Limbo- The Forgotten World

di Alexander Bane
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un altro mondo ***
Capitolo 2: *** Nicole Shane ***
Capitolo 3: *** La Calma prima della Tempesta ***



Capitolo 1
*** Un altro mondo ***


Il ragazzo dai capelli argentei riportò lo sguardo sui tavoli vuoti della mensa, su quelle tavole di legno scuro ammuffite e screpolate.
Non che ne preferisse la visione in confronto al guardare la persona di fronte a sé, anzi.
Ma, come dire, tutto questo gli sapeva molto da deja-vu, da quando, tre anni prima, s'era trovato su quel tavolo per lo stesso motivo con la stessa ragazza, mano nella mano.
Stavolta, però, le mani stavano in bella vista sulle assi di legno, intente a picchiettare sul morbido tavolo umido ed a spostare ciuffi ribelli.
L'unico rumore proveniva da quella maledetta goccia d'acqua, lì probabilmente da prima che quel posto cadesse in decadenza.
Da tempo immemore, quella goccia d'acqua continuava a cadere dal soffitto, in un secchio di metallo arrugginito.
Nonostante essa stesse immobile a mezz'aria, il rumore proseguiva eternamente, provando duramente la pazienza del ragazzo.
 
'...Quindi...perché vuole vedermi?' iniziò egli, tentando di prevalere sul rumore dell'acqua.
In realtà già conosceva il motivo.
Come lo conosceva tre anni prima, come dieci, quattordici, ventuno...
Sarebbe stato in grado di ricordare anche il primo di tutti, se quella maledetta avanguardia non avesse bloccato quel posto.
Egli già sapeva tutto.
 
Voleva solo coprire quel rumore.
 
Lei alzò lo sguardo, lasciando trasparire un bagliore sotto i ciuffi neri davanti alla fronte, mentre il rumore delle sue unghie sul legno iniziava a scandire il 'tempo'.
 
'Alexander, dovresti smettere di chiedere ciò che già sappiamo'
la stanza si riempì per qualche secondo della sua voce, che echeggiò nelle ultime tre lettere.
 
'L'ultima volta è toccato ad An, ora chi sarà il prediletto?' insistette lui.
Era l'unica domanda a cui non sapeva ancora risposta.
 
'...Soggetto 11-B' 
Ella non aggiunse nient'altro, scandendo quelle parole in maniera tale da far intendere che non avrebbe riaperto bocca.
La conversazione sarebbe dovuta finire lì.
 
'Dove avete intenzione di spedirmi, stavolta?
In un fantastico viaggio esotico in una foresta piena di rane demoniache oppure nel più classico paesino vulcanico a Yellowstone?'
Il tono nella sua voce era di una persona seccata, parecchio seccata.
E per sua sfortuna, quel senso di seccatura si trasferì alla ragazza.
 
Ella abbassò lo schermo del portatile, squadrando il ragazzo con sguardo assassino.
Alexander abbassò il capo per sfuggire a quella sua sorta di aura oppressiva, ed in quel momento le mura dell'edificio si creparono in un suono inquietante.
 
'Devo andare' 
Alexander non disse altro.
Mentre saliva la scalinata assaltata dal muschio non voleva pensare che non sapeva se l'avrebbe rivista, non voleva pensare che forse le sue ultime parole con lei sarebbero state l'accento ad un litigio, tantomeno che con lei era ancora rimasto a tacere.
 
No, non ci pensava.
Ora doveva solo pensare a ciò che stava per fare, al suo unico compito.
 
Giunse al quintultimo gradino, ed iniziò a sentire come dei mormorii da sotto ai gradini.
Quartultimo.
Qualcosa si stava avvicinando da sotto, ascoltando il suo battito cardiaco accelerato.
Terzultimo.
Il rumore delle gocce di sudore che toccano il muschio sembra attrarle ancora di più, mentre l'aria attorno a lui si espande in seguito alla potenza dei battiti del suo cuore.
 
Penultimo.
Le gambe sembrano non reggerlo più, quasi mandandolo fuori strada, per allontanarlo da quel terrazzo.
Dei graffi iniziano ad udirsi da sotto la scalinata, come creature desiderose di raggiungere il suo corpo.
Dio solo sa cosa ne farebbero poi.
 
Una voce debole gli passò nella testa.
'Alexander...'
 
Ultimo gradino.
L'aria si fa fredda, così gelida che sembra che davanti a lui possa formarsi un blocco di ghiaccio.
I graffi si sono trasformati in pugni, che fanno traballare la debole struttura dell'edificio.
Ancora quella voce.
 
