli era grata per questo. Le sembrava di aver ritrovato speranza, proprio perché aveva visto in lui un lato più umano, forse ferito, danneggiato, ma in un certo senso buono. Decise dunque di fidarsi.
Erano tornati nel salotto, dove un Virgil agonizzante veniva accudito da Connie, che gli poneva sulla fronte un panno umido e gli accarezzava amorevolmente i capelli sudaticci. Gianduiotto la osservava con uno strano interesse nei suoi gialli occhi da gatto, leggermente socchiusi.
Red aveva ammesso di essere stato lui a condurlo lì, affinché qualcuno se ne prendesse cura.
“Sta morendo, non gli rimane molto tempo” disse, mascherando male una nota di pietà nella sua voce. Sembrava essere commosso dalla sua condizione, più che interessato alla sua persona. Forse sbagliando, Madison credeva che questa fosse un'ulteriore prova del fatto che c'era del buono in lui: aveva visto qualcuno in difficoltà e aveva deciso di aiutarlo, nonostante fosse solamente un novellino, confuso e abbandonato.
Connie guardava Virgil con una smorfia sul viso, come se nella sua mente ci fosse un turbine di pensieri. Sembrava indecisa.
“Non è che dovremmo lasciargli un po' di spazio?” chiese guardando Red, che inclinò la testa. “Intendo: siamo degli sconosciuti e stiamo assistendo a un momento critico e decisamente molto importante della sua vita. Forse non vorrebbe che stessimo qui a guardarlo morire, come se fossimo dei sadici scienziati.”
Red sorrise, con un velo di malinconia, e si avvicinò al ragazzo lentamente, fino ad inginocchiarsi davanti al divano. Aspettò un attimo, prima di rispondere, come se stesse pensando ad altro: sembrò andare indietro nel tempo, con la mente, prima di tornare repentinamente al presente.
“Non è questione di privacy, Connie. Noi siamo qui perché vogliamo che sappia che c'è qualcuno che si prende cura di lui: magari non sarà molto cosciente e probabilmente non capisce ciò che stiamo dicendo, ma sente che parliamo e sa che ci siamo, sono sicuro che ne è felice.” Ancora si fermò e rimase a guardarlo, con un lieve sorriso, forse malinconico. “Nessuno vuole morire da solo.”
Mad prese una sedia e si avvicinò.
“Cosa succederà ora, quindi? Morirà e poi?”
Red scrollò le spalle, si allontanò dal divano e poi si appoggiò al muro, con le braccia incrociate. “Dopo qualche ora si sveglierà, vivo e nuovo.”
“Sai proprio tutto, eh?” disse Mad con un sorriso, poi cambiò argomento, sentendo la necessità di alleggerire quella situazione densa di tensione. “Quindi il tuo nome è Red Anomalies?”
Lui la guardò con un'espressione quasi trionfante. “Già.”
“Mi piace!” commentò Connie.
Gianduiotto si stiracchiò e quando tentò di farsi le unghie sul bracciolo del divano fu subito richiamato dalle due ragazze. Allora le guardò di traverso, con uno sguardo di scherno quasi, e poi si avvicinò a Connie, che gli diede qualche buffetto sul capo, dunque sembrò soddisfatto.
Virgil fu repentinamente preso dalle convulsioni, sul subito molto intense, Madison guardò Red per sapere cosa fare, ma lui sembrava impassibile, chiaramente non si doveva far nulla. Allora volse nuovamente il suo sguardo al malato, che ora respirava velocemente e con affanno, gli si avvicinò e poi gli prese una mano. La tenne stretta fra le sue, per quanto lui si dimenasse, ma d'altra parte Virgil la stringeva come se fosse tutto ciò che gli rimaneva. Era così e Madison lo sapeva, anche se non comprendeva fino in fondo il profondo dramma che avvolgeva il ragazzo in quel momento. Il freddo che sprofondava in lui lo tormentava e la paura rendeva tutto ancora più buio, Virgil si sentiva intrappolato dentro di sé. Non si sentiva pronto per ciò che sarebbe successo, ma non poteva combattere ancora per molto.
Quell'unico caldo, quella mano sconosciuta che stringeva era l'unica cosa che gli sembrava togliere un po' di dolore, che lo faceva sentire un po' meno perso. Quella voce sconosciuta, la voce di Mad, che gli sussurrava che non era solo, riuscì a calmarlo.
La convulsioni diminuirono, il respiro si affievolì, il cuore iniziò a battere più lentamente e Virgil esalò l'ultimo suo fiato.

***

Alexander Morales era coperto di sangue, ormai secco, e camminava per la Città, tranquillo e trionfante, ma ancora avvolto da quel caos interiore che lo aveva portato a trucidare l'intero branco di lupi.
Aveva una destinazione ben precisa e seguiva il suo percorso incurante degli sguardi che lo sfioravano, anzi quando qualcuno
sembrava riporre la sua attenzione su di lui alzava maggiormente il mento, orgogliosamente, e ricambiava lo sguardo con ferocia.

Probabilmente in qualche ora uno o due lupi sopravvissuti al turbine, che lui aveva creato, avrebbero sparso la notizia e allora nessuno si sarebbe chiesto chi era colui che insanguinato girava a testa alta per la Città. D'altra parte voleva essere il primo a informare l'altra fazione della guerra: i gatti.
Come aveva calcolato, ovviamente, quel giorno era proprio quello in cui si incontravano, come tutte le settimane, i capi dei vari branchi dei gatti.
Mentre entrava nel quartiere le creature, a differenza dei lupi che subito l'avevano accerchiato, si limitarono a guardarlo con diffidenza, allontanandosi dopo avergli lanciato occhiate sospette. Sapevano, sentivano che non era un lupo, dunque non avevano alcun interesse nell'ostacolare il suo percorso. Ecco perché preferiva i gatti.
Solamente quando si avviò verso la sala delle adunate un Bakeneki, ovvero un gatto maschio, gli si avvicinò, cercando di fermarlo.
Alexander alzò un braccio in aria e lo prese per il collo, guardandolo negli occhi. Lo lasciò cadere a terra incosciente, ma ancora vivo.
Nessun altro si interpose.
Quando aprì il portone sentì subito l'attenzione di diciotto occhi felini su di lui, illuminati dalla soffusa luce di tante lampade a olio. Sorrise diabolicamente.
Nessuno dei nove capi fiatò, si limitarono ad aspettare impazientemente che lo sconosciuto che li aveva interrotti spiegasse perché si trovava lì. Le parole di Alexander non si fecero attendere.
“Sapete di chi è questo sangue?” chiese indicandosi ma non aspettando una risposta. “È dei vostri nemici, del branco di Connor Wallace. Sì, di tutto il branco.”
I gatti lo guardarono interrogativi, scioccati, e ora era palese che ben volentieri avrebbero fatto delle domande: prima fra tutte, chi lui fosse. Alexander non diede loro tempo.
“Non avrei nessuna difficoltà a fare la stessa identica cosa a tutti voi. Non datemi un motivo per farlo” aggiunse, prima di uscire dalla sala, in modo talmente veloce che loro non lo videro neanche.
Quando il giorno dopo avessero saputo che l'intero branco di lupi era stato massacrato e che era stato Alexander Morales a farlo, avrebbero compreso anche quell'incontro, veloce quanto strano, e di certo avrebbero iniziato a temere quell'uomo che in un solo giorno aveva posto fine a una guerra.
Ma per ora si limitarono a guardarsi l'un l'altro confusi e vagamente divertiti.

