Sakura

di Mary P_Stark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Los Angeles ***
Capitolo 2: *** II. Tokyo ***
Capitolo 3: *** III. Tashida ***
Capitolo 4: *** IV. Rendez-vous ***
Capitolo 5: *** VI. Starting ***
Capitolo 6: *** V. Misatomachi ***
Capitolo 7: *** VII. Hunters ***
Capitolo 8: *** VIII. Escape ***
Capitolo 9: *** IX Search ***
Capitolo 10: *** X. Approaching ***
Capitolo 11: *** XI. Fight ***
Capitolo 12: *** XII Run ***
Capitolo 13: *** XIII Ghosts ***
Capitolo 14: *** XIV Alaska ***
Capitolo 15: *** XV Truth ***
Capitolo 16: *** XVI Working ***
Capitolo 17: *** XVII Error ***
Capitolo 18: *** XVIII Danger ***
Capitolo 19: *** XIX Traitors ***
Capitolo 20: *** XX Confessions ***
Capitolo 21: *** XXI Love/Hate ***
Capitolo 22: *** XXII Resign ***
Capitolo 23: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** I. Los Angeles ***





I. Los Angeles
 
 
 
 
 
Aveva sempre saputo che, presto o tardi, i suoi figli avrebbero lasciato il nido, ma di sicuro non si sarebbe aspettata nulla del genere.

Seduta composta sul divano, le mani poggiate sulle ginocchia e gli occhi vitrei, Hannah scrutava, senza realmente vederla, la figura accigliata e tesa del marito.

In maniche di camicia e pantaloni scuri, passeggiava nervoso per il salotto blu della villa di Malibù mentre Rocket, uno dei loro labrador neri, saltellava attorno a lui, in ansia.

La telefonata era giunta a sorpresa, e dalla persona più inaspettata di tutte.

Se solo avesse saputo che, quel viaggio, avrebbe potuto costare tanto, Hannah si sarebbe rifiutata con tutte le sue forze di lasciare partire Cameron.

Ma anche quel pensiero era assurdo, e il solo formarlo nella sua testa la fece sorridere mesta.

Da quando in qua, si opponeva a che i figli prendessero parte attivamente alle sorti della ditta?

Da quando in qua, si impuntava su cose simili, ben sapendo quanto entrambi i figli fossero capaci nei loro ruoli, e quanto piacesse loro rendersi utili?

Da quando in qua, alla fine dei conti, vietava loro di aiutare il padre negli affari?

Mai. Non l'aveva mai fatto.

Ma avrebbe tanto averlo fatto, questa volta.

Il trillo del video telefono li fece sobbalzare, ammorbando l'aria al profumo di limone.

Subito, Nickolas lo accese con il comando vocale e, con un fascio di fotoni, un'immagine tridimensionale si levò dal telefono posto sul tavolino del salotto.

Il volto stanco e combattuto di Kitoshi Grayson, ambasciatore USA a Tokyo, parlava da solo.

I corti capelli neri, striati di grigio sulle tempie, furono maltrattati dalla mano leggermente tremante dell'uomo.

«Ancora nessuna notizia, Mr Van Berger. La polizia nipponica sta continuando le ricerche, ma di Cameron non ci sono ancora notizie.»

«Sebastian? Leon? Loro, come stanno?» si informò subito l'uomo, pensando immediatamente alle due guardie del corpo del figlio.

L'ambasciatore scosse il capo, spiacente, e mormorò: «E' stata loro recisa la gola con precisione chirurgica. Non c'è stato nulla da fare.»

Hannah emise un singulto strozzato, portandosi le mani al collo, come se fosse stato il suo, ad essere stato tagliato con mortale precisione.

Nick la osservò spiacente per un attimo, ma proseguì la chiamata intercontinentale.

«La polizia ha almeno una qualche idea di chi possa essersi addentrato in albergo, e senza essere visto dai sensori ottici?»

Il tono di voce di Nickolas era profondamente seccato e sì, incredulo.

Ormai, quasi nessuna città era esente da quei sistemi di controllo retinico e, anche se questo aveva inficiato – e non di poco – sulla privacy, aveva anche aiutato le autorità.

In ogni angolo di strada, di ufficio, di corridoio o di metropolitana, gli scanner retinici tenevano sotto controllo l'intera popolazione, schedata a livello globale da almeno una decina d'anni.

Le impronte digitali potevano essere camuffate, i volti coperti da sapienti strati di lattice, ma la retina dell'occhio era unica, anche in caso di trapianto.

Ogni nuovo impianto veniva registrato, perciò non era possibile scampare ai controlli.

Certo, esistevano le operazioni chirurgiche illegali, ma gli scanner erano collegati con le reti internazionali di controllo retinico.

Ogni eventuale errore, veniva immediatamente inviato alla più vicina stazione di polizia, perciò evitare di venire scoperti era praticamente impossibile.

L'ideatore di tale diavoleria tecnica si era ispirato a Tom Cruise in Minority Report e, a conti fatti, molti avevano finito con l'odiarlo.

Non pochi avevano cercato di attentare alla vita dell'ideatore di View Scan, per lo meno una trentina di volte, dacché ricordasse Nickolas.

Nel bene e nel male, Timothy Dalton III aveva ideato un sistema davvero rivoluzionario per il controllo della sicurezza cittadina, e i governi di tutto il mondo ci si erano buttati a pesce.

Erano davvero pochi i luoghi in cui gli scanner retinici non erano installati – come villaggi sperduti, o antichi palazzi protetti dall'Unesco – perciò era comprensibile la rabbia di Nickolas.

Era evidente che quell'assalto era stato pilotato da qualcuno in grado di aggirare il sistema, ma questo non poteva provarlo. Non da Los Angeles.

E, a quanto pareva, anche l'ambasciatore aveva le mani legate.

«Mi tenga informato.»

Kitoshi assentì, prima di svanire dal raggio di particelle a fotoni.

Il telefono si spense e Nickolas andò ad accomodarsi accanto alla moglie, silenziosa e col volto percorso dalla paura.

Le afferrò una mano, fredda al tatto, e se la portò alle labbra.

«E' vivo, honey, stai tranquilla. Lo sapremmo, no, se gli fosse successo qualcosa?»

Lei cercò di sorridere, ma non vi riuscì.

Si limitò ad annuire, poggiando poi il capo contro la spalla del marito, che la avvolse con un braccio, protettivo.

Fu così che li trovò Domenic, di ritorno dalla sua personale missione.

Assieme a lui, bellissima e fuori di sé, Sophie Ellen Shaw entrò nel salotto e si lanciò letteralmente verso il divano per abbracciare i due coniugi.

Inginocchiatasi dinanzi a Hannah con occhi colmi di lacrime, la avvolse con le braccia, poggiando il capo contro i suoi seni.

«Hannah! Stai tranquilla! Sono sicura che Cam sta benissimo! E' troppo furbo per farsi fregare!»

La donna sorrise nel deporre un bacio sul capo di onde castane della fanciulla e, con tono controllato, mormorò: «Sono certa che hai ragione, cara.»

Dom osservò i genitori, torvo in viso e preoccupato per il gemello.

Un attimo dopo, Beau e Serena fecero il loro ingresso, subito seguiti a ruota da Bryce Kendall, amico di famiglia di lunga data e, tra le altre cose, investigatore di prim’ordine.

Come la madre e il nonno, entrambi ottimi detective privati, anche il figlio unico di Berenike aveva intrapreso la stessa carriera dei famigliari.

Quando furono ultimati i convenevoli, Hannah fissò vagamente sorpresa Bryce e, lanciato uno sguardo al figlio, gli domandò: «Era questo il tuo piano? Chiamare Bryce perché investigasse sulla cosa?»

«Qualcosa di meglio, mamma» le sorrise lui, dando una pacca sulla spalla all'amico, che ghignò in rimando.

«Ebbene? Parlate, voi due» sentenziò Nickolas, gesticolando con una mano per invogliarli a parlare.

Fu Bryce a prendere la parola.

«Dom mi ha aggiornato su quanto si è saputo finora e, visto quanto la rete di scanner sia capillare, a Tokyo, trovo sconcertante quanto assurdo che nessuno si sia accorto di una simile effrazione.»

Estrasse dalla tasca un piccolo palmare e, dopo avervi digitato sopra a velocità sorprendente, mostrò ai coniugi Van Berger una piantina tridimensionale di Tokyo.

«I puntini rossi sono gli scanner della città e, come vedete, l'Oh-Kami, l'albergo dove si trovava Cam, ne è completamente circondato. L'interno, non è meno controllato.»

Allargando l'immagine, mostrò loro anche l'interno del palazzo di quindici piani, uno dei migliori alberghi della capitale nipponica.

Levando un sopracciglio con evidente sorpresa, Nickolas gli domandò: «Sbaglio, o è vietato conoscere l'ubicazione degli scanner?»

Bryce ghignò malizioso all’indirizzo dell’amico e Dom, scrollando le spalle con nonchalance, dichiarò: «Bryce è bravo a indagare, tutto qui.»

«E a craccare i sistemi di sicurezza» aggiunse quasi divertito Nick, lanciando un'occhiata ammirata al ragazzo.

Il giovane investigatore non disse nulla, allargando con il tocco delle dita la figura tridimensionale del piano ove si trovava la suite di Cam.

«Come vedete, ci sono tre scanner, uno per ogni ascensore. E' materialmente impossibile entrare senza essere visti... a meno che qualcuno non abbia...» e così dicendo, mimò le virgolette «... “chiuso gli occhi” ai sensori.»

«E' la polizia che controlla il sistema, giusto?»

Nickolas aggrottò immediatamente la fronte e Hannah, preoccupata, fissò il figlio, tesa in viso e pallida come un cencio.

«Esatto. Supervisionata da una serie di ditte subappaltatrici, che controllano la parte prettamente logistica del sistema. Manutenzione, montaggio, cose del genere. Ma i supercomputer, che monitorano il programma View Scan, sono in mano soltanto alla polizia. Nessun civile può penetrare il sistema, perché è escluso dalla rete. Gli scanner operano su linee indipendenti, del tutto sganciate da internet, perciò non vi può essere alcun intervento esterno al sistema. Nessuno può forzare il programma. Non da fuori, per lo meno.»

«Una talpa, intendi?» mormorò Hannah, che stringeva a sé Sophie, ora accomodata al suo fianco.

«Qualcosa di più. Bloccare un intero sistema, senza che l'intera area vada in tilt, richiede l'impiego di più di un operatore. Devono lavorare in sinergia per escludere le aree un po' alla volta, sistematicamente. Non possono, per esempio, spegnere tutto Shinju-ku. Il sistema andrebbe in corto.»

Bryce si fece sempre più torvo in viso, alle parole di Domenic, e Nickolas non fu da meno.

Questo lasciava intendere che, non solo Cam era venuto in contatto con degli assassini spietati, ma che questi assassini erano ben coperti dallo sguardo della polizia.

Forse, erano addirittura aiutati dal sistema.

Ma perché?

«Ora, questa è la scena del crimine così come è stata inserita nel database della polizia» aggiunse a quel punto Bryce, cambiando schermata.

Hannah distolse lo sguardo, e Sophie le diede un bacio sulla guancia.

Nickolas, però, si concentrò sull'immagine in bianco e nero, tridimensionale, e domandò: «Hanno messo a soqquadro la stanza. Perché?»

«Depistaggio. O cercavano qualcosa. Posso sapere perché Cam era a Tokyo?»

Dom e suo padre dissero all'unisono, sconcertati ma con le idee chiare: «Il programma. Non può essere che quello!»

«Ma era un progetto segreto, non pubblicizzato in alcun modo!» esalò Hannah, sgomenta.

I presenti fissarono Nickolas in cerca di spiegazioni  e lui, sospirando, ammise: «E' normale che nessuno di voi ne fosse al corrente. E' un prototipo unico al mondo, e dovevamo farlo testare a una nostra consociata in loco, la Tashida Corporation. E' stato il loro Amministratore Delegato, Noboru Tashida, ad aver chiamato la polizia. Non vedendo arrivare nessuno all'appuntamento che avevano lì in albergo, è salito con il direttore per controllare che Cam stesse bene e... beh, il resto lo sapete.»

«Una talpa all'interno della Tashida, allora?» domandò Beau, il braccio drappeggiato sulle spalle della moglie.

«Noboru sta già facendo controllare tutti i suoi collaboratori, le linee telefoniche e digitali, ogni cosa. Era a dir poco furioso, quando l'ho sentito al telefono, e mi ha promesso piena collaborazione. Era scandalizzato all'idea che potesse essere successo qualcosa a Cam, e proprio quando si trovava lì per lui.»

«Si conoscono da molto, giusto?» si informò Bryce.

«E' stato Noboru a insegnare il giapponese a Cam» gli spiegò Nickolas, sospirando.

Bryce annuì e, con un passaggio veloce delle dita sullo schermo del palmare, lo spense.

Fu in quel momento che fecero il loro ingresso Brandon, Phillip e il piccolo Eric, il loro figlio adottivo di dieci anni.

«Fratello...» esalò sconvolto Bran, avvicinandosi a Nick per abbracciarlo.

Phill seguì l'esempio del compagno mentre Eric, andando a sedersi accanto alla zia, si strinse a lei e mormorò: «Non piangere, zia. Vedrai che sta bene.»

«Ora che sei qui, mi sento meglio, tesoro» gli sorrise Hannah, baciandolo.

Il ragazzo, biondo e dagli occhi blu come il cielo, le sorrise comprensivo.

Di origini russe, Eric era stato adottato legalmente dai genitori due anni prima e, da quel momento, la sua presenza non aveva che portato amore e allegria nella famiglia.

Di umore sempre allegro, Eric si era da subito dimostrato un bambino intelligente e furbo e, pur avendo faticato un po' ad abituarsi all'ambiente liberale americano, non si era scoraggiato.

Il suo accento russo si notava ancora un po', quando parlava di fretta, ma ormai si era pienamente integrato nel tessuto sociale locale e nella scuola dove studiava.

Ed era il cocco di Hannah.

«Novità?» si informò a quel punto Brandon, chinandosi per dare un bacio alla cognata.

«Un paio, direi.»

Bryce si grattò pensoso una guancia, e infine aggiunse: «Primo, non possiamo fare affidamento sulla polizia, per quanto riguarda il ritrovamento di Cam. E' evidente che è invischiata con questo... rapimento, mi viene da dire. Non trovo un termine migliore, al momento. Secondo, è possibile che qualcuno, all'interno della Tashida, fosse interessato a rubare il programma, indipendentemente dal suo contenuto. Il fatto stesso che sia un programma siglato V.B. 3000 farebbe gola a priori, e questo l’ha portato a non guardare in faccia a nessuno pur di averlo. E, visto che ha potuto pagare la polizia per chiudere gli occhi, deve essere qualcuno delle alte sfere. Uno dei soci, un manager, forse.»

Nickolas annuì torvo, trovandosi pienamente d'accordo con lui.

«Il Gruppo Tashida è ampio e dedito a molteplici attività. E' anche possibile che il colpevole non sia direttamente connesso alla Tashida Corporation, ma a una delle sue consociate. Il Gruppo ha l'intero sistema informatico collegato in remoto, perciò le ditte sono interconnesse l'una all'altra. Possono aver saputo così, dell’arrivo di Cameron a Tokyo.»

Bryce imprecò, prima di scusarsi con Eric, che rise per un momento.

«Uno qualsiasi dei top manager delle aziende di Tashida può essere venuto a conoscenza di questo incontro, a questo punto.»

«E' possibile, almeno in teoria» assentì Nick. «Noboru mi ha sempre detto che, nelle sue ditte, si è come all'interno di un'unica, grande famiglia.»

«E ora abbiamo un Giuda» ringhiò Domenic, infilandosi le mani in tasca per non essere tentato di rompere qualcosa.

«Proposte?» si informò a quel punto Sophie, guardandoli tutti con espressione seria e determinata.

«Io andrò in Giappone a cercarlo» dichiarò lapidario Domenic.

«Non se ne parla!» sbottò a sorpresa Hannah, attirando su di sé le occhiate di tutti.

«Ma mamma... si sta parlando di mio fratello, e...»

Incenerendolo con una sola occhiata, la madre sibilò furente: «Cosa ti fa pensare che tu non sia nel mirino delle stesse persone che hanno preso Cam? Non ti permetterò di mettere piede in Giappone, dovessi io stessa legarti al letto!»

Dom sbuffò contrariato, e Nickolas intervenne a pacificare gli animi.

«Tua madre ha ragione. Capisco che tu voglia sapere che fine ha fatto Cam, ma agire d'impulso non aiuterà nessuno.»

«Posso andare io, però. Sono slegato da anni dalla V.B.3000, e lo sanno persino i sassi» intervenne Brandon, volitivo. «Non ho valore, all'atto pratico, e lo sai.»

«Stronzate. Sei comunque un Van Berger, Bran, e potrebbero usarti come ostaggio, se...» cominciò col dire il fratello maggiore, subito interrotto da Brandon.

«... se rimango nell'ambasciata americana in attesa di notizie? Come, spiegamelo.»

Aggrottando la fronte, Nick fissò dubbioso il fratello che, sorridendo complice a Bryce, disse: «Perché Bryce possa ficcare meglio il naso dappertutto, abbiamo bisogno di essere in loco, e quale sistema migliore se non inviare una delegazione ufficiale a Tokyo per conoscere le sorti di mio nipote?»

«Si insospettiranno subito, se arriverai lì con un investigatore privato» replicò il fratello, scuotendo il capo.

«Io non viaggerò con Brandon» sottolineò Bryce, passandosi le unghie di una mano sul risvolto della sua giacca, l'aria tronfia e soddisfatta. «E saranno proprio i giapponesi a offrirmi la scusa ideale per entrare... invitato.»

«In che senso?»

«Fiera Internazionale dei Sistemi di Sicurezza» si limitò a dire Bryce, sorridendo. «Lavorando nell'investigazione, ho un pass VIP per la fiera. Perciò, entrerò per conto mio in Giappone, mentre Brandon andrà all'ambasciata. Il resto sarà facile, per me. So già a chi rivolgermi, tra l'altro.»

«Pare abbiate lavorato molto, di testa, nelle ore che hai passato lontano da casa, Dom» chiosò Nickolas, sorridendo orgoglioso al figlio.

«Stiamo parlando di mio fratello. Ovvio» scrollò le spalle il giovane.

«C'è solo una cosa che non mi sta bene» intervenne a sorpresa Sophie, alzandosi dal divano con aria battagliera.

I genitori la guardarono dubbiosi e lei, lanciando loro un'occhiata piena di scuse, mormorò: «Non lascerò Cam laggiù da solo.»

«Che intendi dire, ragazzina?» brontolò immediatamente Beau, poggiando le mani sui fianchi, l'aria inquisitoria e torva.

Sfidando apertamente il padre con lo sguardo, Sophie ammise senza remore: «Accompagnerò Brandon. Non ci sono né se, né ma, né però, che mi tratterranno qui.»

«E di grazia, perché dovremmo permettertelo?»

«Perché lo amo.»

Mai bomba esplose meglio, sulle teste dei presenti.
 







Note: ecco i nostri due eroi, e a quanto pare sembra si siano cacciati nei guai, e non poco. Cos'avrà realmente in mente, Domenic? E cosa potrà fare Bryce, per salvarlo? E Phie, riuscirà a partire per raggiungere Tokyo?
Per ora vi lascio col dubbio, e con una panoramica dei nostri protagonisti.
Per chi non le avesse lette, vi rimando alle due OS "Decisioni" e "Solo con te", contenute nella cartella "Honey's World", per aver meglio chiare le dinamiche dei protagonisti.

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Capitolo 2
*** II. Tokyo ***


II. Tokyo
 
 
 
20 ore prima...
 
 

La suite era splendida, ma su questo non aveva avuto dubbi.

Se c'era una cosa che non lo sorprendeva mai, in Giappone, erano la bellezza e l'eleganza sobria e raffinata.

Lo stile era tradizionale, con colori caldi e adatti all'ambiente altolocato.

Shoji in carta di riso delimitavano le stanze della suite, mentre i mobili, bassi, privi di orpelli e lucidati a specchio, erano confezionati in legno di rosa.

Il bagno, in marmo rosa, era abbellito da applicazioni in oro e, in un angolo, una statua di gatto, dalla zampa sollevata verso l'alto, evocò in lui antichi ricordi.

L’albergo scelto da Noboru Tashida, vecchio amico di famiglia, era in linea con gli antichi palazzi giapponesi, appartenuti agli shogun della zona.

Noboru sapeva come risvegliare in lui la sua passione per l’oriente, questo era certo.

A ogni nuovo incontro, l’uomo l’aveva reso edotto sulla cultura giapponese, spiegandogli i loro riti propiziatori, le loro feste, le loro abitudini.

Queste cose, nonostante il progresso feroce e l'avanzare dei tempi, non erano cambiate, in Giappone.

Era una terra ricca di estremi, e lui ne era sempre stato affascinato.

Accarezzò perciò il maneki neko in porcellana dipinta, che si trovava su una mensola, e mormorò: «Arigato...»

Ringraziare per quel piccolo gesto benedicente era il minimo.

Lanciata un’ultima occhiata al piccolo gatto in porcellana, si diresse verso l’ampio salottino della suite, ben deciso a servirsi un drink assieme alle sue guardie del corpo.

Sorrise spontaneamente nel vedere Leon, uno dei suoi bodyguard, ammirare la città dalle ampie finestre a sbalzo.

La Tokyo Tower era a malapena visibile, in quel dedalo di grattacieli multiforme e ricchi di luci colorate.

«C'è più traffico che a Los Angeles» ironizzò l'ispanico, sorridendogli nel sorseggiare una birra, presa direttamente dal frigo bar della stanza.

«Con più di quindici milioni di abitanti, non mi stupisce» assentì Cam, servendosi un vermouth prima di infilarsi nella sua stanza per sistemare gli abiti nell'armadio a muro.

Avrebbe potuto farlo fare a una cameriera, ma preferiva pensarci di persona.

Osservando i completi che aveva portato con sé per quella visita in Giappone, scelse uno spezzato beige-nero, per incontrare Noboru.

Con lui, le formalità non erano necessarie. Lo conosceva dacché aveva sei anni, e lo considerava alla stregua di uno zio acquisito, al pari di Phillip o di Bran.

Stava ancora decidendo quale cravatta abbinare alla camicia chiara, quando un rumore sospetto attirò la sua attenzione.

Un attimo dopo, la porta della sua stanza venne chiusa con uno schianto e, nel salotto della suite, scoppiò il caos.

Preoccupandosi subito, Cam fu lesto a recuperare il programma – motivo del suo viaggio in Giappone – dai suoi effetti personali e, infilatolo nella tasca interna della giacca, fissò torvo la porta.

Che doveva fare? Uscire e dare una mano? Chiamare la portineria dell'albergo? Far intervenire gli androidi di sorveglianza ai piani?

Prima ancora di poter formulare un qualsiasi altro pensiero, la porta venne spalancata e, con sua somma sorpresa, penetrò un uomo dal volto coperto da un passamontagna.

Gli abiti stonavano con le sue movenze ferine, perché jeans e maglietta non erano adatti a quello che, all'apparenza, sembrava essere un ninja.

Il silenzio nel salotto mise in allarme Cam che, però, non poté far nulla per controllare cosa fosse successo a Sebastian e Leon.

Il fatto che non fossero comparsi nella sua stanza, però, la diceva lunga.

«Non sono molto propenso a giocare, in questo momento. Cosa vuoi?» disse Cameron, seguendo con attenzione le lente manovre di avvicinamento dell'uomo incappucciato.

Se lo avesse voluto morto, a quel punto lo strano assalitore avrebbe già staccato per lui un biglietto per il Paradiso, perciò... cosa voleva?

Un paio di tonfi all'esterno della stanza sorpresero entrambi, portandoli a volgere lo sguardo verso la porta.

Prima ancora di poter aprire bocca per esprimere la rispettiva confusione, il guerriero ninja crollò a terra dopo alcuni secondi di ovvio sconcerto.

Nel suo collo, coperto dal passamontagna, era ben conficcato un sottile spiedo di metallo lucente, quasi sicuramente intriso di veleno.

Un'altra arma ninja. Ma che diavolo stava succedendo?

Sempre più preoccupato, Cam afferrò la prima cosa che gli capitò a tiro – la lampada da comodino – e, torvo, osservò la porta aperta della sua stanza.

Quando però vide comparire una figura di donna, il suo sconcerto salì alle stelle e, senza rendersene conto, lasciò cadere a terra la lampada.

Perché mai, neppure nei suoi incubi peggiori, si sarebbe mai immaginato di vedere una sua vecchia amica armata di tutto punto e, a quanto pareva, assassina matricolata.

«Yuki-necchan... ma cosa ci fai tu qui?» esalò Cam, sconvolto.

«Ti salvo la pelle, a quanto pare» replicò la giovane, guardandosi intorno con aria disgustata. «Vieni con me, non c'è tempo da perdere. Abbiamo ancora dodici minuti di copertura.»

Preferendo non chiederle nulla, annuì torvo ma lei, nel bloccarlo sulla porta, gli domandò: «Il programma è con te?»

Cam assentì, sempre più sospettoso e Yuki, afferratolo a un braccio, lo trascinò fuori dalla suite, impedendogli di fatto di perdere tempo accanto ai corpi esanimi delle sue due guardie del corpo.

Il giovane poté degnarli solo di un breve sguardo sofferto.

La sua vecchia amica, a quanto pareva, aveva fretta di allontanarsi, impedendogli di fatto di onorare i morti che lasciarono alle spalle.

Non appena si ritrovarono nel corridoio deserto, Yuki scartò a destra e, con competenza quasi preoccupante, estrasse dal giubbotto un paio di ganci uncinati, che inserì tra le fessure della porta dell'ascensore.

Così facendo, le forzò applicando una certa pressione e, dopo aver indicato a Cam di entrare all'interno del condotto, ordinò perentoria: «E ora mostrami quanto sei bravo ad arrampicarti, Cameron-kun

Cameron non si fece certo pregare e, utilizzando la scala a pioli metallici conficcata nella parete, risalì il cunicolo buio a due per due.

La sua mente, nel frattempo, galoppò veloce alla ricerca di un qualsiasi genere di spiegazione possibile a quello che era appena successo.

Era sul suolo giapponese da neppure dieci ore, e tentavano di ucciderlo per una cosa che, in teoria, nessuno conosceva?

Qualcosa non quadrava.

A quel punto, si chiese se fosse corretto fidarsi di Yuki. Dopotutto, lei come faceva a sapere del programma?

Per quanto si frequentassero dalla tenera età, per quanto si fosse allenato per anni, con lei e Dom, nell'arte del bushido, poteva dire realmente di conoscerla?

Quando perciò raggiunse la botola che conduceva al tetto dell'albergo, la affrontò a muso duro e ringhiò: «Gradirei qualche spiegazione, Yuki-necchan. E subito

La giovane sospirò, si passò una mano tra i lisci capelli neri – ora legati in una coda di cavallo – e, con occhi di diamante che bruciarono di rabbia, sibilò: «Ti hanno... ci hanno tradito fin nell'intimo, Cameron-kun1, ecco cosa c'è! Una persona di cui ci fidavamo entrambi, ha distrutto ogni nostra certezza. E ora io sono qui per evitarti di morire.»

Cam sobbalzò a quella confessione, comprendendo dai suoi occhi colmi di lacrime a chi si stesse riferendo, quale fosse il nome del traditore.

Solo, non volle crederle, neppure per un istante.

Perché avrebbe voluto dire mandare all'aria anni di amicizia, di affetto, di rispetto, di fiducia incondizionata.

Scuotendo il capo con furia a stento controllata, replicò veemente: «Non è possibile! E' semplicemente assurdo!»

Yuki allora lo affrontò, andandogli sotto fin quasi a sfiorarlo col proprio corpo e, con occhi che ora parevano incapaci di trattenere il pianto, aggiunse: «Cos'è, assurdo? Che l'uomo di cui entrambi ci fidavamo, sia in realtà un ladro e un mentitore? O che il tuo affetto per lui sia stato mal riposto? Mettiti in fila, Cameron-kun, perché prima ci sono io!»

«Come faccio a crederti, spiegamelo?! Potresti essere tu quella che ha tradito me, non lui!» gesticolò per contro lui, la mente resa cieca dalla furia e dal dolore.

La voce di Cameron rischiò di spezzarsi, e Yuki comprese bene il suo stato d'animo, la lacerazione dolente che era sicura stesse provando in quel momento.

La fiducia mal riposta lascia cicatrici dolorose e molto, molto difficili da cancellare.

«Non mi sembra di aver tentato di rubarti il programma. E sai che avrei la forza e le abilità per farlo.»

Cam la fissò torvo, ancora indeciso se crederle o meno e lei, con un sospiro, gli indicò un paio di sacchetti scuri accanto alle scale antincendio.

«Dobbiamo indossare le tute alari. L'hai già usata, vero?»

Lui si limitò ad annuire e, dopo averla guardata ancora per un momento senza fiatare, la seguì.

Le molte luci notturne non contribuirono a renderli visibili, complici le ombre lunghe dei palazzi vicini.

I due giovani passarono perciò inosservati, quando si lanciarono dall'alto del palazzo, planando con abilità in direzione della baia di Tokyo e del fiume Edogawa.

Avendo già volato in formazione, Cam non trovò difficile seguire i movimenti di Yuki, così come le dolci calibrate a destra piuttosto che a manca.

Nel breve trascorrere di pochi minuti, atterrarono sani e salvi su una pesante chiatta, diretta verso le darsene del porto vecchio.

Lì, la giovane giapponese liberò entrambi dalle tute alari, che nascose in una cassa di legno e, dopo aver fatto segno a uno dei marinai, trascinò con sé Cameron.

«Ci lasceranno nei pressi di alcuni canali di scolo, così potremo raggiungere i bacini di allagamento della G-Cans2. Un metodo pratico e sicuro per uscire da Tokyo senza essere visti.»

«E maledettamente lungo. Quei bacini sono enormi, oltre che sterminati. Una volta, tuo padre ci...» cominciò col dire Cameron, contrariato, prima di tapparsi la bocca.

Il suo viso si accigliò maggiormente, e ancora Yuki comprese al volo il suo stato d’animo. La sua rabbia non era dissimile da quella dell’amico.

Preso un gran respiro, Cam riuscì a trovare la forza per domandarle: «E' tutto vero, Yuki-necchan3? Non puoi esserti sbagliata?»

«Mi spiace davvero, Cameron-kun. Purtroppo, non mi sono sbagliata.»

Sospirò, e una lacrima ribelle le scivolò da quegli strani occhi di diamante.

Contrariamente al classico stereotipo nipponico, che era solito avere occhi scuri come i capelli, Yuki aveva ereditato lo strano color argento dell’iride dalla madre russa.

Neppure sua madre Hannah, o lui stesso, li avevano così chiari.

Quelli di Yuki erano quasi trasparenti, contornati da una corona blu scuro che li rendeva ancora più magnetici ed esotici.

Cameron li aveva sempre trovati bellissimi. E tristi, immensamente tristi.

Ora, lucidi di quelle lacrime che avrebbe fatto di tutto per non versare, gli fecero sorgere un groppo in gola. No, Yuki non stava mentendo.

Erano stati traditi entrambi da una persona di cui si erano sempre fidati, e ora stavano fuggendo da lui e dai suoi assassini.

Restava solo da capire per quanto tempo si sarebbero potuti dichiarare al sicuro.

 
§§§
 
«Fammi capire bene, Phie, cos'è questa storia?!» sbottò Beau, rivolgendo un'occhiata caustica alla figlia.

«Non c'è niente da spiegare, papà. Amo Cameron da quando avevo sedici anni, e lui lo sa. E ricambia!»

Immediatamente, lo sguardo di gelida giada di Beau si spostò su Nickolas, che levò le mani in segno di resa.

«Giuro, non ne so nulla.»

«Gggrrr... papà!» ringhiò Sophie, richiamando così l'attenzione dell'uomo. «Cam si è sempre comportato da perfetto gentiluomo. E poi non è questo il problema, adesso

Serena bloccò sul nascere la replica del marito e, fissando dubbiosa la figlia, disse: «Non mettiamo in dubbio la lealtà di Cameron, ma perché non ci hai detto nulla della vostra... relazione

Beau rabbrividì al solo sentir nominare la parola e la figlia, indicandolo come prova in giudizio, esclamò: «Ecco perché! Se fosse per lui, dovrei morire a novant'anni... completamente vergine

Ci furono parecchi colpi di tosse imbarazzati, e lo sguardo dubbioso di Eric si puntò sui genitori adottivi in cerca di spiegazioni in merito.

Phillip fu lesto a trascinarlo nella stanza accanto, così che potesse giocare con Rocket e Gamora, i due labrador neri della famiglia Van Berger.

Meglio che le sue orecchie non ascoltassero quello che, sicuramente, sarebbe seguito a quell'affermazione bomba.

«Non ho mai detto una cosa simile!» protestò Beau, inviperito e sì, oltraggiato dall'affermazione della figlia.

«Me l'hai fatto capire tutte le volte che sono uscita con un ragazzo!» protestò Sophie, sempre più furente.

«L'unica volta è stata quando ti sei presentata con quel pazzoide in Mustang nera, che voleva portarti fuori per fare una corsa clandestina, se ben ricordo» sbottò allora il padre, sfidandola a replicare.

Sophie ebbe la decenza di non dire nulla, limitandosi a bofonchiare delle proteste a mezza bocca.

Dom, intervenendo in suo aiuto, le avvolse le spalle con un braccio e disse: «Beau, posso parlare per loro. Si vogliono davvero un bene dell'anima, e non ve l'hanno detto solo perché sanno quanto le nostre famiglie sono legate. Non volevano che litigaste per causa loro.»

«Tu sapevi?» domandò Hannah, scambiando occhiate costernate ai due giovani.

«Io e Cam parliamo di tutto.»

Lo disse con un sorriso triste, forse spaventato all'idea di non poter più parlare col gemello, di non averlo più al suo fianco come, per ventitre anni, era sempre stato.

La sola idea lo fece rabbrividire.

Ora chetata e più tranquilla, come sempre grazie alla calma che Dom sapeva  instillare in lei, Sophie mormorò: «Conosco perfettamente il giapponese e la cultura nipponica, mi so difendere egregiamente, se dovesse servire, e potrei dare il mio contributo in maniera attiva, invece di limitarmi a stare qui ad aspettare. Fatemi andare con Brandon, vi prego!»

«Penserò io a Phie, ve lo prometto» si intromise Bran, dando un buffetto sulla guancia alla ragazza, che gli sorrise speranzosa.

«Sta bene, potrai andare. Ma quando tornerai, noi due parleremo. E per un bel po'» dichiarò Beau, fissandola caustico.

Sophie deglutì a fatica, annuendo, sapendo già che nessun pericolo, in Giappone, sarebbe stato peggio che affrontare la delusione del padre.

«Scusa, papà... non volevo mentirti.»

«Ma l'hai fatto. Non pensavo di esserti apparso un tale orco, così da spingerti a non parlarmi di una cosa tanto importante.»

Lo sguardo di Beau, ora, era ferito e stanco.

Sophie non poté dargli torto. Più ancora che con la madre, lei aveva sempre avuto un rapporto speciale con il padre, che amava alla follia.

Quello scorno doveva pesargli davvero molto ma, almeno per il momento, non poteva fare nulla per eliminarlo.

Piena di risolutezza, la ragazza guardò Nickolas che, annuendo, dichiarò: «Farò preparare il jet privato della ditta perché possiate raggiungere Tokyo entro domattina. Ma va da sé che non dovrete cacciarvi nei guai.»

Brandon, Phie e Bryce si guardarono vicendevolmente, annuendo tra loro come in un tacito accordo.

Dom, allora, batté una mano sulla spalla dell'amico e disse: «Vi assisterò da qui a livello logistico. Quando arriverai a Tokyo, Bryce, troverai ad attenderti uno dei miei amici.»

«Kanata?» ironizzò l'altro, ammiccando.

Domenic scosse il capo, pur sorridendo nel sentir nominare uno dei migliori hacker di loro conoscenza.

Per contro, disse serio in viso: «Ti appoggerai direttamente a Megami-Sama4

Bryce, a quel punto, perse del tutto la voglia di fare dell'ironia e, torvo in viso, mormorò: «E' davvero lei? Chi penso io?»

Il giovane Van Berger si accorse della curiosità insita negli sguardi di tutti, soprattutto del padre, e replicò: «Sarà Minami a venirti a prendere. La riconoscerai facilmente.»

Ciò detto, gli comparve un sorrisino divertito in faccia, il primo della giornata, e gli allungò una fotografia tridimensionale.

L'immagine prese vita non appena Bryce la sfiorò con la mano, mostrandogli le fattezze di una ragazza dalla importante chioma riccia e castana, un fiocco rosa tra i capelli e l'abito più strambo che avesse mai visto.

Il giovane detective strabuzzò gli occhi, fissò Domenic con aria più che scettica e, alla fine, gracchiò: «Ma è... è una bambina

Scrollando le spalle, l'amico ribatté: «Ha sedici anni, il minimo sindacale, direi, e sì, è strana da matti. Ma è lei. Ho testato di persona le sue abilità e credimi, fa paura

A quel punto, Nickolas intervenne e, torvo, chiese al figlio: «C'è qualcosa che dovrei sapere, Dom?»

Il figlio si limitò a sollevare un sopracciglio con ironia e, serafico, replicò: «Se stai pensando male, fermati subito. Ho testato le abilità informatiche di Minami, nient'altro. E se vuoi dormire la notte, papà, non chiedermi cosa sa fare, o perché io so quello che sa fare.»

L'uomo allora si passò una mano sul volto teso, fissò subito dopo la moglie – che appariva confusa e vagamente sconvolta – e mormorò: «Sapevi che nostro figlio non era solo una testa d'uovo?»

Il commento fece sorridere tutti, Hannah compresa, che ammise: «Evidentemente, la sua abilità con i computer esulava dal semplice lavoro in ditta.»

Domenic ridacchiò, passandosi una mano sulla nuca con aria imbarazzata, ma ci tenne a precisare: «Non ho mai fatto nulla di pericoloso, o propriamente illegale. Diciamo che tenevo d'occhio un po' di cose.»

«E Bryce ti ha dato man forte, a quanto pare» sogghignò Nick, lanciando un'occhiata divertita all'alto detective. «Due geni dell'informatica in un'unica stanza, possono far esplodere il mondo, eh?»

«Qualcosa del genere» ammise Bryce, scrollando le spalle. «Anche se io non sono neppure lontanamente bravo come Dom.»

Nickolas sospirò, si accomodò accanto alla moglie, ne afferrò una mano per portarsela alle labbra e infine domandò: «Puoi infiltrarti nella Tashida Groups, figliolo?»

«Anche subito» annuì lesto Dom, già presagendo cosa volesse chiedergli il padre.

Pur contravvenendo ai suoi stessi principi, Nick dichiarò lapidario: «Per quanto mi spiaccia farlo, voglio che controlli ogni cosa, anche quanto spendono per la carta da parati. Il problema è nato lì, e lì devono esserci le prove che riconducono a Cam e al programma. Scovale, Dom.»

Lui annuì, si avvicinò a entrambi i genitori con una serie di rapidi passi e, dopo essersi chinato sulla madre, le baciò la fronte, mormorando: «Cam è vivo, mamma. Lo so

Hannah gli carezzò la guancia sbarbata, assentì e disse: «Fai come ha detto papà, Dom. Spremi quei server fino all'ultimo dato.»

Domenic allora rise di fronte al tentativo della madre di essere forte e volitiva e, nell'annuire, si rimise diritto.

Si volse per sorridere allo zio e all'amica, cui si avvicinò per abbracciarla con forza.

Per le sue orecchie, poi, mormorò: «Riportamelo a casa, Phie.»

«Lo farò» assentì lei, lasciando che, ancora una volta, la calma interiore dell'amico la aiutasse a trovare il coraggio necessario.

Sophie aveva sempre visto Domenic come una roccia indistruttibile, sempre pronto a risolvere qualunque problema, sempre irreprensibile, disponibile e sicuro di sé.

Mai una volta, lo aveva visto perdere la calma, o dare in escandescenze come, invece, era solito fare Cam, più sanguigno e nervoso del gemello.

Ma quel giorno, Phie aveva scorto il panico nei suoi occhi color dell'oceano, e una insicurezza che non era sua.

Quel giorno, Dom stava affrontando qualcosa che mai, nella vita, gli era capitato di dover contrastare.

Non avere il controllo su tutto ciò che lo circondava lo terrorizzava, e Phie lo comprese benissimo. E non poté dargli torto.

«Lo riporterò a casa» insisté lei, sfiorandogli la guancia con un bacio prima di scostarsi dal giovane.

Dom annuì, lanciò un'occhiata fiduciosa allo zio e, senza dire nulla, si avviò a grandi passi verso l'uscita del salotto, ben deciso a mettersi immediatamente al lavoro.

 
§§§

La zona delle darsene avevano un odore limaccioso in qualsiasi parte del mondo, fosse anche quello che, all'apparenza, sembrava il più moderno e pulito.

Il tanfo di pesce marcio e di alghe ferì le narici di Cam che, nel passarsi una mano sotto il naso, esalò: «Dio! Hanno scaricato un camion di rifiuti tossici?»

«Il ricircolo delle acque è pessimo, in questa zona, e ora c'è la bassa marea, il che rende il tutto ancora più disgustoso» gli spiegò Yuki, avventurandosi sulla battigia dell'Edogawa con aria pensosa, affondando i piedi nella limacciosa consistenza del terriccio che li circondava.

Cam fece lo stesso, piangendo dentro di sé all'idea di aver appena gettato al vento ottocento dollari di mocassini Armani, ormai ricoperti di un materiale non meglio identificato.

Pensare alle cose futili gli servì per non impazzire di rabbia, in quel momento, e soffermarsi sui suoi abiti stropicciati, o le sue scarpe da buttare, fu d'aiuto.

Tornare ai corpi esanimi di Leon e Sebastian sarebbe solo servito a fargli perdere il controllo e, se c’era una cosa che era vitale, in quel momento, era proprio quello.

Ogni sei o sette passi, Yuki si volse per controllare che Cameron non avesse problemi e, al tempo stesso, tenne d'occhio le strade e i ponti poco distanti.

In teoria, avevano coperto bene le loro tracce, ma non poteva fidarsi dei loro nemici.

Erano troppi, e troppo capillari, per poter dare per scontato qualsiasi cosa.

Quando infine raggiunsero uno degli imbocchi della G-Cans, l'immane sistema di canalizzazione sotterranea che proteggeva Tokyo dalle inondazioni, la giovane mormorò: «Questo è uno dei condotti di scolo, che si gettano nell'Edogawa in caso di piena. Ci sono delle scale di servizio all'interno, che ci permetteranno di raggiungere i piani inferiori, che si trovano a circa ottanta metri sotto il livello del mare.»

«Rassicurante...» replicò Cameron, seguendola all'interno dell'oscuro cunicolo.

Lei gli sorrise a mezzo da sopra la spalla e, nell'accendere una torcia non appena furono al riparo da sguardi indiscreti, indicò le scale in acciaio e disse: «Si comincia.»

Cam osservò l’antro oscuro in cui stavano per immergersi, il freddo umido proveniente da quell'enorme condotto e il sordo, cupo vuoto che li circondava, e rabbrividì.

Nessuna discesa nelle grotte, o immersione nei canali sotterranei, l'aveva preparato a quella discesa negli inferi.

Soprattutto, nulla l’aveva preparato a dover fuggire da dei potenziali assassini della yakuza, la mafia giapponese.

Il leggero vibrare della struttura, sotto i loro piedi, fece rallentare entrambi.

Nessuno dei due desiderava produrre più rumore del necessario, pur se in quel ventre colmo di oscurità sarebbero stati più soli di Adamo ed Eva nell’Eden.

Peccato che il posto non fosse altrettanto idilliaco.

Silenziosi – nessuno emise verbo, nella lenta discesa verso il basso – percorsero per intero il tragitto a scalini, finché non raggiunsero il pavimento umido in cemento armato.

Dacché ricordava Cameron, l'ultima inondazione aveva colpito Tokyo meno di sette mesi prima, perciò non faceva specie che i condotti fossero ancora bagnati. Lì, il sole non arrivava mai.

«Dove si dirige, questo condotto?» si informò Cam, afferrando dalle mani di Yuki una seconda torcia, che si affrettò ad accendere.

L'oscurità ne venne solo minimamente scalfita, ma fu un sollievo tenere quella fonte di luce tra le mani.