'Alexander....non dirmi che avrai ancora paura dei fantasmi...'
 
Egli appoggiò il primo piede sul terrazzo, ricorrendo ad ogni ultima sua forza per salirvici con l'altra gamba.
In fondo alla balconata, sostava una figura dai lunghi capelli neri, le cui spalle erano coperte da un mantello nero pece e due toppe dorate.
Rimanendo in bilico, appoggiata ad una staccionata di metallo arrugginito, la figura si voltò di scatto.
Il cielo arancio-nero risaltò gli occhi verde clorofilla, incastonati in un viso dall'espressione glaciale.
 
'Oh, Alexander' riprese lui, con una voce roca e ferma.
'Non dirmi che hai ancora litigato con Armonia..'
 
Alexander scosse la testa, asciugandosi il sudore tentando di apparire sicuro.
 
'No, Vejlo.
E per tua informazione, non ho paura degli spettri da...'
 
'Meglio, allora' lo interruppe la figura scura dall'inusuale nome.
'Controllando nei tuoi sogni, ho sempre visto questi fantasmi terrorizzarti a morte, così mi chiedevo se tu li temessi ancora'
Il suo sguardo si fece meno serio, con una punta di riso soffocato.
 
'Non più, Vejlo.
Ma comunque, perché me lo chiedi?
Non puoi mandarmi nel mondo degli spettri' replicò Alexander incurvando il lato della bocca in un sorriso quasi beffardo.
 
Il vento si fermò, l'atmosfera si fece pesante.
 
'Te l'ho chiesto perché questa è la nostra ultima possibilità.
E perché tutto questo, per te...'
Allargò le braccia, chiudendo gli occhi ed alzando gli occhi al cielo.
Alexander si rilassò, dimenticando qualsiasi cosa alla quale stesse pensando prima e chiuse gli occhi.
'Non sarà altro...'
La voce di Vejlo tremò, mentre l'intero edificio venne scosso dai suoi tremori.
'Che un enorme ed eterno...'
 
Alexander aprì gli occhi, scandendo ogni lettera della parola seguente insieme a Vejlo.
'Incubo'
 
L'adrenalina gli percorse il corpo come un lampo attratto da parafulmine.
Alzò le braccia al cielo, guardando l'aria intorno a sé brillare come lucciole.
 
'Alexander Bane, non deludermi.
Soggetto 11-B, ricorda'
Vejlo pronunciò quelle parole con quasi amarezza, tendendo la mano verso Alexander.
 
E mentre tutto si faceva più chiaro e luminoso, quest'ultimo puntò le braccia ai propri piedi, guardando le piastrelle attorno a sé diventare di un bianco puro, mentre veniva lentamente assorbito al loro interno.
 
'Non ti deluderò'
 
Pronunciate queste parole, Alexander scomparve nel cerchio di luci.
Dopodiché, l'intero cosmo parve perdere brillantezza e calore.
E subito dopo si acquietò, come si calma bambino fra le braccia di madre.
 
Tutto si fece buio pece.
 

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Capitolo 2
*** Nicole Shane ***


Guardai le parole sullo schermo, davanti ai miei occhi, e presi fiato.

Nicole Shane era un tipo molto particolare, un maschiaccio.

Di corporatura neanche tanto esile, a differenza della maggior parte delle altre ragazze dell'Istituto, nel suo volto erano incastonati due occhi verdi, quasi grigi, di cui quello destro era coperto da un ciuffo fino alla punta del naso. I capelli erano, infatti, l'unica cosa di femminile che possedeva, battute squallide dei suoi compagni a parte. Lunghi fino a poco sotto il seno non molto pronunciato, erano di un colore marrone castano, senza alcun tipo di riflesso. La pelle morbida ed il naso sottile erano spesso coperti dai suoi capelli o vestiti, dalla tendenza sempre sportiva.

Il suo guardaroba non comprendeva gonne.

Altruista e fragile, spesso la si poteva trovare appollaiata su una rampa di scale a guardare qualcosa di non precisato, col viso appoggiato ad una mano ed i capelli cadenti di lato. Sfortunatamente per lei, spesso era sola nel farlo. Non era contemplato l'altruismo nel gruppo di persone che conosceva, fatta eccezione per Alyssa Bergman e Darevonn Beneath.