Alexander Morales poteva finalmente tornarsene a casa.
Era stato un incontro breve, ma di sicuro di effetto.
Percorrendo le strade osservava i palazzi con una certa nostalgia.
Una volta gli erano molto più familiari di quanto fossero ora e molti ricordi, belli e al contempo dolorosi, lo assalivano mentre camminava per quelle strade. Andava lentamente, lasciando che dopo la furia di quel pomeriggio fosse calmato dalla malinconia.
Quando passò davanti a un palazzo in particolare si fermò.
Il terzo piano, ma anche l'edificio in generale, era ciò che rimaneva di un incendio. Le pareti nere, quasi completamente distrutte, lasciavano intravedere quello che sarebbe stato un palazzo triste e grigio esattamente come tutti gli altri, se non fosse per quella catastrofe che evidentemente era avvenuta lì.
Alexander si concesse di lasciar scendere una lacrima solitaria lungo una guancia, ancora sporca di sangue. Un caos si muoveva dentro di lui, nel suo animo si sovrapponevamo emozioni opposte. All'inizio tristezza e mancanza, principalmente, poi rancore e senso di colpa. Si riempì di questi sentimenti per svariati minuti, prima che prevalesse un'asprezza che quasi sfociava nell'odio.
“Ti sto aspettando” disse a nessuno, ma anche a una persona in particolare. Aveva aspettato per molto tempo. Ora era quasi giunto il momento e neanche Alexander sapeva come si dovesse sentire.
D'altronde lui era caos e quel tornado interiore che gli dava forza e al tempo stesso lo dilaniava era il suo destino.
Quella sera avrebbe davvero avuto bisogno di un drink.

***

Ora che Virgil era morto, non restava che aspettare.
“Certo che è inquietante avere un morto-non-morto in salotto, sul divano” commentò Mad incrociando le braccia al petto. Red sorrise.
“Immagina quanto è inquietante avere un morto-vivo che ti parla in salotto” disse di rimando, alzando le spalle e poi esibendosi in un inchino.
“Anche se non fossi morto saresti inquietante lo stesso.” Madison lo squadrò ridacchiando.
Red si portò una mano al petto come se si fosse offeso, ma sorrideva. Si rabbuiò, poco dopo, e si diresse verso il terrazzo. La ragazza lo seguì.
“Qualcosa che non va?” gli chiese.
Lui scosse la testa. “Connor è un tipo molto orgoglioso, di sicuro non avrà preso bene la nostra fuga. Gli ho fatto fare una bella figuraccia.”
“Effettivamente non è stata una grande prova di potere.”
“Io so badare a me stesso, quello che mi preoccupa è che ora venga a dare la caccia a te” continuò guardandola. Sembrava abbastanza distaccato, ma Madison non riusciva a capire se lo fosse davvero, o se quello fosse il suo modo per proteggersi, per mascherare i suoi sentimenti.
Improvvisamente fu presa da un moto d'odio.
“Allora uccidilo” disse di getto, con astio. Red volse il capo repentinamente verso di lei, ma non disse nulla. “Hai detto che, anche se a fatica, saresti riuscito a sconfiggere il branco, dunque un lupo solo non ti può dare alcun problema: elimineresti tutti i nostri problemi e daresti a lui ciò che si merita. Una morte lenta e dolorosa. Se fosse necessario lo farò io stessa.”
Red l'afferrò per le spalle e la guardò negli occhi, quasi con emergenza.
“Non ti rendi conto di ciò che stai dicendo, Mad, questa non sei tu, questa è la Città che sta cercando di farti diventare un mostro.
Uccidere non è una soluzione, Mad, combatti” le disse con un tono non arrabbiato, ma quasi triste.

La prima volta che si erano visti gliel'aveva detto chiaramente: nella Città sei destinato a diventare un mostro, non c'era scampo. Ora però le diceva di combattere.
Mad lo guardò confusa, subito perse quella rabbia che l'aveva invasa prima, come se fosse impazzita per un momento.
“Perché mai dovrei contrastarlo, se è ciò che sono destinata a diventare?” gli chiese, triste, disperata, con un tono quasi di supplica. Si sentiva solo stanca, sfinita da quella quantità di disgrazie che la colpivano in quei giorni.
Lo sguardo di Red si addolcì.
“A volte, anche se sai già come andrà a finire, anche se sai che c'è solo un cupo orizzonte alla fine del tuo vasto essere, non puoi far a meno di combattere, di credere che ci sarà un'alba. Non vi è che un grande male, ma cosa ci rimane se rinunciamo al bene?” Le tolse le mani dalle spalle e si riappoggiò alla ringhiera del balcone, come era messo prima. “La Città sceglie il tuo destino, decide le tue azioni e l'oscurità ti condanna, l'unica libertà che ti rimane è rimanere chi sei, lottare per non perderti, con la dignità che solo un dannato può avere.”
Madison lo fissò, mentre ancora le sue parole le riecheggiavano nella mente. Stette in silenzio per un attimo, prima di sussurrare: “Lo ricorderò.”

Quando tornarono all'interno dell'appartamento, Connie stava cucinando una torta, mentre Gianduiotto, ora in tutta la sua bellezza della forma umana la guardava di sottecchi appoggiato alla finestra, pensieroso.
“Ma tu non smetti mai di cucinare?” chiese Madison alla coinquilina, che con la sua leggerezza saltellava da un punto all'altro, mentre metteva gli ingredienti.
Connie sbuffò, togliendosi una ciocca dei lunghi capelli biondi dal viso. “Fosse per te saremmo morte di fame.”
Mad sorrise. “Per te invece saremo mangiate alla prossima festività, dato che siamo messe all'ingrasso.”
L'altra le fece la linguaccia.
Red ridacchiò, mentre Whisky rimaneva di pietra.
“Ora che Madison ha fatto esperienza diretta con una banshee, mi sembra giusto spiegarvi esattamente cos'è successo” disse il primo, attirando la curiosità di entrambe.
Connie dopo poco mise la torta in forno, poi si sedette su una sedia, pronta ad ascoltare. Così fece anche Mad.
“Le banshee sono creature che possono essere paragonate, nella credenza popolare, a dei tramiti fra questo mondo e la morte. Non hanno la capacità di comunicare con “l'altro lato”, ma possono presagire la morte di una delle persone a cui si affezionano. In particolare, sentono l'esigenza di vestirsi in modo particolare ogniqualvolta succeda qualcosa: se sono vestite di bianco è lutto, se sono vestite di rosso hanno un presagio di morte. Non possono impedire il decesso di qualcuno, ma il loro compito è quello di vendicarne la morte: stabiliscono una connessione con il colpevole, telepaticamente possono trasmettere senso di colpa fino a portare alla pazzia e, nel frattempo, attraverso ai pensieri dell'assassino a proposito dell'omicidio, riescono a risalire alla sua identità. Per questo tutti i branchi o le congreghe desiderano avere una banshee: è una sorta di garanzia per la vendetta del proprio gruppo.”
Madison e Connie annuirono, cercando di metabolizzare le nozioni che avevano appena appreso. Di sicuro avendo avuto esperienza diretta aiutava a capire il concetto.
“Ma c'è un modo per non essere... scoperti da una banshee?” chiese Mad, curiosa.
Red annuì. “Se non lasci che ti entri nella mente e allontani il senso di colpa non riesce a scoprire chi sei, ma è molto difficile, soprattutto se è una banshee potente. C'è bisogno più che altro di esperienza.”
La ragazza alzò le spalle.
“Che brutta creatura” disse, quasi con disprezzo, se non altro perché dopo ciò che era successo sentiva molto astio verso le banshee. “Passa tutta la sua vita a vedere i suoi cari morire.”
Red sembrò irrigidirsi, la guardò come se avesse detto qualcosa di tremendamente sbagliato e inopportuno. “Non pensare che tutte le altre creature abbiano tanti pregi. Hanno tutti i punti negativi.”
Connie prese parola: “Se non altro è viva, no?”
Lui sorrise lievemente, poi annuì.
In quel momento il forno emise un bip che segnalava che la torta era pronta.
“Per questa aspettiamo Virgil” commentò Connie.

