Inverse Transposition

di Monique Namie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Possibilità ***
Capitolo 2: *** Ingranaggi ***
Capitolo 3: *** Diavoli e Comete ***
Capitolo 4: *** Scissione d'Anima ***
Capitolo 5: *** Simmetrie ***
Capitolo 6: *** Tra leggenda e realtà ***
Capitolo 7: *** Finché c'è amore... ***
Capitolo 8: *** L'edera lascia i segni (Epilogo) ***



Capitolo 1
*** Possibilità ***


Trasposizione inversa - second chance
Questo capitolo si è classificato 5°
a "Boom! Il contest che vi lascerà con il fiato sospeso!" indetto da Sam27 sul forum di EFP.




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Immagine originale "Forever Yours" by Lecidre



Cap.1-Possibilità


Osservava il temporale in avvicinamento dalla terrazza dell’albergo in cui alloggiava da appena qualche ora e ripensava al viaggio da poco concluso. Dylia non aveva mai visto un cielo così violaceo in tutte le sue precedenti escursioni su quel pianeta. Nonostante nell'atmosfera si aggirassero frotte di droni deflatori, programmati per assorbire tutti gli elettroni in eccesso, l’aria restava carica d’elettricità statica e la sentiva sul viso e sui capelli come una mano invisibile che continuava a sfiorarla.
Il messaggio che le avevano girato quelli della E-Security, per cui lavorava, parlava chiaro: qualcuno avrebbe fatto saltare un ordigno all’interno della stazione Damon per il turismo spaziale a mezzogiorno in punto di quello stesso giorno. Ed erano già le undici. Ispirò profondamente e poi rientrò nel salotto della suite: mezz’ora era più che sufficiente per collegare le apparecchiature e assicurarsi del funzionamento del dispositivo di trasposizione. Dopodiché avrebbe indossato la tuta con gli elettrodi, l’avrebbe sincronizzata con il programma installato nel computer e, stesa sul letto, sarebbe caduta nel sonno vigile che era abituata a sperimentare da quando aveva ottenuto l’incarico di traspositrice. In conseguenza di quel processo la sua coscienza o, più correttamente, la sua proiezione astrale, si sarebbe separata dal corpo fisico e allora avrebbe potuto entrare in azione.
Quindici minuti prima dell'ora X tutto era pronto; il timer d’attivazione scattò alle undici e cinquanta e Dylia, senza complicazioni, si ritrovò improvvisamente all'interno della stazione Damon. Scansò un turista frettoloso che la stava per investire appiattendosi prontamente contro la parete del deposito oggetti smarriti. Trasse un sospiro di sollievo: il pericolo maggiore era proprio quello di finire imprigionati nel corpo di qualche ignaro passante, per cui in luoghi affollati come quello bisognava prestare la massima attenzione.
Prima di dirigersi verso l’albergo aveva volontariamente dimenticato una valigia dentro la navetta che l’aveva portata fin lì; poi aveva atteso pazientemente fuori dal mezzo di trasporto, confondendosi fra i viaggiatori che lasciavano la stazione, per assicurarsi che il bagaglio fosse portato effettivamente nel deposito. Se qualcuno avesse deciso di osservarne il contenuto non avrebbe comunque capito l’utilità dell’oggetto al suo interno: quella che appariva come una semplice scatoletta metallica, era in realtà un prototipo segreto che lavorava in simbiosi con l’apparecchiatura che Dylia aveva messo in funzione nella suite dell'albergo. Serviva per creare il presupposto di distorsione del campo elettromagnetico che consentiva al suo doppio astrale di venire scagliato lì alla stazione, quando il suo corpo fisico giaceva invece sul comodo letto del momentaneo alloggio. Senza di quell’oggetto, l’apparecchiatura per la trasposizione l’avrebbe proiettata in quella stessa camera a qualche metro dal letto su cui giaceva, diventando inutile per la missione.
Nel sonno vigile i sensi appaiono paradossalmente amplificati, il che significa che si possono percepire vaghe tracce dei pensieri inconsci e dell'aura delle altre persone. Mentre si muoveva con circospezione all’interno della stazione, Dylia poteva quindi osservare l’aura dei passanti e udire un continuo fastidioso vociare dentro la sua testa. Le sarebbe bastato sincronizzarsi come al solito con la frequenza di pensiero del terrorista per scoprire ciò che aveva in mente, dove aveva piazzato l’ordigno e come fare per disinnescarlo, ma quel giorno qualcosa offuscava i suoi sensi.
Il temporale in avvicinamento che aveva osservato un’ora prima dalla terrazza dell’albergo ora era esattamente sopra la città. Non scendeva una goccia di pioggia, ma si sentiva il rumore ravvicinato dei tuoni: era senza dubbio una tempesta di fulmini di grande intensità. Ipotizzò che la sua carenza percettiva fosse causata dall’elettricità statica presente nell’atmosfera. Un po’ perché si trovava ad agire da sola, senza l’ausilio di un collega, un po’ per colpa dei fulmini e dei sensi alterati, man mano che i minuti passavano e si avvicinava l’ora predestinata, una sensazione pressante d’ansia si faceva sempre più vivida in lei. Mancava pochissimo a mezzogiorno e lei continuava a vagare all’interno della stazione senza una direzione precisa. Poi, tutt'a un tratto, s'immobilizzò. Qualcuno era entrato nella camera dell'albergo e si era seduto di fianco al suo corpo addormentato sul letto: avvertiva distintamente la sua presenza, ma non riusciva a vederlo in faccia. Poi avvertì una mano sconosciuta accarezzargli i capelli sparsi sul cuscino e si sentì male. Chiunque fosse entrato in quella stanza non aveva di certo a cuore la sua sicurezza. Tutti sapevano che era rischiosissimo tentare un contatto diretto con una persona separata dalla sua componente astrale: nel peggiore dei casi poteva avvenire un arresto cardiaco fatale.
«Sei caduta in trappola come un'ingenua, cara Dylia.» La voce profonda e innaturale di un uomo risuonò amplificata nella sua mente. Le stava evidentemente parlando a qualche centimetro dal viso. «Non ci sarà nessun attentato questo mezzogiorno. Oh, tuttavia mi rifarò nei prossimi giorni, quando tu non potrai più interferire.» Le parve di vedere un ghigno malvagio nascere sulle labbra di quel misterioso individuo. In quel preciso momento scattarono le dodici in punto e alla stazione Damon tutto continuò a procedere tranquillamente; il computer nel salotto della suite interruppe il processo di trasposizione, ma il corpo astrale di Dylia rimase confinato lì dov'era. Doveva tornare indietro il prima possibile. Si mosse velocemente verso il deposito degli oggetti smarriti dove aveva lasciato la valigia e cercò di liberare la mente (più si avvicinava al dispositivo di distorsione del campo elettromagnetico, più sarebbe stato semplice tornare), ma continuava a sentire le mani di quello sconosciuto accarezzarla ora sulle le guance, ora sulle labbra, ora sul collo. Aveva bisogno di concentrazione assoluta per tornare, lui lo sapeva e agiva intenzionalmente per
metterla in difficoltà, eppure forse c’era una soluzione alternativa: si avvicinò alla base di lancio delle navette e notò alcuni cavi scoperti in una zona di lavori in corso opportunamente transennata. Attraversò come un fantasma le sbarre che vietavano l’accesso al pubblico e allungò le mani. Non era sicura che fosse una buona idea, l'unica cosa di cui aveva la certezza era che doveva trovare al più presto un metodo per tornare in sé e svegliarsi se non voleva fare una brutta fine. Afferrò i cavi. Una scossa di energia elettrica la investì e andò a riversarsi sull’apparecchiatura che aveva sistemato nella suite dell’albergo facendola fondere. Quando il meccanismo saltò, Dylia riacquisì immediatamente il controllo del proprio corpo e sferrò prontamente un pugno in faccia all’uomo che le stava davanti. Sentì un dolore acuto sulle nocche della mano, serrò i denti e alzandosi di scatto si preparò per il prossimo colpo ma qualcosa la bloccò. Shulik - così si faceva chiamare l’attentatore che si divertiva a far saltare ordigni esplosivi in luoghi pubblici - era davanti a lei con un rivolo di sangue che gli scendeva dal labbro inferiore.
«Mi hai fatto male», disse lui con un sorriso proprio di una personalità perversa che ama il dolore.
«Te ne posso fare anche di più se vuoi!»
«Non aspetto altro», rispose con tono provocatorio.
Lo sguardo dell’agente Dylia scivolò per qualche istante ai piedi del letto, sul tappeto che si infilava sotto al comodino dove aveva nascosto il taser elettrico in previsione di casi come quello, poi tornò a fissare l’uomo che aveva davanti. Lo aveva visto in faccia un paio di volte prima di allora, ma mai così da vicino e mai di persona. Aveva sventato alcuni dei suoi attentati, sempre in sicurezza, sempre agendo a distanza proiettando il suo doppio astrale nei posti predestinati; come fosse arrivato a lei era inspiegabile.
«Come hai fatto a trovarmi?», chiese.
Dagli occhi dalle iridi nere di lui guizzò una scintilla di desiderio immorale. Aveva un viso dai lineamenti aggraziati e capelli neri come la notte proprio come piacevano a lei. Sembrava impossibile che una persona così bella potesse nascondere un'anima corrotta; eppure quello che aveva davanti era un fuorilegge con una taglia a molti zeri sulla testa.
«Magia!», esclamò sorridendo sadicamente. Era chiaro che oltre ad essere pericoloso e senza scrupoli era anche del tutto suonato.
Per riprendere il controllo dalla situazione le bastava soltanto raggiungere il taser, ma qualcosa continuava a frenarla e non riusciva a capire se fosse paura o altro. Constatò che Shulik era disarmato e il rivolo di sangue che gli scendeva dall’angolo della bocca per lambire quel viso privo di difetti non era necessario; quasi le dispiacque di essere stata lei la causa di quell’imperfezione.
«Seguirmi fino in albergo è stato un gravissimo errore!», disse con voce alterata, cercando più che altro di convincere se stessa di quello che stava per fare.
«Uccidimi!», la provocò lui con una smorfia di sfida
. «Ah già, dimenticavo! Voi traspositori non avete armi mortali. Che fregatura!» E detto ciò, rise.
«Ti ucciderò lo stesso!»
«Oltre alla mia taglia riceverai un riconoscimento, una medaglia forse, poi ti trasferiranno in un dipartimento più prestigioso…», fece una breve pausa durante la quale non smise di fissarla con quegli occhi neri da diavolo, «… e non ci rivedremo mai più. Mai. Più.»
Lui l’avrebbe di certo uccisa senza rimorsi. Se ora era ancora viva lo doveva solo a se stessa, alla sua prontezza di riflessi e alla sua capacità di trovare una soluzione nei momenti peggiori. A lui non sarebbe importato niente se fosse stata costretta a vagare per sempre come un fantasma in un limbo a metà tra il mondo reale, per cui a lei non doveva importare niente di prendere quel taser e azionarlo contro di lui. Con uno scatto felino scese dal materasso, s’inginocchiò, afferrò l’arma dal nascondiglio e gliela puntò contro esercitando una leggera pressione sul grilletto pronta a fare fuoco. Tutto avvenne in un istante, ma al momento il tempo sembrò andare a rallentatore: Shulik si mosse a carponi verso di lei e, restando sopra al letto, afferrò con decisione il polso della mano con cui teneva il taser costringendola ad allentare la presa e a lasciar cadere l'arma. Lo sguardo di Dylia incrociò quello di Shulik e in quegli occhi scolpiti in un viso paradossalmente angelico, percepì qualcosa di indecifrabile, una misteriosa scintilla di luce. Perché non la faceva finita una volta per tutte? Senza proferire parola, le strinse più forte il polso iniziando a farle male. Sentiva che se non avesse agito immediatamente sarebbe entrata nel panico, quindi usando la mano libera raggiunse l'arma e premette il grilletto: i due dardi
si precipitarono sul torace del criminale scaricandogli addosso una scossa ad alta tensione. Shulik finì privo di sensi steso sul letto dopo un gemito.
Dylia si lasciò cadere seduta sul pavimento e si
massaggiò un po' il polso indolenzito mentre cercava di calmarsi. Ci avrebbero pensato i suoi colleghi a fare giustizia; la sentenza del tribunale extrasolare sarebbe stata senza dubbio una condanna a morte. Prese le manette che aveva nella fondina sul fianco e immobilizzò Shulik legandolo alla spalliera del letto. Nello svolgere quell'operazione si sorprese ad osservare quelle sue mani dalle dita affusolate; sembravano le mani di un artista, non quelle di un pericoloso criminale fissato con gli esplosivi. Scosse la testa per scacciare il pensiero e s’incamminò nella stanza del soggiorno in cui aveva lasciato le attrezzature per la trasposizione. Il dispositivo principale era completamente fuso, ma il salvavita collegato al portatile aveva fatto il suo dovere. Ora le bastava premere un tasto per inviare alla centrale gli aggiornamenti sulla missione. Le bastava premere un tasto per segnare la fine della miserabile vita di quel fuorilegge.
Click.

Quando uscì dall’albergo i raggi del sole ormai avevano iniziato a filtrare tra le nubi sempre più rade. La prima volta che si era trovata nella condizione di dover uccidere a sangue freddo un criminale le mani le tremavano. Al tempo faceva parte della squadra di assalto. Le avevano detto che doveva guardare la sua vittima negli occhi per poter superare velocemente lo shock e così aveva fatto. Ricordava ancora l’espressione sgomenta rimasta impressa sullo sguardo di quell’uomo anche dopo avergli sparato. Il tempo per lui sembrava essersi cristallizzato, congelato. Sarà stato anche un assassino, ma guardarlo negli occhi non era servito a farsene una ragione. Chi era lei per decidere di porre fine alla vita di una persona? Si rese conto in quel momento che, con buona probabilità, era stato quel suo attaccamento ai valori il motivo reale per cui aveva fatto domanda di trasferimento nel dipartimento di trasposizione. Almeno lì, l'unica arma utilizzata per la difesa era il taser elettrico e non veniva mai chiesto di giustiziare qualcuno guardandolo negli occhi per superare il trauma.
Percorrendo la strada che portava verso la stazione ripensò a Shulik, a quel suo volto dai lineamenti perfetti nonostante il rivolo di sangue che gli scendeva dal labbro. Quell'immagine di lui le si era stampata nella mente. Entrò in stazione passando prima per il deposito degli oggetti smarriti a ritirare il bagaglio che aveva volontariamente dimenticato. Osservò una squadra di operai che cercava di spegnere le fiamme con un estintore lì dove, in una zona di lavori in corso esclusa al pubblico, si era verificato un inspiegabile cortocircuito. Per un attimo ebbe un ripensamento; automaticamente portò una mano nel fianco dove aveva riposto le manette nella speranza di non trovarle, invece erano proprio lì al loro posto. Nel biglietto lasciato sul comodino aveva scritto: Ti propongo una sfida, tu e io, senza coinvolgere più nessun innocente. Ci stai?
Se il capo del dipartimento avesse saputo quello che aveva fatto, l’avrebbe come minimo rimossa dall’incarico e costretta a seguire le sedute di uno psicoanalista. Aveva fatto la cosa giusta dando a quel criminale una seconda possibilità? Assolutamente no. Non si aspettava nemmeno di ricevere una risposta. Molto probabilmente avrebbe ricominciato a far saltare ordigni in luoghi affollati ferendo a morte gente innocente e la colpa sarebbe stata tutta sua: una traspositrice che non aveva avuto il coraggio di agire secondo la legge. Avrebbe dovuto essere radiata ed esiliata su un pianeta-circondariale.
Spostandosi verso la piattaforma di lancio notò uno strano fermento tra i viaggiatori; all'inizio non capì, poi sollevò lo sguardo verso i tabelloni elettronici che recavano gli orari e le destinazioni delle prossime partenze e comprese il motivo di tanto agitarsi: al posto delle consuete informazioni compariva una sola scritta a caratteri cubitali: Solo tu e io.
Un sorriso spontaneo le illuminò il volto. Shulik si era ripreso, aveva letto il messaggio e aveva accolto l'invito. Tutto era pronto per una nuova sfida, ma questa volta sarebbe stato diverso, se lo sentiva.





Note autore:
La storia potrebbe benissimo terminare qui. In realtà il capitolo era nato proprio per essere una one-shot, poi però mi sono affezionata troppo ai personaggi che ho creato e, poiché odio i finali, ho deciso di continuare la narrazione. Sarò ben lieta di leggere i vostri pareri al riguardo.
In questa storia c'è molta fantascienza e qualche elemento che può essere ricondotto al sovrannaturale. Se qualcuno si interessa vagamente di esoterismo è probabile che abbia intuito qualcosa di familiare.


