Inverse Transposition di Monique Namie (/viewuser.php?uid=106217)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Possibilità ***
Capitolo 2: *** Ingranaggi ***
Capitolo 3: *** Diavoli e Comete ***
Capitolo 4: *** Scissione d'Anima ***
Capitolo 5: *** Simmetrie ***
Capitolo 6: *** Tra leggenda e realtà ***
Capitolo 7: *** Finché c'è amore... ***
Capitolo 8: *** L'edera lascia i segni (Epilogo) ***
Capitolo 1 *** Possibilità ***
Trasposizione inversa - second chance
Osservava
il temporale in avvicinamento dalla terrazza dell’albergo in
cui alloggiava
da appena qualche ora e ripensava al viaggio da poco concluso. Dylia
non
aveva
mai visto un cielo così violaceo in tutte le sue precedenti
escursioni su quel pianeta. Nonostante nell'atmosfera si
aggirassero frotte di droni deflatori, programmati per
assorbire tutti gli elettroni in eccesso, l’aria
restava carica
d’elettricità statica e la sentiva sul
viso e sui capelli come una mano invisibile che continuava a sfiorarla.
Il
messaggio che le avevano girato quelli della E-Security,
per cui lavorava, parlava chiaro: qualcuno avrebbe fatto
saltare un ordigno all’interno della stazione Damon per il
turismo spaziale a
mezzogiorno in punto di quello stesso giorno. Ed erano
già le undici. Ispirò
profondamente e poi rientrò nel salotto della suite:
mezz’ora
era più che sufficiente per
collegare le apparecchiature e assicurarsi del funzionamento del
dispositivo di
trasposizione. Dopodiché avrebbe indossato la tuta con gli
elettrodi,
l’avrebbe sincronizzata con il programma installato nel
computer e, stesa sul
letto, sarebbe caduta nel sonno vigile che era abituata a sperimentare
da quando
aveva ottenuto l’incarico di traspositrice. In conseguenza di
quel processo la sua coscienza o, più
correttamente, la sua
proiezione astrale, si sarebbe separata dal corpo fisico e allora
avrebbe potuto entrare in azione.
Quindici minuti prima dell'ora X tutto era pronto; il timer
d’attivazione
scattò alle undici e cinquanta e Dylia, senza complicazioni,
si
ritrovò improvvisamente all'interno della
stazione Damon. Scansò
un
turista frettoloso che la stava per investire appiattendosi prontamente
contro
la parete del deposito oggetti smarriti. Trasse un sospiro di sollievo:
il
pericolo maggiore era proprio quello di finire imprigionati nel corpo
di
qualche ignaro passante, per cui in luoghi affollati come quello
bisognava prestare la massima attenzione.
Prima
di dirigersi verso l’albergo aveva volontariamente
dimenticato una valigia
dentro la navetta che l’aveva portata fin lì; poi
aveva atteso pazientemente fuori dal mezzo di trasporto, confondendosi
fra
i viaggiatori che lasciavano la stazione, per assicurarsi che il
bagaglio
fosse portato effettivamente nel deposito. Se
qualcuno avesse deciso di osservarne il contenuto
non avrebbe comunque capito l’utilità
dell’oggetto al suo interno: quella che appariva come una
semplice scatoletta metallica, era in realtà
un prototipo segreto che lavorava in simbiosi con
l’apparecchiatura che Dylia aveva
messo in funzione nella suite dell'albergo. Serviva per
creare il presupposto
di distorsione del campo elettromagnetico che consentiva al suo doppio
astrale di venire scagliato lì alla stazione, quando il suo
corpo fisico
giaceva invece sul comodo
letto del momentaneo alloggio. Senza di quell’oggetto,
l’apparecchiatura per
la trasposizione l’avrebbe proiettata in quella stessa
camera a qualche
metro dal letto su cui giaceva, diventando inutile per la missione.
Nel
sonno vigile i sensi appaiono paradossalmente amplificati, il che
significa che
si possono percepire vaghe tracce dei pensieri inconsci e dell'aura
delle altre persone.
Mentre si muoveva con circospezione all’interno della
stazione, Dylia poteva quindi osservare l’aura dei passanti e
udire un continuo fastidioso vociare
dentro la sua
testa. Le sarebbe bastato sincronizzarsi come al solito con la
frequenza di pensiero del
terrorista per scoprire ciò che aveva in mente, dove aveva
piazzato l’ordigno e
come fare per disinnescarlo, ma quel giorno qualcosa offuscava i suoi
sensi.
Il
temporale in avvicinamento che aveva osservato un’ora prima
dalla
terrazza
dell’albergo ora era esattamente sopra la città.
Non
scendeva una goccia di
pioggia, ma si sentiva il rumore ravvicinato dei tuoni: era senza
dubbio una tempesta di fulmini
di grande intensità. Ipotizzò che la sua carenza
percettiva fosse causata dall’elettricità statica
presente nell’atmosfera. Un po’ perché
si trovava ad
agire da sola, senza
l’ausilio di un collega, un po’ per colpa dei
fulmini e
dei sensi
alterati, man mano che i minuti passavano e si avvicinava
l’ora
predestinata, una sensazione pressante d’ansia si faceva
sempre più
vivida in lei. Mancava pochissimo a mezzogiorno e lei
continuava a vagare all’interno della stazione senza
una
direzione precisa. Poi, tutt'a un tratto, s'immobilizzò.
Qualcuno
era entrato nella camera dell'albergo e
si era seduto di fianco al suo corpo addormentato sul letto: avvertiva
distintamente
la sua presenza, ma non riusciva a vederlo in
faccia. Poi avvertì
una mano sconosciuta accarezzargli i capelli sparsi sul cuscino e si
sentì male.
Chiunque fosse entrato in quella stanza non aveva di certo a cuore la
sua sicurezza.
Tutti sapevano che era rischiosissimo tentare un contatto diretto con
una
persona separata dalla sua componente astrale: nel peggiore dei casi
poteva avvenire
un arresto cardiaco fatale.
«Sei caduta in trappola come un'ingenua, cara
Dylia.» La voce profonda e
innaturale di un uomo risuonò
amplificata nella sua mente. Le
stava
evidentemente parlando a qualche centimetro dal viso. «Non
ci
sarà nessun
attentato questo mezzogiorno. Oh, tuttavia mi rifarò nei
prossimi giorni,
quando tu non potrai più interferire.» Le parve
di
vedere
un ghigno malvagio
nascere sulle labbra di quel misterioso individuo. In quel preciso
momento
scattarono le dodici in punto e alla stazione Damon tutto
continuò a
procedere
tranquillamente; il computer nel salotto della suite interruppe il
processo di trasposizione, ma il corpo astrale di Dylia rimase
confinato
lì dov'era. Doveva
tornare indietro il prima possibile. Si mosse velocemente verso il
deposito degli
oggetti
smarriti dove aveva lasciato la valigia e cercò di liberare
la mente (più si
avvicinava al dispositivo di
distorsione del campo elettromagnetico, più sarebbe stato
semplice tornare), ma continuava a sentire le mani
di
quello
sconosciuto accarezzarla ora sulle le guance, ora sulle labbra, ora sul
collo.
Aveva bisogno di concentrazione assoluta per tornare, lui lo sapeva e
agiva intenzionalmente per
metterla
in difficoltà, eppure forse
c’era una
soluzione alternativa:
si avvicinò alla base di lancio delle navette e
notò
alcuni cavi scoperti in
una zona di lavori in corso opportunamente transennata.
Attraversò come un fantasma le sbarre
che vietavano l’accesso al pubblico e
allungò le mani. Non era sicura che fosse una buona idea, l'unica cosa
di cui aveva la certezza era che
doveva trovare al più presto un metodo per tornare in
sé e svegliarsi se non voleva fare una brutta fine. Afferrò
i cavi. Una scossa di energia
elettrica la
investì e andò a
riversarsi sull’apparecchiatura che aveva sistemato nella
suite
dell’albergo
facendola fondere. Quando il meccanismo saltò, Dylia
riacquisì immediatamente il
controllo del proprio corpo e sferrò
prontamente un pugno in
faccia all’uomo che le stava davanti. Sentì un
dolore acuto sulle
nocche della mano, serrò
i denti e alzandosi di scatto si preparò per il prossimo
colpo ma qualcosa la
bloccò. Shulik
- così si faceva chiamare l’attentatore che si
divertiva a far saltare ordigni
esplosivi in luoghi pubblici - era davanti a lei con un rivolo di
sangue che gli
scendeva
dal labbro inferiore.
«Mi
hai fatto male», disse lui con un sorriso proprio di una
personalità perversa che
ama il dolore.
«Te
ne posso fare anche di più se vuoi!»
«Non
aspetto altro», rispose con tono provocatorio.
Lo
sguardo dell’agente Dylia scivolò per qualche
istante ai
piedi del letto, sul
tappeto che si infilava sotto al comodino dove
aveva
nascosto il taser elettrico in previsione di casi come quello, poi
tornò a
fissare
l’uomo che aveva davanti. Lo aveva visto in faccia
un paio di volte prima di allora, ma mai così da vicino e
mai di
persona. Aveva
sventato alcuni dei suoi attentati, sempre in sicurezza, sempre
agendo a
distanza proiettando il suo doppio astrale nei posti predestinati; come
fosse
arrivato a lei era inspiegabile.
«Come
hai fatto a trovarmi?», chiese.
Dagli
occhi dalle iridi nere di lui guizzò una scintilla di
desiderio immorale. Aveva
un viso dai lineamenti aggraziati e capelli neri come la notte proprio
come
piacevano a lei. Sembrava impossibile che una persona così
bella potesse nascondere un'anima corrotta; eppure quello che aveva
davanti era un fuorilegge con
una
taglia a molti zeri sulla testa.
«Magia!», esclamò sorridendo
sadicamente. Era chiaro che oltre ad
essere pericoloso e senza scrupoli era anche del tutto suonato.
Per riprendere il controllo dalla situazione le bastava
soltanto raggiungere il taser, ma qualcosa continuava a frenarla
e non
riusciva a capire se fosse paura o altro. Constatò
che Shulik era disarmato e il
rivolo di sangue che
gli scendeva dall’angolo della bocca per lambire
quel viso privo
di difetti non era necessario; quasi le dispiacque di essere
stata lei la causa di
quell’imperfezione.
«Seguirmi
fino in albergo è stato un gravissimo errore!»,
disse con voce alterata,
cercando più che altro di convincere se stessa di quello che
stava per fare.
«Uccidimi!», la provocò lui con una
smorfia di sfida.
«Ah già, dimenticavo! Voi traspositori non avete
armi mortali. Che fregatura!» E detto ciò, rise.
«Ti ucciderò lo stesso!»
«Oltre
alla mia taglia riceverai un riconoscimento, una medaglia forse, poi ti
trasferiranno in
un dipartimento più prestigioso…»,
fece
una breve pausa durante la quale non smise di fissarla
con quegli occhi neri da diavolo, «… e non ci
rivedremo mai più. Mai.
Più.»
Lui
l’avrebbe di certo uccisa senza rimorsi. Se ora era ancora
viva
lo doveva solo
a se stessa, alla sua prontezza di riflessi e alla sua
capacità
di trovare una
soluzione nei momenti peggiori. A lui non sarebbe importato
niente se fosse stata costretta a vagare per sempre come un fantasma in
un limbo a metà tra il mondo reale, per cui a lei non doveva
importare
niente di prendere quel taser e azionarlo contro di lui. Con uno scatto
felino scese
dal materasso, s’inginocchiò, afferrò
l’arma dal nascondiglio e
gliela puntò contro esercitando una
leggera pressione sul grilletto pronta a fare fuoco. Tutto avvenne in
un istante, ma al momento il tempo sembrò andare a
rallentatore:
Shulik si mosse a carponi verso di lei e, restando sopra al letto,
afferrò con decisione il polso
della mano con cui teneva il taser costringendola ad allentare la
presa e a lasciar cadere l'arma. Lo sguardo di Dylia
incrociò quello di Shulik e in quegli
occhi scolpiti in un viso paradossalmente angelico,
percepì qualcosa di
indecifrabile, una misteriosa scintilla di luce. Perché non
la
faceva finita una volta per tutte? Senza proferire parola, le strinse
più forte il polso iniziando a farle male. Sentiva che se
non
avesse agito immediatamente sarebbe entrata nel panico, quindi usando
la mano libera
raggiunse l'arma e premette il grilletto: i due dardi si
precipitarono sul torace del criminale scaricandogli addosso una scossa
ad alta tensione.
Shulik finì privo
di
sensi
steso sul letto dopo un gemito.
Dylia si
lasciò cadere seduta sul pavimento e si massaggiò
un po' il polso indolenzito mentre cercava di
calmarsi. Ci avrebbero pensato i
suoi colleghi a fare
giustizia; la sentenza del tribunale extrasolare sarebbe stata senza
dubbio una
condanna a morte. Prese le manette che aveva nella fondina
sul fianco e immobilizzò Shulik legandolo alla spalliera del
letto. Nello svolgere quell'operazione si sorprese ad osservare quelle
sue mani dalle dita affusolate; sembravano le mani di un artista, non
quelle
di un pericoloso criminale fissato con gli esplosivi. Scosse la testa
per
scacciare il pensiero e s’incamminò nella stanza
del
soggiorno in cui aveva
lasciato le attrezzature per la trasposizione. Il dispositivo
principale era
completamente fuso, ma il salvavita collegato al portatile aveva fatto
il suo dovere.
Ora le
bastava premere un tasto per inviare alla centrale gli aggiornamenti
sulla
missione. Le bastava premere un tasto per segnare la fine della
miserabile vita
di quel fuorilegge.
Click.
Quando
uscì dall’albergo i raggi del sole ormai avevano
iniziato
a filtrare tra le nubi
sempre più rade. La prima volta che si era trovata nella
condizione di dover uccidere
a sangue freddo un criminale le mani le tremavano. Al tempo faceva
parte della squadra di assalto. Le avevano detto che doveva
guardare la sua vittima negli occhi per poter superare velocemente lo
shock e così aveva fatto. Ricordava
ancora l’espressione sgomenta rimasta impressa sullo sguardo
di
quell’uomo anche
dopo avergli sparato. Il tempo per lui sembrava essersi cristallizzato,
congelato. Sarà stato anche un assassino, ma guardarlo
negli occhi non era servito a farsene una ragione. Chi era lei per
decidere di porre fine alla vita di una persona? Si rese conto
in
quel momento che, con
buona probabilità, era stato quel suo attaccamento ai valori
il
motivo reale per cui aveva fatto domanda di trasferimento
nel dipartimento di trasposizione. Almeno lì, l'unica arma
utilizzata per la difesa era il taser elettrico e non veniva mai
chiesto di giustiziare qualcuno
guardandolo negli occhi per superare il trauma.
Percorrendo
la strada che portava verso la stazione ripensò a Shulik, a
quel suo volto dai lineamenti perfetti nonostante
il rivolo di sangue che gli scendeva dal labbro. Quell'immagine di lui
le si era stampata nella mente. Entrò in
stazione passando
prima per il deposito degli oggetti smarriti a ritirare il bagaglio che
aveva
volontariamente dimenticato. Osservò una squadra di operai
che cercava di
spegnere le fiamme con un estintore lì dove, in una zona di
lavori in corso esclusa
al pubblico, si era verificato un inspiegabile cortocircuito. Per un
attimo
ebbe un ripensamento; automaticamente portò una mano nel
fianco dove aveva
riposto le manette nella speranza di non trovarle, invece erano proprio
lì al loro posto. Nel biglietto
lasciato sul comodino aveva scritto: Ti
propongo una sfida, tu e io, senza coinvolgere più nessun
innocente. Ci stai?
Se
il capo del dipartimento avesse saputo quello che aveva fatto,
l’avrebbe
come minimo rimossa dall’incarico e costretta a
seguire le
sedute di uno psicoanalista.
Aveva fatto la cosa giusta dando a quel criminale una seconda
possibilità? Assolutamente no. Non
si aspettava nemmeno di ricevere una risposta. Molto probabilmente
avrebbe
ricominciato a far saltare ordigni in luoghi affollati ferendo a morte
gente
innocente e la colpa sarebbe stata tutta sua: una traspositrice che non
aveva avuto il coraggio di agire secondo la legge. Avrebbe dovuto
essere
radiata ed esiliata su un pianeta-circondariale.
Spostandosi
verso la piattaforma di lancio notò uno strano fermento
tra i viaggiatori; all'inizio non
capì,
poi sollevò lo sguardo verso i tabelloni elettronici che
recavano gli orari e le destinazioni delle prossime partenze e
comprese il motivo di tanto agitarsi: al posto delle consuete
informazioni
compariva una sola scritta a caratteri cubitali: Solo tu e
io.
Un sorriso spontaneo le
illuminò il volto. Shulik si era
ripreso, aveva letto il messaggio e aveva accolto l'invito. Tutto era
pronto per una nuova sfida, ma questa volta sarebbe stato diverso, se
lo sentiva.
Note autore:
La
storia potrebbe benissimo terminare qui. In realtà il
capitolo era nato proprio per essere una
one-shot, poi però mi sono affezionata troppo ai
personaggi che
ho creato e, poiché odio i finali, ho deciso di
continuare la
narrazione. Sarò ben lieta di leggere i vostri pareri al
riguardo.
In questa storia c'è molta fantascienza e qualche elemento
che può essere ricondotto al sovrannaturale. Se qualcuno si
interessa vagamente di esoterismo è probabile
che abbia
intuito qualcosa di familiare.
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Capitolo 2 *** Ingranaggi ***
Incertezze
Cap.2
-Ingranaggi
Di
ritorno alla centrale della E-Security, Dylia si
fiondò
nell’ufficio del capo
com’era abituata a fare quando rientrava da una
missione, solo che questa
volta aveva affrontato in solitaria un viaggio di quattordici
ore a
velocità prossime a quella della luce e, per colpa dello
space
lag1, si sentiva
stranamente euforica. Persino quell’angolo grigio e sporco
del quartiere che
ospitava l’edificio della base operativa le appariva
più pittoresco e confortevole.
«Non
c’era nessun ordigno da disinnescare alla stazione Damon.
Falso allarme. Per i
dettagli ho lasciato una copia della registrazione del mio rapporto in
archivio.» Esordì così, e dopo
poggiò una delle due valigie con la
strumentazione fusa sulla scrivania immacolata del capo; solo allora
lui si animò
e la guardò in faccia.
«Cos’è questo schifo? Toglilo subito di
qui!»
La
ragazza si riprese la valigia trattenendo una risata. «Mi
serviranno nuovi
strumenti per la prossima missione.»
«Che ne è stato di quelli nuovi che ti sono stati
affidati l’ultima volta?»
«Sono
questi. Si è abbattuta una tempesta di fulmini sulla
città», spiegò.
Il
capo sbuffò rassegnato e girò distrattamente lo
sguardo verso la finestra.
Odiava dover mandare i suoi agenti nelle metropoli di scambio. Le
stazioni (con
tutto il loro metallo accatastato composto da navette, binari, cavi ed
elevatori) spesso fungevano da vero e proprio parafulmine. Bastava che
un
piccolo fronte nuvoloso si accumulasse in prossimità della
zona e l’aria
iniziava a caricarsi d’elettricità che
puntualmente finiva per riversarsi sugli
impianti delle città. Le tempeste di fulmini erano
all’ordine del giorno e lui
non avrebbe mai immaginato che a far saltare le apparecchiature fosse
stata
Dylia stessa per togliersi dai guai.
«Sai che siamo a corto di fondi. Prima passa dal nostro
tecnico e prova un po’
a fargli aggiustare quella roba.»
Dylia annuì e uscì dall’ufficio.
Non
era cambiato niente in lei. Aveva sempre
il solito innato senso di giustizia che la spingeva a
rispettare ogni
regola; proprio per questo ancora non riusciva a capacitarsi di quello
che
aveva fatto, o meglio, quello che non aveva fatto per fermare Shulik.