***

Malgrado continuasse a dirsi che non gli importava, Alexander non riusciva a fare a meno di pensare alle parole del lupo che gli aveva supplicato di non ucciderlo. Quell'idiota aveva avuto la pretesa di richiedere umanità da un mostro.
Se ne stava seduto al solito posto, ricurvo sul bancone del De Vil, aspettando che Zwinky gli portasse la birra che le aveva ordinato.
Ora non era più ricoperto di sangue come quel pomeriggio, ma ovviamente le sue azioni ancora rimanevano ben evidenti nella sua mente. Da qualche parte, una banshee stava piangendo la morte di tutto il suo branco, ma Alexander quasi non sentiva la sua voce. Non si sentiva in colpa, provava solo rabbia verso di sé: lui era un mostro e lo era per destino, la sua oscurità l'aveva portato fin lì, ma questo era qualcosa che non aveva mai destato troppo sconforto, in lui, se non all'inizio, quando era diventato ciò che era.
Destino, questa era la parola lo affliggeva, poiché ben sapeva che l'essere un mostro era solamente una parte di ciò che la Città aveva deciso per lui. Provava astio, odio, poiché sapeva come la sua vita doveva finire, come la sua esistenza era destinata a concludersi, e sebbene volesse ribellarsi, sapeva che non sarebbe servito a nulla.
Non era stata una premonizione o qualcosa di simile ad annunciargli la sua fine, al contrario era la sua stessa essenza che decretava il corso della sua vita, e ciò gli era stato chiaro fin da quando tanto tempo prima era successo qualcosa che l'aveva segnato per sempre, qualcosa che con la mente rifuggiva in ogni modo.
Strinse il boccale di birra che Zwinky gli aveva portato nel frattempo tanto che lo ruppe. Il liquido colò e si mescolò al suo sangue, che sgorgava dalle ferite provocate dai vetri. Alexander chiuse a pugno la mano così da conficcarsi ancora più in profondità quei frammenti: percepiva il dolore e ammirava il sangue che gli ricordavano che ancora qualcosa di umano c'era.
“Sono arrivata!” esclamò una voce vagamente familiare rivolta alla barista. Madison si era piombata dietro il bancone, con il fiatone, consapevole di essere in ritardo. Zwinky le riservò un grugno indifferente, poi le indicò il disastro che aveva compiuto Alexander, consegnandole un panno.
Quest'ultimo alzò lo sguardo repentinamente, lasciando andare la presa, finché lei non gli si avvicinò.
Mad guardò la ferita senza guardare in faccia il ferito, spalancò gli occhi.
“Tutto bene?” gli chiese, finalmente alzando gli occhi su di lui. Quando realizzò chi aveva di fronte, il suo tono di voce si affievolì repentinamente.
Alexander sorrise, anche se leggermente infastidito dall'effetto che aveva avuto su di lei.
“Non è niente” rispose.
Mad non sapeva cosa fare. Tentennò, per qualche momento, finché Alexander decise di agire, distendendo la mano e volgendola all'insù, per poi posare su una parte di bancone adiacente i pezzi di vetro che cominciò a estrarre, con una calma e un'indifferenza che sembravano incredibili a Mad che lo osservava, in soggezione.
“Vedo che hai ottenuto il posto” le disse, mentre toglieva gli ultimi pezzi, appena prima di alzare lentamente lo sguardo su di lei, per qualche secondo imbambolata.
Mad, che intanto stava cercando di ripulire il bancone, annuì impacciata, con un sorriso di circostanza appena accennato. Incrociò il suo sguardo solo per un secondo, per poi riabbassarlo subito sul suo lavoro.
“La tua mano...” iniziò, ma lui le fece vedere che sulla mano non rimaneva altro che del sangue secco, le ferite si erano rimarginate completamente.
Mad spalancò gli occhi, cosa che lo fece sorridere.
“Per la maggior parte delle creature la guarigione è molto veloce, angelo” commentò mentre si godeva l'espressione stupita della ragazza.
A quel nomignolo, lei alzò un sopracciglio. Dopotutto, si sentiva tutt'altro che un angelo. Ad Alexander, in compenso, sembrò proprio azzeccato, chi altro avrebbe potuto chiamare così, se non una nuova, giovane e impacciata.
“Sto solo iniziando a conoscere la Città, a quanto pare” replicò leggermente più calma. Madison si allontanò, andando a servire un cliente che la chiamava. Non sapeva cosa pensare, semplicemente lui la affascinava e incuriosiva, ma al tempo stesso sapeva che doveva stargli alla larga, nonostante le fosse molto difficile. Gli lanciava qualche occhiata, di sottecchi, e più di una volta lo sorprese a osservarla, con un sorriso divertito e forse anche malizioso.
Dopo non molto Alexander la chiamò.
“Mi puoi portare una birra? Come sai, l'altra l'ho distrutta” disse, anche se in realtà si era quasi dimenticato il motivo per cui era andato lì, ovvero semplicemente per bersi qualcosa in tranquillità, ma ora sentiva la volontà di parlarle, curioso.
Mad annuì, gli portò l'ordine e poi prese coraggio.
“Perché hai rotto il boccale?” gli chiese, cauta. “Se posso chiedere.”
Alexander, senza farci caso, stropicciò la mano. “Ero sovrappensiero e non ho ben gestito la forza” disse con nonchalance, poi la guardò con un cipiglio divertito. “Non essere così spaventata, angelo. Non ti mangio mica.”
Per un secondo, la mente di Madison andò a ciò che aveva detto a Connie quel pomeriggio a proposito del mangiare. Arrossì.
Alexander, in compenso, si era rabbuiato. Pensò che il massacro dei lupi sarebbe stato presto noto a tutti, probabilmente anche a lei. Si chiese se non lo sapesse già.
“Madison” disse richiamando la sua attenzione. La ragazza si stupì che si ricordasse il suo nome. “Cosa sai della Città, ciò che accade in questi giorni?”
Mad lo guardò confusa, mentre ci pensava per qualche secondo.
“So che c'è una guerra fra lupi mannari e gatti” disse respingendo un moto di rabbia, di cui Alexander non si accorse, troppo interessato a capire se lei già conoscesse ciò che aveva fatto, cosa di cui evidentemente non c'era motivo di preoccuparsi.
Le sorrise e lasciò che tornasse a fare il suo lavoro.
Madison avrebbe saputo, prima o poi, e Alexander ne era turbato più di quanto volesse ammettere, proprio come era successo il giorno dell'incontro, quando aveva impedito che Felix uccidesse il ragazzo nuovo che le era affianco. L'aveva quasi voluta proteggere, in quel momento, dalla violenza e dalla morte, forse perché la prima volta che l'aveva vista gli era sembrata così ingenua, così umana, non ancora macchiata dall'oscurità mostruosa della Città, ma comunque forte.
Gli ricordava com'era essere ancora umani, in un certo senso per questo era così incuriosito da lei, o almeno in questo modo tentava di giustificare di giustificare quel genuino interesse che lo coglieva alla sua presenza e il suo cuore, impermeabile da troppo tempo a un sentimento simile, ora rischiava di battere nuovamente, se non si fosse imposto di tacitare quella curiosità.
Alexander ripensò all'appartamento colpito dall'incendio, nella zona dei gatti. Si rabbuiò: stava arrivando, si disse, e lui era pronto a prendere tutto in cambio di quella sola vendetta, ma se la ragazza fosse entrata a far parte della sua vita, Alexander l'avrebbe distrutta.
Stai fantasticando, si disse rimproverandosi. Quella ragazza non aveva altro fascino che l'essere ancora umana, in poco tempo sarebbe diventata un mostro e non sarebbe stata per nulla diversa da un qualsiasi altro abitante della Città. Come ogni cosa, avrebbe perso il suo valore, il suo significato, come tutte le altre cose corrotte dall'oscurità.
Rimase nel bar ancora per un po' di tempo, osservandola con distacco emotivo.
“Grazie di aver curato le mie ferite immaginarie” le sussurrò con sarcasmo, mentre le consegnava i soldi con un sorriso derisorio.
Poi se ne andò, ombra fra le ombre, inghiottito dalle tenebre della notte e da quelle del suo cuore.