Nonostante con la prima le conversazioni fossero relativamente rare e brevi, la gracile ragazza dal tono pacato ed occhi tristi, qualsiasi fosse l'espressione, portava con sé un bagaglio culturale notevole, raccimolato da sola nella solitudine simile a quella di Nicole. D'altra parte, Darevonn ci sarebbe stato tutto il tempo necessario, finché la scorta di merende di Shane avesse retto. Sonnolento ma allegro, il ragazzo era richiesto da intere classi se si trattava di riportare un po' d'allegria fra le masse. Un trio curioso di individui. “

 

 

Sospirai lasciando cadere la testa fra le mani, poco dopo aver letto l'ultima riga del testo. Non andava ancora bene, tutto pareva con troppa enfasi... Ogni descrizione sembrava troppo...sì, troppo, ecco. Sembrava troppo, per tre semplici giovani come noi. Ero lì seduta da ore, eppure nulla di tutto ciò che avevo scritto mi soddisfaceva. Lasciai la testa e spinsi sula scrivania con le mani, dandomi la spinta per rialzarmi, quasi però inciampando nelle ruote della sedia.

Shane, va' a casa. E' tardi ormai, ci vediamo domani” mi disse il bidello, una delle poche persone che non pensava due volte prima di parlarmi. Sospirai ed annuii, afferrando lo zaino appoggiato sotto la sedia e schivando quelle posizionate ai tavoli dell'aula informatica. Passai lasciando che la mano strisciasse su di essi, su quel legno liscio e chiaro, fino a staccarsi sul bordo metallizzato e ruvido.

A domani, Garret, e grazie per avermi fatto rimanere un po' di più” dissi, rivolgendo lo sguardo verso di lui. Egli però era già intento a pulire la moquette, e rispose con un lieve cenno del capo. Uscii dall'aula e percorsi il labirinto di corridoi, fino a raggiungere l'atrio di marmo e granito, disposti a creare decorazioni quasi di un altro mondo sul pavimento. I ghirigori iniziavano dai tre corridoi che convogliavano il flusso di persone delle ore di punta, ma ora tutto ciò che convogliavano era la mia immaginazione. Dal lato dell'uscita non ci sono, perciò spesso i nuovi alunni scherzando lo interpretano come un 'Non uscirai più da qui'. Ridacchiai ricordando la faccia di Darevonn quando lo disse per la prima volta.

 

 

Ascoltai il rumore della pioggia infrangersi e scorrere sulle lastre di vetro di cui era ricoperto il soffitto e, dopo interminabili secondi, riportai i miei pensieri sull'uscita.

Quando misi piede fuori, sospirai sollevata. Immaginavo che ci sarebbe stato molto più freddo. Mi strinsi nella felpa grigiastra, già nera per via dell'acqua, e mi incamminai lungo il viale d'ingresso. Fra un lampo e l'altro guardavo le forme che la loro luce proiettava per terra, mischiata alle ombre dei pini marittimi e le siepi fiorite ai lati della strada. Mi persi qualche secondo a fissare le entrate al giardino, un arco di metallo bianco a segnare il distacco fra le siepi, poi ripresi il mio passo e raggiunsi il cancello d'uscita, sempre di metallo bianco, fra due muri di mattoni con sopra un recinto di, indovina un po', metallo bianco, dalle forme irregolari eppure piacevoli. Per qualche secondo udii il rumore della ghiaia sotto i miei piedi, poi esso venne sostituito da quello della pioggia. Questo mi diceva che ora stavo camminando sull'asfalto. Percorsi il grande viale principale guardando le insegne al neon illuminate ai lati della strada e sui palazzi, notando che quella sera nessuno girava in auto. Solo un qualche povero disgraziato con un ombrello e dei barboni, sotto le loro misere capanne di cartone. Passando accanto ad una di esse, non resistetti: mi fermai sotto le mille punture d'aghi della pioggia, estrassi il portafoglio dalla tasca e posai dentro la sua capanna improvvisata cinque euro, poi, immaginando la sua faccia al risveglio, ripresi la strada per casa. Non era niente di che, un appartamento in un palazzo generico, con una piccola balconata che dava sul viale. Estrassi le chiavi dalla tasca della felpa, aprii la porta e mi fiondai nel calore familiare di quel posto. “Mamma, sono a casa...” dissi fra me e me, quando l'unico suono che uscì dalla mia bocca fu quello di uno starnuto. “Anna, sono tornata” dissi invece, appoggiando l'impermeabile all'appendiabiti. L'unica cosa che mi sentii rispondere fu, come al solito, un debole “Mh-Hm” dal salotto, ma mi bastava. Mi scrollai un po' dell'acqua di dosso e salii la scala a chiocciola che portava alle stanze di sopra, aprii la porta della mia e mi lanciai sul letto. Prima di affondare la testa nel cuscino, guardai l'orologio da muro sulla parete opposta al letto. Solo le 19:54, eppure mi sentivo già crollare. Mi tolsi solo le scarpe e la felpa, lanciandole da qualche parte nell'ignoto della stanza, prima che i miei occhi si serrassero e che io sprofondassi in un profondo sonno rigenerante. Prima di un altro giorno generico, in quella generica classe del generico istituto.