Era
consapevole della gravità delle sue azioni, ma non riusciva
preoccuparsene
seriamente e per qualche strano motivo le veniva da ridere. Le reali
intenzioni
di Shulik, quando era entrato a farle visita nella camera
d’albergo, restavano
un mistero. Tormentarsi per cercare una spiegazione ora non
sarebbe
servito a nulla.
Lasciò
le due valigie con gli attrezzi da aggiustare davanti alla porta del
laboratorio del tecnico. Non aveva voglia di dare spiegazioni anche a
lui,
tanto era sicura che avrebbe capito e, se avesse potuto, non ci avrebbe
messo
molto a riparare i danni. Poi si diresse verso l’ascensore
con l’intenzione di
andarsene di lì, chiudersi in un bar e ordinare un
frappè alla menta. Era già
tanto che fosse entrata nel posto di lavoro durante il suo giorno
libero per
consegnare il rapporto, non aveva intenzione di trattenersi un minuto
in più.
Mentre aspettava che le porte dell’ascensore si aprissero, un
suo collega di
cui non ricordava il nome, la fermò: «Ehi Dylia,
che ci fai qui? Non è la tua
giornata libera oggi?» E senza attendere risposta
continuò: «Qualche
psicopatico si sta divertendo ad hackerare i computer dei tabelloni
delle
partenze a Damon. Ci vorrà tutta la giornata per
ripristinare l’ordine.»
«Cosa
significa?» La sua era una domanda stupida che non richiedeva
necessariamente
una risposta. Era bastato il nome “Damon” per farle
scattare un campanello d'allarme in testa.
«Significa
che qualche deficiente ha deciso che usare un dispositivo privato era
troppo
all’antica e s’è messo a spedire strani
messaggi sui tabelloni della stazione.»
Fece una pausa durante la quale sembrò ricordarsi di
qualcosa d’importante.
«Aspetta, ma tu arrivi proprio da quella stazione! Non hai
notato nulla di
anomalo?»
Dylia si sentì a disagio. Se l’artefice di quel
caos era la persona a cui stava
pensando, la colpa in parte era anche sua. Il pensiero di essere stata
la causa
di un malfunzionamento della società le diede una sensazione
di
piacevole vertigine.
«Joh
chiama Dylia dal pianeta Terratre: non hai notato nulla di strano
quando eri
lì?»
La donna si scosse distolta improvvisamente
dai pensieri. «Sì… cioè no.
Insomma che cosa c’era scritto nei tabelloni?!», lo
chiese senza riuscire a
nascondere un sottile velo d'eccitazione nella voce.
Il
collega la guardò perplesso. «Cose in apparenza
senza senso. Dovresti chiedere
a Paul: da ore sta cercando di risalire alla fonte
dell’attacco.»
Non
aveva idea di chi fosse Paul, così ringraziò il
collega evitando di porre
domande che l’avrebbero fatta sembrare una sprovveduta: era
una frana con i
nomi e quel Paul doveva essere uno nuovo. Richiamò per
l’ennesima volta
l’ascensore e le porte finalmente si aprirono.
All’aperto il sole cominciava a
farsi alto e accecante; indossò gli occhiali protettivi e
s'incamminò verso
quello che lei chiamava “il bar in cui fanno i miglior
frappè alla menta del
pianeta”; vi entrò e si sedette su uno dei
divanetti verdi. Sullo schermo
appeso a una delle pareti scorrevano le ultime notizie, tra cui quella
dei
disagi alla stazione Damon.
Dopo la scritta "solo tu e io" che era comparsa nei
tabelloni della stazione e
che era rimasta visibile per una decina di minuti, tutto era tornato a
funzionare normalmente, così Dylia aveva potuto tornare a
casa senza problemi.
Non si aspettava di certo che dopo la sua partenza quel folle avesse
continuato
ad hackerare i computer con gli orari delle navette. A quale scopo poi?
Farsi
notare da lei? Provocarla?
Nel video che stavano mandando in quel momento in tv,
registrato qualche
ora dopo la sua partenza, si notava ancora la folla agitata, qualcuno
che
gridava cose incomprensibili, intere comitive di turisti sedute a terra
nei
pressi del deposito bagagli. Ad un certo punto qualcuno se la prese
persino con
il robot-reporter che stava riprendendo la scena, la telecamera venne
danneggiata e lo schermo divenne improvvisamente nero.
«Che razza casino!», pensò a voce alta.
«Già!»,
commentò il barista. «Prendi qualcosa?»
Dylia si
alzò e uscì dal bar senza rispondere;
le era passata anche la voglia del frappè. I patti erano
chiari, non doveva più
essere coinvolto nessun cittadino innocente. Ma lui, Shulik, era un
pericoloso
criminale, aveva fatto saltare ordigni esplosivi in luoghi pubblici
pieni di
gente, come diavolo le era venuto in mente di credere alla sua parola?!
I gradi
d’onore che si era guadagnata alla E-Security non
contavano
più nulla. Avrebbe
dovuto dimettersi; gli ingranaggi difettosi della città
dovevano essere
sostituiti e lei, in quel momento, si sentiva per la prima volta
proprio come
una di quelle ruote meccaniche che s'inceppano improvvisamente
causando l’arresto di tutto il meccanismo. Eppure, sotto un
certo punto di
vista, trovava che quella situazione assurda fosse piacevole. Per la
prima
volta nella sua vita stava agendo fuori dagli schemi e questo la faceva
sentire
diversa.
La sera, dopo aver spiluccato qualcosa per cena, si stese
sul letto del
suo appartamento senza spostare le lenzuola e senza nemmeno spogliarsi.
Rimase
per qualche minuto con lo sguardo perso nel soffitto a riflettere, le
luci
erano spente: l’unico bagliore proveniva dai lampioni ad
energia solare sulla
strada e filtrava a sprazzi dalle tapparelle creando dei bei giochi di
luce
sulle pareti e sul pavimento lucido.
Immersa nella penombra, cercò per l’ennesima
volta una spiegazione valida
per ciò che stava succedendo. Fu allora che ebbe come la
vaga l'impressione che
qualcuno si fosse intrufolato nella sua mente. Un altro effetto
collaterale
dello space lag, pensò. Si girò su un lato,
afferrò il cuscino e lo strinse a
sé. Da quella posizione poteva vedere il suo robot
domestico, Oliwar,
ricaricarsi in soggiorno. La lucina rossa sulla fronte, sotto la
pelle sintetica,
lampeggiava ritmicamente e indicava che la batteria era quasi carica.
Qualche
istante dopo la lucina rossa scomparve e, accompagnati da un bip, due
occhi
luminosi come quelli di un gatto si schiusero lentamente.
«Oliwar,
vieni qui, per favore.» Le piaceva usare un tono educato
anche con il suo
robot, nonostante a lui non importasse granché di
come la gente lo
interpellava. Udito e registrato il comando, Oliwar si mosse adagio con
passo
elegante verso la camera e poi si sedette a terra a gambe incrociate
sul
tappeto ai piedi del letto in modo da poter sostenere lo sguardo di
Dylia.
«Secondo
te è possibile che un agente della
E-Security
lasci deliberatamente scappare un criminale?»
«È possibile», fu la risposta concisa
del robot.
«E
perché dovrebbe farlo?»
Il
robot ci mise qualche secondo per elaborare una conclusione, poi
sentenziò: «Dati
insufficienti. La mente umana è troppo complessa per poter
fornire una soluzione
specifica.»
Dylia
si girò a pancia in su, in modo da trovarsi a guardare
Oliwar
sottosopra. Per niente
soddisfatta, decise d'insistere. «Bene, allora
escludi ogni tipo di fattore
corruttivo e dimmi per quale motivo un agente della E-Security dovrebbe
agire
così.»
«Esclusione
in corso…» Alcune lucine bianche si accesero e si
spensero a intermittenza sulla
fronte del robot. «Le risposte restano ancora molteplici.
Ecco le principali:
insicurezza, pietà, coinvolgimento sentimentale di tipo
primario, disturbo
della personalità.»
«Grazie
Oliwar.» Trasse un profondo sospiro e continuò ad
osservare il suo robot
domestico seduto sul tappeto. Nel silenzio della notte era piacevole
avere la
certezza di non essere soli. Era come stare in equilibrio su un filo
teso nel
vuoto con uno zaino paracadute sulle spalle.
«Sali sul letto», gli ordinò. Oliwar si
alzò senza cambiare
espressione e si stese adagio accanto a lei.
Shulik non aveva un posto dove andare in quella città piena
di sbirri. Era
arrivato fin lì seguendo Dylia. Normalmente passava le notti
nel quartiere
periferico, nel vecchio studio abbandonato di uno scienziato.
Lì si era creato
il suo angolo di paradiso e per ogni spostamento usava una vecchia
navetta
privata non registrata: il frutto del suo primo furto con hackeraggio
della
storia.
Era stato abbastanza semplice quella volta; con il tempo, i sistemi di
sicurezza erano stati migliorati e adesso un povero criminale doveva
ingegnarsi
per sopravvivere.
Attraversando
la piazza centrale della città, pensò che si
sarebbe sentito sicuramente meglio
dopo aver creato un po’ caos con un'esplosione epocale.
L’angoscia della gente per
qualche motivo gli trasmetteva sensazioni positive, lo faceva sentire
speciale.
Più i
notiziari parlavano di lui, più provava appagamento;
inoltre la
consapevolezza di aver
rovinato la vita a qualcuno alleviava le sue sofferenze.
Trascinandosi
lungo i
marciapiedi affollati di Street Towers non tentò nemmeno di
schivare il fiume
di gente che veniva dalla direzione opposta: cittadini, uomini
d’affari,
turisti, ambasciatori, tutti sembravano avere una meta
d’arrivo e uno scopo
buono e giusto da portare a termine entro la mezzanotte, ma lui no. Lui
non
aveva uno scopo, non aveva nulla di buono da offrire se non il suo odio
per
l’umanità. Attraversò la strada senza
guardare, costringendo alcune auto ad
inchiodare bruscamente e non contento maledisse gli autisti con un
gesto.
Dall’altra parte della strada c’era un parco, uno
dei rari parchi con piante
vere mantenute in vita grazie ad una cupola di energia che di giorno
impediva
alle radiazioni solari dannose di bruciarne le foglie. Entrò
in quel mondo
primordiale e si sedette su una panchina abbandonandosi completamente
sullo
schienale; poi infilò una mano in tasca ed estrasse un
rettangolino piatto e
scuro, esercitò una leggera pressione su un bordo e tutte le
facce del
rettangolo furono pervase da innumerevoli scritte luminose. Quella era
la sua
bacchetta magica. Con quel gioiellino ottenuto nel mercato nero poteva
entrare
in qualsiasi sistema informatico, poteva manomettere il circuito che
manteneva
stabili le funzioni della cupola di energia modificando a piacere il
logaritmo
principale: alle prime luci dell’alba il giardino pubblico
sarebbe diventato un
inferno di fuoco. Era un’ottima alternativa ai classici
ordigni esplosivi che
doveva fabbricare con le sue mani, eppure l’idea lo
entusiasmava solo fino
ad un certo punto, la sua mente era ancora disturbata dal comportamento
di
Dylia.
Ti propongo una sfida,
tu e io.
Al diavolo quel
dannato sbirro! Avrebbe potuto
lasciarlo legato al letto mentre chiedeva l'intervento dei suoi
colleghi. Se
l'avesse fatto, a quest'ora non sarebbe stato in quel parco, ma in una
stanza
buia in attesa di una condanna a morte già scritta.
L’idea che il mondo potesse
continuare indisturbato anche senza di lui, gli
provocò un moto di
ribellione. Si sollevò di scatto dallo schienale ringhiando
qualcosa contro un
passante che accelerò il passato spaventato. Si sentiva
fuori dal sistema, un
ingranaggio rotto che non serviva a niente. Una smorfia crudele
affiorò sul
quel volto che sfiorava la perfezione; il pensiero di portare il caos
nella calma immacolata
di quella schifosa città riapparse più vivido
nella sua mente.
Senza coinvolgere
più nessun innocente. Ci
stai?
La
verità - pensò - è che nessuno
è innocente in questo mondo.
Portò il piccolo
rettangolo luminoso vicino alle labbra e registrò il
messaggio, così come
l’aveva pensato, dopodiché digitò
qualcosa e attese con lo sguardo verso il
cielo, osservando il bagliore lontano delle stelle rese opache dalla
cupola.
Dylia sussultò nel letto dove si era appena assopita accanto
al suo robot
quando avvertì l’inaspettato rumore
dell’impianto audio dell’appartamento
attivarsi.
Si
alzò bruscamente e si guardò intorno un
po’ frastornata. Ci mise qualche
secondo per capire da dove provenisse quel fruscio metallico.
«Oliwar! Ricevi
qualche segnale anomalo in entrata?»
Il robot, che fino ad allora era rimasto sempre vigile, rispose con
tono piatto
restando steso nella sua posizione. «Si tratta di un segnale
pirata. L’ho
bloccato prima che fosse trasmesso in vivavoce dai diffusori
acustici.»
«Fammelo sentire!», ordinò.
Oliwar
allora si alzò e usando lo stesso tono di voce di Shulik
ripeté quelle parole:
«La verità è che nessuno è
innocente in questo mondo.»
1-
Space
lag: jet lag che si sperimenta dopo lunghi viaggi nello
spazio.
* Oliwar, il nome del robot domestico di Dylia,
è ispirato al nome di R. Daneel
Olivaw, robot che affianca il protagonista di Abissi d'Acciaio
di I. Asimov, il
mio libro di fantascienza preferito.
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Capitolo 3 *** Diavoli e Comete ***
Incertezze
Cap.3
-Diavoli
e Comete
Sul pianeta Terratre
il clima è perennemente autunnale; per questo motivo il
parco di Street Towers la sera si riempie facilmente
d'umidità e, a
causa di un raro
fenomeno di ionizzazione provocato dal campo d'energia che forma la
cupola
protettiva per la vegetazione, nell'aria compaiono delle
piccole
luci fluttuanti. Sono delle sfere luminose al plasma con un diametro
non
superiore a un
centimetro. È uno spettacolo totalmente innocuo ma,
poiché il parco
viene chiuso prima delle ventidue, per i cittadini non
c’è mai modo di ammirare il fenomeno da vicino.
Quando
arrivò
davanti ai cancelli chiusi, Dylia si
appoggiò trafelata alle sbarre con una mano mentre
con l'altra
frugava
nelle tasche in cerca della tessera magnetica della E-Security per avere libero
accesso ai luoghi pubblici. Aveva
percorso il chilometro che separava il suo appartamento dal
parco di
corsa. Sopra i vestiti aveva indossato un trench beige che per la
fretta aveva
lasciato sbottonato; era scalza e i capelli sciolti si articolavano in
ciocche
ribelli davanti agli occhi. Oliwar ci aveva messo appena qualche
secondo a
tracciare la posizione da cui era partita l’interferenza che
si era intrufolata
nel sistema domotico della sua abitazione e lei ci aveva messo
altrettanto
per comprendere il significato di quella frase di Shulik: La verità
è che
nessuno è innocente in questo mondo.
Quel criminale si era rimangiato la
promessa e stava per commettere qualcosa di serio, ne era certa.
Finalmente trovò la tessera, la mostrò alla
telecamera sul cancello e le porte si aprirono. Le prime sfere luminose
si erano già formate e fluttuavano a
mezz’aria creando un'atmosfera
magica. Sembravano
quegli insetti dal corpo luminoso che aveva visto in un film storico
sulle leggende del
primo mondo. Lucciole, le chiamavano.
Si
guardò intorno in cerca di Shulik aiutandosi con la luce dei
pochi
lampioni sparsi nel luogo. Era agitata, ma si trattava di
un’agitazione
strana, quasi piacevole,
adrenalinica. Poi lo vide, seduto su una panchina con in mano qualcosa:
un
domosintetizzatore. Uno di quegli insignificanti gingilli tecnologici
tra le
mani di
un bravo hacker poteva diventare un aggeggio letale, in grado di
innescare
una
reazione nucleare a partire dai sistemi di depurazione
dell’aria della città.
Attorno
alla figura di quel
criminale dagli occhi diabolici e dai capelli neri come la notte,
aleggiava un'aura negativa di pericolo. Eppure in quel momento Dylia,
osservandolo avvolto nella penombra e circondato da coriandoli
di
luce, sentì che c’era qualcosa di umano
in lui e provò un'emozione simile alla compassione.
«Mi
fa piacere tu abbia accettato l’invito», disse lui
senza sollevare lo sguardo.
«Appoggia
lentamente
quell’arnese a terra e alza mani.»
Shulik la
guardò con un sorriso divertito. Il parco a
quell’ora era
avvolto nel silenzio, l’umidità e le luci
mantenevano un clima piacevole; in circostanze normali non sarebbe
stato difficile eliminare ogni pensiero negativo per godersi quella
calma ipnotizzante.
«Rilassati,
non ho ancora fatto saltare in aria nessuno.»
Sogghignò, lasciandosi ricadere
sullo schienale della panchina. Quell’indifferenza
urtò emotivamente Dylia, che
avanzò più aggressiva di prima fermandosi ad
appena qualche passo da lui.
«Per
quanto tempo continuerai a recitare questa farsa?», la
provocò, ma la ragazza
non capì a che cosa volesse riferirsi.
«Perché
mi hai mandato quel messaggio?», replicò lei. Una
domanda per un’altra domanda: è
così che funziona tra due nemici che cercano di studiarsi a
vicenda per
anticipare la mossa dell’altro.
La
verità è che nessuno è innocente in
questo mondo.
No, la verità è che quel
messaggio di Shulik sembrava un grido disperato d’aiuto,
sembrava quasi voler
dire: “corri qui e fermami!”
Shulik mise
bene in mostra il
domosintetizzatore
giocherellandoci con le dita, ma Dylia non si
lasciò intimorire.
«Rispondi
alla mia domanda: perché quel messaggio?»,
insistette, scandendo bene le parole e cercando di apparire calma.
«La
domanda che dovresti porti è: perché
no?», ammiccò lui.
La
sua noncuranza iniziò a darle sui nervi. Cercò il
taser decisa più che mai a
dargli una lezione, ma non lo trovò: aveva lasciato la
cintura con le armi in
dotazione nell’appartamento. Gravissima dimenticanza. Shulik
notò quel movimento e la
preoccupazione negli occhi della ragazza dopo che non aveva trovato
ciò che cercava.
«A
quanto pare la situazione si è capovolta», disse.
«Come farai, senza armi, a impedirmi di provocare una
strage?»
Dylia
avanzò ancora, fino a trovarsi a meno di
un metro dalla
panchina su cui era seduto.
«Hai
dato la tua parola che non avresti più coinvolto gente
innocente.»
«La
mia parola vale meno di zero.» Abbassò lo sguardo
e notò solo allora che la
ragazza aveva i piedi nudi. Probabilmente, se aveva fatto tutta la
strada di
corsa, si era procurata delle escoriazioni, ma mascherava benissimo
il
dolore.
«Anche
tu sei una persona», iniziò
Dylia «ergo anche tu hai un'anima
e…», ma lui la interruppe bruscamente con
tono sprezzante.
«Ci
tieni davvero a questa massa di idioti! No, io non
sono una persona, non lo sono più da anni.»
Appoggiò il domosintetizzatore su
un angolo della panchina e sospirando lasciò cadere la testa
indietro. Alle solite stelle rese opache dalla cupola d'energia, ora si
erano
aggiunte anche quelle inutili luci fluttuanti. Pensò che la
situazione che stata vivendo sfiorava
l’inverosimile. Quand'era stata l'ultima volta che aveva
parlato così apertamente a uno sbirro? Non lo ricordava,
forse quella era la prima volta. Si sentiva strano, sentiva che con lei
poteva
parlare: doveva
sicuramente essere impazzito. Avrebbe voluto invitarla a
sedersi accanto a lui e raccontarle
tutto,
ma allo stesso tempo aveva voglia di afferrarla e stringerla con
violenza fino a
farla
gridare.