Note dell'autrice
Come sempre, scusatemi dell'enorme ritardo! Spero che ne sia valsa la pena, fatemelo sapere.
Beh, non so che dire, se non che la storia sta ingranando e si aggiungono sempre più misteri... ora tocca a voi darmi il vostro parere.
Dedico questo capitolo alla mia Ciambi, Matilde, che fra pochi giorni compierà 18 anni, poi mi dirai tu cosa ne pensi ;)
Alla prossima
StellaDelMattino

 

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Capitolo 13
*** That's what you became ***


Capitolo 12
That's what you became

 

Virgil sollevò repentinamente il busto, spalancando i grandi occhi azzurri mentre respirava tanto violentemente che sembrava avesse rischiato di affogare. Rimase qualche secondo a fissare il soffitto, la mente vuota di un qualsiasi pensiero.
Era rinato.
“Virgil?” lo chiamò Connie, dopo essersi avvicinata.
Il ragazzo respirò lentamente un paio di volte, poi girò il capo verso di lei. La guardò confuso.
“Virgil?” chiese a sua volta, come se non conoscesse il significato di quella parola.
Red si intromise, posando una mano sulla spalla di Connie.
“Dagli qualche minuto” le sussurrò “Come vedi, è spaesato.”
Virgil portò le mani davanti al proprio volto e le osservò come se fossero estranee. Poi si alzò lentamente e fece qualche passo nella stanza guardando con curiosità ciò che lo circondava, ma non portando attenzione, invece, alle tre persone e al gatto che in religioso silenzio avevano gli occhi fissi su di lui.
Il ragazzo si mise davanti a uno specchio e si osservò confuso e interessato, piegando la testa di lato , poi sorrise.
“Il nuovo volto di Virgil Ash “ disse con tono enigmatico.
“Beh, teoricamente il volto è sempre lo stesso, è l'animo che è cambiato” intervenne Mad, nel tentativo di alleggerire l'atmosfera carica di tensione.
Virgil si girò verso di lei. “È anche quello un volto” disse, poi le sue gambe cedettero e lui crollò a terra.
Connie fece per avvicinarsi, ma Gianduiotto la precedette, poi, essendosi trasformato in un orso, lo sorresse e lo pose sul divano.
Virgil si appoggiò allo schienale, con una smorfia di dolore.
“Grazie mille” disse poi, rivolto a tutti. “Vi sono grato per avermi aiutato nonostante non vi conosca.”
Mad sorrise. “A questo proposito, io sono Madison Huddle.”
“Connie Douglas, è un piacere” disse la coinquilina.
“Come già sai, il mio nome è Red Anomalies e lui” continuò indicando l'orso che non sembrava intenzionato a presentarsi. “è Gianduiotto, o Whisky.”
Virgil fu colto da un improvviso mal di testa e nello stesso momento sentì il suo cuore prendere un ritmo anomalo. Si posò una mano sul petto, mentre si sollevava e iniziava a respirare affannosamente.
Red lo affiancò subito, mettendogli una mano su una spalla.
“Calma, ragazzo, contieniti. Lì dentro hai proprio un demone” disse.
Virgil strabuzzò gli occhi e si agitò ancora di più. “Sono un demone?” chiese quasi urlando.
“No” disse Red ridacchiando, poi scrollò le spalle. “Era una metafora.”
Il ragazzo sembrò calmarsi, mentre i suoi occhi erano pervasi da una curiosità tormentata.
“Ma allora... cosa sono?” chiese, sconvolto e quasi supplicante. Si sentiva attraversato da un tornado.
Red sorrise, con dolcezza, poi sospirò. “Sei un fomoro, la creatura del caos per eccellenza. D'ora in poi la tua vita sarà caratterizzata da un continuo sconvolgimento, un perenne movimento che non ti consentirà di provare calma, tranquillità. Ciò che è in te non è un demone, bensì un turbine, un infermabile tornado di emozioni.”
“Più che spaventoso sembra infelice, come creatura” disse Virgil sbuffando. Sentiva che le parole di Red erano vere, nel suo petto c'era un'irrequietezza che sembrava rifiutare la staticità di un cuore tranquillo.
Red continuò. “È anche spaventosa, credimi. D'ora in poi non solo il caos non ti lascerà mai, ma sarai sempre più affamato di esso. Come se fosse un tuo bisogno essenziale, acqua per gli umani. O più che altro zucchero: ne sarai dipendente. Tieni stretto il tuo cuore, comunque: chi vorrà ucciderti, punterà a strappartelo.”
Virgil, con un riflesso volontario, si massaggiò il petto e deglutì, mentre sentiva crescere continuamente lo sconvolgimento che si muoveva in lui.
Connie e Madison ascoltavano attentamente le parole di Red e per entrambe il tutto era ancora difficile da digerire: per quanto sapessero che tutto il mondo soprannaturale fosse reale, sentirne parlare così continuava a sembrare solamente lontano.
Un corvo entrò dalla finestra e, trasformato in un macaco, Gianduiotto si posò sulla spalla di Red. Mad alzò un sopracciglio: non si era neanche accorta che se ne fosse andato, tanto era stato silenzioso e tanto lei era presa dal discorso.
In ogni caso, Gianduiotto sembrava agitato, o più che altro sorpreso, come se stesse per annunciare una novità sconvolgente. Rivolse qualche verso a Red, il cui viso si illuminò di un sorriso sinistro, allo stesso tempo scettico e forse anche leggermente malvagio.
“Alexander Morales ha posto fine alla guerra: ha sterminato l'intero branco di Connor Wallace” disse, non rivolgendosi a nessuno in particolare e allo stesso tempo a tutti i presenti. “Questo è ciò che un fomoro può fare. Abbastanza spaventoso, ora, Virgil?”
Dopo aver ascoltato quelle parole, Madison provò diverse emozioni: sul subito grande sorpresa, ma poi quasi felicità, un'insana vendicativa allegria nel sapere che coloro che avevano provato ad ucciderla ora erano morti. Dunque capì: stava davvero diventando un mostro.
Persone, magari non innocenti, magari non buone ma comunque persone, erano morte, massacrate probabilmente crudeltà da un solo uomo. E non un uomo qualsiasi, ma proprio quello stesso per cui Mad provava un'attrazione che era decisamente pericolosa.
Mentre questo turbine di emozioni sconvolgeva la ragazza, uno ben più intenso prendeva Virgil, che di scatto si alzò in piedi respirando troppo rapidamente e poi cadde sulle ginocchia, si rialzò, mormorò impercettibilmente qualcosa e sparì, attraversando l'appartamento con una velocità che decisamente non era umana.
Red sparì subito dopo, tornando praticamente subito con Virgil, che ancora era sconvolto.
“Tutto questo è davvero spaventoso, non è vero?” gli disse, mentre gli teneva una mano sulla spalla. “Migliorerà, vedrai, devi solo abituarti all'idea.”
Mad ripensò a ciò che le aveva detto Red, che poteva “fare qualche giochetto” con la paura: dunque doveva conoscere, sentire il terrore che Virgil stava provando in quel momento, e forse anche il suo, sempre che fra tutte le emozioni che stava provando ci fosse anche della paura.
“Dovevo respirare” disse Virgil, mentre ancora ansimava.
“Direi che per ora ti ho dato abbastanza informazioni, beh, su di te. Riesco a vedere nei tuoi occhi tutto ciò che passa nel tuo cuore.”
Mad guardò gli occhi del ragazzo e capì ciò che Red intendeva: le sue iridi azzurre vorticavano con tormento attorno alle pupille che sembravano quasi pulsare, tanto era repentino l'alternarsi di dilatazione e restringimento.
Chiunque avrebbe potuto dire che nel suo animo c'era un tornado.
Madison ripensò agli occhi di Alexander, che fin da subito l'avevano colpita: in essi, però, sembrava scorrere un fiume lento e profondo, sembravano far parte del moto dei pianeti attorno al sole. Lento, intenso, quasi ipnotico e, come fuoco, scottante e al contempo affascinante.
“È dagli occhi che hai capito che creatura è?” intervenne Connie, dopo esser stata in silenzio per tutto quel tempo.
Red annuì e nuovamente Virgil sembrò agitarsi.
“Per questo Felix non ha voluto aiutarmi? Io non capisco...” disse, passandosi una mano sul volto.
“Felix, per qualche ragione a me sconosciuta, probabilmente ti ha salvato la vita: sei una creatura molto potente, quasi sicuramente Alexander Morales non avrebbe tollerato la presenza di un'altra persona come lui in questa città” spiegò Red, con un tono di voce quasi privo di intonazione, come se non gli interessasse.
Madison inarcò un sopracciglio: proprio quel Felix che aveva tentato di ucciderlo non molto tempo prima ora gli aveva salvato la vita. Per quanto la riguardava, era incomprensibile. Il fatto che Alexander l'avrebbe ucciso le sembrava improbabile, ma da poco avevano saputo che aveva compiuto un massacro: cosa gli avrebbe impedito di uccidere una persona? Madison doveva decisamente stargli lontana.
Virgil, da parte sua, si sentì quasi sollevato. Piacevolmente sorpreso, ora uno strano sentimento di gratitudine e quasi allegria
contrastava la cupa disperazione che le informazioni su di sé gli avevano fatto provare.