«Si dirige a nord, diramandosi verso una serie di condotti secondari, che terminano alle varie stazioni di pompaggio. Ma a noi interessa il canale di scolo principale.»

«Ed è lungo?»

«Diversi chilometri» rispose Yuki, rimanendo sul vago.

Cameron sospirò rassegnato e la seguì, ascoltando distratto il cic-ciac delle sue scarpe sul cemento armato, che risuonò sinistro tra le pareti sterminate di quella galleria apparentemente senza fine.
 



 
____________________
1 Cameron-kun: il suffisso giapponese kun significa “fratellino”, ed è un vezzeggiativo usato tra amici stretti, tra adulti e ragazzi con forti legami o tra famigliari.
2 G-Cans: si tratta di un'imponente area di canalizzazione artificiale, dotata di pompe di drenaggio, costruita sotto Tokyo, per scongiurare eventuali inondazioni provenienti dall'oceano. I canali di scolo, imponenti, vengono convogliati nel fiume Edogawa perché rigetti le acque in eccesso in mare dopo che le sacche sotterranee ne abbiano contenuto i flussi durante la fase di pericolo.
3 Yuki-necchan: il suffisso necchan significa “sorellona”, ed è un vezzeggiativo in uso tra componenti della stessa famiglia, tra amici stretti o tra adulti e ragazze con forti legami.
4 Megami-Sama: Letteralmente, significherebbe “Dea”. Più nello specifico, è il titolo onorifico che viene tributato alle dèe giapponesi, senza distinzione.  Megami, nello specifico, significa letteralmente “Dea”, sama è un rafforzativo.


La "G-Cans" è un'immensa rete di condotti, costruiti sotto la città di Tokio, e utilizzati in caso di inondazioni da uragano. Contengono milioni di litri di acqua e permettono alla città di non rimanere sommersa durante le tempeste. Essa si sviluppa per centinaia di chilometri, e viene monitorata da diverse stazioni di pompaggio situate a nord della città. Da esse, le acque vengono fatte defluire, a tempesta finita, nel bacino del fiume Edogawa.

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Capitolo 3
*** III. Tashida ***


III. Tashida.
 
 
 
 
Non si era recato in aeroporto.

Aveva preferito rimanere nel suo piccolo, ma funzionale, laboratorio artigianale di casa.

Trovare il maggior numero di informazioni, era importantissimo, prima che Phie, zio Bran e Bryce giungessero a Tokyo.

Avrebbe potuto fare la differenza tra la sconfitta e la vittoria.

E, nel caso specifico, sarebbe costata o meno la salvezza di suo fratello.

Il solo pensiero lo portò a tremare, le dita vibrarono sulla tastiera, illuminata da una piccola abat-jour che teneva sull'ingombra scrivania, e Dom si bloccò.

Passatosi una mano sugli occhi, che sentiva bruciare – e non per le ore passate davanti allo schermo 3D – prese un gran respiro e ricominciò a lavorare.

La stanza era pressoché buia, attorno a lui, la notte era calata e Dom preferiva lavorare senza troppe distrazioni attorno.

Quel piccolo antro, costruito nel seminterrato della villa di Malibù, dove viveva con i genitori, era sempre stato il suo sancta santorum.

Poche volte vi aveva fatto entrare qualcuno, e solo Cam vi aveva sempre avuto libero accesso.

Sorridendo a mezzo, Dom ripensò alla volta in cui sua madre lo aveva minacciato di entrare con i marines, se non lo avesse pulito a dovere.

Così si era messo di buona lena, con straccio, aspirapolvere e antistatico, per rendere uno specchio quello che, agli occhi di Hannah, era parso come un campo di battaglia.

L’idea che uno dei droidi domestici potesse metterci mano, lo aveva così atterrito da aver preferito lavorare in prima persona, accanto ai suoi gioiellini.

Era lì, in quello stanzino di venti metri quadrati, dove era nato il programma che, in quel momento, stava rischiando di far ammazzare suo fratello – perché lui sapeva che era ancora vivo.

Le sue ossa, il suo sangue, il suo cuore glielo gridavano a gran voce.

E sapeva che era in pericolo a causa sua.

Ancora quel tremore, e il terrore di non riuscire.

Da quando era diventato così insicuro, lui che non lo era mai stato?

Sorrise triste, sapendo già la risposta, pur non volendo metterla a parole.

Era terrorizzato perché suo fratello era in pericolo, punto. E lui non era al suo fianco.

Per la prima volta nella sua vita, non poteva essere al fianco del gemello, essere la sua spalla, il suo lungo braccio, la sua àncora di salvezza.

E questo lo rendeva nervoso, insicuro... e inutile.

«Dio, Cam...»

Ansò, spinse le mani sulla scrivania per indietreggiare e, poggiati i gomiti sulle cosce, affondò il viso nei palmi spalancati, tremando irrefrenabilmente.

A un singhiozzo ne seguì un altro, e poi un altro ancora, finché il pianto non venne, silenzioso ma non meno cocente o doloroso.

Non si era permesso di farlo davanti ai genitori, soprattutto per non turbare sua madre, ma in quella semioscurità ovattata e famigliare, si concesse il lusso di liberare il suo dolore.

«Mi chiedevo quando saresti esploso» mormorò una voce alle sue spalle, sorprendendolo.

Dom smise immediatamente di piangere, e levò il viso a scrutare meravigliato il volto ombroso di Beau che, guardandosi intorno con curiosità, giunse infine al suo fianco.

Con un mezzo sorriso, gli batté una mano sulla spalla e, ironico, disse: «Hannah ha detto che di solito metti dei coccodrilli all'entrata, per evitare che penetrino persone sgradite.»

Il giovane se ne uscì con una risatina sgangherata, immaginandosi la madre nel tentativo di fare dell'ironia in un momento così difficile per lei.

Chi aveva detto che le donne erano il sesso debole?

Beh, si vedeva bene che non conoscevano sua madre Hannah.

Risollevandosi un poco, Domenic si guardò intorno. Con uno schiocco di dita, fece accendere le applique alle pareti, che diffusero una luce tenue e color crema in tutto l'ambiente.

«I coccodrilli sono in pausa, oggi» mormorò poi Dom, sorridendo a Beau. «Avevi bisogno di qualcosa?»

«Per la verità, volevo sapere come stavi» ammise l'uomo, sorprendendolo un poco. «L'attenzione di tutti, com’è ovvio, oggi, si è focalizzata su Hannah e Nick... ma anche tu sei coinvolto.»

Il giovane lanciò un'occhiata alla rete di firewall della Tashida Group, un'intricata foresta di false entrate, backdoor inesistenti, vicoli ciechi e watchdogs ognidove.

Sarebbe riuscito a bucare il sistema, ne era certo, ma ci sarebbero volute ore, forse giorni.

E lui non aveva tutto quel tempo.

«Scusami, zio Beau.»

L'uomo lo fissò vagamente confuso e, dopo aver requisito una sedia a levitazione magnetica da una vicina scrivania, vi si accomodò.

Dom sorrise a mezzo, spiacente, e aggiunse: «Scusaci tutti, se non abbiamo detto niente. Phie e Cam pensavano che non l'avreste presa bene, …tu e papà, intendo. Sai, insomma... quando è cominciata, Phie aveva solo sedici anni e... beh...»

«Davate per scontato che, primo, avrei spaccato la faccia a Cam e, secondo, mi sarei rivolto a Nick per avere anche una pinta del suo sangue, eh?» ironizzò Beau, accavallando le gambe.

Dom annuì, scrollando le spalle.

«Qualcosa del genere. La faccenda dell'appuntamento che hai citato oggi, poi, ha convinto Cam a non esporsi. In quel periodo, lui e Phie avevano litigato di brutto, e quella è stata una specie di rappresaglia.»

Suo malgrado, Beau ridacchiò.

«Sì, è molto da Phie cacciarsi nei guai per farla pagare a qualcuno. Posso sapere il motivo della lite?»

«Cam non voleva che Phie scegliesse Yale come scuola, e solo perché ci andava lui. Desiderava che scegliesse quello che voleva realmente. Lei non era d'accordo e...»

Il giovane terminò con una scrollata di spalle, e Beau annuì.

«Sì, ricordo che la faccenda Yale e MIT è rimasta in bilico per parecchio tempo, finché non ha deciso per il Massachussets. Immagino sia stata una decisione sofferta per entrambi.»

«Passarono tre mesi separati, e fu un periodo orribile per entrambi, ma soprattutto lo fu per me.» Ridacchiò, nel dirlo, e tutto l’amore per loro sgorgò in quella presa in giro bonaria. «Quei due mi hanno sempre usato da spalla su cui piangere.»

Beau annuì, passandosi una mano tra la corta chioma castana e, pensieroso, mormorò: «Ho sempre ringraziato il cielo, per l'amicizia che vi ha legati fin dall'inizio. Dopo la gravidanza orribile di Rena, non ce la siamo sentita di affrontarne un'altra, e Phie è rimasta l'unica figlia. Ma c'eravate voi, e questo mi ha sempre confortato. Sapevo che non era sola.»

«Amiamo entrambi Phie, anche se in modo diverso. E Cam la ama così tanto che, credimi zio Beau, farebbe follie per lei. A mio modo le farei anch'io, ma non per gli stessi motivi. Lei è mia sorella, nel cuore e nell'anima.»

L'uomo assentì, digerendo quella parte di storia che non conosceva, assorbendola nel corpo poco alla volta.

Era difficile ammettere che la propria figlia fosse diventata donna, e tra le braccia di un ragazzo che amava alla stregua di un figlio.

Volgendo a mezzo lo sguardo, Beau curiosò lo schermo tridimensionale del computer di ultima generazione di Dom e, fischiando ammirato, esalò: «Il sistema di difesa della Tashida?»

«La sua rappresentazione in 3D, sì. Ho cominciato a sondarla con un programma spia, per capire dove possano trovarsi degli inghippi e, dopo meno di due ore, ne ho già trovati quattrocento. D'accordo la sicurezza, ma cosa nascondono

Il tono di voce di Dom fu inquisitorio, e Beau se ne rese conto subito.

«Pensi siano troppi?»

«Ha così tanti sottolivelli che, credo, neppure il Pentagono possa batterli» si limitò a dire il giovane, aggrottando la fronte.

Il diagramma si muoveva, man mano che il programma evolveva al suo interno, annerendo le zone pericolose e lasciando in bianco quelle libere da vincoli. Le zone chiare erano pochissime.

«Neppure la V.B. 3000 può surclassarli?»

Dom allora rise bonario, e replicò: «Beh, ora mi offendi, zio Beau. La sicurezza della ditta è in mano mia.»

Aggrottando la fronte, Beau a quel punto gli domandò: «Ragazzo, ma cosa contiene il programma che Cam avrebbe dovuto consegnare alla Tashida per i test?»

«E' ricombinatore genetico.»

«Come?» esalò l'uomo, sorpreso.

Dom si passò una mano sul viso, stanco e desideroso di continuare a lavorare al tempo stesso e, roco, mormorò: «Serve a elaborare la composizione chimica di un farmaco, in base alla malattia che si sta studiando. Vaglia le variabili in grado di annullare gli effetti del virus, del tumore, di qualsiasi genere di anomalia si tratti.»

«Per. La. Miseria.»

Beau era letteralmente strabiliato. E sì, vagamente intimorito.

«La Tashida Group possiede la più grande casa farmaceutica dell'Asia e, visto che siamo suoi partner, abbiamo pensato che fosse ovvio far testare a loro questo programma. Alla V.B. 3000 ci occupiamo più di strumentazione, che di analisi di laboratorio a livello medicale.»

«Se funzionasse...»

Beau non ebbe neppure il coraggio di mettere a voce quella speranza, ma Dom non ne ebbe bisogno.

Sapeva più che bene che risvolti economici avrebbe avuto la sua scoperta, e i benefici che le persone avrebbero avuto da quel nuovo programma.

Ma ora aveva il sospetto che qualcuno non desiderasse la risoluzione finale ai problemi, e quel qualcuno si trovava all'interno della Tashida.

Che Noboru lo sapesse o meno.

 
§§§

«Come è possibile  che Cameron sia sparito dall'albergo, senza che voi ve ne siate accorti?!» la voce di Noboru Tashida si levò imperiosa nel suo ufficio, all'ultimo piano della Tashida Tower.

Le tre persone presenti reclinarono contrite il capo, e fu la più giovane a parlare in difesa di tutti.

«Dalle porte di servizio, come da quella principale, non è passato nessuno che corrispondesse alla descrizione di Cameron Van Berger.»

Noboru aggrottò la fronte, sbatté il palmo sulla scrivania di cristallo – che vibrò pericolosamente – e urlò: «Non può essere scomparso nel nulla! Dovete trovarlo, doveste anche scandagliare palmo a palmo ogni quartiere di Tokyo!»

I tre uomini annuirono rispettosi.

Dopo essersi inchinati, uscirono lesti dall'ufficio, lasciando che al suo interno rimanesse soltanto il loro capo, in compagnia del primogenito della famiglia.

Nobu Tashida, trentaquattrenne dall'aria raffinata e lo sguardo di ghiaccio, si scostò dalla finestra ove era rimasto per tutto il tempo, in assorta contemplazione della città, e mormorò: «Il grado di inettitudine delle guardie di sicurezza, è deplorevole.»

Il padre lo fissò caustico, sfidandolo a dire altro, ma Nobu si guardò bene dal farlo. Sapeva quando punzecchiare il padre, e quando fermarsi.

«So anche da solo che la situazione è incresciosa. Non c'è bisogno che tu la sottolinei con il tuo sarcasmo, Nobu-san

Il figlio levò le mani come a scusarsi e, nell'accendersi la sua sigaretta elettronica – quella sera, al sapore di assenzio – replicò: «Sottolineare l'ovvio è divertente, a volte, padre. Mette sotto gli occhi quanto, anche il più valente condottiero, sia passabile di errore.»

Il vapore al sapor d'assenzio si sviluppò dal lungo stiletto metallico, che Nobu teneva tra le dita con raffinata eleganza.

Noboru grugnì indispettito.

Non gli era mai piaciuto il vizio di suo figlio per il fumo, e quelle nuove sigarette non promettevano di essere meno nocive di quelle di prima generazione, tanto in voga solo un ventennio prima.

«Yuki-chan1 è sparita dal suo appartamento, tra le altre cose.»

Noboru si accigliò a quel commento, ma non disse nulla.

«Non ti sembra una strana coincidenza che, proprio mentre Cameron Van Berger sparisce da sotto il nostro naso, Yuki-chan si dia alla macchia?»

«Potrebbe essere uscita con le sue amiche» ipotizzò il padre, pur non credendoci realmente.

«Ho controllato. Gli scanner retinici non l'hanno registrata da nessuna parte

Nobu sogghignò al di sopra della linea argentata della sua sigaretta e, sarcastico, aggiunse: «E' possibile che sia lei la nostra serpe in seno, otōsan2.»

Noboru preferì non dire nulla. Se così fosse stato, se realmente Yuki era colei che aveva craccato i loro sistemi, questo avrebbe voluto dire solo guai.

 
§§§

Le alte colonne di cemento del condotto si perdevano nell'oscurità, e anche la torcia non riusciva a scalfire per intero l'immenso mantello nero che li circondava.

Il cupo silenzio di quei luoghi, spezzato solo dal tetro rimbombo dei loro piedi sul cemento, avrebbe fatto felici gli amanti del film dell'orrore.

Quel posto era agghiacciante.

«Hai fame? Non ti ho neppure chiesto se avevi cenato, prima del nostro... beh, rocambolesco viaggetto.»

La voce tenue di Yuki giunse come da una tomba, tanto il rimbombo tra quelle pareti altissime la fece risuonare sinistra.

«Hai per caso un hamburger, nel tuo zainetto delle meraviglie?» ironizzò allora Cam.

Sapeva che erano soli, eppure parlò a bassa voce, come se qualcuno potesse sentirli in quell'immensità fatta di vuoto e cemento.

Yuki ridacchiò, estrasse da una tasca del suo giubbotto multitasche una barretta, e la passò a Cam.

«Non è caviale e champagne, ma contiene malto-destrine, carboidrati e proteine in grado di tenerti in piedi per il tempo necessario.»

Cameron la accettò grato e, dopo averla scartata, la addentò. Sapeva di miele e cocco.

Un po' troppo dolce, per i suoi gusti, ma aveva così fame che avrebbe mangiato un bastone, se gli avessero detto che era commestibile.

«Non ero mai arrivato fin qui, anche se so che organizzano spesso dei tour» mormorò Cam, dopo aver terminato la barretta energetica a tempo di record.

Yuki gli passò una compressa d'acqua, e Cam la ruppe tra i denti.

Il sottile composto proteico che tratteneva il liquido trasparente si ruppe e, in bocca, esplose un autentico sorso di acqua di ghiacciaio.

Costavano autentiche follie, quelle perle di tecnologia per escursionisti, ma servivano al loro scopo.

Erano facili da portare, leggere e pratiche.

«Buona. Da dove viene? Himalaya, o Alpi Svizzere?» si informò Cam.

«Da un iceberg che hanno arpionato al largo delle Isole Curili, diretto verso sud. Ci hanno confezionato circa quindici milioni di litri di acqua in compresse, e altrettanti imbottigliati.»

Cam sogghignò. «Non ti chiedo neppure quanto siano costati al pezzo.»

«Meglio di no.»

Proseguirono ancora per qualche centinaio di metri in completo silenzio, ascoltando il suono monotono del loro respiro e dello scalpiccio dei piedi.

Fu Cam a spezzare il silenzio, stavolta.

«Come l'hai scoperto? Del programma, intendo.»

«Non sai che la curiosità è donna?» ironizzò la giovane, pur usando un tono di voce molto triste.

Cam la affiancò, stanco semplicemente di seguirla in quel modo così passivo.

Il suo profilo appariva come scolpito nella roccia, e questo gli fece male al cuore.

Quanto doveva aver sofferto, nello scoprire la verità?

Le passò istintivamente un braccio attorno alle spalle, e Yuki si irrigidì.

Sbatté le palpebre con forza, come per scacciare le lacrime e, con un sorriso mesto, asserì: «Stavo controllando il sistema dei firewall. Mi occupo di questo, all'interno della ditta. Dovevo trascrivere un nuovo programma di protezione, quando mi sono resa conto che qualcosa non andava.»

Cam allora sorrise, dicendole: «Dovresti parlare di questioni tecniche con Dom. E' lui il mostro di informatica.»

«Tu non ne mastichi neppure un po'?»

«Oh, io mi diverto a usare tutti i giocattoli che mi mettono sotto mano, ma se vuoi il vero genio, devi rivolgerti a Dom. E’ lui quello dal Q.I. sopra la media. Il mio è del tutto normale.»

Battendosi una mano sulla tasca della giacca, dove si trovava la chiavetta con il programma, aggiunse: «E' lui che ha creato Asclepio

«Ha usato il nome del dio greco della medicina per dargli il nome?» esalò Yuki, sorpresa.

«Non sai cosa fa, vero?»

Scuotendo il capo, la giovane disse soltanto: «Nelle mie ricerche, sono solo giunta alla conclusione che volevano farlo sparire, ma non si parlava di cosa fosse

«Da quello che Dom mi ha detto, dovrebbe servire a trovare il rimedio per ogni male. Per lo meno, a livello teorico. E’ in grado di creare farmaci ad hoc per annullare gli effetti del male contro cui si sta combattendo. Non chiedermi di più, perché non è il mio settore. Se mi chiedi di stilare un bilancio, non ho problemi, e neppure se devo parlare a una platea per dieci ore di fila. Per il resto, lascio che sia Dom a lambiccarsi il cervello.»

Rise sommessamente, e si chiese come stessero i suoi genitori, il fratello... Phie.

Il solo pensiero di Sophie gli fece sorgere una fitta dolorosa al petto e, per un istante, fu tentato di chiedere a Yuki di poterla chiamare.

Ma sapeva che, se erano riusciti a bypassare la rete di scanner, permettendo a degli assassini di oltrepassare i controlli, così potevano tenere sotto controllo le loro chiamate.

Se ci fosse stato Dom, forse...

«Dio... mi sento così fuori posto...» mormorò Cam, scuotendo il capo.

«Perché dici così?»

«Dom saprebbe cosa fare. E' lui il mostro di informatica. Metterebbe in scacco qualsiasi tecnico dei computer... e mi permetterebbe di mettermi in contatto con casa mia in un batter d'occhio.»

Yuki gli sorrise, comprensiva. Immaginava senza alcun problema cosa stesse provando.

Non dare notizie di sé, aver lasciato come unica traccia una stanza in disordine, e con cinque cadaveri come ricordo.

No, la famiglia Van Berger non doveva stare passando dei bei momenti, a Los Angeles.

Non aveva neppure idea se tutta la verità sarebbe trapelata, o se alcune notizie sarebbero state candidamente nascoste, onde evitare troppo clamore.

La morte di due guardie del corpo di un eminente imprenditore americano, avvenuta su suolo giapponese, bastava già di per sé a mettere agitazione nella alte sfere.

Se poi si fosse saputo che l'imprenditore in questione era sparito e, nella sua stanza, si trovavano tre cadaveri più del normale, la cosa si sarebbe complicata.

E di molto.

Con tutta probabilità, il fatto sarebbe stato minimizzato e, nel frattempo, le ambasciate avrebbero lavorato.

Era quasi sicura che il Ministro degli Interni si fosse già messo in comunicazione con i Van Berger, garantendo la massima cura nelle indagini.

Così come la massima discrezione. Da entrambe le parti.

Nessuno desiderava un incidente diplomatico.

Non con gli Stati Uniti, partner storico del Giappone.

Tutto si riduceva a quello, alla fine dei conti. Mero interesse finanziario.

Poco contava che Cameron avesse rischiato di morire, che due persone fossero morte, o che lei fosse stata costretta a ucciderne tre per proteggere il suo vecchio amico.

L'importante, era salvaguardare la facciata d'insieme.

«Troveremo il modo di far sapere loro che sei vivo. Te lo prometto. Ma non ora. Prima di tutto, dobbiamo allontanarci da Tokyo, dove saremmo troppo esposti» lo rassicurò Yuki, con un tono di voce che sperò essere convincente.

In realtà, non era sicura che sarebbe riuscita nei suoi intenti.

Il tempo intercorso tra la scoperta dei piani di suo padre, e l'effettiva messa in opera dell’attentato, le avevano lasciato ben poco spazio di manovra.

Sperava solo che fosse stato sufficiente per coprire bene le loro tracce, o sarebbero stati guai seri.

 
§§§


Stavano procedendo nelle gallerie da quasi un'ora quando, d'improvviso, Yuki si fermò in corrispondenza di una porta a tenuta stagna.

Cam se ne chiese il motivo, ma non parlò. Lasciò che la ragazza trafficasse accanto alla tastiera touchscreen infissa in un'alcova – protetta da un vetro spesso due centimetri.

Con uno scatto metallico, che rimbombò nell'enorme canale di scolo, la porta si aprì e Yuki, dopo aver estratto un paio di segway3 , li mostrò sorridente al giovane.

«Non te l'ho detto prima, per non spaventarti, ma sono cinquanta, i chilometri da percorrere. E non ero sicura che avrei trovato questi

Sbuffando per lo scampato pericolo – aveva fatto più di una maratona di New York, e non era un problema percorrere cinquanta chilometri, ma non con i mocassini – Cam esalò: «E se non li avessimo trovati?»

«Diciamo che ci contavo. So che esistono questi piccoli magazzini degli attrezzi, solo non sapevo esattamente dove. Sono a uso dei tecnici che controllano regolarmente le linee dei condotti, ma non avevo idea di quando li avremmo trovati.»

«Ma conoscevi la password» sottolineò Cam, avviando il motore a batterie del mezzo a due ruote.

Lo aveva usato un sacco di volte, all’università, e si era sempre divertito un sacco a scorrazzare per i corridoi con quell’affare.

«Sono tutte identiche. E' stato un gioco da ragazzi estrapolarle dal sito dell'agenzia di controllo» scrollò le spalle Yuki, salendo a bordo della sua bicicletta.

Scuotendo il capo, Cam borbottò: «Informatici...»

Lei si limitò a ridacchiare e, quando anche Cameron fu pronto, ripresero il loro cammino verso nord-est, in direzione di Nishisekiyado, un piccolo quartiere della periferia di Tokyo.

La presenza dei segway fu d’aiuto, anche se nessuno dubitò per un istante che l'effrazione sarebbe stata resa nota nel giro di poche ore.

Non avevano tempo da perdere in chiacchiere e, prima fossero usciti da quel luogo oscuro e privo di aspettative, meglio sarebbe stato.

Fu all'alba che raggiunsero infine una delle uscite del condotto e, quando Cam mise piede all'esterno, il cielo gli sembrò più bello che mai, anche se prometteva neve.

Gennaio non era un mese adatto per girare senza un parka imbottito, a Tokyo, ma si sarebbe occupato del freddo in un altro momento.

Ora, dovevano pensare a togliersi dalla strada, per quanto piccola e deserta essa fosse.

Yuki lo prese saldamente per mano, lo trascinò con sé verso una recinzione di bambù e lì, dopo averne forzato un angolo, entrò.

Cam la seguì, fiducioso.

Forse si sarebbe rivelato un errore fidarsi ciecamente di lei, ma gli occhi di Yuki non gli erano parsi ingannevoli.

Il dolore che aveva scorto in quelle profondità di ghiaccio era stato sincero, difficilmente sarebbe riuscita a essere così brava, se non l’avesse provato davvero.

No, non le stava mentendo.

O era così, o sarebbe morto entro i prossimi minuti.

Sorrise di fronte a quel tetro pensiero, ma continuò a seguire Yuki attraverso la siepe di pino che stavano attraversando.

Quando finalmente emersero in un piccolo giardino ben tenuto, dove un laghetto ghiacciato diede l'idea a Cam di quanto vi fosse freddo, una voce emerse alle loro spalle, mormorando: «Finalmente, siete arrivati. Pensavo vi avessero preso.»

Se Cameron perse dieci anni di vita a quel suono, temendo di ricevere per diretta conseguenza una botta in testa – come minimo – Yuki si aprì in un sorriso e corse ad abbracciare la padrona della voce.

«Obasan!» mormorò la giovane, abbracciando con calore la donna anziana che stava sorridendo sulla veranda di casa.

Cam sorrise spontaneamente.

Sapeva bene che quella donna, minuta e dai capelli canuti, non era la vera zia di Yuki, bensì la sua balia, ma era più che cosciente del profondo legame esistente tra loro.

Aveva conosciuto Megumi Otonashi quasi diciotto anni prima, durante il suo primo viaggio in Giappone assieme alla famiglia.

All'epoca lavorava ancora per la famiglia Tashida, e si era sempre occupata della piccola Yuki.

In occasione delle loro visite in Giappone, Megumi si era spesso presa cura anche di lui e di Domenic e, quando presente, anche di Sophie.

Almeno, fino a quando Yuki aveva avuto bisogno di una balia.

In seguito, la famiglia Tashida l'aveva licenziata, ma con una buona uscita degna di tale nome, e quella casetta dal giardino delizioso era stata parte del suo compenso.

«Otonashi-san4... è un piacere rivederla in salute» mormorò allora Cam, avvicinandosi e tributandole il rituale inchino di saluto.

«Oh, ma questo giovane così grande e grosso non può essere il piccolo Cameron-chan» esalò la donna, aprendo le braccia per un abbraccio famigliare e caloroso.

Il giovane allora la strinse a sé, rammentando dolci alle pesche, giornate passate a giocare a palla nel giardino di Villa Tashida e lunghe serate stesi sui prati a guardare le stelle.

«Spero che la nostra presenza non la metta in pericolo» si premurò di dire Cam, fissando dubbioso Yuki, che scosse il capo.

«Se anche riuscissero a risalire a lei, non potrebbero toccarla. Il figlio di Megumi è un importante membro del Parlamento, e scoppierebbe un putiferio se le succedesse qualcosa» replicò la giovane, annuendo con decisione.

Cameron si sentì rincuorato dalla notizia e Megumi, sospingendo entrambi dentro casa, mormorò: «Devono solo provarci, a torcere un solo capello che ho in testa. Spaccherò i denti al primo uomo che si presenterà alla porta.»

Entrambi i ragazzi sorrisero, ma non se la sentirono di commentare.

Il pericolo era reale, anche se Megumi aveva le spalle più che coperte.

Una volta all'interno, Cam sospirò di sollievo, avendo ormai iniziato a patire un principio di congelamento alle dita dei piedi.

La padrona di casa lì indirizzò verso il bagno, perché lavassero via i residui di viscidume e si scaldassero un po'.

Nel frattempo, lei avrebbe preparato loro una buona colazione e un cestino per il pranzo.

Cameron non attese oltre. Aprì il getto della doccia, lasciando che l'acqua bollente gli scorticasse la pelle indolenzita dal freddo.

Yuki, nel frattempo, pensò a scegliere gli abiti più adatti tra quelli che Megumi era riuscita a racimolare per loro con un preavviso così breve.

Un lieve bussare alla porta  avvisò Cam della presenza della ragazza che, senza porsi troppi problemi, entrò in bagno, lasciò il cambio per il giovane e disse: «Hai cinque minuti, poi ti trascinerò fuori da quella doccia, è chiaro?»

«Ringrazia che i vetri sono satinati, o vedresti quanto ti amo adesso, Yuki-necchan» ghignò beffardo Cam, lanciando un'occhiata da dietro la spalla alla sagoma scura che intravedeva a fatica attraverso il vetro opaco.

Lei rise e uscì, lasciandolo in compagnia dello scroscio dell'acqua.

«Quella ragazza...» ridacchiò lui, scuotendo esasperato il capo.

Era sempre stata dispettosa, fin da piccola, anche se non aveva mai raggiunto i livelli di Phie.

Forse per cultura, forse per carattere, Yuki si era sempre comportata in modo più contenuto, ma non per questo non aveva mostrato ingegno nell'ideare scherzi.

Ricordava ancora quando lui e Dom si erano ritrovati i futon5 pieni di rane, o quando avevano ingoiato degli udon6 pieni zeppi di peperoncino.

Quello, però, non era affatto uno scherzo, e il pericolo era più che reale.

Terminò la doccia, asciugandosi in fretta per non dare la scusa a Yuki di entrare di sorpresa per la seconda volta.

Quando indossò calzini, jeans scuri, maglietta in cotone e maglione in lana pesante, si sentì meglio.

Uscì dal bagno, sentendosi ritemprato e, quando vide Yuki avvicinarsi, si inchinò cerimoniosamente e sogghignò al suo indirizzo.

«Non provarci nemmeno, Cameron-kun, o ti affogherò io stessa nella vasca» replicò lei, dandogli una spintarella per allontanarlo dalla porta.

Lui rise sommessamente e, dopo averla vista entrare, si allontanò per raggiungere Megumi nella cucina di casa.

Lì, si accomodò al basso tavolo che la donna aveva apparecchiato.

Dopo averla ringraziata, prese in mano le bacchette e iniziò a mangiare il riso bianco e insaporito con aceto e salsa di soja.

«Yuki-chan mi ha detto cosa volevano fare, figliolo» mormorò spiacente Megumi, offrendogli un po' di the verde.

Annuendo torvo, Cam smise un momento di mangiare e replicò: «Faccio ancora fatica a credere a tutta questa faccenda, ma poi ricordo le mie due guardie del corpo... e allora tutto si fa fin troppo reale.»

«Mi spiace che non sia arrivata in tempo per salvare anche loro. Yuki-chan è imbattibile, nelle arti marziali» asserì orgogliosa l'anziana. «Voleva essere sicura che qui non mancasse nulla, così temo sia partita in ritardo.»

«E' già molto quello che è riuscita a fare... visti soprattutto i preliminari dell'intera faccenda» mormorò Cam, afferrando con le bacchette una striscia di frittata di uova e funghi shiitake. «E devo ringraziare anche lei, Otonashi-san, per tutto l'aiuto che ci sta dando. Non era tenuta.»

«Yuki-chan è sempre stata la figlia che non ho mai avuto... anche se avere avuto tre maschi è stata comunque una soddisfazione!» ridacchiò la donna, facendo sorridere Cameron. «Lei sa che può sempre rivolgersi a me, se ha bisogno. Soprattutto ora. E' orribile quello che volevano fare a te, e tutto per profitto.»

Cam annuì, reclinando il capo sulla sua ciotola di riso ormai vuota.

Si sentiva un po' così anche lui. Vuoto.

Tutte le sue certezze erano state spazzate via come con un colpo di spugna, e con una violenza inaudita.

Due persone erano morte, e uno dei suoi più grandi amici si era rivelato essere il peggior traditore di tutti, un autentico Giuda.

Faceva persino fatica a mettere insieme quel pensiero, eppure il sangue di Leon e Sebastian era stato versato proprio a causa sua.

Un pesante sospiro seguì a un singhiozzo e, prima che potesse rendersene conto, tutta la gravità della situazione e la tragicità degli eventi appena avvenuti, crollarono su di lui.

Lasciate sul tavolo ciotola e bacchette, Cameron iniziò a piangere silenziosamente.

Mentre Megumi si levava dal suo posto per dare affettuose pacche sulle spalle del giovane, Yuki osservò tutto dalla porta, piena di rabbia.

In piedi e silenziosa, strinse i pugni per la frustrazione e, ancora una volta, si ripromise di vendicarsi. Di vendicare entrambi.

Per se stessa, per il dolore di Cameron, per ciò che era successo alle sue guardie del corpo, morte incolpevolmente, e solo per la sete di potere di un uomo.

Un uomo che, se avesse avuto meno a cuore, avrebbe anche potuto odiare.

Ma che, amandolo troppo, la faceva solo star male da morire.

Come stava facendo star male Cameron.

 
 
 
 
____________________________
1 Yuki-chan: Il suffisso “chan” si usa tra famigliari, con i fratelli più piccoli, o tra  amici stretti, ed è un vezzeggiativo.
2 Otōsan: Significa “padre”.
3 Segway: mezzo motorizzato a due ruote, simile a una biga romana.
4 Otononashi-san: Il suffisso “san” si usa per rendere omaggio alla persona che si ha di fronte. E' utilizzato spesso dagli uomini, dietro al cognome della persona a cui ci si rivolge, per esprimere rispetto e cortesia.
5 Futon: sono i tipici letti giapponesi, composti da un materasso, steso sul pavimento in paglia intrecciata, la coperta e il cuscino rotondo.
6 Udon: sono i più famosi ramen, o tagliolini in brodo, tipici delle cucine asiatiche.

I segway sono le moderne bighe a ruote tanto utilizzate dai poliziotti nelle zone urbane delle città. Sono a motore, di diverse grandezze e vengono utilizzate per gli spostamenti a bassa velocità.

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Capitolo 4
*** IV. Rendez-vous ***


 
IV. Rendez-vous
 
 
 
 
 
L'ambasciatore Grayson, al seguito di guardie del corpo e una delegazione del governo giapponese, si presentò all'aeroporto internazionale di Tokyo all'arrivo di Brandon e Sophie.

Vi furono strette di mano, rassicurazioni, auguri di una pronta risoluzione del caso e mille altre vuote parole.

Dopo quasi mezz'ora di salamelecchi, furono infine scortati all'auto blindata dell'ambasciata americana, non senza flash e giornalisti a corredare l’intero evento.

Lì, Sophie salì per prima, silenziosa come una statua e altrettanto impassibile.

Lo era stata per tutto il tempo, solida roccia accanto a Brandon, che aveva risposto ad alcune domande del governo nipponico, ponendone poi altrettante.

Solo quando furono saliti tutti, si permise di parlare, e lo fece con il suo solito modo di fare. Diretto e schietto.

«In quanti sanno realmente cos'è successo, in quella camera d'albergo? Perché sembravano più confusi di me.»
Kitoshi Grayson assentì, dandole ragione.

«Credo che l'imbarazzo sia così tanto, Miss Shaw che, se anche fossero stati presenti all’evento, non avrebbero comunque potuto essere di alcun aiuto. Tutto ciò mette estremamente a disagio il Parlamento e i suoi membri, come potrà ben immaginare.»

Sprezzante, la ragazza annuì e, dopo aver accavallato le gambe e intrecciato le braccia, sbottò.

«Oh, lo immagino benissimo, visti i contratti che il governo giapponese ha sottoscritto con la V.B. 3000, per lo sviluppo di nuove centrali ecocompatibili nella zona di Fukushima e Nagasaki.»

Brandon le diede una pacca comprensiva sul braccio, e lei si calmò.

Non aveva ragione di prendersela con l'ambasciatore, ma la rabbia provata di fronte all'evidente disagio dei delegati giapponesi, l'aveva lasciata con l'amaro in bocca.

Non sapeva neppure lei in cosa avesse sperato, giungendo all'aeroporto con il jet privato dei Van Berger.

Forse Cameron, con un mazzo di fiori in mano e un bacio ad accoglierla?

Neppure lei era così sciocca da credere che la faccenda si potesse risolvere alla svelta, ma...

Beh, aveva sperato in qualcosa di più.

Amava il Giappone fin da piccola, fin dai suoi primi viaggi con Cam e famiglia, quando si recavano a Villa Tashida per i loro affari.

Era lì che aveva imparato i primi rudimenti del bushido, l'antica disciplina orientale che racchiudeva in sé i fondamenti delle arti marziali.

Era lì che aveva imparato a conoscere la cultura millenaria ed esotica di quel paese.

Era lì che aveva imparato a parlare giapponese, anche grazie alla compagnia di Yuki e della sua tata.

Erano state così disponibili e cortesi con tutti loro, e Yuki si era dimostrata una compagna di giochi ineguagliabile.

Ricordava ancora tutti gli scherzi che, in combutta, avevano combinato nei confronti di Cam e Dom, e quante risate si erano fatte assieme.

Sperò davvero di incontrarla, vista la situazione, ma non pose all’attenzione dell'ambasciatore il suo desiderio.

Non era il momento.

«Si hanno delle novità?» chiese Brandon, scrutando ansioso Kitoshi.

L'uomo scosse il capo, spiacente.

«La polizia, per il momento, sta cercando di stabilire l'identità degli assassini, anche se sembra si stia rivelando più difficile del previsto.»

«In che senso?» esalarono all'unisono Brandon e Phie, sgomenti.

«Le indagini preliminari sono finite in un buco nell'acqua. Le impronte digitali sono state rese illeggibili con l'acido, che gli assassini hanno sicuramente usato alcuni giorni prima dei delitti per rendere eventuali indagini difficilmente attuabili. Inoltre, anche con le impronte dentali e con lo scanner retinico, non è andata meglio. Le prime, risultano inefficaci perché gli uomini sono stati sottoposti a un recente intervento illegale, e perciò non registrato, il secondo per il medesimo motivo. E chi può passare sopra a tutti e tre i controlli preliminari della polizia, non può essere che molto potente.»

Il tono di Grayson fu lapidario, e Phie rabbrividì.

«Pensano sia in mano alla yakuza?» mormorò Brandon, preoccupato non meno di Sophie.

«Di certo, non quella che bazzica nelle periferie, o nei bassifondi. Queste persone hanno agganci nelle alte sfere, poiché hanno scavalcato abilmente qualsiasi tipo di controllo.»

Sophie si coprì il viso con le mani, cercando di trattenersi dal piangere e Brandon, nel darle una pacca sulla spalla, confortante, mormorò: «Sono sicuro che se la caverà.»

«Non cercare di indorarmi la pillola, zio... so cosa sta rischiando» singhiozzò la ragazza, pur apprezzando il tentativo.

«Oh, credimi, Phie. Non voglio indorarti nulla. Credo realmente che Cam sia ancora vivo. E mi fido di Dom e Bryce.»

Grayson tossicchiò a quell'accenno e, fissando dubbioso Brandon, disse: «Per quanto riguarda Mr Kendall... ecco, sapete perfettamente che quello che vi ripromettete di fare è illegale e...»

Interrompendolo con uno sguardo omicida, Brandon replicò glaciale: «Ambasciatore, se vogliamo spaccare il capello in quattro, allora facciamolo. Mio nipote si trova in territorio ostile, presumiamo sia stato rapito da una banda mafiosa del posto, e non abbiamo sue notizie da più di quaranta ore. Capisce bene che, non solo faremo il tutto e per tutto per trovarlo, ma non guarderemo in faccia a nessuno. Chi è penetrato nell'albergo agiva supportato dalla polizia, visto che gli scanner erano inattivi, e questo ci costringe a lasciarli fuori dai nostri piani.»

«Tutto verissimo ma, come ambasciatore americano, non posso neppure permettere che gli Stati Uniti vengano personalmente coinvolti in atti illegali su suolo straniero» ci tenne a sottolineare Grayson, pur con un certo imbarazzo.

«Zio Brandon rimarrà all'ambasciata con lei, Mr Grayson, e saremo solo io e Bryce a muoverci all'esterno. Avrete le spalle coperte, così. Inoltre, Domenic mi ha garantito di sapere già chi potrà prendere il mio posto, durante gli eventi ufficiali che vedranno coinvolto Brandon e la sottoscritta.»

Ciò detto, Phie accennò un sorriso, e Bran annuì.

Brandono non aveva apprezzato scoprire quella parte del piano, e soltanto a volo già iniziato, ma alla fine aveva accettato.

Entrambi sapevano bene che, presto o tardi, qualcuno avrebbe fatto indire una conferenza stampa al riguardo, e almeno Brandon doveva essere presente.

Lei sarebbe stata rappresentata egregiamente dalla ragazza che Dom aveva contattato, e che si sarebbe recata all'ambasciata quel giorno stesso perché si conoscessero.

Non voleva sapere come, nè perché, Domenic fosse così sicuro dei suoi mezzi.

Non aveva mai sbagliato, e di sicuro non avrebbe cominciato adesso, con suo fratello a rischiare la vita.

 
§§§

Non amava particolarmente la classe economica, ma solo per una questione di spazi.

Le sedute erano diventate così strette che, ormai, una persona avrebbe dovuto essere anoressica, per poter stare comoda.

Maledetti tagli ai costi!

Bryce dovette massaggiarsi un fianco per l’ennesima volta, mentre attendeva paziente che il suo trolley arrivasse sul nastro trasportatore dell’aeroporto di Tokyo.

In quel momento, Phie e Brandon dovevano già trovarsi a Minato-ku, all’interno della moderna ambasciata americana, tutta vetro e cemento e traffico congestionato.

E Minami Nishima, il suo contatto in Giappone e, tra le altre cose, Megami-Sama, una delle più grandi hacker del mondo, stava attendendolo fuori dall’aeroporto.

Era difficile credere che, dietro quel concentrato di bravura e tecnica informatica, vi fosse una semplice ragazzina di sedici anni, e se non lo sapeva Dom …

A ogni buon conto, lo avrebbe scoperto ben presto.

Non appena vide il suo trolley, lo afferrò in fretta, si diresse verso l’uscita e, paziente, si mise in fila per i controlli di rito.

Con i nuovi metal detector  era tutto abbastanza veloce, ma sapere Cam in pericolo non lo aiutò a procedere con tranquillità.

Voleva iniziare a mettere mano quanto prima ai dati inviatigli da Dom nottetempo – aveva dormito, quel benedetto ragazzo? – e, per farlo, gli servivano Minami e il suo PC.

Impiegò circa mezz’ora per oltrepassare tutte le barriere, compresi gli onnipresenti scanner retinici ma, quando finalmente fu all’aria aperta, si dichiarò soddisfatto.

Ora cominciava il vero lavoro.

Si guardò perciò intorno, nella testa la fotografia che Dom gli aveva mostrato.

Ma nulla avrebbe potuto prepararlo al concentrato di rosa, e profumo di zucchero filato, che gli si presentò innanzi.

Sgranando gli occhi, fissi su una ragazzina di un metro e cinquanta, tutta capelli castano chiari, occhi bistrati e abiti vaporosi, Bryce gracchiò: «Minami Nishima?»

«Hai. Sì, sono io. Tu devi essere Kendall-san, vero?»

La sua voce rispecchiò quel concentrato di dolcezza, tutta squillante e limpida e Bryce, sempre meno convinto, mormorò: «Siamo sicuri…»

Lei allora scoppiò a ridere, perse per un attimo quella patina di miele e, con occhi dalle lenti a contatto color salmone, lo fissò per poi mormorare: «L’apparenza può ingannare i gaijin

Straniero.

E lui lo era davvero, specialmente davanti a quella ragazzina tutta fronzoli ma che, in un istante, era apparsa più matura e seria del previsto.

Altrettanto velocemente, tornò alla sua patina dolce e zuccherosa e, presolo sottobraccio, lo accompagnò verso la fermata degli autobus a levitazione magnetica.