«Domattina,
quando il parco riaprirà, farò saltare questa
cupola con tutte le persone che
vi si troveranno dentro al momento, perché sono le stesse
persone che mi hanno
ridotto così.»
Nonostante
la gravità dell’affermazione, la sua voce aveva
perso quel tono arrogante di poco prima. Quando tornò a
guardare nella direzione della ragazza se la ritrovò seduta
di fianco:
lo fissava con
un’espressione indecifrabile, i suoi lunghi capelli ramati le
ricadevano in ciocche sulle spalle e le
incorniciavano graziosamente il viso.
«Tu
non hai ucciso nessuno, forse è per questo che ti ho
lasciato andare», disse
continuando a fissarlo con quello sguardo particolare: gli occhi come
due
grandi
specchi in grado di catturare l’essenza delle cose e degli
esseri viventi.
«Non
sparare cazzate, sbirro!» Questa volta il tono aggressivo
nella sua voce era
palpabile. «Non hai sventato tutti i miei attentati! Se
c’è una cosa di cui ho
la certezza, è che sono un assassino. Sì, certe
volte non
c’è altra soluzione se si
vuole continuare a esistere. Io ho ucciso! E ucciderò
ancora! Forse tu potresti essere la mia prossima vittima...»
I suoi occhi,
sconvolti dalla rabbia che riaffiorava,
incontrarono quelli di Dylia
che sussultò. Erano a qualche centimetro di distanza uno
dall’altro: la legge e
il crimine, il bene e il male, il giorno
e la notte.
«Tu
non hai ucciso nessuno», insistette la ragazza,
«non sono state le tue mani, è
stato il fuoco e il metallo degli ordigni che hai fatto
esplodere.»
Shulik
la afferrò per le spalle con uno scattò violento.
«Se stai cercando di…», non
trovando le parole la strinse più forte e sentì
il tessuto del trench che
indossava stropicciarsi sotto le sue dita. «Se stai cercando
di
redimermi, è fiato sprecato, sbirro!»
Per
un attimo che sembrò eterno, la luce dei loro
sguardi si fuse. Gli
occhi verdi della
ragazza incontrarono il buio della notte degli occhi del criminale
dando vita,
in qualche remota parte del cosmo, ad un universo parallelo in cui i
diavoli
ribelli piangevano e le comete d’argento li consolavano.
«Che
idea folle!», disse Dylia scrollandosi bruscamente di dosso
le
mani dell’uomo e
alzandosi. «Uno a zero per me!», sorrise e
sollevò la mano destra in un gesto che poteva
sembrare un
saluto, ma che in realtà aveva lo scopo di mostrare il
domosintetizzatore che aveva afferrato mentre lui era distratto. Dopo
un
attimo di spiazzamento, Shulik capì di essere stato giocato,
allora unì le mani in un
lento applauso. «Brava. E
dimmi, come farai a impedire che alle prime luci dell’alba si
scateni
l’inferno? Lo sai che basta un errore nella riscrittura del
logaritmo per
provocare il caos in tutto il quartiere?»
Dylia
non rispose alla provocazione, si voltò e iniziò
ad allontanarsi; aveva già in
mente una soluzione. Sentì in lontananza la voce di Shulik
urlare: «Mi faresti
un favore se mi riportassi quel gioiellino quando hai finito!»
«Non
sono un corriere espresso!», gli urlò lei di
rimando, continuando per la sua
strada.
Percepì
distintamente la sua risata.
«Anch’io mi sono
divertito, agente!»
Non l'aveva chiamata "sbirro" questa volta, era già qualcosa
di positivo: si girò, ma di Shulik non c'era più
traccia, il lampione vicino alla panchina in cui avevano sostato si era
spento e anche quello
spazio era stato colmato da una manciata finte lucciole fluttuanti.
Il tecnico, suo
collega alla E-Security,
si era trasferito da poco in quello stesso quartiere per dei problemi
nell’edificio
in cui risiedeva prima. Quando Dylia si trovò davanti alla
porta di casa sua nel cuore della notte, ebbe un attimo
d'esitazione.
Si chiese se era proprio necessario rivolgersi a lui a quell'ora.
Avrebbe potuto affidare il domosintetizzatore a Oliwar; lo avrebbe
analizzato
con l’aiuto del nuovo cip installato, ma il pensiero che
fosse una mente
artificiale e non una mente umana a occuparsi della faccenda non la
faceva
sentire abbastanza tranquilla. Ecco perché ora stava per
svegliare quell'uomo di cui non ricordava
nemmeno il nome. A lavoro si salutavano ogni giorno giacché
i loro
uffici erano adiacenti, ma in realtà tra loro non c'era
molta
confidenza. Se non ci fosse stata una targhetta sulla porta a
ricordargli
il suo nome, probabilmente avrebbe fatto la figura di quella che non sa
nemmeno
con chi lavora.
Paul. Forse era lo stesso Paul che aveva cercato di
ripristinare l’ordine nei tabelloni della
stazione Damon. Non
glielo avrebbe
mai chiesto e così non ne avrebbe mai avuta la certezza.
Di notte Paul
collegava la suoneria del telefono e il suono del
videocitofono agli
auricolari che indossava; teneva il volume piuttosto basso, in modo da
evitare
infarti nel caso qualcuno lo svegliasse per un'emergenza nel bel mezzo
del riposo, quindi vi mise un po' a realizzare quello che stava
succedendo
quando Dylia premette il pulsante alla porta. Si alzò dal
letto cercando di non svegliare sua moglie ed entrò in
soggiorno dove un minischermo mostrava il volto di chi stava sostando
davanti l'entrata.
«Paul,
mi servirebbe il tuo aiuto», bisbigliò Dylia
attraverso il microfono del videocitofono cercando di
sfoderare un sorriso compassionevole.
Il tecnico aveva
stampata in faccia un’espressione tra l'assonnato e il
frastornato.
«Dylia, sei proprio tu? Sai che ore
sono?!»
«Sì,
e mi dispiace moltissimo di averti svegliato, ma fidati, se non si
trattasse di
una
faccenda seria, non lo avrei mai fatto.»
L'uomo le
aprì la porta e la invitò ad entrare.
«Fai piano. Mia moglie e mia figlia dormono.»
Si
accomodarono in cucina e solo allora Dylia mostrò il
domosintetizzatore. Alla vista di quell’oggetto, il viso di
Paul
si contrasse in una
smorfia di
preoccupazione.
«Per
la miseria! Se mi avessi detto subito che si trattava di un DSZ1…
avremo potuto sistemare la faccenda altrove, non in casa
mia!», disse cercando
di controllare il tono della voce. Poi prese in mano l'oggetto
con delicatezza e iniziò a studiarlo attentamente. Nel
giro di una decina di minuti riuscì ad entrare nella
programmazione generale
del domosintetizzatore senza troppe complicazioni.
«È
tutto a posto», concluse.
«Lo
hai… disattivato?»
«Non
c’era nulla da disattivare.»
Dylia
assunse un’espressione incredula. «Vuoi dire che
non avrebbe fatto saltare
nulla?»
«Già.
Ora, visto che mi hai svegliato alle tre di mattina per
niente, potresti
almeno
spiegarmi dove l’hai trovato questo affare, no?»
La ragazza non
rispose, era ancora piuttosto confusa.
L’altro
si limitò ad osservala severamente per qualche istante; gli
fu subito chiaro
che nascondeva qualcosa, ma decise di non insistere:
era stanco e
non vedeva l'ora d'infilarsi nuovamente sotto le coperte. Dylia si
rimise l’oggetto in
tasca e, dopo
infinite scuse, tolse il disturbo e se ne tornò a casa.
Una cosa positiva in tutto quel trambusto c'era: non si sarebbe
più scordata che il tecnico si chiamava Paul.
«Agente
Dylia, è da qualche giorno che noto qualcosa di strano in
lei.»
Quando, dopo una
convocazione nel suo ufficio,
il capo della E-Security dava il
buongiorno così, c’era da aspettarsi il peggio.
Dylia non immaginava che il
tecnico avesse fatto rapporto sul loro incontro, ma lo capì
immediatamente
dalla frase
successiva.
«Ora
lei mi spiega esattamente come e dove di preciso ha ottenuto un
DSZ.»
«Io…»,
esitò la ragazza, «l’ho trovato ieri
sera nel
giardino di Street Towers.»
«E
chi ce lo ha portato lì?», continuò
l'altro pazientemente.
Ce
l'ha portato Shulik,
signore! So di aver sbagliato non
informandola subito. Mi permetta di rimediare affidandomi
il caso
di quel criminale!
Queste erano le parole che Dylia intendeva pronunciare, ma
dalla sua bocca invece uscì tutt’altro: «Non
lo so.»
Il
capo la scrutò per qualche istante restando in silenzio;
dalla sua
espressione contratta sembrava che stesse compiendo un notevole sforzo,
come per cercare di decifrare una calligrafia illeggibile.
Poi,
senza mutare espressione, elargì la sua sentenza:
«Lei sta combinando qualcosa,
agente Dylia, e questo suo comportamento non mi piace per
niente.» Cercò un
sigaro nel cassetto e non trovandolo s'innervosì.
«Sa che cosa rischia, vero?»
Dylia
trattenne il respiro. Lo sapeva benissimo. Nel migliore dei casi le
avrebbero
ritirato il distintivo per qualche mese, nel peggiore un
pianeta-circondariale sarebbe diventato la sua eterna e lugubre dimora.
«È
la verità, signore! Una segnalazione anonima mi ha avvisato
della
presenza di quel
dispositivo. Non so chi ce l'abbia portato.»
«Mi
auguro che sia vero, perché se così non
fosse… dovrei credere che lei sta
tentando di proteggere un criminale e questo farebbe di lei la sua
complice!»
Studiò
ancora per qualche attimo l'espressione della ragazza in cerca della
verità,
poi le fece cenno di uscire con una mano.
Aveva
troppi anni di esperienza sulle spalle per farsi fregare in quel modo,
ma
continuare
a discutere in quel momento non avrebbe portato a nulla. Era
certo che
Dylia nascondesse qualcosa com’era certo del fatto di aver
terminato la scorta
di sigari, così, non appena la ragazza ebbe lasciato
l’ufficio, compose il
numero dei colleghi affiliati nel campo dello spionaggio.
1- DSZ:
abbreviazione tecnica di domosintetizzatore.
Rileggendo, mi son resa conto che Terratre, il nome del pianeta,
potrebbe sembrare anche il nome di un canale TV, poco male. XD
Vi posso spoilerare che uno dei prossimi capitoli
conterrà
delle informazioni chiave per comprendere il significato del titolo e
vi sarà una
spiegazione del principio di funzionamento della tecnologia di
trasposizione utilizzata nel dipartimento di Dylia.
Fatemi sapere come vi è sembrato questo capitolo e non
abbiate
timore di farmi notare qualcosa che secondo voi andrebbe migliorato.
|
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Capitolo 4 *** Scissione d'Anima ***
Sciossione d'Anima
Cap.4
-Scissione d'Anima
Gli
ultimi giorni erano trascorsi in modo relativamente tranquillo.
Sembrava che
Shulik avesse deciso di prendersi una vacanza, il che poteva sembrare
un bene
per l’umanità, ma per Dylia non lo era affatto.
Non era nemmeno lontanamente concepibile
che un’agente del dipartimento di trasposizione sperasse
nell'arrivo in centrale di un allarme per un possibile
attentato, eppure quel
pensiero le si
aggirava nei meandri della mente da un po’. Non
c’era nulla da fare, il lavoro
d’ufficio la deprimeva e certe idee sconclusionate
affioravano senza
preavviso. Un tempo, quando nei periodi di calma si trovava confinata
davanti la sua scrivania, passava in rassegna tutti i negozi online in cerca di nuovi
cip
specializzati per upgradare le funzionalità di Oliwar;
adesso anche quel suo
hobby non la soddisfaceva più.
Durante
la pausa pranzo scelse di recarsi nella mensa pubblica. Odiava quel
posto, ma
la voglia di immischiarsi in qualche casino l’aveva
inconsciamente portata lì.
Si mise a fissare il piatto che aveva ordinato tenendo la forchetta a
mezz’aria.
Era l’ora di punta, quindi il locale era affollatissimo e
c’era un baccano
insopportabile. Se avesse avuto una pistola al posto del taser, avrebbe
potuto
sparare un colpo in aria per ottenere un po’ di
silenzio. S’immaginò in
piedi sopra al tavolo con la pistola ancora fumante e i pezzi
d’intonaco
staccati dal soffitto che ricadevano a terra. Da quando la sua mente
creava
fantasie così ribelli e squilibrate? Da quando aveva
incontrato quel Shulik a
Damon. La chiave di tutto stava lì. Fu riportata con la
mente al presente dalla
voce di un giovane.
«Ciao.
Non ti ho mai notata prima in mensa. Mi chiamo Saati.»
Dylia
guardò il suo interlocutore: era il tipo che si era seduto
davanti a lei
qualche minuto prima e che da allora non aveva mai smesso di fissarla
con
un
fastidioso sorrisetto. Aveva gli occhi troppo chiari, i capelli
troppo pettinati e gli abiti troppo formali; non riusciva a
sostenere il suo
sguardo per
più di
qualche secondo senza sentirsi trasportata in una dimensione intrisa di
finzione.
«Dici
a me? Di solito vengo qui per mangiare, non per conoscere nuova
gente.» Appena
ebbe proferito quelle parole si sorprese d'aver usato quel
tono scortese.
«Non
volevo sembrarti inopportuno…», si
scusò
il ragazzo.
«No,
figurati. Scusami
tu. Ho una giornata un po’ particolare. Non mi piace venire
qui a mangiare, c’è sempre
troppa confusione.»
Il
ragazzo rimase per un attimo ammutolito, poi rise. «Eppure
oggi sei entrata qui e hai ordinato quel piatto,
perché?»
«Ha
importanza?», sbuffò annoiata.
«Beh,
dipende. Se sei una di quelle persone che credono nel destino, una
certa
importanza ce l’ha. Credi nel destino?»
«Sono
una traspositrice. Credo che il destino lo creiamo noi.»
Il
volto di Saati s’illuminò. «Stai
scherzando?! Io sono un appassionato di
scienza della trasposizione. Di professione sono archivista, ma ho
letto
parecchi videolibri sulla trasposizione. Se questo non è
destino!»
Per tentare un
approccio simile, doveva essere abbastanza disperato.
Dylia
decise di ignorarlo. Aprì una bustina di
mirtillo
gubiano e la riversò sulla
sua pietanza; non contenta, strappò una bustina di
salsa
di funghi ecend e
svuotò
completamente anche quella colorando
vivacemente la sua porzione, poi iniziò a
mangiare e
trovò che il cibo, così condito, avesse un sapore
delizioso.
«Non
avrai intenzione fissarmi per tutto il tempo?»,
disse, sentendosi gli occhi dell'altro addosso.
«Scusa,
è che pensavo… dopodomani
nella Biblioteca Mondiale si terrà una conferenza
sulla trasposizione
presieduta da un massimo esperto in materia, il dottor
Càusier...» s'interruppe e, portandosi una mano
sulla nuca, assunse un’espressione
un po’ imbarazzata.
«Vorresti
invitarmi a venire con te?», chiese Dylia. «Ci
conosciamo da qualche minuto e
non sai nemmeno come mi chiamo.»
«Vero,
può sembrare pazzesco, ma...»
«D’accordo!»
«Cosa?»
«Dopodomani
è domenica, lavoro solo in caso d’emergenza e non
faccio un salto da quelle parti da troppo tempo.»
Saati
spalancò la bocca in un sorriso. Dylia sperò che
non si facesse troppe
illusioni; se aveva accettato era soprattutto perché aveva
voglia di cambiare aria dopo quelle giornate di stasi che stava vivendo.
Erano le quattro in punto del pomeriggio quando Dylia
raggiunse la Biblioteca Mondiale con una
navetta planetaria diretta. Aveva
lasciato a Oliwar le coordinate esatte della sua ubicazione e il
compito di rispondere a eventuali chiamate d’emergenza
provenienti dalla E-Security.
Prima
di allora era stata un’altra volta alla Biblioteca Mondiale:
quando faceva
ancora parte della squadra di assalto, alcuni agenti erano stati
chiamati per
scortare un ministro che doveva tenere un discorso proprio
lì.
La biblioteca,
contrariamente a quanto potrebbe far pensare il nome, in
realtà
non conteneva
libri, ma un avanzatissimo sistema informatico di archiviazione. Si
potevano
consultare documenti di ogni genere e periodo storico tramite
una
chiave d'accesso ai dispositivi, che si otteneva solo dopo aver
espresso
il desiderio di registrarsi con qualche mese d'anticipo.
Dagli ingredienti per fare un tiramisù alle
incisioni presenti sulla leggendaria Stele di Rosetta, dagli articoli
di giornale
sulla Grande Guerra agli archivi top secret della Base
Interstellare Dobson, qualunque
cosa era conservata in
pacchetti
di dati compressi nel computer centrale della biblioteca.
L’edificio
era come se lo ricordava: eccessivamente sfarzoso e grande per
la funzione che
ricopriva, con le sue colonne in marmo bianco sull'entrata e i suoi sei
piani intervallati da terrazze con ringhiere in stile barocco.
Trovò Saati, il ragazzo conosciuto casualmente due
giorni
prima nella mensa pubblica, ad aspettarla all’entrata come
d’accordo. La
conferenza sulla trasposizione sarebbe iniziata da lì a
cinque
minuti. Saati, da grande appassionato di scienza della trasposizione,
tramite certi agganci era
riuscito a procurarsi due posti in quinta fila. Non male, se si
considerava che
le prime tre file erano occupate da esponenti di pubblico rilievo.
La
sala in cui furono fatti accomodare era immensa. Il soffitto
era
alto almeno cinque metri e le pareti erano adornate da schermi
olografici
programmati per proiettare immagini a tema con l’evento.
Il
relatore, l’esperto il dottor Càusier,
arrivò con qualche
minuto di ritardo, ma
non si perse in convenevoli e diede subito inizio alla lezione,
partendo dalla
storia dell’invenzione del macchinario per la trasposizione.
Càusier era un
uomo minuto che amava vestire all’antica; nonostante i
capelli
e i baffi quasi completamente bianchi, il suo volto dimostrava almeno
dieci anni in
meno di quanti ne aveva
in realtà.
Iniziò
spiegando che quando Grant Everymet, scopritore della trasposizione,
capì che
la coscienza poteva essere indotta ad agire fuori dal corpo fisico,
credette di aver trovato il
metodo per studiare
l’anima. «Ma si sbagliava, perché
ciò che in realtà aveva scoperto era il
corpo astrale»,
disse, modulando
abilmente
la voce per mantenere viva l'attenzione del pubblico. «L’anima
è una parte molto più sottile, indissolubilmente
legata
al corpo fisico, tanto che se si tenta di scinderla da un essere
vivente, la
vita stessa finisce. Everymet scrisse persino un libro intitolato
“Scissione d’Anima” in
cui esponeva i suoi studi...»
Sui
monitor olografici sulle pareti comparvero alcuni schemi presenti sulle
pagine originali del libro, accanto ad essi il
volto dello scienziato: un uomo brizzolato con un’espressione
rassicurante,
ritratto mentre indossava un camice bianco da laboratorio.
«Qualche
anno dopo corresse le sue teorie. Fu il caso che lo fece ravvedere.
Proprio
durante un temporale, un fulmine centrò l’impianto
elettrico del suo
laboratorio e riversò una scarica di qualche gigawatt di
potenza su un
prototipo del macchinario per la trasposizione su cui stava lavorando.