Erano decisamente troppe emozioni.
“Ho bisogno di aria” ripeté un paio di volte.
“Non posso lasciarti girare da solo per le strade della Città” disse Red serio. “Se uno degli scagnozzi di Alexander ti vede capirà subito ciò che sei ed è troppo pericoloso. Gianduiotto,” continuò richiamando l'attenzione del macaco. “trova Brownie e cercate informazioni su questa faccenda di Wallace.”
L'animale annuì e uscì dalla finestra dopo essersi trasformato.
Red guardò poi Madison e Connie.
“Ragazze, ce la fate a non mettervi nei casini fino a domani?” chiese loro con un sorriso.
Connie sembrò agitarsi. “Madison stasera deve andare al De Vil, è meglio che non stia da sola e non so quanto sarei d'aiuto se la accompagnassi io. Mi prenderò cura io di Virgil, tu proteggila.”
Red scosse la testa.
“Sei molto dolce, ma non puoi aiutarlo ora come ora, in più ho paura che potresti essere in pericolo tu a quel punto.” Si avvicinò a Connie di qualche passo, prima di cercare di confortarla. “Hai sentito, il branco di Connor non c'è più, Mad non sarà in pericolo, specialmente perché sono sicuro che correrà a casa appena finito il turno. Sarà solo per oggi, poi ci sarà sempre qualcuno con lei ad accompagnarla.”
La ragazza annuì, nonostante fosse turbata.
Madison e Red pensarono che dopo ciò che era successo con Connor la ragazza si fosse preoccupata molto e ben capivano perché temeva tanto lasciarla sola, ma per quel giorno non c'era altro da fare.

***

Dopo che Red e Virgil se ne furono andati, le due ragazze cercarono di distogliere i propri pensieri da ciò che avevano appreso, che le inquietava tanto quanto faceva tutto ciò che riguardava l'oscurità che era in loro. Era inoltre un promemoria del fatto che loro ancora non sapevano cosa fossero, nonostante Madison fosse quasi certa di essere una strega, e del fatto che presto l'avrebbero scoperto. Presto dunque avrebbero dovuto dire definitivamente addio alla normalità, ma soprattutto all'umanità, seppur forse illusoria.
Connie, in particolare, sembrava molto turbata. Si vedeva nel movimento teso delle sue gambe quando era seduta, nel suo stropicciarsi le mani quasi continuamente, nell'espressione corrucciata che per tutta la giornata non l'aveva mai abbandonata: la ragazza sembrava insomma preoccupata terribilmente. Si era fatta una doccia, si era cambiata d'abiti e si era messa prima a leggere, poi a guardare la televisione.
Ed era ancora lì a guardare un programma probabilmente scadente su una sfida culinaria, raggomitolata sul divano nei suoi vestiti rossi, mentre Madison uscì di casa per andare a lavoro.
Percorse la strada verso il De Vil preoccupata e allo stesso tempo speranzosa che ci fosse Alexander anche quella sera. Non avrebbe dovuto desiderare la sua presenza e in cuor suo si cercava di convincere che non voleva vederlo, ma un'altra parte di lei era quasi felice che ci fosse la possibilità che lui sarebbe stato al De Vil.
In ogni caso, Alexander quella sera non andò, ma non per questo Madison si sentì triste, anzi per qualche strano motivo era più allegra del solito.
Il turno passò tutto sommato velocemente, senza particolari problemi, ma al momento di tornare a casa, la ragazza era esausta.
Aveva un sorriso sul volto mentre percorreva le strade della Città verso casa, persa nei suoi pensieri.
La luce di un lampione che illuminava la strada vacillò, facendola sussultare. Come già le era successo troppe volte da quando era nella Città, Mad si sentì catapultata in un film horror.
Scacciò il pensiero e riprese a camminare, ora più velocemente. Correre a casa era ciò che aveva detto Red e correre a casa era esattamente ciò che aveva intenzione di fare, ignorando qualsiasi inquietante premonizione di infausti eventi.
“Ciao” disse qualcuno dietro di lei, con una voce bassa e profonda. Madison si girò di scatto, rischiando di cadere: un giovane era uscito dall'ombra e ora era davanti a lei, in tutta la sua eterea figura. Aveva capelli biondi, quasi bianchi, la pelle tanto chiara da sembrare vetro, occhi azzurri chiari come il cielo appena dopo l'alba.
La ragazza esitò, mentre lo sconosciuto faceva un passo avanti verso di lei, guardandola con un sorriso.
Il suo aspetto angelico poteva voler dire solo una cosa: pericolo, enorme pericolo.
Mad uscì da quella istantanea paralisi, si fece coraggio e sorrise lievemente.
“Mi stanno aspettando, sono molto di fretta” disse senza esitazione, cercando di trasmettergli un preciso messaggio: se le avesse fatto male, qualcuno l'avrebbe vendicata.
Dunque si girò, intenta ad andarsene il più velocemente possibile, ma lui le apparve davanti, vicino, troppo vicino, con una velocità che decisamente non era umana.
“Ti ho osservata molto, al De Vil” le disse senza dar peso alle sue parole, guardandola in modo quasi famelico. Lui incedeva, lei indietreggiava, finché non fu costretta con le spalle al muro, completamente ammutolita.
Allora vide che i denti dello sconosciuto erano troppo affilati e che lui aveva lo sguardo fisso sulla nuda pelle del suo collo.
“Non farlo” disse Madison “te ne pentirai.”
Nonostante il suo cuore battesse all'impazzata, aveva un tono deciso e quasi temerario. Era tesa, ma non provava paura.
Lui rise, senza distogliere lo sguardo, mentre inclinava la testa per guardarla meglio. “Ora come ora non mi interessa.”
Con tenacia si avventò sul suo collo, perforando la candida pelle della ragazza con denti affilati come coltelli. Madison si dimenò più che poteva, ma tutti i suoi sforzi sembravano vani, contenuti con scioccante tranquillità dalla sovrumana forza di un vampiro.
Mad fu pervasa dal dolore, mentre sentiva che la vita velocemente le veniva risucchiata, risaliva attraverso le sue vene verso il collo. Il suo corpo era preso da spasmi, gli occhi erano sbarrati e il suo stesso sangue macchiava la maglietta, prima che si lasciasse completamente andare, senza più forze.
Involontariamente, Madison smise di pensare.
Stava fra le braccia del vampiro come se fosse una bambola di pezza, inespressiva e inanimata, abbandonata fra le mani di un capriccioso bambino.
Lo sconosciuto smise di bere il suo sangue e sorrise leccandosi le labbra. La lasciò andare senza alcuna delicatezza, facendola crollare a terra come un corpo morto.
Poi si allontanò con tranquillità, come se non fosse successo nulla: si infilò le mani in tasca e iniziò a fischiettare un brano probabilmente di musica classica. Così ora la debolezza di Madison era ridicolizzata, il suo essere ridotto all'insignificante.
Mad giaceva in uno stato fra la coscienza e l'incoscienza, gli occhi fissi sbarrati, il sangue che ancora gocciolava dalla ferita fino al freddo e triste cemento.
Il cuore rallentava sempre di più, i polmoni a fatica svolgevano la propria funzione, le membra ancora tremavano leggermente, finché non si fermarono definitivamente.
Fra le sue ossa passava un vento leggero, l'anima della Città, che ancora una volta rideva di lei, mentre le urlava a gran voce che le apparteneva.
L'ultimo battito rimbombò nel suo petto.
L'ultimo respiro immise aria nel suo corpo.
Quegli occhi, prima luminosi e pieni di vita, per ultimi si spensero, quando calò su di loro un'opaca oscurità.