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Capitolo 2
*** Ingranaggi ***


Incertezze


Cap.2 -Ingranaggi



Di ritorno alla centrale della E-Security, Dylia si fiondò nell’ufficio del capo com’era abituata a fare quando rientrava da una missione, solo che questa volta aveva affrontato in solitaria un viaggio di quattordici ore a velocità prossime a quella della luce e, per colpa dello space lag1, si sentiva stranamente euforica. Persino quell’angolo grigio e sporco del quartiere che ospitava l’edificio della base operativa le appariva più pittoresco e confortevole.
«Non c’era nessun ordigno da disinnescare alla stazione Damon. Falso allarme. Per i dettagli ho lasciato una copia della registrazione del mio rapporto in archivio.» Esordì così, e dopo poggiò una delle due valigie con la strumentazione fusa sulla scrivania immacolata del capo; solo allora lui si animò e la guardò in faccia.
«Cos’è questo schifo? Toglilo subito di qui!»
La ragazza si riprese la valigia trattenendo una risata. «Mi serviranno nuovi strumenti per la prossima missione.»
«Che ne è stato di quelli nuovi che ti sono stati affidati l’ultima volta?»
«Sono questi. Si è abbattuta una tempesta di fulmini sulla città», spiegò.
Il capo sbuffò rassegnato e girò distrattamente lo sguardo verso la finestra. Odiava dover mandare i suoi agenti nelle metropoli di scambio. Le stazioni (con tutto il loro metallo accatastato composto da navette, binari, cavi ed elevatori) spesso fungevano da vero e proprio parafulmine. Bastava che un piccolo fronte nuvoloso si accumulasse in prossimità della zona e l’aria iniziava a caricarsi d’elettricità che puntualmente finiva per riversarsi sugli impianti delle città. Le tempeste di fulmini erano all’ordine del giorno e lui non avrebbe mai immaginato che a far saltare le apparecchiature fosse stata Dylia stessa per togliersi dai guai.
«Sai che siamo a corto di fondi. Prima passa dal nostro tecnico e prova un po’ a fargli aggiustare quella roba.»
Dylia annuì e uscì dall’ufficio.
Non era cambiato niente in lei. Aveva sempre il solito innato senso di giustizia che la spingeva a rispettare ogni regola; proprio per questo ancora non riusciva a capacitarsi di quello che aveva fatto, o meglio, quello che non aveva fatto per fermare Shulik. Era consapevole della gravità delle sue azioni, ma non riusciva preoccuparsene seriamente e per qualche strano motivo le veniva da ridere. Le reali intenzioni di Shulik, quando era entrato a farle visita nella camera d’albergo, restavano un mistero. Tormentarsi per cercare una spiegazione ora non sarebbe servito a nulla.
Lasciò le due valigie con gli attrezzi da aggiustare davanti alla porta del laboratorio del tecnico. Non aveva voglia di dare spiegazioni anche a lui, tanto era sicura che avrebbe capito e, se avesse potuto, non ci avrebbe messo molto a riparare i danni. Poi si diresse verso l’ascensore con l’intenzione di andarsene di lì, chiudersi in un bar e ordinare un frappè alla menta. Era già tanto che fosse entrata nel posto di lavoro durante il suo giorno libero per consegnare il rapporto, non aveva intenzione di trattenersi un minuto in più. Mentre aspettava che le porte dell’ascensore si aprissero, un suo collega di cui non ricordava il nome, la fermò: «Ehi Dylia, che ci fai qui? Non è la tua giornata libera oggi?» E senza attendere risposta continuò: «Qualche psicopatico si sta divertendo ad hackerare i computer dei tabelloni delle partenze a Damon. Ci vorrà tutta la giornata per ripristinare l’ordine.»
«Cosa significa?» La sua era una domanda stupida che non richiedeva necessariamente una risposta. Era bastato il nome “Damon” per farle scattare un campanello d'allarme in testa.
«Significa che qualche deficiente ha deciso che usare un dispositivo privato era troppo all’antica e s’è messo a spedire strani messaggi sui tabelloni della stazione.» Fece una pausa durante la quale sembrò ricordarsi di qualcosa d’importante. «Aspetta, ma tu arrivi proprio da quella stazione! Non hai notato nulla di anomalo?»
Dylia si sentì a disagio. Se l’artefice di quel caos era la persona a cui stava pensando, la colpa in parte era anche sua. Il pensiero di essere stata la causa di un malfunzionamento della società le diede una sensazione di piacevole vertigine.
«Joh chiama Dylia dal pianeta Terratre: non hai notato nulla di strano quando eri lì?»
La donna si scosse distolta improvvisamente dai pensieri. «Sì… cioè no. Insomma che cosa c’era scritto nei tabelloni?!», lo chiese senza riuscire a nascondere un sottile velo d'eccitazione nella voce.
Il collega la guardò perplesso. «Cose in apparenza senza senso. Dovresti chiedere a Paul: da ore sta cercando di risalire alla fonte dell’attacco.»
Non aveva idea di chi fosse Paul, così ringraziò il collega evitando di porre domande che l’avrebbero fatta sembrare una sprovveduta: era una frana con i nomi e quel Paul doveva essere uno nuovo. Richiamò per l’ennesima volta l’ascensore e le porte finalmente si aprirono. All’aperto il sole cominciava a farsi alto e accecante; indossò gli occhiali protettivi e s'incamminò verso quello che lei chiamava “il bar in cui fanno i miglior frappè alla menta del pianeta”; vi entrò e si sedette su uno dei divanetti verdi. Sullo schermo appeso a una delle pareti scorrevano le ultime notizie, tra cui quella dei disagi alla stazione Damon.
Dopo la scritta "solo tu e io" che era comparsa nei tabelloni della stazione e che era rimasta visibile per una decina di minuti, tutto era tornato a funzionare normalmente, così Dylia aveva potuto tornare a casa senza problemi. Non si aspettava di certo che dopo la sua partenza quel folle avesse continuato ad hackerare i computer con gli orari delle navette. A quale scopo poi? Farsi notare da lei? Provocarla?
Nel video che stavano mandando in quel momento in tv, registrato qualche ora dopo la sua partenza, si notava ancora la folla agitata, qualcuno che gridava cose incomprensibili, intere comitive di turisti sedute a terra nei pressi del deposito bagagli. Ad un certo punto qualcuno se la prese persino con il robot-reporter che stava riprendendo la scena, la telecamera venne danneggiata e lo schermo divenne improvvisamente nero.
«Che razza casino!», pensò a voce alta.
«Già!», commentò il barista. «Prendi qualcosa?»
Dylia si alzò e uscì dal bar senza rispondere; le era passata anche la voglia del frappè. I patti erano chiari, non doveva più essere coinvolto nessun cittadino innocente. Ma lui, Shulik, era un pericoloso criminale, aveva fatto saltare ordigni esplosivi in luoghi pubblici pieni di gente, come diavolo le era venuto in mente di credere alla sua parola?! I gradi d’onore che si era guadagnata alla E-Security non contavano più nulla. Avrebbe dovuto dimettersi; gli ingranaggi difettosi della città dovevano essere sostituiti e lei, in quel momento, si sentiva per la prima volta proprio come una di quelle ruote meccaniche che s'inceppano improvvisamente causando l’arresto di tutto il meccanismo. Eppure, sotto un certo punto di vista, trovava che quella situazione assurda fosse piacevole. Per la prima volta nella sua vita stava agendo fuori dagli schemi e questo la faceva sentire diversa.

La sera, dopo aver spiluccato qualcosa per cena, si stese sul letto del suo appartamento senza spostare le lenzuola e senza nemmeno spogliarsi. Rimase per qualche minuto con lo sguardo perso nel soffitto a riflettere, le luci erano spente: l’unico bagliore proveniva dai lampioni ad energia solare sulla strada e filtrava a sprazzi dalle tapparelle creando dei bei giochi di luce sulle pareti e sul pavimento lucido.
Immersa nella penombra, cercò per l’ennesima volta una spiegazione valida per ciò che stava succedendo. Fu allora che ebbe come la vaga l'impressione che qualcuno si fosse intrufolato nella sua mente. Un altro effetto collaterale dello space lag, pensò. Si girò su un lato, afferrò il cuscino e lo strinse a sé. Da quella posizione poteva vedere il suo robot domestico, Oliwar, ricaricarsi in soggiorno. La lucina rossa sulla fronte, sotto la pelle sintetica, lampeggiava ritmicamente e indicava che la batteria era quasi carica. Qualche istante dopo la lucina rossa scomparve e, accompagnati da un bip, due occhi luminosi come quelli di un gatto si schiusero lentamente.
«Oliwar, vieni qui, per favore.» Le piaceva usare un tono educato anche con il suo robot, nonostante a lui non importasse granché di come la gente lo interpellava. Udito e registrato il comando, Oliwar si mosse adagio con passo elegante verso la camera e poi si sedette a terra a gambe incrociate sul tappeto ai piedi del letto in modo da poter sostenere lo sguardo di Dylia.
«Secondo te è possibile che un agente della E-Security lasci deliberatamente scappare un criminale?»
«È possibile», fu la risposta concisa del robot.
«E perché dovrebbe farlo?»
Il robot ci mise qualche secondo per elaborare una conclusione, poi sentenziò: «Dati insufficienti. La mente umana è troppo complessa per poter fornire una soluzione specifica.»
Dylia si girò a pancia in su, in modo da trovarsi a guardare Oliwar sottosopra. Per niente soddisfatta, decise d'insistere. «Bene, allora escludi ogni tipo di fattore corruttivo e dimmi per quale motivo un agente della E-Security dovrebbe agire così.»
«Esclusione in corso…» Alcune lucine bianche si accesero e si spensero a intermittenza sulla fronte del robot. «Le risposte restano ancora molteplici. Ecco le principali: insicurezza, pietà, coinvolgimento sentimentale di tipo primario, disturbo della personalità.»
«Grazie Oliwar.» Trasse un profondo sospiro e continuò ad osservare il suo robot domestico seduto sul tappeto. Nel silenzio della notte era piacevole avere la certezza di non essere soli. Era come stare in equilibrio su un filo teso nel vuoto con uno zaino paracadute sulle spalle.
«Sali sul letto», gli ordinò. Oliwar si alzò senza cambiare espressione e si stese adagio accanto a lei.


Shulik non aveva un posto dove andare in quella città piena di sbirri. Era arrivato fin lì seguendo Dylia. Normalmente passava le notti nel quartiere periferico, nel vecchio studio abbandonato di uno scienziato. Lì si era creato il suo angolo di paradiso e per ogni spostamento usava una vecchia navetta privata non registrata: il frutto del suo primo furto con hackeraggio della storia. Era stato abbastanza semplice quella volta; con il tempo, i sistemi di sicurezza erano stati migliorati e adesso un povero criminale doveva ingegnarsi per sopravvivere.
Attraversando la piazza centrale della città, pensò che si sarebbe sentito sicuramente meglio dopo aver creato un po’ caos con un'esplosione epocale. L’angoscia della gente per qualche motivo gli trasmetteva sensazioni positive, lo faceva sentire speciale. Più i notiziari parlavano di lui, più provava appagamento; inoltre la consapevolezza di aver rovinato la vita a qualcuno alleviava le sue sofferenze.
Trascinandosi lungo i marciapiedi affollati di Street Towers non tentò nemmeno di schivare il fiume di gente che veniva dalla direzione opposta: cittadini, uomini d’affari, turisti, ambasciatori, tutti sembravano avere una meta d’arrivo e uno scopo buono e giusto da portare a termine entro la mezzanotte, ma lui no. Lui non aveva uno scopo, non aveva nulla di buono da offrire se non il suo odio per l’umanità. Attraversò la strada senza guardare, costringendo alcune auto ad inchiodare bruscamente e non contento maledisse gli autisti con un gesto. Dall’altra parte della strada c’era un parco, uno dei rari parchi con piante vere mantenute in vita grazie ad una cupola di energia che di giorno impediva alle radiazioni solari dannose di bruciarne le foglie. Entrò in quel mondo primordiale e si sedette su una panchina abbandonandosi completamente sullo schienale; poi infilò una mano in tasca ed estrasse un rettangolino piatto e scuro, esercitò una leggera pressione su un bordo e tutte le facce del rettangolo furono pervase da innumerevoli scritte luminose. Quella era la sua bacchetta magica. Con quel gioiellino ottenuto nel mercato nero poteva entrare in qualsiasi sistema informatico, poteva manomettere il circuito che manteneva stabili le funzioni della cupola di energia modificando a piacere il logaritmo principale: alle prime luci dell’alba il giardino pubblico sarebbe diventato un inferno di fuoco. Era un’ottima alternativa ai classici ordigni esplosivi che doveva fabbricare con le sue mani, eppure l’idea lo entusiasmava solo fino ad un certo punto, la sua mente era ancora disturbata dal comportamento di Dylia.
Ti propongo una sfida, tu e io.
Al diavolo quel dannato sbirro! Avrebbe potuto lasciarlo legato al letto mentre chiedeva l'intervento dei suoi colleghi. Se l'avesse fatto, a quest'ora non sarebbe stato in quel parco, ma in una stanza buia in attesa di una condanna a morte già scritta. L’idea che il mondo potesse continuare indisturbato anche senza di lui, gli provocò un moto di ribellione. Si sollevò di scatto dallo schienale ringhiando qualcosa contro un passante che accelerò il passato spaventato. Si sentiva fuori dal sistema, un ingranaggio rotto che non serviva a niente. Una smorfia crudele affiorò sul quel volto che sfiorava la perfezione; il pensiero di portare il caos nella calma immacolata di quella schifosa città riapparse più vivido nella sua mente.
Senza coinvolgere più nessun innocente. Ci stai?
La verità - pensò - è che nessuno è innocente in questo mondo.
Portò il piccolo rettangolo luminoso vicino alle labbra e registrò il messaggio, così come l’aveva pensato, dopodiché digitò qualcosa e attese con lo sguardo verso il cielo, osservando il bagliore lontano delle stelle rese opache dalla cupola.



Dylia sussultò nel letto dove si era appena assopita accanto al suo robot quando avvertì l’inaspettato rumore dell’impianto audio dell’appartamento attivarsi.
Si alzò bruscamente e si guardò intorno un po’ frastornata. Ci mise qualche secondo per capire da dove provenisse quel fruscio metallico. «Oliwar! Ricevi qualche segnale anomalo in entrata?»
Il robot, che fino ad allora era rimasto sempre vigile, rispose con tono piatto restando steso nella sua posizione. «Si tratta di un segnale pirata. L’ho bloccato prima che fosse trasmesso in vivavoce dai diffusori acustici.»
«Fammelo sentire!», ordinò.
Oliwar allora si alzò e usando lo stesso tono di voce di Shulik ripeté quelle parole: «La verità è che nessuno è innocente in questo mondo.»




Note autore:

1- Space lag: jet lag che si sperimenta dopo lunghi viaggi nello spazio.

* Oliwar, il nome del robot domestico di Dylia, è ispirato al nome di R. Daneel Olivaw, robot che affianca il protagonista di Abissi d'Acciaio di I. Asimov, il mio libro di fantascienza preferito.



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Capitolo 3
*** Diavoli e Comete ***


Incertezze



Cap.3 -Diavoli e Comete

Sul pianeta Terratre il clima è perennemente autunnale; per questo motivo il parco di Street Towers la sera si riempie facilmente d'umidità e, a causa di un raro fenomeno di ionizzazione provocato dal campo d'energia che forma la cupola protettiva per la vegetazione, nell'aria compaiono delle piccole luci fluttuanti. Sono delle sfere luminose al plasma con un diametro non superiore a un centimetro. È uno spettacolo totalmente innocuo ma, poiché il parco viene chiuso prima delle ventidue, per i cittadini non c’è mai modo di ammirare il fenomeno da vicino.
Quando arrivò davanti ai cancelli chiusi, Dylia si appoggiò trafelata alle sbarre con una mano mentre con l'altra frugava nelle tasche in cerca della tessera magnetica della E-Security per avere libero accesso ai luoghi pubblici. Aveva percorso il chilometro che separava il suo appartamento dal parco di corsa. Sopra i vestiti aveva indossato un trench beige che per la fretta aveva lasciato sbottonato; era scalza e i capelli sciolti si articolavano in ciocche ribelli davanti agli occhi. Oliwar ci aveva messo appena qualche secondo a tracciare la posizione da cui era partita l’interferenza che si era intrufolata nel sistema domotico della sua abitazione e lei ci aveva messo altrettanto per comprendere il significato di quella frase di Shulik: La verità è che nessuno è innocente in questo mondo. Quel criminale si era rimangiato la promessa e stava per commettere qualcosa di serio, ne era certa.
Finalmente trovò la tessera, la mostrò alla telecamera sul cancello e le porte si aprirono. Le prime sfere luminose si erano già formate e fluttuavano a mezz’aria creando un'atmosfera magica. Sembravano quegli insetti dal corpo luminoso che aveva visto in un film storico sulle leggende del primo mondo. Lucciole, le chiamavano.

Si guardò intorno in cerca di Shulik aiutandosi con la luce dei pochi lampioni sparsi nel luogo. Era agitata, ma si trattava di un’agitazione strana, quasi piacevole, adrenalinica. Poi lo vide, seduto su una panchina con in mano qualcosa: un domosintetizzatore. Uno di quegli insignificanti gingilli tecnologici tra le mani di un bravo hacker poteva diventare un aggeggio letale, in grado di innescare una reazione nucleare a partire dai sistemi di depurazione dell’aria della città.
Attorno alla figura di quel criminale dagli occhi diabolici e dai capelli neri come la notte, aleggiava un'aura negativa di pericolo. Eppure in quel momento Dylia, osservandolo avvolto nella penombra e circondato da coriandoli di luce, sentì che c’era qualcosa di umano in lui e provò un'emozione simile alla compassione.
«Mi fa piacere tu abbia accettato l’invito», disse lui senza sollevare lo sguardo.
«Appoggia lentamente quell’arnese a terra e alza mani.»
Shulik la guardò con un sorriso divertito. Il parco a quell’ora era avvolto nel silenzio, l’umidità e le luci mantenevano un clima piacevole; in circostanze normali non sarebbe stato difficile eliminare ogni pensiero negativo per godersi quella calma ipnotizzante.
«Rilassati, non ho ancora fatto saltare in aria nessuno.» Sogghignò, lasciandosi ricadere sullo schienale della panchina. Quell’indifferenza urtò emotivamente Dylia, che avanzò più aggressiva di prima fermandosi ad appena qualche passo da lui.
«Per quanto tempo continuerai a recitare questa farsa?», la provocò, ma la ragazza non capì a che cosa volesse riferirsi.
«Perché mi hai mandato quel messaggio?», replicò lei. Una domanda per un’altra domanda: è così che funziona tra due nemici che cercano di studiarsi a vicenda per anticipare la mossa dell’altro.
La verità è che nessuno è innocente in questo mondo. No, la verità è che quel messaggio di Shulik sembrava un grido disperato d’aiuto, sembrava quasi voler dire: “corri qui e fermami!”
Shulik mise bene in mostra il domosintetizzatore giocherellandoci con le dita, ma Dylia non si lasciò intimorire.
«Rispondi alla mia domanda: perché quel messaggio?», insistette, scandendo bene le parole e cercando di apparire calma.
«La domanda che dovresti porti è: perché no?», ammiccò lui.
La sua noncuranza iniziò a darle sui nervi. Cercò il taser decisa più che mai a dargli una lezione, ma non lo trovò: aveva lasciato la cintura con le armi in dotazione nell’appartamento. Gravissima dimenticanza. Shulik notò quel movimento e la preoccupazione negli occhi della ragazza dopo che non aveva trovato ciò che cercava.
«A quanto pare la situazione si è capovolta», disse. «Come farai, senza armi, a impedirmi di provocare una strage?»
Dylia avanzò ancora, fino a trovarsi a meno di un metro dalla panchina su cui era seduto. «Hai dato la tua parola che non avresti più coinvolto gente innocente.»
«La mia parola vale meno di zero.» Abbassò lo sguardo e notò solo allora che la ragazza aveva i piedi nudi. Probabilmente, se aveva fatto tutta la strada di corsa, si era procurata delle escoriazioni, ma mascherava benissimo il dolore.
«Anche tu sei una persona
», iniziò Dylia «ergo anche tu hai un'anima e…», ma lui la interruppe bruscamente con tono sprezzante.
«Ci tieni davvero a questa massa di idioti! No, io non sono una persona, non lo sono più da anni.» Appoggiò il domosintetizzatore su un angolo della panchina e sospirando lasciò cadere la testa indietro. Alle solite stelle rese opache dalla cupola d'energia, ora si erano aggiunte anche quelle inutili luci fluttuanti. Pensò che la situazione che stata vivendo sfiorava l’inverosimile. Quand'era stata l'ultima volta che aveva parlato così apertamente a uno sbirro? Non lo ricordava, forse quella era la prima volta. Si sentiva strano, sentiva che con lei poteva parlare:
doveva sicuramente essere impazzito. Avrebbe voluto invitarla a sedersi accanto a lui e raccontarle tutto, ma allo stesso tempo aveva voglia di afferrarla e stringerla con violenza fino a farla gridare.
«Domattina, quando il parco riaprirà, farò saltare questa cupola con tutte le persone che vi si troveranno dentro al momento, perché sono le stesse persone che mi hanno ridotto così.»
Nonostante la gravità dell’affermazione, la sua voce aveva perso quel tono arrogante di poco prima. Quando tornò a guardare nella direzione della ragazza se la ritrovò seduta di fianco: lo fissava con un’espressione indecifrabile, i suoi lunghi capelli ramati le ricadevano in ciocche sulle spalle e le incorniciavano graziosamente il viso.
«Tu non hai ucciso nessuno, forse è per questo che ti ho lasciato andare», disse continuando a fissarlo con quello sguardo particolare: gli occhi come due grandi specchi in grado di catturare l’essenza delle cose e degli esseri viventi.
«Non sparare cazzate, sbirro!» Questa volta il tono aggressivo nella sua voce era palpabile. «Non hai sventato tutti i miei attentati! Se c’è una cosa di cui ho la certezza, è che sono un assassino. Sì, certe volte non c’è altra soluzione se si vuole continuare a esistere. Io ho ucciso! E ucciderò ancora! Forse tu potresti essere la mia prossima vittima...»
I suoi occhi, sconvolti dalla rabbia che riaffiorava, incontrarono quelli di Dylia che sussultò. Erano a qualche centimetro di distanza uno dall’altro: la legge e il crimine, il bene e il male, il giorno e la notte.
«Tu non hai ucciso nessuno», insistette la ragazza, «non sono state le tue mani, è stato il fuoco e il metallo degli ordigni che hai fatto esplodere.»
Shulik la afferrò per le spalle con uno scattò violento. «Se stai cercando di…», non trovando le parole la strinse più forte e sentì il tessuto del trench che indossava stropicciarsi sotto le sue dita. «Se stai cercando di redimermi, è fiato sprecato, sbirro!»
Per un attimo che sembrò eterno, la luce dei loro sguardi si fuse. Gli occhi verdi della ragazza incontrarono il buio della notte degli occhi del criminale dando vita, in qualche remota parte del cosmo, ad un universo parallelo in cui i diavoli ribelli piangevano e le comete d’argento li consolavano.
«Che idea folle!», disse Dylia scrollandosi bruscamente di dosso le mani dell’uomo e alzandosi. «Uno a zero per me!», sorrise e sollevò la mano destra in un gesto che poteva sembrare un saluto, ma che in realtà aveva lo scopo di mostrare il domosintetizzatore che aveva afferrato mentre lui era distratto. Dopo un attimo di spiazzamento, Shulik capì di essere stato giocato, allora unì le mani in un lento applauso. «Brava. E dimmi, come farai a impedire che alle prime luci dell’alba si scateni l’inferno? Lo sai che basta un errore nella riscrittura del logaritmo per provocare il caos in tutto il quartiere?»
Dylia non rispose alla provocazione, si voltò e iniziò ad allontanarsi; aveva già in mente una soluzione. Sentì in lontananza la voce di Shulik urlare: «Mi faresti un favore se mi riportassi quel gioiellino quando hai finito!»
«Non sono un corriere espresso!», gli urlò lei di rimando, continuando per la sua strada.
Percepì distintamente la sua risata. «Anch’io mi sono divertito, agente!»
Non l'aveva chiamata "sbirro" questa volta, era già qualcosa di positivo: si girò, ma di Shulik non c'era più traccia, il lampione vicino alla panchina in cui avevano sostato si era spento e anche quello spazio era stato colmato da una manciata finte lucciole fluttuanti.