Ciangottò per tutto il tempo delle cose più banali e frivole e, a un certo punto, Bryce si chiese se tutto quel cianciare non servisse a depistare qualcuno.

Quando infine salirono sul mezzo affollato, e lei lo accompagnò sul fondo del mezzo, glielo domandò.

Lei si limitò ad annuire, sorridere scioccamente, e continuare con le sue ciarle senza senso.

Bryce la lasciò fare, si rilassò contro la poltroncina imbottita e, pian piano, si guardò intorno con aria apparentemente casuale.

Fu dopo circa mezz’ora di viaggio, nei pressi di Kamagaya, che il giovane investigatore individuò finalmente le persone che tanto avevano preoccupato Minami.

All’apparenza, due semplici pendolari, … non fosse stato per il leggero rigonfiamento nelle loro giacche di piumino light.

Un rigonfiamento che faceva pensare a qualcosa che, in teoria, non doveva trovarsi su quel mezzo pubblico.

«Tengono d’occhio tutti gli americani giunti per la Fiera Internazionale della Sicurezza» mormorò Minami, sorridendo con fare un po’ sciocco mentre parlava sottovoce.

«Motivo?» replicò lui, ridacchiando a sua volta per reggerle il gioco.

«Il tuo amico ha mosso più acque di una bomba atomica esplosa in mare. L’affare è più grosso di quel che è sembrato agli inizi, almeno a detta degli internauti che stanno seguendo il caso» gli spiegò lei, giocherellando con le unghie finte.

Scrutando le french coloratissime, Bryce sogghignò nel notare dei piccoli coniglietti stampigliati sopra a una base color salmone.

Di sicuro, aveva perso molto tempo, per quel travestimento.
«Quindi, pensano che giungano rinforzi dall’America per capire cosa gli è successo?»

«Non solo tu hai pensato di utilizzare la scusa della Fiera, per presentarti qui. So di almeno altri quattro investigatori privati che seguono il caso per conto loro.»

«Che…»

Trattenendosi a stento dall’urlare un’imprecazione per quel problema imprevisto, e di certo maledettamente scomodo, Bryce fece buon viso a cattivo gioco e sorrise.

Gelido, però, mormorò: «Chi sono gli idioti che sono venuti qui pensando di improvvisarsi 007?»

«Come stai facendo tu?» ironizzò Minami, stavolta sorridendo con autentico divertimento.

Lo stava prendendo in giro, la viperetta!

Il giovane si accigliò non poco, ma rispose calmo.

«Io sono stato assoldato dalla famiglia

«Se vuoi saperlo, gli altri quattro sono stati pagati da compagnie rivali della V.B. 3000; il loro scopo è quello di trovare Cameron-san per primi e privarlo di quello che è venuto a portare qui in Giappone… indipendentemente da quel che è. Il solo fatto che ci sia di mezzo la yakuza, ha incuriosito – e ingolosito – parecchie persone.»

Bryce emise un verso disgustato, e Minami fece spallucce.

«Tra l’altro, come pensi di farla in barba alla yakuza? Sai, vero, cos’è?»

«Pensiamo che la yakuza non c’entri nulla, o comunque abbia un ruolo molto marginale» replicò Bryce, sorprendendola non poco.

Impiegarono circa due ore per raggiungere Sumida-ku, il quartiere nella zona di Sokokawa dove risiedeva Minami.

O, per lo meno, dove era raccolto il suo arsenale di computer.

Quando Minami lo prese sottobraccio e si addossò a lui, Bryce fece per chiederle cosa stesse combinando, ma si trattenne all’ultimo momento.

Il suo sguardo fu più che eloquente e, per diretta conseguenza, lui non fece neppure l’atto di voltarsi.

Era sicuro che lo stessero ancora seguendo.

Bryce allora le sussurrò un ‘gomennasai’ prima di svicolare con il braccio, avvolgerle le spalle e deporle un casto bacio sulle labbra.

Se stavano ancora controllandoli, avrebbero ipotizzato che la sua presenza a Tokyo non fosse legata solo alla Fiera, ma anche alla ragazza.

Minami rincarò la dose, bloccandosi a metà di un passo per abbracciarlo forte e schiacciarsi contro di lui.

“Fa che se ne vadano alla svelta…”, pensò tra sé Bryce, sperando di non dover chiedere scusa anche per qualcos’altro.

Quando avvertì la pressione del corpo di Minami scemare di colpo, seppe che si erano allontanati.

Con un sorriso di scuse, lui mormorò: «Tutto bene?»

«Quando ti ho messo la mano sul sedere, uno è avvampato come una mammoletta, e l’altro ha fatto alla svelta ad allontanarsi, tirandosi dietro il compare. A volte, i maschi giapponesi sanno essere così tonti

Ammiccando, Minami lo tirò verso una porta a vetri, che aprì con una tessera magnetica.

Dopo aver risalito una rampa di scale, entrò in un piccolo appartamentino spoglio e lì, di colpo, afferrò la sua chioma voluminosa e strattonò.

Bryce osservò sorpreso la folta parrucca venir via come per magia e la ragazza, ammiccando, chiosò: «E’ fatta con capelli veri, per questo non te ne sei accorto. Il travestimento deve essere perfetto, o non funziona. Con gli scanner retinici è un casino muoversi e, per quanto mi spiaccia, Minami Nishima deve sempre e solo apparire come una ragazzina sciocca e fatua, con la passione per i gaijin

A Bryce venne una mezza idea su come Dom si fosse mosso per Tokyo assieme a Minami, ma preferì non fare domande.

Quando infine la ragazza lo fece entrare in una stanzetta dalle dimensioni microscopiche, comprese di essere arrivato nel posto giusto.

I suoi occhi brillarono di impazienza e la nuova Minami, coi suoi corti e nerissimi capelli, annuì soddisfatta e disse: «Comincia pure senza di me. Mi ci vorrà mezz’ora buona per togliermi dalla faccia tutta questa roba.»

Bryce ridacchiò e, scrocchiando le dita, si mise a sedere e cominciò a lavorare.

 
§§§

La neve iniziò a cadere poco dopo aver abbandonato la casa di Otonashi-san.

Quando Yuki imboccò una stradina laterale per abbandonare la via principale, Cam pregò che non succedesse nulla alla dolce tata.

Certo, il fatto che suo figlio fosse un membro del Parlamento deponeva a suo favore, ma poteva succedere di tutto, quando c’erano in ballo degli assassini.

Raggiungere Misatomachi, dove si trovava una vecchia casa dei nonni di Yuki, non sarebbe stato affatto facile.

Avrebbero dovuto circumnavigare Tokyo tramite le strade non coperte dagli scanner e, al tempo stesso, avrebbero dovuto tenere d’occhio i movimenti della polizia.

Sicuramente, il suo identikit doveva già essere stato inserito nel database delle forze dell’ordine, per cui non avrebbe dovuto farsi vedere in giro.

Anche dopo il rapido cambio di colore dei capelli.

La tinta nera, per fortuna, non puzzava, ma prudeva discretamente, dandogli un fastidio dell’inferno.

La sua pelle chiara risaltava ancora, comunque, così come i suoi tratti occidentali.

Inoltre, se avessero visto un’orientale in compagnia di un gaijin, avrebbero sicuramente attirato l’attenzione.

Starsene sdraiato nel cassone del piccolo furgoncino dove si trovava, però, non era esattamente quello che lui poteva definire un viaggio comodo.

O un’alternativa piacevole.

Con Phie e Dom aveva viaggiato in lungo e in largo, e con la ragazza si era lanciato in più avventure di quante ricordasse in quel momento.

Ma nessuna gli era parsa così scomoda come quel pianale in lamina fredda come il peccato, e altrettanto scomoda.

Il piumino e le calze pesanti che indossava non riuscivano a compensare il freddo, e la neve che stava cadendo sul telo impermeabile - steso sopra di lui - peggiorava la sensazione di disagio.

Yuki si era scusata un’infinità di volte per la scomodità del viaggio, ma Cam sapeva bene che, più fossero parsi anonimi, più avrebbero avuto possibilità di allontanarsi.

Una volta giunti in un luogo più sicuro, avrebbero potuto stabilire quali strategie seguire e, eventualmente, come contattare la sua famiglia.

E rendere nota ogni cosa a suo padre.

Sapeva già che tutta la famiglia sarebbe rimasta scioccata, ma non poteva evitare che loro sapessero.

 
§§§

Andrea e Helena, fermi alle spalle di Domenic che, apparentemente addormentato, teneva il capo poggiato sulle braccia intrecciate sulla scrivania, sospirarono afflitti e preoccupati.

La notizia della scomparsa del nipote li aveva gettati nell’ansia più nera, e le rassicurazioni di Dom sulla buona salute del gemello, li aveva solo in parte rasserenati.

Sapevano entrambi bene quale legame vi fosse tra i due.

Inoltre, Helena era più che convinta che le sensazioni di Dom fossero basilari, in quella situazione. Era più certa che il legame tra gemelli esistesse davvero, e Andrea voleva crederle con tutto il cuore.

«Forse dovremmo insistere perché si riposi un po’…» mormorò Helena, avvicinandosi di un passo per destare il nipote.

«Mamma, lascia stare Dom.»

La voce di Kyle giunse seria alle loro spalle e Andrea, nel sorridere al figliastro, asserì: «Sei arrivato. Keath e Sarah dove sono?»

«Di sopra con Hannah e Nick. Sarah non ne ha voluto sapere di andare a casa a riposare un po’. Appena abbiamo saputo, abbiamo preso il primo aereo da Atlanta e siamo tornati. Keath sta praticamente dormendo in piedi, ma è stoico.»

Annuendo, Andrea pensò al suo nipotino di dodici anni, un asso del kart che, a soli sei anni, aveva vinto la sua prima gara a livello nazionale.

Impegnato in una competizione ad Atlanta, e accompagnato dagli orgogliosi genitori, il ragazzino aveva insistito per tornare subito a casa per via di Cameron.

«Ci sono notizie di Michael, Cecille e i ragazzi?» chiese allora Andrea.

Kyle sbuffò, indicando loro di salire al piano superiore per lasciare in pace Domenic, ma il giovane li sorprese, levando il capo insonnolito per sorridere loro.

«Ehi, ciao…»

Con un ‘guastafeste’ rivolto ai genitori, Kyle li oltrepassò per andare a dare una pacca sulla spalla al nipote e, sorridendo a Dom, disse: «Ehi, ragazzo! Hai una cartina geografica stampata in faccia, sai? Non sarebbe il caso di dormire su un materasso, invece che contro il tuo braccio?»

Il giovane ridacchiò, ma scosse il capo.

«Sto aspettando notizie dal cugino Christoffer. Sta analizzando i tracciati del satellite geostazionario Esa11. Per quanto assurdo, è l’unica cosa legale – più o meno – che stiamo facendo, perciò vi conviene uscire da qui. Così potrete dire, se interrogati, che non sapevate nulla.»

Lo disse con un risolino, ma non stava affatto scherzando.

Niente di quello che stavano combinando, tra agenti sul campo, o impegnati in rete, era strettamente legale.

Per trovare Cameron, però, avrebbe anche estratto una pistola e sparato a qualcuno.

«Vuoi qualcosa da mangiare, ragazzo? Sono sicuro che troverò qualcosa di buono, in cucina, da portarti» gli domandò Helena, sorridendogli. «Altrimenti, te lo preparerò io.»

Lui scosse il capo, sorridendo grato.

«No, ti ringrazio, nonna. Al momento, ho solo un po’ freddo.»

I tre adulti si guardarono vicendevolmente, chiedendosi il perché.

Nella stanza c’era un bel clima, di sicuro nessuno avrebbe sentito freddo, eppure Domenic rabbrividì un attimo dopo aver parlato.

Per sicurezza, Helena si avvicinò per controllare che non avesse la febbre, ma nulla trovò, tastando la fronte del nipote.

Andrea, allora, prese una felpa di Dom, prelevata da una sedia nelle vicinanze, e gliela drappeggiò sulle spalle.

Al sorriso grato del nipote, l’uomo trascinò via moglie e figliastro e, dopo un ultimo sguardo dietro di sé, si chiuse la porta alle spalle, lasciando solo Domenic con il suo lavoro.

Con la sua missione.

 
§§§

«Non vuole salire, vero?» domandò Hannah, vedendo tornare il trio senza Domenic al seguito.

Sospirò, ma resse il colpo e raddrizzò la schiena. Non doveva mostrarsi debole, neppure per un momento.

Eric, sempre accanto a lei, le tirò la manica del maglione e le domandò: «Io e Keath possiamo andare a giocare un po’ di là, o vuoi che rimanga qui con te?»

Hannah gli sorrise, chinandosi per dare un bacio al bambino e, nello scuotere il capo, mormorò: «Giocate e divertitevi. Quando sarà pronta la cena, vi chiameremo. Per ora, preferisco sentirvi ridere e scherzare, se potete.»

«Gamora! Rocket! Venite!» esclamò allora il bambino, tirandosi dietro i due esemplari di labrador nero.

Keath li seguì a ruota, sorridendo nel passare le mani sulle schiene possenti dei due cani.

Qualche attimo dopo, la musichetta di un gioco al computer partì a tutto volume, riempiendo l’aria.

Hannah sorrise per un momento, prima di far accomodare i suoi ospiti in salotto.

In quell’istante fece la sua comparsa Nick che, accompagnato da Phillip, sembrava essere appena passato sotto un tritacarne.

La moglie lo fissò preoccupata, ma Nickolas scosse il capo, smentendo le sue paure.

«Non si hanno ancora notizie, ma ho saputo da Brandon che sono arrivati, e che stanno già preparandosi per la prima conferenza stampa all’ambasciata. Phie è entusiasta della ragazza che Dom ha mandato da lei… e questo mi fa sorgere più domande di quante non vorrei pormi, visto che non ho alcuna idea di cosa vogliano farci, con questa fantomatica ragazza.»

Si guardò intorno, accigliandosi quando non vide il figlio tra i presenti. «E’ ancora di sotto? Adesso vado a stanarlo.»

«Nick, ti prego, lascialo fare» lo richiamò la moglie, levando una mano verso di lui. «Domenic sa quel che fa, e sa quando deve fermarsi. Non è mai stato lui, lo scapestrato, e lo sai.»

«Già…» mormorò controvoglia il marito. «… ma stavolta c’è di mezzo il gemello, e sai bene quanto sia protettivo nei suoi confronti.»

Hannah annuì, sapendo quanto Nick avesse ragione.

Se c’era un punto debole, nelle difese di Domenic, era proprio il fratello.

Per lui, Dom sarebbe passato anche in mezzo alle fiamme, incurante della sua sicurezza.

I due coniugi si guardarono vicendevolmente e, dopo un istante di tentennamento, Nickolas si avviò verso le scale che conducevano dabbasso, nel regno del figlio.

Una volta raggiunta la porta del suo laboratorio informatico, la aprì senza bussare e, nel vederlo chino sul computer, sospirò.

Il capo biondo-castano rifletteva la luce intermittente proveniente dallo schermo 3D mentre, tutt’attorno, l’ambiente era soffuso e tenue.

Si avvicinò senza far rumore, osservando pensoso le mani del figlio muoversi a velocità sorprendente sulla tastiera ultrapiatta.

Era sempre stato un fenomeno, il genietto di casa, l’asso dei computer e, mentre Cam aveva sempre primeggiato nell’oratoria, lui si era distinto nel campo informatico.

Aveva sempre temuto che, passare troppo tempo dinanzi ai computer, lo avrebbe reso un ragazzo schivo e taciturno, ma anche grazie al gemello, questo non era mai successo.

E ora dipendevano tutti dalle sue abilità e da quelle di ragazzi come lui, per trovare Cam.

Quando lo vide rattrappirsi e rabbrividire, fu subito da lui e, nell’avvolgerlo da dietro, gli fece poggiare il capo contro il suo petto.

«Prenditi un momento di pausa, figliolo. Non puoi pensare di andare avanti a oltranza.»

«Papà…» esalò Dom, guardando verso l’alto per scrutarne il viso preoccupato.

Nickolas strinse ancora più forte e, piegatosi in avanti, lo baciò sui capelli, aggiungendo: «Vieni di sopra per un po’. Stai un poco con me e la mamma.»

«Lo riporterò a casa, papà, te lo giuro.»

«Lo so… ma non voglio perdere un figlio per un altro. Vieni di sopra, mangia qualcosa e riposa. Solo dopo, potrai riprendere. D’accordo?»

Domenic annuì a malincuore e, nell’allontanarsi dalla scrivania, si ripromise di tornare quanto prima.

Non avrebbe abbandonato Cameron al freddo.

Perché sapeva con certezza che, dove si trovava lui, faceva davvero un freddo infernale.







Note: Per chi non lo sapesse, la yakuza è la mafia giapponese. I paesi, come i quartieri, le frazioni, o i fiumi che sto citando sono reali, perciò facilmente rintracciabili, casomai voleste controllare personalmente il tracciato percorso da Yuki e Cameron durante la loro fuga, o scoprire dove abita Minami-chan.

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Capitolo 5
*** VI. Starting ***


VI. Starting.
 
 
 
 
La Fiera Internazionale per la Sicurezza, ampia e articolata in più padiglioni, si trovava all'interno di avveniristiche strutture in acciaio e carbopolimeri trasparenti.

I più delicati vetri, e la meno affidabile plastica, erano stati sostituiti dopo l'ultimo terremoto di magnitudo 9.5, ed erano stati inseriti nuovi prodotti più resistenti agli eventi sismici.

Bryce ne ammirò affascinato la struttura e, quando entrò con Minami al fianco, lasciò che la guardia all'entrata controllasse le loro credenziali.

Lo sguardo che lanciò a Minami fu impagabile. Confusione pura.

E anche Bryce aveva sbattuto le palpebre parecchie volte, quella mattina, quando l’aveva vista conciata né più né meno come una bambola.

Lei aveva fatto una smorfia, si era esibita in un ridicolo balletto in stile marionetta e, con uno sbuffo divertito, era uscita di casa con passo ancheggiante.

Minami, ligia al copione, sorrise a tutto spiano alla guardia e ciangottò allegra e felice, salutando con un sorrisino buffo l’addetto alla sicurezza, che la fece entrare scuotendo il capo.

Per un momento, Bryce si chiese se la ragazza non stesse rischiando la paresi, a forza di sorridere.

Quando furono finalmente all'interno, e gli addetti ai lavori scivolarono attorno a loro come una miriade di formiche in una dispensa rimasta aperta, Minami sbuffò.

«Ho rischiato un crampo, un minuto fa. Per poco non mi mettevo a piangere dal male» borbottò, guardandosi intorno con i suoi attenti occhi bistrati.

Quel giorno, aveva indossato delle lenti a contatto azzurro cielo, oltre alla consueta parrucca bruna e folta.

L'abito, color confetto, era pieno di balze, pizzi e ricami.

Insomma, una bomboniera formato ragazza.

Sorridendole comprensivo, lui le domandò: «Ma non ti stanca dover sempre travestirti?»

«Finché continueranno a controllarci come cavie da laboratorio, mi sentirò costretta a fare così. Non voglio che sappiano chi sono realmente. E' una cosa mia personale, non deve saperlo il mondo intero.»

Il giovane non poté che darle ragione.

Se, effettivamente, gli scanner retinici avevano fatto calare drasticamente la criminalità nelle strade, per contro la gente si era fatta sempre più ostile nei confronti delle forze dell'ordine.

Non era insolito che, nei casi in cui gli scanner non potevano determinare con certezza l'identità del colpevole – su immagini parziali, o distorte – le persone fossero subissate di domande e controlli.

A volte, non esattamente cortesi.

Gli scanner non avevano risolto il problema, lo avevano solo deviato in altro loco o, come in quel caso, lo avevano trasformato in qualcosa di più sordido.

«Dove ci aspetta il tuo amico?» si informò Bryce, preferendo lasciar cadere l'argomento per un’altra occasione.

In quel momento, dovevano pensare alla missione, non ai risvolti etici e sociologici dei viewscan.

Non voleva angustiare Minami, visto soprattutto l'aiuto che gli stava dando nella risoluzione del caso.

«Da quella parte» gli indicò lei, tornando ai suoi soliti sorrisi sdolcinati.

Annuendo, Bryce entrò in uno stand avveniristico, dove microcamere e nanobot la facevano da padroni.

Per quanto i prodotti esposti fossero interessanti, dal punto di vista investigativo, Bryce lasciò presto perdere, per concentrarsi unicamente sulla loro missione.

Una ragazza di circa vent'anni, nella sua divisa bianca e azzurra, si inchinò a entrambi e, parlando assieme a Minami, li invitò a proseguire nel retro dello stand.

Lì, dopo essersi chiusi una leggera porta alle spalle, trovarono ad attenderlo un giovane dalla corporatura smilza e allungata, che sorrise loro e li invitò ad accomodarsi.

«Scusate, sono solo sedie di plastica. Niente di eccezionale, ma ci adeguiamo a quel che passa il convento» esordì il giovane, con la sua voce baritonale ed elegante.

Se Bryce avesse dovuto indovinarne l’età, avrebbe detto venticinque o ventisei anni, ma i tratti del suo viso erano così asessuati da rendergli difficile un esame più preciso.

Minami presentò Bryce alla coppia di giapponesi e, intrecciate le dita su un ginocchio, domandò con tono pratico, niente affatto divertito: «Come stiamo messi a tempistica, Yu-chan

«Quattro ore, più o meno.»

Guardandoli senza capire bene a cosa si stessero riferendo, Bryce sospirò di sorpresa quando Yu tornò da lui con uno scanner alla mano, e un sorriso stampato in faccia.

«Di' cheese...»

Senza dargli il tempo di reagire, Yu piazzò lo scanner dinanzi agli occhi spalancati di Bryce mentre Minami, con dita veloci, si mise a lavorare al laptop che si trovava sul tavolino.

«C-che stiamo facendo?» volle sapere l’investigatore, restando immobile al suo posto.

«Creiamo un secondo Bryce Kendall. Ecco cosa» semplificò, e di molto, Minami.

Yu ridacchiò e, venendo incontro ai dubbi dell'altro, aggiunse: «Stiamo scannerizzando una copia della tua retina con un nuovo programma di duplicazione remota. Il problema di passare indenni sotto gli occhi degli scanner, è sempre stato questo. Copiare semplicemente le linee esterne dell'iride, non basta.»

Minami, allora, intervenne dicendo: «Questo nuovo scanner duplica l'intero occhio, creando una sorta di mappatura retroriflettente nella lente a contatto che, poi, creeremo con la stampante 3D.»

Ciò detto, indicò la piccola scatola rettangolare che si trovava sul tavolino assieme al laptop.

Yu si scostò, iniziò a inviare dati al laptop tramite un sistema wireless e, accomodandosi come se nulla fosse, proseguì nella spiegazione.

«In parole povere, il sistema di duplicazione funziona come le divise mimetiche retroriflettenti, …sai, quelle appartenenti agli eserciti americano ed europeo. Solo che qui, invece di riflettere quello che sta dietro al corpo, riflettiamo quello che sta dietro la retina.»

«E funziona?»

Minami e Yu si guardarono vicendevolmente, dubbiosi ma, alla fine, quest'ultimo asserì: «A volte sì, a volte no. Lo scanner, così come il programma, sono in via di elaborazione. Sono più di otto anni che più di quaranta persone, in ogni parte del mondo, collabora con questo progetto.»

«Che ovviamente è illegale» sottolineò Bryce, non sapendo esattamente come sentirsi.

Lui era abituato a muoversi furtivamente, a volte aveva aggirato un po' la legge, ma mai così tanto.

Quel lavoro avrebbe potuto costargli la licenza?

Forse. Ma era l’ennesimo problema a cui non doveva pensare. La vita di Cameron valeva ben altro.

Ridacchiando, Minami replicò: «Vorrei farti notare che uno dei quaranta personaggi in cerca di galera, è Domenic-san. Quando lo conobbi di persona, due anni fa, fui sorpresa di scoprire che, in mezzo a tanti hacker figli di nessuno, vi fosse anche un altisonante Van Berger.»

Storcendo il naso, Bryce borbottò: «Quel ragazzo tiene per sé fin troppi segreti.»

Yu si fece serio al pari di Minami, e aggiunse: «Vuole solo dimostrare quanto inefficace sia il sistema degli scanner retinici e come non abbiano, di fatto, cancellato o migliorato il problema della criminalità. L'hanno solo dirottato, nascosto sotto il tappeto. Non eliminato.»

Bryce non poté che annuire.

Minami, a quel punto, si levò dalla sedia, indicò al giovane di fare altrettanto e, sorridendo a Yu, disse: «Torniamo qui tra quattro ore, quando la stampante avrà finito.»

«A dopo. Godetevi la fiera» sorrise per contro l'informatico, salutando Bryce e Minami mentre uscivano dallo stand.

 
§§§

Poggiata la mano sulla guancia mentre, pensosa, osservava la figura tridimensionale di Domenic, all'altro capo del videotelefono, Phie borbottò: «In tutta questa faccenda, ci sto capendo sempre meno. Perché non puoi dirmi niente, limitandoti a rassicurarmi, però, sulle condizioni di Cam?»

«A volte, Phie, sei più tarda di un'ameba. Dovresti saperlo, perché» brontolò di rimando l'amico, accigliandosi.

La ragazza, allora, spalancò gli occhi, ridacchiò ed esalò spiacente: «Scusa, scusa, scusaaa! E' vero, ma tutta quest'attesa è così snervante, e il mio cervello va in pappa. Perdono.»

Ovvio che non potesse dirle nulla. Quella non era una linea sicura.

Domenic sospirò, annuì e, più dolcemente, le domandò: «Come ti senti, Phie?»

«Un po' spaventata, lo ammetto. E mi manchi. E' come se mi avessero staccato un braccio, o una gamba.»

Mise il broncio, e Dom ridacchiò.

Phie, per Domenic, era sempre stata la sorellina minore da accudire e proteggere e, se anche per Cam era stato così fino a quasi alla maggiore età, così non era più stato in seguito.

Intorno ai diciotto anni, dopo aver conseguito il diploma – Dom lo aveva conseguito tre anni prima, avendo svolto corsi accelerati per via del suo Q.I. elevato – Cam si era finalmente dichiarato a Phie.

Era stato un periodo difficile, quello, combattuti com'erano tra il pensiero di mantenere il segreto, e quello di ammettere tutto con le rispettive famiglie.

Domenic era stato, per loro, angelo custode, consigliere e sparring partner.

Li aveva aiutati, di volta in volta, a superare piccoli drammi, paure e dubbi, e questo aveva, se possibile, unito ancora di più Phie al gemello del suo innamorato.

Le due facce di una stessa medaglia. Sophie aveva sempre visto così, Domenic.

Come se lui fosse stato il suo gemello separato alla nascita, non quello di Cam.

In un primo momento, la gelosia di Cameron era sorta come la lava di un vulcano, di fronte all’armonia che regnava tra i due.

Sia lei che Domenic avevano faticato un po' a fargli comprendere che, nel loro rapporto, non c'era assolutamente nulla di sensuale.

Phie, semplicemente, si trovava bene con Dom, e il contrario.

Alla fine, Cam aveva accettato la cosa e, da un certo punto di vista, si era persino sentito meglio all'idea che il gemello volesse così bene alla donna che lui amava.

«Vedrai che risolveremo la faccenda, Phie. Te lo prometto.»

Sapeva di non poter essere specifica, al telefono, né chiedere lumi su ciò che Dom stava combinando a L.A., perché nessuno aveva la certezza assoluta che le linee fossero sicure.

Una volta che Bryce li avesse raggiunti in ambasciata, tutto sarebbe stato diverso.

Il giovane detective era in possesso di uno dei primi cellulari satellitari creati dalla V.B. 3000, appoggiati direttamente ai satelliti lanciati in orbita dall’azienda.

Questo avrebbe permesso una maggiore sicurezza nello scambio di informazioni, in quel momento impossibile.

«Lo spero.»

«Con Kim va tutto bene? Simpatica, vero?» le chiese allora Domenic, restando sul vago.

Non poteva certo chiederle se fosse rimasta sorpresa dalla somiglianza che legava Phie alla donna che, solo il giorno prima, si era presentata all'ambasciata americana per parlare con lei.

Naturalmente, quelle similitudini erano dovute a una maschera in lattice e a buone lenti a contatto ma, sulle prime, Phie non lo aveva saputo.

Anche Brandon ne era rimasto sconcertato, come pure l'ambasciatore Grayson.

Con un sorriso divertito, Kim Novach, allora, si era tolta maschera e parrucca, presentandosi come un agente in incognito della CIA.

E, tra le altre cose, ex compagna di corso di Domenic.

«Spiegami ancora una volta come diavolo hai fatto a smobilitare così tante persone, e tutte in una volta.»

Con una scrollatina di spalle – che fece sfrigolare l'immagine in 3D – Dom si limitò a dire: «La rete è veloce e, quando fai dei piaceri a certe persone, poi è altrettanto facile averli indietro.»

Phie aggrottò la fronte, sapendo di non poter chiedere null’altro, ma avendo una voglia matta di farlo.

Cos'altro aveva nascosto, Domenic, nel corso degli anni?

«Neppure Cam sa di queste tue amicizie

Il viso di Domenic, allora, si fece più serio e, scuotendo il capo, replicò: «Ci sono cose che, semplicemente, non si possono dire.»

«Sai che con me e lui ti puoi confidare, vero?»

«Non ti preoccupare, Phie. Va tutto bene. Solo, devo mantenere il segreto su alcune cose, tutto qui» si limitò a dire lui, tornando a sorriderle.

La ragazza, però, scorse il seme del dispiacere nel suo sguardo, anche attraverso l'immagine sgranata prodotta dal videotelefono.

Ugualmente, non disse nulla e salutò Domenic, uscendo poi dalla stanza che le era stata assegnata all'ambasciata.

Da lì, si infilò in uno dei corridoi che conducevano alla sala ricreativa e, con un sorriso, salutò Kim, impegnata nei suoi consueti allenamenti vocali.

Dacché si erano incontrate, non aveva fatto altro.

Di sicuro, prendeva molto seriamente la missione.

«Ehi, ciao» la saluto Kim, imitando la sua voce con raggelante perfezione.

«Dio,... fai quasi paura» mormorò Phie, avvicinandosi a lei per scrutarla con maggiore attenzione.

Kim ne imitò la posizione, solo sorridendo ironicamente e Sophie, borbottando un'imprecazione, esalò: «Ma devi proprio farlo sempre?!»

«Se voglio apparire te, sì, devo farlo. La copertura deve essere perfetta, perché non possiamo sapere chi guarderà la conferenza stampa, o chi potrebbe farti delle domande a sorpresa. Io devo essere te

«Almeno tu puoi dirmi perché, in meno di trentasei ore, la CIA ha inviato qui uno dei suoi agenti, pur se uno giovane e, penso, appena integrato tra gli operativi?»

Kim le sorrise e la invitò ad accomodarsi.

Phie, allora, si lasciò cadere su una poltrona avvolgente e, torva, attese risposte.

«Domenic mi aveva avvertita che la tua curiosità sarebbe balenata praticamente subito, e capisco perché tu voglia conoscere questi particolari. Posso dirti questo. Ero nel corso avanzato al MIT, dove era iscritto anche il tuo amico. Ci siamo incontrati lì. Io sono un'esperta di cinesica1, fisica comportamentale e chimica.»

«Chimica?» ripeté sorpresa Phie, non comprendendo cosa c'entrasse con le prime due materie.

Sorridendo appena, Kim aggiunse: «Il lattice della maschera l'ho perfezionato io. La CIA mi ha voluta tra i suoi agenti sul campo anche per questo, oltre che per le mie abilità di … adattamento

«Anche tu hai un Q.I. spaventoso come quello di Dom, immagino, se eravate nello stesso corso. Quanti anni hai, in realtà?»

Phie lo disse con un sorriso, e Kim ridacchiò.

«Un anno più di Domenic, ventiquattro. Da due, sono un membro operativo della CIA. E no, non ho il suo Q.I., pur se non sono così lontana.»

«Cristo Santo...» ansò la ragazza, passandosi le mani sul viso stanco. «Voi cervelloni mi fate paura.»

«Sii orgogliosa del tuo amico, perché sta lavorando con grande fervore per il suo Paese» mormorò Kim, gli occhi brillanti di fervore patriottico.

Phie trovò le sue parole un po' tracotanti, ma non se la sentì di ironizzare sul suo amor patrio. Dopotutto, era lì per aiutarli.

«E posso anche sapere cosa sta facendo, per il suo Paese?»

«Informazione riservata, mi spiace.»

«Lo immaginavo» sospirò a quel punto la ragazza, reclinando esasperata le spalle.

Kim la imitò e alla giovane non restò altro che aiutarla, mostrandole come si comportava normalmente.

Non le piaceva molto essere spiata a quel modo, ma tant'era.

 
§§§

Bryce osservò con ammirazione la coppia di lenti a contatto create dalla stampante 3D e, nello scrutare Yu mentre le indossava, domandò: «Risulterà, però, che tu non sei mai uscito dalla fiera.»

«Alcuni tecnici degli stand sono abilitati a rimanere all'interno della fiera anche la notte, e io sono tra questi. Rientrerò senza farmi vedere, esattamente nello stesso modo in cui tu te ne andrai da qui. Minami, ovviamente, uscirà con me per avvalorare la messa inscena.»

«D'accordo. Spero tu abbia una piantina dei sotterranei che devo utilizzare, altrimenti mi ritroverò in Cina, invece che sotto l'ambasciata americana» ridacchiò Bryce, facendo sogghignare i due giovani con lui.

«Io vi aspetterò nel punto designato con un'automobile in affitto, che ho già registrato a nome mio. Avete sessantadue ore, poi dovrò dichiararne il furto, d'accordo? Lasciatela ben lontano da dove siete diretti» dichiarò a quel punto Minami, fissando sia Yu sia Bryce con espressione tesa.

Bryce annuì, e non poté che chiedere: «Perché state facendo tutto questo? Dopotutto, per voi siamo dei perfetti estranei.»

«Non lo è Domenic-san» sottolinearono entrambi, sorridendosi vicendevolmente.

Per avvalorare la loro spiegazione, Minami aggiunse: «Domenic-san ha aiutato entrambi noi, anni addietro, e ora ricambiamo solo il favore. Inoltre, ritrovare suo fratello è solo parte della missione. Dimostrare che gli scanner retinici sono inefficaci, è l'altra parte del piano.»

«Quel ragazzo non finirà mai di stupirmi» sorrise a mezzo Bryce, allungando una mano per stringere quella di Yu.

Li guardò ancora un istante, chiedendosi se non vi fosse qualcosa di più ma, in quel caso, Dom gliel’avrebbe detto, no?

Storse il naso, preferendo lasciar perdere quel pensiero.

A volte, i segreti di Domenic avevano così tante sfaccettature che, probabilmente, lui stesso finiva col perdervisi.

Chinandosi perciò verso Minami, le diede un bacio sulla guancia per ringraziarla del suo aiuto.

Yu, allora, gli allungò un palmare e gli spiegò come seguirne le indicazioni, e dove trovare gli accessi possibili per raggiungere l'ambasciata.

«Ti ci vorrà un po', e spero che tu sia un buon camminatore, perché i chilometri da percorrere sono tanti.»

«Mi adeguerò. Grazie» mormorò il giovane investigatore, seguendo Yu nei pressi di un tombino.

«Da qui, accederai ai percorsi più antichi delle condutture delle acque chiare e, da lì, ai vecchi percorsi della metropolitana. Non troverai intoppi di nessun genere. Nei sotterranei inutilizzati, non ci sono sensori di movimento o altro. Sono semplicemente linee morte.»

«Ho sempre sognato di visitare Tokyo, ma non così» ironizzò Bryce, dando il cinque a Yu prima di calarsi lungo la stretta scala a pioli di metallo.

Quando fu sparito alla loro vista, Yu richiuse il condotto e, sospirando, mormorò: «Speriamo bene.»

«Sempre il solito allegrone...» brontolò Minami, afferrandolo a un braccio per condurlo fuori dallo stand.

Yu si mise al suo fianco, cercò di comportarsi con naturalezza e borbottò: «Non diresti così, se avessi visto le carceri americane.»

«Nessuno ti ha detto di ficcare il naso dove non dovevi. Inoltre, stai imbarcandoti in quest'avventura proprio per pagare il tuo debito con la società, no?»

«Con Domenic-san, vorrai dire. Alla società, non devo nulla.»

Minami sorrise, sapendo bene cosa intendesse dire Yu.

Era stato Domenic a insistere perché Yu Konishi venisse scarcerato, pur se accusato e condannato per cyber-pirateria di dati classificati Top Secret.

Domenic aveva convinto le alte sfere a perdonarlo, proponendo loro di usare le sue competenze per scopi più alti della semplice pirateria informatica.

Yu alla fine aveva accettato, finendo per lavorare per coloro che, all'inizio, aveva derubato.

Per Minami era andata più o meno allo stesso modo, anche se lei era finita nelle maglie della rete della V.B. 3000... e in quelle di Domenic.

Era stato lui in persona a presentarsi a casa sua, bello come il sole, per chiederle cosa stesse combinando in rete.

La sua accusa l'aveva quasi ammazzata di paura, ma lui si era comportato gentilmente, facendole i complimenti su come avesse quasi perforato le difese della sua ditta.

Era stato a quel punto che le aveva proposto di diventare sua alleata, non sua nemica.

Perché Domenic era fatto così. In fondo, non era molto differente dal fratello, che sapeva ammaliare folle di addetti ai lavori con le sole parole.

Anche lui era in grado di compiere quella magia, solo, lui si esibiva per un pubblico molto più limitato.







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1 Cinesica: E' la scienza che studia il linguaggio del corpo.



Note: Approfitto di questo spazio per augurare a tutti/e una Buona Pasqua!!!

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Capitolo 6
*** V. Misatomachi ***


 
V. Misatomachi.
 
 
 
 
Quando Yuki tolse il telo cerato dal cassone, dove Cam aveva viaggiato per più di novanta chilometri, quasi strillò dal panico.

Si coprì la bocca per non urlare, e fu lieta di vedere gli occhi chiari del ragazzo aprirsi e fissarla con aria smarrita.

In fretta, lo afferrò alle mani – ghiacciate – per aiutarlo a scendere, lui intirizzito e rigido come un pezzo di legno.

Concitata, mormorò: «Hai bisogno di un bagno caldo. Subito

«P-poco ma s-sicuro...» balbettò Cameron, seguendola verso una porta a vetri, cercando con tutte le sue forze di non inciampare nei suoi stessi piedi.

Quel viaggio, diretti verso le colline a sud-ovest di Tokyo, era stato a dir poco infernale.

Non solo non aveva smesso un attimo di nevicare, ricoprendo la tela cerata di uno spesso strato di nevischio, ma la temperatura era calata più del sopportabile.

Starsene rannicchiati su un ripiano di metallo gelato quando, il tuo unico riparo dalla neve, era un telo di plastica ghiacciato, non era il sistema migliore per evitare l'assideramento.

La giacca pesante era servita fino a un certo punto. L'immobilità, era stata il vero problema.

Restare inattivo per quasi quattro ore lo aveva praticamente messo al tappeto, e ora camminava come uno zombie.

A stento si tolse le scarpe da ginnastica – i mocassini erano finiti in una stufa, assieme ai suoi abiti e a quelli di Yuki – e, scalzo, avanzò su un pavimento in parquet tirato a lucido.

Tutto l'ambiente appariva vetusto, risalente ad almeno quarant'anni prima, ma era ben tenuto e ripulito da poco.

Evidentemente, qualcuno era deposto al riordino di quell'abitazione.

«D-dove siamo?» domandò Cameron, seguendo stordito la figura di Yuki.

Era sempre stata così tonica, o si era addestrata in un qualche genere di sport, negli ultimi anni?

Con un flash, ricordò i tre ninja morti nella sua stanza, e subito aggrottò la fronte.

Non voleva credere che Yuki si fosse allenata per diventare un'assassina, ma la sua competenza in materia gli diede da pensare.

Il freddo che percepiva in tutto il corpo, però, era troppo forte perché lui pensasse ulteriormente anche a quel problema.

Gliene avrebbe parlato a tempo debito, ma ora voleva solo acqua bollente, e in abbondanza.

Quando la ragazza gli aprì una porta, Cam vi si infilò dentro con passo caracollante e Yuki, premurosa, disse: «Fai pure con comodo. L'acqua calda è già presente, per cui non avrai problemi con la vasca. Io, nel frattempo, preparerò il pranzo.»

Lui si limitò ad annuire, chiudendosi dentro e, dopo essersi spogliato, attese impaziente che la vasca in ceramica si riempisse, dopodiché vi si infilò dentro.

E si addormentò, cullato dal calore dell'acqua.

 
§§§

«Cameron-kun? Daijobu? Tutto bene?»

Una voce lo stava chiamando, flebile, penetrando lo spesso strato di oscurità in cui stava galleggiando.

Avvertì altre voci, suoni concitati, una breve colluttazione.

Poi vide quell'uomo incappucciato,... e lo spiedo conficcato nel suo collo.

Si risvegliò di soprassalto, masticando aria a pieni polmoni come se stesse rischiando di affogare.

Yuki bloccò subito il mulinare delle sue braccia, afferrandolo ai polsi con determinazione e, pacata, mormorò: «Calma... non è successo nulla. Calmati.»

Deglutendo a fatica, il giovane finalmente mise a fuoco il viso turbato di Yuki e, chetandosi, rilassò le braccia perché lei lo lasciasse andare.

La giovane, allora, tornò a sedersi, poggiando la schiena contro il bordo della vasca.

Portate le gambe al petto, Yuki le strinse con le braccia e poggiò il mento sulle ginocchia, un'espressione torva sul viso pallido.

«Che ci fai qui?» le domandò Cam, imitandone la posa.

«Ti ho chiamato, prima, per chiederti se preferivi il pesce o la carne, ma non hai risposto. Così sono entrata per controllare se stavi bene, e ti ho visto addormentato nella vasca.»

Gli sorrise per un attimo da sopra la spalla, poi il suo viso tornò tetro.

«Mi sono messa qui ad aspettare che tu ti risvegliassi. Avevo paura potessi scivolare dentro e affogare.»

Cam sorrise a mezzo, replicando: «Non sono così imbranato, sai?»

«Eri stanco morto... e un pezzo di ghiaccio. Cosa ne sapevo se eri svenuto o meno?» protestò Yuki, brontolando.

«Ragione. Scusa.»

Ristettero in silenzio per un po', nessun rumore ad accompagnare i loro respiri, solo la sensazione ovattata della neve all'esterno.

Quel luogo appariva come sperduto tra le colline, tanto era silenzioso e solitario.

Fu Yuki a spezzare quella sorta di letargo artificiale e, con un tremulo sospiro, mormorò: «Immagino avrai un po' di domande da farmi, a questo punto.»

«Sarebbe più facile dirti quello che non voglio sapere» ironizzò Cam. «Per esempio, non mi interessa sapere il risultato dell’ultima partita di hokey Tokyo Vs. Kyoto.»

Lei ridacchiò, pur senza provare reale desiderio di farlo e, con un gesto abile, si rimise in piedi, lo sguardo fisso sulla porta.

«Vestiti. Ti aspetto in sala da pranzo. Lungo il corridoio, è l'ultima porta a destra.»

Detto ciò, uscì con passo silenzioso, le movenze di un gatto e la sua stessa agilità.

Cameron sospirò, uscì dalla vasca e si asciugò, rimettendosi gli abiti con cui era giunto lì.

A piedi scalzi – la casa aveva il riscaldamento a pavimento – avanzò dunque lungo il corridoio e aprì la porta, trovando una cucina tradizionale e un tavolo con le sedie.

Lì, Yuki aveva sistemato dell'okonomiyaki di verdure e Cam, sorridendo spontaneamente nel vedere quella tipica frittata multicolore, chiosò: «Ti ricordavi dei miei gusti, eh?»

«Ti è sempre piaciuta, e Megumi-san ne faceva sempre una buonissima, quando venivate in visita» assentì Yuki, afferrandone un pezzo con le bacchette.

Cameron si accomodò a sua volta e, di buona lena, si servì una porzione generosa.

Aveva una fame da lupi.

Ristettero così per alcuni minuti, pensando unicamente a sedare la sensazione di vuoto nei loro stomaci.

Fu solo quando si sentirono un po' meglio, che Yuki iniziò a parlare.

«E' nato tutto per colpa di una gazza.»

«Come?» mormorò Cam, fissandola stupito.