 

***

Quella sera Connie era andata a dormire senza che quella preoccupazione l'abbandonasse completamente.

Ed era talmente turbata che senza neanche cambiarsi i vestiti si era infilata sotto le coperte.

Inquieta, si era rigirata più volte nel letto, prima di sprofondare in un sonno leggero e fatto di incubi.

Nel mezzo della notte, proprio quando Madison sarebbe dovuta tornare a casa, Connie si svegliò di soprassalto, spalancando gli occhi con il respiro affannato.

Non sapeva perché, non capiva cosa fosse successo, ma lei sapeva che Mad era morta.

Urlò con tutto il fiato che aveva in gola e il suo lamento scosse tanto il mondo dei vivi, quanto quello dei morti.

 

 

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Capitolo 14
*** Rebirth ***


Capitolo 13

Rebirth

 

“Sono passati tre giorni!” urlò Connie. “Avevi detto che l'avresti trovata!”
“Lo so, Connie, lo so. Ma ho cercato in tutta la Città e non c'è traccia del suo corpo, non possiamo sapere cosa sia successo” rispose Red, quasi rassegnato. Sospirò, mentre si passava una mano sugli occhi.
Da tre giorni non c'era traccia di Mad.
Connie, da sola, aveva capito cosa lei fosse: l'aver percepito così chiaramente la morte dell'amica, quell'esigenza così pressante di vestirsi di rosso quel giorno e di bianco da quando non la trovavano erano stati indizi più che sufficienti. Red le aveva confermato ciò che lei sospettava: era una banshee. E ora non riusciva a far altro che pensare di doversi vendicare, ma soprattutto che voleva ritrovare Mad, o ciò che rimaneva della sua amica.
Se lei era tormentata da questi pensieri, Red si doveva preoccupare dei propri demoni. Rischiando di esporsi troppo, aveva liberato le proprie ombre, così che andassero alla ricerca di Madison in tutta la Città, ma ognuna di esse era tornata dal padrone priva di risultati.
Se ne andò, senza aggiungere altro uscì dall'appartamento.
Il sole era alto nel cielo senza nuvole.
Red guardò l'oscuro riflesso che lo seguiva, la propria ombra. Ben sapeva che, rilasciandola, essa sarebbe stata la migliore delle investigatrici, ma chiunque l'avesse vista avrebbe subito capito che un alp era in Città: lasciare che qualcuno conoscesse la propria natura era pericoloso, lì. Si stava esponendo troppo, pensò, ma lo schiacciava il pensiero che si era ripromesso di aiutare quella ragazza, che tanto gli ricordava il suo primo delitto. Non era riuscito a salvarla, perlomeno non avrebbe lasciato il suo corpo insepolto.
Quella sarebbe stata l'ultima volta, l'ultimo tentativo, si disse, appena prima di ordinare alle proprie ombre di disperdersi e cercarla.
Poi si incamminò, pensieroso, senza una destinazione precisa.

Connie percorreva la stanza avanti e indietro, nervosa.
Gianduiotto in silenzio la osservava, calmo come sempre.
“Sono tre giorni che sto cercando di capire l'identità dell'assassino e non ho scoperto assolutamente niente! Tre giorni che urlo nella testa di uno sconosciuto che è un assassino e so solamente che probabilmente è un maschio!” urlò, gesticolando e non smettendo di muoversi.
“È la prima volta che fai una cosa del genere, inoltre potrebbe darsi che l'assassino sia potente e in quel caso non potresti fare nulla comunque” disse Gianduiotto, con tono neutro.
Connie si sedette sul divano, appoggiandosi sfinita allo schienale. Silenziose lacrime iniziarono a colare lungo le sue guance e tirò su col naso un paio di volte. “Io potrei fare qualcosa e non ci riesco. Questi sono i momenti in cui più capisco ciò che la mia famiglia mi ha sempre trasmesso: io sono sola e inutile in un mondo più grande di me.”
Gianduiotto la raggiunse di fretta, poi le posò una mano su una spalla.
“La maledizione della Città ci predispone a diventare mostri proprio con questa solitudine, Connie. Ma non è così: tu non sei più sola e non sei inutile, devi solo imparare. Stai urlando nella mente dell'assassino ma non hai risposte? Urla più forte, con tutto il fiato che hai” le disse, mentre la ragazza lo fissava con gli occhi ancora pieni di lacrime. Poi sospirò, quindi continuò. “Non capisco perché ti importi così tanto.”
“Forse non la conoscevo da molto, è vero, ma Mad era buona, forse non affettuosa e a volte un po' dura, ma probabilmente mi ha salvato la vita, portandomi qui. Così come probabilmente lo sono stata io per lei, Mad è la prima persona che ha visto in me il bene e non l'oscurità. Io non ho scelto lei e lei non ha scelto me, per questo è ciò che più si avvicina ad una famiglia, per me. Non capisco come possa non importare a te, piuttosto!” esclamò alzandosi in piedi, irata e sconcertata.
Gianduiotto si lasciò ricadere sul divano, dopo aver distolto lo sguardo.
“Quando sono arrivato in Città non avevo il controllo su di me: non so quanto tempo ho passato, mesi, forse anni, tramutato in animale, finché non mi ha trovato Red. Nonostante io adesso riesca a tornare l'umano che ero, ho perso molta di quell'umanità che caratterizza i nuovi arrivati, per questo non capisco” rispose cercando di mantenere il suo solito tono imperturbabile, da cui però trasparì una sorta di amarezza. “Ho perso molto, in quel periodo. I miei ricordi per primi: mi chiamo Gianduiotto perché non mi ricordavo altro che la lettera iniziale del mio nome, la g, quando sono tornato umano. Se dovessi uscire di qui non saprei neanche qual è la famiglia da cui mi sono allontanato.”
Il mutaforme strinse la mascella, lo sguardo lontano, ma il volto inespressivo. Connie lo osservava sorpresa e anche commossa, ma non proferì parola: un 'mi dispiace' le sembrava oltremodo stupido, dunque stava cercando qualcos'altro da dire, quando fu interrotta da Gianduiotto.
“Nella Città perdi continuamente qualcuno, non importa che sia un amico, un familiare o te stesso. Prima impari a essere indifferente, meno soffrirai.”
Red Anomalies irruppe nella stanza.
Sembrava quello che Connie aveva incontrato la prima volta: sgargiante nei suoi abiti eccentrici e con uno sguardo pieno di luce, solo leggermente oscurato dall'enorme cilindro rosso. Sorrideva, come se avesse appena vinto una battaglia.
“L'hai trovata?” chiese la ragazza, piena di speranza.
A differenza di quanto si aspettasse, Red scosse la testa. “No, ma penso di avere capito.”
“Cosa?” chiese Gianduiotto alzando un sopracciglio.
“Connie, ti ricordi cosa hanno detto all'incontro con la Famiglia?” le chiese.
Lei scrollò le spalle. “Cosa in particolare?”
“Ci sono tre tipi di creature: i vivi, i non-morti e i mai-vissuti. Connie, tu sei una creatura viva. Virgil è morto progressivamente, di una malattia inspiegabile: è un mai-vissuto. Madison è stata attaccata da un lupo, prima, rischiando di morire. Poi la banshee l'ha costretta a consegnarsi a Connor così che fosse uccisa. Ora tu hai sentito che è effettivamente morta. Ma se lei fosse stata destinata fin da subito a morire? Se fosse la sua oscurità stessa che ha deciso che doveva succedere e dunque lei ora fosse viva, rinata come ha fatto Virgil?”
Lo sguardo di Connie si illuminò e lei sorrise. “Potrebbe essere! Felix aveva detto che i non-morti sembrano entrare a far parte di 'Final Destination' e Mad ha rischiato la morte più volte in pochi giorni, non può essere un caso!”
Fu Gianduiotto a interrompere quel momento di felicità e speranza.
“Ma se davvero Mad è ancora viva perché non è tornata qui? Dov'è Madison ora?”