Il tecnico, suo collega alla E-Security, si era trasferito da poco in quello stesso quartiere per dei problemi nell’edificio in cui risiedeva prima. Quando Dylia si trovò davanti alla porta di casa sua nel cuore della notte, ebbe un attimo d'esitazione. Si chiese se era proprio necessario rivolgersi a lui a quell'ora. Avrebbe potuto affidare il domosintetizzatore a Oliwar; lo avrebbe analizzato con l’aiuto del nuovo cip installato, ma il pensiero che fosse una mente artificiale e non una mente umana a occuparsi della faccenda non la faceva sentire abbastanza tranquilla. Ecco perché ora stava per svegliare quell'uomo di cui non ricordava nemmeno il nome. A lavoro si salutavano ogni giorno giacché i loro uffici erano adiacenti, ma in realtà tra loro non c'era molta confidenza. Se non ci fosse stata una targhetta sulla porta a ricordargli il suo nome, probabilmente avrebbe fatto la figura di quella che non sa nemmeno con chi lavora.
Paul. Forse era lo stesso Paul che aveva cercato di ripristinare l’ordine nei tabelloni della stazione Damon. Non glielo avrebbe mai chiesto e così non ne avrebbe mai avuta la certezza.

Di notte Paul collegava la suoneria del telefono e il suono del videocitofono agli auricolari che indossava; teneva il volume piuttosto basso, in modo da evitare infarti nel caso qualcuno lo svegliasse per un'emergenza nel bel mezzo del riposo, quindi vi mise un po' a realizzare quello che stava succedendo quando Dylia premette il pulsante alla porta. Si alzò dal letto cercando di non svegliare sua moglie ed entrò in soggiorno dove un minischermo mostrava il volto di chi stava sostando davanti l'entrata.
«Paul, mi servirebbe il tuo aiuto», bisbigliò Dylia attraverso il microfono del videocitofono cercando di sfoderare un sorriso compassionevole.
Il tecnico aveva stampata in faccia un’espressione tra l'assonnato e il frastornato. «Dylia, sei proprio tu? Sai che ore sono?!»
«Sì, e mi dispiace moltissimo di averti svegliato, ma fidati, se non si trattasse di una faccenda seria, non lo avrei mai fatto.»
L'uomo le aprì la porta e la invitò ad entrare. «Fai piano. Mia moglie e mia figlia dormono.»
Si accomodarono in cucina e solo allora Dylia mostrò il domosintetizzatore. Alla vista di quell’oggetto, il viso di Paul si contrasse in una smorfia di preoccupazione.
«Per la miseria! Se mi avessi detto subito che si trattava di un DSZ1… avremo potuto sistemare la faccenda altrove, non in casa mia!», disse cercando di controllare il tono della voce. Poi prese in mano l'oggetto con delicatezza e iniziò a studiarlo attentamente.
Nel giro di una decina di minuti riuscì ad entrare nella programmazione generale del domosintetizzatore senza troppe complicazioni.
«È tutto a posto», concluse.
«Lo hai… disattivato?»
«Non c’era nulla da disattivare.»
Dylia assunse un’espressione incredula. «Vuoi dire che non avrebbe fatto saltare nulla?»
«Già. Ora, visto che mi hai svegliato alle tre di mattina per niente, potresti almeno spiegarmi dove l’hai trovato questo affare, no?»
La ragazza non rispose, era ancora piuttosto confusa. L’altro si limitò ad osservala severamente per qualche istante; gli fu subito chiaro che nascondeva qualcosa, ma decise di non insistere: era stanco e non vedeva l'ora d'infilarsi nuovamente sotto le coperte. Dylia si rimise l’oggetto in tasca e, dopo infinite scuse, tolse il disturbo e se ne tornò a casa. Una cosa positiva in tutto quel trambusto c'era: non si sarebbe più scordata che il tecnico si chiamava Paul.


«Agente Dylia, è da qualche giorno che noto qualcosa di strano in lei.»
Quando, dopo una convocazione nel suo ufficio, il capo della E-Security dava il buongiorno così, c’era da aspettarsi il peggio. Dylia non immaginava che il tecnico avesse fatto rapporto sul loro incontro, ma lo capì immediatamente dalla frase successiva.
«Ora lei mi spiega esattamente come e dove di preciso ha ottenuto un DSZ.»
«Io…», esitò la ragazza, «l’ho trovato ieri sera nel giardino di Street Towers.»
«E chi ce lo ha portato lì?», continuò l'altro pazientemente.
Ce l'ha portato Shulik, signore! So di aver sbagliato non informandola subito. Mi permetta di rimediare affidandomi il caso di quel criminale! Queste erano le parole che Dylia intendeva pronunciare, ma dalla sua bocca invece uscì tutt’altro: «Non lo so.»
Il capo la scrutò per qualche istante restando in silenzio; dalla sua espressione contratta sembrava che stesse compiendo un notevole sforzo, come per cercare di decifrare una calligrafia illeggibile. Poi, senza mutare espressione, elargì la sua sentenza: «Lei sta combinando qualcosa, agente Dylia, e questo suo comportamento non mi piace per niente.» Cercò un sigaro nel cassetto e non trovandolo s'innervosì. «Sa che cosa rischia, vero?»
Dylia trattenne il respiro. Lo sapeva benissimo. Nel migliore dei casi le avrebbero ritirato il distintivo per qualche mese, nel peggiore un pianeta-circondariale sarebbe diventato la sua eterna e lugubre dimora.
«È la verità, signore! Una segnalazione anonima mi ha avvisato della presenza di quel dispositivo. Non so chi ce l'abbia portato.»
«Mi auguro che sia vero, perché se così non fosse… dovrei credere che lei sta tentando di proteggere un criminale e questo farebbe di lei la sua complice!» Studiò ancora per qualche attimo l'espressione della ragazza in cerca della verità, poi le fece cenno di uscire con una mano. Aveva troppi anni di esperienza sulle spalle per farsi fregare in quel modo, ma continuare a discutere in quel momento non avrebbe portato a nulla. Era certo che Dylia nascondesse qualcosa com’era certo del fatto di aver terminato la scorta di sigari, così, non appena la ragazza ebbe lasciato l’ufficio, compose il numero dei colleghi affiliati nel campo dello spionaggio.



Note autore:

1- DSZ: abbreviazione tecnica di domosintetizzatore.

Rileggendo, mi son resa conto che Terratre, il nome del pianeta, potrebbe sembrare anche il nome di un canale TV, poco male. XD
Vi posso spoilerare che uno dei prossimi capitoli conterrà delle informazioni chiave per comprendere il significato del titolo e vi sarà una spiegazione del principio di funzionamento della tecnologia di trasposizione utilizzata nel dipartimento di Dylia.
Fatemi sapere come vi è sembrato questo capitolo e non abbiate timore di farmi notare qualcosa che secondo voi andrebbe migliorato.


Licenza Creative Commons
"Inverse Transposition" di Monique Namie
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Capitolo 4
*** Scissione d'Anima ***


Sciossione d'Anima


Cap.4 -Scissione d'Anima


Gli ultimi giorni erano trascorsi in modo relativamente tranquillo. Sembrava che Shulik avesse deciso di prendersi una vacanza, il che poteva sembrare un bene per l’umanità, ma per Dylia non lo era affatto. Non era nemmeno lontanamente concepibile che un’agente del dipartimento di trasposizione sperasse nell'arrivo in centrale di un allarme per un possibile attentato, eppure quel pensiero le si aggirava nei meandri della mente da un po’. Non c’era nulla da fare, il lavoro d’ufficio la deprimeva e certe idee sconclusionate affioravano senza preavviso. Un tempo, quando nei periodi di calma si trovava confinata davanti la sua scrivania, passava in rassegna tutti i negozi online in cerca di nuovi cip specializzati per upgradare le funzionalità di Oliwar; adesso anche quel suo hobby non la soddisfaceva più.
Durante la pausa pranzo scelse di recarsi nella mensa pubblica. Odiava quel posto, ma la voglia di immischiarsi in qualche casino l’aveva inconsciamente portata lì. Si mise a fissare il piatto che aveva ordinato tenendo la forchetta a mezz’aria. Era l’ora di punta, quindi il locale era affollatissimo e c’era un baccano insopportabile. Se avesse avuto una pistola al posto del taser, avrebbe potuto sparare un colpo in aria per ottenere un po’ di silenzio. S’immaginò in piedi sopra al tavolo con la pistola ancora fumante e i pezzi d’intonaco staccati dal soffitto che ricadevano a terra. Da quando la sua mente creava fantasie così ribelli e squilibrate? Da quando aveva incontrato quel Shulik a Damon. La chiave di tutto stava lì. Fu riportata con la mente al presente dalla voce di un giovane.
«Ciao. Non ti ho mai notata prima in mensa. Mi chiamo Saati.»
Dylia guardò il suo interlocutore: era il tipo che si era seduto davanti a lei qualche minuto prima e che da allora non aveva mai smesso di fissarla con un fastidioso sorrisetto. Aveva gli occhi troppo chiari, i capelli troppo pettinati e gli abiti troppo formali; non riusciva a sostenere il suo sguardo per più di qualche secondo senza sentirsi trasportata in una dimensione intrisa di finzione.
«Dici a me? Di solito vengo qui per mangiare, non per conoscere nuova gente.» Appena ebbe proferito quelle parole si sorprese d'aver usato quel tono scortese.
«Non volevo sembrarti inopportuno…», si scusò il ragazzo.
«No, figurati. Scusami tu. Ho una giornata un po’ particolare. Non mi piace venire qui a mangiare, c’è sempre troppa confusione.»
Il ragazzo rimase per un attimo ammutolito, poi rise. «Eppure oggi sei entrata qui e hai ordinato quel piatto, perché?»
«Ha importanza?», sbuffò annoiata.
«Beh, dipende. Se sei una di quelle persone che credono nel destino, una certa importanza ce l’ha. Credi nel destino?»
«Sono una traspositrice. Credo che il destino lo creiamo noi.»
Il volto di Saati s’illuminò. «Stai scherzando?! Io sono un appassionato di scienza della trasposizione. Di professione sono archivista, ma ho letto parecchi videolibri sulla trasposizione. Se questo non è destino!»
Per tentare un approccio simile, doveva essere abbastanza disperato.
Dylia decise di ignorarlo. Aprì una bustina di mirtillo gubiano e la riversò sulla sua pietanza; non contenta, strappò una bustina di salsa di funghi ecend e svuotò completamente anche quella colorando vivacemente la sua porzione, poi iniziò a mangiare e trovò che il cibo, così condito, avesse un sapore delizioso.
«Non avrai intenzione fissarmi per tutto il tempo?», disse, sentendosi gli occhi dell'altro addosso.
«Scusa, è che pensavo… dopodomani nella Biblioteca Mondiale si terrà una conferenza sulla trasposizione presieduta da un massimo esperto in materia, il dottor Càusier...» s'interruppe e, portandosi una mano sulla nuca, assunse un’espressione un po’ imbarazzata.
«Vorresti invitarmi a venire con te?», chiese Dylia. «Ci conosciamo da qualche minuto e non sai nemmeno come mi chiamo.»
«Vero, può sembrare pazzesco, ma...»
«D’accordo!»
«Cosa?»
«Dopodomani è domenica, lavoro solo in caso d’emergenza e non faccio un salto da quelle parti da troppo tempo.»
Saati spalancò la bocca in un sorriso. Dylia sperò che non si facesse troppe illusioni; se aveva accettato era soprattutto perché aveva voglia di cambiare aria dopo quelle giornate di stasi che stava vivendo.