Gli
elettrodi poggiavano su un tavolo di legno che non riportò
alcun danno, ma…»,
osservò per qualche istante la platea che pendeva dalla sue
labbra, curiosa di
ascoltare il seguito e poi riprese:
«la cosa sorprendete fu che questo continuò a
vedersi anche quando Grant lo
spostò. La potenza del fulmine ne aveva separato la parte
astrale.»
«Il tavolo fantasma!», scherzò Dylia. Un
uomo davanti di lei si girò e le lanciò
un’occhiataccia.
Qualcuno
verso il fondo della sala si alzò in piedi per chiedere la
parola. «Mi scusi,
questo significa che ogni cosa e ogni persona ha un
“doppio”?»
«Non
è così semplice come sembra. Qui si entra in un
campo che
comprende gli studi
sulla meccanica quantistica e le scienze parapsicologiche. Comunque,
sì,
semplificando al massimo, si potrebbe dire che ogni essere vivente e
ogni oggetto ha un “doppio” nel piano
astrale.»
Il dottor Càusier
si voltò verso il fondo del palco e attese i due robot
inservienti che sbucarono puntuali da dietro le quinte. Uno spingeva un
carrello a
due piani: in cima era disposto un portatile, nel
vano inferiore c’era la tuta ad elettrodi e il macchinario
per
la
trasposizione; l’altro robot invece trascinava un
lettino di quelli
neri e bassi che si vedevano negli studi degli psicologi.
«Per
capire meglio propongo un esperimento pratico», disse l'uomo.
«Qualcuno tra
il pubblico ha già sperimentato la trasposizione prima
d’ora?»
Dylia
si sorprese con la mano alzata. Quando, un attimo dopo, si
voltò e si rese
conto di essere l’unica, riabbassò la mano, ma il
danno era già fatto.
«Prego,
come si chiama? Se la sente di prende parte
all’esperimento?» Il dottor Càusier
si stava rivolgendo proprio a lei. Non poté tirarsi
indietro, così si alzò
e salì sul palco. Si
presentò come traspositrice impiegata alla E-Security
e guardò verso la platea: da lì sopra, la sala
conferenze sembrava ancora più
grande e il pubblico ancora più numeroso, ma questo non la
fece sentire troppo a disagio.
«Per
la dimostrazione è sempre meglio che il soggetto abbia un
minimo d’esperienza»,
disse Càusier.
Dylia
indossò la tuta ad elettrodi con la disinvoltura di una
persona
abituata a maneggiare con quella moltitudine di cavi e ventose da molto
tempo, poi si stese sul lettino e
attese. Mentre aspettava, si ritrovò per l'ennesima volta a
pensare a quello che le era successo a
Damon per colpa di Shulik. Era così immersa nei ricordi che
non
sentiva nemmeno
più la voce del dottore che proseguiva con le spiegazioni.
«Ora,
visto che il corpo astrale è collegato ad uno
strato profondo dei processi psichici,
bisogna indurre la paziente ad un sonno intenso in modo che
l’inconscio riaffiori, un po’ come
accade la notte quando sogniamo.»
Càusier controllò che la
ragazza si fosse
sistemata a dovere e poi azionò la macchina. Dylia non
percepì nemmeno il
cambio di dimensione; per qualche istante credette di essere ancora sul
lettino
della sala conferenze in attesa dell’arrivo del sonno
indotto,
poi realizzò che
il luogo in cui si trovava era troppo buio e disordinato. Il dottor
Càusier non
aveva specificato di aver sistemato un dispositivo per la distorsione
del campo
elettromagnetico in un altro posto: se voleva fare una dimostrazione
per il
pubblico in sala, un tale marchingegno non gli serviva. Si
guardò intorno con
una strana sensazione di smarrimento addosso, riconobbe di essere su
qualcosa
di morbido, un materasso malridotto accostato alla parete fatiscente di
una
stanza. Sul pavimento ai suoi piedi vi era una cassetta degli attrezzi
ribaltata,
il contenuto era sparso ovunque. In alto, il soffitto sembrava quello
di
un
hangar. Poteva trovarsi ovunque, anche dell’altra parte del
mondo.
Intanto,
nella sala conferenze della Biblioteca Mondiale, il dottor
Càusier continuava
con le spiegazioni: «Ovviamente il corpo astrale non si
può vedere, ma
sicuramente quello di Dylia sta passeggiando qui in giro.»
Qualcuno dei presenti si guardò intorno incuriosito, come se
stesse
assistendo ad uno spettacolo di magia e si aspettasse da un momento
all’altro la
materializzazione della volontaria nell’altro capo della
stanza.
«Mentirei
se vi dicessi che nessuno è in grado di vedere il corpo
astrale», continuò, «in
tempi antichi, infatti, si parlava di sensitivi:
persone dotate di un’abilità innata a percepire
interferenze
provenienti da altre dimensioni.» Fece una breve pausa
durante la
quale si spostò
verso il computer collegato all’apparecchiatura.
«La
scienza oggi ci ha
permesso di elaborare un programma in grado di rendere visibile il
corpo
astrale anche senza possedere particolari abilità
parapsicologiche. Non a caso
il programma è stato chiamato l’occhio
del sensitivo. E ora proveremo a scoprire che cosa sta
facendo la nostra
volontaria durante il sonno.» Sorrise come un mago a cui sta
riuscendo il trucco
più bello della sua carriera, ma quando azionò l’occhio del sensitivo, il
sorriso gli si spense nel volto e dalla sala si
levò un inquieto mormorio. La figura evanescente che
è si era materializzata vicino
al corpo di Dylia era quella di un estraneo. Era una figura oscura che
stava
chinata a guardare la ragazza addormentata, la figura di un uomo dai
capelli neri come la notte, occhi indiavolati e volto dai
lineamenti paradossalmente aggraziati. Lo sguardo maligno di quel
doppio astrale sconosciuto si sollevò di scatto verso il pubblico lasciando tutti
ammutoliti.
Mentre
si aggirava in quel luogo decadente, solo parzialmente illuminato dal
sole che filtrava dai
lucernai, Dylia pronunciò una frase: «Il dottor
Càusier mi
dovrà delle spiegazioni.» E
nel tono di voce di quella frase non si riconobbe, non riconobbe
nemmeno la carnosità delle labbra che l’avevano
pronunciata, così
si
avvinò a
una delle finestre verso est, in modo che i raggi del sole pomeridiano
riflessi
potessero fare da specchio e si osservò.
Saati,
che fino a quel momento aveva assistito all’esperimento dal
suo posto, si alzò in
piedi e urlò: «Fermate immediatamente il processo
di trasposizione! Presto!»
Il
dottor Càusier tornò velocemente davanti al
computer per cercare di annullare
il processo, ma i comandi non rispondevano. La figura minacciosa dai
contorni
evanescenti, che era comparsa al posto del doppio astrale della
ragazza, iniziò ad
agitarsi. Di conseguenza, il battito cardiaco di Dylia
aumentò e il suo corpo addormentato fu colto dai fremiti
come
se cercasse di svegliarsi ma qualcosa lo glielo impedisse.
«Fermi
questa macchina!», intimò nuovamente Saati che
intanto era salito sul palco sotto gli occhi sbigottiti del pubblico.
«Crede
che non ci stia provando!», urlò di rimando
Càusier. Un attimo dopo scattò il sistema
d'emergenza, la
corrente fu tolta e non appena il macchinario per la trasposizione si
spense, la figura
sconosciuta si dissolse.
Dylia
si svegliò una mezz’ora dopo su un lettino diverso
da quello in cui ricordava di essersi coricata: doveva trovarsi in una
saletta della biblioteca adibita
a infermeria. Riconobbe la voce di Saati in lontananza e, dopo
essersi portata a sedere, vide che c’era anche il dottore
Càusier. Quest’ultimo,
quando si accorse che si era svegliata, le si avvicinò
ansioso.
«Come si sente?»
«Strana.
Direi quasi... lontana.»
«Stia
tranquilla, fortunatamente il peggio è passato.»
«Ma
che cosa è successo?», chiese.
«Perché non ha detto di aver usato un dispositivo
per la distorsione del campo elettromagnetico?»
«Perché
non l’ho usato. Tendo a pensare che durante una delle sue
ultime trasposizioni
qualcuno sia entrato a contatto con lei mentre era addormentata.
È sempre un’operazione molto
rischiosa e delicata questa, se poi qualcuno s'intromette durante il
processo… Gli
elettrodi che aveva addosso hanno, mi si passi il termine,
“catturato”, parte
del corpo astrale della persona che l’ha toccata.
È così? Ha avuto un contatto
indesiderato?»
Per
qualche attimo Dylia rimase in silenzio a riflettere. Quella
considerazione
proposta da Càusier era il tassello mancante del puzzle, la
spiegazione che
stava cercando da un po', la chiave per decifrare le strane sensazioni
che da un po' avvertiva.
«Riesce
a ricordare qualcosa di utile?»,
insistette Càusier.
«Sì... sì, c’era qualcuno con
me durante la mia ultima
missione», ammise finalmente.
«Questo
prova la mia teoria. Vede, quell’evento che lei ha
sperimentato
può non
significare niente, ma può anche significare
moltissimo.»
Notò l'espressione confusa
sul volto di Dylia, allora continuò: «Mi
spiego
meglio: la parte del corpo astrale
appartenente all’altra persona potrebbe svanire lentamente e
tutto tornare alla normalità. In questo caso non ci sarebbe
alcuna conseguenza. È altresì
possibile che anche parte del suo doppio astrale sia stata proiettata
nel corpo
sbagliato. Praticamente un po’ di Dylia vive nel personaggio
misterioso, e un
po’ del personaggio misterioso vive in Dylia.»
«Shulik»,
disse Saati, che fino a quel momento si era tenuto a distanza.
«Il misterioso individuo si chiama
Shulik!»
La
ragazza sgranò gli occhi sentendo pronunciare quel nome,
come se solo allora
avesse preso realmente coscienza della situazione.
«Se
siete certi che sia lui, potreste venire entrambi nel mio ufficio per
tentare di
risolvere.»
Dylia
scosse la testa. «Dottore, forse lei non sa
che Shulik è un criminale
pluriricercato.»
«Oh!»
No,
non lo sapeva. «Bhe,
ma non deve preoccuparsi. C’è sempre una soluzione
anche nel peggiore dei
casi», esitò qualche istante per scegliere le
parole più adatte: «Secondo la mia teoria, se le
vostre
anime sono compatibili i vostri caratteri si plasmeranno a
vicenda.»
«Mi
faccia capire», intervenne Saati,
«succederà un po’ come in quei film da
quattro soldi in cui il carattere di una persona finisce del corpo
dell’altra?
Dylia diventerà un’assassina e Shulik
rispetterà finalmente la legge?»
Càusier
non fece in tempo a confermare o smentire, perché Dylia si
alzò con decisione e, prendendo
con violenza Saati per la giacca, gli urlò contro:
«Non
succederà, razza di deficiente!», poi lo
strattonò e gli
arruffò i
capelli. «Non ti sopporto
più con i tuoi capelli troppo pettinati e i tuoi
vestiti
da cretino! Non
so nemmeno perché ti ho rivolto la parola quel giorno in
mensa. Sei
insopportabile! Vattene!» Lo spinse
fuori dalla porta e
dopo averla richiusa alle sue spalle si portò una mano al
petto
e riprese fiato. Si
rese conto di aver il cuore così agitato che sembrava
volerle
uscire dalla
scassa toracica. Il dottor Càusier non sembrò
affatto sorpreso
di quella sfuriata;
aveva la tipica espressione di qualcuno che vede le sue congetture
realizzarsi.
Quando ritrovò la calma, Dylia si rivolse al dottore:
«Era lui, vero? Ci
sarà pure un modo per controllarlo...»
«C'è
sempre un modo»,
disse il dottore con fare solenne.
Prima di andarsene, Dylia sostò nel grande atrio della
biblioteca e
sollevò lo sguardo
verso l'enorme lampadario di vetro che aiutava i raggi del sole
morente a illuminare l'ampia scalinata interna. Altro che biblioteca!
Sembrava un hotel extralusso, un maniero in cui si potevano scovare
anfratti segreti dietro finte pareti.
Sospirò, tormentata dal rimorso di aver trattato Saati in un
modo così duro. Il fatto che non gli fosse
simpatico non
la giustificava ad usare delle maniere brusche; non era da lei agire
così
aggressivamente per futili motivi. Il pensiero che un frammento di
Shulik fosse veramente intrappolato dentro di lei e che
a tratti potesse prevalere sulla sua coscienza,
tuttavia, non la spaventava quanto avrebbe dovuto, anzi la faceva
sentire in qualche modo
più speciale.
Quando, proiettata in quel luogo sconosciuto,
aveva cercato la propria immagine riflessa nelle finestre,
aveva visto lui: per un breve lasso di tempo aveva guardato il
mondo con i suoi occhi e aveva provato quello che lui
provava ogni
giorno. Ora le era chiaro che quell'uomo conviveva con un peso tremendo
che gli logorava lentamente l'animo, qualcosa che avrebbe
potuto trasformare la persona più docile in un killer
assetato di sangue. Al
ricordo di ciò che aveva percepito, le salì il
cuore in
gola e, avvolta dalla solitudine del tramonto, lasciò che
gli
occhi le si riempissero di lacrime.
Incamminandosi fuori dalla
biblioteca infilò le mani in tasca e avvertì sui
polpastrelli il
contatto freddo con un materiale metallico: era il DSZ di Shulik. Forse
ora aveva una scusa in più per riportarglielo.
Note
autore:
Ebbene,
siamo arrivati ad un punto cruciale della storia!
Vi svelo qualche curiosità sul capitolo: la
prima parte, quella
dell'incontro con Saati in mensa, avevo pensato di tralasciarla e
inserirla come missing moment al termine di tutto il racconto,
perché temevo allungasse troppo il capitolo. Poi ho cambiato
idea, et voilà.
La teoria che ogni cosa e persona abbia un "doppio" nel piano astrale
non è una mia invenzione, ma è un tema che si
può trovare realmente in alcuni libri che trattano di
esoterismo.
Come al solito, se ritenete
che qualcosa debba essere migliorato, fatemelo sapere senza paura.
Alla prossima! :)
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Capitolo 5 *** Simmetrie ***
Incertezze
Cap.5
-Simmetrie
Il
giorno precedente Shulik aveva trascorso una pessima giornata. Era
stato al
mercato nero: non quello online, il mercato nero reale, quello che
s’incontrava
nei sobborghi più malfamati della città. Non
doveva comprare niente, c’era
andato solo per incontrare altri come lui. Ad
un certo punto, annoiato dalle minacce di un rivenditore di merce
rubata che non aveva mai pagato, era entrato in un bordello e aveva
chiesto di Margaret,
una
prostituta con una mano bionica che accettava pagamenti in natura. Gli
fu detto
che era in camera con un cliente. Salì le scale,
entrò nella stanza, afferrò il
tizio nudo che stava sul letto con lei e lo sbatté in
corridoio, poi richiuse
la porta a chiave alle sue spalle. Non andava da lei in cerca di
prestazioni
sessuali, ma per qualcosa di molto più costoso.
L’aveva conosciuta tre anni
prima. Lei aveva appena compiuto un furto e aveva la polizia alle
calcagna: se
non l’avesse guidata fra i vicoli labirintici del quartiere
abbandonato,
l’avrebbero arrestata e condannata. Aiutandola nella fuga non
le aveva soltanto
garantito la libertà, ma le aveva anche salvato la vita, per
questo Margaret si
considerava sua debitrice. Si arrabbiò comunque quando
Shulik irruppe in camera
buttando fuori il suo cliente.
«Mi
doveva ancora pagare!», urlò alzandosi dal letto e
indossando la camicia da
notte che aveva abbandonato a terra su un tappeto sgualcito.
«Non
farne un dramma, ti pagherà il doppio domani»,
rispose lui sorridendo maliziosamente.
Lei
storse il naso. «Che cosa vuoi da me, Elar?»
«Chi
è Elar? Non conosco nessuno con quel nome.»
«Ah
già, Elar era un nome troppo per bene per un criminale.
Shulik trasmette più
terrore! Guardami, sto tremando!»
Lui
si avvicinò e, con fare aggressivo, la afferrò
per
le spalle e la costrinse a
sedersi sul letto. «Ora che ti sei vendicata per aver fatto
fuggire quell’imbecille,
stammi a sentire!»
«Sono
tutt’orecchi», disse con un improvviso fare
civettuolo. L’altro si scostò e
rimase in silenzio; Margaret sapeva
perfettamente il motivo della sua presenza lì, ma desiderava
sentirselo dire da
lui. Accavallò le gambe
e lo
guardò intensamente, quindi decise di passare alle
provocazioni.
«Gira
voce che tu abbia preso in simpatia un'agente della E-Esse1
.»
«Cazzate.»
«Allora
perché l’hai risparmiata per ben due
volte?»
«Non
c’era motivo di ammazzarla.»
La
donna piegò leggermente la testa verso una spalla e
socchiuse
gli occhi incorniciati
da lunghe ciglia violacee. «Da quando Shulik ha bisogno di un
motivo per ammazzare
la gente?»
«Volevo
solo divertimi un po’. Quando non mi divertirà
più, ammazzerò anche lei.»
L’altra
sbuffò. «Non vorrei che fosse proprio quella
ragazza il motivo per cui questo
mese sei passato da me così spesso…»
«Se
potessi tornare indietro ti lascerei in mano agli sbirri»,
sbottò lui.
Margaret
sorrise. Provava un certo piacere nel provocare Shulik, ma decise
di non
insistere, non ci teneva a risvegliare la sua collera, ed era chiaro
che
anche
questa volta non le avrebbe dato alcuna spiegazione.
Sospirò. «Ti darò ciò che
vuoi, ma non voglio più vedere la tua faccia qui dentro per
bel po'!» Si
alzò e senza indugio lo baciò sulle labbra.
Fingendo di
provare una passione travolgente,
insinuò le dita fra i suoi capelli neri e li
scompigliò. Margaret sapeva
svolgere il suo lavoro divinamente, ma in quel bacio mancava il sapore
della
verità e Shulik se ne tornò a nel suo rifugio
più tormentato di prima.
Nel
tardo pomeriggio tentò di fabbricare un ordigno esplosivo,
deciso a
farlo saltare
l’indomani in qualche posto affollato per inaugurare
così il ritorno alla sua abituale
attività. Gli mancava solo un circuito secondario per la
regolazione del timer che andò a cercare in una cassetta
degli attrezzi. Quando non lo
trovò, s'infuriò e gettò tutto il
contenuto della cassetta sul pavimento. Fu
allora che la sentì: una scossa elettrica che sembrava
partire
dalla nuca gli
offuscò la vista e gli fece perdere l’equilibrio.
Dopo qualche passo incerto, cadde
seduto sul materasso mezzo disfatto che usava come giaciglio ed ebbe
una
visione: si trovava sul palco di una lussuosa sala mai vista prima,
c’era
anche Dylia addormentata su un lettino, ma quando provò a
chiamarla la voce gli
restò bloccata in gola. Sollevata la testa,
avvertì lo
sguardo di centinaia di
persone addosso, lo guardavano con un’odiosa espressione che
lo irritò in modo
indicibile. Nel momento in cui tornò in sé, si
ritrovò in piedi davanti a una
delle finestre del suo covo rivolte verso est, il sole
pomeridiano
specchiava
la sua
immagine sconvolta sul vetro. Probabilmente fu
quell'episodio che gli diede l'impulso di compiere
l’atto
più sconsiderato che potesse venire in mente ad un criminale
del suo calibro.
Erano
le due di notte passate e Oliwar continuava a ticchettare sui tasti
del
portatile con le sue lunghe dita sintetiche. Stava seduto alla
scrivania della
camera da letto di Dylia, mentre lei dormiva profondamente, avvolta
nelle
morbide lenzuola sognando di intraprendere un viaggio. Più
che un viaggio di
piacere, però, sembrava una fuga. Fuggiva in un altro
sistema planetario
inseguita da una squadra di navette da ricognizione. Nel momento in cui
spararono alla sua navicella si svegliò di soprassalto
ansimante.