***

Mad spalancò gli occhi improvvisamente.
Sentì l'impulso di aggrapparsi a qualcosa, come se avesse l'impressione di cadere nel vuoto. Boccheggiò, cercava l'aria come se non respirasse da giorni. Per un attimo nella sua mente non c'era altro che il vuoto, non pensava a nulla, concentrata solo sul bianco del soffitto soprastante.
“Finalmente” disse una voce vagamente famigliare.
Madison girò la testa di lato, incontrando subito gli occhi profondi di Alexander che la scrutava incuriosito. La voce che aveva sentito, però, apparteneva a Felix, appoggiato allo stipite della porta.
La ragazza fece per alzarsi, ma il Alexander la fermò, facendola rimanere sul divano.
“Piano, angelo” le disse con un sorriso.
Madison cercò nella sua mente i suoi più recenti ricordi, finché non capì che era stata uccisa.
“Dove mi trovo?” chiese, guardandosi intorno.
“Al Palazzo della Famiglia” rispose Felix, mentre incurante si osservava le unghie.
“Perché sono qui? Mi avete salvata?”
Alexander sollevò un sopracciglio.
“Non ti ricordi? Sei arrivata fin qui da sola, poi hai perso coscienza” spiegò. Ripensò al momento esatto in cui Madison aveva varcato la soglia del palazzo: gli aveva ricordato il modo in cui si entra in Città, come sonnambuli. Poi era crollata a terra, priva di sensi. Felix, a cui piaceva particolarmente stare vicino all'ingresso, quasi fosse una guardia, un Cerbero davanti all'Ade, era corso verso di lei. L'aveva sollevata e l'aveva portata in braccio fino ad Alexander, che tranquillo stava leggendo, chiedendogli cosa fare e poi posandola sul divano.
Lì era rimasta, finché dopo quattro giorni finalmente aveva aperto gli occhi.
“Sono morta” disse, ma non sentiva alcuna emozione. Era un dato, oggettivo. Lei era morta, ma ciò la lasciava indifferente.
“Sei un non-morto” affermò Alexander, annuendo. Sorrideva lievemente, quasi volesse rincuorarla.
Madison cercò nuovamente di alzarsi, ma ancora lui la fermò.
“Sei rimasta incosciente per quattro giorni, angelo. È meglio se non ti muovi troppo.”
Madison spalancò gli occhi. “Quattro giorni?!”
Pensò subito a Connie, preoccupata e dispiaciuta. Chissà cosa pensava chissà se la stava cercando o credeva che fosse morta. Red, invece? Sperava solo che non avesse lasciato Connie da sola.
“Io devo andare” disse con urgenza.
“No, sei troppo debole” intervenne Felix con nonchalance. “Puoi provarci, ma dubito che riuscirai ad andare molto lontano, sempre che tu sappia effettivamente come tornare a casa.”
Mad deglutì.
Effettivamente era giunta fin lì inconsciamente, non sapeva in che direzione fosse il suo appartamento.
Strizzò gli occhi, che bruciavano lievemente. Non sapeva cosa fare: voleva andare a casa, rassicurare Connie e riposarsi, ma non sapeva come tornare.
Improvvisamente le venne un dubbio in mente.
“Che giorno è oggi?” chiese, fissando Alexander.
Questi alzò un sopracciglio.
“L'1 luglio” rispose. “Se hai saltato un turno al De Vil o qualcosa di simile non devi preoccuparti. Qui gli imprevisti sono facilmente comprensibili.”
Mad scosse la testa: non era quella la ragione, ma un'altra, forse futile e sciocca, ma che per lei conservava sempre grande aspettativa. Qual giorno forse avrebbe potuto realizzarsi, ma non se rimaneva lì. Doveva tornare a casa.
“Ti prego, lasciami andare. Riposerò, starò tranquilla e farò attenzione, lo giuro.”
Alexander non sembrava convinto. “Ma perché insisti così tanto?” disse, quasi infastidito. “I tuoi amici hanno aspettato quattro giorni, possono resistere ancora per uno.”
Mad si stropicciò le mani, sembrava imbarazzata.
“Oggi è il mio compleanno, vorrei essere a casa.”
Felix e Alexander si scambiarono un'occhiata enigmatica, poi rimasero entrambi in silenzio.
“La riaccompagnerò a casa” intervenne allora l'Amon, con un tono neutro.
Alexander sembrava incerto. Esitò qualche momento, perso nei suoi pensieri, poi annuì.
“Promettimi solo che quando ti sarai ripresa tornerai” le disse quasi con dolcezza. “Sei arrivata qui, per qualche strano motivo, mentre eri incosciente. Inoltre noi possiamo aiutarti a capire cosa sei.”
Una scintilla di interesse si accese negli occhi di Madison.
“Ancora non lo sapete?” chiese, sperando di avvicinarsi alla verità sulla propria natura. Alexander scosse la testa e la ragazza capì che la strada da compiere era ancora lunga. Rimase ferma, pensando a cosa decidere, poi acconsentì. “Tornerò” disse, mascherando perfettamente una lieve esitazione.
Si alzò, dunque, abbastanza lentamente e si avvicinò a Felix con apparente sicurezza, nonostante in realtà si sentisse tremare le gambe. Se avesse ceduto ora, Alexander non l'avrebbe più lasciata andare.
Quando era ormai sulla soglia, lui la fermò chiamandola.
“Buon compleanno” le disse, ma la sua voce e il suo sguardo erano adombrati da una forte malinconia. Che riguardasse lei o se stesso, Madison non avrebbe saputo dirlo.