Erano le quattro in punto del pomeriggio quando Dylia
raggiunse la Biblioteca Mondiale con una navetta planetaria diretta. Aveva lasciato a Oliwar le coordinate esatte della sua ubicazione e il compito di rispondere a eventuali chiamate d’emergenza provenienti dalla E-Security.
Prima di allora era stata un’altra volta alla Biblioteca Mondiale: quando faceva ancora parte della squadra di assalto, alcuni agenti erano stati chiamati per scortare un ministro che doveva tenere un discorso proprio lì.
La biblioteca, contrariamente a quanto potrebbe far pensare il nome, in realtà non conteneva libri, ma un avanzatissimo sistema informatico di archiviazione. Si potevano consultare documenti di ogni genere e periodo storico tramite una chiave d'accesso ai dispositivi, che si otteneva solo dopo aver espresso il desiderio di registrarsi con qualche mese d'anticipo. Dagli ingredienti per fare un tiramisù alle incisioni presenti sulla leggendaria Stele di Rosetta, dagli articoli di giornale sulla Grande Guerra agli archivi top secret della Base Interstellare Dobson,
qualunque cosa era conservata in pacchetti di dati compressi nel computer centrale della biblioteca.
L’edificio era come se lo ricordava: eccessivamente sfarzoso e grande per la funzione che ricopriva, con le sue colonne in marmo bianco sull'entrata e i suoi sei piani intervallati da terrazze con ringhiere in stile barocco.
Trovò Saati, il ragazzo conosciuto casualmente due giorni prima nella mensa pubblica, ad aspettarla all’entrata come d’accordo. La conferenza sulla trasposizione sarebbe iniziata da lì a cinque minuti. Saati, da grande appassionato di scienza della trasposizione, tramite certi agganci era riuscito a procurarsi due posti in quinta fila. Non male, se si considerava che le prime tre file erano occupate da esponenti di pubblico rilievo.
La sala in cui furono fatti accomodare era immensa. Il soffitto era alto almeno cinque metri e le pareti erano adornate da schermi olografici programmati per proiettare immagini a tema con l’evento.
Il relatore, l’esperto il dottor Càusier, arrivò con qualche minuto di ritardo, ma non si perse in convenevoli e diede subito inizio alla lezione, partendo dalla storia dell’invenzione del macchinario per la trasposizione. Càusier era un uomo minuto che amava vestire all’antica; nonostante i capelli e i baffi quasi completamente bianchi, il suo volto dimostrava almeno dieci anni in meno di quanti ne aveva in realtà.
Iniziò spiegando che quando Grant Everymet, scopritore della trasposizione, capì che la coscienza poteva essere indotta ad agire fuori dal corpo fisico, credette di aver trovato il metodo per studiare l’anima. «Ma si sbagliava, perché ciò che in realtà aveva scoperto era il corpo astrale
», disse, modulando abilmente la voce per mantenere viva l'attenzione del pubblico. «L’anima è una parte molto più sottile, indissolubilmente legata al corpo fisico, tanto che se si tenta di scinderla da un essere vivente, la vita stessa finisce. Everymet scrisse persino un libro intitolato “Scissione d’Anima” in cui esponeva i suoi studi...»
Sui monitor olografici sulle pareti comparvero alcuni schemi presenti sulle pagine originali del libro, accanto ad essi il volto dello scienziato: un uomo brizzolato con un’espressione rassicurante, ritratto mentre indossava un camice bianco da laboratorio.
«Qualche anno dopo corresse le sue teorie. Fu il caso che lo fece ravvedere. Proprio durante un temporale, un fulmine centrò l’impianto elettrico del suo laboratorio e riversò una scarica di qualche gigawatt di potenza su un prototipo del macchinario per la trasposizione su cui stava lavorando. Gli elettrodi poggiavano su un tavolo di legno che non riportò alcun danno, ma…», osservò per qualche istante la platea che pendeva dalla sue labbra, curiosa di ascoltare il seguito e poi riprese: «la cosa sorprendete fu che questo continuò a vedersi anche quando Grant lo spostò. La potenza del fulmine ne aveva separato la parte astrale.»
«Il tavolo fantasma!», scherzò Dylia. Un uomo davanti di lei si girò e le lanciò un’occhiataccia.
Qualcuno verso il fondo della sala si alzò in piedi per chiedere la parola. «Mi scusi, questo significa che ogni cosa e ogni persona ha un “doppio”?»
«Non è così semplice come sembra. Qui si entra in un campo che comprende gli studi sulla meccanica quantistica e le scienze parapsicologiche. Comunque, sì, semplificando al massimo, si potrebbe dire che ogni essere vivente e ogni oggetto ha un “doppio” nel piano astrale.»
Il dottor Càusier si voltò verso il fondo del palco e attese i due robot inservienti che sbucarono puntuali da dietro le quinte. Uno spingeva un carrello a due piani: in cima era disposto un portatile, nel vano inferiore c’era la tuta ad elettrodi e il macchinario per la trasposizione; l’altro robot invece trascinava un lettino di quelli neri e bassi che si vedevano negli studi degli psicologi.
«Per capire meglio propongo un esperimento pratico», disse l'uomo. «Qualcuno tra il pubblico ha già sperimentato la trasposizione prima d’ora?»
Dylia si sorprese con la mano alzata. Quando, un attimo dopo, si voltò e si rese conto di essere l’unica, riabbassò la mano, ma il danno era già fatto.
«Prego, come si chiama? Se la sente di prende parte all’esperimento?» Il dottor Càusier si stava rivolgendo proprio a lei. Non poté tirarsi indietro, così si alzò e salì sul palco. Si presentò come traspositrice impiegata alla E-Security e guardò verso la platea: da lì sopra, la sala conferenze sembrava ancora più grande e il pubblico ancora più numeroso, ma questo non la fece sentire troppo a disagio.
«Per la dimostrazione è sempre meglio che il soggetto abbia un minimo d’esperienza», disse Càusier.
Dylia indossò la tuta ad elettrodi con la disinvoltura di una persona abituata a maneggiare con quella moltitudine di cavi e ventose da molto tempo, poi si stese sul lettino e attese. Mentre aspettava, si ritrovò per l'ennesima volta a pensare a quello che le era successo a Damon per colpa di Shulik. Era così immersa nei ricordi che non sentiva nemmeno più la voce del dottore che proseguiva con le spiegazioni.
«Ora, visto che il corpo astrale è collegato ad uno strato profondo dei processi psichici, bisogna indurre la paziente ad un sonno intenso in modo che l’inconscio riaffiori, un po’ come accade la notte quando sogniamo.»
Càusier controllò che la ragazza si fosse sistemata a dovere e poi azionò la macchina. Dylia non percepì nemmeno il cambio di dimensione; per qualche istante credette di essere ancora sul lettino della sala conferenze in attesa dell’arrivo del sonno indotto, poi realizzò che il luogo in cui si trovava era troppo buio e disordinato. Il dottor Càusier non aveva specificato di aver sistemato un dispositivo per la distorsione del campo elettromagnetico in un altro posto: se voleva fare una dimostrazione per il pubblico in sala, un tale marchingegno non gli serviva. Si guardò intorno con una strana sensazione di smarrimento addosso, riconobbe di essere su qualcosa di morbido, un materasso malridotto accostato alla parete fatiscente di una stanza. Sul pavimento ai suoi piedi vi era una cassetta degli attrezzi ribaltata, il contenuto era sparso ovunque. In alto, il soffitto sembrava quello di un hangar. Poteva trovarsi ovunque, anche dell’altra parte del mondo.

Intanto, nella sala conferenze della Biblioteca Mondiale, il dottor Càusier continuava con le spiegazioni: «Ovviamente il corpo astrale non si può vedere, ma sicuramente quello di Dylia sta passeggiando qui in giro.»
Qualcuno dei presenti si guardò intorno incuriosito, come se stesse assistendo ad uno spettacolo di magia e si aspettasse da un momento all’altro la materializzazione della volontaria nell’altro capo della stanza.
«Mentirei se vi dicessi che nessuno è in grado di vedere il corpo astrale», continuò, «in tempi antichi, infatti, si parlava di sensitivi: persone dotate di un’abilità innata a percepire interferenze provenienti da altre dimensioni.» Fece una breve pausa durante la quale si spostò verso il computer collegato all’apparecchiatura. «La scienza oggi ci ha permesso di elaborare un programma in grado di rendere visibile il corpo astrale anche senza possedere particolari abilità parapsicologiche. Non a caso il programma è stato chiamato l’occhio del sensitivo. E ora proveremo a scoprire che cosa sta facendo la nostra volontaria durante il sonno.» Sorrise come un mago a cui sta riuscendo il trucco più bello della sua carriera, ma quando azionò l’occhio del sensitivo, il sorriso gli si spense nel volto e dalla sala si levò un inquieto mormorio. La figura evanescente che è si era materializzata vicino al corpo di Dylia era quella di un estraneo. Era una figura oscura che stava chinata a guardare la ragazza addormentata, la figura di un uomo dai capelli neri come la notte, occhi indiavolati e volto dai lineamenti paradossalmente aggraziati. Lo sguardo maligno di quel doppio astrale sconosciuto si sollevò di scatto verso il pubblico lasciando tutti ammutoliti.

Mentre si aggirava in quel luogo decadente, solo parzialmente illuminato dal sole che filtrava dai lucernai, Dylia pronunciò una frase: «Il dottor Càusier mi dovrà delle spiegazioni.» E nel tono di voce di quella frase non si riconobbe, non riconobbe nemmeno la carnosità delle labbra che l’avevano pronunciata, così si avvinò a una delle finestre verso est, in modo che i raggi del sole pomeridiano riflessi potessero fare da specchio e si osservò.

Saati, che fino a quel momento aveva assistito all’esperimento dal suo posto, si alzò in piedi e urlò: «Fermate immediatamente il processo di trasposizione! Presto!»

Il dottor Càusier tornò velocemente davanti al computer per cercare di annullare il processo, ma i comandi non rispondevano. La figura minacciosa dai contorni evanescenti, che era comparsa al posto del doppio astrale della ragazza, iniziò ad agitarsi. Di conseguenza, il battito cardiaco di Dylia aumentò e il suo corpo addormentato fu colto dai fremiti come se cercasse di svegliarsi ma qualcosa lo glielo impedisse.
«Fermi questa macchina!», intimò nuovamente Saati che intanto era salito sul palco sotto gli occhi sbigottiti del pubblico.
«Crede che non ci stia provando!», urlò di rimando Càusier. Un attimo dopo scattò il sistema d'emergenza, la corrente fu tolta e non appena il macchinario per la trasposizione si spense, la figura sconosciuta si dissolse.

Dylia si svegliò una mezz’ora dopo su un lettino diverso da quello in cui ricordava di essersi coricata: doveva trovarsi in una saletta della biblioteca adibita a infermeria. Riconobbe la voce di Saati in lontananza e, dopo essersi portata a sedere, vide che c’era anche il dottore Càusier. Quest’ultimo, quando si accorse che si era svegliata, le si avvicinò ansioso.
«Come si sente?»

«Strana. Direi quasi... lontana.»
«Stia tranquilla, fortunatamente il peggio è passato.»
«Ma che cosa è successo?», chiese. «Perché non ha detto di aver usato un dispositivo per la distorsione del campo elettromagnetico?»
«Perché non l’ho usato. Tendo a pensare che durante una delle sue ultime trasposizioni qualcuno sia entrato a contatto con lei mentre era addormentata. È sempre un’operazione molto rischiosa e delicata questa, se poi qualcuno s'intromette durante il processo… Gli elettrodi che aveva addosso hanno, mi si passi il termine, “catturato”, parte del corpo astrale della persona che l’ha toccata. È così? Ha avuto un contatto indesiderato?»
Per qualche attimo Dylia rimase in silenzio a riflettere. Quella considerazione proposta da Càusier era il tassello mancante del puzzle, la spiegazione che stava cercando da un po', la chiave per decifrare le strane sensazioni che da un po' avvertiva.

«Riesce a ricordare qualcosa di utile?», insistette Càusier.
«Sì... sì, c’era qualcuno con me durante la mia ultima missione», ammise finalmente.
«Questo prova la mia teoria. Vede, quell’evento che lei ha sperimentato può non significare niente, ma può anche significare moltissimo.» Notò l'espressione confusa sul volto di Dylia, allora continuò: «Mi spiego meglio: la parte del corpo astrale appartenente all’altra persona potrebbe svanire lentamente e tutto tornare alla normalità. In questo caso non ci sarebbe alcuna conseguenza. È altresì possibile che anche parte del suo doppio astrale sia stata proiettata nel corpo sbagliato. Praticamente un po’ di Dylia vive nel personaggio misterioso, e un po’ del personaggio misterioso vive in Dylia.»
«Shulik», disse Saati, che fino a quel momento si era tenuto a distanza. «Il misterioso individuo si chiama Shulik!»
La ragazza sgranò gli occhi sentendo pronunciare quel nome, come se solo allora avesse preso realmente coscienza della situazione.
«Se siete certi che sia lui, potreste venire entrambi nel mio ufficio per tentare di risolvere.»
Dylia scosse la testa. «Dottore, forse lei non sa che Shulik è un criminale pluriricercato.»
«Oh!» No,
non lo sapeva. «Bhe, ma non deve preoccuparsi. C’è sempre una soluzione anche nel peggiore dei casi», esitò qualche istante per scegliere le parole più adatte: «Secondo la mia teoria, se le vostre anime sono compatibili i vostri caratteri si plasmeranno a vicenda.»
«Mi faccia capire», intervenne Saati, «succederà un po’ come in quei film da quattro soldi in cui il carattere di una persona finisce del corpo dell’altra? Dylia diventerà un’assassina e Shulik rispetterà finalmente la legge?»
Càusier non fece in tempo a confermare o smentire, perché Dylia si alzò con decisione e, prendendo con violenza Saati per la giacca, gli urlò contro: «Non succederà, razza di deficiente!», poi lo strattonò e gli arruffò i capelli. «Non ti sopporto più con i tuoi capelli troppo pettinati e i tuoi vestiti da cretino! Non so nemmeno perché ti ho rivolto la parola quel giorno in mensa. Sei insopportabile! Vattene!» Lo spinse fuori dalla porta e dopo averla richiusa alle sue spalle si portò una mano al petto e riprese fiato. Si rese conto di aver il cuore così agitato che sembrava volerle uscire dalla scassa toracica. Il dottor Càusier non sembrò affatto sorpreso di quella sfuriata; aveva la tipica espressione di qualcuno che vede le sue congetture realizzarsi. Quando ritrovò la calma, Dylia si rivolse al dottore: «Era lui, vero? Ci sarà pure un modo per controllarlo...»
«C'è sempre un modo», disse il dottore con fare solenne.

Prima di andarsene, Dylia sostò nel grande atrio della biblioteca e sollevò lo sguardo verso l'enorme lampadario di vetro che aiutava i raggi del sole morente a illuminare l'ampia scalinata interna. Altro che biblioteca! Sembrava un hotel extralusso, un maniero in cui si potevano scovare anfratti segreti dietro finte pareti.
Sospirò, tormentata dal rimorso di aver trattato Saati in un modo così duro. Il fatto che non gli fosse simpatico non la giustificava ad usare delle maniere brusche; non era da lei agire così aggressivamente per futili motivi. Il pensiero che un frammento di Shulik fosse veramente intrappolato dentro di lei e che a tratti potesse prevalere sulla sua coscienza, tuttavia, non la spaventava quanto avrebbe dovuto, anzi la faceva sentire in qualche modo più speciale.

Quando, proiettata in quel luogo sconosciuto, aveva cercato la propria immagine riflessa nelle finestre, aveva visto lui: per un breve lasso di tempo aveva guardato il mondo con i suoi occhi e aveva provato quello che lui provava ogni giorno. Ora le era chiaro che quell'uomo conviveva con un peso tremendo che gli logorava lentamente l'animo, qualcosa che avrebbe potuto trasformare la persona più docile in un killer assetato di sangue. Al ricordo di ciò che aveva percepito, le salì il cuore in gola e, avvolta dalla solitudine del tramonto, lasciò che gli occhi le si riempissero di lacrime.
Incamminandosi fuori dalla biblioteca infilò le mani in tasca e avvertì sui polpastrelli il contatto freddo con un materiale metallico: era il DSZ di Shulik. Forse ora aveva una scusa in più per riportarglielo.




Note autore:
Ebbene, siamo arrivati ad un punto cruciale della storia!
Vi svelo qualche curiosità sul capitolo: la prima parte, quella dell'incontro con Saati in mensa, avevo pensato di tralasciarla e inserirla come missing moment al termine di tutto il racconto, perché temevo allungasse troppo il capitolo. Poi ho cambiato idea, et voilà.
La teoria che ogni cosa e persona abbia un "doppio" nel piano astrale non è una mia invenzione, ma è un tema che si può trovare realmente in alcuni libri che trattano di esoterismo.
Come al solito, se ritenete che qualcosa debba essere migliorato, fatemelo sapere senza paura.
Alla prossima! :)


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Capitolo 5
*** Simmetrie ***


Incertezze


Cap.5 -Simmetrie



Il giorno precedente Shulik aveva trascorso una pessima giornata. Era stato al mercato nero: non quello online, il mercato nero reale, quello che s’incontrava nei sobborghi più malfamati della città. Non doveva comprare niente, c’era andato solo per incontrare altri come lui. Ad un certo punto, annoiato dalle minacce di un rivenditore di merce rubata che non aveva mai pagato, era entrato in un bordello e aveva chiesto di Margaret, una prostituta con una mano bionica che accettava pagamenti in natura. Gli fu detto che era in camera con un cliente. Salì le scale, entrò nella stanza, afferrò il tizio nudo che stava sul letto con lei e lo sbatté in corridoio, poi richiuse la porta a chiave alle sue spalle. Non andava da lei in cerca di prestazioni sessuali, ma per qualcosa di molto più costoso. L’aveva conosciuta tre anni prima. Lei aveva appena compiuto un furto e aveva la polizia alle calcagna: se non l’avesse guidata fra i vicoli labirintici del quartiere abbandonato, l’avrebbero arrestata e condannata. Aiutandola nella fuga non le aveva soltanto garantito la libertà, ma le aveva anche salvato la vita, per questo Margaret si considerava sua debitrice. Si arrabbiò comunque quando Shulik irruppe in camera buttando fuori il suo cliente.
«Mi doveva ancora pagare!», urlò alzandosi dal letto e indossando la camicia da notte che aveva abbandonato a terra su un tappeto sgualcito.
«Non farne un dramma, ti pagherà il doppio domani», rispose lui sorridendo maliziosamente.
Lei storse il naso. «Che cosa vuoi da me, Elar?»
«Chi è Elar? Non conosco nessuno con quel nome.»
«Ah già, Elar era un nome troppo per bene per un criminale. Shulik trasmette più terrore! Guardami, sto tremando!»
Lui si avvicinò e, con fare aggressivo, la afferrò per le spalle e la costrinse a sedersi sul letto. «Ora che ti sei vendicata per aver fatto fuggire quell’imbecille, stammi a sentire!»
«Sono tutt’orecchi», disse con un improvviso fare civettuolo. L’altro si scostò e rimase in silenzio; Margaret sapeva perfettamente il motivo della sua presenza lì, ma desiderava sentirselo dire da lui.
Accavallò le gambe e lo guardò intensamente, quindi decise di passare alle provocazioni.
«Gira voce che tu abbia preso in simpatia un'agente della E-Esse
1
«Cazzate.»
«Allora perché l’hai risparmiata per ben due volte?»
«Non c’era motivo di ammazzarla.»
La donna piegò leggermente la testa verso una spalla e socchiuse gli occhi incorniciati da lunghe ciglia violacee. «Da quando Shulik ha bisogno di un motivo per ammazzare la gente?»
«Volevo solo divertimi un po’. Quando non mi divertirà più, ammazzerò anche lei.»
L’altra sbuffò. «Non vorrei che fosse proprio quella ragazza il motivo per cui questo mese sei passato da me così spesso…»
«Se potessi tornare indietro ti lascerei in mano agli sbirri», sbottò lui.
Margaret sorrise. Provava un certo piacere nel provocare Shulik, ma decise di non insistere, non ci teneva a risvegliare la sua collera, ed era chiaro che anche questa volta non le avrebbe dato alcuna spiegazione. Sospirò. «Ti darò ciò che vuoi, ma non voglio più vedere la tua faccia qui dentro per bel po'!» Si alzò e senza indugio lo baciò sulle labbra. Fingendo di provare una passione travolgente, insinuò le dita fra i suoi capelli neri e li scompigliò. Margaret sapeva svolgere il suo lavoro divinamente, ma in quel bacio mancava il sapore della verità e Shulik se ne tornò a nel suo rifugio più tormentato di prima.
Nel tardo pomeriggio tentò di fabbricare un ordigno esplosivo, deciso a farlo saltare l’indomani in qualche posto affollato per inaugurare così il ritorno alla sua abituale attività. Gli mancava solo un circuito secondario per la regolazione del timer che andò a cercare in una cassetta degli attrezzi. Quando non lo trovò, s'infuriò e gettò tutto il contenuto della cassetta sul pavimento. Fu allora che la sentì: una scossa elettrica che sembrava partire dalla nuca gli offuscò la vista e gli fece perdere l’equilibrio. Dopo qualche passo incerto, cadde seduto sul materasso mezzo disfatto che usava come giaciglio ed ebbe una visione: si trovava sul palco di una lussuosa sala mai vista prima, c’era anche Dylia addormentata su un lettino, ma quando provò a chiamarla la voce gli restò bloccata in gola. Sollevata la testa, avvertì lo sguardo di centinaia di persone addosso, lo guardavano con un’odiosa espressione che lo irritò in modo indicibile. Nel momento in cui tornò in sé, si ritrovò in piedi davanti a una delle finestre del suo covo rivolte verso est, il sole pomeridiano specchiava la sua immagine sconvolta sul vetro. Probabilmente fu quell'episodio che gli diede l'impulso di compiere l’atto più sconsiderato che potesse venire in mente ad un criminale del suo calibro.