Lei annuì, sorridendo a mezzo, e proseguì nel racconto. «Ti ricordi della mia gattina, Michiu? Beh, aveva figliato, e uno dei piccoli era nel giardino quando, di colpo, una gazza lo attaccò.»

Cam assentì, chiedendosi il perché di quella storia. Non impiegò molto a comprenderne i motivi.

«La gazza strappò un occhio al gattino, e io fui testimone della scena. Urlai forte, piansi e corsi a cercare Nobu-san, che in quel momento era in casa. All'epoca, avevo dieci anni, e lui venti. Insomma, se non poteva aiutarmi lui, chi altri?»

Cameron si limitò a un breve cenno di assenso, chiedendosi dove volesse andare a parare.

Yuki allora si fece ironica quanto gelida.

«Oh, lui venne. Estrasse una pistola nichelata dalla giacca, sparò alla gazza, uccidendola e poi, non contento, sparò al gatto. Piansi ancora più forte, chiedendogli perché lo avesse ucciso e lui, con una flemma che mi congelò il sangue, mi disse che i deboli andavano lasciati indietro, perché solo i più forti dovevano sopravvivere. Il gatto era menomato, perciò sarebbe cresciuto debole e inferiore, rischiando di morire prematuramente.»

Rise con il gelo nella voce, e aggiunse: «Mi disse di avergli fatto un favore, uccidendolo subito.»

«Mio Dio» esalò Cam, senza parole.

Aveva sempre ritenuto Nobu un uomo dall'aria ambigua e oscura, ma non avrebbe mai potuto neppure immaginare in lui un simile atteggiamento.

«Negli anni, il suo comportamento non migliorò. Lo vidi punire uno dei suoi sottoposti in maniera piuttosto efferata e, per paura, non lo dissi a nostro padre. Con il senno di poi, probabilmente mi sarei cacciata in guai seri, dicendoglielo.»

Il dolore nella sua voce fu come una lama sulla pelle di Cameron, che digrignò i denti per un attimo, ripensando al suo sensei, al suo maestro.

Era stato Noboru Tashida a insegnargli le basi delle arti marziali, a instradarlo verso il karate, la disciplina che più gli era congeniale e, da ultimo, a indirizzarlo verso i migliori maestri presenti in California.

E ora questo.

Lo scorno più grosso, il tradimento più infame.

«Ti sentisti minacciata? Per questo, imparasti l'arte delle ombre?» le domandò il giovane, già immaginando la risposta.

«Iniziai a praticare il ninjutsu in segreto, all'oscuro della mia famiglia. Naturalmente, proseguii le mie lezioni con papà e con Nobu-san ma, per conto mio, imparai anche l'arte della furtività. Nobu-san mi faceva troppa paura, perché rimanessi inerme. E sai quanto io detesti le armi da fuoco. Non avrei mai imparato a difendermi a quel modo.»

Cameron annuì, chiedendosi quanto, di quel che aveva visto negli anni a Villa Tashida, fosse stato effettivamente reale.

Quanto, delle loro visite, era stato pianificato a tavolino, per imbastire intorno alla famiglia Van Berger un solido teatrino di inganni?

Il solo pensiero che tutti loro fossero stati così platealmente ingannati, lo fece sentire male.

Yuki batté una mano su quella di Cam, che ora era ripiegata a pugno sul tavolo, e mormorò: «Mamma non ne sa nulla, e credo neppure Shunsuke. Su Kaneda ho qualche dubbio, ma forse è inconsapevole anche lui di ciò che papà e Nobu-san hanno pianificato negli anni.»

«Come sta, Ekaterina?» chiese allora Cam, pensando alla bellissima ex moglie russa di Noboru.

L'alta e statuaria siberiana, sposata con Tashida da quando lei aveva solo diciannove anni, era sempre parsa a Cameron come una Valchiria, una delle antiche guerriere dei miti del nord.

Bionda, altissima, con penetranti occhi grigi.

Se nei colori somigliava molto alla madre, lo sguardo però era sempre stato ben lontano dalla dolcezza innata di Hannah.

Certo, anche mamma sapeva essere gelida e contegnosa, ma Cameron aveva sempre visto in Ekaterina qualcosa di freddo, di profondamente duro in lei.

Aver saputo da Yuki del passato della madre, gli aveva fatto comprendere il perché di quell'apparente comportamento inattaccabile alle emozioni.

Vivere con un padre padrone, in una piccola casa di campagna, unica femmina in una moltitudine di fratelli, e con una madre stanca e provata, poteva minare chiunque.

Forse per questo, Ekaterina aveva creato attorno a sé un'isola protettiva, dove nessuno poteva turbarla. E su quell'isola lei aveva posto i suoi figli.

Anni dopo il matrimonio con Tashida, con Yuki ormai adolescente, Ekaterina aveva chiesto il divorzio, ottenendolo senza troppi drammi.

Noboru, in fin dei conti, aveva ottenuto quello che desiderava. Una prole forte, bella e intelligente.

A Ekaterina era spettato un appannaggio più che rispettabile, e la possibilità di vedere i figli ogni volta che voleva.

Ma aveva perso ogni diritto sulla Tashida Group, cosa che comunque aveva reso soddisfatte entrambe le parti.

«Ora è nell'Hokkaido per la stagione invernale. Se non erro, accompagnata dal suo attuale uomo» mormorò Yuki, servendo dell'acqua fresca per entrambi.

«Non sapevo avesse un compagno. Come ti sembra?»

La ragazza guardò Cameron, gli sorrise e disse: «Non c'è bisogno che tenti di intavolare una discussione normale, Cameron-kun. Non riuscirei a dimenticare la situazione neppure se mi sedassi.»

Il giovane allora scrollò le spalle, vistosi scoperto, e replicò: «Se io mi sento male al solo pensiero, non immagino neppure lontanamente come possa sentirti tu.»

«Ricontrollai i dati non meno di venti volte, per essere sicura di aver compreso correttamente il messaggio che avevo intercettato. Naturalmente, era cifrato, perciò impiegai tempo e fatica, ma non mi sbagliai. Risultò essere tutto maledettamente corretto.»

Sospirò, si passò una mano sui capelli, che ora erano rilasciati sulle spalle, e le giungevano a metà schiena.

Cam li osservò ammirato.

Erano sempre stati di un nero intenso, simili alle ali di un corvo e, al sole, avevano riflessi blu, tanto il colore era scuro e puro.

L’unico vezzo che il giovane notò furono le punte dei capelli, sapientemente tinte di un allegro color amaranto.

«Hai idea di chi abbia avuto...beh, l’idea di base?»

Non era sicuro di volerlo sapere, ma qualcosa dentro di lui spingeva perché la verità venisse a galla.

Per quanto tremenda fosse.

Yuki però scosse il capo, replicando: «Non ho avuto il tempo di scavare così a fondo, ma ho lasciato una traccia da cui ripartire con le indagini. E' labile, ma so come riconoscerla.»

Cameron sorrise benevolo e, nel sorseggiare un po' di acqua fresca, mormorò pensoso: «Se potessimo far avere questa informazione a Dom, tirerebbe fuori tutto dalla rete in men che non si dica.»

La giovane lo fissò vagamente sorpresa e sì, curiosa, e all'amico non restò che parlare.

«Forse non dovrei dirtelo, visto che sono affari di Dom, ma data la situazione in cui ci troviamo...» iniziò col dire Cam, scrollando le spalle. «...non penso faccia molta differenza, saperlo o meno. Domenic non è solo un genio come programmatore. Ci sa fare anche come hacker, anche se i nostri genitori non lo sanno.»

Alla ragazza sfuggì un risolino, come tranquillizzata dalle parole dell’amico e, vagamente scettica, replicò: «Io ricordo tuo fratello come un posato, morigerato studente del MIT che, a soli diciotto anni, ha preso la sua prima laurea con tanto di Summa con laude. Non ce lo vedo a evadere bellamente la legge.»

«Oh, lo fa con gran classe... ma lo fa» ridacchiò suo malgrado Cam. Pensare al fratello lo faceva star bene.

Chissà cosa stava passando, in quel momento?

Percepiva, almeno in parte, l'ansia che stava provando?

A volte, tra loro, era successo. Lo ricordava bene.

Quando si era perso durante la sua solitaria in Colorado, tra gli arroyo dei canyon, era stato Dom a guidarli nella giusta direzione.

Si era dovuto infuriare non poco con gli uomini addetti al recupero e salvataggio, perché non avevano voluto credere subito alle sue parole.

Ma alla fine l'aveva avuta vinta.

Quando, però, gli avevano chiesto spiegazioni in merito, lui non aveva saputo spiegare i motivi delle sue intuizioni.

Aveva solo sentito che era lì.

E Cam sperò ardentemente che ora lui sentisse che era sano e salvo. Almeno per il momento.

«Cosa fa, di preciso?» si interessò allora Yuki, poggiando il mento sui palmi sollevati delle mani.

Ghignando, il giovane chiosò: «Curiosa, eh?»

«Lo ammetto, sì. Non mi aspettavo che Domenic-kun avesse anche un lato oscuro» lo disse sorridendo, come a sottolineare che il suo non era un biasimo, quanto un plauso.

Ridendo, Cameron si perse, però, il lampo di sordo interesse negli occhi di Yuki che, attenti, lo stavano studiando fin da quando aveva iniziato a parlare del fratello.

«Per la verità, non so esattamente cosa combina con i suoi computer, quando si rifugia nella sua Bat-caverna.»

Nel dirlo, ridacchiò, e così pure Yuki. «Di sicuro, so che i sistemi di difesa dell'Esa, l'Ente Spaziale Europeo, sono migliorati molto, negli ultimi sei anni, grazie a lui. I nostri cugini Aaron e Christoffer lavorano lì e, quando hanno saputo delle, diciamo…, particolari attitudini di Dom, gli hanno chiesto di testare il sistema. Ovviamente, questo è crollato dopo dieci minuti di accurato lavoro, e così...»

«Dieci … minuti?! Ha fatto crollare i firewall dell'Esa in così poco tempo?!» esalò la giovane, sgranando gli occhi di colomba.

Cameron annuì, sentendosi in uno strano qual modo orgoglioso nel vedere, negli occhi di Yuki, una simile sorpresa. E sì, anche un pizzico di reverenziale timore e ammirazione.

Era sempre felice quando qualcuno riconosceva la bravura del gemello.

Lui era sempre stato in prima linea, grazie al suo carattere naturalmente più espansivo e ciarliero, mentre Dom era sempre stato la sua ombra fedele.

A volte, si era chiesto se questa condizione lo avesse infastidito, ma Domenic si era sempre messo a ridere, di fronte alle sue paure.

Dom non aveva mai amato i riflettori, la notorietà, i giornalisti sempre a caccia di scoop, mentre lui vi aveva navigato nel mezzo come un lupo di mare in una tempesta.

Svicolava sulle domande indisponenti con la stessa agilità di un trapezista durante un'esibizione, e questo aveva sempre fatto sorridere e divertire Hannah.

Il pensiero della madre lo intristì subito e Yuki, avvedendosene, gli domandò: «Un brutto pensiero?»

«Ho pensato a mamma, e mi sono chiesto come potesse stare ora.»

«Immagino che dentro di sé starà urlando di rabbia, ma fuori sarà incrollabile» asserì Yuki, con un sorriso sicuro. «Ho sempre visto Hannah come una donna forte e coraggiosa, e non dubito che specialmente ora tirerà fuori gli artigli.»

«Già» assentì Cam, pur tremando dentro di sé. Sperò soltanto che quest'evento non fosse troppo, per la sua famiglia.

 
§§§

I lunghi passi cadenzati di Berenike falciarono l'aria mentre il marito, Todd, sorseggiava del buon vino, il viso rivolto verso il giardino di Villa Van Berger.

«Strangolerò quel ragazzo non appena tornerà a casa! Perché non chiama?!» sbottò a un certo punto Berenike, bloccando i suoi passi in corrispondenza del marito.

Lui la fissò serafico, ben conoscendo da anni gli improvvisi scoppi di rabbia della moglie – spesso dovuti alle marachelle di Bryce – e, pacato, asserì: «Ha quasi venticinque anni, Berry, non due mesi. E' in missione semi-segreta, e pensi davvero che il suo primo pensiero sia chiamare te

«Sono sua madre! Certo, che dovrebbe chiamarmi!» brontolò la donna, pur calmandosi un poco.

Hannah le sorrise indulgente, e aggiunse: «Se può consolarti, nemmeno Brandon o Phie hanno richiamato, dacché sono arrivati all’ambasciata.»

«Insensibili. Tutti quanti» borbottò Berenike, lasciandosi cadere sul divano, al fianco dell'amica di sempre. «Sy mi ha detto che, non appena Logan si sentirà meglio, si fionderà qui.»

Hannah scosse il capo, pensando all’amica – sposata con il loro cugino Aaron da ormai dodici anni – e replicò: «Se solo prova a mettere piede su un aereo, la faccio malmenare da… beh, da Cecille.»

Berry le sorrise indulgente, prendendole una mano per poi portaserla al cuore. «E’ tua amica, Hannah… pensi davvero che se ne rimarrebbe ad Amsterdam mentre tu sei qui, preoccupata da morire, perché sei in pena per Cam?»

«Non importa. Suo figlio ha la precedenza e, visto che è in ospedale, non deve neppure pensare di allontanarsi.»

Todd sorrise indulgente, ribattendo: «Ne avranno solo per altri due, tre giorni, poi Logan verrà dimesso. In fondo, se l’è cavata meglio di quanto tutti quanti noi avessimo temuto all’inizio.»

L’incidente che aveva visto coinvolto il piccolo Logan aveva preoccupato tutti ma, prima ancora di poter partire per Amsterdam, era piombata sulle loro teste la scomparsa di Cam.

Impossibilitata a muoversi, la famiglia Van Berger aveva quindi contattato i parenti in Europa e, da quel momento, Sy si era fatta sentire tramite Skype o videotelefono.

Hannah sospirò, lasciando perdere la sua arringa e, nel lanciare un’occhiata all’amica, ammise: «Starà bene presto. Lo so.»

Nick entrò in quel momento a passo di carica, notò immediatamente la faccia scura di Berry e il sospiro di rassegnazione della moglie e, con un mezzo sorriso, dichiarò: «Su con il morale, donne. Ci sono novità.»

L'attenzione dei presenti si focalizzò immediatamente su di lui che, andando a depositare un bacio sui capelli di Hannah, disse subito dopo: «Le analisi della scena del delitto hanno messo in evidenza due particolari. Primo, non ci sono tracce di sangue di Cameron, nella stanza, quindi lui non è stato ferito durante la colluttazione. Secondo, ci sono le sue cellule epiteliali nella botola dell'ascensore, e portano dritte sul tetto.»

Il sollievo fu generale e Todd, curioso, gli domandò: «Ma come diavolo sei riuscito ad avere queste informazioni?»

Nickolas, allora, si volse a mezzo e, orgoglioso, puntò lo sguardo verso il figlio, fermo sulla soglia del salotto.

Appariva piuttosto sbattuto, con una coperta sulle spalle, un accenno di barba sul viso e i capelli scompigliati.

Sbadigliò, gli occhi di tutti puntati su di lui e, quando Hannah si levò per abbracciarlo, biascicò: «Per ora, ho estrapolato questo. Ma non c'era molto altro, negli archivi che ho spulciato.»

La madre lo strinse in un rapido abbraccio e, dopo avergli passato un dito sulla guancia ispida, entrò subito in modalità generale di brigata.

«Sistemati un po', ragazzo. Non ti serve a niente sembrare un rifugiato in zona di guerra.»

«Signorsì, mamma» assentì lui, deponendole un bacio sulla guancia. «Che ti avevo detto? E' vivo.»

Lei annuì e, pur con gli occhi lucidi di lacrime, non pianse.

Sospinse il figlio verso il corridoio e, perentoria, disse: «Non ti rivoglio qui, se prima non ti sistemi un po', è chiaro?»

«Sei una donna dispotica e senza cuore, ma ti amo lo stesso» ironizzò Domenic, andandosene dopo averle lanciato un bacio con lo schiocco da sopra la spalla.

Hannah rimase a guardarlo finché non scomparve dietro l'angolo del corridoio e, a quel punto, si volse verso il marito e dichiarò: «Non mi arrabbierò più, sapendolo attaccato a quei computer. Lo giuro.»

«Immaginavo l'avresti detto» ironizzò Nickolas.

«La domanda, ora, sorge spontanea. Che ci è andato a fare, sul tetto?» intervenne Todd, pensieroso.

«Non ci sono scale di sicurezza che portano al pianterreno, quindi è da escludere a priori questo sistema di fuga» aggiunse Berenike, torva in viso.

Hannah si avvicinò al marito e, nel poggiare una mano sulla sua spalla, domandò: «E' possibile che sia stato aiutato? Dopotutto, due degli aggressori di Cam erano morti, stesi accanto a Leon e Sebastian, mentre uno era in camera da letto.»

Dirlo, le fece male al cuore.

Aveva parlato personalmente con le famiglie delle due guardie del corpo che, pur provate dal dolore, non avevano espresso alcun tipo di risentimento.

Sapevano che, con un mestiere simile, i rischi erano a portata di mano.

Saperlo, però, non rincuorò Hannah.

Niente di tutto ciò avrebbe mai dovuto succedere.

«E' plausibile, sì. Altrimenti, non si spiegano gli spiedi ninja trovati sui corpi degli assassini. Non erano tra la dotazione che gli hanno trovato addosso» assentì Nickolas.

«Quindi, qualcun altro sa» sentenziò lapidaria Berenike.

«Già... ma sarà amico, o nemico?»

 
§§§

Nobu non mostrò la ben che minima stizza, quando lesse il rapporto preliminare della scientifica, che aveva analizzato palmo a palmo l'intero piano dell'albergo.

Ricontrollò tre volte l'intero scritto, giusto per non lasciare indietro nulla, dopodiché si inserì nella rete meteorologica nazionale e richiese una stratimetria dei venti del giorno precedente.

Mentre i grafici si caricavano sul computer, accese la sigaretta elettronica, si alzò dalla poltrona in pelle di canguro e si avviò verso le finestre per osservare Tokyo.

«Hai scoperto qualcosa?» mormorò una voce alle sue spalle, bassa, profonda, roca.

Senza voltarsi, Nobu sorrise.

Avrebbe riconosciuto quella voce tra mille.

Due mani forti, vagamente ruvide, sfiorarono i suoi fianchi snelli e discesero lente, sinuose come serpenti, verso il pube.

Lui lo lasciò fare. Gli piaceva l'intraprendenza di Byron.

Sua guardia del corpo da sette anni, da cinque era diventato anche il suo amante segreto, tra le altre cose.

Non era una cosa che avrebbe sbandierato ai quattro venti, e la segretezza stava bene a entrambi.

Li eccitava.

Classica bellezza nordeuropea, Byron Lodge era un ex militare britannico trasferitosi in Giappone in cerca di avventura.

Si era unito alla sua folta schiera di guardie del corpo quando, per puro caso, Byron lo aveva salvato da un'aggressione della yakuza, sette anni prima.

L'ingaggio era venuto per diretta conseguenza.

La loro storia, invece, era stata ben più travagliata.

Sulle prime, Byron aveva rifiutato strenuamente l'idea di poter nutrire degli interessi per un altro uomo ma, con lenta e metodica testardaggine, Nobu lo aveva portato a più miti consigli.

Il loro viaggio in Hokkaido, in una stazione termale di prim'ordine, lo aveva fatto capitolare.

Sospirò, quando l'erezione si lasciò plasmare dalle mani forti di Byron e, reclinando all'indietro il capo per poggiarlo contro la spalla robusta dell'europeo, mormorò: «Se continui così, non riuscirò a dirti nulla.»

«Me ne parlerai più tardi. Ora, ho voglia di altro.»

Lo obbligò a voltarsi, spingendolo a forza contro la finestra. Calò sulla sua bocca per un bacio rude, che piacque a entrambi.

Si sarebbero spinti anche oltre, se il bip del computer non li avesse obbligati a volgersi, incuriositi.

Le stratimetrie erano state completate.

Scusandosi con Byron con un bacio, che lo seguì alla scrivania, Nobu sorrise sardonico e asserì: «E brava Yuki-chan. E così hai usato le tute alari, eh?»

«Tua sorella è coinvolta?» esalò sorpresa la guardia del corpo, scrutando l'amante con espressione turbata.

Annuendo, Nobu perse del tutto la voglia di fare dell'ironia.

«Mi stavo chiedendo dove diavolo fosse finito Van Berger, una volta giunto sul tetto, così ho iniziato a pensare agli unici modi che avrebbe potuto usare per andarsene. Utilizzare un elicottero, avrebbe previsto un piano di volo – nessuno può volare su Tokyo senza permesso, neppure io – perciò l'ho scartato subito. Quindi, cos'altro rimaneva, a Van Berger, se non lanciarsi?»

«Di certo, non con un paracadute. Troppe interferenze date da cavi, antenne e balconate» gli fece notare Byron.
Nobu annuì.

«No, infatti. Così, ho controllato gli spostamenti di Yuki degli ultimi giorni e... guarda un po' dov'è andata?»

Tashida cliccò sul fondo dello schermo per aprire una seconda schermata e, fatto partire il video, mise in mostra la sorella mentre usciva da un negozio sportivo.

«Ho fatto controllare gli scontrini. Indovina cos'ha comprato?»

Byron lanciò un'occhiata alle stratimetrie, alle correnti ascensionali e discensionali e, accigliandosi un poco, mormorò: «Due tute alari?»

«Complimenti, mio caro. Esattamente.»

Nobu indicò con la sigaretta elettronica un percorso in particolare e, aggrottando la fronte, asserì: «Questa corrente ascensionale porta direttamente verso la baia, lontano dagli scanner ottici. Un posto ideale dove atterrare. E perfettamente in linea con le possibilità offerte da una tuta alare.»

«Dovevano avere almeno un complice che li recuperasse» si sentì in obbligo di dire Byron, non credendo affatto che la ragazza potesse aver fatto tutto da sola.

Annuendo, Nobu dichiarò: «Quasi sicuramente, uno dei tanti barcaioli che scorrazzano lungo l'Edogawa. Lei è sempre impegnata in quelle sue campagne per la riqualificazione della zona. Sai com'è... cuore gentile...»

«Vuoi che mi occupi di stanare chi li ha aiutati?»

«Perderemmo solo del tempo, e non mi va di avere in giro altri cadaveri. Già quelli nella stanza di Van Berger, col tempo, potrebbero crearci dei guai. No, nessuno spargimento di sangue, né sparizioni misteriose. Inoltre, possediamo altre fonti a cui attingere, e potrebbero essere più interessanti di qualche barcaiolo ignorante.»
Byron annuì, continuando a osservare le sponde dell'Edogawa in quella cartina stilizzata in 3D.

«Anche se avessero percorso a ritroso l'Edogawa, seguendone le sponde, non avrebbero potuto andare lontani. In alcuni punti, sono totalmente sommerse, perché il fiume è incanalato in passaggi obbligati in cemento.»

Sgranando leggermente gli occhi, Nobu sorrise orgoglioso a Byron e, assentendo al suo commento, disse: «Ottima constatazione, caro. Sì, non avrebbero potuto andare da nessuna parte, da lì. E percorrere le strade limitrofe sarebbe stata follia. Sono piene di scanner. Mezzi pubblici e auto private, sono da escludere. Stesso problema. Gli scanner si trovano su tram e metropolitane, e dalle auto è possibile essere visti in ogni modo.»

«C'è un'altra via, Nobu-san

L'uomo fissò il suo amante in cerca di spiegazioni e Byron, arrischiandosi a digitare un paio di dati sul computer del suo capo, fece comparire la rete sotterranea della G-Cans.

Che, tra le altre cose, combaciava con il punto di potenziale atterraggio dei due fuggiaschi.

Nobu sorrise, si levò in piedi e, afferrato il colletto della camicia di Byron, lo piegò in avanti per baciarlo.

«Ora, possiamo dedicarci ad altro.»

Byron non se lo fece ripetere.









Note: Se vi state chiedendo il significato del titolo, trattasi nient'altro che del nome del paese raggiunto da Yuki e Cameron. L'Edogawa citato da Nobu, invece, è uno dei fiumi principali di Tokyo, e i canali della G-Cans scaricano le acque di reflusso delle inondazioni proprio nel suo corso. Casomai aveste qualche altra domanda, non esitate a chiedere. E grazie per avermi seguita fino a qui!


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Capitolo 7
*** VII. Hunters ***


VII. Hunters.
 
 
 
 
Guardandosi intorno con espressione torva, lunghe ombre attorno a loro in contrapposizione alle bianche macchie di luce create dai lampioni, Byron chiamò Nobu non appena ebbe l'okay dei tecnici.

«Nobu-san, credo che ci siamo. Le impronte digitali di Cameron-chan sono state rilevate accanto alla maniglia di una delle porte della G-Cans

«Molto bene. Manda un paio di uomini nelle condutture, gli altri percorrano il tragitto via terra, controllando tutte le uscite. Non possiamo perderlo.»

Annuendo, Byron osservò il terreno limaccioso nei pressi dell'apertura e, torvo, asserì: «Non era da solo, Nobu-san. Ci sono orme di piedi. E sono orme piuttosto piccole, per essere quelle di un altro uomo. Sono sicuramente di una donna.»

«Yuki-chan. E’ certamente lei. Non si è limitata a portarlo via dall’albergo, ma l’ha anche seguito.»

La voce di Nobu risuonò caustica all'orecchio di Byron, il quale si trovò pienamente d'accordo con il suo capo.

Quella sciocca ragazzina traditrice l'avrebbe pagata cara.

L’aveva sempre rispettata in quanto sorella di Nobu e, per lungo tempo, si era preoccupato in prima persona che non le capitasse mai nulla.

Ma a quel punto… no, non avrebbe esitato a fare quanto dovuto, per fermarla.

«Trovala, Byron-chan, e portala da me… viva. Voglio essere presente, quando le torcerai il collo.»

«Come desideri, Nobu-san

L'avrebbe fatto con immenso piacere.

 
§§§

Non aveva la più pallida idea di quante ore avesse passato nei condotti sotterranei di Tokyo, ma una cosa era certa.

Era stufo marcio di volgere lo sguardo a ogni cigolio, uggiolio o stridio le sue orecchie avvertissero.

Quel posto era spettrale.

Non che i topi lo spaventassero, o i ragni gli dessero fastidio.

Erano tutte cose sopportabili, e aveva anche visto di peggio.

Era l'assoluta – o lui per lo meno sperava – solitudine che si percepiva in quei condotti, a renderlo nervoso.

Sapere che su quelle vecchie linee non corressero più i treni della metro, non lo aiutò a tranquillizzarsi.

Immagini di treni fantasma, di bande di delinquenti e di ogni altro genere di pericolo, cominciarono a balenare nella sua mente dopo solo un paio d'ore di cammino.

Quando finalmente, sul palmare, comparve la posizione dell'ambasciata, poté dichiararsi al sicuro e libero da quella sensazione di oppressione che gli davano quei condotti.

Se fosse stato una persona diversa, si sarebbe permesso anche un piccolo balletto di ringraziamento.

Lanciata un’occhiata alla scaletta che aveva innanzi, e che conduceva a uno dei pozzetti di controllo – in linea teorica – della cucina del palazzo dell'ambasciata, iniziò la risalita.

Sperò sinceramente che, all’interno dell’ambasciata, sapessero già del suo arrivo, o avrebbe passato davvero un brutto quarto d’ora.

Ammesso che non lo riempissero prima di piombo.

Non impiegò molto per raggiungere il coperchio metallico e, dopo aver aperto il condotto, infilò cauto il capo, ritrovandosi a fissare uno sbicottito cuoco in livrea.

«Ehm... salve...»

L'uomo, rubizzo e sulla cinquantina, sobbalzò leggermente prima di esalare uno stupito: «Mr Kendall?»

«Dando per scontato che so di non essere un tipo famoso, immagino vi abbiano avvisato del mio arrivo» chiosò il giovane, uscendo dal condotto prima di rimettere in bell'ordine il tombino.

Non appena si volse, si ritrovò a confrontarsi con la canna della pistola nichelata di un agente della sicurezza.

Sorridendo a mezzo, non aspettandosi niente di meno, Bryce indicò con calma la tasca esterna della sua giacca.

L'agente, senza dire nulla, estrasse i suoi documenti, li controllò scrupolosamente e infine calò l'arma, dicendo atono: «Come immaginerà, non ci fa piacere scoprire che esiste un modo così semplice per entrare in ambasciata. Comunque, ben arrivato, Mr Kendall.»

«Se le può servire, qui c'è la piantina aggiornata dei condotti sotterranei» asserì Bryce, consegnandogli il palmare che Yu gli aveva lasciato. «Così, se vorrete predisporre dei sensori di movimento lungo la rete, sarete debitamente avvertiti di altri eventuali...sconfinamenti

L'agente prese subito in custodia il palmare e, fattogli cenno di seguirlo, lo condusse in un ripostiglio, dove Bryce trovò i suoi bagagli, recapitati in ambasciata tramite Fed-ex.

Sorridendo sollevato, poté quindi ripulirsi sommariamente e cambiarsi, prima di presentarsi davanti all'ambasciatore, Brandon e Phie.

Nel complesso, non impiegò più di venti minuti e, quando l'agente – che disse di chiamarsi Johnson – lo accompagnò ai piani superiori, Bryce si sentì accendere dall'entusiasmo.

Erano riusciti a ingannare gli scanner retinici, e tutto grazie a una rete di hacker.

Di sicuro, l'ideatore di Viewscan avrebbe dormito male, nelle prossime settimane, quando la notizia fosse trapelata.

Johnson aprì una porta al quinto piano dopo aver bussato un paio di volte e, lasciato passare Bryce, si congedò.

Lì, nella saletta dov'era entrato, il giovane si ritrovò dinanzi a due copie di Phie e, sobbalzando leggermente, esalò: «Okay... ci vedo doppio?»

Brandon rise al pari dei presenti e l'ambasciatore Grayson, andandogli incontro con la mano già allungata verso di lui, esordì dicendo: «Direi che la sua reazione ci conforta, visto che conosce Miss Shaw da tempo.»

«Beh,... la somiglianza è fenomenale. Oserei dire che potrebbe passare per lei anche a un esame dei suoi stessi genitori» commentò divertito il giovane, stringendo la mano dell'ambasciatore.

«Questo è positivo visto che, a quanto pare, i genitori di Sophie non sono al corrente che lei verrà là fuori con te» intervenne la Sophie-copia, usando un tono di voce spaventosamente simile all’originale.

«Se non sapessi che c'è una copia tra voi due, non avrei notato la leggera inflessione nella voce. Sei di Washington, vero?» sorrise Bryce, notando il sopracciglio della Phie-copia sollevarsi di scatto.

«I miei complimenti, Kendall. Dovrò correggere leggermente l'accento, allora.»

«Lieto di essere stato d'aiuto» chiosò quindi il giovane, afferrando il cellulare dalla tasca dei pantaloni.

«Chiami Dom?» si informò Brandon, curioso.

Annuendo, Bryce disse un attimo dopo: «Ehi, buongiorno, genio. Come butta, in quei di L.A.?»

«Chiama tua madre, prima che mi strangoli con le sue stesse mani» esordì Domenic, ridacchiando.

«Ops. Me n'ero completamente scordato» esalò il giovane, contrito e vagamente preoccupato.

«Lo so... Minami-chan può fare quell'effetto. Simpatica, eh?»

«E' un piccolo genietto dell'informatica, racchiuso in un metro e cinquantacinque di ragazza tutto pepe. L'ho vista lavorare al computer per un'oretta circa, e mi sono quasi sentito un ignorante in materia. Fa spavento

«Lo so. Per questo lavora per la V.B. 3000... almeno ufficiosamente. E non solo

Bryce sollevò un sopracciglio con interesse, a quel commento e, dopo aver ricollegato un paio di cose che Minami e Yu gli avevano detto, sorrise sardonico.

«Non voglio saperlo, davvero, credimi. Tieniti i tuoi sporchi segreti, amico, e dimmi qual è la prossima mossa.»

Kim ridacchiò e Phie scosse il capo, come se l'argomento segretezza fosse stato già oggetto di critiche, in precedenza.

Domenic rise a sua volta e, con una certa ironia, disse: «Oh, andiamo. Sei un investigatore privato. Ti dovrebbero piacere, i segreti.»

«Solo quando li scopro, ma ho idea che i tuoi abbiano stampigliato sopra Top Secret, o mi sbaglio?»

«Non confermo, né smentisco.»

Ciò detto, tornò serio e aggiunse: «Phie e Kim sono pronte?»

«Se Kim è la sua copia, sì, direi proprio di sì.»

«Molto bene. Speravo che un paio di giorni bastassero, a Kim, per entrare in parte. Che ore sono, lì?»

«Le dieci di sera, perché? Non sai contare a ritroso? Uno con un Q.I. di 186 non sa farlo?» ironizzò Bryce, ghignando.

Dom non disse nulla, si limitò a grugnire, così il giovane investigatore borbottò: «Volevi sincronizzare gli orologi, per caso?»

«Magari

«Okay, scusa. Sono le dieci e dodici minuti, sul mio orologio.»

«Vedi? Il mio segna un minuto e tredici secondi di differenza» gli fece subito notare l'altro, portando l'amico a sghignazzare.

«I soliti geni brontoloni. Cavillano anche sui secondi» celiò Bryce, sentendo Domenic smanettare per correggere l'ora.

«A posto. E non cavillo. Devo stare ben attento agli orari, perché il satellite geostazionario con cui ti invierò i dati non sempre copre la zona giapponese.»

«Verissimo. I comuni cellulari possono contare su una banda di appoggio più ampia, visto che sono molteplici, i satelliti a disposizione. Noi ci appoggiamo a uno solo» assentì Bryce, non più desideroso di fare dell'ironia.

Una volta fuori dall'ambasciata, l'unico contatto con 'i buoni', sarebbe stato Dom, perciò dovevano stare ben più che attenti a simili particolari.

«Immagino che, da qui in avanti, non saremo più supportati, vero?» chiese a quel punto l'investigatore, lanciando un’occhiata significativa a Grayson.

Spiacente, l'ambasciatore asserì: «Non ho ricevuto il benestare per questa missione di soccorso. Tutto si sta svolgendo attraverso i canali ufficiali, e non prevedono mosse di tipo strategico. Se verrete scoperti, noi negheremo qualsiasi addebito.»

«Come immaginavo» borbottò Bryce, lanciando poi un'occhiata a Kim. «E la CIA, cosa dice?»

«Dice che non sono qui. Io posso sparire dal Giappone in due ore al massimo. Ufficialmente, io sono solo la giornalista Kim Novach, tutto qui. Nel momento stesso in cui la mia copertura dovesse risultare compromessa, svanirei in un lampo. Per il governo giapponese, noi non ci stiamo occupando del caso.»

Lo disse come un dato di fatto, senza inflessioni nella voce e l'ologramma di Domenic, come pure Bryce, non fecero una piega.

A Brandon, parvero fatti della stessa pasta. Oppure, sapevano qualcosa che loro ignoravano.

«Gli altri investigatori arrivati dagli States?» si informò allora Bryce, passando al punto successivo della sua personale lista mentale. «Spero che tu me li abbia tolti dai piedi, Dom, perché dovrò già guardarmi le spalle da tu sai chi, senza dover pensare anche a loro.»

«Ho sparpagliato tante di quelle molliche di pane, in rete, da attirare anche il detective meno competente. Credimi, non li avrai alle calcagna» gli promise Domenic con tono compiaciuto.

«Sei un asso, amico» ghignò Bryce, lanciandogli un’occhiata grata.

Phie, che aveva ascoltato l'intera conversazione con aria attenta, si allontanò dal fianco di Kim e disse risoluta: «Non voglio aspettare un istante di più. Qual è la prossima mossa?»

«So che siete d'accordo con Minami-chan per incontrarvi tra qualche ora. Procedete come da piano. Io mi farò sentire non appena il satellite sarà nuovamente in zona. Ogni ora e trentadue minuti, ricordatevelo» ricordò loro Dom, tornando serio.

I presenti annuirono e, quando l'immagine di Domenic sparì dal cellulare di Bryce, Brandon si levò dalla poltrona per abbracciare Phie.

«Mi raccomando, bambina, fai attenzione.»

«Lo farò» assentì, stringendosi all'uomo per assorbire il suo calore e il suo affetto.

Era sempre stato come uno zio, per lei, esattamente come Nickolas e Phillip, e separarsi da lui la fece tremare.

Una volta fuori di lì, solo Bryce avrebbe potuto assicurarle un minimo di protezione, oltre alla sua stessa capacità di difendersi.

Ma c’era una bella differenza tra l’esercitarsi su un tatami, e l’aver a che fare con degli assassini.

«Ritroveremo Cam, promesso» sussurrò infine, lasciandolo andare per prendere la mano di Bryce, che si era avvicinato a loro.

Brandon annuì e, scrutato il giovane investigatore con orgoglio, gli batté una mano sul viso, asserendo: «Stai attento anche tu, ragazzo. Sai che vi vogliamo indietro tutti interi, no?»

«Lo so» assentì il giovane, lanciando un ultimo sguardo ai presenti prima di uscire senza un'altra parola.

Dilungarsi nei saluti sarebbe stato assurdo, quanto un'inutile perdita di tempo, e loro non ne avevano molto.

Neppure sapevano con certezza dove dirigersi, una volta prelevata l'auto di Minami.

Figurarsi se potevano perdere minuti preziosi in baci e abbracci.

No, dovevano agire.

Bryce ridiscese quindi le scale – odiava gli ascensori – assieme a Phie che, cinerea in viso, sembrò sul punto di mettersi a piangere.

Per un attimo, temette potesse cedere ma, quando finalmente rimisero piede in cucina, il momento di stordimento parve superato.

Ora, i suoi strani occhi felini erano determinati e privi di lacrime.

Aveva finalmente sfoderato gli artigli.

Le sorrise confortante e, quando la aiutò a scendere lungo il condotto, l'investigatore prese dal cuoco un paio di zainetti con lo stretto indispensabile per il viaggio.

Cibo, cartine, documenti e... beh, lui sperò anche in un pizzico di fortuna.

Ovviamente, non avevano armi a parte le loro mani e la loro astuzia, trovandosi in territorio ostile.

Bryce confidò che la passione di Phie per le arti marziali potesse essere d'aiuto, casomai si fossero trovati nei pasticci.

Di sicuro, lui avrebbe sfoderato il suo asso nella manica a tempo debito.

«Da che parte?» gli chiese Sophie, indirizzando la sua torcia in tutte le direzioni.

«Sinistra per seicento metri, poi prenderemo il cunicolo a destra.»

«Bene.»

La loro ricerca era iniziata.

 
§§§

«... me ne rendo perfettamente conto, signore, e sono più che sicuro che l'intervento dell'agente Novach non metterà nei guai la CIA, ma lei deve anche capire che non lascerò mio fratello laggiù. E voi mi dovete più di un favore, se non sbaglio.»

Il tono di Domenic si fece gelido, nell'esprimere i suoi concetti.

«Non calcare troppo la mano, Van Berger. Se è vero che il tuo contributo è stato fondamentale, sia per l’Agenzia che per la scoperta dei punti deboli del Viewscan, è anche altrettanto vero che manteniamo fuori dalla galera dei potenziali criminali solo perché ce l'hai chiesto. Quid pro quo, mi sembra.»

«Sbaglierò, Dottor Tyler, ma questi fantomatici “criminali”...» e nel dirlo, mimò le virgolette con le dita, «... hanno contribuito attivamente allo sviluppo della rete spionistica della CIA, in questi ultimi sei anni. O ricordo male?»

Tyler rimase in silenzio per un attimo, prima di asserire lapidario: «Cinque giorni, Van Berger. Non uno di più. Se non riuscirete a tirare fuori dal Giappone tuo fratello, farò ritirare tutti gli agenti dalla zona, è chiaro?»

«Se non lo troviamo entro tre giorni, sarà già morto» sentenziò a sua volta Domenic, rabbrividendo al solo pensiero.

Ma non si faceva molte illusioni.

Erano troppe le persone che lo stavano cercando, non solo quelli della Tashida che, per primi, avevano creato questo inferno.

Altri gruppi malavitosi erano sulle sue tracce, ne era certo.

Perché un Van Berger non spariva così, lasciandosi dietro cinque corpi privi di vita, senza avere qualcosa di importante da nascondere.

No, doveva trovarlo ben prima di cinque giorni.

Tyler chiuse la comunicazione senza un saluto, e così pure fece Domenic.

Era sempre stata una convivenza piuttosto dura, quella tra il giovane genio informatico e il suo supervisore all'interno della CIA.

Ufficialmente, era solo un collaboratore esterno e un tecnico informatico freelance che, occasionalmente, aiutava la CIA nell'elaborazione dei dati.

In realtà, era qualcosa di più.

Era un reclutatore, a voler essere fiscali. E la sezione di cui si occupava il Dottor Gregory Tyler, era la più avanzata nel suo settore.

Menti geniali al servizio della rete spionistica più ampia e sviluppata al mondo.

Volgendosi a mezzo quando udì bussare alla porta del suo laboratorio, Dom perse interesse per i suoi torvi pensieri e, nello schioccare le dita, il battente scivolò all'interno della parete.

Hannah fece la sua comparsa e, con un mezzo sorriso, penetrò nel covo del figlio con aria curiosa.

Non ci andava spesso, perché le era sempre spiaciuto vedere il figlio affogato in mezzo a quella marea di macchine.

Ma era chiaro ormai a tutti che, in quel laboratorio, Domenic non aveva solo creato Asclepio, o chattato con gli amici.

Nessun ragazzo comune avrebbe potuto mettere in piedi niente del genere, se non avesse avuto le mani in pasta in qualcosa di grosso. Di molto grosso.

«Ciao, mamma. Sei venuta a controllare che non addestri veramente dei coccodrilli?» ironizzò il giovane, infilando il cellulare nella tasca posteriore dei pantaloni.

Lei sorrise, scuotendo il capo.

«Volevo solo sapere se c'erano novità. Papà è impegnato in una conferenza stampa, ed è non poco sulle spine. Ho lasciato che con lui andassero Phill ed Eric, giusto perché non fosse solo.»

Sospirò, si guardò intorno e aggiunse: «Se io avessi parlato coi giornalisti, li avrei insultati e basta.»

Domenic sorrise e, nell'avvicinarsi a lei, la strinse in un rapido abbraccio, asserendo: «Per questo non hai chiesto a Rena di andare con lui? Avrebbe fatto la stessa cosa, vero?»

«Sei troppo percettivo, mio caro» brontolò la madre, bonaria.

Lui ridacchiò, annuendo, e si appoggiò a una delle scrivanie.

Hannah allora lo osservò pensosa, ripensò al bambino che era stato, ai risultati stupefacenti di cui era stato in grado, alla scoperta delle sue attitudini matematiche.

A tutto ciò che era seguito alla scoperta del suo Q.I. così elevato.

Le migliori scuole, i migliori insegnanti, i corsi preparatori più difficili e impegnativi.

Tutto era servito a dare a Dom le armi migliori, così da sfruttare al meglio il suo potenziale praticamente illimitato.

Mentre Cameron si era vantato, a destra e a manca, di avere un gemello così intelligente, Domenic si era ritrovato a riderne, imbarazzato.

Erano sempre stati così, i suoi figli. Complici.

Due anime affini, pur se diversissime.

A Cam non era mai pesato il suo essere normale e, anzi, aveva sempre ringraziato Domenic per essersi preso la patata bollente tra le mani.

Ma Dom, era stato felice di quel peso?

Nessuno se l'era mai veramente chiesto, perché Domenic era sempre parso soddisfatto dei risultati ottenuti.

Ma era vero, in fondo?

Inclinando appena il capo, l'aria curiosa e dubbiosa assieme, il figlio le domandò: «Mamma, perché sei così accigliata? Giuro che ho mangiato, prima. Non sto facendo la fame.»

«Sei felice, Dom?»

Quella domanda lo spiazzò, perché sapeva bene che Hannah non si stava riferendo a quel momento in particolare, ma alla sua vita in generale.

«Perché ti viene in mente una cosa simile, mamy?»

Lei sorrise appena. La chiamavano entrambi mamy, quando sapevano di aver combinato un guaio.

«Sei sicuro che non ti abbiamo forzato, in questi anni, a sviluppare le tue attitudini?»

Il ragazzo si esibì in un autentico sorriso divertito e, somigliando molto al gemello nel replicare a quella domanda, asserì ironico: «Non mi sembra che mi abbiate legato alla scrivania, o puntato una pistola alla tempia. E se l'avete fatto, siete stati davvero bravi, perché io non me ne sono mai accorto.»