In tutto il suo aspetto minaccioso e con la fronte aggrottata, Felix la condusse fuori dal Palazzo e lei, poi, gli chiese di andare verso il De Vil.
Percorsero le strade della Città in silenzio, almeno per la prima parte.
Madison non sapeva cosa pensare dell'Amon: faceva ogni cosa bruscamente e di malavoglia, eppure compieva anche atti gentili. A detta di Alexander, l'aveva trovata lui e ora la stava accompagnando, inoltre era possibile che avesse salvato la vita a Virgil.
Cosa voleva dire essere morto, dunque? Mad lo sentiva, il cambiamento che avveniva in lei quasi potesse percepirlo fisicamente, eppure lo temeva terribilmente. Chissà cosa doveva provare Felix, ora: davvero le sue sensazioni erano o tutto o niente, come avevano detto durante l'Incontro?
La ragazza, poi, si pose una mano sul petto, chiedendosi se il suo cuore stesse ancora pulsando. Fece poi risalire la propria mano verso il collo, dunque fece pressione con due dita cercando di percepire il battito, che però non sentì mai più.
Ciò non provocò assolutamente nessuna emozione in lei.
Madison continuò a camminare, senza interessi. Non si interrogò più su Felix, né su lei stessa. Continuò semplicemente a camminare, senza pensare a nulla.
“Non ti interessa, non è vero?” le chiese l'altro, che in silenzio l'aveva osservata.
Mad gli lanciò uno sguardo di sfuggita. Annuì, senza cambiare espressione.
“Dimmi una cosa” continuò allora Felix “Ti infastidisce di più il fatto che non ti interessi o che un tempo ti interessasse?”
La ragazza riflesse qualche secondo sull'articolata domanda.
“Che mi sarebbe interessato” rispose in un filo di voce, con lo sguardo fisso davanti a sé.
Arrivarono davanti al De Vil e Felix le chiese da che parte era casa sua, ma Madison scosse la testa.
“So dove andare, faccio da sola” disse.
Lui sbuffò, incrociando le braccia. “È meglio di no, sei troppo debole ancora.”
“Posso farcela da sola” replicò Madison, con sguardo deciso. Sembrava di ghiaccio. “Io non vi conosco, non mi fido di voi. Non voglio che voi sappiate dov'è casa mia.”
Felix, in tutta risposta, rise. Alzò un sopracciglio, poi, con un cipiglio divertito. Aspettò un attimo prima di parlare.
“Se hai paura che verremo a prenderti nel caso tu non tornassi al Palazzo, sappi che non lo faremmo. Se mai lo volessimo fare, ti troveremmo comunque.”
Madison non disse nulla, rimase ferma sul posto, ostinata.
Lui sospirò.
“Fai come vuoi, non mi interessa” disse allora, scrollando le spalle. Il suo volto tornò serio, poi. “Torna a casa e goditi la tua festa, ragazza. E fa in modo che ti importi, almeno per oggi, perché d'ora in poi non sarà più così semplice. Non chiederti se ti importa, stasera fallo e basta.”
Felix si girò e ripercorse la strada che lo aveva portato fin lì, mentre Mad lo guardava andarsene.
Allora ricominciò a camminare anche lei, verso casa.
Casa, si ripeté. E quello le importava.

Non fece molti passi, prima che un corvo le si posasse su una spalla, per poi diventare un macaco. Madison capì che era Gianduiotto e sorrise.
L'avrebbe abbracciato, se lui fosse stato un umano, ma già solo sentirlo presente sulla sua spalla la faceva sentire felice, sollevata. Si aspettava che lui se ne andasse ad avvisare gli altri che Mad stava tornando, ma non lo fece, rimase con lei. Non la lasciò sola.
Quasi iniziò a correre, tanto era impaziente di tornare a casa.
Salì le scale con la stessa furia di un uragano e spalancò la porta senza porsi il problema di bussare.
Non attese molto prima che Connie le si scaraventasse addosso, abbracciandola con più forza che aveva. Entrambe ridevano, come se qualcuno avesse raccontato loro la migliore delle barzellette. I loro toraci erano mossi dalla stessa forza, inarrestabile, ed erano piene di tensione tanto che dai loro occhi uscirono copiose lacrime, che conferirono luce ai loro sguardi gioiosi.
Si strinsero come se fosse l'ultima cosa che avrebbero fatto nella loro vita.
Era inspiegabile il legame che connetteva quelle due ragazze, che si conoscevano da così poco, eppure entrambe sapevano che era ormai indistruttibile.
“Sono così contenta che tu sia viva!” esclamò Connie, non appena riprese fiato.
Lo sguardo di Madison si adombrò, per un attimo. Fece per parlare, ma l'altra la interruppe.
“Oh, Mad” disse, con un sorriso pieno di amore fraterno. “So che non sei davvero viva, ma l'importante è che tu sia qui, con noi.”
La ragazza spalancò gli occhi. “Come fai a saperlo?”
Connie esitò un attimo, abbassando lo sguardo.
“Quando sei morta... l'ho percepito. Sono una banshee...”
Madison l'abbracciò nuovamente.
“Non importa cosa tu sia” replicò, avendo notato la nota di tristezza, forse vergogna, nel tono dell'amica. Mad sapeva di aver giudicato male quella creatura, eppure sentiva che ora poteva ricredersi. “Non importa cosa siamo, conta solo che ci siamo l'una per l'altra, ok?”
Connie annuì.
Intanto un'altra figura si era fermata sulla soglia dell'appartamento.
Red fissò Madison con un'espressione fra lo stupore e l'incertezza. Non sembrava sapere cosa fare.
Rimase fermo, guardandola come se ci fossero mille cose che voleva dire, ma non riuscendo a dire nulla.
“Ben tornata” sussurrò poi alla fine.
Madison gli sorrise teneramente.
Spiegò brevemente ciò che era successo, dopo essersi seduta sul divano, abbandonata dall'adrenalina che l'aveva invasa fino ad allora.
Gianduiotto, gatto, pigramente riposava sul suo grembo, guardandola come se non fosse successo niente di diverso dal solito.
Gli altri due l'ascoltavano: Red aveva un'espressione enigmatica come sempre, Connie sembrava solamente molto preoccupata.
Mad sapeva che l'amica aveva tantissime domande per lei, ma le fermò tutte, con una sola frase.
“Oggi è il mio compleanno” disse piena di speranza. “Ne discuteremo domani, per oggi voglio solo essere felice.”
Red la guardò, sembrava quasi allarmato, ma poi sorrise lievemente. Per un attimo si adombrò, mentre girava la testa verso il balcone, dal quale si intravedeva uno stralcio di cielo.
Connie scattò in piedi come una molla. Madison sapeva ciò che sarebbe successo, di lì a poco, e infatti aveva ragione.
L'amica iniziò a cucinare una torta, con lo stesso entusiasmo con cui chiunque avrebbe salvato il mondo.
Red annunciò che sarebbe andato a chiamare Virgil e Brownie, così che li raggiungessero a festeggiare. Scomparve per mezz'ora circa, poi tornò con i due.
Virgil sembrava sull'orlo di una crisi isterica ogni cinque minuti, ma appena la vide si mostrò sollevato del suo ritorno come lei fosse la migliore delle amiche.
Brownie si limitò a brontolare che voleva una fetta di torta enorme, ma mal celava il fatto che anche lui fosse contento.
Nonostante la vita di tutti loro fosse così complicata, quel giorno lo passarono nella spensieratezza, ridendo e scherzando come se avessero passato la loro vita insieme.
Forse erano tutti destinati ad essere mostri, forse lo erano già, ma Madison pensò che quel legame che c'era fra loro, quel forte sentimento di fiducia che li univa era indissolubile e speciale e che per combattere tutta quell'oscurità che intrinsecamente era presente in loro, non c'era niente di più naturale di quello che c'era in quel momento.
Avevano tanto di cui preoccuparsi, ma quel giorno non ci fecero caso.
A Madison importò di ogni cosa.
“Alla tua rinascita” propose Red, alzando il bicchiere.
Madison sorrise.
“Alla mia seconda vita.” 

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