 

O almeno, così pensavo secondi prima di crollare addormentata in un sonno profondo.

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Capitolo 3
*** La Calma prima della Tempesta ***


La sveglia suonò alla solita ora, al momento del mattino dove i colori dell'alba sono uguali a quelli del tramonto. Sentii le orecchie stapparsi con uno sbadiglio, lasciando che i suoni del passaggio delle prime auto iniziassero a farmi intendere che ero sveglia. Fortunatamente uso la sveglia del cellulare, tenuta a basso volume, così da permettermi un risveglio non troppo movimentato e caotico. Lentamente mi liberai delle lenzuola, facendo disperdere il calore immagazzinato sotto di esse nell'aria della mia camera e posando i piedi sul pavimento di legno, cercando le mie soffici pantofole. Mentre i piedi zompettavano a quelli del letto, tentai di fare mente locale per ricordare che giorno fosse.

 

...mercoledì”, borbottai dopo uno sbadiglio, trovando finalmente le pantofole.

 

Mi alzai e mi stiracchiai, in quello che pareva più contorsionismo che l'atto di stirarmi. Raggiunsi il bagno e mi sfilai i vestiti, lanciandoli con noncuranza sullo stendiabiti, afferrando lo spazzolino e domandandomi cosa dovessi portare quel giorno all'istituto. Mi lavai i denti e mi sciacquai la faccia, tastando con la lingua il palato per sentire la freschezza della menta del dentifricio. Usavo lo stesso sin da quando ero piccola, dal momento in cui mia madre me l'aveva fatto provare.

Uscii dal bagno ed aprii l'armadio, infilandomi le prime cose che mi capitarono: canottiera bianca, una maglietta verde smeraldo a mezze maniche con alcuni decori rossi, un paio di jeans scuri e la felpa del giorno prima, fortunatamente asciutta.

Mentre mi avvicinavo allo zaino per caricarlo di libri e qualsivoglia oggetto scolastico, mi saltò in mente l'idea di farmi una doccia calda. “Ma no...” pensai di rimando. “Tanto oggi ho ginnastica, e sono già vestita, la farò stasera...”.

 

Caricato lo zaino, me lo misi in spalla e sostituii le pantofole ad un paio di scarpe da ginnastica bianche, afferrai le chiavi riposte con molta cura su una delle mensole della stanza e scesi dalle scale cercando di non fare rumore. Lanciai uno sguardo al salotto, solo per scorgere Anna sul divano addormentata sotto il suo piumone. Aprii lentamente la porta e mi guardai intorno, sentendo immediatamente odore di bagnato. Lunghi ruscelli piovani scorrevano accanto ai marciapiedi, riempiendo i tombini e reclamando qualsiasi oggetto cadesse ai passanti. Doveva aver smesso di piovere da poco, in quanto esso sovrastava gli altri odori della città. Ma neanche quell'odore riusciva a non farmi percepire il lieve effluvio di caffè proveniente dal bar dall'altro lato della strada. Tastai le tasche della felpa per essere sicura che chiavi e portafoglio fossero lì, presi fiato e corsi fino al marciapiedi di fronte, saltando i corsi d'acqua ai lati della strada.

 

Aprii la porta in vetro del bar, ed inspirai profondamente per godermi l'odore dei caffè e dei cappuccini che i primi clienti gustavano ai tavoli. Ordinai una brioche ed un cappuccino, pagai in anticipo e mi sedetti ad un tavolo davanti alla vetrata. Il posto era invaso da una luce quasi dorata, dalla quale fortunatamente il vetro lindo non si lasciava contaminare, mostrando i colori del mondo esterno senza variazioni. Esso era così pulito che riuscivo perfino a vederci il mio riflesso, insieme a quello degli altri clienti. Mentre guardavo il mio riflesso nella vetrata, per sistemarmi una ciocca ribelle di capelli, notai un volto sconosciuto riflesso dietro di me. Era confuso, i lineamenti, per quanto mi riguardava, potevano essere di un quindicenne come di un ventunenne. L'unica cosa distinta nel vetro erano i capelli, scompigliati ed appuntiti.

Mi voltai per scorgerlo nella sua interezza, ma l'unica cosa che vidi furono i tavoli ed il bancone.