Erano le due di notte passate e Oliwar continuava a ticchettare sui tasti del portatile con le sue lunghe dita sintetiche. Stava seduto alla scrivania della camera da letto di Dylia, mentre lei dormiva profondamente, avvolta nelle morbide lenzuola sognando di intraprendere un viaggio. Più che un viaggio di piacere, però, sembrava una fuga. Fuggiva in un altro sistema planetario inseguita da una squadra di navette da ricognizione. Nel momento in cui spararono alla sua navicella si svegliò di soprassalto ansimante.
Oliwar abbandonò momentaneamente il suo compito e si girò verso la ragazza: «Va tutto bene?»
La domanda non richiedeva una risposta, poiché il robot possedeva un cip di rilevamento dei valori vitali e, nel momento stesso in cui aveva parlato, aveva anche analizzato i dati necessari per arrivare da sé a una conclusione. La domanda era un optional richiesto dalle convenzioni sociali. La ragazza lo sapeva, ma rispose lo stesso: «Ho avuto un incubo.»
«Posso prepararti qualcosa di caldo da bere?»
«No, grazie Oliwar, non serve.»
Ricordò allora il compito che aveva affidato al robot prima di coricarsi. «La ricerca ha dato qualche frutto?»
«Solo molte analogie che richiedono un’ulteriore valutazione.»
«Previsioni sulla tempistica?», chiese lei. Ogni tanto, quando parlava con Oliwar si sorprendeva ad usare un linguaggio standardizzato, come se subisse l’influenza del suo interlocutore.
«Tre ore. Prima che la sveglia suoni avrò trovato qualcosa di concreto.»
«Bene.» Richiuse gli occhi e cercò di rilassarsi assaporando la morbidezza del cuscino. L’idea di fornire a Oliwar la descrizione del posto misterioso in cui si era vista catapultata durante l’esperimento di trasposizione nella Biblioteca Mondiale; le era venuta sulla navetta planetaria di ritorno. Si era messa in testa che Shulik vivesse in quel luogo. Il suo era un programma folle e impulsivo: entrare nella tana di un criminale armata di un solo taser voleva dire giocare sconsideratamente con il fuoco. Non aveva ancora deciso in che modo agire nel caso in cui l’avesse veramente trovato lì. Pensò che il giorno seguente, in ufficio, avrebbe avuto tutto il tempo per formulare con calma un piano e si riaddormentò.

La mattina, come previsto, Oliwar aveva trovato un luogo che presentava un’alta corrispondenza di particolari con quelli forniti da Dylia. Mentre faceva colazione, la ragazza ascoltò quello che aveva scoperto.
«Si tratta di un laboratorio ormai in disuso da anni. È collocato nella zona più decadente dei sobborghi del quadrante est della città.»
«Che ne dici, ci andiamo a fare un giro quando termino il turno di lavoro?»
«Sconsiglio vivamente di recarsi da quelle parti di giorno e tanto meno la sera. Non è un posto sicuro», rispose lui
con il solito tono inespressivo di sempre.
Dylia bevve l’ultimo sorso di cappuccino, poi si alzò e raggiunse Oliwar che era rimasto in piedi. Passò delicatamente una mano sulla pelle sintetica del suo viso in un gesto simile ad una carezza. Il volto del robot non tradì alcuna emozione.
«Certe volte sembra che tu ti stia preoccupando per me», disse la ragazza.
«È così. Mi preoccupo sempre per te, Dylia.»
Lei sorrise. La sua non si poteva dire preoccupazione, ma l’effetto di una complessa interazione fra i circuiti e il cip emotivo installato. «È deciso! Che ti piaccia o no, stasera si va incontro all’avventura!», disse.
Oliwar non cercò di farle cambiare idea, il che la lasciò per un attimo sorpresa.
Prima di uscire di casa ricevette un messaggio dalla E-Security in cui le si intimava di raggiungere il più velocemente possibile un centro commerciale non lontano dalla zona industriale della città. I sistemi di sicurezza dell’edificio in questione avevano captato un’anomalia che era stata interpretata con la presenza di un ordigno esplosivo. Appena letto tutto ciò, Dylia non poté fare a meno di pensare a Shulik. Indossò il soprabito e si precipitò in strada in cerca di un taxi.


Dylia scese dal taxi e osservò per qualche istante l’impotente struttura del centro commerciale che le si stagliava davanti. Era un edificio a forma di prisma più largo che alto, che come un iceberg nascondeva buona parte della sua struttura nel sottosuolo. Innumerevoli negozi erano stati posizionati nei livelli sotterranei in rispetto degli accordi mondiali per lo sviluppo sostenibile.
C’era molta gente che entrava e usciva sui nastri mobili. Dylia si affrettò a entrare tormentata dal pensiero che un ordigno fatto esplodere nel livello più basso avrebbe provocato una catastrofe immane. Fu sorpresa di non trovare nessuno dei suoi colleghi nella hall e solo allora rifletté anche sul fatto che non c’erano volanti della E-Security nel perimetro esterno. Compose istintivamente il numero del dipartimento e, quando sentì lo scatto della risposta, iniziò a parlare senza nemmeno presentarsi. «Sono alle coordinate che mi avete fornito, ma non c’è nessuno. Attendo maggiori istruzioni.»
Il suo interlocutore esitò qualche istante, il tempo di controllare a quale agente appartenesse il numero della chiamata. «Noi non ti abbiamo inviato nessun ordine. Dove ti trovi di preciso?»
«Ci dev’essere un errore. Se non mi avete mandato voi l’ordine, chi l’ha fatto?»
Non seppe mai la risposta del suo collega, perché qualcuno le strappò bruscamente il ricevitore dalle mani e lo scaraventò a terra, rompendolo.
«Tu!» Fece per prendere il taser dal fodero, ma Shulik gli immobilizzò le mani prima che potesse iniziare con le solite noiose intimidazioni. Vestito come una persona comune, poteva quasi passare per uno perbene, se una scintilla nel suo sguardo non avesse continuato a tradire quella che era sua vera natura. Tra la folla di persone presenti nel luogo, nessuno notò che Dylia era in difficoltà; certo le sarebbe bastato urlare per richiamare l’attenzione di una guardia, ma non lo fece, voleva prima capire il motivo di quell’incontro.
«Sta' tranquilla, non farò saltare il centro commerciale, devo solo provare una cosa», iniziò lui.
«Come diavolo facevi a sapere dove trovarmi?», cercò di liberarsi dalla presa senza successo.
«Ti consideravo più sveglia», ridacchiò lui, «il messaggio te l’ho inviato io.»
«Non è possibile, il mittente era la E-Security, non puoi aver hackerato il mio computer senza il tuo DSZ.»
L’altro non rispose. Allungò adagio una mano scostando il soprabito di lei in quello che sembrava un maldestro tentativo di abbraccio tra timidi amanti, ma che in realtà aveva come unico scopo quello di disarmarla: con estrema tranquillità le prese il taser e se lo infilò nella cintura. Poi trascinò la ragazza verso gli ascensori privati del personale. Dopo che aver inserito un codice nel display le porte si aprirono. Spinse dentro Dylia prima di infilarsi a sua volta nella cabina, poi cliccò per due volte il pulsante del piano più basso. Le porte si richiusero e i due rimasero a fissarsi uno di fronte all’altra per una manciata di secondi, mentre l'ascensore scendeva di diversi metri nel sottosuolo. Fu lui a rompere il silenzio.
«Prima che inventassero i DSZ, gli hacker usavano un semplice terminale per penetrare i più avanzati sistemi di sicurezza.»
«Il mio robot avrebbe percepito l’intrusione e mi avrebbe avvertita.»
«No, se anche lui fosse stato hackerato», ammiccò con spavalderia.
«Non mi freghi. I circuiti di Oliwar sono troppo complessi per essere hackerati!»
L’altro sorrise. «Sei così mielosa quando lo inviti a dormire accanto a te.»
Scioccata dalla rivelazione, Dylia alzò una mano decisa a colpirlo in faccia, ma lui la bloccò. «Sono venuto in pace, non costringermi ad usare la violenza.»
«Sei un bastardo!», urlò. In quel momento le porte dell’ascensore si riaprirono in quello che doveva essere il magazzino delle scorte: un grande spazio pieno scaffali ricolmi di merce e scatoloni accatastati ovunque. Era così poco illuminato che non si riusciva a vedere la parete di fondo. Il display dell’ascensore segnava -35.
«Io un bastardo? Sì, può essere», ghignò, «ma non è colpa mia. Vieni!»
La trascinò fra gli scaffali carichi di materiale di ogni genere. Verso il centro erano posizionati alcuni divani ricoperti da uno strato di cellofan; la costrinse bruscamente a sedersi su uno di essi, mentre lui rimase in piedi davanti di lei a guardala con aria di superiorità.
A quella profondità, circondati da metri di cemento armato nessun apparecchio riceveva il segnale. Dylia avrebbe dovuto sentirsi in trappola, oppressa, o quanto meno spaventata, invece l’unica cosa che provava era una certa irritazione provocata dalla scoperta che un pazzo criminale la spiava in camera da letto attraverso gli occhi del suo robot.
«Non ci vorrà molto prima che i tuoi colleghi si insospettiscano per la tua assenza, quindi sarò breve», iniziò lui. «Qualcosa è cambiato nella mia vita dopo il nostro primo incontro a Damon.»
Il modo in cui pronunciò quella frase lasciò Dylia senza parole. In altre circostanze, quello poteva sembrare il preambolo per una bella dichiarazione d’amore. Rimase ancora più sorpresa quando si chinò verso di lei in modo che i loro visi fossero alla stessa altezza: quella vicinanza inaspettata la fece divampare.
«Una volta provavo piacere nel vedere la gente soffrire, mi sentivo bene vedendo gente di ogni età morire tra le fiamme. Ora il solo pensiero mi provoca un senso di rifiuto. Eppure avverto ancora il desiderio di vendicarmi per tutto il male ricevuto.»
Dylia socchiuse gli occhi respirando l’odore di Shulik: sapeva di vita nei sobborghi, di avventura, di tecnologia rubata. Stava per dirgli che anche lei aveva percepito un cambiamento, ma lui le mise un dito sulle labbra per impedirle di parlare. «Per colpa tua non so più cosa sono.»
Trovava così bello il modo in cui si stava confidando con lei che approfittò dell’occasione, gli prese la mano che gli aveva posato sulle labbra e la scostò leggermente. «Che cosa ti hanno fatto per farti diventare così?», chiese in un sussurro.
«Mi hanno portato via tutto! Avevo una famiglia, dei genitori che amavo! Hanno distrutto la mia vita!» I suoi occhi si accesero di collera al ricordo. Dylia strinse più forte la sua mano e i loro sguardi si incrociarono. Avrebbe voluto dirgli che sapeva quello che provava, perché l’aveva provato anche lei quel giorno alla Biblioteca Mondiale. Si sporse di qualche millimetro in avanti in cerca di un contatto con le sue labbra, ma Shulik si scostò freddamente. «Sono quelli come te che mi hanno rovinato la vita!» Si alzò e dandole le spalle si allontanò di qualche passo. «Vattene!», disse.
Dylia rimase frastornata. Non poteva aver architettato tutto questo per lasciare il discorso a metà. Il suo atteggiamento sembrava dettato da un improvviso timore, tra l'altro del tutto giustificato dal fatto che lei era un'impiegata nel campo della giustizia e lui un assassino.
«Che cosa pensi di risolvere in questo modo?!»
«Sparisci, prima di ritrovarti con del cellofan stretto attorno alla gola!», urlò, girandosi verso di lei con un volto sconvolto. In realtà non lo avrebbe mai fatto. Non aveva mai ucciso a mani nude una persona: il contatto diretto con la propria vittima, per qualche ragione, lo aveva sempre ripugnato.
Dylia si alzò indispettita e rispose a tono: «Me ne andrò quando mi avrai ridato il taser!»
«Te lo ridarò quando riavrò il mio DSZ.»
«Benissimo!», gridò lei stringendo i pugni pervasa da un incontrollabile desiderio di prendere a schiaffi quel bel viso diabolico. Rimase qualche istante così, poi girò sui tacchi e se ne tornò verso l'ascensore.

Mentre percorreva il nastro mobile che portava all’esterno del centro commerciale, ebbe la sensazione che tra la folla qualcuno la seguisse, ma era troppo infuriata per lasciare spazio nella sua mente ad ulteriori preoccupazioni paranoiche. Il rapporto tra lei e Shulik si stava complicando a dismisura. La situazione era sul punto di sfuggirle dalle mani: oltre ad essere infuriata con lui, era infuriata anche con se stessa per essersi lasciata trasportare in quel modo.
Tornò a casa e, senza dire una parola, prelevò Oliwar e lo portò al centro robotico in cui l’aveva comprato per una scansione mirata del sistema. La sua decisione di marinare il turno di lavoro senza avvisare il capo, fu un primo chiaro segnale di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco.




Note autore:
1- E-Esse: abbreviazione per "E-Security" usata soprattutto nei bassifondi in senso dispregiativo.

Mi scuso per il ritardo nella pubblicazione, il fatto è che sto scrivendo per diversi contest e non mi va comunque di mettere in secondo piano questo racconto (a cui tengo parecchio) inserendo capitoli pieni di strafalcioni perché non riletti. Sicuramente qualcosa mi sarà sfuggito come al solito: se trovate errori o parti stonate, aprite il "prendi appunti" in alto, segnatevi tutto quello che non vi torna e poi inviatemelo.
Spero che in generale il capitolo sia stato di vostro gradimento. Alla prossima! ;)


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Capitolo 6
*** Tra leggenda e realtà ***


Incertezze



Cap.6 - Tra leggenda e realtà


Si diceva che la culla dell’umanità fosse la Terra, terzo corpo celeste dal Sole, in un sistema planetario situato all’altro capo della galassia. Si diceva che il suo asse di rotazione fosse inclinato e che quindi la temperatura della superficie variasse nel corso dell’anno. Si diceva anche che attorno a essa ruotasse un satellite naturale chiamato Luna, la cui forza d’attrazione provocava talvolta l’innalzamento dei mari, talvolta il prosciugamento parziale di alcune zone sommerse. Sembrava che la sua geosfera fosse una specie di incubatrice primordiale in cui soggiornavano quasi due milioni e mezzo di specie diverse di esseri viventi.
Al pianeta Terra erano dedicate intere sezioni degli archivi della Biblioteca Mondiale. La sua storia si studiava anche a scuola, ma rientrava nella letteratura epica e nella mitologia. Era considerato un paradiso inventato dai sognatori per cercare un po’ di sollievo dalle avversità del presente.
La storia più recente vedeva come protagonista Devodos, quinto corpo celeste dalla stella Yris, abbandonato quando quest'ultima divenne una supergigante rossa
1 rendendo l’atmosfera tossica, l’acqua acida e il terreno radioattivo.
La migrazione di massa su altri pianeti del sistema era cominciata un secolo addietro, ma nei decenni a seguire le navette con a bordo i sopravvissuti avevano continuato senza sosta a fare scalo. Il pianeta più ambito era Terratre, le cui condizioni climatiche erano le più favorevoli. Dalle vecchie astronavi simili a catorci che riuscivano ad atterrare nel nuovo mondo, sbarcavano famiglie distrutte dai volti impolverati, con abiti sporchi e sgualciti. Il più delle volte tra loro c’era qualcuno in gravi condizioni di salute che necessitava di urgenti cure. I sopravvissuti di Devodos portavano con sé fame e malattie infettive. Di fronte alle prime epidemie, il Governo Mondiale si vide costretto a prendere la drastica decisione di negare loro l’accesso chiudendo la frontiera spaziale. Da allora, le navette che cercavano di atterrare su Terratre senza permesso venivano abbattute.