Oliwar
abbandonò momentaneamente il suo compito e si
girò verso la ragazza: «Va tutto
bene?»
La
domanda non richiedeva una risposta, poiché il robot
possedeva un cip di
rilevamento dei valori vitali e, nel momento stesso in cui aveva
parlato,
aveva anche analizzato
i dati necessari per arrivare da sé a una conclusione. La
domanda era un
optional richiesto dalle convenzioni sociali. La ragazza lo sapeva, ma
rispose
lo stesso: «Ho avuto un incubo.»
«Posso
prepararti qualcosa di caldo da bere?»
«No,
grazie Oliwar, non serve.»
Ricordò
allora il compito che aveva affidato al robot prima di coricarsi.
«La ricerca
ha dato qualche frutto?»
«Solo
molte analogie che richiedono un’ulteriore
valutazione.»
«Previsioni
sulla tempistica?», chiese lei. Ogni tanto, quando parlava
con
Oliwar si
sorprendeva ad usare un linguaggio standardizzato, come se subisse
l’influenza
del suo interlocutore.
«Tre
ore. Prima che la sveglia suoni avrò trovato qualcosa di
concreto.»
«Bene.»
Richiuse gli occhi e cercò di rilassarsi assaporando la
morbidezza del cuscino.
L’idea
di fornire a Oliwar la descrizione del posto misterioso in cui si era
vista
catapultata durante l’esperimento di trasposizione nella
Biblioteca Mondiale;
le era venuta sulla navetta planetaria di ritorno. Si era messa in
testa che
Shulik vivesse in quel luogo. Il suo era un programma folle e
impulsivo: entrare
nella tana di un criminale armata di un solo taser voleva dire giocare
sconsideratamente con il fuoco. Non aveva ancora deciso in che modo
agire
nel caso in cui l’avesse veramente trovato lì.
Pensò che il giorno seguente, in ufficio, avrebbe avuto
tutto il tempo per formulare con calma un piano e si
riaddormentò.
La
mattina, come previsto, Oliwar aveva trovato un luogo che presentava
un’alta
corrispondenza di particolari con quelli forniti da Dylia. Mentre
faceva
colazione, la ragazza ascoltò quello che aveva scoperto.
«Si
tratta di un laboratorio ormai in disuso da anni. È
collocato nella zona più decadente dei sobborghi del
quadrante est della città.»
«Che
ne dici, ci andiamo a fare un giro quando termino il turno di
lavoro?»
«Sconsiglio
vivamente di recarsi da quelle parti di giorno e tanto meno la sera.
Non
è un posto
sicuro», rispose lui con il solito tono
inespressivo di sempre.
Dylia
bevve l’ultimo sorso di cappuccino, poi si alzò e
raggiunse Oliwar che era
rimasto in piedi. Passò delicatamente una mano sulla pelle
sintetica del suo
viso in un gesto simile ad una carezza. Il volto del robot non
tradì alcuna emozione.
«Certe
volte sembra che tu ti stia preoccupando per me», disse la
ragazza.
«È
così. Mi preoccupo sempre per te, Dylia.»
Lei
sorrise. La sua non si poteva dire preoccupazione, ma
l’effetto di una
complessa interazione fra i circuiti e il cip emotivo installato.
«È deciso!
Che ti piaccia o no, stasera si va incontro
all’avventura!», disse.
Oliwar
non cercò di farle cambiare idea, il che la
lasciò per un attimo sorpresa.
Prima
di uscire di casa ricevette un messaggio dalla E-Security in cui le si intimava
di raggiungere il più velocemente
possibile un centro commerciale non lontano dalla zona industriale
della città.
I sistemi di sicurezza dell’edificio in questione avevano
captato
un’anomalia che era stata
interpretata con la presenza di un ordigno esplosivo. Appena letto
tutto ciò,
Dylia non poté fare a meno di pensare a Shulik.
Indossò il soprabito e si
precipitò in strada in cerca di un taxi.
Dylia
scese dal taxi e osservò per qualche istante
l’impotente struttura del centro
commerciale che le si stagliava davanti. Era un edificio a forma di
prisma più largo che
alto, che come un
iceberg nascondeva buona parte della sua struttura nel sottosuolo.
Innumerevoli
negozi erano stati posizionati nei livelli sotterranei in rispetto
degli
accordi mondiali per lo sviluppo sostenibile.
C’era
molta gente che entrava e usciva sui nastri mobili. Dylia si
affrettò a
entrare tormentata dal pensiero che un ordigno fatto esplodere nel
livello più
basso avrebbe provocato una catastrofe immane.
Fu
sorpresa di non trovare nessuno dei suoi colleghi nella hall e solo
allora rifletté
anche sul fatto che non c’erano volanti della E-Security
nel perimetro esterno. Compose
istintivamente il numero del dipartimento e, quando sentì lo
scatto della
risposta, iniziò a
parlare senza nemmeno presentarsi. «Sono alle coordinate che
mi avete
fornito, ma non
c’è nessuno. Attendo maggiori
istruzioni.»
Il
suo interlocutore esitò qualche istante, il tempo di
controllare a quale agente
appartenesse il numero della chiamata. «Noi non ti abbiamo
inviato nessun
ordine. Dove ti
trovi di preciso?»
«Ci
dev’essere un errore. Se non mi avete mandato voi
l’ordine, chi l’ha fatto?»
Non
seppe mai la risposta del suo collega, perché
qualcuno le
strappò bruscamente il ricevitore dalle mani e lo
scaraventò a terra, rompendolo.
«Tu!»
Fece per prendere il taser dal fodero, ma Shulik gli
immobilizzò le mani prima
che potesse iniziare con le solite noiose intimidazioni. Vestito come
una persona comune, poteva quasi passare per uno perbene, se una
scintilla nel suo sguardo non avesse continuato a tradire quella che
era sua vera natura. Tra la folla
di
persone presenti nel luogo, nessuno notò che Dylia era in
difficoltà; certo le sarebbe
bastato urlare per richiamare l’attenzione di una guardia, ma
non lo fece,
voleva prima capire il motivo di quell’incontro.
«Sta'
tranquilla, non farò saltare il centro commerciale, devo
solo provare una cosa», iniziò
lui.
«Come
diavolo facevi a sapere dove trovarmi?», cercò di
liberarsi dalla presa senza
successo.
«Ti
consideravo più sveglia», ridacchiò
lui,
«il messaggio te l’ho inviato io.»
«Non
è possibile, il mittente era la E-Security,
non puoi aver hackerato il mio computer senza il tuo DSZ.»
L’altro
non rispose. Allungò adagio una mano scostando il soprabito
di lei in quello
che sembrava un maldestro tentativo di abbraccio tra timidi amanti, ma
che in
realtà aveva come
unico scopo quello di disarmarla: con estrema tranquillità
le prese il taser e se lo
infilò nella cintura. Poi trascinò la
ragazza verso gli ascensori privati del personale. Dopo che aver
inserito un
codice nel display le porte si aprirono. Spinse dentro Dylia prima di
infilarsi a sua volta nella cabina, poi cliccò per
due volte il
pulsante del piano più basso. Le porte si richiusero e i due
rimasero a
fissarsi uno di fronte all’altra per una manciata di
secondi, mentre l'ascensore scendeva di diversi metri nel sottosuolo.
Fu lui a rompere il silenzio.
«Prima
che inventassero i DSZ, gli hacker usavano un semplice terminale per
penetrare i
più avanzati sistemi di sicurezza.»
«Il mio
robot
avrebbe percepito l’intrusione e mi avrebbe
avvertita.»
«No,
se anche lui fosse stato hackerato», ammiccò con
spavalderia.
«Non
mi freghi. I circuiti di Oliwar sono troppo complessi per
essere hackerati!»
L’altro
sorrise. «Sei così mielosa quando lo inviti a
dormire accanto a te.»
Scioccata
dalla rivelazione, Dylia alzò una mano decisa a colpirlo in
faccia, ma lui la
bloccò. «Sono venuto in pace, non costringermi ad
usare la violenza.»
«Sei
un bastardo!», urlò. In quel momento le porte
dell’ascensore si riaprirono
in quello che doveva essere il magazzino delle scorte: un grande spazio
pieno scaffali ricolmi di merce e scatoloni accatastati
ovunque. Era così poco illuminato che non
si riusciva a vedere
la parete di fondo. Il display dell’ascensore segnava -35.
«Io
un bastardo? Sì, può essere»,
ghignò, «ma non è colpa mia.
Vieni!»
La
trascinò fra gli scaffali carichi di materiale di ogni
genere.
Verso il centro
erano posizionati alcuni divani ricoperti da uno strato di cellofan; la
costrinse
bruscamente a sedersi su uno di essi, mentre lui rimase in piedi
davanti di lei a guardala con aria di superiorità.
A
quella profondità, circondati da metri di cemento armato
nessun apparecchio
riceveva il segnale. Dylia avrebbe dovuto sentirsi in trappola,
oppressa, o
quanto meno spaventata, invece l’unica cosa che provava era
una certa
irritazione provocata dalla scoperta che un pazzo criminale la spiava
in camera
da letto attraverso gli occhi del suo robot.
«Non
ci vorrà molto prima che i tuoi colleghi si insospettiscano
per la tua assenza,
quindi sarò breve», iniziò lui.
«Qualcosa
è cambiato nella mia vita dopo il nostro primo incontro a
Damon.»
Il
modo in cui pronunciò quella frase lasciò Dylia
senza parole. In altre
circostanze, quello poteva sembrare il preambolo per una bella
dichiarazione
d’amore. Rimase ancora più sorpresa quando si
chinò verso di lei in modo che i
loro visi fossero alla stessa altezza: quella vicinanza inaspettata la
fece
divampare.
«Una
volta provavo piacere nel vedere la gente soffrire, mi sentivo bene
vedendo gente di ogni età morire tra le fiamme. Ora il solo
pensiero mi
provoca un senso di rifiuto. Eppure
avverto
ancora il desiderio di vendicarmi per tutto il male ricevuto.»
Dylia
socchiuse gli occhi respirando l’odore di Shulik: sapeva
di vita nei sobborghi,
di avventura, di tecnologia rubata. Stava per dirgli che anche lei
aveva percepito
un cambiamento, ma lui le mise un dito sulle labbra per impedirle di
parlare. «Per colpa tua non so più cosa
sono.»
Trovava
così bello il modo in cui si stava confidando con lei che
approfittò dell’occasione,
gli prese la mano che gli aveva posato sulle labbra e la
scostò leggermente. «Che
cosa ti hanno fatto per farti diventare così?»,
chiese in un sussurro.
«Mi hanno
portato via tutto!
Avevo
una famiglia, dei genitori che amavo! Hanno distrutto la mia
vita!» I suoi
occhi si accesero di collera al ricordo. Dylia strinse
più forte la sua mano e i
loro sguardi si incrociarono. Avrebbe voluto dirgli che sapeva quello
che
provava, perché l’aveva provato anche lei quel
giorno alla Biblioteca Mondiale. Si sporse di qualche millimetro in
avanti in cerca di un contatto con le sue labbra, ma Shulik si
scostò
freddamente. «Sono quelli come te che
mi hanno rovinato la vita!» Si alzò e dandole le
spalle si
allontanò di qualche passo. «Vattene!»,
disse.
Dylia
rimase frastornata. Non poteva aver architettato tutto questo per
lasciare il
discorso a metà. Il suo atteggiamento sembrava dettato da un
improvviso timore, tra l'altro del tutto giustificato dal fatto che lei
era un'impiegata nel campo della giustizia e lui un assassino.
«Che cosa pensi di
risolvere in questo modo?!»
«Sparisci,
prima di ritrovarti
con del cellofan stretto attorno alla gola!»,
urlò,
girandosi
verso di lei con un volto sconvolto. In realtà non lo
avrebbe mai fatto. Non
aveva mai ucciso a mani nude una persona: il contatto diretto con la
propria vittima, per qualche ragione, lo aveva sempre ripugnato.
Dylia
si alzò indispettita e rispose a tono: «Me ne
andrò quando mi avrai ridato il
taser!»
«Te
lo ridarò quando riavrò il mio DSZ.»
«Benissimo!»,
gridò lei stringendo i pugni pervasa da un incontrollabile
desiderio di prendere a schiaffi quel bel viso diabolico. Rimase
qualche istante così, poi girò sui tacchi e se ne
tornò verso l'ascensore.
Mentre percorreva il
nastro mobile che portava all’esterno del centro commerciale,
ebbe la sensazione
che tra la folla qualcuno la seguisse, ma era troppo infuriata per
lasciare
spazio
nella sua mente ad ulteriori preoccupazioni paranoiche. Il rapporto tra
lei e Shulik si
stava
complicando a dismisura. La situazione era sul punto di sfuggirle dalle
mani: oltre ad essere infuriata con lui, era infuriata anche con se
stessa per essersi lasciata trasportare in quel modo. Tornò a casa e,
senza dire una parola,
prelevò Oliwar e lo portò al
centro robotico in cui l’aveva comprato per una scansione
mirata del sistema.
La
sua decisione di marinare il turno di lavoro senza avvisare il capo, fu
un primo chiaro segnale di
ciò che sarebbe
accaduto di lì a poco.
1- E-Esse:
abbreviazione per " E-Security"
usata soprattutto nei bassifondi in senso dispregiativo.
Mi scuso per il ritardo
nella pubblicazione, il fatto è che sto scrivendo per
diversi
contest e non mi va comunque di mettere in secondo piano questo
racconto (a cui tengo parecchio) inserendo capitoli pieni di
strafalcioni perché non riletti. Sicuramente qualcosa mi
sarà sfuggito come al solito: se trovate errori o parti
stonate,
aprite il "prendi appunti" in alto, segnatevi tutto quello che non vi
torna e poi inviatemelo.
Spero che in generale il capitolo sia stato di vostro gradimento. Alla
prossima! ;)
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Capitolo 6 *** Tra leggenda e realtà ***
Incertezze
Cap.6
- Tra leggenda e realtà
Si
diceva
che la culla dell’umanità fosse la Terra, terzo
corpo celeste
dal Sole, in un sistema planetario situato all’altro capo
della galassia. Si diceva
che il suo asse di rotazione fosse inclinato e che quindi la
temperatura
della superficie variasse nel corso dell’anno. Si diceva
anche che attorno a
essa ruotasse un satellite naturale chiamato Luna, la cui forza
d’attrazione
provocava talvolta l’innalzamento dei mari, talvolta il
prosciugamento parziale di alcune zone
sommerse. Sembrava che la sua geosfera fosse una specie
di incubatrice
primordiale in cui soggiornavano quasi due milioni e mezzo di specie
diverse di esseri
viventi.
Al
pianeta Terra erano dedicate intere sezioni degli archivi della
Biblioteca
Mondiale. La sua storia si studiava anche a scuola, ma rientrava nella
letteratura epica e nella mitologia. Era considerato un paradiso
inventato dai
sognatori per cercare un po’ di sollievo dalle
avversità
del presente.
La storia più recente vedeva come protagonista
Devodos, quinto corpo celeste dalla stella Yris, abbandonato quando
quest'ultima divenne una supergigante
rossa1 rendendo
l’atmosfera tossica, l’acqua acida e il terreno
radioattivo.
La
migrazione di massa
su altri pianeti del sistema era cominciata un secolo addietro,
ma nei decenni a seguire
le navette con a bordo i sopravvissuti avevano continuato senza sosta a
fare
scalo. Il
pianeta più ambito era Terratre, le cui condizioni
climatiche
erano le più favorevoli. Dalle vecchie astronavi simili a
catorci che riuscivano ad atterrare nel
nuovo mondo, sbarcavano famiglie distrutte dai volti impolverati, con
abiti sporchi e
sgualciti. Il più delle volte tra loro c’era
qualcuno in
gravi condizioni di salute che necessitava di urgenti cure. I
sopravvissuti di Devodos portavano con sé fame e
malattie infettive. Di fronte alle prime epidemie, il Governo Mondiale
si vide
costretto a prendere la drastica decisione di negare
loro l’accesso
chiudendo la
frontiera spaziale. Da allora, le navette che cercavano
di atterrare
su Terratre senza permesso venivano abbattute.
All’epoca
Dylia aveva sentito i suoi genitori parlare spesso della barbarie che
si stava compiendo;
per un po' avevano fatto parte della coalizione di attivisti che
si recavano a protestare davanti le sedi
governative locali. Lei aveva solo otto anni e non poteva contribuire
alle
proteste, ma capiva meglio di certi adulti la gravità della
situazione: aveva
degli zii confinati in una base spaziale in attesa di un visto che non
sarebbe
mai arrivato. L’idea di lasciare delle povere persone a
morire di fame e
malattie nello spazio la faceva inorridire. In un tema assegnatole a
scuola,
aveva scritto che da grande avrebbe salvato la gente, forse avrebbe
fatto il
medico o l’operatrice di pace. Dieci anni dopo, il suo
desiderio di salvare la
vita delle persone era evoluto in un forte senso di giustizia e
protezione
verso i più deboli. Sulla soglia dei diciott’anni
venne alle mani con un
compagno di classe perché infastidiva un ragazzo
più timido e incapace di
difendersi: entrambi, lei e l’aggressore, erano stati sospesi
da scuola per una
settimana. Quando i suoi genitori tornarono a casa dal colloquio con il
preside
non erano poi tanto arrabbiati. Suo padre le aveva fatto
l'occhiolino e aveva concluso dicendo che il
preside era un deficiente. La madre in un primo momento aveva
protestato
contro l’uso scurrile dell’espressione del marito,
ma poi gli aveva dato
ragione. La sera andarono a mangiare fuori per premiare il carattere
forte e
determinato della figlia e si divertirono un sacco. Quella stessa sera,
con un velo
inspiegabile di malinconia, Dylia aveva guardato i suoi abbracciarsi
e dentro
di sé aveva ringraziato una qualche entità a lei
sconosciuta per averle concesso dei
momenti così felici in presenza delle persone che amava.
Poco
tempo dopo ci fu l’incidente alla stazione sotterranea del quorm2
che portò via a Dylia entrambi i genitori mentre
tornavano dal lavoro. Per questioni economiche dovette
abbandonare l’idea di iscriversi
alla falcoltà di Medicina e optare per un
concorso pubblico di vigilanza. Distrutta dal dolore per la perdita dei
suoi
cari, reagì chiudendo le porte ad ogni contatto umano che
non fosse per scopi
professionali. Fu in quel periodo che sviluppò
l’abilità di dimenticare i nomi
delle persone che incontrava: forse inconsciamente sperava che
dimenticandoli
non avrebbe sofferto nel caso in cui, per un motivo o per
l’altro, se ne
fossero andati. Era una specie di rudimentale autodifesa istintiva.
Il
concorso pubblico di vigilanza andò bene e cinque anni dopo,
all’età di
ventitré anni, fece domanda per essere trasferita nel
dipartimento d’assalto della
E-Security.
Sapeva che i requisiti
d’accesso prevedevano due anni di addestramento in un campo
militare, ma la cosa
non la spaventava. Tagliò i capelli corti, si
fasciò il
seno e iniziò a
vestirsi con abiti maschili sperando, così, che la mattina
guardandosi allo
specchio l’immagine riflessa non fosse più quella
di una
fragile ragazzina, ma
quella di un giovane combattivo. Le lunghe ciglia che incorniciavano i
suoi
graziosi occhi verdi e i lineamenti dolci del viso continuavano
tuttavia a
tradirla, così finì per tornare al suo solito
stile.
Quell’anno
altre undici donne si erano presentate al campo militare oltre a lei.
Solo
cinque riuscirono a resistere fino alla fine: lei era una di quelle.