«Sai cosa intendo.»

Lui annuì, tornando serio.

«Vuoi sapere se mi sono sentito strano, a finire il liceo a tredici anni? O se entrare al MIT e finirlo dopo tre anni mi abbia lasciato degli strascichi? O se i due Master in Informatica e Ingegneria Molecolare mi pesano?»

Hannah non disse niente, ma non ve ne fu bisogno. A Domenic bastò scrutare in quegli occhi di colomba, così simili a quelli del gemello.

Rabbrividì per un attimo, domandandosi dove fosse in quel momento, ma l'ansia passò.

Non voleva trasmettere alla madre anche  le sue paure. Sapeva che ne provava già a sufficienza di per sé.

Dom infilò le mani nelle tasche, iniziò a passeggiare per la stanza e, mordendosi un labbro, ammise: «All'inizio, forse. Mi sarebbe piaciuto stare in classe con Cam, invece che seguire i corsi avanzati, uno dopo l'altro, uno più difficile dell'altro.»

La madre fece per parlare, ma lui la bloccò con un sorriso.

«Fu Cameron a dirmi di non mollare. Desiderava che io diventassi sempre più bravo, sempre più in gamba, perché sapeva che mi piaceva, e che il mio desiderio di stare assieme a lui era dettato dalla nostra abitudine a stare sempre fianco a fianco. Non lo avrei comunque perso, in fondo, perché saremmo sempre stati fratelli, anche se in corsi diversi.»

Sorrise malinconico, e proseguì.

«A volte, gli chiesi se avesse bisogno, coi compiti, ma lui mi cacciò via ogni volta, dicendomi di pensare ai miei studi, che lui avrebbe risolto da solo i suoi problemi. E lo fece, in effetti. Sempre ottimi voti, oltre che ottimo atleta.»

Hannah annuì, ricordando quel periodo.

In principio, aveva temuto che, la passione di Cam per gli sport, lo avrebbe portato ad avere difficoltà a scuola, ma così non era stato.

Anzi, aveva sempre avuto una media molto alta, e il plauso degli insegnanti.

Oltre, a quanto pareva, a quello del gemello.

«Amavo andare allo stadio a vedere Cam mentre giocava a football, o quando si allenava per la corsa. E mai, una sola volta, sono stato geloso di lui. E' mio fratello. Non potrei mai esserlo.»

«Neppure per Phie?»

Quella domanda fece scoppiare a ridere Domenic, che scosse una mano per scacciare anche solo l'idea.

«Oddio, no. Mamma, davvero, non potrei mai vedere Phie come la vede Cam! E' la mia sorellina, davvero.»

Hannah allora sospirò di sollievo, e ammise: «Ho sempre avuto il timore segreto che, prima o poi, anche tu avresti potuto vederla come donna, e non solo come sorella.»

«Phie è bellissima, e credimi, mi piace molto. Ma è mia sorella. Punto.»

«E non c'è nessuna che vedi come una donna, nel tuo cuore?»

Domenic ebbe il tempo di veder balenare il viso di una ragazza, nella sua mente, ma lo scacciò altrettanto rapidamente come era giunto.

Non avrebbe mai parlato di lei, neppure alla madre.

Neanche Cam sapeva del suo interesse, e così avrebbe dovuto essere. Specialmente adesso, che era tutto così confuso e assurdo.

«Nessuno che valga la pena di parlare, ma stai tranquilla, mamma. Non sono solo un topo da laboratorio, se è questo che temi» replicò Dom, ammiccando malizioso.

Hannah ridacchiò a quel commento, e celiò: «Oh, beh, caro... immagino che vivere al Campus del MIT per così tanti anni sia formativo, e non solo dal punto di vista culturale.»

«Diciamo che non ti devi preoccupare della mia educazione in tal senso, mamma» replicò con ironia Domenic, ammiccando comicamente.

Risero insieme e Dom, nel tornare ad abbracciare la madre, la strinse forte a sé e, contro la sua spalla, mormorò: «Te ne parlerò, quando e se ne sarò sicuro, ma ora voglio concentrarmi solo su Cam.»

«Lo capisco. E so che farai un ottimo lavoro... indipendentemente da come ci riuscirai.»

Lui la fissò spiacente, nello staccarsi dalla madre, e mormorò: «Spero di poterti parlare anche di questo, un giorno.»

«Quando potrai, caro. Quando potrai.»







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Note: Il tempo di rotazione del satellite, citato da Domenic, è una media statistica del tempo impiegato dalla Stazione Orbitante ISS (dove adesso si trova la nostra astronauta Samantha Cristoforetti) per girare intorno alla Terra. Mediamente, i satelliti si trovano in una fascia più o meno similare a quella della ISS, e il tempo di rotazione varia dagli ottanta minuti ai centocinquanta, a seconda della loro distanza dal pianeta. Per questo, è importante conoscere quanto tempo impiegherà per ritornare a sorvolare il Giappone: il segnale sarà presente solo in quel periodo. 
Direi che ormai si è capito quanto Domenic sia invischiato con i Servizi Segreti e quanto, ancora, i suoi genitori e suo fratello devono scoprire su ciò che ha fatto, e sta facendo.

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Capitolo 8
*** VIII. Escape ***



 
VIII. Escape.
 
 
 
 
Osservando le curve morbide delle colline ammantate di neve, mentre candidi fiocchi continuavano a cadere incessanti, Cam sospirò e tornò alla scrivania, accanto a Yuki.

Dopo aver pranzato, si erano spostati in uno studiolo, dove la ragazza si era connessa a internet, spiegandogli come sarebbe riuscita a eludere il sistema di tracciamento del segnale.

Una cosa basilare, da quel che ricordava lui di informatica, ma non aveva davvero idea se sarebbe bastato a mettere nel sacco la Tashida Groups.

Le mani di Yuki volavano leggere sulla tastiera, simili al volo delle libellule sull’acqua.

Quel galleggiare abile e veloce gli ricordò Domenic e, per un attimo, ebbe un tremito.

Gli faceva male pensare a lui, e dare voce alle paure che sicuramente stava provando in quel momento.

«A che punto sei?» le domandò, piegandosi in avanti per scrutare la pianta 3D del sistema di sicurezza interno della Tashida.

Un dedalo infernale, per i suoi occhi poco avvezzi a simili intrecci.

Probabilmente, Dom ci sarebbe andato a nozze.

«Sto cercando di ritrovare il mio marker, ma non c’è. Eppure, ero sicura che lo avrei trovato qui!» mormorò stizzita la ragazza, continuando a muoversi leggiadra tra quelle distese infinite di dati.

«E’ possibile che l’abbiano trovato… e cancellato?» ipotizzò a quel punto Cam, aggrottando la fronte.

Sistematasi nervosamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio, Yuki rispose lapidaria quanto tetra.

«Se l’hanno trovato, sanno che ti sto aiutando, e ci troveranno nel giro di poco.»

Il suo tono lugubre non piacque per nulla a Cameron.

«Ottimo. Idee su come non farci ammazzare prima che tu estrapoli i dati che ti interessano?»

Lei sollevò il viso a guardarlo con i suoi chiari occhi – in quel momento, del colore delle nuvole in tempesta – e asserì: «Onestamente? Spero che Domenic-kun ci stia cercando.»

Levando un sopracciglio con espressione dubbiosa, Cam le domandò spiegazioni in merito.

«Se, come penso, ti vuole così bene da mettere in gioco tutto, pur di aiutarti, credo che la sua abilità con i computer ci aiuterà a saltare fuori da questo guaio.»

«E come? Per quanto bravo, non può far materializzare un esercito fuori dal computer

Lo disse con una buona dose di frustrazione, perché sapeva benissimo che, se fosse stato anche solo lontanamente possibile, Dom sarebbe stato in grado di farlo.

Yuki gli sorrise comprensiva, continuando la sua caccia apparentemente infruttuosa.

«Non intendevo questo. Ma, senza spiegarti alcune cose su tuo fratello, dubito capiresti, e so già che finirò nei guai, facendolo.»

Cameron la guardò irritato, chiedendosi se lo stesse prendendo in giro.

Come poteva insinuare di conoscere suo fratello meglio di lui?!

La ragazza interruppe il suo lavoro per volgere lo sguardo in direzione di Cam e, nell’afferrargli una mano, la strinse con forza.

«Ci sono cose che non puoi sapere su di lui, Cameron-kun, e non per una tua mancanza.»

«Ma tu puoi saperle?» replicò lui, sprezzante, allontanando la propria mano da quella dell’amica.

Lei sospirò spiacente, riprese il suo lavoro e mormorò: «Tuo fratello lavora per il Governo degli Stati Uniti, Cameron-kun, e lui… beh, lui mi tirò fuori da un bel pasticcio, circa tre anni fa.»

Cameron rise incredulo, ma Yuki non mutò espressione.

«Mi prendi in giro, vero?» ritentò Cam, cominciando a domandarsi quanto poco conoscesse suo fratello.

Gli aveva mentito per tutto questo tempo? E poi, perché?

«Maledizione!» sbottò all’improvviso Yuki, allontanandosi di colpo dalla scrivania per poi alzarsi, nervosa e frustrata.

Fissò lo sguardo negli occhi turbati di Cameron e, vagamente irritata, sbottò: «E’ inutile che mi guardi come se ti avessi fatto il torto più grande del mondo! Tuo fratello non ti ha mentito! Ha solo dovuto omettere delle verità perché non poteva parlare! Pensi che la CIA gliel’avrebbe permesso?!»

«La… CIA?!» balbettò Cameron, sempre più sconcertato.

Passandosi una mano sul viso, l’aria sempre più sbattuta, il giovane replicò: «Perché me lo stai dicendo, allora? Non penso che tu abbia più libertà di manovra rispetto a mezz’ora fa, vero? E poi, che c’entri tu, con loro? Sei giapponese, non americana.»

Yuki sospirò, si lappò le labbra secche e mormorò contrita: «Sei in pericolo a causa della mia famiglia. Il minimo che ti devo, è un po’ di verità. Inoltre, la mia nazionalità c’entra poco con quello che io faccio per la CIA. Con quello che Domenic-kun fa per la CIA.»

Aggrottando la fronte, Cam allora le domandò: «Quanto sai?»

«Domenic-kun mi spiegò che alcuni agenti della CIA lo contattarono al MIT, solo per un incontro informale. All’incirca poco prima di Natale di sei anni fa, quando lui terminò la sua seconda laurea. Sai, l’anno in cui veniste nell’Hokkaido e conosceste Moroazaki-san. Da quello che so, assoldano giovani menti brillanti in questo modo. Morale della favola, tramite i database dell’università, scoprirono l’ottimo rendimento di Domenic e gli proposero, in prima battuta, di diventare un consulente esterno dell’Intelligence.»

«E naturalmente, da bravo eroe della patria quale sa essere, lui ha accettato subito» brontolò Cameron, sbuffando.

Dom, dopotutto, era prevedibile fino allo sfinimento. Il suo senso della giustizia era quasi fastidioso.

Mai avrebbe pensato, però, che sarebbe addirittura arrivato a operare per ottenerla, e in maniera così diretta.

Yuki sorrise appena a quella battuta, ma proseguì.

«Circa un anno dopo la sua entrata in gioco, lo reindirizzarono verso un utilizzo più proficuo delle sue capacità, e venne proposto come reclutatore dallo stesso ideatore del progetto pilota a cui lui stava partecipando.»

«Stop. In che senso?» esalò stupefatto Cam, sgranando gli occhi.

«Perché ti stupisci? Da decenni, le maggiori ditte di informatica, e gli stessi Governi, assoldano hackers, crakers1 e blackhats2 per abbatterne altri, in cambio dell’immunità. Lui, semplicemente, aveva… ha il compito di trovarli e riportarli sulla retta via, se vogliono, collaborando con il più grande piano di sviluppo interforze di cui io abbia mai sentito parlare. Diversamente, li segnala a chi di competenza perché vengano fermati» gli spiegò Yuki, scrollando le spalle.

Cameron fece per parlare, ma non vi riuscì. Era semplicemente allibito.

Dom aveva lavorato nell’ombra per tutto quel tempo, e senza dirgli nulla.

Si era impegnato in un progetto a dir poco mastodontico e, per tutto il tempo, era sempre rimasto il suo fido fratello, sempre pronto ad ascoltare le sue lagnanze.

E lui, cos’aveva mai fatto per Domenic? Cosa?

Crollando a sedere su una poltroncina, Cam si prese il capo tra le mani, disgustato da se stesso, e mormorò contrito: «Ha agito nell’ombra per un sacco di tempo, e io non mi sono mai accorto di nulla. Quando avevo bisogno di lui, andavo semplicemente a rompergli le scatole, senza mai chiedermi se rubavo o meno del tempo prezioso ai suoi progetti. E lui non si è mai lamentato una volta!»

Yuki si inginocchiò accanto all’amico, sfiorò le sue ginocchia con le mani e, sorridendogli, disse: «Hai solo descritto bene Domenic-kun, no? Tuo fratello è sempre stato così. Sempre pronto ad ascoltare gli altri, ma di certo non una persona ciarliera, o propensa a esternare i propri dubbi, o i propri sentimenti.»

Cameron annuì debolmente, affrontando finalmente lo sguardo comprensivo dell’amica.

«Cosa fece per te?»

Lei ridacchiò, si sistemò l’ennesima ciocca ribelle e dai riflessi purpurei, asserendo: «Scoprii in seguito che non ero l’unica a interessarmene, ma cercai di infiltrarmi nel sistema della Watch of The World. Volevo rubare i progetti di un nuovo modello di Viewscan. Volevo trovare il suo punto debole.»

«Ti scoprì?»

Annuì, e disse: «Eccome! Riuscì a seguire la traccia del mio indirizzo IP, nonostante avessi usato un proxy di ultima generazione per far rimbalzare il mio segnale da un capo all’altro del mondo. Non chiedermi come fece. Non me lo disse mai. Alla fine, mi telefonò e, quando scoprì che all’altro capo c’ero io, scoppiò a ridere e mi offrì di visionare quei progetti senza finire in galera

«Che cosa?!» gracchiò Cam, sbalordito.

«Non dovrei dirtelo, visto che sono vincolata dal segreto ma, data la situazione di pericolo…»

Si interruppe un istante, massaggiandosi una guancia con un dito, e alla fine ammise: «C’è in ballo un prototipo di scanner per la duplicazione remota dell’occhio, così da annullare gli effetti del Viewscan.»

«E dato che lui…»

Yuki si limitò ad annuire, risollevandosi.

«Mi offrì di partecipare al progetto, e io accettai. Da allora, collaboro con lui e con tutte le altre persone facenti parte di questo programma.»

«Porco. Mondo.»

«Capisci perché non poté parlartene? Non per mancanza di fiducia, ma per semplice necessità. Non è il caso che si sappia in giro che, proprio la CIA, sta cercando di smantellare pezzo per pezzo la tecnologia del Viewscan.»

Cameron fece per domandarle altro, ma un frenetico bussare alla porta d’ingresso interruppe tutte le sue domande.

Yuki fu lesta ad afferrare la pistola che, come Cam aveva scoperto quasi subito, lei aveva tenuto addosso per tutto il tempo.

Direttasi verso l’ingresso, controllò le telecamere a circuito chiuso e, nel rendersi conto di chi fosse, sistemò la pistola nella fondina da cintura e aprì.

«Konnichi-ua, Makoto-san. Cosa succede?» si affrettò a chiedere Yuki, inchinandosi leggermente all’uomo di mezza età presente all’ingresso.

«Buongiorno a te, Yuki-chan. Abbiamo ricevuto notizie dal Passo, dove si trova il campo di pannelli fotovoltaici. Alcuni tizi hanno chiesto informazioni sulla via più veloce per raggiungere il villaggio e, tra essi, hanno visto un occidentale.»

«Accidenti!» sbottò Yuki, volgendosi a mezzo verso Cam, che aggrottò la fronte. «E’ sicuramente la guardia del corpo di Nobu-chan. Alto e biondo, con un fisico palestrato?»

L’uomo annuì, e Yuki si adombrò ulteriormente in viso. Se Byron era sulle loro tracce, erano nei guai.

«Non andrete molto lontano, con questa neve, se prenderai il trabiccolo con cui siete arrivati qui» la avvertì l’uomo, indicandogli l’auto fuoristrada che si trovava nel cortile. «Prendete quella e andatevene alla svelta. Noi copriremo le vostre tracce.»

«Grazie, Makoto-san. Grazie» mormorò commossa la giovane, abbracciando con calore l’uomo, che ricambiò.

«Saremo sempre fedeli a Oose-san, ricordalo» replicò con affetto l’uomo, mettendole in mano le chiavi dell’auto.

Un attimo dopo, salutò Cameron, che ricambiò con un inchino sentito, e si dileguò sotto la nevicata.

«Tuo nonno? Perché?» domandò a quel punto il giovane, tornando in casa con la ragazza.

Lei si affrettò a fare i bagagli, leggeri e pratici, e disse succintamente: «La casa appartiene a lui e, da sempre, la famiglia Tashida ha aiutato questi piccoli paesini di campagna a non morire. Ha sempre incentivato il mantenimento degli usi e costumi del posto, oltre che il sostentamento delle piccole imprese della zona. Se questo posto esiste ancora, è per merito suo. Per questo, mi hanno aiutata senza chiedere nulla. Ho dovuto improvvisare così alla svelta, che la casa di campagna dei nonni mi è sembrata l’unica soluzione fattibile, ma non pensavo ci avrebbero trovati così alla svelta. Pensavo di aver coperto meglio le nostre tracce.»

Aiutando la ragazza con le borse, Cam raccolse tutto e portò il necessario in auto dopodiché, afferrate le chiavi dalle mani di Yuki, disse: «Dimmi solo dove.»

Lei annuì e, dopo aver sistemato il palmare sull’apposita staffa, replicò: «Tieniti lontano dai punti rossi. Sono i luoghi dove si trovano gli scanner retinici. Per il resto, vai più veloce che puoi senza farci ammazzare e, nel frattempo, prega che Domenic-kun ci trovi.»

«Non penso possa giocare coi satelliti per rintracciarci, ti pare?» ribatté lui, mettendo in moto prima di fare retromarcia a tutta velocità.

Sarebbe stato uno scherzo, per lui, che aveva percorso mezzo Polo Nord con la sua motoslitta.

«Può, invece. Solo, tutto sta a vedere se, con questo tempaccio, i segnali riusciranno a oltrepassare le coltri» brontolò Yuki, sollevando il polso sinistro alla muta domanda comparsa negli occhi di Cam. «Pensi davvero che la CIA ci avrebbe permesso di girare liberi e indisturbati, dopo i guai che abbiamo quasi combinato?»

«Direi di no» brontolò Cameron, immettendosi in strada.

«Bene. Allora, prega che abbia capito che sono con te, e che inizi a cercare il segnale del mio localizzatore GPS.»

Cam scosse il capo e, accelerando, si allontanò dal centro del paese.

 
§§§

Imprecare non sarebbe servito a molto, tranne a migliorare il suo umore per qualche secondo.

Era proprio necessario che, su metà del Giappone, si stesse scaricando una tempesta di neve degna del Giorno del Giudizio?

Domenic imprecò ancora, smise di tentare di trovare il sensore di Yuki e, con ira a stento controllata, telefonò a Bryce, sperando che almeno il cellulare prendesse.

Nulla di fatto. Nessun segnale.

«Maledizione, Cam! Come faccio ad aiutarti, a questo modo?!»

 
§§§

Aggrottando la fronte, lo sguardo accigliato e l’aria di chi non può aspettare un istante di più, Bryce guardò le due ragazze ferme accanto a lui e prese la sua decisione.

«Non possiamo aspettare ancora. Parrebbe strano che due occidentali si trovino fermi, sotto una nevicata del genere, senza fare un bel niente di niente.»

«Hai idea di dove andare?» replicò Minami, stringendosi nel suo ingombrante soprabito color perla.

Ancora una volta, sembrava una caramella.

Bryce si chiese se, almeno un po’, tutto quel camuffarsi la divertisse.

«Da quel che Dom mi ha detto, mentre controllava i database della Tashida Group, è incappato in qualcosa che gli ha fatto presupporre che, dietro alla fuga di Cam, ci sia una vostra vecchia conoscenza. Ti dice niente il nome Sakura

Minami fece tanto d’occhi e, annuendo, si massaggiò pensierosa il polso.

Sapeva eccome chi era.

«Non immaginavo che, dietro il nome di Sakura, ci fosse qualcuno che conoscevi anche tu, Kendall-san

Bryce sogghignò e, con una scrollata di spalle, ammise: «Non sarò un mostro come te e Dom, ma me la cavicchio anch’io. Il punto è un altro, però. Conosco Sakura perché altri non è che Yuki Tashida. Almeno, è quello che mi ha detto Domenic.»

Lo sconcerto di Minami si fece totale, così come quello di Phie, che si coprì la bocca per non emettere suono.

Torvo in viso, Bryce continuò dicendo: «Dom ha detto di aver trovato una sua traccia, all’interno di un file di memoria quasi del tutto cancellato, dove si accennava a quello che poi hanno tentato di fare a Cameron. E se lei sapeva, può essere benissimo colei che lo ha tirato fuori dai guai.»

«E non potrebbe essere il contrario?» replicò preoccupata Minami.

Conosceva da anni la nomea di Sakura, nel mondo degli internauti, e Domenic-san ne aveva parlato sempre più che bene, però non si erano mai conosciute.

Le poche volte che si era recata a Quantico, non l’aveva mai incrociata.

E lei non si fidava mai solamente dell’opinione altrui, per giudicare una persona. Neanche se, a rassicurarla, era Domenic-san.

Con un risolino di scherno, l’investigatore mormorò: «Yuki non tradirebbe mai i Van Berger.»

«Qualcuno dei Tashida, però, l’ha fatto» sottolineò la nipponica, aggrottando la fronte.

«Non lei, credimi. E, stando alle ultime cinquantadue ore, le nostre ipotesi sono più che corrette.»

«Spiegati meglio» brontolò Phie, cominciando a essere un po’ stufa di tutti quei misteri.

Che c’entrava, adesso, Yuki Tashida?

Per quanto le fosse sempre stata simpatica, non capiva cosa potesse c’entrare lei con la fuga di Cam. Cosa le stavano tenendo ancora nascosto?

E perché quella Minami sembrava conoscere più cose di lei? Chi era?

Bryce le diede una pacca sulla spalla, a mo’ di consolazione, e si spiegò meglio.

«Dom mi ha mandato alcune cartine termiche di Tokyo, nelle ore precedenti e immediatamente successive alla sparizione di Cam, e il chip di segnalazione di Yuki la inquadrava in quei settori. In perenne movimento, e proprio nei cieli della capitale. Esattamente come avevamo ipotizzato.»

«Chip? Che diavolo vuoi dire, Bryce? Perché Yuki dovrebbe…»

Phie si bloccò, notò lo sguardo esasperato dell’amico, e si azzittì.

Era evidente che era l’ennesimo segreto che non conosceva, o che non poteva rivelarle.

Minami, per contro, non parve per nulla sorpresa di quel particolare.

«Va bene, non chiederò altro. Cosa dobbiamo fare, a questo punto?» sbottò la ragazza, scuotendo braccia e mani con fare nervoso.

«Sto controllando un paio di dati sulla famiglia Tashida e, finché non riemerge il segnale, dovrò affidarmi solo al mio intuito. Spero basti» le spiegò Bryce, spallucciando. «Stando alle date a cui siamo risaliti con i controlli incrociati di Dom, Yuki ha avuto pochissimo tempo per impostare un piano di fuga, perciò si sarà appoggiata a luoghi, e persone, che le davano certezze sufficienti di riuscita. E…»

Il bip del palmare di Bryce lo fece azzittire e, sorridendo soddisfatto, esclamò: «Bingo! Hanno una casa di famiglia, sulle colline. Non viene usata molto spesso. Era dei nonni paterni, a quanto pare.»

«Pensi siano andati là?» gli domandò Minami.

«E’ plausibile, anche se scontato. Ma, diversamente, non avrebbe trovato appoggi sufficienti per una fuga frettolosa come questa. Lì, la popolazione è fedele ai vecchi Tashida, e non avranno remore ad aiutare Yuki. Il punto è che, come ci siamo arrivati noi, ci sarà arrivato anche qualcun altro.»

Phie annuì torva, afferrò le chiavi dell’auto e disse perentoria: «Guido io. Tu non hai mai guidato in Giappone, vero?»

«No, in effetti.»

«Ci penserò io, allora» decretò lapidaria la giovane, pronta a partire.

Bryce, a quel punto, si volse verso Minami e, sorridendole, le diede un bacetto sulla guancia.

«Grazie per il tuo aiuto. Spero di rivederti.»

Lei gli sorrise e, dopo essersi alzata in punta di piedi, gli stampò un bacio sulle labbra, replicando: «Sayonara, Kendall-san. E state attenti. I vostri nemici non sono sprovvisti di mezzi come voi.»

«Purtroppo, lo sappiamo.»

Sorridendo a Phie, che la salutò con un cenno della mano, Minami li osservò allontanarsi lungo la strada deserta e sporca di neve.

Nel rientrare lentamente, camminando con calma sul marciapiede imbiancato, tornò a tastarsi il polso, dove si trovava il suo chip sottopelle e, furente, sibilò: «Yuki Tashida… ti converrà aver salvato davvero il fratello di Domenic-san, o saranno guai, per te.»

 
§§§

Sperare che lo scotch lo aiutasse, gli era sembrata una buona idea, all’inizio.

Ma, dopo essersene versato una dose generosa, e averne osservato la danza silente attorno ai pezzetti di ghiaccio nel bicchiere, aveva desistito.

Ubriacarsi non era il sistema migliore per ricondurre a casa suo figlio, anche se aspettare paziente che le carte venissero giocate, era sfibrante.

Dal Giappone, nulla stava giungendo di concreto.

Brandon aveva tenuto una conferenza stampa solo un paio d’ore prima, e Phie gli era stata al fianco in ogni momento, dolente e rattrappita dal dolore.

I giornalisti erano stati spietati, nel chiedere notizie sulle possibili motivazioni della scomparsa del giovane rampollo dei Van Berger.

C’era chi aveva addirittura insinuato fosse stato lui stesso a uccidere le proprie guardie del corpo, per poi darsi alla fuga.

Come se Cam avrebbe mai potuto anche solo immaginare di fare una cosa simile.

Sorrise sprezzante, nel pensarci, e diede mentalmente degli idioti a quegli sciocchi uomini, che avevano parlato senza conoscere il figlio.

Già, conoscere.

Se Cameron era sempre stato come un libro aperto, per lui, così non lo era stato Domenic, da sempre più chiuso in se stesso e morigerato nelle parole.

E ora veniva a scoprire che, non solo era più geniale di quanto già non sapessero, ma pareva avere più interconnessioni con il governo di quante non ne avessero loro come V.B. 3000.

L’aveva un po’ sorpreso l’agente della CIA che, di punto in bianco, si era presentato a casa loro per controllare la proprietà, oltre a eventuali difetti nel sistema d’allarme.

Domenic gli aveva stretto la mano come se si conoscessero da tempo e, in silenzio, l’agente aveva fatto il suo lavoro prima di dilungarsi in una telefonata del tutto senza senso.

Almeno per lui.

Il figlio, al contrario, si era solo scusato con loro per l’inconveniente, dopodiché aveva afferrato il telefono dell’agente e, più rigido di un generale in battaglia, aveva discusso per venti minuti buoni.

Il tutto, aveva fruttato l’allontanamento dell’agente e l’arrivo di un’intera squadra a supporto.

Ora, il giardino era presidiato da non meno di venti agenti.

Quando Hannah aveva notato quel dispiegamento di uomini armati, ne aveva subito chiesto conto a Domenic.

Lui si era limitato a dire che se, come pensava, Cameron era solo l’apice di un problema più grande, la loro famiglia doveva essere protetta.

Da cosa, non aveva voluto dirlo.

E ora Nickolas si trovava lì, semidisteso sul divano, a rimuginare dinanzi a un bicchiere pieno di scotch.

I droidi stavano procedendo con i consueti lavori di pulizia della casa, ignari di quanto stava accadendo in quelle ore concitate.

Per un attimo, desiderò essere come loro. Senza pensieri, senza emozioni, privo di qualsiasi tipo di dolore.

Il trillo del videotelefono lo fece irrigidire, facendogli perdere il triste filo di quei pensieri e, in fretta, prese la chiamata proveniente dal Giappone.

Fu con enorme sorpresa che, tramite il trasmettitore di immagini 3D, comparve una giovane dagli abiti bizzarri e la capigliatura cotonata.

Da dove saltava fuori? Da un fumetto?

«Ah, gomennasai, … mi scusi,… Mr Van Berger, vero? Sono un’amica di Domenic-san. Lo trovo in casa, ora?»

La ragazzina, tutta sorrisi e smancerie, espose la sua domanda con voce squillante e allegra, come se stessero parlando di dolci e caramelle.

Per un attimo, Nickolas si chiese se fosse impazzita. O se lui fosse finito nel paese di Alice e del Cappellaio Matto.

Ma, visti gli ultimi eventi…

«E’ in casa. Ora lo chiamo, miss…»

«Minami… sono la sua amica Minami» disse in fretta la giovane, accentuando il suo sorriso.

Non ve ne fu bisogno.

Come se avesse avvertito il bisogno di presentarsi in salotto, Domenic avanzò con passo affrettato verso il videotelefono e, stampatosi in faccia un gran sorriso, esordì dicendo: «Minami-chan, ciao! Qual buon vento?»

Nickolas fissò il figlio senza capire. A meno che… era forse quella, la Minami Nishima di cui aveva parlato con Bryce, poco prima che partisse per il Giappone?

Era mai possibile?

E poi, come poteva apparire così rilassato e tranquillo, con quello che stava succedendo?

«Sono molto arrabbiata con te, sai? Speravo venissi tu, in Giappone. Volevo portarti a vedere il tempio di Oyamazumi, come ti avevo promesso. Con la neve, è bellissimo. Le strade sono pulitissime, adesso, quindi non avremmo avuto problemi a raggiungerlo in auto. Sai, con la mia nuovissima automobile a celle di idrogeno.»

«Me la ricordo. Me ne avevi parlato» assentì Domenic, sedendosi sul divano con aria rilassata e tranquilla.

Ancora, il padre lo squadrò con espressione sconcertata.

Se avessero parlato del tempo, lo avrebbe preso a ceffoni.

«Beh, onestamente, volevo fartela provare, perché è un motore tutto nuovo, con celle di nuova generazione. Secondo me, ti sarebbe piaciuto da matti.»

«Non mi tentare, Minami-chan, perché potrei prendere il primo aereo utile e venire da te. Sai quanto mi manchi.»

«E a me manchi tu. Ricordi quando andammo a vedere la fioritura dei sakura, nel parco di Minato, vicino al tempio di Myofuji?»

Domenic si accigliò leggermente, tamburellando un dito sul mento come se stesse cercando di rammentare quell’evento.

Alla fine, illuminandosi in viso, asserì: «Oh, sì, lo ricordo. Fu una giornata splendida!»

«E tu sai quanto io adori i fiori di ciliegio!» ciangottò la ragazza, battendo le mani.

«Lo so eccome. E credimi, fai bene ad adorarli. Anche a me piacciono, e molto» asserì a quel punto Domenic, sorridendole dolcemente.

Minami allora dischiuse le labbra, come se le fosse apparso un fantasma innanzi, ma si ricompose subito.

Sorrise, annuì e, con un leggero inchino, disse: «Torna a vedere i sakura con me, Domenic-san. Mi farebbe piacere.»

«Se potrò, lo farò. Nel frattempo, pensami assieme a te e ai sakura.»

«Sayonara, Domenic-san

«A presto, Minami-chan

Un attimo dopo, la figura della ragazza svanì e Dom, da ciarliero e allegro che era stato fino a un attimo prima, si adombrò in volto.

Nickolas fu sul punto di chiedergli spiegazioni in merito a quella telefonata assurda, ma il figlio si levò in piedi, fissò il padre e disse: «Bryce sta andando verso la vecchia casa di campagna dei Tashida proprio in questo momento e, a quanto pare, le strade sono sgombre da neve, nonostante il maltempo. Non dovrebbero impiegare molto, a raggiungerli.»

«Cosa?!» esalò Nick, strabuzzando gli occhi.

Tutta la stanchezza di Domenic comparve sul suo giovane volto e, nel passare accanto al padre, gli batté una mano sulla spalla, mormorando: «Giuro che ti spiegherò tutto, papà. Puoi fidarti di me ancora per un po’?»

Nick naturalmente annuì e Dom, crollando contro di lui, si strinse al padre e mormorò sconfortato: «Ce la sto mettendo tutta, per stare un passo avanti agli assassini di Leon e Sebastian, … ma è così difficile!»

L’uomo si limitò a stringere con forza il figlio, battendogli affettuose pacche sulla schiena.

«So che farai sempre e solo del tuo meglio, Dom. Non ne ho mai dubitato, come non ho mai dubitato di te. Tranne negli ultimi tre minuti, in cui ho pensato fossi ammattito. Era una telefonata in codice?»

Domenic si lasciò andare a una risata sgangherata e, nell’allontanarsi dal padre, assentì.

«Al momento, l’unico modo sicuro di comunicare, è tramite il nostro telefono cellulare, che possiamo controllare tramite il satellite della V.B. 3000. Essendo un impianto sperimentale, però, devo aspettare che esso compia un giro attorno alla Terra, che è stimato all’incirca in un’ora e trenta minuti.»

Nick annuì, sapendo perfettamente cosa intendesse.

«Se Minami ha pensato di chiamarmi, è perché non si sentiva sicura di quel che stava succedendo. Soprattutto, circa Yuki, che io sospettavo fosse implicata, ma non ne ho avuto la conferma se non quando ho trovato il suo segno distintivo tra i file della Tashida.»

«Tiro a  indovinare. Il fiore di ciliegio?»

Domenic sorrise.

«Il simbolo giapponese che rappresenta il sakura, per la precisione. Yuki, per gli internauti, è sempre stata Sakura. Il tempio che ha nominato Minami, invece, se ricordi, si trova nei pressi di Misatomachi. Voleva farmi capire dove si stesse dirigendo Bryce.»

Il padre a quel punto sorrise, batté una mano sulla spalla del figlio e asserì: «Non devi spiegarmi tutto adesso, Dom. Sono sicuro che stai facendo un ottimo lavoro. Ci dirai solo a cose fatte, cos’hai combinato, va bene?»

«D’accordo.»

 
 


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 1 Craker: In ambito informatico il termine inglese cracker indica colui che si ingegna per eludere blocchi imposti da qualsiasi software al fine di trarne profitto. Il cracking può essere usato per diversi scopi secondari, una volta guadagnato l'accesso di root nel sistema desiderato o dopo aver rimosso le limitazioni di un qualsiasi programma.
2: blackhat: letteralmente “cappello nero”. E’ così che vengono definiti gli hackers più pericolosi.


Note: Come potete vedere, la rete di hacker che lavorano per la CIA non comprende solo Domenic, ma anche altre persone che, man mano, fanno la loro apparizione all'interno della storia. Inoltre, se vi ricordate, Tayler, della CIA, rivolgendosi a Domenic, ha parlato di 'agenti sul campo', al plurale. Quindi, in zona, non si trova soltanto Kim Novach, impegnata a sostituire Phie all'ambasciata. (tengo a precisare che Yuki, o Minami, non vengono viste come agenti)
Insomma, man mano che si va avanti, la rete si allarga, e ogni personaggio mette in mostra più maschere di quante, in un primo momento, non si sospettasse.
Grazie a questo capitolo, inoltre, si scopre finalmente il significato del titolo della storia.
Se avete dei dubbi, chiedete pure.
Alla prossima e grazie a tutti/e coloro che hanno fin qui letto e/o commentato.

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Capitolo 9
*** IX Search ***


IX. Search.
 
 
 
 
In tutta onestà, Phie  non se la sentì di utilizzare la levitazione magnetica, durante quella cavolo di nevicata mastodontica.

Meglio usare le buone, vecchie, care ruote, con pneumatici termici maledettamente efficaci.

Dovevano percorrere quasi centrotrenta chilometri sotto quella che, a tutti gli effetti, sembrava un’autentica tormenta di neve in stile film apocalittico.

Pur con tutta la tecnologia di questo mondo, quando nevicava, nevicava.

Ci potevi fare ben poco, specialmente su quelle stradine di campagna, sprovviste delle serpentine per il surriscaldamento del piano stradale.

Arrivare a Sagamihara, come da accordi con Minami, non era stato un problema.

Aveva comportato solo un esagerato spreco di energie, visto che Bryce e Sophie si erano dovuti sobbarcare una trentina di chilometri a piedi.

Phie era arrivata praticamente stremata, ma non aveva aperto bocca un solo istante, per lamentarsi.

Anche in quel momento, gli occhi puntati sulla strada e sui fiocchi di neve, che cadevano copiosi dal cielo plumbeo, sembrava instancabile.

La ragazza aveva lasciato che Bryce si occupasse dell’aspetto tecnico della missione, ma aveva sottolineato quanto fosse pronta a entrare in azione.

Non voleva essere solo una pedina nelle mani del Caso, una spettatrice silente del destino.

Sbandando leggermente nel risalire un breve passo collinare, Phie sbadigliò sonoramente e disse: «In questo momento mi berrei un caffè… no, anzi, una caraffa di caffè. Nello zaino che ci hanno fornito, c’è qualcosa del genere?»

Curiosando con una mano mentre, con l’altra, inseriva freneticamente gli ultimi dati geostazionari inviatigli da Domenic, Bryce ridacchiò nel ribattere: «Compresse di caffè, in effetti. In quantità industriale. Ti sono bastate poche ore, per farti conoscere dalla cucina dell’ambasciata?»

«Ah-ah» ghignò sarcastica la ragazza, allungando una mano verso il giovane investigatore perché gliene desse un paio, da tenere sotto la lingua.

Lui gliele diede tre, dopo averne messe in bocca un paio a sua volta.

Aggrottando la fronte pochi attimi dopo, mormorò: «Al prossimo svincolo, svolta a sinistra. Dobbiamo spostarci a sud. Hanno imboccato una serie di piccole stradine di campagna, e sono diretti a Miyazawa.»

Phie si limitò ad annuire ma, quando si rese conto che il messaggio appena letto da Bryce era cifrato, gracchiò: «Come cavolo hai fatto a leggere tutte queste cose, da quell’ammasso di numeri e lettere, scusa?»

Il giovane ridacchiò e, nello scollegarsi, le rispose con tono quieto, come se stessero parlando dell’ultima partita di football vista in TV.

«Ho semplicemente imparato a farlo, Phie. Me l’hanno insegnato all’università, tutto qui.»

«Non mi sembra che a Yale insegnino crittografia» brontolò la ragazza, guidando con tutta l’attenzione possibile.

Sarebbe bastato un attimo, per finire fuori strada, e quello sarebbe stato davvero il colmo.

«Sì, se fai parte di una confraternita particolare come quella in cui ero io» ridacchiò Bryce, facendo spallucce.

«Non ho parole! Già non mi bastava Dom, con i suoi segreti governativi, che mai mi sarei immaginata esistessero. Ora ti ci metti pure tu!»

Phie gli lanciò una rapida, significativa occhiata, e Bryce scrollò semplicemente le spalle.

Che poteva dire? Gli era venuto spontaneo come, forse, era venuto spontaneo a Domenic, immischiarsi negli affari dell’Intelligence.

Tornando serio, il giovane asserì torvo: «Viviamo in un mondo troppo interessato alla privacy e ai segreti altrui, perché non nascano come funghi società segrete, una crittografia sempre più complessa, e uomini deputati a scoprire i segreti celati dietro questi codici.»

Phie si limitò ad annuire, comprendendo solo in parte ciò che l’amico le stava spiegando.

Al momento, lei sapeva solamente che Dom non le sembrava più lo stesso, e che tutto il mondo che aveva fin lì conosciuto, era maledettamente meno sicuro del previsto.

 
§§§

Nascondere la jeep nel bel mezzo di un boschetto, non fu difficile.

Più complesso, fu uscirne.

Le fronde, più robuste di quanto Cam non avesse in un primo momento immaginato, si incunearono contro le portiere, rendendo un inferno la discesa dal mezzo.

Alla fine, comunque, riuscirono a trascinarsi fuori da quell’intricato groviglio di piante e neve.

Dopo essersi arrampicati su uno scivoloso muro di cinta, entrarono nel cortile della scuola elementare di Miyazawa, ben decisi a trovare un riparo per la notte.

Lì, forzarono la porta della palestra e, dopo essersi tolti le scarpe piene di fango e nevischio, si  rifugiarono nel vicino locale caldaie.

Grazie alla guida spericolata di Cam, erano riusciti a liberarsi degli inseguitori imprevisti con sorprendente facilità.

Per complicare loro le cose, inoltre, si era intrufolato in una serie di vecchie stradine di campagna quasi inutilizzate e ricoperte di neve fresca.

Avevano rischiato non meno di cinque volte di cappottarsi, ma il pericolo era valso allo scopo.

Il vento, inoltre, aveva cancellato le loro tracce, mordendo il suolo nevoso appena schiacciato dagli pneumatici.

Ora, bagnati e infreddoliti, si tolsero gli abiti per sistemarli sui tubi dell’acqua calda e, infagottati in pesanti panni – trovati nel locale infermeria – si sedettero su una serie di materassi blu.

In quel momento, all’esterno, la tormenta non accennava a calmarsi.

Se fosse perdurata con quel ritmo, il giorno seguente sarebbe stato impossibile liberare l’auto dalle fronde.

A ogni modo, non potevano fare nulla, in quel momento.

«Tutto bene? Ho visto che hai sbattuto un ginocchio, durante una delle mie manovre spericolate» le domandò Cam, sorridendole a mezzo.

Yuki appariva scarmigliata e pericolosamente pallida, ma sembrava ancora in grado di uccidere una persona a mani nude.
I suoi occhi erano lucidi e letali.

Cameron era sicuro che non avrebbe esitato un attimo, se i loro inseguitori si fossero presentati lì all’improvviso.

«Un livido, in effetti, ma niente di preoccupante. Dove hai imparato a guidare così?»

Ridacchiando, Cam scrollò le spalle e disse: «Mio cugino Aaron è un asso del volante, nel tempo libero, anche se ufficialmente è un ingegnere aerospaziale. E’ stato lui che mi ha insegnato a driftare. Naturalmente, mentre sua moglie Sylvia non guardava.»

Yuki sorrise maggiormente nel notare il ghigno dell’amico.

«Una pratica ormai in disuso, visto che quasi tutte le auto sono dotate di levitazione magnetica e non hanno più le ruote. Non ti sembra uno spreco utilizzare gli pneumatici, quando non ce n’è assoluto bisogno?»

«Se non fossi stato capace di guidare alla vecchia maniera, col cavolo che li avremmo seminati tra le campagne, dove la levitazione magnetica non c’è» ironizzò Cam, ammiccando.

«In effetti, è vero» ammise la ragazza, rattrappendosi nella sua coperta.

«Ehi, Yuki-necchan… cosa succede?»

Lei si morse il labbro inferiore, sospirò e ammise: «Continuo a non accettare il fatto che tutto questo … disagio sia causato dalla mia famiglia, che io e te siamo in pericolo per causa loro. E tutto per denaro!»

«Motivazioni simili hanno mosso il mondo fin dalla notte dei tempi, Yuki-necchan» le sorrise per contro il giovane, pacato. «Così come sono sempre esistiti i traditori. Il fatto che io o te non lo accettiamo, non lo rende meno reale.»

«Cameron-kun…» mormorò Yuki, fissandolo spiacente.

Il giovane le sorrise, scrutò curioso la piccola cicatrice sul polso dell’amica – di cui ora conosceva l’origine – e le domandò: «Puoi dirmi qualcos’altro, su quello che sta combinando mio fratello?»

«Alcune cose sono catalogate top secret, e non le conosco neppure io ma, come lui, io faccio parte di una sorta di gruppo esterno alla CIA. Puoi vederci come dei consulenti. Non siamo agenti in senso stretto. Ci limitiamo, per così dire, ad agire nella rete per risalire alla radice dei problemi che, di volta in volta, ci vengono posti innanzi. So però che, almeno in tre occasioni, Domenic-kun è uscito in missione in prima persona. Non so per andare dove, comunque.»

Cameron annuì, e Yuki proseguì nella spiegazione.