All’epoca Dylia aveva sentito i suoi genitori parlare spesso della barbarie che si stava compiendo; per un po' avevano fatto parte della coalizione di attivisti che si recavano a protestare davanti le sedi governative locali. Lei aveva solo otto anni e non poteva contribuire alle proteste, ma capiva meglio di certi adulti la gravità della situazione: aveva degli zii confinati in una base spaziale in attesa di un visto che non sarebbe mai arrivato. L’idea di lasciare delle povere persone a morire di fame e malattie nello spazio la faceva inorridire. In un tema assegnatole a scuola, aveva scritto che da grande avrebbe salvato la gente, forse avrebbe fatto il medico o l’operatrice di pace. Dieci anni dopo, il suo desiderio di salvare la vita delle persone era evoluto in un forte senso di giustizia e protezione verso i più deboli. Sulla soglia dei diciott’anni venne alle mani con un compagno di classe perché infastidiva un ragazzo più timido e incapace di difendersi: entrambi, lei e l’aggressore, erano stati sospesi da scuola per una settimana. Quando i suoi genitori tornarono a casa dal colloquio con il preside non erano poi tanto arrabbiati. Suo padre le aveva fatto l'occhiolino e aveva concluso dicendo che il preside era un deficiente. La madre in un primo momento aveva protestato contro l’uso scurrile dell’espressione del marito, ma poi gli aveva dato ragione. La sera andarono a mangiare fuori per premiare il carattere forte e determinato della figlia e si divertirono un sacco. Quella stessa sera, con un velo inspiegabile di malinconia, Dylia aveva guardato i suoi abbracciarsi e dentro di sé aveva ringraziato una qualche entità a lei sconosciuta per averle concesso dei momenti così felici in presenza delle persone che amava.
Poco tempo dopo ci fu l’incidente alla stazione sotterranea del quorm2 che portò via a Dylia entrambi i genitori mentre tornavano dal lavoro. Per questioni economiche dovette abbandonare l’idea di iscriversi alla falcoltà di Medicina e optare per un concorso pubblico di vigilanza. Distrutta dal dolore per la perdita dei suoi cari, reagì chiudendo le porte ad ogni contatto umano che non fosse per scopi professionali. Fu in quel periodo che sviluppò l’abilità di dimenticare i nomi delle persone che incontrava: forse inconsciamente sperava che dimenticandoli non avrebbe sofferto nel caso in cui, per un motivo o per l’altro, se ne fossero andati. Era una specie di rudimentale autodifesa istintiva.
Il concorso pubblico di vigilanza andò bene e cinque anni dopo, all’età di ventitré anni, fece domanda per essere trasferita nel dipartimento d’assalto della E-Security. Sapeva che i requisiti d’accesso prevedevano due anni di addestramento in un campo militare, ma la cosa non la spaventava. Tagliò i capelli corti, si fasciò il seno e iniziò a vestirsi con abiti maschili sperando, così, che la mattina guardandosi allo specchio l’immagine riflessa non fosse più quella di una fragile ragazzina, ma quella di un giovane combattivo. Le lunghe ciglia che incorniciavano i suoi graziosi occhi verdi e i lineamenti dolci del viso continuavano tuttavia a tradirla, così finì per tornare al suo solito stile. Quell’anno altre undici donne si erano presentate al campo militare oltre a lei. Solo cinque riuscirono a resistere fino alla fine: lei era una di quelle.
A ventisei anni intraprese la sua prima missione: casco e corazza anti-proiettili addosso, seguì la sua squadra a nord della regione. Il posto era costellato di vecchie industrie estrattive abbandonate da ormai qualche decennio. Dopo che i rari materiali presenti nel sottosuolo erano stati esauriti, mantenere in piedi un’attività in quella zona risultava altamente improduttivo, perciò gli imprenditori avevano cercato ripiego in città. La periferia era diventata una specie città fantasma, infarcita di edifici fatiscenti che ospitavano il rumore sinistro del vento.
Dylia rimase colpita dal fatto che sulle mura diroccate, sfidando i raggi ustionanti del sole, riuscissero a crescere certi tipi di piante rampicanti. Si sentì quasi commossa nel vedere che la natura cercava di adattarsi alle condizioni più impervie, animata da una silenziosa ma potente volontà di vivere. La vita per Dylia era qualcosa di magico, un prodigio del cosmo; distruggerla sarebbe stato sintomo di grande ignoranza e grave mancanza di empatia. Qualche minuto più tardi si ritrovò a premere il grilletto della pistola contro una persona: un criminale antigovernativo che aveva creato parecchi disordini in città provocando morti e feriti, ma pur sempre una persona. Le mani le tremavano, eppure non era riuscita a tirarsi indietro, non era riuscita a urlare i suoi ideali e gettare via l’arma. Avrebbe ricordato per sempre l’espressione sgomenta rimasta impressa sullo sguardo di quell’uomo anche dopo avergli sparato. I suoi colleghi si complimentarono per la freddezza, il che la fece stare ancora più male. Si sentì una stupida: non era una giustiziera di morte ciò che voleva diventare. Comprese che non poteva rimanere un minuto in più in quella falange di violenza mascherata sotto il nome di giustizia. Se sua madre fosse stata ancora in vita, era certa che le avrebbe ripetuto la solita frase, quella che usava per incoraggiarla nei momenti peggiori: prima trovare la strada giusta bisogna compiere per forza degli errori.
Così, decisa a non buttare via tutti gli anni di sacrifici che aveva compiuto per arrivare fin lì, Dylia fece domanda per entrare a far parte del neonato ramo operativo della
E-Security, evolutosi grazie all’ausilio della scienza: il dipartimento di trasposizione. Con il nuovo distintivo le consegnarono anche un taser e, impugnandolo, capì che stava finalmente imboccando il sentiero che l'avrebbe condotta al suo destino.
In quel periodo si sentiva più sola che mai. In centro, passando davanti a un negozio specializzato in robotica, notò un nuovo tipo di automa esposto in vetrina. Rimase colpita dall’impressionante somiglianza a un essere umano in carne ed ossa e provò subito simpatia nei suoi confronti. Spese lo stipendio di tre mesi di lavoro per comprarlo e, ancor prima dell’attivazione, gli aveva già trovato un nome: Oliwar. Poiché, secondo la Legge, i robot umanoidi dovevano essere annualmente coperti da un'assicurazione, Dylia finì per vedere la sua navetta privata in modo da stare dentro alle spese mensili. Per Oliwar, quindi, iniziò a usare il taxi per gli spostamenti regionali e le navette planetarie per i viaggi più lunghi.
Ora Dylia, a distanza di qualche anno, se ne stava di nuovo in quello stesso negozio, a braccia conserte davanti all’operatore che stava terminando di analizzare i circuiti del robot.
«È tutto a posto», disse l’uomo ricoprendo il dorso dell'automa con la placca che aveva staccato per eseguire i controlli. Oliwar riaprì gli occhi e, facendo leva con le braccia sul lettino, si rialzò.
«Quanto le devo?», chiese Dylia.
«Niente, si figuri. È la prima volta che mi portano a riparare un robot così in forma. C’era un solo malware nel programma decisionale, ma l’ho eliminato e sembra che non abbia intaccato gli altri circuiti interni. Chissà poi come c’è finito dentro un malware del genere.»
«Mi creda, è meglio che non lo sappia.»
L’altro rise, forse pensando che Dylia stesse cercando di impressionarlo. La ragazza lo lasciò fantasticare e si rivolse al robot: «Come va, Oliwar?»
«Inizializzazione completata. Riavvio cip istallati completo. Va alla grande, Dylia.»
«Perfetto. Allora, grazie mille!», disse. L’operatore la salutò con un cenno del capo.
Uscendo dal negozio Dylia si scontrò con una persona che stava entrando: era Saati, il ragazzo che aveva conosciuto qualche giorno prima in mensa. Trovandosi improvvisamente con il viso schiacciato contro il suo petto, per poco non perse l'equilibrio. Oliwar si preoccupò subito per la salute di entrambi, strappando a Saati un sorriso divertito. Dylia evitò di chiamarlo per nome per il semplice fatto lo aveva dimenticato e, dopo i convenevoli, cercò di rimediare scusandosi per il modo in cui l’aveva cacciato via l’ultima volta.
«Non ti perdono», disse lui, «a meno che tu non venga a bere qualcosa con me. C’è un buon locale a due passi da qui.»
Fu così che presero posto in un tavolo esterno del bar, sotto una capannina di vetro colorato, studiato apposta per bloccare le radiazioni solari dannose.
«Eri venuto a comprare qualcosa al negozio di robotica?», chiese lei rivolta al ragazzo.
«A dire il vero no. Ti avevo vista entrare e così dopo un po’ ho deciso di seguirti, ma ho scelto il momento sbagliato.» Rise e quel suo sorriso fece tornare a galla i rimorsi.
«Scusa per l’altro giorno. Di solito non aggredisco le persone in quel modo, dev’essere stato lo stress per il lavoro.»
«Smettila di scusarti, ok? Piuttosto hai risolto quel problema?»
«Quale problema?»
«Un problema che inizia con “S” e finire con “K”.»
Il volto di Dylia s’incupì. «Per essere un comune cittadino sei parecchio informato sugli identikit dei ricercati.»
«Ti avevo già accennato che sono un archivista. Agli archivisti passano tra le mani informazioni molto interessanti. Un giorno mi sono ritrovato a catalogare il caso di quel Shulik. È un caso triste, uno dei più tristi che abbia mai letto. Il Governo Mondiale cerca di nasconderle, certe cose. Prima di diventare archivista ho dovuto fare voto di silenzio su tutto ciò che avrei appreso durante il mio lavoro.»
Dylia si sporse sul tavolino. «Che cosa hai letto su di lui? Dimmelo.»
«Mi spiace, non posso infrangere il giuramento.»
In quel momento arrivò il cameriere e Saati ordinò un caffè shakerato alle mandorle. Dylia non aveva voglia di nulla, ma per mandare via il cameriere senza polemiche ordinò lo stesso di Saati. Poi frugò nella tasca interna del trench, ne tirò fuori un distintivo argentato e lo mostrò al ragazzo.
«Te lo chiedo in nome della legge: che cosa hai letto su Shulik? Potrebbe essere utile ai fini delle indagini che sto conducendo.»
L’altro sospirò. Davanti al distintivo di un agente della E-Security il suo voto di silenzio non era più valido. Si diede una rapida occhiata attorno, come per assicurarsi che non ci fossero orecchie indiscrete in ascolto e poi cominciò.
«Si chiama Elar. Shulik è il cognome da parte di madre. Se non ricordo male, giunse su Terratre con la famiglia quando aveva nove anni. Come sai, vent’anni fa il governo aveva già deciso di mettere in atto la politica di chiusura nei confronti dei superstiti di Devodos. La navetta della famiglia di Shulik fu intercettata durante la discesa, riuscirono nonostante tutto a entrare nell’atmosfera sganciando la navetta di salvataggio. Una volta toccato il suolo di Terratre le autorità non possono più fare nulla, se non curare eventuali malati e feriti. Elar Shulik fu trasportato d’urgenza in una struttura specializzata per la decontaminazione radioattiva. Il processo per la decontaminazione all’epoca non era ancora stato perfezionato: per un ragazzino di quell'età fu una sofferenza atroce e, considerando che poco dopo vide i suoi genitori morire… beh, non mi stupisce che sia diventato un assassino.»
Il cameriere tornò e appoggiò sul tavolo le ordinazioni. Saati bevve subito un sorso dal suo bicchiere. Dylia rimase immobile, lo sguardo perso oltre il traffico della strada.
«Se ti interessano i dettagli, dovresti tornare alla Biblioteca Mondiale. La mia testa non è un computer», concluse il ragazzo.
Dylia mise via il distintivo e rimase ancora un po’ in silenzio assorta nei suoi pensieri. Ricordò l'ultimo incontro ravvicinato con Shulik nei piani interrati del grande magazzino e le parve di sentire ancora il calore della mano che gli aveva afferrato. Ora che aveva appreso la sua storia, la rabbia che aveva provato nel scoprire che lui la spiava attraverso gli occhi di Oliwar si stava affievolendo. Se guardarla dormire con il suo robot era servito a recare sollievo all'anima in pena di quell'uomo, non le dispiaceva poi tanto che la sua privacy fosse stata violata. Stava forse impazzendo?
«Com’è successo?», chiese.
«Cosa?»
«I suoi genitori.»
«Ah, uno strano incidente... Nell'edificio in cui erano ospitati per le cure, esplose una camera iperbarica scatenando l'inferno. In confidenza, non sono così certo che sia stata una tragica fatalità: tutte le porte erano chiuse dall'esterno e protette da una password. Inoltre, casualmente, l'allarme antincendio non scattò e nessuno andò in loro soccorso.»
Dylia si alzò dal tavolo seguita a ruota dal Oliwar.
«Te ne vai di già?!», chiese Saati con un'espressione alquanto sorpresa.
«Se è per colpa di questa storia...»
«No, tranquillo. Mi sono ricordata di una cosa importante che ho da fare. Bevi anche il mio caffè se vuoi, tanto non l’ho toccato. Offro io.»
Tirò fuori la carta di credito e la passò sul display quadrato montato sul metallo del tavolino. Poi si allontanò lungo il marciapiede con passo spedito affiancata dal suo robot. Saati la osservò camminare per un po'. Quando fu abbastanza distante, prese il cellulare e selezionò un numero dalla rubrica salvato sotto il nome di “nonno cigar”.
«Sono io
», iniziò, «se i suoi sospetti sono fondati, in questo momento sta sicuramente andando da lui», disse. «Vi porterà dritti nella tana del lupo.»
La voce all’altro capo dell’apparecchio apparteneva a un uomo di una certa età, era rauca e rovinata dal fumo di numerosi sigari. «Che cosa le ha detto per convincerla?»
«Psicologia. Le ho solo raccontato la verità. L’amore e la compassione l’hanno spinta a fare il resto.»
L’altro mugugnò qualcosa d'incomprensibile, poi concluse: «Spero che lei si sbagli. Se così non fosse, perderei uno dei miei agenti migliori. Si prepari e raggiunga la mia squadra.»
La chiamata terminò così. Saati prese la tazzina abbandonata da Dylia e, lasciatosi scivolare sullo schienale della sedia, si concesse qualche altro minuto di relax prima di scendere nuovamente sul campo.





Note autore:
1- In astronomia si può dire che una supergigante rossa sia il secondo stadio in cui muta una stella con una massa dieci volte maggiore a quella del Sole, nel momento in cui tutto l'idrogeno all'interno del suo nucleo viene esaurito.
2- Il quorm è una specie di metrò futuristico ad alta velocità presente in quasi tutti i racconti fantascientifici che ho scritto (ma che al momento non ho ancora pubblicato).

Ed eccoci qua, alla fine del sesto capitolo, che ha svelato qualcosa in più sulla storia dei vari personaggi e del pianeta stesso in cui si stanno svolgendo gran parte degli eventi. Spero che non mi siano sfuggiti troppi errori e che la lettura sia stata di vostro gradimento. Fatemi sapere se ritenete che qualcosa debba essere migliorato. :)


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Capitolo 7
*** Finché c'è amore... ***


Incertezze



Cap.7 - Finché c'è amore...


Il tassista inchiodò di colpo nel mezzo dalla strada deserta, come se avesse visto all’ultimo momento un ostacolo da evitare. Davanti a loro, tuttavia, il cammino era libero; il manto stradale era dissestato e in alcuni punti si era avvallato seguendo le depressioni del terreno, ma niente impediva all'auto di proseguire compiendo un'elementare manovra.
«Non posso proseguire oltre», disse l'uomo al volante.
«Non può? o non vuole?», chiese Dylia aspramente.

«Non ci tengo a farmi tagliare la gola da una banda di criminali.»
«Non sarebbe una gran perdita», borbottò la ragazza. Quell’irascibilità un tempo estranea alla sua persona, ultimamente riaffiorava sempre più spesso.
Dylia incrociò lo sguardo corrucciato del tassista attraverso lo specchietto retrovisore e gli sorrise maliziosamente. Fece scorrere la carta di credito sullo schermo dietro la testiera del sedile anteriore, poi aprì la portiera e scese seguita da Oliwar.
L’auto fece inversione e tornò verso la città, abbandonandoli in un paesaggio brullo, silenzioso e costellato di rovine.
«Mancano appena due chilometri», intervenne Oliwar con il solito tono privo d'emozione. «Possiamo farli a piedi.»
«Direi che non ci resta altra soluzione. Il problema sarà tornare indietro. Se dovessi stancarmi troppo mi porterai in braccio, vero?»
«Certamente, Dylia.»

«Prima o poi dovrò installarti un cip per l’ironia», concluse la ragazza.


Proseguendo il cammino verso la loro meta, passarono davanti a edifici fatiscenti e mucchi di macerie che un tempo dovevano essere abitazioni e negozi.
Ad ogni angolo della strada dominava l’impressione che occhi sfuggenti spiassero i loro movimenti. I rumori sinistri che si udivano attraverso spaventose crepe sui muri e fenditure deformate di finestre, potevano essere causati semplicemente dal vento o dalla più rara presenza di un animale selvatico. Dylia, tuttavia, camminava tenendo un braccio infilato sotto al trench, le dita vicino alla fondina agganciata alla cintura. Naturalmente era solo un bluff, visto che il suo taser era ancora in mano a Shulik, ma un eventuale assalitore che non era a conoscenza di questo dettaglio, ci avrebbe pensato due volte prima di tentare uno scontro diretto.
Quando gli edifici cominciarono a farsi più sporadici Oliwar, seguendo il segnale del suo GPS interno, deviò verso la campagna. Non cresceva quasi nulla su quei terreni, se non qualche isolato ciuffo d’erba rinsecchito. Sembrava incredibile che delle persone si fossero adattate a vivere in mezzo a quel deserto.
Un boschetto d’alberi fossilizzati, piantati decenni prima durante un tentativo di bonifica, impediva di vedere l’orizzonte verso cui il robot si stava dirigendo.

«Sei certo che sia la direzione giusta?», chiese la ragazza.
«Ne sono certo, Dylia. L’unico margine di errore potrebbe essere causato dalla taratura della mia bussola.»
«La tua bussola?»
«Sì. Tuttavia stimo che, per una percentuale pari al 99,7%, il tecnico che ha eseguito l’ultimo controllo su di me se ne sarebbe accorto subito. Di conseguenza c’è solo uno 0,3% di possibilità che la bussola mi stia tradendo.»
«Questo mi rassicura moltissimo», disse Dylia, riparandosi gli occhi dal sole con una mano sulla fronte e cercando di guardare oltre quell'ammasso di alberi pietrificati verso cui si stavano avvicinando sempre più.
Dall’altra parte dei tronchi, anneriti e duri come la roccia, si nascondeva una struttura con il tetto ricurvo e le pareti grigie e ammuffite.
«Il posto è questo», disse Oliwar.


Il pavimento in cemento dell’hangar era umido. Il perenne clima autunnale, verso sera, creava uno strato di vapore condensato sui muri scrostati e imbrattati di strani disegni. Shulik attraversò a piedi scalzi il suo rifugio dalla branda fino all’angolo opposto, in cui aveva nascosto sotto a un telo la sua personale navicella: quella che aveva rubato nel suo primo furto con hacheraggio. Con un gesto secco, strappò via la copertura rivelando una carrozzeria in metallo scintillante. Da un po’ meditava sul fatto che sarebbe stato meglio andarsene da lì, per cercare un nuovo posto in cui rifugiarsi. Da quando era entrato in confidenza con quella sbirra, la sua vita si era notevolmente complicata. L’ultima cosa che desiderava era farsi arrestare, anche perché se avessero voluto punirlo per tutti i reati di cui si era macchiato, avrebbero dovuto ucciderlo più di una volta. Sorrise nervosamente a quel macabro pensiero.
Spingendo un pulsante sulla parete, attivò un complicato meccanismo di funi e pulegge che sollevò a qualche metro da terra la navicella. In quel modo i due rotori principali del mezzo risultavano esposti; avvicinò e aprì una scala libretto e, dopo essersi arrampicato fino in cima, poté controllare i rotori e apportare le ultime modifiche. Sì, sarebbe partito verso nord. Anche là il clima non era dei migliori, ogni tanto nevicava, ed era una neve chimica di colore grigio quella che ricopriva le strade e i palazzi delle nuvole. Oh, sarebbe stato meraviglioso far saltare uno di quei palazzi. Erano stati costruiti prima della legge che imponeva un’altezza massima predefinita per tutti gli immobili. I palazzi delle nuvole sembravano lunghe dita che fuoriuscivano dal terreno in cerca dell'infinito. Piazzando un ordigno alla loro base, sarebbero venuti giù come castelli di carte.
I suoi pensieri furono bruscamente interrotti dal rumore di un allarme proveniente da computer. Si precipitò a controllare e notò che si trattava di un movimento anomalo registrato da una delle telecamere disposte nel perimetro esterno.
Due esili figure, provenienti dai resti della zona bonificata, erano in avvicinamento verso il suo rifugio. Zoomò e li riconobbe: Dylia e il suo robot Oliwar camminavano con circospezione facendosi strada tra le sterpaglie e i relitti di vecchie auto arrugginite. Shulik disattivò l’allarme e rimase per qualche istante a osservare il monitor con espressione accigliata. Aveva appena qualche minuto per decidere se andarsene o aspettare.


«Ferma! Non fare un passo in più!»