A
ventisei anni intraprese la sua prima missione: casco e corazza
anti-proiettili
addosso, seguì la sua squadra a nord della regione. Il posto
era costellato di
vecchie industrie estrattive abbandonate da ormai qualche decennio.
Dopo che i
rari materiali presenti nel sottosuolo erano stati esauriti, mantenere
in piedi
un’attività in quella zona risultava altamente
improduttivo, perciò gli
imprenditori avevano cercato ripiego in città. La periferia
era diventata una
specie città fantasma, infarcita di edifici fatiscenti che
ospitavano il rumore sinistro del vento.
Dylia
rimase colpita dal fatto che sulle mura diroccate, sfidando i raggi
ustionanti
del sole, riuscissero a crescere certi tipi di piante rampicanti. Si
sentì
quasi commossa nel vedere che la natura cercava di adattarsi alle
condizioni
più impervie, animata da una silenziosa ma potente
volontà di vivere. La vita per
Dylia era qualcosa di magico, un prodigio del cosmo; distruggerla
sarebbe stato
sintomo di grande ignoranza e grave mancanza di empatia. Qualche minuto
più
tardi si ritrovò a premere il grilletto della pistola contro
una persona: un
criminale antigovernativo che aveva creato parecchi disordini in
città provocando morti e
feriti, ma pur sempre una persona. Le mani le tremavano, eppure non era
riuscita a
tirarsi indietro, non era riuscita a urlare i suoi ideali e gettare
via
l’arma. Avrebbe ricordato per sempre l’espressione
sgomenta rimasta impressa
sullo sguardo di quell’uomo anche dopo avergli sparato. I
suoi colleghi si
complimentarono per la freddezza, il che la fece stare ancora
più male. Si
sentì una stupida: non era una giustiziera di morte
ciò che voleva
diventare. Comprese che non
poteva rimanere un minuto in più in quella falange di
violenza mascherata
sotto il nome di giustizia. Se sua madre fosse stata ancora in vita,
era certa che le avrebbe ripetuto la solita frase, quella che usava per
incoraggiarla nei momenti peggiori: prima trovare la strada giusta
bisogna compiere per forza degli errori.
Così, decisa a non buttare via tutti gli anni di sacrifici
che aveva compiuto per
arrivare fin lì, Dylia fece domanda per entrare a far parte
del neonato ramo operativo
della E-Security, evolutosi grazie
all’ausilio della scienza: il dipartimento di trasposizione.
Con il nuovo distintivo
le consegnarono anche un taser e, impugnandolo, capì che
stava
finalmente
imboccando il sentiero che l'avrebbe condotta al suo destino.
In
quel periodo si sentiva più sola che mai. In centro,
passando davanti
a un negozio
specializzato in robotica, notò un nuovo tipo di
automa esposto in vetrina. Rimase
colpita dall’impressionante somiglianza a un essere umano in
carne ed ossa e
provò subito simpatia nei suoi confronti. Spese lo stipendio
di tre mesi di
lavoro per comprarlo e, ancor prima dell’attivazione, gli
aveva
già trovato un
nome: Oliwar. Poiché, secondo la Legge, i robot umanoidi
dovevano essere
annualmente coperti da un'assicurazione, Dylia finì per
vedere la sua navetta
privata in modo da stare dentro alle spese mensili. Per
Oliwar, quindi,
iniziò a usare il taxi per gli
spostamenti regionali e le navette planetarie per i viaggi
più lunghi.
Ora
Dylia, a distanza di qualche anno, se ne stava di nuovo in quello
stesso negozio, a
braccia conserte davanti all’operatore che stava
terminando di analizzare i circuiti del robot.
«È
tutto a posto», disse l’uomo ricoprendo
il dorso dell'automa con la placca che
aveva staccato per eseguire i controlli. Oliwar riaprì gli
occhi e, facendo leva
con le braccia sul lettino, si rialzò.
«Quanto
le devo?», chiese Dylia.
«Niente,
si figuri. È la prima volta che mi portano a riparare un
robot così in forma. C’era
un solo malware nel programma decisionale, ma l’ho eliminato
e sembra che non
abbia intaccato gli altri circuiti interni. Chissà poi come
c’è finito dentro
un malware del genere.»
«Mi
creda, è meglio che non lo sappia.»
L’altro
rise, forse pensando che Dylia stesse cercando di impressionarlo. La ragazza lo
lasciò fantasticare e si rivolse al robot: «Come va,
Oliwar?»
«Inizializzazione
completata. Riavvio cip istallati completo. Va alla grande,
Dylia.»
«Perfetto.
Allora, grazie mille!», disse. L’operatore la
salutò con
un cenno del capo.
Uscendo
dal negozio Dylia si scontrò con una persona che stava
entrando: era Saati, il
ragazzo che aveva conosciuto qualche giorno prima in mensa. Trovandosi
improvvisamente con il viso schiacciato contro il suo petto, per
poco non perse l'equilibrio. Oliwar si preoccupò subito per
la
salute di entrambi, strappando a Saati un sorriso
divertito. Dylia evitò di chiamarlo
per nome per il semplice fatto lo aveva dimenticato e, dopo i
convenevoli,
cercò di
rimediare scusandosi per il modo in cui l’aveva
cacciato via l’ultima volta.
«Non
ti perdono», disse lui, «a meno che tu non venga a
bere qualcosa con me. C’è
un buon locale a due passi da qui.»
Fu così che
presero posto in un tavolo esterno del bar, sotto una capannina
di vetro colorato, studiato apposta per bloccare le radiazioni solari
dannose.
«Eri
venuto a comprare qualcosa al negozio di robotica?», chiese
lei rivolta al ragazzo.
«A
dire il vero no. Ti avevo vista entrare e così dopo un
po’ ho deciso di
seguirti, ma ho scelto il momento sbagliato.» Rise e quel suo sorriso fece tornare
a galla i rimorsi.
«Scusa
per l’altro giorno. Di solito non aggredisco le persone in
quel modo,
dev’essere stato lo stress per il lavoro.»
«Smettila
di scusarti, ok? Piuttosto hai risolto quel problema?»
«Quale
problema?»
«Un
problema che inizia con “S” e finire con
“K”.»
Il
volto di Dylia s’incupì. «Per essere un
comune cittadino sei parecchio
informato sugli identikit dei ricercati.»
«Ti avevo
già accennato che sono
un archivista. Agli archivisti passano tra le mani informazioni molto
interessanti. Un giorno mi sono ritrovato a catalogare il caso di quel
Shulik. È
un caso triste, uno dei più tristi che abbia mai letto. Il
Governo Mondiale
cerca di nasconderle, certe cose. Prima di diventare archivista ho
dovuto fare voto di silenzio su tutto ciò che avrei appreso
durante il mio
lavoro.»
Dylia
si sporse sul tavolino. «Che cosa hai letto su di lui?
Dimmelo.»
«Mi
spiace, non posso infrangere il giuramento.»
In
quel momento arrivò il cameriere e Saati ordinò
un caffè shakerato alle
mandorle. Dylia non aveva voglia di nulla, ma per mandare via il
cameriere senza
polemiche ordinò lo stesso di Saati. Poi frugò
nella tasca interna del trench,
ne tirò fuori un distintivo argentato e lo mostrò
al ragazzo.
«Te
lo chiedo in nome della legge: che cosa hai letto su Shulik? Potrebbe
essere
utile ai fini delle indagini che sto conducendo.»
L’altro
sospirò. Davanti al distintivo di un agente della E-Security il suo voto di
silenzio non era più valido. Si diede una rapida occhiata
attorno, come per
assicurarsi che non ci fossero orecchie indiscrete in ascolto e poi
cominciò.
«Si
chiama Elar. Shulik è il cognome da parte di madre. Se non
ricordo male, giunse su Terratre con la
famiglia quando aveva nove anni. Come sai, vent’anni fa il
governo aveva già deciso di
mettere in atto la politica di chiusura nei confronti dei superstiti di
Devodos. La navetta della famiglia di Shulik fu intercettata durante la
discesa, riuscirono nonostante tutto a entrare nell’atmosfera
sganciando la
navetta di salvataggio. Una volta toccato il suolo di Terratre le
autorità non
possono più fare nulla, se non curare eventuali malati e
feriti. Elar Shulik fu
trasportato d’urgenza in una struttura specializzata per la
decontaminazione
radioattiva. Il processo per la decontaminazione all’epoca
non era ancora stato
perfezionato: per un ragazzino di quell'età fu una
sofferenza atroce e,
considerando che poco dopo vide i suoi genitori morire… beh,
non mi stupisce
che sia diventato un assassino.»
Il
cameriere tornò e appoggiò sul tavolo le
ordinazioni. Saati bevve subito un sorso
dal suo bicchiere. Dylia rimase immobile, lo sguardo perso oltre il
traffico
della strada.
«Se
ti interessano i dettagli, dovresti tornare alla Biblioteca Mondiale.
La mia
testa non è un computer», concluse il ragazzo.
Dylia mise via il
distintivo e rimase ancora un po’ in
silenzio assorta nei suoi
pensieri. Ricordò l'ultimo incontro ravvicinato con Shulik
nei piani interrati del grande magazzino e le parve di sentire ancora
il calore della mano che gli aveva afferrato. Ora che aveva appreso la
sua storia, la rabbia che aveva provato nel scoprire che lui la spiava
attraverso gli occhi di Oliwar si stava affievolendo. Se guardarla
dormire con il suo robot era servito a recare sollievo all'anima in
pena di quell'uomo, non le dispiaceva poi tanto che la sua privacy
fosse
stata violata. Stava forse impazzendo?
«Com’è
successo?»,
chiese.
«Cosa?»
«I
suoi genitori.»
«Ah, uno
strano incidente... Nell'edificio in cui erano ospitati per le cure,
esplose una camera iperbarica scatenando l'inferno. In
confidenza, non sono così certo che sia
stata una tragica fatalità: tutte le porte erano chiuse
dall'esterno e protette da una password. Inoltre, casualmente,
l'allarme
antincendio non scattò e nessuno andò in loro
soccorso.»
Dylia
si alzò dal tavolo seguita a ruota dal Oliwar.
«Te
ne vai di già?!», chiese Saati con un'espressione
alquanto
sorpresa.
«Se è per colpa di
questa storia...»
«No,
tranquillo. Mi
sono ricordata di una cosa importante che ho da fare. Bevi anche il mio
caffè
se vuoi, tanto non l’ho toccato. Offro io.»
Tirò
fuori la carta di credito e la passò sul display quadrato
montato sul metallo
del tavolino. Poi si allontanò lungo il marciapiede con
passo spedito
affiancata dal suo robot. Saati
la osservò camminare per un po'. Quando fu abbastanza
distante, prese il
cellulare e selezionò un
numero dalla rubrica salvato sotto il nome di “nonno
cigar”.
«Sono
io», iniziò, «se i suoi sospetti sono
fondati, in questo momento sta sicuramente andando
da lui», disse. «Vi porterà dritti nella
tana del lupo.»
La
voce all’altro capo dell’apparecchio apparteneva a
un uomo di una certa età, era
rauca e rovinata dal fumo di numerosi sigari. «Che cosa le ha
detto per
convincerla?»
«Psicologia.
Le ho solo raccontato la verità. L’amore e la
compassione l’hanno spinta a fare
il resto.»
L’altro
mugugnò qualcosa d'incomprensibile, poi concluse:
«Spero che lei si
sbagli. Se così non fosse, perderei uno dei miei agenti
migliori. Si prepari
e raggiunga la mia squadra.»
La
chiamata terminò così. Saati prese la tazzina
abbandonata
da Dylia e, lasciatosi scivolare sullo schienale della sedia, si
concesse qualche altro minuto di
relax prima di scendere nuovamente sul campo.
Note autore:
1- In astronomia si
può dire che una supergigante
rossa
sia il secondo stadio in cui muta una stella con una massa dieci
volte maggiore a quella del Sole, nel momento in cui tutto l'idrogeno
all'interno del suo nucleo viene esaurito.
2- Il
quorm è
una specie di metrò futuristico ad
alta velocità presente in quasi tutti i racconti
fantascientifici che ho
scritto (ma che al momento non ho ancora pubblicato).
Ed eccoci qua, alla fine del sesto capitolo, che ha svelato qualcosa in
più sulla storia dei vari personaggi e del pianeta stesso in
cui si stanno svolgendo gran parte degli eventi. Spero che non mi siano
sfuggiti troppi errori e che la lettura sia stata di vostro gradimento.
Fatemi sapere se ritenete che qualcosa debba essere migliorato. :)
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Capitolo 7 *** Finché c'è amore... ***
Incertezze
Cap.7
- Finché c'è amore...
Il
tassista inchiodò di colpo nel mezzo dalla
strada deserta, come se avesse visto
all’ultimo momento un ostacolo da evitare. Davanti a
loro, tuttavia, il cammino era libero; il manto
stradale era dissestato e in alcuni punti si era avvallato seguendo le
depressioni del terreno, ma niente impediva all'auto di proseguire
compiendo un'elementare manovra.
«Non
posso proseguire oltre», disse l'uomo al volante.
«Non
può? o non vuole?», chiese Dylia aspramente.
«Non
ci tengo a farmi tagliare la gola da una banda di criminali.»
«Non
sarebbe una gran perdita», borbottò la ragazza.
Quell’irascibilità un tempo estranea
alla sua persona, ultimamente riaffiorava sempre più spesso.
Dylia
incrociò lo sguardo corrucciato del tassista attraverso lo
specchietto retrovisore e gli sorrise
maliziosamente. Fece scorrere la carta di credito sullo schermo dietro
la
testiera del sedile anteriore, poi aprì la portiera e scese
seguita da Oliwar.
L’auto
fece inversione e tornò verso la città,
abbandonandoli in un paesaggio brullo,
silenzioso e costellato di rovine.
«Mancano
appena due chilometri», intervenne Oliwar con il solito tono
privo d'emozione. «Possiamo farli a
piedi.»
«Direi
che non ci resta altra soluzione. Il problema sarà tornare
indietro. Se dovessi stancarmi troppo mi porterai in
braccio, vero?»
«Certamente,
Dylia.»
«Prima
o poi dovrò installarti un cip per
l’ironia», concluse la ragazza.
Proseguendo
il cammino verso la loro meta, passarono davanti a
edifici
fatiscenti e mucchi di macerie che un tempo dovevano essere abitazioni
e negozi.
Ad
ogni angolo della strada dominava l’impressione che occhi
sfuggenti spiassero i
loro movimenti. I rumori sinistri che si udivano attraverso spaventose
crepe sui muri e fenditure
deformate di finestre, potevano essere causati semplicemente dal vento
o dalla
più rara presenza di un animale selvatico. Dylia, tuttavia,
camminava tenendo
un braccio infilato sotto al trench, le dita vicino alla fondina
agganciata alla cintura. Naturalmente era solo un bluff, visto che il
suo taser era ancora in mano a Shulik, ma un eventuale assalitore che
non era a conoscenza di questo dettaglio, ci avrebbe pensato due volte
prima di
tentare uno scontro diretto.
Quando
gli edifici cominciarono a farsi più sporadici Oliwar,
seguendo il segnale del
suo GPS interno, deviò verso la campagna. Non cresceva quasi
nulla su quei
terreni, se non qualche isolato ciuffo d’erba rinsecchito.
Sembrava incredibile
che delle persone si fossero adattate a vivere in mezzo a quel deserto.
Un
boschetto d’alberi fossilizzati, piantati decenni prima
durante un tentativo di
bonifica, impediva di vedere l’orizzonte verso cui il robot
si
stava dirigendo.
«Sei
certo che sia la direzione giusta?», chiese la ragazza.
«Ne
sono certo, Dylia. L’unico margine di errore potrebbe essere
causato dalla
taratura della mia bussola.»
«La
tua bussola?»
«Sì.
Tuttavia stimo che, per una percentuale pari al 99,7%, il tecnico che
ha eseguito
l’ultimo controllo su di me se ne sarebbe accorto subito. Di
conseguenza c’è
solo uno 0,3% di possibilità che la bussola mi stia
tradendo.»
«Questo
mi rassicura moltissimo», disse Dylia, riparandosi gli occhi
dal sole con una
mano sulla fronte e cercando di guardare oltre quell'ammasso di alberi
pietrificati verso cui
si stavano avvicinando sempre più.
Dall’altra
parte dei tronchi, anneriti e duri come la roccia, si nascondeva una
struttura
con il tetto ricurvo e le pareti grigie e ammuffite.
«Il
posto è questo», disse Oliwar.
Il
pavimento in cemento dell’hangar era umido. Il perenne clima
autunnale, verso
sera, creava uno strato di vapore condensato sui muri scrostati e
imbrattati
di strani disegni. Shulik attraversò a piedi scalzi il suo
rifugio dalla branda fino
all’angolo opposto, in cui aveva nascosto sotto a un telo la
sua personale
navicella: quella che aveva rubato nel suo primo furto con hacheraggio.
Con un
gesto secco, strappò via la copertura rivelando una
carrozzeria in metallo
scintillante. Da un po’ meditava sul fatto che sarebbe stato
meglio andarsene
da lì, per cercare un nuovo posto in cui rifugiarsi. Da
quando era entrato in confidenza
con quella sbirra, la sua vita si era notevolmente complicata.
L’ultima
cosa che desiderava
era farsi arrestare, anche perché se avessero voluto punirlo
per tutti i reati
di cui si era macchiato, avrebbero dovuto ucciderlo più di
una volta. Sorrise nervosamente
a quel macabro pensiero.
Spingendo
un pulsante sulla parete, attivò un complicato meccanismo di
funi e pulegge che
sollevò a qualche metro da terra la navicella. In quel modo
i due rotori principali
del mezzo risultavano esposti; avvicinò e aprì
una scala libretto e, dopo essersi
arrampicato fino in cima, poté controllare i rotori e
apportare le ultime
modifiche. Sì, sarebbe partito verso nord. Anche
là il clima non era dei migliori, ogni
tanto nevicava, ed era una neve chimica di colore grigio quella che
ricopriva le
strade e i palazzi delle nuvole. Oh, sarebbe stato meraviglioso far
saltare uno
di quei palazzi. Erano stati costruiti prima della legge che imponeva
un’altezza
massima predefinita per tutti gli immobili. I palazzi delle nuvole
sembravano lunghe dita
che fuoriuscivano dal terreno in cerca dell'infinito. Piazzando un
ordigno alla loro
base, sarebbero venuti giù come castelli di carte.
I
suoi pensieri furono bruscamente interrotti dal rumore di un allarme
proveniente da computer. Si precipitò a controllare e
notò che si trattava di
un movimento anomalo registrato da una delle telecamere disposte nel
perimetro
esterno.
Due esili figure,
provenienti dai resti della zona bonificata, erano in avvicinamento
verso il suo rifugio. Zoomò e li riconobbe: Dylia
e il suo robot Oliwar camminavano con circospezione
facendosi strada tra le sterpaglie e i relitti di vecchie auto
arrugginite.
Shulik disattivò l’allarme e rimase per qualche
istante a osservare il monitor
con espressione accigliata. Aveva appena
qualche minuto per decidere se andarsene o aspettare.
«Ferma!
Non fare un passo in più!»
Dylia aveva appena
varcato la soglia del
portone dell'hangar, quando sentì la voce di Shulik.
Provò subito un certo sollievo: non aveva ancora abbandonato
il rifugio. Questa
era una buona occasione per trattare, però lui le aveva
appena dato un
ordine e questo la disturbava.
«Perché?
hai per caso disseminato il pavimento di trappole?», chiese
con
incuranza.
«Ti
consiglio di girare al largo da quel punto.»
La
ragazza abbassò la testa. Il pavimento era in cemento,
totalmente privo di piastrelle,
ma davanti a sé c’era una porzione quadrata che
presentava una sfumatura più chiara. Una botola,
forse? O un meccanismo di morte? Si allontanò da
lì e individuò Shulik,
arrampicato tra le impalcature che sorreggevano una vecchia navicella
che sembrava essere uscita da un museo.