«Ci forniscono un addestramento di base per i casi di estrema necessità, ma non abbiamo nessuna arma in dotazione. Le nostre armi, sono i computer. Spesso e volentieri, entriamo in rotta di collisione con i nostri supervisori – loro, sì che sono veri agenti – perché il nostro modo di vedere le cose è un po’ differente, ma Domenic-kun fa sempre da paciere tra noi e loro.»

«Questo gli è sempre venuto bene» ridacchiò Cameron, cercando di immaginarsi il fratello, invischiato con gli affari del Governo.

La cosa era di per sé assurda eppure, a quanto pareva, maledettamente reale.

Yuki sorrise a quel commento e, nel rigirarsi le dita dalle unghie cortissime, mormorò: «Ricordo una volta in cui, per poco, non venni alle mani con uno dei supervisori. Ero stata affiliata da poco meno di un mese. Domenic-kun si mise in mezzo tra me e il supervisore, spinse via me e, senza neppure dare il minimo sentore di quello che voleva fare, scaricò un pugno in faccia all’agente.»

Cam strabuzzò gli occhi, confuso.

Suo… fratello che levava le mani contro qualcuno? Quella che era una novità.

«Doveva averlo fatto proprio arrabbiare. Di solito, Dom non è così diretto. Ama parlare, non menar le mani.»

Yuki non rispose, si limitò a sorridere imbarazzata e Cameron, dubbioso, si chiese cosa gli stesse nascondendo.
«Si beccò un richiamo formale, comunque, ma io mi liberai di quel supervisore e, da quel momento, ho sempre lavorato stabilmente con lo stesso supervisore per cui lavora Domenic-kun

Passandosi una mano tra i capelli umidi, chiaramente sorpreso da quella marea di novità, Cameron esalò: «Dio! Non mi sembra neppure di stare parlando della stessa persona.»

«Oh, credimi, Domenic-kun è sempre la stessa persona che conosci tu. Ha solo qualche angolo buio in più, oltre a qualche lato più luminoso degli altri.»

Lo disse sorridendo, e batté una mano sul braccio dell’amico per rafforzare il suo dire.

«Non poteva parlartene, per gli ovvi motivi che tu adesso sai ma ora, il suo impegno per conto di un’organizzazione federale come la CIA, non potrà che esserci d’aiuto.»

«Vorrei solo sapere se, il fatto di non dirmi nulla, lo abbia fatto sentire solo» precisò Cameron, preoccupato. «Dom è sempre stato un ragazzo chiuso… ecco, voglio solo sperare che abbia trovato qualcuno, all’interno del vostro ‘gruppo’, con cui abbia potuto parlare.»

«Oh, Cameron-kun…»

«Non puoi pretendere che io non mi preoccupi per lui. E’ mio fratello» le sorrise Cam, come se rispondere fosse inutile.

«Vorrei solo che, tra me e miei fratelli, vi fosse la stessa unione.»

 
§§§

«Com’è possibile che li abbiate persi?!» sbottò Nobu, facendo tanto d’occhi.

«Mi dispiace, Nobu-san, ma hanno imboccato delle stradine di campagna e, con questa bufera, ci è stato impossibile rintracciarli. Non appena calerà il vento, e il segnale satellitare sarà ripristinato, riprenderemo a pattugliare la zona.»

«E loro saranno chissà dove. Forse, già in un’ambasciata americana, lontano dal nostro lungo braccio!» sbottò Nobu.

Non sopportava che, a fallire, fosse proprio l’uomo che amava. Era intollerabile.

Byron reclinò il capo, sistemò meglio il cappuccio sui capelli corti e preferì non pensare allo sguardo accigliato dell’amante.

«Avranno sicuramente bisogno di un posto in cui fermarsi per la notte, e l’unico paese nelle vicinanze è Miyazawa. Lo scandaglieremo palmo a palmo per tutta la notte, finché non li avremo trovati, o finché non tornerà il segnale a dirci dove si trovano. Non penso proprio che si siano spinti ulteriormente a sud, perché lì ci sono solo campagna aperta e aree contaminate dalle radiazioni. Con il freddo che scenderà tra poche ore, morirebbero assiderati, se non si fermassero. No, sono a Miyazawa. Sicuramente.»

Nobu sospirò, annuì e infine disse: «Tienimi aggiornato. E sta attento. Yuki-chan è riuscita a uccidere tre dei nostri, e devo ancora capire come. Non mi fido di lei… come non mi fido del tizio che ci ha detto come rintracciarla. Ma, al momento, è basilare riportarli entrambi qui. Non mi interessa come.»

A quel punto, Byron ghignò.

«Non mi spaventa una piccola ragazzina capricciosa.»

«Accontentami. Stai attento.»

«Lo farò» assentì allora l’inglese, chiudendo la comunicazione prima di sbraitare i suoi ordini in un giapponese secco e deciso.

Uno dopo l’altro, gli uomini di Nobu risalirono in auto, ben decisi a battere ogni centimetro del villaggio collinare, che distava una trentina di chilometri da dove si trovavano loro.

Dopo aver infilato il cellulare nella tasca della giacca, Nobu uscì dall’ufficio per raggiungere quello del padre, dove si trovavano anche i suoi fratelli.

La scomparsa di Yuki era ormai balzata anche agli occhi dei suoi fratelli minori, Kaneda e Shunsuke, che stavano trepidando in attesa di notizie.

Se solo avessero saputo…

Quei due sciocchi non avevano la ben che minima idea di quel che stava succedendo, e lui si sarebbe guardato bene dal dire loro qualcosa.

Anche a costo di azzittire suo padre che, a giudicare dal suo sguardo combattuto e preoccupato, pareva sul punto di crollare.
Non gliel’avrebbe permesso.

Asclepio sarebbe finito nelle loro mani e, dopo aver avuto in mano quella potenziale bomba a orologeria, avrebbero pensato a tutto il resto.

 
§§§

Domenic si svegliò di soprassalto dopo un leggero sonnellino e, nell’osservare vagamente confuso la sua camera da letto, si chiese come vi fosse finito.

Ricordava di essere rimasto quasi tutto il tempo nel suo laboratorio e…

Il volto color cioccolato di Phillip si fece strada nel suo campo visivo e Dom, sbadigliando, mormorò: «Ehi, zio… sei stato tu a portarmi qui?»

«Hannah era preoccupata, e Nick era impegnato in ditta con alcuni clienti, così…» scrollò le spalle l’uomo, sorridendo a mezzo. «Hai dormito almeno un po’?»

«Credo di sì. Non ricordo di esserci arrivato, in camera» ironizzò Domenic, levandosi lentamente dal letto.

Era ancora stanco, ma la mente era sicuramente più fresca, limpida.

«Eric, dov’è?»

«Ho pensato di mandarlo a casa con Kyle, Sarah e Keath. Stare con suo cugino, gli farà bene» scrollò le spalle Phill, avvicinandosi al nipote per sedersi al suo fianco, sul letto.

Il materasso si mosse leggero, ridimensionando la superficie malleabile al nuovo peso aggiuntosi.

Le luci, soffuse come nel laboratorio, erano color crema, calde, tranquille, rilassanti.

«Non sarebbe il caso che tu delegassi un po’ di quel che fai ai tuoi… colleghi

Dom ghignò, si levò in piedi per stiracchiare il corpo lungo e tonico – Cam non era il solo ad amare gli sport – e, nell’osservare lo zio da sopra la spalla, replicò caustico: «Ufficialmente, non c’è un solo agente CIA, in Giappone, come non ci sono io a indagare, Bryce a ricevere le mie direttive, Yuki a segnalare la sua posizione e... beh, insomma, hai capito.»

«Interessi politici?» ipotizzò Phillip, sospirando.

Domenic annuì, ora sospirando stancamente.

Nell’osservare una fotografia appesa alla parete, dove lui e Cam avevano cinque anni e si trovavano ad Aspen, asserì: «Non hanno avuto materialmente il tempo di chiedere i permessi necessari da presentare ai giapponesi, così il mio supervisore, su mandato del “grande capo”…» nel dirlo, mimò le virgolette. «… ci ha dato il permesso di muoverci nell’ombra, di sfruttare Bryce e le sue abilità e Kim per investigare. Erano le persone più adatte.»

«Perché? Puoi dirmelo?»

«Non posso» scosse il capo Dom, spiacente. «Non dovrei neppure parlartene, a dire la verità, ma ora non ho materialmente la forza di mantenere così tanti segreti.»

«Non importa» replicò Phillip, raggiungendolo per dargli una pacca sulla spalla. «La mamma ti aspetta in cucina. Dal profumo, penso abbia preparato una crostata di mirtilli.»

«Sa come stanarmi» ridacchiò Domenic, avvolgendo la vita dello zio per appoggiarsi a lui, nell’uscire dalla sua stanza.

«Hannah è sempre stata un asso, nel capire le persone.»

«Già. Mamma è unica.»








Note: Viene da chiedersi chi possa aver fornito a Nobu e Byron i dati del segnalatore di Yuki, visto che solo quelli della CIA ne conoscono i codici segreti. Sarà lo stesso che ha spifferato i segreti su Asclepio, spingendo Nobu ad agire, o c'è qualcun altro, che sta tradendo i Van Berger? Le scommesse sono aperte. :)


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Capitolo 10
*** X. Approaching ***


Note: Mi scuso con tutti/e per il ritardo nel postare questo capitolo, ma il modem aveva deciso di abbandonarmi, così ho dovuto attendere il sostituto.
Ora tornerò a postare con regolarità a fine settimana, perciò, buona lettura.






X. Approaching.
 
 
 
 
 
«Stiamo facendo di tutto per trovare la falla nel sistema, Nickolas-san, posso giurartelo su quanto ho di più caro...» mormorò affranto Noboru, passandosi una mano tra i capelli brizzolati. «... e, nel frattempo, speriamo che ritrovino alla svelta Cameron-chan. Non posso neppure immaginare quanto tu sia preoccupato.»

«Sono sicuro che riuscirete a capire cos'è successo» riuscì a dire Nick, lo sguardo puntato oltre la figura tridimensionale di Tashida.

I suoi occhi erano solo per il figlio, che stava ascoltando silenzioso la video telefonata, gli occhi oceanici colmi di un odio che mai, in quegli anni, gli aveva visto scorrere dentro.

Ma di che stupirsi? L'amato fratello era rimasto invischiato in un gioco più grande di loro, e ora la sua salvezza era nelle mani di pochi ragazzi.

Non certo in quelle della polizia, collusa con i Tashida o con chissà chi altro.

«Immagino che anche Hannah-san e Domenic-chan siano in ansia. Rassicurali. Stiamo facendo tutto il possibile per trovare il bandolo della matassa.»

«Lo farò. Grazie, Noboru-san» mormorò Nickolas, quasi fracassandosi i denti per la tensione nervosa.

Ancora un po', e lo avrebbe ingiuriato a male parole.

Come poteva guardarlo con occhi così affranti, dopo quello che aveva fatto?!

La video telefonata si chiuse e Nick, imprecando vistosamente, si passò una mano tra i capelli ed esclamò, rivolto al figlio: «Sei assolutamente sicuro di quello che mi hai detto?»

Domenic annuì, torvo in viso non meno di Hannah, in piedi accanto a lui.

Beau e Rena, seduti sul divano, fissarono vicendevolmente i tre amici e quest'ultima, lapidaria, ringhiò: «Ha avuto una faccia tosta senza limiti, quell'uomo.»

«Oh, in realtà gli spiace davvero» replicò sprezzante Domenic, ghignando gelido. «Ci tiene sul serio a Cam, in un certo qual modo. Il vero mandante è Nobu. Di questo, sono assolutamente certo.»

«Ma non puoi fornire le prove...» sospirò Nickolas, abbattuto.

«Il problema di questi programmi ombra è che possono essere letti sul PC di origine – dopo averli scovati, ovviamente – ma, se si prova a scaricarli, vengono automaticamente criptati. Ho inserito un programma di decrittazione, e sta lavorando al massimo delle sue potenzialità, ma ci vorrà tempo.»

Il tono di Domenic fu funereo.

Hannah gli batté una mano sulla spalla, consolatoria, e lui le sorrise un poco. Il sorriso, comunque, non raggiunse mai gli occhi.

«E intanto Cam è chissà dove, e la sua unica difesa è Yuki.»

Dom annuì, sperando ardentemente che a nessuno dei due succedesse nulla. Non lo avrebbe mai sopportato.

«Bryce li troverà e li condurrà alla base americana di Zama, a Tokyo. I piani, per lo meno, sono questi» mormorò il giovane, lanciando un'occhiata a uno degli agenti CIA presenti in casa.

Sapeva di non poter essere più specifico, ma almeno quello poteva dirlo.

Meno persone avessero saputo cosa c'era realmente in ballo, meglio sarebbe stato per tutti.

Bastava anche un minimo accenno alla persona sbagliata, e sarebbe successo un dramma.

L'agente CIA, tastatosi un istante il lobo dell'orecchio, dove portava un auricolare quasi invisibile, annuì e disse: «Tyler vuole un aggiornamento della situazione, e la registrazione della chiamata.»

Domenic non riuscì a trattenere l'irritazione e, dopo aver lanciato un'occhiata al soffitto, esasperato, raggiunse il video telefono, armeggiò al suo interno per un attimo e sbottò: «Dovrebbe chiedere il pre-pensionamento, ecco cosa! Non può aspettare che sia io a chiamarlo? Non ho mai mancato di farlo!»

L'agente si limitò a guardarlo senza espressione e ripeté: «Aggiornamento e registrazione, Domenic.»

«Mi sembra di essere tornato al training camp» brontolò il giovane, afferrando la scheda di memoria del telefono, quasi desideroso di romperla. «Mi tratta come se fossi un bamboccio.»

«E' preoccupato che tu perda di vista la missione, visto che è implicato tuo fratello» replicò l'agente, atono. «Non si può certo dire che voi cervelloni abbiate il nostro stesso addestramento, per simili occasioni.»

Domenic non gli diede il tempo di dire altro.

Fu da lui in un breve battito di ciglio e, prima ancora che Beau o Nickolas potessero fermarlo, scaricò un destro all'agente, che venne colpito in pieno volto.

Subito, altri due agenti in nero comparvero nella stanza, afferrandolo per le braccia e, mentre gli animi si scaldavano, il più anziano dei due esclamò: «Diamoci tutti una maledetta calmata, va bene?!»

L'agente colpito ringhiò un insulto, trattenendosi a stento dal rispondere al colpo e Domenic, fissandolo con occhi lividi, sibilò contro di lui, pronto a colpire di nuovo.

«Maledizione, ragazzo, stai buono! Non ho intenzione di tramortirti proprio davanti ai tuoi genitori!» sbottò l'agente anziano.

Hannah fece per replicare alla minaccia, già pronta a difendere il figlio, mentre Nick e Beau aggrottarono parimenti la fronte.

Rena, invece, si alzò lesta dal divano per afferrare il marito alla vita, preferendo evitare guai. Sapeva quanto potesse diventare attaccabrighe, se l'occasione lo richiedeva.

Il terzo agente, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, dichiarò calmo: «Rogers, esci di qui immediatamente. E vedi di iscriverti al prossimo corso per deficienti matricolati in attesa di ravvedimento.»

L'agente colpito borbottò un altro insulto ma annuì, uscendo a grandi passi dalla stanza.

Subito, gli altri due lasciarono andare Domenic che, rimessosi diritto con gesti nervosi, fissò malamente coloro i quali gli avevano impedito di completare la sua opera.

«Cristo, Dom, e dire che dovresti conoscere Rogers! Quante volte avete cooperato? Quattro? Cinque? Lo sai che non ha filtri tra cervello e bocca!» lo redarguì bonariamente il più giovane tra gli agenti, dandogli un colpetto alla spalla.

Domenic non poté trattenere un sorrisino, ma non si scusò per il pugno all'agente. «Lo meritava tutto, quel pugno. E' da quando ha messo piede in casa, che fa lo stronzo. E non può permettersi di trattarmi come un lattante. L’ho tirato fuori io, da Mogadiscio, se non lo ricorda» ringhiò Dom, facendo rabbrividire l’agente per quell’accenno a una missione segreta e, di certo, non ufficiale.

«Lo sostituirò con Perkins. Andate d'accordo, no? Non voglio un altro occhio nero in giro» gli propose allora l'agente.

Dom osservò l'agente anziano, ghignante, e annuì. Di lui, si era sempre fidato.

«Gran destro, ragazzo, ma non pensare di fare fesso anche me a quel modo. Io sono un tantino più scaltro di così» gli confidò Perkins, intrecciando le braccia nerborute sul petto.

«Non mi permetterei mai, credimi.»

«Bene. E ora, per favore, chiama quello scocciatore di Tyler, prima che gli venga un infarto. Non oso pensare a che supervisore potrebbero appiopparti, se quello ci lascia le penne per un attacco di nervosismo all'ennesima potenza.»

Con una pacca sulla spalla e un 'vai', l'agente – che Dom chiamò Edwards – lo osservò allontanarsi a grandi passi.

Quando, però, volse lo sguardo verso i presenti, tornò serio e disse: «Scusate l'incidente. Rogers non metterà più piede in casa. Purtroppo, l'Agenzia offre questo, al momento.»

Ma a Hannah non interessava affatto questo. Le interessava ben altro.

Rivolgendosi all'agente Edwards, gli domandò: «Con 'lavoro', che intendeva, prima?»

L'uomo le sorrise bonario e si limitò a dire: «Si scordi i film di spionaggio, Mrs Van Berger. Suo figlio è il classico topo da laboratorio e, solo occasionalmente, esce per vere escursioni in loco.»

«E quando esce, è scortato?» sbottò la donna, non vedendoci chiaro.

Grattandosi una guancia, l'agente sbuffò contrariato, ma parlò.

«Senta, parte di quello che fa suo figlio è protetto da segreto d’ufficio, quindi non le posso dire nulla. Sappia soltanto che le sue capacità ci servono per sventare potenziali minacce alla Nazione e che, grazie a lui, un bel po' di giovani con lo stesso genio hanno evitato la galera. Le può bastare?»

«Per niente. Specialmente se tizi come quel... quel Rogers sono deputati alla sua sicurezza» brontolò Hannah, facendo sorridere i due agenti.

«Rogers è un'ottima spalla, e sa … beh, insomma, sa fare bene il suo lavoro. Solo, è meglio se non apre bocca.»

«Ho notato» sibilò la donna, con sguardo adamantino.

Perkins allora ridacchiò e, omaggiando la donna di un sorriso sincero, chiosò: «Ora so da chi, Dom, ha preso il caratterino. Ha un bravo figliolo, Mrs Van Berger, e ha aiutato il suo Paese e l'Agenzia in mille modi diversi. Personalmente, mi spiace che siate finiti invischiati in questo problema, ma nessuno vi porgerà ufficialmente delle scuse. Non funziona così, purtroppo.»

«Mi basta che mio figlio torni a casa. Delle scuse non me ne faccio nulla.»

Ciò detto, abbandonò a sua volta la stanza, e Rena le corse dietro per essere certa che stesse bene.

§§§

Ringraziando i Santi in Paradiso, il Niņo, la Niņa, la Corrente del Golfo, il Vulcano Kilauea e tutto quello che gli venne in mente, Bryce osservò il cielo schiarirsi con un grande sorriso.

Phie non fu esattamente dello stesso avviso.

La temperatura sarebbe crollata, visto che era mezzanotte passata, e la neve sulla strada sarebbe diventata ancor più pericolosa.

Ma non potevano fermarsi, non ora che era possibile seguire il segnale del localizzatore di Yuki.

A quanto pareva, non si erano più spostati da Miyazawa, e la ragazza sperò non significasse qualcosa di brutto.

Non avrebbe accettato di non aver fatto abbastanza per Cameron.

«Phie...»

«Dimmi, Bryce.»

«Non sappiamo esattamente cosa troveremo, una volta giunti a Miyazawa, perciò vorrei che rimanessi in auto e lasciassi che, prima di tutto, controllassi io il perimetro.»

Il tono dell'amico non era il solito. Non era il classico Bryce Kendall, tutto sorrisi e battute di spirito.

Ora era l'investigatore Kendall, serio e diligente. E maledettamente rigido nei suoi propositi.

Non avrebbe accettato un no, come risposta, Phie lo capì non appena lanciò un'occhiata nella sua direzione.

«Cosa vuoi che faccia, esattamente?» riuscì a dire, pur sentendosi male all'idea di non partecipare direttamente all'azione. Non era una bambina, accidenti!

«Mi muoverò per primo, controllando ciò che ci circonda e, solo se necessario, ti chiamerò. Non muoverti per nessun motivo, se non ti chiamo. Ci siamo capiti?»

«Sai cosa mi stai chiedendo, vero?» mormorò Phie, la voce roca e dolente.

Lui accennò un sorriso, ma scosse il capo. «Non mentirò, Phie. Non lo so davvero. E' evidente che ami Cam, al punto da rischiare la tua vita per lui. Ed è bellissimo, ma no, non so cosa vuol dire.»

«Sei qui. E' la stessa cosa.»

«Cam è mio amico. Ma non ho nessuna intenzione di baciarlo, quando lo troveremo» ridacchiò Bryce.

Phie gli fu grata. Era evidente quanto l'amico cercasse di alleggerire la tensione di quel momento, visto soprattutto quanto le stava chiedendo di non fare.

«Farò quello che mi dici. Promesso. Mi muoverò solo se mi chiamerai. O se passerà troppo tempo dalla tua entrata in scena, va bene?»

«Mezz'ora. Se non senti nulla dopo trenta minuti, vieni pure a cercarmi.»

Armeggiò col cellulare di Phie e, dopo averlo risistemato in bell'ordine, aggiunse: «Seguimi con il GPS integrato. Ora il segnale è attivo.»

«Va bene» assentì la ragazza, tornando a guardare la strada e il navigatore satellitare. Miyazawa era a due ore da lì.

Sperò solo che non fosse troppo tardi.

§§§

Gli abiti asciutti e caldi diedero un po' di respiro ai due giovani che, sdraiati accanto alla caldaia e coperti dai ruvidi panni, stavano tentando di assopirsi.

La mezzanotte doveva essere passata da tempo e, all'esterno, si intravedeva la luce della luna, segno che la nevicata era terminata.

«Dormi?»

«No. Proprio non riesco» brontolò Yuki, voltandosi per poter guardare Cam in viso.

Appariva stanco e smunto come, con tutta probabilità, doveva apparire lei.

Sembrava essere passata un'eternità da quel volo sopra Tokyo quando, in realtà, erano passati solo due giorni.

Quello, era il loro terzo giorno di fuga, a voler essere precisi.

Non aveva idea di quello che stava succedendo all'esterno della loro personale bolla, né se li stavano cercando. Se i rinforzi erano vicini o lontani.

O se, semplicemente, non esistevano rinforzi.

«Pensi a Dom?»

«Come?» esalò Yuki, chiedendosi il perché di quella domanda.

Cam sorrise a mezzo.

«Mi hai parlato del tuo localizzatore, e di come questo permetterà a Domenic di capire dove sei. Pensi che abbia già capito che sei con me?»

«Ho sempre ammirato le sue capacità deduttive, perciò sì. Spero proprio che abbia capito, sennò non avremo molte possibilità di scamparla.»

«Perché ti sei lanciata in mio soccorso, allora? Se non eri sicura del risultato, intendo.»

«Non potevo, in tutta onestà, lasciare che ti uccidessero. Sei mio amico, Cameron-kun. Inoltre, ciò che si proponevano di fare Nobu-chan e mio padre, mi ha così sconvolta che dovevo agire in qualche modo. Forse, avrei dovuto semplicemente affidarmi al mio supervisore, ma ho preferito agire di testa mia.»

«Hai parlato altre volte di questo supervisore. Ma cosa fa, in realtà?»

«E' come un baby-sitter armato e incazzato» sorrise Yuki, facendo ridacchiare il giovane. «Io, Dom e gli altri componenti di questa squadra di informatici borderline, siamo tutti civili che collaborano con la CIA. Non siamo veri agenti, perciò abbiamo bisogno dei supervisori, che fanno da trait d'union con i grandi capi, per intenderci. Non ci permetterebbero mai di parlare direttamente con le alte sfere.»

«E mio fratello è invischiato in tutto questo. Dio!» esalò il giovane, ridendo sommessamente. «Il pacato, pacifico Dom, un mezzo agente della CIA.»

«Usa solo i suoi doni per qualcosa di più grande. In teoria, qualcosa di utile e buono.»

«E tu? Tu, perché hai accettato di essere reclutata? Solo per evitare la galera?»

Lei scosse il capo, limitandosi a dire: «No. Anch'io voglio fare qualcosa di utile e buono.»

Cam le carezzò il viso e, nel deporle un bacio sulla fronte, mormorò: «Con me, lo hai fatto.»

Yuki fece per rispondere, ma un cigolio poco distante la azzittì, facendola irrigidire al pari di Cam, che non mosse un solo muscolo in risposta.

Si udirono dei passi ovattati, forse di scarpe con la suola in gomma e la giovane, sollevandosi con un movimento fluido e silenzioso, afferrò il suo zaino e ne estrasse alcune armi.

Consegnò a Cam diversi kunai e un nunchaku; sperò ardentemente di non commettere un errore, ma confidò nell’abilità dell’amico e nella sua agilità.

Per sé, tenne le sue faretre di spiedi in acciaio, che legò alle cosce, e le sue inseparabili sai, le corte sciabole giapponesi da combattimento, che infilò negli stivali.

Lesta, posizionò sui polsi piccoli foderi in pelle, contenenti corti pugnali neri e opachi.

Annuendo all'amico, mosse agilmente le mani per indicargli il posizionamento sul campo di battaglia e Cam, seguendo attentamente i suoi gesti, assentì ogni volta.

Quella non era una gara in un palazzetto dello sport, non c'erano di mezzo trofei o medaglie.

Dalla loro bravura, sarebbe seguita la loro sopravvivenza o meno, e questo terrorizzò il giovane per un istante.

Era stato altre volte in pericolo, ma solo in virtù di sue scelte, di sue prese di posizione.

Si era sempre lanciato in imprese spericolate, giù da monti impervi come nelle immensità dell'oceano più profondo, e sempre per dar voce al suo spirito d'avventura.

Spesso e volentieri, Phie si era unita a lui in quelle avventure spericolate.

Altre volte, specialmente per mare, era stato Domenic ad accompagnarlo e, ogni volta, avevano goduto sia delle giornate fortunate, come di quelle meno brillanti.

Ma tutto, o quasi, era sempre stato valutato e vagliato fino all'ultimo punto.

Lì, non avrebbe avuto alcuna voce in capitolo. Lì, sarebbe stato il comprimario in un dramma non scritto da lui.

Ma non si sarebbe dato per vinto.

§§§

Era stato quasi per gioco, che Bryce aveva cominciato a seguire i corsi di krav maga.

Quella sintetica disciplina marziale ideata dagli israeliani, gli era parsa la soluzione ideale alle sue necessità.

Investigare, era innanzitutto scandagliare la rete alla ricerca di informazioni, ma non di rado capitava ancora di dover uscire per i cari, vecchi appostamenti.

E difendersi dai malintenzionati, era divenuto sempre più pressante.

Se era vero che la malavita e i furti erano calati drasticamente, nel centro delle città, nei sobborghi, e dove il Viewscan non era attivo, le cose cambiavano molto.

Lasciare in giro bossoli di pistole regolarmente denunciate, o qualsiasi altro genere di arma rintracciabile, non sarebbe stata una gran pubblicità, per lui.

Soprattutto, in virtù del suo duplice ruolo. Mettere in mezzo l’agenzia della madre, sarebbe stato un errore, specialmente quando non era fuori per conto della sua adorabile mammina.

No, meglio la difesa a mani nude. Rapida, precisa e senza firma.

Fu perciò facile prendere di sorpresa l'autista dell'auto scura che, in appostamento, attendeva sul fianco della scuola dove si trovava il segnale di Yuki.

Le fotografie di Cameron e della ragazza, poste sul cruscotto - oltre ad armi pronte sul sedile posteriore dell'auto - gli diedero una serie di conferme sufficienti per agire.

E non farsi prendere da inutili scrupoli di coscienza. Tizi di una simile risma, non ne avevano.

Un colpo ben assestato sulla carotide, un veloce movimento di mani e, dopo avergli tappato naso e bocca, bastò premere abbastanza a lungo per provocare lo svenimento.

In silenzio, lo accompagnò a terra e, dopo essersi guardato intorno, si avventurò cauto nel cortile del complesso scolastico, seguendo i passi evidenti sulla neve smossa.

Per questo, non aveva voluto che Phie scendesse dall'auto.

Preferiva risparmiarle la visione di un vero scontro corpo a corpo che, sicuramente, di lì a poco avrebbe sperimentato lui in prima persona.

Nello spostarsi furtivo alle spalle di quella che gli sembrò essere la palestra, udì alcune voci sussurrate e lì si fermò.

Lesto, si accucciò nei pressi di un piccolo magazzino attrezzi, e ascoltò.

Erano giapponesi e parlavano con tono concitato, irritato, come se trovarsi lì non gli piacesse affatto, ma non avessero altra scelta.

Bryce ne ascoltò i suoni, intercettandone la posizione all'interno dello stabile.

Dopo essersi sincerato che non vi fosse nessuno nelle vicinanze, risalì le scale di sicurezza all'esterno, stando ben attento a non fare rumore.

Il metallo freddo faceva un baccano dell'inferno, se non si faceva attenzione.

Giunto al secondo piano, sbirciò all'interno e contò non meno di dieci persone, tutte armate di pistola.

Uno in particolare spiccò sugli altri, grazie alla sua chioma bionda, e Bryce si chiese chi fosse.

La sua stazza era imponente, e superava di tutta una testa gli altri uomini. Era chiaramente un occidentale, non giapponese come gli altri uomini presenti.

Forse, un diretto sottoposto di Tashida.

«Da quello, meglio stare alla larga. Con quelle mani, potrebbe ridurmi in poltiglia» mormorò tra sé Bryce, proseguendo nella risalita verso il tetto.

Da lì, sarebbe entrato attraverso uno dei lucernari, e avrebbe proseguito camminando sui tralicci del soffitto.

Sperando che a nessuno venisse in mente di accendere le luci della palestra.

§§§

Yuki si accigliò, quando percepì i rumori attutiti di alcune persone.

Accucciandosi dietro una delle gradinate in cemento, si affacciò quel tanto che bastò per controllare il centro della palestra.

Lì, diversi uomini in abiti scuri si stavano muovendo guardinghi sulla superficie in linoleum sotto i loro piedi.

Come gli abitanti del villaggio le avevano riportato, Nobu aveva messo in pista niente meno che Byron.

E questo non era mai un bene, specialmente per lei.

Cam, al suo fianco, aggrottò la fronte e le sussurrò all'orecchio: «Non è la guardia del corpo di Nobu-san

«Tra le altre cose. E' anche un ex soldato delle squadre speciali inglesi... e l'amante di mio fratello. Almeno, stando a quello che mi ha detto mia cognata. Mi chiedo perché sia qui. Di solito, non lascia mai il suo fianco.»

Cameron la fissò vagamente stralunato ma Yuki scrollò le spalle, preferendo non dare ulteriori spiegazioni.

Né sul perché fosse sicura che Byron e Nobu avessero una relazione, confermata dalla moglie di quest’ultimo, né su altre cose.

Se si fossero dilungati a parlare, avrebbero potuto essere scoperti.

Indicandogli un punto dietro cui nascondersi, per meglio accerchiare i loro inseguitori, Yuki gli sussurrò un paio di parole, e Cam annuì.

Non c'era bisogno che gli spiegasse molto.

Cameron era bravo nell'autodifesa e, anche se quello non era un semplice combattimento sportivo, sapeva che avrebbe avuto il sangue freddo sufficiente per non commettere idiozie.

O almeno, così sperava.

Detestava pensare di poter commettere un errore di valutazione, e lei si era sempre fidata di Cameron e della sua capacità di gestire le situazioni.

Negli anni, erano diventati amici fidati e sinceri e, pur se molto distanti fisicamente, si erano sempre tenuti in contatto in ogni modo possibile.

Alcune volte, avevano anche partecipato insieme ad avventure entusiasmanti sulle più alte vette mondiali.

All'epoca,  Domenic si era già trovato coinvolto con la CIA e lei, più di una volta, si era chiesta come mai non li avesse mai seguiti nelle loro imprese.

Ora sapeva, e non solo approvava, ma era fiera di lavorare al suo fianco.

Non si sarebbe mai perdonata se, per un suo errore, Cameron fosse rimasto ferito.

Perché questo avrebbe voluto dire ferire anche Domenic.



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Capitolo 11
*** XI. Fight ***


 
XI. Fight.
 
 
 
 
Contò i minuti, chiedendosi perché scorressero così lenti, e osservò lo schermo al plasma del suo palmare, domandandosi perché non fosse più veloce nel countdown.

Lo aveva fatto partire non appena Bryce era sceso dall'auto, e in quel momento segnava quattordici minuti e trentadue secondi.

Trentuno.

Trenta.

Ventinove.

«Oooh, al diavolo! Avrà tempo più tardi, per sgridarmi!» sbottò Phie, spegnendo il telefono per poi infilarselo nella tasca dei pantaloni.

All’esterno, il freddo si era fatto più intenso e, quando aprì la portiera, l'aria gelida le sferzò il viso, facendole arricciare il naso e battere i denti.

In fretta, chiuse la cerniera del leggero giubbotto imbottito in fibre termosintetiche e, seguendo i passi di Bryce, si avventurò in direzione della scuola.

Subito, il calore prodotto dalla giacca a vento fece il suo effetto, ma Sophie non si lasciò andare al piacere di quel tepore benefico.

Doveva trovare Cameron, a ogni costo.

 
§§§

Il fattore sorpresa era basilare, vista la loro inferiorità numerica.

Dovevano agire rapidi per eliminare il maggior numero di nemici, prima che partissero all'attacco tutti assieme.

Per farlo, non era necessario puntare agli organi vitali, ma rendere inattivi i loro avversari.

Cameron ne sapeva abbastanza, di anatomia, per avere un’idea piuttosto precisa su dove colpire.

Devi sapere come curarti alla svelta, quando fai sport estremi.

Il punto era un altro.

Sarebbe stato capace di colpire con freddezza, per atterrare il suo nemico? O, nell’eventualità più tragica, ucciderlo?

Lì, non si rideva, né si scherzava più.

Avrebbe dovuto agire sul serio, non per mero divertimento.

Tenendo saldamente il kunai nella mano destra, il nunchaku infilato nella cintura dei pantaloni, e un paio di shuriken nella mano sinistra, Cam osservò l'uomo a lui più vicino e, a un cenno di Yuki, agì.

Si mosse lesto per uscire acquattato dal suo nascondiglio – fornito da alcuni cesti di palloni – e colpì lesto ai tendini achillei dell'uomo.

Il suo urlo fu subitaneo, e questo mise immediatamente in allarme il gruppo che, in toto, si volse verso il compagno ferito.

Scoprendo il fianco per l'intervento di Yuki.

Letale come un cobra, la ragazza uscì allo scoperto tenendosi bassa e, con rapidità chirurgica, lanciò i suoi spiedi, conficcandoli nelle mani di tre uomini.

Questi ultimi lanciarono parimenti urla di dolore e Byron, comprendendo di essere attaccato da due fronti opposti, lanciò in fretta degli ordini ai suoi uomini.

Bryce, dall'alto della sua postazione privilegiata, non attese oltre.

Si calò alla svelta da uno dei tralicci che conducevano al canestro da basket, dopodiché si lanciò sul più vicino degli avversari, atterrandolo col suo peso.

Un attimo dopo, lanciò un fischio modulato per farsi riconoscere da Cam, sicuro che avrebbe capito.

Non aveva giocato per anni con i Van Berger, per nulla.

«Sono tre!» gridò uno degli uomini di Byron, cominciando a sparare ad altezza uomo.

Subito, Yuki, Cam e Bryce si abbassarono per schivare i colpi, mentre Byron gli intimò di smettere con un gran urlo di gola.

Al suo grido imperioso, seguì un possente ordine in giapponese, e fu subito il silenzio.

La semioscurità della palestra giocava a favore di Cam e dei suoi compagni, ma Byron non si diede per vinto.

Sparando un colpo in aria, urlò: «Yuki-chan, smettila immediatamente di comportarti da stupida, e consegnaci Van Berger. Sono sicuro che tuo fratello sarà magnanimo, e saprà ricompensarti nonostante il tuo tradimento.»

Yuki non rispose, fremendo di impazienza e rabbia mentre Cam, nascosto come meglio poteva dietro una pedana da salto, osservò le ombre nella palestra con nervosismo.

Le mani gli tremavano, e non era del tutto sicuro che sarebbe riuscito ad attaccare una seconda volta, ma doveva fare del suo meglio per aiutare Yuki.

E Bryce.

Che diavolo ci faceva, lì, comunque, e come li aveva trovati?

Domenic, pensò un attimo dopo.

Sorridendo al buio, ripensò a ciò che gli aveva detto Yuki, al trasmettitore che aveva sottopelle, e ipotizzò che il gemello avesse indirizzato il loro comune amico fino a lì.

Preferì non chiedersi perché Bryce, e non la polizia, lasciando quelle domande per un momento migliore.

Sempre che avesse potuto chiederglielo.

Byron interruppe qualsiasi elucubrazione mentale di Cam, urlando nuovamente con la sua voce profonda.

«Avvicinatevi a me e sparate basso» decretò l'uomo, sgomentandoli tutti.

Si udirono dei passi concitati, uno scarrellare di armi e, subito dopo, Cam temette di scorgere nel buio le fiammate provenienti dalle canne delle pistole.

Non successe nulla di tutto ciò.

Una nuova voce si interpose in quella situazione di stallo, bloccando tutti per la sorpresa.

«Polizia di Miyazawa! Abbassate immediatamente le armi! Siete penetrati in una proprietà pubblica senza autorizzazione!» urlò una voce femminile, in perfetto giapponese.

Ma Cam non si fece ingannare neppure per un istante, riconoscendo immediatamente quel timbro vocale, quel trillare di campanelle d'argento.

Phie. Era stata Phie a parlare, e si trovava pochi metri sopra la sua testa, probabilmente sulle tribune della palestra.

Allo scoperto.

I secondi che seguirono furono di confusione totale, per gli uomini di Byron, ma permisero a Cam, Bryce e Yuki di agire.

Scaturirono dai loro nascondigli per gettarsi addosso al gruppo di Byron, ora compatto e, nella colluttazione che ne seguì, diverse armi caddero a terra.

In una confusione di corpi a terra, urla e imprecazioni, Byron riuscì a strattonare Yuki per i capelli, strappandola al combattimento per averla tutta per sé.

Al diavolo gli ordini di Nobu, e le sue raccomandazioni di riportargli viva la sorella; l'avrebbe fatta fuori seduta stante.

Nobu l’avrebbe sicuramente perdonato… alla fine.

«Molto bene, ragazzina. Vediamo come hai steso tre dei miei uomini» ringhiò Byron, scrutando l'ombra che era la sua nemica.

Yuki non poté controllare come stesse Cameron, o i loro due misteriosi aiutanti sul campo.

Byron era un nemico troppo pericoloso perché lei perdesse di vista, anche per un solo istante, i suoi movimenti.

La superiore stazza fisica dell'avversario fu un impaccio, per lei, perché non riuscì ad affondare i suoi colpi con efficacia, ritrovandosi spesso a dover retrocedere e basta.

Nella quasi totale oscurità, spezzata solo dalla luce della luna – che penetrava dai lucernari – la ragazza riuscì comunque a scorgere il sogghigno dell'uomo.

Era sicuro di sé, abile e veloce nonostante la massa di muscoli che doveva muovere, ma Yuki aveva dalla sua un fattore determinante.

Lei era stata addestrata per eludere gli attacchi, per agire furtiva e nell'ombra.

Avrebbe dovuto mettere in campo tutte le sue conoscenze del ninjutsu, per vincere.

Sperando, nel contempo, che Byron fosse così cavaliere da non ricorrere alle armi da fuoco, che aveva addosso in gran quantità.

Ma, almeno per il momento, non sembrò questo il caso.

Poco distante dalla coppia impegnata in combattimento, Cam cercò febbrilmente con lo sguardo la figura di Phie, speranzoso che fosse, nel frattempo, scappata lontano da lì.

Speranza vana, ovviamente.

Un attimo dopo, se la ritrovò accanto, trafelata e con i capelli scarmigliati, l'aria terrorizzata ma volitiva.

«Che diavolo ci fai qui?!» le ringhiò contro, un sussurro rabbioso e preoccupato.

Lei non rispose.

Si limitò a prendere il nunchaku dai suoi pantaloni e, con abilità, si lanciò contro uno degli uomini rimasti, mandandolo al tappeto dopo alcune rapide mosse.

Non contenta, si mosse per aggredirne un altro che, però, la mandò lunga riversa sul pavimento con una spazzata.
Cam non ci vide più.

Si gettò a testa bassa contro l'uomo che aveva colpito la sua fidanzata e, dopo averlo gettato a terra con violenza, lo riempì di pugni in pieno volto.

Bryce, nel vederlo così sconvolto, e una potenziale facile preda, si affrettò a liberarsi dell'uomo che Yuki aveva ferito con gli spiedi e, raggiunta Phie, la fece alzare da terra.

«Io e te parleremo a lungo

Lei fece la linguaccia e, usandolo come sponda, si aggrappò alle sue spalle e scalciò di lato, mandando a terra un uomo.

«Dicevi?» ironizzò poi, sibilando un'imprecazione subito dopo, quando il suo sorriso andò a risvegliare il livido che le stava gonfiando una guancia.

«Sei fuori di testa» scosse il capo Bryce, guardandosi lesto intorno, giusto per capire come fossero messi.

Cameron, nel frattempo, aveva finito con lo sbucciarsi le nocche delle mani sul viso dell'uomo che aveva ferito Phie e, nel rialzarsi, raggiunse in fretta la ragazza per abbracciarla.

Fu un gesto veloce, ben lontano da ciò che desideravano entrambi, ma bastò a rasserenare entrambi.

Bryce, in quel mentre, tenne d'occhio la situazione d'insieme, prima di rendersi conto delle condizioni in cui versava Yuki.

Subito pronto a intervenire, lei lo gelò con un'occhiata e Cam, avvedendosi di chi fosse il suo avversario, esalò: «Cristo... non lui...»

 
§§§

Sapere dov'erano Cam e Yuki non lo soddisfaceva per nulla, perché nessuno poteva dirgli cosa stava succedendo in quella cavolo di palestra.

Neppure i satelliti potevano bucare le pareti per scandagliare all'interno dell'edificio – per lo meno, non i satelliti di cui disponeva al momento – e, quando il segnale svanì dal monitor, esplose in un'imprecazione.

Con uno scatto d'ira, si levò dalla sedia così furiosamente da spingerla contro le scrivanie vicine.

Sempre più furioso, spazzò quella che aveva innanzi con le braccia, mandando tutto sul pavimento.

Il clangore degli oggetti riversatisi l'uno sull'altro, in una confusione di colori e materiali, non aiutò Domenic a calmarsi.

Ansando come se gli mancasse l'aria, crollò a terra in ginocchio e, spaventato, si strinse le braccia attorno al torace, esalando: «Cameron... Yuki...»

 
§§§

Quella era una faccenda che voleva risolvere da sola.

Non avrebbe lasciato quel punto a nessuno, pur se combattere contro Byron si stava rivelando più difficile del previsto.

Il braccio le doleva feroce, dove lui l'aveva colpita con il taglio della mano e la gamba destra, pur se non rotta, le impediva di muoversi con la dovuta agilità.

I calci di Byron erano sempre stati potenti, anche quando si erano trovati sul tatami per dei semplici allenamenti distensivi.

Per lui, non era mai stato solo uno sport.

Era bravo, non poteva negarlo. Ma era troppo sicuro di sé.

Poteva batterlo.

«Non ti sei limitata a imparare da tuo padre, vero, piccola strega?» ansò l'uomo dinanzi a sé, concentrato unicamente sulla ragazza.

Era chiaro quanto, i suoi compagni, fossero ligi alla sua scelta di combattere da sola, stolti com'erano.

Lui, invece, poteva solo rimproverarsi di averli sottovalutati, e di aver portato con sé semplicemente dei palloni troppo gonfiati, ma con ben poca sostanza a sostenerli.

Ma chi si sarebbe mai aspettato un simile comportamento? E, per di più, la cavalleria americana, pur se composta solo di ragazzi?

No, sia lui che Nobu avevano pensato, erroneamente, che Yuki sarebbe stata troppo agitata e impaurita per pensare assennatamente.