Dylia aveva appena varcato la soglia del portone dell'hangar, quando sentì la voce di Shulik. Provò subito un certo sollievo: non aveva ancora abbandonato il rifugio. Questa era una buona occasione per trattare, però lui le aveva appena dato un ordine e questo la disturbava.
«Perché? hai per caso disseminato il pavimento di trappole?», chiese con incuranza.
«Ti consiglio di girare al largo da quel punto.»
La ragazza abbassò la testa. Il pavimento era in cemento, totalmente privo di piastrelle, ma davanti a sé c’era una porzione quadrata che presentava una sfumatura più chiara. Una botola, forse? O un meccanismo di morte? Si allontanò da lì e individuò Shulik, arrampicato tra le impalcature che sorreggevano una vecchia navicella che sembrava essere uscita da un museo.
«Non mi aspettavo di trovarti ancora qui. Sapevi che stavo arrivando, vero?»
«Mi piace guardarti attraverso gli occhi del tuo uomo di latta mentre dormi. Questo non vuol dire che abbia controllato tutte le ricerche che gli hai affidato.»
«Non lo vuoi ammettere», disse Dylia con tono malizioso.
Shulik saltò giù con agilità dalle impalcature e le si avvicinò: dal suo volto traspariva una certa irritazione. La ragazza non gli lasciò il tempo di parlare.
«Ti ho riportato il DSZ
. Prendi!»
Non lo aveva mai tolto dalla tasca del trench da quella sera al parco. Glielo lanciò e lui lo afferrò al volo. Aveva il viso sporco di olio per motori, il che lo rendeva ancora più in sintonia con il ruolo che aveva deciso di impersonare: un trasandato criminale sull’orlo della disperazione.

«Cosa ti fa credere che ti restituirò il taser?»
«I fuorilegge come te spesso si aggrappano all’onore.»
«Questo discorso non vale per me. Se rivuoi la tua arma, cercatela.» Prima di voltarsi per tornare al lavoro, gettò distrattamente lo sguardo verso un tavolo poco distante accostato alla parete, e a Dylia non servì altro per capire dove cercare. Ormai riusciva a captare ogni minimo segnale che lui le inviava.
Nel momento in cui tornò in possesso della sua arma, si sentì per un attimo come si era sentita quando l’avevano trasferita ufficialmente al dipartimento di trasposizione. Ripercorse mentalmente tutto ciò che aveva vissuto in quell’ultimo periodo, poi si girò verso Shulik che la stava tenendo d’occhio appoggiato alla scaletta.
«Ora sembriamo quasi due buoni amici. Io ho un'arma in mano, tu sei ricercato dalla polizia mondiale, eppure non ho nessuna intenzione di fermarti…»
«Lo so, sono troppo affascinante», scherzò lui.
Dylia rise. «Con quella faccia sporca di olio e con quegli abiti schifosi? Sembri il superstite di una qualche sciagura spaziale.»
«Se non ti piaccio, perché saresti venuta fin qui senza l’intenzione di arrestarmi? Solo per riportarmi il DZS?»
Touché.

Dylia non cercò nemmeno di trovare una giustificazione. Ormai era chiaro che entrambi erano attratti uno dall’altra, lo erano stati fino dalla prima volta, da quando si erano ritrovati faccia a faccia in quella camera d’albergo. Allora, oltre all’attrazione c’era anche paura e sospetto, ma ora no. Sembrava che le loro anime si fossero date appuntamento ogni notte in un luogo segreto e, all’insaputa dei loro corpi, avessero trovato un accordo pacifico per funzionare in modo complementare.
Dylia ripose l’arma nel fodero e si avvicinò a Shulik. Ebbe un attimo di esitazione, poi sollevò una mano e gli accarezzò piano il viso; percorse con delicatezza i quei lineamenti che trovava irresistibili, fece scorrere le sue dita dalla tempia al mento, e lui la lasciò fare. Come un cieco che cerca di vedere con il tatto il volto dell’amato, Dylia, con quel gesto, cercava una conferma: voleva saggiare fisicamente realtà di ciò che stava vivendo.
Forse sarebbero andati oltre, se l’allarme del computer non avesse ricominciato a suonare insistentemente, segnalando l’avvicinamento di qualche altro intruso. Shulik corse a controllare, seguito dallo sguardo della ragazza.
«Sbirri dei servizi segreti! Avevi architettato tutto fin dall’inizio!»
«Cosa?! No, non mi è mai passata per la mente l’idea di tenderti una trappola! Mi hanno seguita senza che me ne accorgessi!»
Shulik scosse la testa con nervosismo.
«Guardami!» Dylia cercò di tirarlo a sé. «Che cosa vedi? Una bugiarda?»
Shulik serrò i denti, cercando di calmarsi. Gettò un’occhiata distratta alla donna che lo stava fissando con insistenza. «Vedo una stupida. Ti stai mettendo nei casini, vattene finché sei in tempo!»
«Sono già nei casini, quindi tanto vale che ti dia una mano a uscire di qui.»
L’unica possibilità di salvezza era la navetta attualmente in manutenzione. Shulik cercò di raggiungere la scaletta, ma in quello stesso momento tre uomini corazzati e con il volto coperto da un casco con visiera oscurata, sfondarono un lucernario sul soffitto e, scendendo agilmente con delle corde, gli si piazzarono davanti con le armi puntate. Altri tre entrarono per il portone principale, da dove era arrivata anche Dylia. Uno di loro era Saati.
La ragazza si ritrovò con mille pensieri contrastanti in testa, una tempesta di emozioni, alcune guidate dal cuore e altre dalla mente: non riusciva a separale e a distinguerle. Incrociò lo sguardo di Shulik e nei suoi occhi vide quelli di tutte le sue vittime, sentì il suo dolore quando da bambino fu sottoposto al processo di decontaminazione radioattiva, provò rabbia, affanno, sentì la solitudine di una vita vuota, colmata da relazioni instabili e malate, intrattenute con i delinquenti nei sobborghi più malfamati. Si portò le mani in testa e pregò che tutto ciò smettesse perché non lo avrebbe sopportato a lungo. Come faceva lui a resistere?
«Alza le mani e non muoverti!»

Uno degli uomini che erano scesi dal tetto si stava avvicinando con cautela a Shulik, pronto a fare fuoco in caso di una mossa avventata dell'altro. Shulik non sembrava intenzionato a ubbidire all’ordine, né minimamente toccato dalla pericolosità dell’arma con la lucina rossa del puntatore direzionata all'altezza del suo cuore.
«Fottuto bastardo, metti le mani sopra la testa o sparo!»
Senza quasi rendersene conto, Dylia si ritrovò tra il poliziotto e il criminale, la testa ancora dominata dalla confusione di emozioni di pocanzi.
Oliwar, che fino a quel momento era rimasto in disparte, alla vista della sua padrona in pericolo, intervenne con un tono pacato del tutto fuori luogo rispetto alla situazione.
«Percepisco un alto livello di stress. Ragazzi, vi prego, abbassate le armi e discutetene civilmente.»
«Allontanati lattina, ho ti faccio saltare il cervello!»
Oliwar non ascoltò l'agente che aveva parlato e si portò vicino a Dylia.
La ragazza s’infuriò. «Ve la prendete anche con un robot adesso? Complimenti! Non siete tanto meglio del criminale che volete arrestare! Bastardi!»
Oliwar continuò: «Non fa niente, Dylia. La priorità va agli esseri umani. Vi prego di abbassare le armi prima che qualcuno si faccia male.»
Mentre si svolgeva questa scena surreale, Shulik valutò varie possibilità di fuga. Attorno a lui c’erano sei agenti armati, tre dei quali erano ancora piazzati sulla soglia del portone, intenzionati a sbarrare ogni possibile via di fuga: come soluzione primaria avrebbe potuto fingere di prendere Dylia in ostaggio e salire nella navetta, ma disgraziatamente non aveva con sé nemmeno un taglierino per far sembrare la minaccia credibile. L’altra possibilità era far avanzare uno degli sbirri sopra il meccanismo segreto posto davanti l’entrata. Optò per quella soluzione e si rivolse ai tre vicino al portone principale.
«Non c’è bisogno di scaldarsi, sono disarmato. Arrestatemi pure…» Portò le braccia in avanti mostrando i polsi pronti a ricevere le manette; Saati e gli altri due avanzarono fino al punto in cui Shulik sperava. «… Sempre se ci riuscite», concluse, facendo un cenno d'intesa alla ragazza.
Un complicato meccanismo scattò sotto il peso degli uomini, attivando una leva che fece scorrere via metà del tetto, lasciando entrare i raggi accecanti del sole. Due delle travi portanti dell’edificio si accasciarono ai lati rendendo la struttura pericolante.
Nella confusione, Shulik cercò un varco per salire sulla navetta e Dylia lo seguì facendogli scudo mentre uno dei poliziotti sparava verso di loro. L’ultimo a salire sulla navetta fu Oliwar, poi il portello si richiuse e Shulik adoperò tutta la sua maestria per uscire dal tetto dalla struttura, mentre questa si accartocciava su se stessa.

«Poteva andare peggio, no?», disse. Non ricevendo risposta, distolse lo sguardo dai monitor di comando e cercò gli altri due nel retro. Dylia era seduta a terra con la schiena appoggiata a una parete e Oliwar era piegato su di lei.
«Che succede? come va laggiù?»
«Non bene», rispose il robot. «Ferita da arma da fuoco.»
Shulik imprecò. Inserì le coordinate per il nord, poi impostò il pilota automatico e si precipitò verso i due per valutare la gravità della situazione.
«Non è nulla», disse Dylia, ma il suo volto sofferente lasciava intendere l’opposto. Un proiettile l'aveva colpita alla spalla, fortunatamente lontano da organi vitali, tuttavia stava perdendo molto sangue. Oliwar, che tra i vari programmi, aveva installato anche quello per il primo soccorso, creò delle fasciature per tamponare la ferita, strappando strisce di stoffa dai suoi abiti.

«Quei figli di...»
«È colpa mia», bisbigliò la ragazza «mi sono messa in mezzo.» Con quella frase sembrava quasi voler giustificare il collega che le aveva sparato, il che lasciò Shulik interdetto.
Anche il robot era stato colpito; una macchia di liquido blu fosforescente si espandeva nel petto sopra la sua maglia.
«Ho fatto dei calcoli
sulla direzione del proiettile», disse rivolto a Shulik, «e posso affermare con certezza che Dylia ti ha salvato la vita.»
L'uomo non disse nulla ma, sopraffatto da un moto di rabbia, sferrò un pugno sul pavimento della navetta. Poi prese una mano della ragazza e la strinse a sé. Provava qualcosa di indecifrabile. Nessuno aveva mai rischiato la vita per lui. Dopo tutto quello che aveva fatto, non credeva di meritarsi quella fortuna, non credeva nemmeno che esistesse una persona pronta a sacrificare la propria vita per quella di un altro. Tutte le sue congetture stavano crollando, come un castello di sabbia le cui fondamenta sono divorate dalle placide onde dell'oceano.
Aveva dimenticato come ci si sentiva ad essere amati...
Adesso era certo di provare per Dylia qualcosa in più di una semplice attrazione fisica, ma un'emozione di una tale intensità non l'aveva mai sperimentata prima, quindi non sapeva come definirla. Poteva essere amore? Di qualunque cosa si trattasse, la sua mente non riusciva a pensare che ad un'unica cosa: non può finire così.


Note autore:
Se tutto va bene, questo dovrebbe essere il penultimo capitolo! Quasi non ci credo nemmeno io!
Sono un po' in ritardo con la pubblicazione, perché mi sono iscritta a qualche contest che mi sta portando via più tempo del previsto.
Che ve ne pare di questo capitolo? Le critiche costruttive sono sempre beneaccette.
So già che alla volta dell'ultimo capitolo sentirò la mancanza dei miei affezionati personaggi: non sopporto i finali! Mi consolo pensando che potrei sempre scrivere un sequel!
Alla prossima! :)


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Capitolo 8
*** L'edera lascia i segni (Epilogo) ***


Incertezze



Cap.8 - L'edera lascia i segni


Dylia dormiva da un tempo che non riusciva a quantificare; le sembrava di non essere mai stata sveglia, che il sonno fosse da sempre la sua normale condizione d’esistenza.
Quella fastidiosa luce che le stuzzicava le pupille insinuandosi fra le ciglia e il ronzio sommesso di una qualche apparecchiatura tecnologica sistemata al suo fianco, sembravano timidi tentativi dell’universo di ridestarla dal torpore. Ad un certo punto credette persino di udire la voce di un bimbo. “Svegliati!”,
diceva, ma lei era stanca e voleva solo riposare, neanche avesse lottato contro il mondo intero. Avrebbe continuato a dormire per chissà quanto se non le fosse apparso lui in sogno. Dylia, naturalmente, non aveva realizzato subito che era tutta un’illusione e aveva protratto le braccia verso quel bambino vivace con gli occhi furbi che le correva incontro.

«Che ci fai qui tutto solo? Come ti chiami?», aveva chiesto. Ma lui continuava a fissarla con quel visino innocente senza parlare, come se non avesse compreso le domande. Il suo aspetto, oltretutto, aveva qualcosa di familiare.
La ragazza provò a istigarlo. «Sono sicura che un nome ce l’hai. Vediamo, sarà forse…»
«Elar», rispose velocemente, prima che lei se ne uscisse con qualche ridicolo miscuglio di lettere.
Nel sentire quel nome il cuore di Dylia ebbe un sobbalzo.
«Devi aprire gli occhi», disse il bimbo. «Ti devi svegliare», le ordinò.
La ragazza sorrise e gli passò una mano tra i capelli neri scompigliandoglieli un po’.
«Puoi insegnami come si fa?», chiese.
«Sì… abbracciami.»

Dylia si inginocchiò ed Elar si tuffò verso di lei. Le sembrava incredibile che un bambino potesse avere tutta quella forza: la sua stretta le impediva quasi di respirare. Chiuse gli occhi e quando li riaprì si ritrovò stesa nel lettino della stanza d’un ospedale. Dalla finestra proveniva una luce accecante. A sinistra un macchinario piuttosto complesso registrava i suoi valori vitali emettendo un bip ritmato. Sul comodino, poco più in là, qualcuno aveva lasciato un videogiornale; si sporse per leggere i titoli in prima pagina, ma fu trattenuta da una manciata di fili attaccati al suo corpo. A quel punto, colta da un moto di nervosismo, si tolse l’ago della flebo e lo getto via, staccò anche le ventose dell’elettrocardiogramma e i tubetti per ossigeno che terminavano dentro le narici, così, finalmente riuscì ad alzarsi. Non c’erano notizie significative; il mondo sembrava non interessarsi alla sua avventura con Shulik. Un attimo dopo notò la data sull’angolo in alto e capì di aver dormito per ben tre giorni.
Nel momento in cui scese dal lettino entrò un’infermiera piuttosto trafelata, allarmata dal fatto che le apparecchiature per il monitoraggio degli impulsi vitali, dopo essere state staccate, avevano smesso di trasmettere.
«Non mi dica di rimettermi a letto, sto bene e posso camminare», esordì Dylia accennando qualche passo verso la donna. «Dov’è l’uomo che stava con me?»

L’infermiera rimase per qualche istante stranita, senza saper bene che cosa fare. «Ehm, non si agiti troppo, non le farà bene… vado a chiamare il primario», disse infine.
«No, io devo sapere! Dov’è la persona che stava con me? E mio robot?»
«Non c’era nessun robot con lei. Si calmi adesso.» Cercò di farla sedere nel lettino, ma Dylia non l'ascoltò e si precipitò fuori dalla stanza. Il corridoio terminava con una porta-finestra che dava su una terrazza. Spalancò l’uscio e si riversò all'esterno, ma si immobilizzò subito attanagliata da una morsa di freddo: nevicava e i fiocchi grigiastri le venivano spinti contro il viso dal vento gelido. Si strinse nelle spalle e, opponendo resistenza alle raffiche, si avvicinò alla ringhiera. Si trovava parecchio in alto: da lì si vedeva l’intera città e non era di certo l’ambiente arido e caldo da cui proveniva lei. Verso l’orizzonte, cinque palazzi disposti a semicerchio si innalzavano fino a sfiorare le nuvole. C’era solo un posto in cui era possibile trovare simili edifici: Mlad, la gigantesca megalopoli del nord.

«Ma è impazzita a stare qui fuori? Venga dentro prima di prendersi una polmonite!», disse la voce di un uomo. L’infermiera aveva chiamato i rinforzi e così era giunto il primario che l’aveva presa per le spalle e l’aveva riaccompagnata dentro. Nel suo camice leggero da paziente Dylia tremava come una foglia. Il freddo risvegliò il dolore della ferita alla spalla e sul suo volto comparve una malcelata smorfia di sofferenza. Fu ricondotta nella sua stanza e gli fu somministrato un antidolorifico.
Il giorno dopo, mentre ancora si crucciava sulla sorte dei suoi due uomini, Dylia ricevette una telefonata. Le portarono il ricevitore a letto dicendole che si trattava di qualcuno di piuttosto preoccupato per lei. Inutile dire che fu alquanto delusa nel sentire la voce roca del suo capo dipartimento.
«Come sta il mio miglior agente di trasposizione?»

«Male. Un imbecille dei servizi segreti mi ha sparato addosso. Come dovrei stare secondo lei?»
Si aspettava che l’altro le rinfacciasse il fatto di essersi messa in mezzo per difendere Shulik – perché sicuramente era stato avvisato di come erano andati i fatti - ma sorprendentemente l’altro non disse nulla al riguardo. La apostrofò, tuttavia, per il tono poco rispettoso con cui si era appena rivolta.

«Il posto alla E-Security è ancora tuo, se è questo che ti stai chiedendo», disse. «Dai rapporti degli agenti che hanno preso parte all’imboscata è chiaro che è stato tutto un incidente. Ti trovavi nel posto sbagliato al momento sbagliato. In ogni caso poteva andare peggio e almeno adesso non dobbiamo più preoccuparci per quel criminale. Se quella leggenda sull’inferno fosse vera, il mondo intero sentirebbe le sue urla attraversare le dimensioni iota fino a noi», concluse.
Dylia deglutì prima di intervenire con tono incerto. «Scusi, credo di non capire.»
«Questo non è il mezzo ideale con cui scambiarsi informazioni riservate. L’importante è che tu ti rimetta presto e…»
«Aspetti!», la voce le uscì strozzata. Con il pensiero era rimasta ancora alla frase precedente. «Non è possibile che… che lui sia…», non trovava nemmeno la forza di dirlo. «La navetta. C'ero anch'io...»
«Sì, lo so. Shulik ti ha presa in ostaggio per fuggire, ma il mezzo su cui eravate è precipitato. È una fortuna che tu sia sopravvissuta. Probabilmente non sai nemmeno come sei arrivata in ospedale, vero?
»
La ragazza non disse nulla.

«Come immaginavo... Tra qualche giorno verrò lì, così potremo discutere meglio. Rimettiti in forze.» Detto questo riattaccò senza lasciare a Dylia il tempo di controbattere.
Abbandonato il ricevitore sul letto andò verso la finestra; fuori continuava a nevicare. Si domandava come riuscisse la gente a vivere con un clima così rigido e se il grigiore di quei fiocchi contenesse sostanze nocive o fosse una tonalità del tutto innocua. Probabilmente gli spalaneve erano costantemente al lavoro per assicurare ai cittadini la possibilità di uscire di casa, oppure in quella megalopoli avevano sviluppato una qualche tecnologia che impediva al ghiaccio di attecchire sulle strade. Sì, era più probabile la seconda.
Guardando giù, oltre il vetro, verso la città, si vedevano chiaramente le linee nere serpeggianti delle vie tra le abitazioni. Era così intenta a osservare quel curioso particolare che sussultò quando dalla porta entrò l’inserviente che spingeva il carrello con il pranzo. Si girò e rimase spiazzata, lo sguardo fisso in quello dell’altro.