«Non
mi aspettavo di trovarti ancora qui. Sapevi che stavo arrivando,
vero?»
«Mi
piace guardarti attraverso gli occhi del tuo uomo di latta mentre
dormi. Questo
non vuol dire che abbia controllato tutte le ricerche che gli hai
affidato.»
«Non
lo vuoi ammettere», disse Dylia con tono malizioso.
Shulik
saltò giù con agilità dalle
impalcature e le si avvicinò: dal suo volto traspariva una
certa irritazione. La ragazza non gli lasciò il tempo di
parlare.
«Ti ho
riportato il DSZ. Prendi!»
Non lo aveva mai tolto dalla tasca del trench da quella sera
al parco. Glielo lanciò e lui lo afferrò al volo.
Aveva il viso sporco di olio
per motori, il che lo rendeva ancora più in sintonia con il
ruolo che aveva
deciso di impersonare: un trasandato criminale sull’orlo
della disperazione.
«Cosa
ti fa credere che ti restituirò il taser?»
«I
fuorilegge come te spesso si aggrappano all’onore.»
«Questo
discorso non vale per me. Se rivuoi la tua arma, cercatela.»
Prima di voltarsi per tornare al lavoro, gettò
distrattamente lo sguardo verso un tavolo poco distante accostato alla
parete, e a Dylia
non
servì altro per capire dove cercare. Ormai riusciva a
captare ogni minimo segnale che lui le inviava.
Nel
momento in cui tornò in possesso della sua arma, si
sentì per un attimo come si
era sentita quando l’avevano trasferita ufficialmente al
dipartimento di
trasposizione. Ripercorse mentalmente tutto ciò che aveva
vissuto in
quell’ultimo periodo, poi si girò verso Shulik che
la stava tenendo d’occhio appoggiato alla scaletta.
«Ora
sembriamo quasi due buoni amici. Io ho un'arma in mano, tu sei
ricercato dalla
polizia mondiale, eppure non ho nessuna intenzione di
fermarti…»
«Lo
so, sono troppo affascinante», scherzò lui.
Dylia
rise. «Con quella faccia sporca di olio e con quegli abiti
schifosi? Sembri il
superstite di una qualche sciagura spaziale.»
«Se
non ti piaccio, perché saresti venuta fin qui senza
l’intenzione di arrestarmi? Solo per riportarmi il
DZS?»
Touché.
Dylia
non cercò nemmeno di trovare una giustificazione. Ormai era
chiaro che entrambi
erano attratti uno dall’altra, lo erano stati fino dalla
prima volta, da quando
si erano ritrovati faccia a faccia in quella camera
d’albergo. Allora, oltre all’attrazione
c’era anche paura e sospetto, ma ora no. Sembrava che le loro
anime si fossero
date appuntamento ogni notte in un luogo segreto e,
all’insaputa dei loro
corpi, avessero trovato un accordo pacifico per funzionare in modo
complementare.
Dylia
ripose l’arma nel fodero e si avvicinò a
Shulik. Ebbe un attimo di esitazione,
poi sollevò una mano e gli accarezzò piano il
viso; percorse con
delicatezza i quei lineamenti che trovava irresistibili, fece scorrere
le sue dita dalla tempia al mento, e lui la lasciò fare.
Come un
cieco che cerca di vedere con il tatto il volto dell’amato,
Dylia, con quel gesto, cercava una
conferma: voleva saggiare fisicamente realtà di
ciò che stava vivendo.
Forse
sarebbero andati oltre, se l’allarme del computer non avesse
ricominciato a suonare
insistentemente, segnalando l’avvicinamento di qualche
altro intruso. Shulik corse a
controllare, seguito dallo sguardo della ragazza.
«Sbirri dei
servizi segreti! Avevi architettato tutto fin
dall’inizio!»
«Cosa?!
No, non mi è mai passata per la mente l’idea di
tenderti una
trappola! Mi hanno seguita senza che me ne accorgessi!»
Shulik
scosse la testa con nervosismo.
«Guardami!»
Dylia cercò di tirarlo a sé. «Che cosa
vedi?
Una bugiarda?»
Shulik
serrò i denti, cercando di calmarsi. Gettò
un’occhiata distratta alla donna
che lo stava fissando con insistenza. «Vedo una stupida. Ti
stai mettendo nei
casini, vattene finché sei in tempo!»
«Sono
già nei casini, quindi tanto vale che ti dia una mano a
uscire di qui.»
L’unica
possibilità di salvezza era la navetta attualmente in
manutenzione. Shulik cercò di raggiungere la
scaletta, ma in quello stesso
momento tre uomini corazzati e con il volto coperto da un casco con
visiera
oscurata, sfondarono un lucernario sul soffitto e, scendendo agilmente
con
delle corde, gli si piazzarono davanti con le armi puntate. Altri tre
entrarono
per il portone principale, da dove era arrivata anche Dylia. Uno di
loro era
Saati.
La
ragazza si ritrovò con mille pensieri contrastanti in testa,
una tempesta di
emozioni, alcune guidate dal cuore e altre dalla mente: non riusciva a
separale e a distinguerle.
Incrociò lo
sguardo di Shulik e nei suoi occhi vide quelli di tutte le sue vittime,
sentì
il suo dolore quando da bambino fu sottoposto al processo di
decontaminazione
radioattiva, provò rabbia, affanno, sentì la
solitudine di una vita vuota,
colmata da relazioni instabili e malate, intrattenute con i delinquenti
nei
sobborghi più malfamati. Si portò le mani in
testa e pregò che tutto ciò smettesse
perché non
lo avrebbe sopportato a lungo. Come faceva lui a resistere?
«Alza
le mani e non muoverti!»
Uno
degli uomini che erano scesi dal tetto si stava avvicinando con cautela
a
Shulik, pronto a fare fuoco in caso di una mossa avventata dell'altro.
Shulik non sembrava intenzionato a ubbidire
all’ordine, né minimamente toccato dalla
pericolosità dell’arma con la lucina rossa
del puntatore direzionata all'altezza del suo cuore.
«Fottuto
bastardo, metti le mani sopra la testa o sparo!»
Senza
quasi rendersene conto, Dylia si ritrovò tra il poliziotto e
il criminale, la testa
ancora dominata dalla confusione di emozioni di pocanzi.
Oliwar,
che fino a quel momento era rimasto in disparte, alla vista della sua
padrona
in pericolo, intervenne con un tono pacato del tutto fuori luogo
rispetto alla situazione.
«Percepisco
un alto livello di stress. Ragazzi, vi prego, abbassate le armi e
discutetene
civilmente.»
«Allontanati
lattina, ho ti faccio saltare il cervello!»
Oliwar non ascoltò l'agente che aveva parlato e si
portò vicino a Dylia.
La
ragazza s’infuriò. «Ve la prendete anche
con un robot adesso? Complimenti! Non siete
tanto meglio del criminale che volete arrestare! Bastardi!»
Oliwar
continuò: «Non fa niente, Dylia. La
priorità va
agli esseri umani. Vi prego di abbassare le armi prima che qualcuno si
faccia male.»
Mentre
si svolgeva questa scena surreale, Shulik valutò varie
possibilità di fuga.
Attorno a lui c’erano sei agenti armati, tre dei quali erano
ancora piazzati sulla soglia del portone, intenzionati a sbarrare ogni
possibile via di fuga: come soluzione primaria avrebbe potuto
fingere di prendere Dylia in ostaggio e salire nella navetta, ma
disgraziatamente non aveva
con sé nemmeno un taglierino per far sembrare la minaccia
credibile. L’altra
possibilità era far avanzare uno degli sbirri sopra il
meccanismo segreto posto
davanti l’entrata. Optò per quella soluzione e si
rivolse ai tre vicino al portone principale.
«Non
c’è bisogno di scaldarsi, sono disarmato.
Arrestatemi pure…» Portò le braccia in
avanti mostrando i polsi pronti a ricevere le manette; Saati e gli
altri due
avanzarono fino al punto in cui Shulik sperava. «…
Sempre se ci riuscite»,
concluse, facendo un cenno d'intesa alla ragazza.
Un
complicato meccanismo scattò sotto il peso degli uomini,
attivando
una leva che fece scorrere via metà del tetto, lasciando
entrare i raggi
accecanti del sole. Due delle travi portanti dell’edificio si
accasciarono
ai lati rendendo la struttura pericolante.
Nella
confusione, Shulik cercò un varco per salire sulla navetta e
Dylia lo seguì facendogli scudo mentre uno dei poliziotti
sparava verso di loro. L’ultimo
a salire sulla
navetta fu Oliwar, poi il portello si richiuse e Shulik
adoperò
tutta la sua
maestria per uscire dal tetto dalla struttura, mentre questa si
accartocciava
su se stessa.
«Poteva
andare peggio, no?», disse. Non ricevendo risposta, distolse
lo sguardo dai
monitor di comando e cercò gli altri due nel retro. Dylia
era seduta a
terra con la
schiena appoggiata a una parete e Oliwar era piegato su di lei.
«Che
succede? come
va laggiù?»
«Non
bene», rispose il robot. «Ferita da arma da
fuoco.»
Shulik
imprecò. Inserì le coordinate per il nord, poi
impostò il pilota automatico e si precipitò verso
i due
per valutare la gravità della situazione.
«Non
è nulla», disse Dylia, ma il suo volto sofferente
lasciava
intendere l’opposto. Un proiettile l'aveva colpita alla
spalla, fortunatamente lontano da
organi vitali, tuttavia stava perdendo molto sangue. Oliwar, che tra i
vari programmi, aveva installato anche
quello per il primo soccorso, creò delle fasciature per
tamponare la ferita, strappando strisce di stoffa dai suoi abiti.
«Quei
figli di...»
«È
colpa mia»,
bisbigliò la ragazza «mi sono messa in mezzo.»
Con quella frase sembrava quasi voler giustificare il collega che le
aveva sparato, il che lasciò Shulik interdetto.
Anche il robot era stato colpito; una macchia di liquido blu
fosforescente si espandeva nel petto sopra la sua
maglia.
«Ho fatto dei calcoli sulla direzione del
proiettile», disse rivolto a
Shulik, «e posso affermare con certezza
che Dylia ti ha salvato la vita.»
L'uomo non disse nulla ma,
sopraffatto da un moto di rabbia, sferrò un pugno sul
pavimento della navetta. Poi prese
una mano della ragazza e la strinse a sé. Provava qualcosa
di
indecifrabile. Nessuno aveva mai rischiato la vita per lui. Dopo tutto
quello che aveva fatto, non credeva di meritarsi quella fortuna, non
credeva nemmeno che esistesse una persona pronta a sacrificare la
propria vita
per quella di un altro. Tutte le sue congetture stavano crollando, come
un
castello di sabbia le cui fondamenta sono divorate dalle
placide
onde dell'oceano.
Aveva dimenticato come ci si sentiva ad essere amati...
Adesso era certo di
provare per Dylia qualcosa in più di una semplice attrazione
fisica, ma un'emozione di una tale intensità non l'aveva mai
sperimentata prima, quindi
non sapeva come definirla. Poteva essere amore? Di qualunque
cosa si trattasse, la sua mente non riusciva a
pensare
che ad un'unica cosa: non
può finire così.
Note autore:
Se
tutto va bene, questo dovrebbe essere il penultimo capitolo! Quasi non
ci credo nemmeno io!
Sono un po' in ritardo con la pubblicazione, perché mi sono
iscritta a qualche contest che mi sta portando via più tempo
del
previsto.
Che ve ne pare di questo capitolo? Le critiche costruttive sono sempre
beneaccette.
So già che alla volta dell'ultimo
capitolo sentirò la mancanza dei miei
affezionati personaggi:
non sopporto i finali! Mi consolo pensando che potrei sempre scrivere
un sequel!
Alla prossima! :)
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Capitolo 8 *** L'edera lascia i segni (Epilogo) ***
Incertezze
Cap.8
- L'edera lascia i segni
Dylia
dormiva da un tempo che non riusciva a quantificare; le
sembrava di non essere mai stata sveglia, che il sonno fosse da sempre
la sua
normale condizione d’esistenza.
Quella fastidiosa
luce che le
stuzzicava le pupille insinuandosi fra le ciglia e il ronzio sommesso
di una
qualche apparecchiatura tecnologica sistemata al suo fianco, sembravano
timidi
tentativi dell’universo di ridestarla dal torpore. Ad un
certo punto credette persino di udire la voce di un bimbo.
“Svegliati!”, diceva, ma lei
era stanca e
voleva solo riposare, neanche avesse lottato contro il mondo intero.
Avrebbe
continuato a dormire per chissà quanto se non le fosse
apparso lui in sogno.
Dylia, naturalmente, non aveva realizzato subito che era tutta
un’illusione e
aveva protratto le braccia verso quel bambino vivace con gli occhi
furbi che le
correva incontro.
«Che
ci fai qui tutto solo? Come
ti chiami?», aveva chiesto. Ma lui
continuava a
fissarla con quel visino innocente senza parlare, come se non avesse
compreso
le domande. Il suo aspetto, oltretutto, aveva qualcosa di familiare.
La
ragazza provò a istigarlo. «Sono sicura che un
nome ce l’hai. Vediamo, sarà
forse…»
«Elar»,
rispose velocemente, prima che lei se ne uscisse con
qualche ridicolo
miscuglio di lettere.
Nel
sentire quel nome il cuore di Dylia ebbe un sobbalzo.
«Devi
aprire gli occhi», disse il bimbo. «Ti devi
svegliare», le ordinò.
La ragazza sorrise e
gli
passò una mano tra
i capelli neri scompigliandoglieli un po’.
«Puoi
insegnami come si fa?», chiese.
«Sì…
abbracciami.»
Dylia
si inginocchiò ed Elar si tuffò verso di lei. Le
sembrava
incredibile che un bambino potesse avere tutta quella forza: la sua
stretta le
impediva quasi di respirare. Chiuse gli occhi e quando li
riaprì si ritrovò
stesa nel lettino della stanza d’un ospedale. Dalla finestra
proveniva una luce
accecante. A sinistra un macchinario piuttosto complesso
registrava i
suoi valori vitali emettendo un bip ritmato. Sul comodino, poco
più in là,
qualcuno aveva lasciato un videogiornale; si sporse per leggere i
titoli in
prima pagina, ma fu trattenuta da una manciata di fili attaccati al suo
corpo.
A quel punto, colta da un moto di nervosismo, si tolse l’ago
della flebo e lo
getto via, staccò anche le ventose
dell’elettrocardiogramma e i tubetti per
ossigeno che terminavano dentro le narici, così, finalmente
riuscì ad alzarsi.
Non c’erano notizie significative; il mondo sembrava non
interessarsi alla sua
avventura con Shulik. Un attimo dopo notò la data
sull’angolo in alto e capì di
aver dormito per ben tre giorni.
Nel
momento in cui scese dal lettino entrò
un’infermiera piuttosto trafelata,
allarmata dal fatto che le apparecchiature per il monitoraggio degli
impulsi
vitali, dopo essere state staccate, avevano smesso di trasmettere.
«Non
mi dica di rimettermi a letto, sto bene e posso camminare»,
esordì Dylia
accennando qualche passo verso la donna.
«Dov’è l’uomo che stava con
me?»
L’infermiera
rimase per qualche istante stranita, senza saper bene che cosa fare.
«Ehm, non si agiti troppo, non le farà
bene… vado a chiamare il
primario», disse infine.
«No,
io devo sapere! Dov’è la persona che stava con me?
E mio robot?»
«Non
c’era nessun robot con lei. Si calmi adesso.»
Cercò di farla sedere nel
lettino, ma Dylia non l'ascoltò e si precipitò
fuori dalla stanza.
Il corridoio
terminava con una porta-finestra che dava su una terrazza.
Spalancò l’uscio e
si riversò all'esterno, ma si immobilizzò subito
attanagliata da una morsa di freddo:
nevicava e i fiocchi grigiastri le venivano spinti contro il viso dal
vento
gelido. Si strinse nelle spalle e, opponendo resistenza alle raffiche,
si
avvicinò alla ringhiera. Si trovava parecchio in alto: da
lì si vedeva l’intera
città e non era di certo l’ambiente arido e caldo
da cui proveniva lei. Verso
l’orizzonte, cinque palazzi disposti a semicerchio si
innalzavano fino a
sfiorare le nuvole. C’era solo un posto in cui era possibile
trovare simili edifici: Mlad, la gigantesca megalopoli del nord.
«Ma
è impazzita a stare qui fuori? Venga dentro prima di
prendersi una polmonite!», disse la voce di un uomo.
L’infermiera aveva chiamato i rinforzi e così era
giunto il primario che
l’aveva presa per le spalle e l’aveva
riaccompagnata dentro. Nel suo camice
leggero da paziente Dylia tremava come una foglia. Il freddo
risvegliò il
dolore della ferita alla spalla e sul suo volto comparve una malcelata
smorfia
di sofferenza. Fu ricondotta nella sua stanza e gli fu somministrato un
antidolorifico.
Il
giorno dopo, mentre ancora si crucciava sulla sorte dei suoi due
uomini, Dylia
ricevette una telefonata. Le portarono il ricevitore a letto
dicendole che si trattava di qualcuno di piuttosto preoccupato per
lei. Inutile dire che fu alquanto delusa nel sentire la voce roca del
suo capo
dipartimento.
«Come
sta il mio miglior agente di trasposizione?»
«Male.
Un imbecille dei servizi segreti mi ha sparato addosso. Come dovrei
stare
secondo lei?»
Si aspettava che l’altro le
rinfacciasse il fatto di essersi
messa in mezzo per difendere Shulik – perché
sicuramente era stato avvisato di
come erano andati i fatti - ma sorprendentemente l’altro non
disse nulla al
riguardo. La apostrofò, tuttavia, per il tono poco
rispettoso con cui si era
appena rivolta.
«Il
posto alla E-Security
è ancora
tuo,
se è questo che ti stai chiedendo», disse.
«Dai rapporti degli agenti che
hanno preso parte all’imboscata è chiaro che
è stato tutto un incidente. Ti trovavi nel posto sbagliato
al
momento sbagliato. In ogni caso poteva andare peggio e almeno
adesso non
dobbiamo
più
preoccuparci per quel criminale. Se quella
leggenda sull’inferno fosse vera, il mondo intero
sentirebbe le sue
urla attraversare le dimensioni
iota fino a noi»,
concluse.
Dylia
deglutì prima di intervenire con tono incerto.
«Scusi, credo di non capire.»
«Questo
non è il mezzo ideale con cui scambiarsi informazioni
riservate. L’importante è
che tu ti rimetta presto e…»
«Aspetti!»,
la voce le uscì strozzata. Con il pensiero era rimasta
ancora alla frase
precedente. «Non è possibile che… che
lui sia…», non trovava nemmeno la forza
di dirlo. «La navetta. C'ero anch'io...»
«Sì,
lo so. Shulik ti ha presa in ostaggio per fuggire, ma il mezzo su cui
eravate è precipitato. È una fortuna che
tu sia sopravvissuta. Probabilmente non sai nemmeno come sei arrivata
in ospedale, vero?»
La
ragazza non disse nulla.
«Come
immaginavo... Tra qualche giorno verrò
lì, così potremo discutere meglio.
Rimettiti in forze.» Detto questo riattaccò senza
lasciare a Dylia il tempo di
controbattere.
Abbandonato
il ricevitore sul letto andò verso la finestra; fuori
continuava a nevicare.
Si domandava come riuscisse la gente a vivere con un clima
così rigido e se il
grigiore di quei fiocchi contenesse sostanze nocive o fosse una
tonalità del
tutto innocua. Probabilmente gli spalaneve erano costantemente al
lavoro per
assicurare ai cittadini la possibilità di uscire di casa,
oppure in quella
megalopoli avevano sviluppato una qualche tecnologia che impediva al
ghiaccio
di attecchire sulle strade. Sì, era più probabile
la seconda.