Oh, Nick...” mi dissi, strofinandomi gli occhi. “E' proprio vero che gli umani vedono volti ovunque”. Ridacchiai fra me e me, sorseggiai il cappuccino appena ordinato e mangiai la mia brioche, ancora calda. Prima di uscire lanciai un'occhiata all'orologio, sistemandomi le maniche della felpa: 6:50.

 

Caspita, ce ne avevo messo di tempo, fra vestiti e colazione. Affrettai il passo verso l'istituto, correndo poi fra le viuzze, scorciatoie e marciapiedi. Infine, quando giunsi davanti ai cancelli, tirai un sospiro di sollievo: ero ancora riuscita a mantenere il mio orario. Me la presi comoda, sul viale che portava all'ingresso. Mi presi il tempo di guardare le fronde dei pini marittimi che solo qualche ora prima venivano scosse dal vento, il verde rigoglioso delle siepi e l'acqua scorrere nei canali di scolo. Il cielo era azzurro e quasi senza una nuvola.

 

Dentro l'edificio, precisamente alle 7:15, mi feci aprire da Garrett, lo ringraziai e mi sedetti su una delle panche ai bordi del corridoio. Poco prima che l'istituto venisse invaso dagli studenti, guardando il soffitto percepii come delle dita che mi sfioravano il collo, ed ebbi un brivido. Di scatto la mia mano corse a coprire la zona dove mi pareva di aver percepito il tocco, sentendo però solo il mio collo. Non ci feci troppo caso, e guardai le orde di ragazzi e ragazze entrare dalle porte fino ai corridoi. Cercai con lo sguardo Darevonn ed Alyssa, ma non trovai nessuno dei due. Quando l'afflusso di persone iniziava a concedere ai volti e voci di differenziarsi, la campanella suonò, e sentii una mano chiudersi attorno al mio avambraccio.

 

Allora, Nicole, andiamo o hai intenzione di guardare la porta ancora per molto?” Sorrisi e riconobbi la voce, e scherzando replicai. “Oh, Darevonn, scommetto che sei arrivato anche prima di me, ti sei appostato dietro al primo oggetto che hai trovato, mi sei subito venuto dietro e hai fissato il mio zaino fino ad adesso, chiedendoti quali delizie io abbia oggi in serbo per te”. La sua mano fece più presa e mi tirò su, e ci incamminammo lungo il corridoio. I suoi capelli arancioni fecero impallidire un paio di ragazze del primo anno ed i suoi occhi azzurri domandare se fosse come gli altri ragazzi a chiunque non lo conoscesse. In un attimo di silenzio, la sua voce calma e teatrale si diffuse nel corridoio. “Sai anche tu che neanche se vivessi qui dentro arriverei prima di te. Andiamo, Nick, qui tutti non arrivano prima di dieci minuti dalla campanella! C'è chi pomicia in giardino, chi cazzeggia nelle strade, chi è sveglio già alle cinque ma tu sei l'unica che entra qui dentro prima che inizino i dieci minuti finali”. Risi, sorridendogli.

Ora, tu e la tua delizia entrate in classe, s'il vous plait”, aggiunse lui con un inchino, indicando la porta in legno della classe. Poco prima di entrare, lanciai uno sguardo alle lastre di vetro sul soffitto, chiedendomi, senza alcun motivo, quanto dovessero essere spesse per essere sicure. E soprattutto perché nessun volatile si azzardasse a sporcarle.

 

La giornata proseguì come ogni mercoledì, Darevonn si sedette accanto a me per tentare di rubarmi la merenda quando abbassavo la guardia ed Alyssa se ne stava tranquilla in prima fila. Come sempre.

Quando giunse l'intervallo, Darevonn pareva essersi appisolato sul banco. Risi, sventolandogli un pacchetto di cracker davanti agli occhi. Lui aprì gli occhi, sbadigliò e mosse le braccia a peso morto tentando di afferrarlo.

Dopo un po' si alzò in piedi, mi guardò ed indicò il pacchetto col dito, passandosene un altro sul collo simboleggiando la ghigliottina. Chiusi per qualche secondo gli occhi e risi, sentendomi vibrare il corpo. Li riaprii sicura che mi stesse scuotendo in modo spastico, ma l'unica cosa che vidi fu il suo volto acquistare un'espressione sconvolta e sicura allo stesso tempo.

Prima che potessi realizzare, la stessa terra su cui stavo in piedi tremò violentemente, facendomi perdere l'equilibrio.

Mentre dalle classi esplodeva un grido e l'allarme suonava, ebbi come un presentimento.

 

Qualcosa mi disse che c'era dell'altro, oltre le scosse.

Ma in quel momento, la mia unica preoccupazione era uscire.

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