«Oliwar, sei proprio tu? Come stai?», gli chiese dopo essersi ripresa dalla sorpresa.
«Sai che potrebbe investirmi una pattuglia di demolitori provvisti di frantumatore atomico e io sopravvivrei comunque.»
La ragazza sorrise: nella risposta aveva percepito una sfumatura di ironia. Qualcuno doveva avergli installato un nuovo cip per upgradargli le funzionalità di humor. Gli corse incontro e, investendo il carrello con i piatti destinati ai pazienti, circondò tra le sue braccia l’amico ritrovato.
«La tua ferita?», chiese lui.
«Fa ancora un po’ male, ma sta migliorando.» Si sciolse dall’abbraccio ed esitò qualche secondo. Poi schiuse le labbra intenzionata a parlare, ma distolse immediatamente lo sguardo da quello di Oliwar temendo che potesse leggerle negli occhi la domanda e finisse per darle una risposta che non voleva sentire.

«I miei sensori mi dicono che vuoi chiedere qualcosa.» La pelle sintetica, bianca e perfetta del viso del robot si piegò leggermente agli angoli della bocca, in quello che doveva essere un sorriso cortese.
«Chi ha provveduto a ripararti e aggiornarti?»
«Mi ha preso in custodia un medico. Voleva farti una sorpresa per quando ti saresti svegliata e così mi ha installato anche le funzionalità emotive superiori.»
«Dovrò ringraziarlo quel medico benefattore. Dove posso trovarlo?»
«Prima mangia qualcosa.»
Dylia sbuffò. In cuor suo cercava solo una scusa per fuggire da quel maledetto ospedale che le metteva una tale tristezza.
Oliwar riprese parola dopo aver depositato due piatti sul comodino. «È uno nuovo, non ha un orario fisso. Quando c’è bisogno lo chiamano e lui arriva. Prima o poi te lo presento.»
La ragazza osservò distrattamente il pranzo: una porzione di carne cotta tagliata a cubetti, uno strano impasto rosa e delle strisce bianche di un vegetale che non riusciva a classificare. Il robot era già sulla soglia della porta quando Dylia lo bloccò.
«Aspetta! Devo chiedertelo o non avrò pace: tu ne sai qualcosa di Shulik?»
«Shulik? È stato dato per disperso.»


“Disperso non vuol dire che è morto, vuol dire che si sono smarrite le sue tracce. Potrebbe essere da qualsiasi parte, no? Quindi? Questo non cambia niente… non c’è nulla che io possa fare.”
Dylia continuava a sentirsi afflitta da certi pensieri e la neve grigia che scendeva lenta oltre la finestra della sua stanza di certo non aiutava.
Quando verso sera smise di nevicare, entrò nel camerino riservato ai cambi d’abito dei medici e prese in prestito un paio di scarpe della sua taglia e un cappotto, dopodiché uscì in strada. C’era qualche mezzo di soccorso automatizzato fermo poco distante dall’entrata principale in attesa di una chiamata d’emergenza. In confronto alla strada pulita e facilmente praticabile, il marciapiede era totalmente coperto di neve. Dylia mosse qualche passo sprofondando con le scarpe su quel manto soffice e farinoso. Il respiro si condensava nell’aria e si perdeva nell’atmosfera silenziosa. Solo il rumore di qualche auto in lontananza e i passi ovattati di qualche coraggioso avventuriero interrompevano la quiete del paesaggio ghiacciato.

«Così diventerai un surgelato.»
Dylia si voltò verso l’uomo che si era fermato a qualche passo da lei. Era talmente imbacuccato che gli si vedevano malapena gli occhi, ma la sua voce non le era nuova.

«Comunque mi fa piacere vederti in forze», continuò, sistemandosi meglio la sciarpa davanti la bocca. «Piaciuto l’aggiornamento al tuo robot?»
Una strana eccitazione si fece spazio nella mente della ragazza, scese in gola e si fermò all’altezza del petto.
I medici di Terratre non erano solamente persone che sapevano come curare un corpo umano prescrivendo terapie, erano qualcosa di molto più sofisticato: esperti in tecnologia, le loro abilità si avvicinavano moltissimo a quelle di un hacker. C’è n’è bisogno, quando l’unico modo per salvare la vita a qualcuno è guidare una squadriglia di nanomacchine in un labirinto di arterie e capillari.
Visto che Dylia non accennava a spiccare parola ed
era rimasta come pietrificata, il medico sbuffò e la condusse gentilmente verso la porta. «Entriamo, qui si congela. E comunque… questo cappotto mi ricorda molto quello della dottoressa Janner.»
Detto questo, abbassò il cappuccio e si srotolò la sciarpa rivelando il suo volto a una Dylia totalmente sotto shock. Nel viso dai lineamenti aggraziati, dietro un paio di occhiali con la montatura azzurra, due iridi scure si soffermarono su di lei con un accenno d’intesa. Elar Shulik un medico? Da quando in qua Elar Shulik, pluriricercato a livello mondiale per aver causato caos e terrore in diverse città, aveva sentito il desiderio di salvare la gente? E com’era possibile che nessuno lo avesse riconosciuto? D’accordo, si era lasciato crescere una corta barba e portava gli occhiali, ma per il resto era sempre lui: il solito diabolico angelo dai capelli neri come la notte. Dylia lo seguì con lo sguardo mentre entrava in un reparto riservato ai medici. Prima di chiudersi la porta alle spalle si girò un’ultima volta e le fece l’occhiolino.


Dopo quell’incontro, la ragazza cercò Oliwar in tutto l’ospedale e quando lo trovò a ricaricare i distributori automatici in un'ala secondaria dell'edificio, sfogò su di lui tutta la frustrazione. Era sollevata nell’aver constatato che Shulik non era morto, ma allo stesso tempo si sentiva presa in giro e confusa. Si piazzò davanti al robot con un’espressione corrucciata: «Senti, fino a prova contraria sono ancora io la tua padrona, ok? Non puoi mentirmi, dunque perché non mi hai detto chi era veramente il medico che ti ha riparato?!»
L'altro appariva sereno. «Non pensavo ti importasse tanto di Katerino Atvor.»
«Ma che stai dicendo!? Lui è Shulik, Elar Shulik!»
«Ti sbagli, la navetta con cui stava cercando di fuggire è esplosa. Ti procurerò i videogiornali. Si vede il momento in cui il mezzo supera l’ultimo strato di atmosfera e poi viene avvolto dalle fiamme.»
Dylia scosse la testa. Evidentemente Shulik aveva creato dei falsi ricordi nella mente dell’automa, provò quindi con un’ultima domanda: «E come ti spieghi l’impressionante somiglianza tra i due? Prova a metterli a confronto con il software per le identificazioni.»
Se ne sarebbe accorto chiunque che sembravano gemelli. Ciò che Dylia non sapeva era che, in quella metropoli, le centrali di polizia consideravano gli identikit dei criminali materiale riservato da non divulgare presso i civili. Nessuno, quindi, avrebbe mai sospettato di nulla.

Oliwar, per la prima volta da quando era stato assemblato, parve trovarsi in difficoltà. Il dubbio che la sua padrona aveva posto in essere gli provocò un sussulto: iniziò a tremare scosso dalle convulsioni, poi roteo gli occhi e scivolò seduto sul pavimento. Dylia, preoccupata, gli prese il volto tra le mani e cercò di capire quale fosse il problema. Sembrava una tipica reazione da “accesso negato”, come se il suo cervello fosse stato programmato per rifiutarsi di rispondere a quel genere di questioni. Gli passò una mano sulla nuca e cercò con i polpastrelli la lieve scanalatura per il riavvio d’emergenza; quando la trovò e la premette, Oliwar smise di tremare e chiuse gli occhi come caduto in un improvviso sonno profondo. Dylia gli si avvicinò di più e lo tirò a sé. Gli arti sciolti del robot erano abbandonati lungo il corpo, la testa si adagiò sulla spalla di Dylia che poté sentire la morbidezza dei suoi capelli sintetici solleticarle il collo.
«Mi dispiace, non volevo», sussurrò all'orecchio di Oliwar. Un attimo dopo lui riaprì gli occhi e tornò ad animarsi.
«Inizializzazione completata. Riavvio cip istallati completo. Riattivazione dispositivi di sicurezza in corso...»
Le mani dell’automa si sollevarono e risposero all’abbraccio della ragazza cingendole dolcemente il corpo; rimasero così per qualche secondo prima di rialzarsi.
«Ho rilevato un problema: un archivio della mia memoria era stato manomesso. Ora ricordo cose che non sapevo di conoscere», disse lui. «Shulik e il medico Atvor sono la stessa persona, inoltre so come ha inscenato la sua morte, perché l’ho aiutato io.»


“Che cosa provo realmente per quell’uomo?”, si chiedeva Dylia mentre sostava nella saletta d’attesa all’esterno del reparto di chirurgia dove le avevano detto che si trovava lui per un’urgenza. Nel posto c’erano altre persone oltre ai parenti di qualcuno che al momento era sotto operazione. Una donna in particolare aveva il viso sconvolto; quegli occhi arrossati dovevano aver versato così tante lacrime da averla prosciugata di tutte le forze, ecco perché per mantenersi in piedi si aggrappava al ragazzo più giovane di fianco a lei. A causa di un’embolia suo marito aveva avuto un infarto ed era stato scortato in fretta al pronto soccorso.
Dylia fantasticò sulla loro storia: immaginava si fossero conosciuti trent’anni prima mentre si contendevano un parcheggio; dai rimproveri erano passati alle risate e uno dei due aveva proposto di risolvere la questione in modo amichevole in un locale. Con il tempo si erano innamorati e dalla loro unione era nato quel giovane ragazzo che, soffocando la preoccupazione, si fingeva impassibile per offrire un braccio forte e sicuro alla madre.

Aveva forgiato questa immagine mentale mentre attendeva; non osava muoversi e controllava persino il respiro, temendo di disturbare quell’atmosfera raccolta che si era creata. Ad un certo punto la porta della chirurgia si aprì e ne usci Elar; in testa aveva ancora il casco con annesso schermo virtuale per guidare l’operazione. I parenti del ricoverato si avvinarono timorosi: nei loro occhi si celava la paura e la speranza compressi in un impercettibile luccichio che sa riconoscere solo chi ha sperimentato situazioni simili.
Elar tolse il casco svelando un sorriso rassicurante: «L’intervento è andato bene. Il paziente è fuori pericolo e si riprenderà.»
Poi gli occhi di Elar si posarono su Dylia che si alzò bruscamente e uscì in corridoio, una mano posata sul petto come per cercare di controllare il battito del suo cuore.

“Che cosa provo realmente per quell’uomo?”, ripeté mentalmente continuando a camminare con passo incerto mentre la vista iniziava ad annebbiarsi a causa delle lacrime. Era entrata troppo in empatia con quella famiglia e la bella notizia l’aveva talmente toccata che stava per abbandonarsi a un pianto dirotto. Dimostrarsi fragile era l’ultima cosa che voleva in quel momento, così finì per sferrare un pugno alla parete. Quando si girò per tornare indietro, si trovò faccia a faccia con Elar Shulik, il camice da medico sbottonato e quello sguardo che, se osservato in profondità, nascondeva ancora l’ombra del suo passato.
«So quello che stai pensando», cominciò lui.
«Hai imparato a leggere nella mente?», chiese lei con sarcasmo cercando di dominare le emozioni.
«No.»
Dylia cambiò discorso. «Tra qualche giorno verrà qui il mio capo. È meglio se non ti fai vedere mentre c’è lui in giro.»
Elar storse la bocca. «Ho imparato a leggere dentro le persone.»
«Al mio capo non importerà granché, a meno che tu non riesca anche a leggere i pensieri di un indiziato che non vuole parlare… ma anche in questo caso temo…»
«Grazie», la interruppe. Si fissarono per qualche istante senza dire nulla, poi lui la scansò e proseguì lungo il corridoio credendo che avesse tutte le ragioni per trattarlo freddamente.
Era incredibile. Shulik sembrava un’altra persona.

“Che cosa provo per lui?”, si chiese nuovamente la ragazza girandosi a guardarlo mentre si allontanava.
Poteva definirlo sia il suo miglior amico che il suo peggior nemico. Al di là della crudeltà di certi suoi gesti compiuti, lui era riuscito a trasmetterle qualcosa di positivo. Senza volerlo le aveva insegnato che anche nella persona più malvagia si può nascondere la luce e da questo era giunta alla conclusione che anche nell'individuo più calmo e gentile possono albergare oceani assassini in tempesta. Un giorno lei aveva guardato nei suoi occhi e l’aveva visto, aveva visto il sole che aveva dentro: qualcosa di bellissimo e allo stesso tempo dolorosissimo. La sua anima era incandescente e quando a Damon la sua mano aveva sfiorato il viso di lei, parte di quella fiamma si era trasferita lasciandole un segno invisibile.
Non le era mai capitato di vedere in quel modo una persona, di vederla oltre a ciò che mostrava, oltre all’apparenza e il retaggio del suo passato. Quella sua bellezza non si poteva definire una casuale combinazione di atomi; il suo volto angelico era un riflesso di ciò che custodiva sigillato nella cassaforte dell’anima, quando ancora non era stata contaminata dall’odio.
Quel giorno, alla stazione Damon, la trasposizione li aveva fusi e nel momento del ritorno qualcosa non era andato per il verso giusto. Come l'edera, strappata a forza dal tronco di un albero, lascia i segni nella corteccia su cui era ancorata da anni, così le loro anime si erano avvinghiate e graffiate tanto che non sarebbero mai più state le stesse.

L’equazione di Dirac spiega bene l'accaduto: quando due insiemi vengono a contatto - anche solo per un brevissimo istante - si influenzano, e nel momento dell’allontanamento continuano a ricevere l'influsso dell’altro. Le distanze sono annullate; non esistono spazi sconfinati o universi infiniti capaci di interrompere il legame. Ciò può essere una fregatura, ma anche una benedizione. Come sempre, tutto è relativo.
In quell'istante Dylia capì che non poteva lasciarlo andare, perciò gli corse in contro e lo fermò trattenendolo per un braccio. Non sapendo bene cosa dire sorrise nervosamente, poi si schiarì la voce: «Perché prima mi hai ringraziata?»
«Ti ho ringraziata per aver migliorato la mia vita», disse lui. Nello sguardo aveva una luce particolare, come se si sentisse sollevato dal fatto di averla di nuovo vicina. «Il giorno dell’imboscata», continuò, «mi sono reso conto che non provavo piacere nel vederti star male. Fino ad allora il dolore degli altri era un lenitivo per me. Che cos’hai tu di speciale per farmi vacillare? Non sono riuscito a trovare una risposta soddisfacente», concluse.
Dylia gli scostò un ciuffò che gli ricadeva sulla fronte, poi lasciò scivolare delicatamente la mano di lato, sostando più a lungo sulla sua guancia, mentre gli occhi si posarono sulle labbra di lui svelando il desiderio nascosto. Senza indugiare oltre lo baciò. Nell’ambiente circostante c’era l'odore del disinfettante e il rumore di qualche barella trascinata in un corridoio lontano, ma quel contatto, che sapeva di vita e speranza, aveva trasportato entrambi in un altro mondo lontano anni luce da lì.



Qualche mese dopo Dylia tornò al lavoro al solito distretto, sotto il comando di quel simpatico vecchietto fanatico dei sigari che era il suo capo. Si domandava per quale fortunata concomitanza di eventi gli agenti dei servizi segreti avessero tralasciato certi dettagli compromettenti dai loro rapporti. Ricevette l’indizio chiave una sera, sotto forma di buono per un acquisto al negozio di robotica, accompagnato da un biglietto firmato da Saati: forse l’interesse che quello svampito aveva mostrato nei suoi confronti non era tutta finzione.
Altre novità riguardavano il metodo d’azione del dipartimento di trasposizione. Erano state apportate delle migliorie: ora si potevano usare contemporaneamente più dispositivi per la distorsione del campo elettromagnetico. Ne erano stati dislocati un po’ ovunque nelle principali metropoli del pianeta. Ovviamente ci si poteva collegare a uno solo alla volta, ma questo garantiva comunque una più veloce entrata in azione. Uno di questi era collocato al nord e precisamente a Mlad, dove Elar continuava il suo filantropico lavoro di redenzione all'ospedale civile.
Ogni tanto, se era sicura che i suoi spostamenti non erano monitorati, accendeva il macchinario e andava a trovarlo. Gli sedeva accanto quando, durante l'orario di riposo, sostava sul muretto esterno della clinica; si godeva quella vicinanza e la particolare atmosfera del posto raccolta in un silenzio meditativo.
Nell’attesa che Elar trovasse un modo sicuro per tornare a circolare liberamente per il pianeta, si accontentavano di quel contatto a metà per non creare sospetti.
Anche se lui non poteva vederla, percepiva la sua presenza. Fu così che un giorno, stringendo tra le mani il DSZ potenziato da un particolare algoritmo di sua invenzione, si girò verso il nulla permeato dal gelo del nord e disse: «Sai, forse ho trovato la soluzione.»
Il giorno dopo un blackout di proporzioni globali colpi Terratre per cinque minuti e quarantanove secondi. Quando tornò l'elettricità, nessuno si accorse che gli archivi con i dati compromettenti che incastravano Shulik erano stati totalmente cancellati.
Nella città in cui risiedeva Dylia era notte fonda. Oliwar captò un segnale anomalo in entrata nel sistema domotico dell'appartamento; lo scrisse in un biglietto che appoggiò sul comodino della ragazza prima di stendersi al suo fianco nel letto.
Il messaggio tradotto corrispondeva a due sole lettere: E.S.


The End/
To Be Continued...



Note autore:
Lo so, lo so! Questa conclusione lascia aperte le porte alla possibilità di scrivere un seguito! Ve lo già detto che io non sopporto i finali? E allora, visto che posso scegliere, scelgo di lasciare i miei affezionati personaggi in una parentesi temporale; congelati fino al momento in cui mi verrà l'ispirazione per scrivere un sequel. Le manie di onnipotenza degli autori nei confronti dei propri racconti. ♥ Comunque... immagino abbiate capito a che cosa si riferiscono le due lettere, no?
Spero davvero di avervi regalato qualcosa di positivo e
come al solito sono benaccette le critiche costruttive.
Ci si rivede in una nuova avventura fantascientifica: variabili del caso permettendo. :)


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"Inverse Transposition" di Monique Namie
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