Guardando
giù, oltre il vetro,
verso la città, si vedevano chiaramente le linee
nere
serpeggianti delle vie tra le
abitazioni. Era così intenta a osservare quel curioso
particolare che sussultò
quando dalla porta entrò l’inserviente che
spingeva il carrello con il pranzo.
Si girò e rimase spiazzata, lo sguardo fisso in quello
dell’altro.
«Oliwar,
sei proprio tu? Come stai?», gli chiese dopo essersi ripresa
dalla sorpresa.
«Sai
che potrebbe investirmi una pattuglia di demolitori provvisti di
frantumatore atomico
e io sopravvivrei comunque.»
La
ragazza sorrise: nella risposta aveva percepito una sfumatura di
ironia.
Qualcuno doveva avergli installato un nuovo cip per upgradargli le
funzionalità
di humor. Gli corse incontro e, investendo il carrello con i piatti
destinati ai pazienti, circondò tra le sue braccia
l’amico
ritrovato.
«La
tua ferita?», chiese lui.
«Fa
ancora un po’ male, ma sta migliorando.» Si sciolse
dall’abbraccio ed esitò
qualche secondo. Poi schiuse le labbra intenzionata a parlare, ma
distolse immediatamente
lo sguardo da quello di Oliwar temendo che potesse leggerle negli occhi
la
domanda e finisse per darle una risposta che non voleva sentire.
«I
miei sensori mi dicono che vuoi chiedere qualcosa.» La pelle
sintetica, bianca
e perfetta del viso del robot si piegò leggermente agli
angoli della bocca, in
quello che doveva essere un sorriso cortese.
«Chi
ha provveduto a ripararti e aggiornarti?»
«Mi
ha preso in custodia un medico. Voleva farti una sorpresa per quando ti
saresti
svegliata e così mi ha installato anche le
funzionalità emotive superiori.»
«Dovrò
ringraziarlo quel medico benefattore. Dove posso trovarlo?»
«Prima
mangia qualcosa.»
Dylia
sbuffò. In cuor suo cercava solo una scusa per fuggire da
quel maledetto
ospedale che le metteva una tale tristezza.
Oliwar
riprese parola dopo aver depositato due piatti sul comodino.
«È uno nuovo, non
ha un orario fisso. Quando c’è bisogno lo chiamano
e lui arriva. Prima o poi te
lo presento.»
La
ragazza osservò distrattamente il pranzo: una porzione di
carne cotta tagliata
a cubetti, uno strano impasto rosa e delle strisce bianche di un
vegetale
che non riusciva a classificare. Il robot era già
sulla soglia della
porta quando Dylia lo bloccò.
«Aspetta!
Devo chiedertelo o non avrò pace: tu ne sai qualcosa di
Shulik?»
«Shulik?
È
stato dato per disperso.»
“Disperso
non vuol dire che è morto, vuol dire che si sono smarrite le
sue tracce.
Potrebbe essere da qualsiasi parte, no? Quindi? Questo non cambia
niente… non
c’è nulla che io possa fare.”
Dylia
continuava a sentirsi afflitta da certi pensieri e la neve grigia che
scendeva lenta oltre la finestra della sua stanza di certo non aiutava.
Quando verso sera smise di
nevicare, entrò nel camerino riservato ai cambi
d’abito dei medici e
prese in prestito un paio di scarpe della sua taglia e un cappotto,
dopodiché
uscì in strada. C’era qualche mezzo di soccorso
automatizzato fermo poco
distante dall’entrata principale in attesa di una chiamata
d’emergenza. In
confronto alla strada pulita e facilmente praticabile, il marciapiede
era
totalmente coperto di neve. Dylia mosse qualche passo
sprofondando con le scarpe su quel manto soffice e farinoso. Il respiro
si
condensava nell’aria e si perdeva nell’atmosfera
silenziosa. Solo il rumore di
qualche auto in lontananza e i passi ovattati di qualche coraggioso
avventuriero interrompevano la quiete del paesaggio ghiacciato.
«Così
diventerai un surgelato.»
Dylia
si voltò verso l’uomo che si era fermato a qualche
passo da lei. Era talmente
imbacuccato che gli si vedevano malapena gli occhi, ma la sua voce non
le era
nuova.
«Comunque
mi fa piacere vederti in forze», continuò,
sistemandosi meglio la sciarpa
davanti la bocca. «Piaciuto l’aggiornamento al tuo
robot?»
Una
strana eccitazione si fece spazio nella mente della ragazza, scese in
gola e si
fermò all’altezza del petto.
I medici
di Terratre non erano solamente persone che sapevano
come
curare un corpo umano prescrivendo terapie, erano qualcosa di molto
più
sofisticato: esperti in tecnologia, le loro abilità si
avvicinavano moltissimo a
quelle di un hacker. C’è n’è
bisogno, quando l’unico modo per salvare la vita a
qualcuno è guidare una squadriglia di nanomacchine in un
labirinto di
arterie e capillari.
Visto
che Dylia non accennava a spiccare parola ed era rimasta come pietrificata,
il
medico sbuffò e la
condusse gentilmente verso la
porta. «Entriamo, qui si congela. E comunque…
questo cappotto mi ricorda molto
quello della dottoressa Janner.»
Detto
questo, abbassò il cappuccio e si srotolò la
sciarpa rivelando il suo volto a
una Dylia totalmente sotto shock. Nel viso dai lineamenti aggraziati,
dietro un paio di occhiali
con la
montatura azzurra, due iridi scure si
soffermarono su di lei con un accenno d’intesa. Elar Shulik
un medico? Da
quando in qua Elar Shulik, pluriricercato a livello mondiale per aver
causato
caos e terrore in diverse città, aveva sentito il desiderio
di
salvare la gente? E com’era possibile che nessuno lo
avesse
riconosciuto? D’accordo, si era lasciato crescere una corta
barba e portava gli
occhiali, ma per il resto era sempre lui: il solito diabolico angelo
dai capelli neri come la notte. Dylia lo seguì con
lo sguardo mentre
entrava in un reparto riservato ai medici. Prima di
chiudersi
la porta alle spalle si girò un’ultima volta e le
fece l’occhiolino.
Dopo
quell’incontro, la ragazza cercò Oliwar in tutto
l’ospedale e quando lo trovò a
ricaricare i distributori automatici in un'ala secondaria
dell'edificio,
sfogò su di lui
tutta la frustrazione. Era sollevata nell’aver constatato che
Shulik non era
morto, ma allo stesso tempo si sentiva presa in giro e confusa. Si
piazzò
davanti al robot con un’espressione corrucciata:
«Senti, fino a prova contraria sono ancora io la
tua padrona, ok? Non puoi mentirmi, dunque perché non mi hai
detto chi era
veramente il medico che ti ha riparato?!»
L'altro appariva
sereno. «Non
pensavo ti importasse tanto di Katerino Atvor.»
«Ma
che stai dicendo!? Lui è Shulik, Elar Shulik!»
«Ti
sbagli, la navetta con cui stava cercando
di fuggire è
esplosa. Ti procurerò i videogiornali. Si vede il momento in
cui il mezzo
supera l’ultimo strato di atmosfera e poi viene avvolto dalle
fiamme.»
Dylia
scosse la testa. Evidentemente Shulik aveva creato dei
falsi
ricordi nella mente dell’automa, provò quindi con
un’ultima domanda: «E come ti
spieghi l’impressionante somiglianza tra i due? Prova a
metterli a confronto con il software per le identificazioni.»
Se
ne sarebbe accorto chiunque che sembravano gemelli.
Ciò che Dylia non
sapeva era che, in quella metropoli, le centrali di polizia
consideravano gli
identikit dei criminali materiale riservato da non divulgare presso i
civili. Nessuno, quindi, avrebbe mai
sospettato
di nulla.
Oliwar,
per la prima volta da quando era stato assemblato, parve trovarsi in
difficoltà. Il dubbio che la
sua padrona aveva posto in essere gli provocò un sussulto:
iniziò a tremare scosso dalle convulsioni, poi roteo gli
occhi e scivolò
seduto sul
pavimento. Dylia, preoccupata, gli prese il volto tra le mani e
cercò di capire
quale fosse il problema. Sembrava una tipica reazione da
“accesso negato”, come
se il suo cervello fosse stato programmato per rifiutarsi di rispondere
a quel
genere di questioni. Gli passò una mano sulla nuca e
cercò con i polpastrelli
la lieve scanalatura per il riavvio d’emergenza; quando la
trovò e la premette,
Oliwar smise di tremare e chiuse gli occhi come caduto in un improvviso
sonno
profondo. Dylia gli si avvicinò di più e lo
tirò a sé. Gli arti sciolti del robot erano
abbandonati lungo il corpo, la testa si adagiò
sulla spalla di Dylia
che poté sentire la morbidezza dei suoi capelli sintetici
solleticarle il collo.
«Mi
dispiace, non volevo», sussurrò all'orecchio di
Oliwar. Un attimo dopo lui
riaprì gli occhi e tornò ad animarsi.
«Inizializzazione
completata. Riavvio cip istallati completo. Riattivazione dispositivi
di
sicurezza in corso...»
Le
mani dell’automa si sollevarono e risposero
all’abbraccio della ragazza
cingendole dolcemente il corpo; rimasero
così per qualche secondo prima di rialzarsi.
«Ho
rilevato un problema: un archivio della mia memoria era stato
manomesso. Ora
ricordo cose che non sapevo di conoscere», disse lui.
«Shulik e il medico
Atvor sono la stessa persona, inoltre so come ha inscenato la sua
morte, perché l’ho
aiutato io.»
“Che
cosa provo realmente per quell’uomo?”, si
chiedeva Dylia mentre sostava nella saletta d’attesa
all’esterno del reparto
di chirurgia dove le avevano detto che si trovava lui per
un’urgenza. Nel posto
c’erano altre persone oltre ai parenti di qualcuno che al
momento era sotto
operazione. Una donna in particolare aveva il viso sconvolto; quegli
occhi
arrossati dovevano aver versato così tante lacrime da averla
prosciugata di
tutte le forze, ecco perché per mantenersi in piedi si
aggrappava al ragazzo
più giovane di fianco a lei. A causa di un’embolia
suo marito aveva
avuto un infarto ed era stato scortato in fretta al pronto soccorso.
Dylia fantasticò sulla loro storia: immaginava
si fossero conosciuti trent’anni prima mentre si contendevano
un parcheggio;
dai rimproveri erano passati alle risate e uno dei due aveva proposto
di risolvere la questione in modo amichevole
in un locale. Con il tempo si erano innamorati e dalla loro unione era
nato
quel giovane ragazzo che, soffocando la preoccupazione, si fingeva
impassibile per
offrire un braccio forte e sicuro alla madre.
Aveva forgiato questa
immagine mentale mentre attendeva; non osava
muoversi e controllava persino il respiro, temendo di disturbare
quell’atmosfera raccolta che
si era creata. Ad
un certo punto la porta della chirurgia si aprì e ne usci
Elar; in testa aveva
ancora il casco con annesso schermo virtuale per guidare
l’operazione. I
parenti del ricoverato si avvinarono timorosi: nei loro occhi si celava
la
paura e la speranza compressi in un impercettibile luccichio che sa
riconoscere
solo chi ha sperimentato situazioni simili.
Elar
tolse il casco svelando un sorriso rassicurante:
«L’intervento è andato bene.
Il paziente è fuori pericolo e si
riprenderà.»
Poi
gli occhi di Elar si posarono su Dylia che si alzò
bruscamente e uscì in
corridoio, una mano posata sul petto come per cercare di controllare il
battito
del suo cuore.
“Che
cosa provo realmente per quell’uomo?”,
ripeté mentalmente continuando a
camminare con passo incerto mentre la vista iniziava ad annebbiarsi a
causa
delle lacrime. Era entrata troppo in empatia con quella famiglia e la
bella
notizia l’aveva talmente toccata che stava per abbandonarsi
a un pianto
dirotto. Dimostrarsi fragile era l’ultima cosa che voleva
in quel momento, così finì per sferrare un pugno
alla parete. Quando si
girò per tornare indietro, si
trovò faccia a faccia con Elar Shulik, il camice da
medico sbottonato e
quello sguardo che, se osservato in profondità, nascondeva
ancora l’ombra del
suo passato.
«So
quello che stai pensando», cominciò lui.
«Hai
imparato a leggere nella mente?», chiese lei con sarcasmo
cercando
di dominare le
emozioni.
«No.»
Dylia
cambiò discorso. «Tra qualche giorno
verrà qui il mio capo. È meglio se non ti
fai vedere mentre c’è lui in giro.»
Elar
storse la bocca. «Ho imparato a leggere dentro le
persone.»
«Al
mio capo non importerà granché, a meno che tu non
riesca anche a leggere i pensieri di un indiziato
che non vuole parlare… ma anche in questo caso
temo…»
«Grazie»,
la interruppe. Si fissarono per qualche istante senza dire nulla, poi
lui la
scansò e
proseguì lungo il corridoio credendo che avesse tutte le
ragioni per trattarlo freddamente.
Era incredibile. Shulik
sembrava un’altra persona.
“Che
cosa provo per lui?”, si chiese nuovamente la ragazza
girandosi a guardarlo
mentre si allontanava.
Poteva definirlo sia il
suo miglior amico
che il suo peggior nemico. Al di là della
crudeltà di certi suoi gesti compiuti, lui era riuscito a
trasmetterle qualcosa di positivo. Senza volerlo le aveva insegnato che
anche
nella
persona più malvagia si può nascondere la luce e
da questo era giunta alla conclusione che anche nell'individuo
più calmo e gentile
possono albergare
oceani assassini in tempesta. Un giorno lei aveva guardato nei suoi
occhi e
l’aveva visto, aveva visto il sole che aveva dentro: qualcosa
di bellissimo e
allo stesso tempo dolorosissimo. La sua anima era
incandescente e
quando a Damon la sua mano aveva sfiorato il viso di lei,
parte di quella fiamma
si era trasferita lasciandole un segno invisibile.
Non
le era mai capitato di vedere in quel modo una persona, di vederla
oltre a ciò
che mostrava, oltre all’apparenza e il retaggio del suo
passato. Quella sua bellezza
non si poteva definire una casuale
combinazione di atomi; il suo volto angelico era un riflesso di
ciò che
custodiva sigillato nella cassaforte dell’anima, quando
ancora non era stata
contaminata dall’odio.
Quel
giorno, alla stazione Damon, la trasposizione li aveva fusi e nel
momento
del ritorno qualcosa non era andato per il verso giusto. Come l'edera,
strappata a forza dal tronco di un albero, lascia i segni nella
corteccia su cui
era ancorata da anni, così le loro anime si erano
avvinghiate e graffiate tanto che non
sarebbero mai più state le stesse.
L’equazione
di Dirac spiega bene l'accaduto: quando
due insiemi vengono a contatto
- anche solo per un brevissimo istante - si influenzano, e nel momento
dell’allontanamento continuano a ricevere l'influsso
dell’altro. Le distanze
sono annullate; non esistono spazi sconfinati o universi infiniti
capaci di
interrompere il legame. Ciò può essere una
fregatura, ma anche una benedizione.
Come sempre, tutto è relativo.
In quell'istante Dylia
capì che non poteva lasciarlo andare, perciò gli
corse in contro e lo
fermò
trattenendolo per un braccio. Non sapendo bene cosa dire sorrise
nervosamente, poi
si schiarì la voce: «Perché prima mi
hai
ringraziata?»
«Ti
ho ringraziata per aver migliorato la mia vita», disse lui.
Nello sguardo aveva una
luce particolare, come se si sentisse sollevato dal fatto di averla di
nuovo
vicina. «Il giorno dell’imboscata»,
continuò, «mi sono reso conto che non
provavo piacere nel vederti star male. Fino ad allora il dolore degli
altri era
un lenitivo per me. Che cos’hai tu di speciale per farmi
vacillare? Non sono
riuscito a trovare una risposta soddisfacente», concluse.
Dylia gli
scostò un ciuffò che gli ricadeva sulla fronte,
poi lasciò scivolare delicatamente la mano di lato, sostando
più a lungo sulla sua guancia, mentre gli occhi si posarono
sulle labbra di lui svelando il desiderio nascosto. Senza indugiare
oltre lo baciò. Nell’ambiente
circostante c’era l'odore del
disinfettante e il rumore di qualche barella trascinata in un corridoio
lontano, ma quel contatto, che sapeva di vita e speranza, aveva
trasportato entrambi in un altro mondo lontano anni luce da
lì.
Qualche
mese dopo Dylia tornò al lavoro al solito
distretto, sotto il comando di quel
simpatico vecchietto fanatico dei sigari che era il suo capo. Si
domandava per
quale fortunata concomitanza di eventi gli agenti dei servizi segreti
avessero tralasciato
certi dettagli compromettenti dai loro rapporti. Ricevette
l’indizio chiave una
sera, sotto forma di buono per un acquisto al
negozio di
robotica, accompagnato da un biglietto firmato da Saati: forse
l’interesse che quello svampito aveva
mostrato nei suoi
confronti non era tutta finzione.
Altre
novità riguardavano il metodo d’azione del
dipartimento di trasposizione. Erano
state apportate delle migliorie: ora si potevano usare
contemporaneamente più
dispositivi per la distorsione del campo elettromagnetico. Ne erano
stati
dislocati un po’ ovunque nelle principali metropoli del
pianeta. Ovviamente ci
si poteva collegare a uno solo alla volta, ma questo garantiva comunque
una più
veloce entrata in azione. Uno di questi era collocato al nord e
precisamente a
Mlad, dove Elar continuava il suo filantropico lavoro di redenzione
all'ospedale civile.
Ogni tanto, se era
sicura che i suoi spostamenti non erano monitorati, accendeva il
macchinario e
andava a trovarlo. Gli sedeva accanto quando, durante l'orario di
riposo, sostava sul
muretto
esterno della clinica; si godeva quella vicinanza e la particolare
atmosfera del posto raccolta in un silenzio meditativo.
Nell’attesa che Elar
trovasse un modo sicuro per tornare
a circolare liberamente per il pianeta, si accontentavano di quel
contatto a
metà per non creare sospetti. Anche
se lui non poteva vederla, percepiva la sua presenza. Fu
così
che un giorno, stringendo tra le mani il DSZ potenziato da un
particolare algoritmo di sua invenzione, si
girò verso il nulla permeato dal gelo del nord e disse:
«Sai, forse ho trovato la soluzione.»
Il giorno dopo un blackout di proporzioni globali colpi Terratre
per cinque minuti e quarantanove secondi. Quando tornò
l'elettricità, nessuno si accorse che gli archivi
con i dati
compromettenti che incastravano Shulik erano stati totalmente
cancellati.
Nella città in cui risiedeva Dylia era notte fonda. Oliwar
captò un segnale anomalo in entrata nel sistema domotico
dell'appartamento; lo scrisse in un biglietto che appoggiò
sul
comodino della ragazza prima di stendersi al suo fianco nel letto.
Il messaggio tradotto corrispondeva a due sole lettere: E.S.
The End/
To Be Continued...
Note autore:
Lo
so,
lo so! Questa conclusione lascia aperte le porte alla
possibilità di
scrivere un seguito! Ve lo già detto che io non sopporto i
finali? E allora, visto che posso scegliere, scelgo di
lasciare i
miei affezionati personaggi in una parentesi temporale; congelati fino
al momento in cui mi verrà l'ispirazione per scrivere un
sequel.
Le manie di onnipotenza degli autori nei confronti dei
propri
racconti. ♥ Comunque... immagino abbiate capito a che cosa
si riferiscono le due lettere, no?
Spero davvero di avervi
regalato qualcosa di positivo e come
al solito sono benaccette le critiche costruttive.
Ci
si rivede in una nuova avventura
fantascientifica: variabili del caso permettendo. :)
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