Invece, non solo si era dimostrata un'ottima combattente – superiore al già preparato Van Berger – ma anche un'avversaria degna di tale nome.

Non gli piaceva commettere degli errori, ma era chiaro quanto si fosse sbagliato, nel giudicare la sorella di Nobu.

Aveva sempre pensato fosse la classica ragazzina un po' nerd, succube dei fratelli maggiori e per nulla interessata alle vicissitudini della ditta.

La sua amicizia con la famiglia Van Berger l'aveva fatto sorridere; gli era parso chiaro fin dall'inizio quanto, la ragazzina, si fosse affezionata ai figli di Nickolas.

Era evidente quanto, da loro, avesse ottenuto più calore che da Kaneda, Shunsuke e Nobu.

Non che ne capisse il motivo; era ricchissima, poteva avere ciò che voleva... e covava del rancore solo perché non era stata coccolata e vezzeggiata?

Forse, più semplicemente, somigliava troppo alla madre, e non era in grado di sostenere la pressione che gravava sulla famiglia Tashida.

Non ne era degna come Nobu.

E lui, doveva rispetto e ammirazione solo a Nobu.

Slanciandosi in avanti per colpirla con un pugno, Byron si ritrovò a masticare amaro quando Yuki, flessuosa e agile, si scostò con sorprendente velocità, nonostante i colpi fin lì ricevuti.

Cosa la spingeva a resistergli a quel modo?

«Se non la smetterai, ti farò davvero molto male, Yuki-chan. Fermati!» sbottò a quel punto lui, slanciando di lato il braccio per afferrarla al collo.

Sollevandola senza alcuno sforzo, mentre i compagni di Yuki urlavano spaventati, Byron ghignò sprezzante e le disse: «Non vorrai davvero che ti uccida di fronte a loro? Vuoi farli soffrire così tanto

«Mi uccideresti... comunque... con... o senza... di loro» balbettò Yuki, divincolandosi nella sua stretta.

«L'hai detto tu. Non io» si limitò a dire l'uomo, allargando il suo sorriso.

Yuki non aspettò oltre.

Approfittando di quella condizione di vicinanza obbligata col corpo di Byron, scalciò con violenza per colpirgli il plesso solare, in corrispondenza del cuore.

Questo gli strappò un gemito, l'aria fuoriuscì con violenza dai polmoni e, subito, lui lasciò andare la presa, momentaneamente privato delle sue forze.

Cogliendo la palla al balzo, Yuki fu subito sull’uomo e, con il taglio della mano, lo colpì con forza al collo, provocandogli ulteriore dolore.

Non contenta, andò a colpire la fronte di Byron col palmo della mano.

Tramortito da quei colpi precisi e forti, l’inglese rantolò a terra, col fiato corto e sorpreso da quell’improvviso ribaltamento della situazione.

In fretta, Yuki si inginocchiò al suo fianco per bloccarlo ai polsi e alle caviglie con un paio di fascette in plastica.

Nell'osservare quegli occhi ai limiti della midriasi – il colpo al petto lo aveva quasi lasciato senza fiato – mormorò torva: «Di' pure a mio fratello che ha perso.»

Ciò detto, legò l'uomo e si rialzò dolorante, subito soccorsa da Cam e Bryce, che la sostennero nel suo incedere.

Sorridendo a entrambi, Yuki lanciò un'occhiata turbata a Phie, che stava osservando tutta la scena con aria sconvolta, un tremore sempre crescente a spezzare la sua tempra.

Preoccupata, esalò: «Perché sei venuta, Sophie-chan

«A dirla tutta, doveva restare in auto...» brontolò piccato Bryce, afferrando l'amica per un braccio perché si muovesse.

Lei sobbalzò, annuì contrita e, mentre il gruppo si allontanava alla svelta dal luogo della battaglia, mormorò spiacente: «Hai assolutamente ragione, Bryce. Ma non ce la facevo ad aspettare.»

«E ci hai salvati, con quel diversivo dell'ultimo minuto. Non dimenticarlo» le sorrise comprensiva Yuki, lanciando poi un'occhiata a Bryce.

Quest’ultimo sbuffò, annuì e infine borbottò: «Va bene... ma, in missione, non è affidabile.»

Phie allora ridacchiò, si strinse al fianco di Cameron, che camminava zoppicando leggermente, e ammise: «Faccio schifo, lo ammetto.»

«Ma guidi bene. Poco ma sicuro» replicò Bryce, ammiccando al suo indirizzo.

Cam fece per prendersi il merito della sua bravura ma, a metà della frase, il rimbombo di un colpo di pistola li raggelò tutti, bloccandoli sul posto.

Un attimo dopo, Yuki si portò le mani al fianco, forse sorpresa di provare quel dolore acuto che, al rallentatore, le stava salendo dal ventre.

Tutti si volsero indietro tranne lei e, quando Cam vide uno degli uomini di Tashida con un'arma in mano – barcollante ma soddisfatto – non attese un attimo di più.

Recuperò dalle tasche uno dei kunai e, senza provare alcun rimorso, lo lanciò con forza contro l'uomo, centrandolo al petto.

Questo, emise un singulto strozzato e, mentre Byron osservava tutta la scena senza poter far nulla per muoversi, Bryce sollevò tra le braccia Yuki e gridò: «Maledizione, andiamo, presto! Non possiamo aspettare un attimo di più!»

Cam e Phie annuirono e, mano nella mano, iniziarono a correre verso la porta, precedendo Bryce, che teneva Yuki, ferita e sanguinante, tra le braccia.

Cameron fu il primo a uscire e, armato dell'unico kunai rimasto, si avventurò guardingo all'esterno, subito rassicurato da Phie.

«Tranquillo, Bryce ha liberato il campo prima di entrare» mormorò Phie, rassicurante.

«Bene» assentì rapido Cameron, tenendo per mano Phie mentre si avventurava sulla neve calpestata del cortile.
Bryce, dietro di loro, avanzò con passo sicuro, gli occhi puntati sul viso pallido Yuki che, solo a stento, era ancora sveglia.

«In auto c'è un kit di primo soccorso, tranquilla. Non ti lasceremo dissanguare» cercò di confortarla, sorridendole con tutta la sicurezza che gli riuscì di trovare.

Lei annuì, poggiò il capo contro la spalla di Bryce e si lasciò andare a un sospiro tremulo.

Dietro di loro, la scia rossa di sangue andò a inzuppare il candore della neve.

Il cielo, ancora sgombro di nubi e ricco di pallide stelle, adombrate dalla luce della luna quasi piena, permise loro di muoversi in relativa tranquillità.

Quando infine raggiunsero l'auto di Phie e Bryce, il giovane salì sul sedile posteriore assieme a Yuki mentre Cam, lanciata un'occhiata alla fidanzata, disse: «Te la senti, di guidare? O vuoi che lo faccia io?»

«Guido io, tranquillo. Quella gamba ti fa troppo male, immagino.»

Cam ammiccò comicamente, ma annuì.

Il colpo che aveva ricevuto, in parte per sua stessa colpa, gli aveva quasi sicuramente provocato una lussazione al ginocchio.

Sperò ardentemente di non essersi rotto un legamento, ma in quel momento non poteva pensarci.

Dovevano portare Yuki da un dottore, e alla svelta.

Phie non ci mise molto a far manovra per riportarsi sulla via principale, che stava già iniziando a pulirsi, grazie alle serpentine che correvano sotto l'asfalto termodinamico.

Imboccata la via, accelerò e risintonizzò vocalmente il GPS perché li conducesse alla base militare di Zama, a Tokyo.

Manovrando in fretta mani, bendaggi e compresse sterili, Bryce si concesse il tempo di passare il cellulare a Cam che, ansioso, osservava dal sedile anteriore le cure portate a Yuki.

«Chiama Dom, se c'è campo, e digli di informare Brandon. Quando arriveremo a Zama, avremo bisogno di supporto medico, e almeno sei sacche di zero negativo sintetico.»

Il giovane annuì e, nell'afferrare il cellulare, compose il numero del fratello, non sapendo bene come sentirsi.

Il suo modo era stato completamente ribaltato. Persone di cui si era sempre fidato, lo avevano tradito.

Altre, che pensava di conoscere a menadito, gli apparivano ora come totalmente estranee.

E, non da ultimo, non sapeva se sentirsi felice per essere sopravvissuto, o terrorizzato all'idea di perdere Yuki, che aveva sacrificato tutto per salvarlo.

Quando infine udì il tono pronto e vigile del fratello, gli venne quasi voglia di piangere.

Sembrava passata una vita, dall'ultima volta che si erano sentiti.

«Aggiornami, Bryce» disse lesto Dom.

«Ehi, cervellone, sono io. Cam.»

Lo disse con tono allegro, ma la voce caracollò per un attimo, andando sbattere contro la sua ansia a stento trattenuta.

Silenzio.

Un sospiro, e poi: «Fratello... Dio, ti ringrazio. Stai bene? State tutti bene?»

«Io sto bene, anche se ho un ginocchio acciaccato. Yuki, invece, è ferita a un fianco. Le hanno sparato mentre scappavamo. Pensavamo di avere atterrato tutti, invece uno dei nostri inseguitori si è rialzato da terra e ha fatto fuoco, così...»

Domenic lo interruppe, il tono di voce arido come il deserto.

«Bryce è con lei?»

«Sì. Se ne sta occupando lui, mentre Phie ci sta portando a Zama» lo ragguagliò in fretta Cameron. A quanto pareva, in quel momento non gli servivano i particolari, ma i fatti netti e concisi.

«Bene... d'accordo. Ora invio i dati biometrici di Yuki-necchan alla base di Zama e, nel frattempo, avverto lo zio perché si sposti lì, così che possa partire con voi. L'aereo è già predisposto. Dovrò solo far aggiungere uno staff medico ai passeggeri previsti per il volo.»

Parlò con calma, come se avesse compiuto missioni simili decine e decine di volte, ma Cam riuscì comunque a percepire la sua ansia, il suo timore sempre crescente.

«Arriverà viva. Non la faremo morire» gli promise il fratello, come sapendo che questo avrebbe infuso coraggio a Domenic.

«Bryce è in gamba con i rattoppi, lo so. Noi...»

Dom si interruppe, Cam lo udì parlottare con qualcuno in tono piuttosto concitato, anzi, contrariato, e alla fine disse torvo: «Saprà tenerla in vita quanto basta perché arrivi nelle mani dei medici.»

Cameron annuì, sapendo bene che il fratello avrebbe voluto dire altro.

Cos'altro gli nascondeva?

Lasciando però perdere quel pensiero, sorrise a mezzo e mormorò: «Ehi, cervellone... grazie per averci salvati.»

«Ti ho messo nei guai io. Avrei dato tutto quello che possiedo, la mia stessa vita, per riportarti a casa. Anche se non sono venuto di persona a farlo.»

Cam si accigliò a quelle parole, e replicò piccato: «Scordati di pensare una cosa simile, Dom! Non la voglio la tua vita, in cambio della mia! E tu eri qui, idiota. In tutto quello che hai fatto per portare da noi Phie e Bryce.»

Il gemello rimase in silenzio per alcuni attimi, ma alla fine riuscì a ritrovare uno scampolo di energie per mormorare: «Sei una parte di me, Cam. Non ti avrei mai lasciato solo.»

«Lo so.»

Inspirando con forza per non mettersi a piangere, Cameron mormorò roco: «Chiama lo zio. Noi arriveremo tra qualche ora. Le strade sono già sgombre.»

«A presto, fratellino.»

 
§§§

Rilassatosi contro lo schienale della poltroncina il tempo di un respiro, l'attimo dopo Domenic si volse a mezzo per fissare rabbioso l'agente Perkins.

In piedi accanto a lui, l'aria seriosa e per nulla conciliante, l'uomo bofonchiò contrariato: «E' inutile che mi guardi così, ragazzo. Ci sono cose che non puoi dire

«Maledizione, Garrett! Mio fratello e Yuki hanno rischiato la vita, e tu mi vieni a sbattere in faccia il regolamento dell'Intelligence?! La mia copertura, con mio fratello e Phie, è già compromessa, così come quella di Yuki, ma sono persone fidate e...»

Interrotto il giovane con un gesto della mano, l'agente Perkins mormorò quieto: «Non ho mai detto che tuo fratello, o Miss Shaw, siano persone meno che meritevoli di fiducia, ma non sono io che faccio le regole. Tyler starà già fumando quattro tipi diversi di sigarette, a quest'ora, cercando di capire come fare per rappezzare questo guaio.»

«Solo perché lui lo vede come un guaio. Inoltre, vista la situazione, non può pretendere che loro tornino così bellamente a Los Angeles, senza mettere a loro disposizione una scorta» gli fece notare Domenic, levandosi in piedi per camminare con passi nervosi e fitti.

Si bloccò di fronte al computer che stava decrittando i dati della Tashida, fissandolo ombroso. «Finché i files che ho scaricato non verranno decrittati, non possiamo incriminare i Tashida e, finché non li avremo fermati, loro rimarranno pedine facili per eventuali sicari. Tutto dovrà rimanere segreto, per il mondo, almeno finché non risolveremo il problema. Nessuno deve sapere che stanno tornando.»

«Quanto ti servirà?»

«Non lo so. Giorni... settimane. Non posso saperlo adesso. Il computer sta ancora finendo il download, tanti sono i files interessati in questa rete di macchinazioni illegali. Figurati quanto impiegherà a trovare una backdoor da cui entrare, o il codice di...»

Perkins lo bloccò, sorridendo a mezzo.

«Ragazzo, non metterti a parlare difficile. Lo sai, che abbiamo cercato persone come te proprio per non dover imparare cose del genere.»

Dom annuì, sospirando e, nel prendere il telefono, asserì: «Lo so, Garrett. Specializzazione di ogni settore fino ai limiti massimi, così che a muoversi sia solo l'eccellenza. Conosco anche questo leitmotiv.»

Un paio di squilli e, nel sentire la voce ansiosa dello zio, Domenic disse: «Cam è libero. Con lui c'è Yuki, che è stata ferita. Sto già inviando tutti i dati biometrici alla base di Zama. Recati là con un permesso di soggiorno valido per Yuki Tashida. Non potrà restare in Giappone un minuto di più. Di’ anche all’ambasciatore che, fino a nuovo ordine, voi rimarrete ufficialmente all’ambasciata americana, ma senza più rilasciare alcuna intervista. Dobbiamo mantenere segreto il vostro rientro.»

«Permesso... di soggiorno? Dom, che diavolo sta succedendo? E perché dobbiamo fare finta di nulla?»

«Scusa, zio. Non posso essere più chiaro di così, ora. Le cose si stanno muovendo molto alla svelta. Di' pure al console che, nel giro di un paio d'ore al massimo, riceverà una richiesta formale, e ufficiale, per autenticare un permesso di soggiorno per Yuki Tashida, oltre alla richiesta di cui ti ho appena parlato. I dati completi verranno inviati assieme alla richiesta. Quando avrai il permesso, recati alla base militare di Zama con un'auto del consolato. Sono le uniche che non subiscono i controlli del Viewscan.»

«Lo farò, ragazzo, ma avrò bisogno di un sacco di spiegazioni, quando sarò lì.»

«Ti dirò tutto quello che potrò, zio. E scusami ancora.»

Ciò detto, riattaccò e, nello scrutare Perkins, gli domandò: «Farà delle storie, per il permesso di soggiorno di Yuki?»

«Tyler? Mi stupirei del contrario. Ma è una sua protetta, e una testimone di ciò che è avvenuto in Giappone. Non potrà materialmente dire di no» scrollò le spalle l'agente, sorridendo fiducioso al giovane, che sospirò.

Un attimo dopo, Dom si lasciò cadere sulla poltroncina, si coprì il viso con le mani e, silenziose, calde lacrime iniziarono a scorrere sul suo viso.

Perkins non disse nulla, si limitò a battergli una mano sul capo, carezzandogli i capelli biondo-castani come avrebbe fatto con il figlioletto di sei anni.

Era davvero troppo, a volte, ciò che chiedevano a quei ragazzi ma nessuno, in tanti anni, lo aveva mai ascoltato.

Ma come pensare anche solo di sostituirli?

Grazie a loro, centinaia, forse migliaia di agenti erano stati salvati, indirizzati a colpo sicuro nel luogo giusto, scovati nei recessi più nascosti del globo.

Ciò che sapevano fare era di così inestimabile valore che, a conti fatti, neppure lui poteva immaginare una CIA senza quella élite di persone al loro fianco, pur se doveva sopportare di vederli soffrire.





 

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Capitolo 12
*** XII Run ***


XII. Run.
 
 
 
 
 
«Bryce, abbiamo un problema.»

Come se quello che aveva per le mani lui, non lo fosse.

Il giovane si trattenne dal commentare e si limitò a chiedere: «Quale sarebbe, Phie?»

«I Viewscan. Stiamo per entrare in una zona a fittissima presenza di sensori e, se è vero che la polizia è collusa coi Tashida, ci beccheranno nel giro di un nanosecondo, bloccandoci la strada.»

Sophie cercò di non apparire spaventata, ma vi riuscì solo in parte.

Pur se la voce le uscì integra, le mani sul volante tremarono e Cam, spiacente, le chiese mentalmente scusa per quella situazione impossibile.

Non avrebbe mai voluto vederla così in ansia ma... aveva veramente creduto che lei sarebbe rimasta passivamente a casa ad aspettarlo? No, non era da Phie.

«Merda!» si lasciò sfuggire Bryce, imprecando di nuovo quando non gli venne in mente nulla di buono.

Aveva ancora le lenti a contatto che Yu gli aveva dato, ma così lo avrebbe sicuramente messo nei guai, se le avesse indossate.

Diversamente, però, non aveva idea di come avrebbe potuto...

Interrompendosi quando il suo cellulare prese a suonare, Bryce lanciò un'occhiata a Cam, che lo afferrò dal vano porta oggetti e accettò la chiamata.

«Immagino siate arrivati in prossimità di Tokyo, a quest'ora.»

La voce di Domenic era nuovamente salda e lucida, diversa da quella torva e stanca di poche ore prima.

Cameron sorrise immediatamente nell'udire la sua voce e, più tranquillo, gli domandò: «Hai qualche coniglio nel cilindro anche stavolta? Dimmi di sì, fratellone.»

«Tendenzialmente, non smetto di far funzionare il cervello finché non sono arrivato a destinazione e, nel caso specifico, non avrò portato voi a destinazione» ironizzò il gemello, facendo sorridere Cam. «Yuki come sta?»

Il giovane lanciò un'occhiata dietro di sé, dove il corpo della ragazza era rannicchiato – il suo sangue macchiava la camicia e il sedile sottostante – e, un po' meno sicuro di sé, mormorò: «Bryce sembra aver fermato l'emorragia, ma è priva di conoscenza.»

«D'accordo... corrisponde ai parametri inviati dal segnalatore» assentì Domenic. «Preferivo saperlo da voi per... no, non si può comunque fare nulla di più, al momento.»

Cameron comprese subito quanto si sentisse frustrato, perché lui si sentiva alla stessa maniera.

«Phie... controlla di fianco alla leva del tergicristalli. Se Minami è stata brava come penso, dovrebbe aver sistemato lì un aggeggio piuttosto utile.»

Attraverso il vivavoce, la ragazza poté udire la voce dell'amico e, controllando con le dita, esalò sorpresa: «C'è qualcosa, in effetti.»

«Staccalo. E' magnetizzato, quindi dovrebbe venire via abbastanza bene, dopodiché applicalo in corrispondenza dello specchietto retrovisivo centrale» le spiegò Domenic, calmo e assertivo.

Phie fece come dettole e, dopo aver sistemato la piccola cimice nel posto designato, sospirò di sorpresa quando, sul vetro, apparve una schermata sui loro dati biometrici.

«Ehi, ma... che sta facendo? Non ho inserito l’infoview sul lunotto anteriore! Perché si è acceso?»

«Guarda bene cosa sta facendo, Phie. Sta correggendo i vostri dati biometrici, cioè quello che il Viewscan registra con la lettura delle retine» le spiegò Domenic, vagamente divertito.

«Quella ragazza!» esclamò l’investigatore, sogghignando esterrefatto.

«Ora viene la parte difficile. Bryce, riesci a mettere seduta Yuki? I sensori nell'auto devono segnalare la presenza di quattro persone sedute correttamente, o metteranno in allarme la base centrale, lo sai.»

«Non sarà piacevole, ma la sistemerò. Altro?»

«Dovete stare tutti perfettamente immobili. Il programma simulerà i segnali biometrici di quattro persone che non siete voi, disorientando il programma. Avrete diciotto minuti di copertura, prima che il server centrale dia l'allarme, visto che apparirà ovvio che non potete essere in due posti contemporaneamente.»

«Chi stiamo copiando, per curiosità?» domandò Cam, scrutando dinanzi a sé per cercare di capire cosa stesse trasmettendo l’infoview.

«Quattro persone prese a caso dall'elenco della previdenza sociale olandese, se non erro» ironizzò Domenic, lasciando basiti i presenti nell'auto. «Ho preferito scegliere un paese piuttosto lontano, così i controlli saranno un poco più lenti.»

«Volevo chiederti come, ma preferisco non saperlo. L'ignoranza aiuta a dormire, amico» brontolò Bryce, sistemando il più delicatamente possibile Yuki.

La ragazza si dimenò leggermente nel suo sonno agitato e il giovane detective, carezzatole il viso, mormorò: «Stai calma, Yuki-chan... siamo quasi arrivati.»

«Altro, Dom?» domandò Phie, rallentando l'andatura quando imboccarono la tangenziale.

Il primo Viewscan era segnalato a meno di un miglio da loro. Avrebbero dovuto passarne otto, prima di essere fisicamente a Tokyo.

«Guida come sai fare tu, piccola. Mi fido di te» si premurò di dire Domenic, con tono caldo e rassicurante.

Phie allora imprecò, si passò una mano sul viso e, rivolta al cellulare, ringhiò: «Ti riempirò di pugni, Domenic Paul Van Berger, puoi starne certo! Guida come sai fare tu! Come se potessi darmi alla pazza gioia nel bel mezzo di Tokyo!»

Un attimo dopo, però, aggrottò la fronte e borbottò: «Posso?»

Dom ridacchiò e disse: «Tra ventisette secondi, comparirà nel tuo specchietto retrovisore un camion dei vigili del fuoco. Accodati a lui.»

«Che hai fatto?! Hai dato fuoco a un palazzo, per darci la possibilità di fare i pazzi per strada?» esalò Cameron, lanciando un'occhiata nello specchietto.

In effetti, in lontananza, si poteva scorgere la sagoma rossa di un camion.

«Gliel'ha solo fatto credere Minami. Una vera scocciatura, quando tutto passa  attraverso la rete, non vi pare?» ironizzò ancora Dom e, in lontananza, si udì la vocetta di una ragazza.

«Minami-chan?» esalò Bryce, sorpreso.

«Ehi, Kendall-san! Ciao!» esclamò una voce squillante, e proveniente dal telefono.

«Ma che ci fai a Los Angeles?!»

«Sono partita subito dopo avervi dato l'auto. Domenic-san mi ha praticamente ordinato di venire qui. Pensava che la mia presenza a Tokyo non fosse più sicura, così sono venuta a fare un giretto qui.»

«Ti...» Bryce si morse la lingua appena in tempo e, riformulando la domanda, chiese: «Sei lì con un salvacondotto perché sei un'operatrice esterna della CIA, come Yuki-chan

«Qualcosa del genere. Tutto tooop secret, Kendall-san. Oh, e ho conosciuto i tuoi genitori. Hai una mamma davvero affascinante. Ora so da chi hai preso i tuoi occhi.»

Cameron fissò senza parole sia Bryce che Phie e, sillabando silenziosamente la domanda “ma chi è?”, si vide rispondere solo con eguali sorrisi divertiti.

«Comunque, per tua informazione, anche Yu-chan è irreperibile, almeno finché la bomba non sarà stata disinnescata. Penso sia dalle parti di Portland, o giù di lì, a trovare dei parenti. Non mi ricordo quale delle due Portland, però. Ma perché dare il nome di una città a più di un posto? Ci si confonde, e poi...»

Quello sproloquio senza senso venne interrotto da Domenic che, con una mezza risata, esalò: «Perché non esiste un pulsante per spegnerla?»

«Perché dopo ti mancherei, Domenic-san

Phie prese la parola per dire, vagamente agitata: «Primo Viewscan.»

Nell'auto scese un silenzio tombale, persino Minami non aprì bocca e, quando l'auto passò indenne attraverso il primo controllo, tutti tirarono un sospiro di sollievo.

«Countdown inserito, richiesta responso dati partita, elaborazione dati iniziata. Diciassette minuti e quarantotto secondi al point break sistem» mormorò ora più seriamente Minami. «Tutto come previsto. Oh, Sophie-chan... il camion. Sta arrivando ora. Ha rallentato un po', prima.»

«Bene» assentì la ragazza, scrutando l'immensa macchia rossa passargli a fianco.

Non appena fu superata dal mezzo pesante, vi si accodò e accelerò di pari passo.

Pur se vietata, era una manovra comunque preferibile all’alternativa; mettersi a fare il pilota di Formula 1 nel bel mezzo di Tokyo, non era fattibile.

Finché non avesse causato danni a cose o persone, nessuna pattuglia sarebbe uscita dalle caserme per comminarle quell'infrazione del regolamento.

Specialmente quando metà della polizia era intenta a cercare, tramite i Viewscan, proprio loro. Avevano altro a cui pensare.

Come Phie, altri autoveicoli si accodarono al camion dei vigili del fuoco, confermando un uso piuttosto frequente di quel sistema, per evitare il traffico.

La ragazza fu confortata, suo malgrado, da quella presenza imprevista.

Questo, li avrebbe resi meno riconoscibili.

Le spiacque soltanto per quei poveri olandesi che, molto probabilmente, si sarebbero presi una multa per uso improprio delle corsie preferenziali.

Ma, a giudicare dal numero di auto presenti, doveva trattarsi di una sanzione piuttosto bassa.

Al secondo Viewscan, il palmare emise un sibilo, indicando la buona riuscita del passaggio.

Così pure per il quarto e il quinto.

Al sesto, però, fu come sentir esplodere una sirena della polizia nella testa e, sconvolti e preoccupati, tutti puntarono gli occhi verso il palmare.

Il sistema era andato in tilt e, prima ancora che Bryce controllasse la posizione di Yuki, Cam comprese cosa avesse interferito con il programma.

Una maledettissima galleria.

Lì, il segnale satellitare si interrompeva e, poiché il loro cavallo di troia era garantito dai dati provenienti dal satellite della Van Berger, il gioco era stato smascherato.

Quando finalmente riemersero, Phie lanciò alle ortiche qualsiasi prudenza e, ingranata la marcia, esclamò: «Tenetevi! Farò vedere ai giapponesi che c'è ancora qualcuno che sa guidare davvero

«Phie! Segui la traiettoria del GPS! Ti indicherà i punti in cui procedere più velocemente!» le urlò Dom dal palmare.

«Tranquillo, Dom, posso farcela anche da sola. Questo è il mio campo, ricordi?» borbottò, superando con una manovra spericolata il camion dei pompieri.

Lui rise sommessamente, rammentando una corsa spericolata per le colline di Los Angeles, il suo quasi infarto e la successiva risata liberatoria.

Sì, sapeva bene che Phie era un asso al volante. Quasi come Cameron.

«Tre pattuglie della stradale in arrivo da est. Tempo di intersezione... quattro minuti e ventidue secondi...» mormorò nel frattempo Minami, probabilmente impegnata a tenere sotto controllo i cellulari della polizia.

«Cam, guarda nel cassetto degli oggetti. Dovrebbe esserci una pistola taser. Casomai doveste difendervi» lo informò poi il gemello, il tono ora serio e teso.

Annuendo, il fratello lo aprì con una leggera pressione del dito e, dopo aver afferrato l'arma, la tenne in grembo per qualsiasi evenienza.

«Bryce, vuoi che...»

Il detective interruppe Dom, dicendo lesto: «Non dire nulla a mamma e papà. Qui, andrà tutto bene.»

Domenic non rispose, sapendo bene cosa avesse voluto dirgli in realtà l'amico. Non c'era bisogno di dire altro.

Phie, impegnata alla guida, schivò un paio di autobus e diverse auto a levitazione magnetica che, sfiorate dal suo veicolo su ruote, barcollarono per lo spostamento d'aria prima di riallinearsi al percorso.

I colpi di clacson si sprecarono e, mentre le gomme stridevano sull'asfalto, Sophie inquadrò la prima auto della polizia, proprio dinanzi a lei.

«Scontro frontale. Preparatevi» annunciò la ragazza.

Bryce si affrettò a coprire Yuki col proprio corpo mentre Cam, stretta la cintura di sicurezza con le mani, mormorò: «Non tirare troppo la corda, se vedi che lui non cede.»

«Cederà. E' troppo inquadrato per non farlo» ghignò la ragazza, accelerando ulteriormente.

Cameron venne schiacciato contro il sedile e, mentre l'auto della polizia si avvicinava sempre di più, cominciò silenziosamente a pregare perché tutto andasse bene.

Sarebbe stato il colmo se, dopo tutto quello che avevano passato, ci avesse rimesso le penne per un incidente d'auto.

Come previsto da Phie, però, i poliziotti deviarono la loro traiettoria e finirono contro un idrante.

La ragazza, lanciato un urlo liberatorio, si gettò poi in una stradina laterale per deviare dal traffico principale.

Zama si stava avvicinando a gran velocità e, pur con tutte le deviazioni – e le manovre al cardiopalma – di Phie, riuscirono infine a scorgerla attraverso il nugolo di palazzi della città.

Interamente circondata da un'alta muraglia in cemento armato, su cui spiccavano reticolati elettrificati, la base appariva inquietante ai loro occhi.

Ma anche squisitamente accogliente, visto ciò che si stavano lasciando alle spalle.

Quando Phie rallentò per avvicinarsi finalmente al cancello, dove un paio di soldati attendevano con le armi in pugno, diversi colpi di pistola fecero strillare la ragazza.

Cam e Bryce inspirarono a pieni polmoni, quasi portati a loro volta a urlare e, nel volgere lo sguardo dietro di loro, videro un’auto della polizia in rapido avvicinamento.

E le pistole di due poliziotti puntate contro di loro.

Phie, allora, tornò ad accelerare e, in barba al pericolo, mise la testa fuori dal finestrino e urlò: «Americani! Siamo americani!»

Dalla guardiola di servizio fece la sua comparsa Brandon Van Berger che, gesticolando con i soldati, fece aprire immediatamente il cancello.

Mentre Phie rimetteva dentro la testa, Cam le urlò: «Rallenta! Andremo a sbattere!»

«Se rallento, ci raggiungeranno prima che riesca a entrare!»

Lo scoppio di uno pneumatico mise fine alla discussione e Phie, troppo impegnata a trattenere il volante per pensare all'ira del fidanzato, riuscì in qualche modo a tenere l'auto in strada.

C'era un motivo, se si era passati alla levitazione magnetica.

Coi magneti, non potevano esplodere gli pneumatici.

Nonostante quel problema di non poco conto, Sophie riuscì comunque a portare l'auto dinanzi al cancello finalmente aperto.

Senza degnare di uno sguardo i soldati, penetrò infine in territorio americano con una sgommata e tanto odore di pneumatici arrostiti.

Subito, i due soldati si piazzarono di fronte all'entrata, sbarrando di fatto l’entrata alla pattuglia giapponese che, in buon ordine – e malvolentieri – tornò sui suoi passi.

Nel frattempo, Brandon corse verso l'auto, lanciò un'occhiata al cerchione ormai fumante – lo pneumatico era completamente sparito – e, nell'aprire la portiera di Phie, esclamò: «Bambina, tutto bene?»

«Zio Bran...» esalò, fissandolo con occhi grandi e lucenti.

Un attimo dopo, si catapultò fuori dall'auto e scoppiò in lacrime.

L'uomo la avvolse calorosamente tra le braccia, mentre un gruppo di paramedici si avvicinava all'auto semidistrutta.

Bryce fu lesto ad aiutarli, perché Yuki fosse caricata in fretta su una barella e, dopo aver controllato che anche a Cam venissero prestate le prime cure, seguì i dottori e la ragazza.

Cameron, seduto su una barella, sorrise allo zio che, nell'avvicinarsi assieme a Phie, esalò: «Ci hai fatto davvero morire di paura, ragazzo.»

«Posso immaginarlo» asserì il giovane, osservando lo scanner che il dottore stava utilizzando per controllare il suo ginocchio malconcio.

«C'è un interessamento al tendine patellare e ai legamenti. Il legamento laterale interno è strappato ma, con un innesto di nanobot, in due giorni andrà a posto» mormorò atono il dottore, segnalando il problema sulla sua scheda 3D.

«Dove hanno portato Yuki? E dov'è Bryce?» si informò allora Cameron, guardandosi curiosamente intorno.

Il dispiegamento di soldati era forse eccessivo, visto che si trovavano su suolo americano ma, dopo quello che aveva passato, gli piacque vedere qualche mano amica in più.

«Bryce è andato con Yuki-chan. Con loro, c'erano almeno sei paramedici e due dottori. Starà bene, tranquillo» lo rassicurò lo zio, carezzandogli il viso in corrispondenza di un livido. «Sono felice di rivederti tutto intero, Cam.»

«E io sono felice di vedere te, zio» replicò il giovane, sgranando un attimo dopo gli occhi. «Ehi, ma... un momento... ci vedo doppio o ...»

Phie si volse a mezzo e, ridacchiando quando vide comparire l'agente Kim Novach, si limitò a scrollare le spalle.

La donna, sorridendo maliziosa a Cameron, disse: «Bene, bene... vedo che sta ottimamente, Van Berger. Immagino si sia già sentito con suo fratello, vero?»

«Beh, sì. Ma... lei, chi è? E perché assomiglia come una goccia d'acqua a Phie?»

Quante altre sorprese avrebbero potuto piombargli addosso, prima che lo tramortissero del tutto?

L'agente ridacchiò e, con un sorriso ironico, si limitò a dire: «Agente Kim Novach della CIA, Mr Van Berger. Coadiuvo in loco il lavoro di suo fratello. Il mio compito era coprire Miss Shaw durante la missione di recupero.»

«Che, ovviamente, non avete fatto voi agenti speciali perché non avevate l'autorizzazione, giusto?» replicò Cam, vagamente accigliato.

«Ovviamente» ripeté atona la donna. «E prima che lei perda le staffe, come mi sembra evidente dal suo sguardo così ombroso, sappia che suo fratello ha pestato parecchi piedi, e minacciato parecchie teste coronate, per così dire, per avere un minimo di supporto in loco. Di più non si poteva fare, a livello ufficiale. E l'ufficiosità è il marchio di fabbrica di suo fratello, come ormai sa bene.»

Cameron annuì, preferendo tenere per sé i suoi commenti sull'intera faccenda.

Erano lì, erano salvi, e il programma Asclepio era ancora nelle loro mani.

Avevano vinto, ma...

No, non gli garbava l'idea che dei civili – tra cui la sua fidanzata – si fossero sobbarcati una missione così pericolosa perché la CIA non aveva potuto intervenire direttamente.

Non lo avrebbe mai accettato.

 
§§§

La Base Militare di Edwards era un via vai continuo di mezzi, uomini, materiali e vite intrecciate le une alle altre.

Domenic osservò distrattamente i caccia stealth levarsi dalle piste come discendere dal cielo, simili a oscuri uccelli dalle linee feroci e sottili.

Erano ore che era lì, in piedi accanto ai genitori, a osservare l’orizzonte sgombro di nubi.

Sapeva che suo fratello stava bene, che Yuki era tenuta sotto stretto controllo da medici più che in gamba, ma non gli bastava.

Voleva vederli.

Nick, al suo fianco, gli batté una mano sulla spalla e, consolatorio, mormorò: «Andrà bene, Dom. Sono sani e salvi.»

«Lo so, papà, però...»

Reclinando il viso, si passò una mano tra i capelli scompigliati e aggiunse: «... vorrei soltanto aver potuto fare di più. Yuki-necchan è stata ferita, e Cam ha un tutore al ginocchio, e solo perché non sono riuscito a ...»

Hannah lo interruppe, avvolgendogli la vita con un braccio per attirarlo a sé.

«Hai fatto molto più di tutti noi messi assieme, tesoro. Li hai riportati indietro vivi. Ti pare poco? Abbiamo ancora due figli per merito tuo

Domenic fece per replicare quando, in lontananza, vide avvicinarsi un paio di uomini in abiti chiari, tra cui il suo supervisore, Jason Tyler.

Rubizzo e dalla faccia rossa, nonostante non vi fossero più di quindici gradi, in quel giorno di fine gennaio, Tyler avanzò con passo caracollante, accompagnato da un suo parigrado, che Dom non conosceva.

«Bene, bene, Domenic. Vedo che il tuo peregrinare per la rete ha dato i suoi frutti. Una missione perfettamente riuscita, a quanto pare» esordì Tyler, battendo le mani come se, tutto il merito del buon esito dell'operazione, fosse suo.

Nickolas e Hannah lo fissarono indifferenti e Dom, con più calma di quanta non provasse, mormorò: «Sì, Dottor Tyler. E mi scusi se, in un paio di occasioni, ho alzato la voce.»

L'uomo ridacchiò, facendo ballonzolare il collo molliccio.

«Sei giovane, ragazzo, e il carattere si forgia anche in situazioni spinose come questa. Oso sperare che Asclepio sia ancora in mano a tuo fratello.»

«Sì, certamente.»

«Bene. Bene.»

Sorrise soddisfatto, si volse a mezzo per scrutare l'uomo che non aveva ancora parlato, e infine disse: «L'agente Eriksson prenderà in consegna il programma per metterlo al sicuro, così che...»

Interrompendolo sul nascere, Nickolas replicò caustico: «L'agente Eriksson non prenderà in consegna un bel niente. Asclepio è un marchio registrato della V.B. 3000 e, se soltanto proverete a prelevarlo coercitivamente, CIA o non CIA, vi porterò direttamente alla Corte Suprema.»

Domenic sorrise orgoglioso al padre mentre Tyler, accigliandosi leggermente, ribatteva: «Lei deve capire, Mr Van Berger, che un simile programma potrebbe mettere in pericolo non solo voi, ma anche i membri della vostra ditta, oltre a quelli del vostro nucleo famigliare. Vuole davvero avere sulla coscienza eventuali incidenti, cui potrebbero incorrere le sue maestranze o i suoi cari?»

«E' una minaccia, Dottor Tyler? Perché, se vuole, posso proporgliene una io» replicò a quel punto Hannah, sorridendo melliflua.

Dom ghignò.

Sapeva cosa voleva significare quel sorriso e, per un istante, desiderò abbracciarla e baciarla. Amava sua madre alla follia, quando faceva così.

«Mrs Van Berger, non travisi le mie parole. Quel che volevo dire è...»

«So benissimo cosa voleva dire» sottolineò la donna, accentuando il suo sorriso. «E' per questo che ho registrato la nostra conversazione fin da quando siete arrivati. E, prima che le venga in mente di farmi perquisire da una sua sottoposta al femminile, perché mi prelevi il registratore, sappia che conosco i miei diritti e che, fino a prova contraria, voi non mi potete toccare con un dito, senza mandato.»

Tyler divenne rubizzo in viso, e Dom temette potesse venirgli un infarto sul colpo.

Un attimo dopo, però, l'uomo recuperò il controllo e, piccato, si volse verso Eriksson per lasciare a lui ogni incombenza.

Senza salutare, se ne andò sulle sue gambette tozze, mentre Eriksson lo fissava con aria vagamente divertita e sì, disgustata.

«Ecco cosa intendevo con “cambio di guardia”» esordì l'agente, tornando a guardare i coniugi Van Berger e Domenic. «E' troppo legato alla vecchia scuola, alle velate minacce, al mostrarsi più grande, potente e cattivo di chi ha intorno.»

Sorrise e, lanciata un'occhiata intensa al giovane Van Berger, aggiunse: «Come se tu non potessi fare più danni in dieci minuti, nella tua stanza piena di computer, che lui in un'ora, con il telefono in mano.»

Domenic non disse nulla, e neppure Eriksson si aspettò una risposta.

«Asclepio, o per lo meno una sua copia, verrà inserito nel database dell'Intelligence come garanzia. Non verrà utilizzato in alcun modo, e i diritti d'autore rimarranno ovviamente alla V.B. 3000, ma il nostro direttore vi prega di essere quanto meno collaborativi.»

Nick lanciò un'occhiata al figlio, che annuì ed Eriksson, finalmente sorridendo tranquillo, allungò una mano verso il giovane per presentarsi ufficialmente.

«Michael Eriksson. Tanto piacere, Domenic. Da oggi, sono il nuovo supervisore della tua squadra. Tyler ha, diciamo, anticipato il suo pensionamento.»

Ghignò, prima di aggiungere: «Ha avviato le pratiche subito dopo aver spedito Kim dove sai tu, e io sono subentrato immediatamente dopo. Spero che il servizio taxi da Zama sia stato confortevole, visto che l’ho messo insieme io in quattro e quattr'otto.»
«Oh» esalò il giovane, stringendo quella mano forte e volitiva. Nulla, al confronto con quella di Tyler. «Quindi, tutti i collaboratori di Tyler passano a lei? Anche quelli non direttamente coinvolti con il progetto…»

Si interruppe, sorrise spiacente ai genitori, ed Eriksson sorrise divertito, annuendo.

«Sì. E, vista la situazione piuttosto complessa, almeno per il momento metteremo te e coloro che hanno partecipato, volente o nolente, alla missione, sotto il controllo della protezione testimoni» gli spiegò Michael, sorprendendo tutti.

«In che senso?» esalò Domenic, sorpreso.

Aggrottando la fronte, l'agente spiegò loro, sommariamente, i motivi di tale decisione.

«La scena primaria del crimine è stata annichilita, Domenic. Non c'è più nulla. Né le armi usate da tuo fratello e Yuki né, ovviamente, gli uomini di Tashida. E' sparito tutto, persino l'auto con cui sono fuggiti dalla casa di campagna dei Tashida. Hanno ripulito tutto.»

«Non vogliono interferenze da parte della polizia non coinvolta con i Tashida» ipotizzò Dom, accigliato.

Annuendo, Eriksson proseguì.

«Parlerò con te e il nostro agente sul campo in separata sede, per quello che riguarda la parte prettamente tecnica di ciò che è avvenuto, ma ai tuoi genitori posso dire questo. Cameron, almeno per il momento, verrà tenuto sotto stretta sorveglianza dagli agenti della protezione testimoni, esattamente come Domenic, Miss Shaw, Miss Tashida e Miss Nishima. Ufficialmente, farete sapere che non si hanno ancora notizie su di lui, e che Brandon Van Berger rimarrà all’ambasciata di Tokyo fino a nuovi sviluppi, ma senza rilasciare alcuna dichiarazione. La stampa non dovrà sapere altro.»

«Dove li condurrete?» si informò Hannah, stringendo la mano del marito per trovare in lui conforto e forza.

Nick gliela strinse, sorridendole.

«Non mi è concesso dirlo, Mrs Van Berger, per la vostra stessa sicurezza. Ma, grazie al telefono cellulare di Domenic, che utilizza la banda di frequenza del vostro satellite, potrete tenervi in contatto. Di più, per ora, non è possibile fare, almeno finché non avremo scoperto tutto ciò che riguarda i Tashida. Mi scuso fin d’ora ma, con l’abbandono improvviso di Tyler, ho un sacco di scartoffie a cui fare capo, e questo è un ulteriore problema oltre ai mille altri che devo risolvere.»

Eriksson si sfiorò l’orecchio per rispondere a una chiamata, assentì un paio di volte, dando fuggevoli risposte monosillabiche, dopodiché fissò Domenic e domandò: «La decrittazione?»

«Il programma sta ancora lavorandoci su.»

«Verrà trasportato tutto nella località designata per la vostra... domiciliazione temporanea, allora» lo informò Eriksson, assentendo.

Un rombo in lontananza li distolse da ulteriori spiegazioni e, quando il piccolo aereo militare iniziò la discesa verso la pista di atterraggio, Domenic tornò accanto ai genitori.

Entrambi poggiarono le mani sulle sue spalle e, quando l’aeromobile toccò finalmente le ruote sull’asfalto scuro e freddo, il giovane ebbe un sussulto.

Cam era lì, finalmente. E Yuki, zio Bran, Bryce…

Erano tutti lì, sani e salvi.

Ma erano ben lungi dall’aver risolto i loro problemi.

Finché il programma non avesse terminato la decrittazione, sarebbero stati tutti in pericolo.

A questo, però, avrebbe pensato più tardi.

Ora, voleva soltanto vedere suo fratello.

Quando i motori iniziarono a decelerare, e l’aereo si spostò in una pista di rullaggio, Domenic si scostò dai genitori per correre incontro al mezzo alato.

Se ne infischiò del richiamo di Eriksson, come dei toni concitati di alcuni militari. Lui voleva essere lì, quando la scala si fosse aperta.

Si bloccò soltanto quando fu a distanza di sicurezza e, non appena la scala discese, Dom si aprì finalmente in un sorriso.

Cameron era lì, primo dinanzi a tutti e, quando ancora gli scalini non avevano toccato terra, si scostò da Phie e si lanciò verso il basso, saltando il metro che lo separava dal terreno per abbracciare il fratello.

Infischiandosene del ginocchio lesionato.

Risero entrambi, con le loro voci così simili, si strinsero con forza per un attimo prima di scostarsi vicendevolmente, scrutando l’uno negli occhi dell’altro.

L’unico elemento che li distingueva, almeno esteriormente.

Rimasero così, per un’infinita serie di secondi, finché anche Hannah e Nickolas non li ebbero raggiunti.

Cam, allora, si scostò a fatica dal fratello per abbracciare i genitori e Phie, nel raggiungere Domenic per un abbraccio, rimase al suo fianco e disse: «Ha scalpitato come un cavallo imbizzarrito, fin da quando abbiamo cominciato a vedere la base.»

Dom ridacchiò a quella notizia e, quando anche Bryce e Brandon li ebbero raggiunti, salutò entrambi con un abbraccio.

Fu a quel punto che Eriksson giunse loro accanto e, dopo aver lanciato un’occhiata a Bryce, disse: «Agente… ho trovato il suo rapporto più che esauriente. Vorrei comunque parlare con lei di ciò che ha trovato a Miyazawa.»

Se per Domenic fu del tutto normale, per i restanti quell’approccio diretto – e imprevisto – fu più che sconvolgente.

Il giovane non vi fece alcun caso e, annuendo, strinse la mano di Eriksson, asserendo: «Mi avevano detto che Tyler sarebbe stato sostituito, ma non pensavo avrebbero scelto lei. Per una volta, mi hanno dato retta. Niente meno che il figlio del Dottor Eriksson, fondatore del Progetto Pilota Elite.»

L’agente sorrise sornione, replicando: «Dopo lunga e penosa sofferenza, hanno finalmente capito che, per trattare con cervelli giovani, servono uomini giovani.»

Phie, che aveva ascoltato tutto con espressione scioccata, puntò un dito contro Bryce ed esclamò: «Era tutta una balla, quindi! Tu e Kim vi conoscevate!»

Lui le sorrise contrito, ma disse: «Non personalmente, in effetti. Ma sì, siamo colleghi, anche se lavoriamo in ambienti diversi.»

Cam si mise le mani nei capelli, fissò fratello e amico d’infanzia con aria sconvolta e, alla fine, gracchiò: «Basta! Non vi sopporto più!»

Bryce e Domenic risero sommessamente ma, quando Yuki venne fatta scendere in barella dall’aereo, quest’ultimo perse del tutto la voglia di ridere.

Tenendosi aggrappato un momento a Phie per non cadere, impallidì visibilmente e, in barba a tutti, si allontanò dal gruppo per tallonare d’appresso la ragazza.

«Ehi, Dom!» esclamò Sophie, cercando invano di richiamarlo indietro.

«Lascialo andare» replicò Cam, sfiorandole un braccio.

Eriksson non tentò nemmeno di richiamare la sua attenzione e, rivolgendosi a Bryce, disse: «Vi lascerò tre ore di tempo per raccogliere il necessario per un viaggio piuttosto lungo, dopodiché verrò a prendere sia lei, che Mr Van Berger e Miss Shaw a casa con i nostri agenti.»

«Che cosa?! Che storia è questa?!» sbottò a quel punto la ragazza, accigliandosi.

L’agente le sorrise comprensivo, ma replicò lapidario: «E’ appena entrata nel programma di protezione testimoni, signorina.»

«EEEH?!» gracchiò, lanciando un’occhiata confusa a Cam, che però non seppe che dirle.

Era strabiliato – e irritato – non meno di lei.

Ciò detto, Eriksson si allontanò e Bryce, sospinta Sophie verso l’uscita, dove il resto delle loro famiglie li stavano aspettando, le disse in fretta: «Avrò tempo di spiegarvelo più tardi, ma ora è vitale che ci muoviamo alla svelta. Non dubito che gli uomini di Tashida cercheranno di scoprire che fine abbiamo fatto, visto che sanno già che, su quell’auto, c’eravamo noi.»

«Maledizione!» sbottò Phie.

Lui le sorrise benevolo, ma non disse altro. Dovevano muoversi in fretta, e non c’era tempo per essere delicati.






Note: Di sicuro, i nostri eroi sono ancora ben lontani dall'aver terminato le loro avventure. Nobu e Byron non li lasceranno andare così facilmente, e resta da scoprire chi abbia fatto la soffiata ai Tashida circa il programma Asclepio. Isomma, i guai non sono finiti. 
Grazie a tutti/e coloro che hanno fin qui letto e/o commentato.


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Capitolo 13
*** XIII Ghosts ***


XIII. Ghosts.
 
 
 
 
 
Le lacrime agli occhi le impedivano di essere veloce nel preparare le valige, ma sapeva che, entro breve, avrebbero bussato alla porta di casa sua per portarla via.

Dove, ancora non lo sapeva e, anche se le era sempre piaciuto viaggiare, dubitava che quest’ultima avventura l’avrebbe entusiasmata.

Era stanca, dolorante per il viaggio e per la frenetica fuga tra le vie di Tokyo.

E voleva parlare con suo padre.

Non aveva mai desiderato veramente mentirgli ma, vedere come avesse sempre malvisto i ragazzi che le ronzavano attorno, l’aveva spinta a mantenere il segreto.

Ora che voleva parlargliene, le mancava il tempo.

«Scricciolo…»

Quella voce baritonale, che l’aveva sempre chetata fin da piccola, la portò a sobbalzare per la sorpresa.

Nel volgersi a mezzo, scrutò oltre il velo di lacrime la figura imponente e forte del padre.

Lasciando perdere immediatamente la valigia, corse da lui per abbracciarlo e, nello stringersi a lui, mormorò contro il suo petto: «Scusa, scusa, scusa… non avrei dovuto mentirti anche su questo, ma non potevo davvero rimanerne fuori.»

Un bacio sfiorò i suoi capelli arruffati e Beau, scostandola da sé per asciugarle gli occhi, replicò sorridente: «Pensavi davvero che non mi sarei aspettato qualcosa del genere, da te? E dopo una simile uscita? Per Cameron l’amico, avresti messo tutto l’impegno possibile. Per Cameron l’amato, avresti messo in gioco tutta te stessa.»

Lei reclinò il capo, colpevole, e sospirò.

«Non volevamo davvero farvi soffrire, o arrabbiare. Avevo sedici anni, quando mi sono dichiarata a Cam, e pensavo non avresti accettato la cosa, visto che ero così giovane. E in seguito, beh… siamo stati come risucchiati dalla nostra stessa segretezza.»

«Cosa che va a braccetto con la famiglia Van Berger, a quanto pare» ironizzò Beau, avvicinandosi al letto della figlia, dove si trovavano le sue valige aperte.

La figlia annuì, esalando: «Non me lo sarei mai aspettato, da Dom. Cioè, certo, ha sempre avuto un alto senso del dovere e quant’altro, ma addirittura legarsi a doppio filo con la CIA? No, mi ha davvero sorpresa. E, soprattutto, mi ha sorpreso scoprire cosa sono in grado di fare lui e i suoi amici.»

Beau sorrise spontaneamente e, annuendo, le parlò di Minami e di come l’avesse sorpreso vederla comparire con quei suoi abiti così fuori dall’ordinario.

Lei ridacchiò, annuendo di rimando.

Nel sistemare gli ultimi abiti nella valigia, asserì: «E’ davvero brava, ma sembra matta come un cavallo.»

«Già» rise sommessamente Beau.

Gli occhi gli caddero inevitabilmente su una fotografia di alcuni anni prima e, nell’osservare la figlia, Cameron e Domenic sulle sponde del lago Tahoe, sospirò.

«Sembrate così innocenti, in quella foto. E ora siete invischiati in un affare così pericoloso che… che io…»

«Papà, andrà tutto bene. Ho fiducia in Dom e nei suoi amici. Come ci hanno tirato fuori dal Giappone con le loro diavolerie, così elimineranno il problema Tashida» lo rassicurò lei, sfiorandogli un braccio.

«Dovrei essere io a proteggerti, a vegliare su di te… non altre persone.»

«Lo hai sempre fatto. Solo, questa è una cosa che travalica un pochetto i compiti di un padre» replicò Phie, cercando di ironizzare.

Lui non abboccò e, avvolto il viso della figlia tra le mani, sussurrò: «Starai attenta, vero? E non parlo solo delle persone che vi seguono.»

«Sono sempre stata attenta, papà. E anche Cam» sorrise, e lo abbracciò. «Non ti parlerò di cose che ti farebbero venire certi pruriti alle mani, ma sappi che Cameron è l’uomo giusto per me, io lo amo e lui ama me.»

«E tanto mi basta. Ora, dovrò solo farmene una ragione» ironizzò a quel punto lui, chinandosi per darle un bacio sulla fronte. «Finisci le valige e vai dalla mamma. Vuole salutarti.»

«D’accordo, papà.»

 
§§§

«Come sarebbe a dire che sei un agente della CIA?!» sbottò Berenike, puntando le mani sui fianchi con aria dispotica. «E’ per questo che, spesso e volentieri, i casi che seguivi erano lontano da casa? Non stavi affatto lavorando per l’agenzia. Non per la nostra, almeno!»

Todd ridacchiò di fronte al cipiglio della moglie mentre Bryce, instancabile e pacato, finiva di preparare la sua valigia.

Sapeva che quel momento sarebbe ben presto arrivato e, quando Eriksson gli aveva concesso il benestare per parlare del suo impegno con l’Intelligence, non aveva atteso oltre.

Con i risultati che si era aspettato fin dall’inizio.

«Mamma, se urli un po’ più forte, potrebbero sentirti anche in Cina. Ho le orecchie ancora buone, sai?» replicò serafico, chiudendo la zip della sua sacca con un gesto veloce.

«Urlo perché sono furibonda. Da quando in qua, mio figlio fa qualcosa alle mie spalle?!»

«E’ un tantino più complicato di così, mamma, e comunque non faccio il trafficante di droga. Sono un rispettabile dipendente statale.»

«Già. Peccato che sei perennemente in zone ad alto rischio, e sei sempre sotto mentite spoglie!» sbottò la donna, perdendo di colpo ogni desiderio di apparire tosta e determinata.

Sospirò e, appoggiandosi totalmente al marito, aggiunte mesta: «E’ davvero necessario fare un mestiere così pericoloso?»

Bryce non si lasciò scoraggiare; era preparato anche alla fase remissiva di Berenike Preston Kendall. Sua madre era una maga, nel far sentire in colpa la gente.

«Ho le mie ragioni per farlo e forse, un giorno, ve ne parlerò. Ma di certo, non ora. E’ un discorso troppo lungo, ma sappiate che sono motivato e convinto di quello che faccio, non rischio mai più del necessario e, con l’aiuto di Domenic, sono sempre riuscito a tornare a casa indenne.»

Berenike fece per ribattere ma il marito, azzittendola con uno sguardo dolce ma determinato, scosse il capo.

«Parti pure tranquillo, Bryce. Ci parlerai di tutto a tempo debito, se potrai. Sappi solo che siamo molto orgogliosi di quello che hai fatto, e di quello che farai.»

«Grazie, papà» gli sorrise grato, avvicinandosi per un rapido abbraccio.

Berenike fu lesta ad abbandonare il fianco del marito per un suo abbraccio personale e, dopo aver dato un pizzicotto sul naso al figlio, borbottò: «Non dimenticarti di noi, mentre sei in capo al mondo, d’accordo?»

«Lo farò» assentì Bryce, tornando al suo letto per recuperare le sue cose.

Un attimo dopo, era fuori di casa, pronto per una nuova missione.

Berenike, sospirando, lo scrutò dalla finestra della camera mentre, tranquillo e sicuro di sé, saliva su un’auto scura e dai vetri blindati.

Todd, al suo fianco, mormorò: «Te lo saresti mai aspettato?»

«No. E ho intenzione di detrargli un bel po’ di trasferte dalla prossima busta paga, a quel traditore di mio figlio» brontolò la donna, facendo scoppiare a ridere il marito.

 
§§§

I sedili dell’aereo, su cui erano saliti poco meno di un’ora prima, erano decisamente più comodi di quelli che li avevano ricondotti in patria.

Ma, soprattutto, a rendere ben differente quel viaggio rispetto al precedente, alemno agli occhi di Cam, era la presenza di Domenic.

Abituato fin dalla culla ad averlo accanto, vivere un’esperienza così agli estremi come quella, gli aveva fatto sentire terribilmente la sua mancanza.

Averlo lì, ora, seduto al suo fianco, era per lui una immensa fonte di sicurezza.

Gli occhi color dell’oceano di Dom si levarono dal libro che stava leggendo sul suo kindle e, sorridendo al gemello, disse: «Che c’è? Non ti ricordi più che faccia ho? Eppure dovresti saperlo, visto che è spiccicata alla tua.»

Cam sorrise, lieto che i recenti eventi non avessero spento la famigliarità che c’era tra loro.

«Mi stavo solo chiedendo come ho fatto, in questi anni, a essere così cieco. Avrai pensato che ero un maledetto idiota.»

Domenic, allora, mise via il kindle e, scuotendo il capo, replicò serio: «Non lo penserei neppure tra cento anni, Cam. Sono io che ho tentato il tutto e per tutto di tenerti fuori dalla cosa, sperando di allontanare da te pericoli di ogni genere. Poi, come uno sciocco, ti ho dato Asclepio senza pensare che qualcuno avrebbe potuto trovarlo così allettante da uccidere per averlo. Anche se ancora mi chiedo perché i Tashida si siano spinti a tanto. Non sapevano ancora nulla, sulle sue potenzialità. O almeno così pensavo. Ora non ne sono poi così sicuro.»

Sospirò, scosse il capo e rammentò ciò che aveva provato quando, recatosi dalle famiglie di Leon e Sebastian, aveva abbracciato entrambi i loro genitori per le perdite subite.

Anche solo per loro, avrebbe ridotto la Tashida Group a un cumulo di macerie.

«Eravamo tutti coinvolti, Dom, e tutti ci fidavamo di Noboru. Io per primo» mormorò in risposta Cam, storcendo il naso per il fastidio. «Ho dato a quell’uomo la mia fiducia, l’affetto di un amico sincero, e sono stato ripagato con la moneta che ben sai. Anche se tu sei convinto che, dietro a tutto, ci sia in primis Nobu, questo non toglie che suo padre sa tutto… e ha cospirato contro di me e sua figlia per avere Asclepio

Sentir menzionare Yuki portò Dom a irrigidirsi e Cameron, sorridendogli comprensivo, sfiorò il suo braccio per confortarlo.

«Starà bene, Dom. Non temere per lei. E’ la donna più forte che io conosca e, viste la mamma, Serena e Phie, direi che è un complimento.»

Il gemello gli sorrise grato e Cam, non contento, gli domandò: «Da quanto va avanti?»

«Che cosa?» replicò per contro il fratello, serafico.

Cameron lo fissò scettico e Dom, per tutta risposta, sorrise contrito.

«Scusa. E’ l’abitudine a non dire le cose. Vuoi sapere di Yuki-necchan

«Solo se ti va di parlarne» sottolineò il fratello.

Domenic gli sorrise e, nel chiudere gli occhi, poggiò il capo contro la spalla del fratello.

«Vorrò sempre parlare con te, fratellino, e credimi… mi doleva il cuore, a non dirti tutto quello che facevo. Ora che sai, mi sento molto meglio.»

«Anch’io… anche se continuo a chiedermi se, impegnandoti in un’impresa simile, tu non ti sia sentito ancor più solo.»

Sorpreso da quell’uscita, Domenic risollevò il capo per guardare il fratello negli occhi di colomba.

Diceva sul serio, perciò sorrise.

«Ma io non mi sono mai sentito solo. C’eri tu, c’era Phie, c’erano mamma e papà, i nonni, gli zii, i nostri cugini, gli amici. Come avrei potuto sentirmi solo?»

«Sai benissimo cosa intendo» gli ritorse contro il gemello, accigliandosi.

«E’ proprio quello che sto dicendo, Cam. Aver proceduto qualche passo avanti a te non mi ha mai dato fastidio, credimi, né mi ha mai dato fastidio vedere ragazzi più grandi di me ai corsi cui partecipavo. E sai perché?»

Cameron scosse il capo e Dom, tornando a poggiare il capo contro la spalla del gemello, mormorò: «Perché sapevo che a casa ci sareste stati tu e Phie, la mamma, il papà, tutti quanti. E, quando ero all’università, voi eravate lì con me, sempre.»

«Eppure, mi sembra di non aver mai fatto abbastanza per te.»

«Solo perché hai la mania di voler essere il mio eroe a tutti i costi» ridacchiò il gemello, ammiccando all’indirizzo di Cam. «Lo sei comunque, anche senza che tu faccia cose strane.»

«Oh, lo sei più tu, specialmente dopo il modo in cui ci hai tirati fuori da lì.»

Domenic sorrise, e disse con semplicità: «E’ così che, di solito, aiuto gli agenti sul campo come Bryce.»

Cam ridacchiò al pensiero e, con lo sguardo, andò a qualche poltrona di distanza, dove l’amico detective stava parlando con il supervisore di Dom, l’Agente Eriksson.

«Forse, quello che mi ha stupito più di tutti, è stato lui, alla fine.»

«Bryce ha la faccia giusta, e il mestiere giusto, per passare inosservato anche in piena vista» ammise Dom. «Lo scoprii per puro caso, due anni fa, quando dovetti riportarlo a casa dal Messico. Si era immischiato in un affare bello incasinato, e ho dovuto lavorare un bel po’. Fu così che venni a sapere come era entrato nella CIA.»

«E perché?»

Aggrottando la fronte, Domenic scosse il capo e replicò: «Te lo dirà lui, se vorrà. E’ una cosa parecchio privata.»

«Okay. Ma non ho dimenticato che ti ho chiesto di Yuki-necchan, sai?»

Domenic ridacchiò.

«Avevo sperato che tanto sparlare ti avrebbe confuso le idee. Comunque, è iniziato tutto durante il viaggio in Hokkaido di sette anni fa. Già da un po’ covavo dell’interesse, ma vederla assieme a Shinichi-san ha fatto saltare tutte le mie barriere. E fu proprio questo a convincermi a partecipare al progetto Elite

Cam annuì, rammentando quel bellissimo periodo, ora macchiato dalla verità più nera.

«E lei lo sa?»

«No. Non le ho mai detto nulla. Non l’avrei mai messa di fronte a una scelta simile, anche se vederla con quel tizio mi irritò parecchio» ironizzò Domenic, spallucciando.

Cameron ghignò a quel commento.

«Vorrei pure vedere il contrario, fratellone.»

Dom si limitò a sorridere e il fratello, scrollandolo appena, disse: «Perché non vai nel retro dell’aereo con lei? Casomai si svegliasse. Una faccia amica le farebbe di sicuro piacere.»

Domenic tentennò, restio ad allontanarsi dal fratello, ma Cam insistette.

«Vai da lei. Davvero. Da quel che ho capito di questa protezione testimoni, avremo un sacco di tempo da passare assieme.»

Annuendo, il gemello si alzò e, dopo averlo salutato con un cenno, si avventurò sul retro dell’aeromobile, seguito dallo sguardo di Cam e di Phie.

«Va da Yuki-necchan

«Sì» assenti Cameron, sorridendo leggermente.

Aveva idea che fosse l’unica persona che, al risveglio, la ragazza avrebbe voluto vedere.

 
§§§

Vedere Yuki stesa su una barella, per quanto tecnologicamente avanzata essa fosse, non gli piacque per nulla.

Il medico umano che era con lei gli sorrise, nel vederlo giungere.

Non c'erano biodroidi, a bordo con loro.

Potevano essere rintracciati con i satelliti, e un bravo hacker avrebbe potuto bypassare il loro sistema di controllo, esaminando l'interno della carlinga dell'aereo, smascherandoli.

Tutto era stato predisposto perché fossero irrintracciabili da cielo e terra, fin da quando avevano lasciato la base di Zama, e poi dall’aeroporto della base di Edwards.

Niente era stato lasciato al caso.

Se erano riusciti a rintracciare Yuki con così sconcertante precisione, qualcosa era andato storto nella catena di segretezza, e non potevano più rischiare tanto.

Salutato il dottore con un cenno della mano, Domenic si accomodò su una delle poltroncine libere dell'aereo e domandò: «Come sta?»

«La milza è stata asportata durante il viaggio da Tokyo a Los Angeles. Erano passate troppe ore e, anche se l'agente Kendall le ha salvato la vita, con il suo intervento di emergenza, non si è potuta evitare l'asportazione.»

Annuendo, Dom non se ne preoccupò.

La milza non era un organo vitale e, se proprio Yuki ne avesse sentito la mancanza, avrebbe potuto farselo ricrescere.

«L'anamnesi attuale?» chiese poi, cercando di mantenere il controllo della sua voce.

Il dottore esaminò lo schermo del microcomputer collegato al corpo di Yuki e, dopo avervi dato una scorsa veloce, disse: «La cicatrizzazione della ferita è al settantatré percento. Prevedo che, entro domattina al massimo, potrò togliere le graffette. I nanobot stanno suturando la ferita per evitare cicatrici visibili. Abbiamo pensato lo avrebbe preferito.»

Sorrise cordiale, e Domenic assentì.

Non conosceva Yuki così bene da sapere se avesse una passione segreta per le cicatrici, ma dubitava che fosse il tipo.

«Non persistono infezioni di nessun tipo e, a parte la pressione un po' bassa – a cui sto lavorando grazie a una blanda somministrazione di stimolanti – il quadro generale è ottimo. Miss Tashida si riprenderà nel giro di due, tre giorni al massimo.»

«Molto bene. Grazie, dottor Arakawa.»

«Posso prescrivere a te un calmante, ora? Hai l'aria di averne bisogno. Soprattutto, devi dormire» lo informò bonariamente l'uomo, sorridendogli.

Domenic ridacchiò, si passò una mano tra i capelli e scosse il capo.

«Rimarrò un po' qui a riposare. Mi basterà» replicò il giovane, abbassando lo schienale della poltrona.

Immediatamente, i cuscini in acquagel si sagomarono attorno al suo corpo e Domenic, chiusi gli occhi, si assopì nel giro di pochi attimi.

Arakawa, allora, batté un paio di volte le mani per abbassare le luci nell'ambiente e, dopo aver preso con sé il sensore allarmante dal microcomputer – che lo avrebbe avvisato in caso di bisogno – si allontanò.

 
§§§

Il dolore era minimo, e ronzava in un angolo della sua mente come un memento che non riusciva ad afferrare.

Perché sentiva dolore? Non lo rammentava.

Tutto era oscurità, attorno a sé, e lei camminava in quell'ovattato silenzio senza riconoscere né odori né rumori.

Allungò una mano, cercando a tentoni qualcosa che le facesse capire dove si trovava e, quando essa sfiorò qualcosa di caldo, di familiare, la luce fece il suo ingresso in quel mondo oscuro.

Riaprì gli occhi.

Confusa, si guardò attorno, vide gli oblò di un aereo, file di sedili ergonomici, alcuni macchinari ospedalieri e, sorpresa delle sorprese, la sua mano stretta a quella di una persona.

Volse lo sguardo, curiosa, e si ritrovò ad affondare in due profondità oceaniche senza fondo, profondità che conosceva, ma che mai avrebbe pensato di rivedere tanto presto.

«Domenic-kun...» mormorò, la voce impastata e goffa.

Lui sorrise, stringendo maggiormente la sua mano, e rispose con ironia al suo mormorio.

«Devi essere guarita del tutto se, al primo colpo, mi riconosci da mio fratello. Ciao, Yuki-necchan

«Sei tu che hai l'oceano negli occhi...» rispose lei, accennando un sorrisino ironico.

«Non tutti notano i particolari al primo sguardo» sottolineò per contro il giovane, tornando serio. «Ma avrei dovuto sapere che tu, invece, sei abile proprio in questo.»

«Cos'è successo, Domenic-kun? Dove mi trovo? Cameron-kun, Sophie-chan e...»

Dom le poggiò un dito sulle labbra, azzittendola e, tornando a sorriderle, le spiegò ogni cosa.

Le disse del suo ferimento, della corsa rocambolesca per raggiungere la base di Zama, delle manovre ai limiti della fisica di Sophie lungo le vie trafficate di Tokyo.

A quell'accenno, Yuki ridacchiò.

Le spiegò, inoltre, della sua operazione, dell'asportazione della milza e dell'utilizzo dei nanobot per eliminare la presenza di cicatrici visibili dal suo corpo.

«Oh, bene. Non ci tengo a sembrare un rappezzo di fortuna. Ne ho già anche troppi, di rattoppi» ironizzò Yuki, prima di notare lo sguardo preoccupato di Domenic.

Lei allora sospirò, si passò una mano tra i capelli – avevano bisogno di essere lavati – e ammise: «Non ho detto tutto, a Tyler. Sorry

«Cam mi ha detto che pratichi il ninjutsu come una professionista. E che sei stata tu a salvarlo dagli uomini inviati in albergo per catturarlo.»

La giovane annuì, non sapendo bene come sentirsi sotto quello sguardo colmo di gratitudine.

Non la voleva, la sua ammirazione, non dopo tutto quello che la sua famiglia aveva fatto contro di loro. Contro di lui.

«Sono un po' di anni che lo pratico e, visto che conosci mio fratello Nobu-chan, puoi anche immaginarti il perché. Mi faceva così paura che non ho trovato sufficiente saper difendermi solo con le arti marziali tradizionali. E sai che io non uso armi da fuoco.»

Domenic sogghignò per un attimo, annuendo.

La ricordava benissimo, ai campi di addestramento della CIA, quando avevano dovuto seguire quel corso base di autodifesa.

A quel punto, immaginò senza problemi che Yuki avesse nascosto molte delle sue abilità, all’epoca, e l’idea lo divertì parecchio.

Chissà quanti addestratori avrebbe potuto atterrare, solo volendolo.

«Tradizionale fino al midollo, lo so» chiosò a quel punto Dom.

«Ti da noia l'idea che io abbia ucciso quegli uomini?» gli domandò per contro Yuki, mettendosi un poco sulla difensiva pur non volendo.

Teneva molto all'opinione di Domenic e, il solo pensiero di deluderlo, la turbava più di quanto volesse ammettere anche con se stessa.

«Mi darebbe noia solo se ti avessero fatto del male, o ne avessero fatto a Cam» si limitò a dire lui, lapidario e scuro in viso.

Lei allora sorrise appena e, contrita, mormorò: «Mi spiace non essere arrivata in tempo per salvare le guardie del corpo di Cameron-kun

«Hai già fatto molto... Sakura

«L'hai visto» sussurrò soddisfatta, illuminando il viso con un sorriso speranzoso. «Speravo fossi stato tu a toglierlo dal programma. Sei riuscito a recuperare ciò che ho trovato? E' utilizzabile in qualche modo?»

«Lo scopriremo presto. Per ora, devi solo pensare a recuperare le forze e... ti piace sempre la neve, vero?»

Di fronte al suo sorrisino ironico, lei gli domandò confusa: «Perché?»

Lui allora la strattonò un poco, spingendola gentilmente a mettersi seduta, e Yuki acconsentì con qualche difficoltà.

Dopo un attimo di tentennamento, poi, mise giù i piedi dalla barella e si lasciò aiutare da Domenic a mettersi in piedi, nello stretto corridoio dell'aereo.

Lì, rimase qualche attimo con la mano destra poggiata sul petto del giovane, mentre la sinistra persisteva nella sua stretta.

Si sentì protetta, al sicuro, e questo le piacque.

Quei giorni passati in fuga l'avevano fatta sentire tremendamente sola, pur se era sempre stata in compagnia di Cameron.

«Guarda» le mormorò all'orecchio Domenic, facendola volgere leggermente verso gli oblò.

Fuori, in lontananza, un'immensa e apparentemente interminabile distesa di neve, si stendeva fin dove l'occhio poteva correre.

Il riflesso fu così forte che Yuki dovette stringere le palpebre.

«Wow. Dove stiamo andando?»

Domenic le avvolse la vita per sorreggerla, quando la sentì tremare lievemente e, sorridendo appena, disse: «Alaska. Stiamo andando ad Anchorage. C'è una casa protetta della CIA, lì. Per il momento, il direttore preferisce tenerci lontano dai guai e dai curiosi, almeno finché non verremo a capo di tutti i documenti cifrati che ho estrapolato dalla Tashida Group.»

Al solo sentir nominare il nome di famiglia, Yuki sospirò, reclinando colpevole il viso ma Dom, indispettito, glielo risollevò con un dito.

Lapidario, poi, asserì: «Non pensare mai, mai, che io possa confondere te con loro. Tu sei diversa. E hai salvato mio fratello. Questo, per me, è sufficiente.»

Ancora quella gratitudine.

Yuki sospirò nuovamente, annuì e tornò a scrutare il panorama, lasciando che Domenic pensasse a sostenerla.

Non le piaceva la gratitudine, soprattutto la sua, ma non era così egoista da dire agli altri quello che dovevano provare.

E, di sicuro, non lo avrebbe mai detto a Domenic.





 

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Capitolo 14
*** XIV Alaska ***


 
XIV. Alaska.
 
 
 
 
 
L'abitazione era quasi totalmente isolata dal resto del mondo, sita lungo una strada chiusa, circondata dal Parco Nazionale e da metri e metri di neve.

L'aria era molto più che frizzante e il cielo, cupo e ricoperto di nubi, non lasciava intravedere neppure una parvenza di sole, già basso sull'orizzonte.

Minami, infagottata in un pesante parka e, per una volta, scevra di tutti i suoi abiti vezzosi e della parrucca enorme, si guardò intorno dubbiosa e mugugnò: «Se dentro non c'è neppure un computer, impazzirò in meno di trentasei ore.»

«Cervelloni...» ironizzò per contro Cameron, ghignando al suo indirizzo.

Lei gli fece la linguaccia mentre Bryce, ora in divisa ufficiale da agente CIA, avanzò assieme a quattro colleghi per controllare che il perimetro fosse sicuro.

Altri tre agenti rimasero con Cameron e compagni e, in fretta, li fecero entrare nella villa di tre piani in sassi e legno.

Se all'esterno appariva come un confortevole, ma normalissimo, chalet di montagna, con tanto di tronchi levigati e tendine di pizzo alle finestre, l'interno somigliava più a un bunker.

Le finestre erano blindate, potevano all'occorrenza essere oscurate e, su ognuna di esse, si trovavano sensori di movimento già attivi.

Le porte, spesse cinque centimetri, erano in kevlar rinforzato, abbellite all’esterno  con pannellature lignee color cigliegio.

Le camere da letto, che gli agenti controllarono prima di dare il via libera, avevano finestre oscurabili, e anch'esse potevano contare su vetri antisfondamento e sensori.

Quando Domenic entrò nella sua, lasciò cadere la valigia sul pavimento in parquet color sabbia e si guardò intorno, studiando l’ambiente.

Osservò per un istante il semplice letto a due piazze, la sua struttura arcuata e la marea di cuscini presenti sul letto e sulle poltrone ergonomiche.

Sorrise, chiedendosi chi fosse stato ad ammobiliare quel luogo. Forse, una donna, vista la marea di cuscini.

A ogni modo, era un buon posto per riposare ma, in quel momento, il suo pensiero era legato a qualcosa di più importante che un letto comodo e un pisolino.

In fretta, uscì dalla stanza dai toni del marrone e del verde, ben più preoccupato per i suoi computer, che per l'alloggio in sé e per sé.

Cameron, per contro, lo raggiunse quasi di corsa e, afferratolo alle spalle, esalò disgustato: «Non mi verrai a dire che, con tutto questo ben di dio di neve e impianti sciistici, noi non possiamo uscire?!»

Dom fissò basito il fratello, cercò di capire se stesse scherzando o meno – no, non scherzava – e, infine, sospirò esasperato.

Gelido, quindi, gli ringhiò contro: «A volte, mi chiedo sei hai sale in zucca. Ma capisci perché siamo qui?»

«E tu capisci che, se nessuno di noi uscirà mai di qui, qualcuno potrebbe insospettirsi?»

Domenic si accigliò, ma non poté ribattere.

Era dannatamente vero.

Anche se avevano scorte di viveri per mesi interi, e non necessitavano di uscire per recarsi al supermercato, non potevano essere del tutto invisibili.

Le tracce sulla neve erano state lasciate, e qualche turista avrebbe potuto notarle.

Le luci stesse della villa potevano attirare l’attenzione, e non potevano nascondere il fumo derivato dalla combustione della legna nel camino.

Il fatto stesso di provare a rendersi del tutto invisibili, avrebbe potuto creare dei problemi, e più di qualche sospetto.

Se c’era una cosa che attirava i curiosi, erano i misteri.

E lui non voleva finire in quelle case sperse nei boschi, dove gli unici contatti col mondo erano gli animali selvatici e le piante d’alto fusto.

No, in qualche modo, dovevano rendersi almeno in parte visibili.

«In ogni caso, tu non potrai uscire. Persino i sassi ti conoscono, e ci sono troppe telecamere a circuito chiuso, Viewscan e quant'altro, ad Anchorage, ivi compreso sulle piste da sci. No, tu sei confinato in casa esattamente come me.»

«Vuoi dirmi che solo Phie e Minami, possono uscire? Oltre, ovviamente, agli agenti di scorta?» esalò sconfortato Cameron, facendo tanto d'occhi.

«Brutto da dire, ma sì. Loro non sono nel mirino dei Tashida mentre tu, io e Yuki-necchan, decisamente sì.»

«Sappi che ora sono furioso» brontolò Cam, infilando le mani in tasca con espressione sconfortata.

«Ne hai tutto il diritto» assentì il gemello, imitandone la posa.

«Andiamo a cucinare? Mi è venuta fame, e giù ho visto una cucina che merita di essere almeno testata» aggiunse a quel punto Cameron, avvicinandosi al fratello per dargli un colpetto con la spalla.

Dom lo seguì in silenzio e Phie, spuntando in quel momento dalla sua stanza, sorrise nel vederli discendere insieme le scale.

Poco dietro di lei, Minami osservò la scena senza capire e, rivoltasi alla ragazza, chiese lumi.

Sophie, allora, si appoggiò allo stipite della porta, lanciò un'occhiata oltre il ballatoio del primo piano – da cui si intravedevano l'ampio open space d'entrata e la cucina – e asserì: «Hanno imparato quando avevano circa dodici, tredici anni. Quando erano così arrabbiati da volersi prendere a pugni, Hannah li metteva ai fornelli, in modo tale che sfogassero in altro modo la loro rabbia.»

«E capitava spesso?» si informò Minami, curiosa.

«A quell'età, sì. Cam si ostinava a dire al gemello di uscire di casa, di andare a giocare a palla con gli amici, e l'altro non voleva, preferendo starsene dentro a studiare. In realtà, Cameron non voleva che il fratello si isolasse dagli altri, così si infuriava quando Domenic si rifiutava di uscire.»

La giapponese ridacchiò, divertita dalla storia. Ma disse: «Capisco bene Domenic-san. Il computer ha un fascino tutto particolare.»

«Anche tu hai un Q.I. come il suo?»

Minami sgranò gli occhi, a quella domanda, e scosse ferocemente il capo.

«Oh, no, del tutto normale, il mio! Infatti, certe cose, neppure capisco come Domenic-san riesca a farle. Mi ha insegnato molto, da quando sono entrata a far parte del gruppo che lui supervisiona, e sono brava nell'hackering puro, ma certe cose proprio mi sfuggono. Ero poco più di una bambina, quando mi beccò a curiosare nel mainframe della V.B. 3000. Stupidamente, pensavo di essere abbastanza brava da bucare il loro sistema di sicurezza.»

Rise di quel ricordo e, nell’appoggiarsi alla balaustra del ballatoio, guardò dabbasso, scrutando i gemelli alle prese con il frigorifero: «Mi chiese se volevo evitare la galera, - se combini certi casini, ti sbattono dentro anche a tredici anni, in Giappone . Sai, dargli una mano con il suo gruppo e diventare una whitehat… cose così.»

«Eppure, mi pare che anche tu sia molto brava. Dom ha decantato molto le tue doti» esordì una voce dietro di loro, sorprendendo le due ragazze.

«Kendall-san... o dovrei dire Agente Kendall?» ironizzò Minami, ammiccando con i suoi scuri occhi neri. «Perché non ti sei identificato, a Tokyo? Avresti potuto evitare di fare la parte dell'imbranato.»

Bryce ridacchiò e, scrollando le spalle, replicò: «Mi viene bene, ammettiamolo. E poi, ero in missione operativa sotto copertura. Non potevo scoprirmi... neppure con te.»

«Tyler ancora non si fida di noi, eh?» brontolò la nipponica, storcendo il naso. «E’ una fortuna che abbia preso la via della pensione. Non era proprio il tipo giusto, per questo genere di mansioni.»

«Già. Domenic ci ha litigato per ore, ma non è servito a nulla. Per questo, siamo partiti così tardi da Los Angeles. Avremmo potuto iniziare la missione con almeno dieci ore di anticipo.»

Phie, che aveva seguito a stento il loro scambio di battute, sospirò e disse: «Non so se mi abituerò mai a saperti un agente della CIA. Ma come ti è saltato in mente, Bryce?»

«Ricordi che ti parlai della confraternita all'università?» le domandò allora lui, ammiccando.

«Sì, certo.»

«Beh, è nato tutto lì.»

Sophie attese che continuasse, ma lui si murò la bocca e, senza dire altro, discese le scale per raggiungere i gemelli che, nel frattempo, si erano messi a pulire della lattuga.

«Lo odio, quando fa così» sibilò Phie, prendendo sottobraccio Minami per scendere dabbasso a loro volta.

La nipponica si limitò a ridacchiare ma, quando raggiunse la cucina assieme alla sua nuova amica, rimase sorpresa da quel che vide.

Visti di spalle, era impossibile riconoscere i due Van Berger, se non per una lieve differenza nella loro acconciatura.

Cameron portava i capelli corti, a spazzola, mentre quelli di Domenic erano più lunghi, e cadevano in onde sulla fronte e sul collo.

Entrambi, però, erano alti e dalle spalle ampie, dalle linee slanciate e abili nei movimenti.

Vederli all'opera, era come essere di fronte a una catena di montaggio ben oliata.

Ciò che iniziava uno veniva terminato dall'altro, in un susseguirsi armonico di movimenti.

Minami esalò sorpresa e mormorò: «Sono davvero...»

«Eufonici?» le suggerì Phie.

«Sì, sembra l'armonia di un'orchestra perfettamente a tempo. Incredibile.»

Sophie ridacchiò, e le disse: «Vuol dire che sono furiosi. Più vanno a tempo e si concentrano, più hanno i nervi a fior di pelle.»

«Sempre detto che sono strani» chiosò Bryce, servendosi da bere direttamente dal frigorifero.

 
§§§

Un quieto bussare alla porta, seguito da una domanda educata e composta.

Yuki sorrise spontaneamente.

Era difficile pensare a Domenic come a una persona impulsiva, eppure rammentava bene come avesse colpito il suo precedente supervisore.

Non se l'era aspettato, da lui, ma era questo a colpirla ogni volta.

Sapeva sorprenderla sempre e, anche quella volta, quando lo vide entrare con un vassoio in mano, si chiese cosa gli fosse preso.

Sbattendo le palpebre per la confusione – aveva notato la mancanza di droidi in casa, ma non ne aveva chiesto lumi – gli domandò: «Beh? Ti metti a fare il maggiordomo?»

Lui si limitò a sorridere e, nel posare il vassoio sulla vicina scrivania, le domandò: «Ti senti meglio? Ormai, i nanobot dovrebbero essere stati assorbiti dal tuo organismo.»

«Ho un po' di solletico al fianco. Si vede che non hanno ancora finito. Per il resto, sto bene.» Poi, indicando il vassoio, ammiccò. «Potevo scendere senza problemi, sai?»

Domenic scrollò le spalle e, nel sedersi sul letto, disse: «Dovevo stare lontano da mio fratello per non gonfiarlo di pugni.»

Yuki lo fissò senza parole e, nel portarsi alla scrivania per mangiare – a giudicare dal profumo, doveva esserci della carne di ottima qualità, sotto il coperchio d'acciaio – rise sommessamente.

«Ma come? Tanta fatica per salvarci, e poi vuoi gonfiarlo di pugni?»

«E' indisponente, anche se lo capisco. Tenerlo al chiuso, è come togliergli l'aria. Ma non possiamo fare altrimenti, finché non capisco come decrittare tutto.»

Il tono di Domenic si fece pensoso e Yuki, desiderosa di confortarlo, si volse verso di lui, ignorando la cena.

«Sai che io e Minami-chan ti daremo una mano, vero?»

«Certo. Ma, ugualmente, non sarà una cosa facile, e l'idea di tenere in gabbia mio fratello mi angustia» sospirò Domenic, reclinando il viso.

Quando mai avrebbe pensato un momento a se stesso, quel ragazzo?

Anche quell'impegno assiduo, che aveva preso sulle sue giovani spalle all'età di  diciotto anni, non era forse diventato troppo, per lui?

Ma era inutile che Yuki si chiedesse cose simili.

L'abnegazione e l'impegno di Domenic erano totali, e niente lo avrebbe distolto dal suo ruolo di caposquadra.

E che squadra!

Un branco di scombinati, sempre ai limiti delle leggi federali americane e internazionali, tenuti assieme dal suo carisma, e dalla non secondaria promessa di evitare il carcere.

Sorrise a quel pensiero, e disse: «Cameron-kun capirà in fretta che, primo, tu non c'entri nulla, secondo, un po' di tranquillità domestica può far bene anche a lui. Inoltre, credo che Sophie-chan lo terrà così occupato, che neppure penserà alle piste da sci.»

Il giovane annuì, ridendo sommessamente per quel commento.

Non aveva dubbi che, dopo il pericolo corso, quei due avrebbero passato parecchio tempo in camera da letto.

Con un sorriso, lanciò uno sguardo al vassoio ancora coperto, e mormorò: «Mangia. Non vorrei si freddasse.»

«L'hai preparata tu? Ho notato che non ci sono droidi in casa, né ne ho visti all'esterno o sull’aereo.»

Annuendo, Domenic le spiegò l'arcano.

«Per eludere il sistema di sicurezza interno dei droidi domestici, dovrei commettere troppe effrazioni nel sistema, e questo non rientra nel mio salvacondotto CIA. No, meglio fare a meno di un po' di servitù robotica e tornare ai cari, vecchi metodi. E poi, cucinare mi rilassa.»

«E ti viene bene» commentò Yuki, dopo aver assaggiato un pezzo di carne al sangue, annaffiata con aceto balsamico e cosparsa di aneto.

Inforchettata l'insalata, se la portò alla bocca e, dopo aver ingollato il tutto con espressione soddisfatta, si volse a mezzo verso Domenic e aggiunse: «Ribadisco. Potresti aprire un ristorante tuo, con una mano simile.»

Dom le sorrise grato e ristette nella stanza della ragazza a guardarla mangiare, lieto anche soltanto di saperla viva.

Parlarono del più e del meno, evitando tutti gli argomenti più spinosi, come il tradimento dei Tashida e il pericolo incombente che li stava cercando.

La luce all'esterno si spense del tutto, e il cielo tornò di un cupo color nero fumo, senza neppure una stella a illuminare quell'immensa distesa monocroma.

Alcuni lampioni tentarono di abbattere quell'oscurità ovattata, lanciando aloni rosati sulla neve fresca attorno a loro.

Quando infine Yuki terminò la cena, Domenic si alzò per portare via il vassoio ma la giovane, afferrata una mano dell'amico, mormorò: «Domenic-kun... grazie per averci trovati.»

Lui le sorrise, si chinò verso di lei per deporle un casto bacio sulla fronte liscia e, nello scuotere il capo, replicò: «Non dirlo neppure. Vi avrei riportati a casa a ogni costo, anche contro il parere di Tyler. Era mio dovere, no?»

Yuki cercò di non apparire delusa da quell'ultima frase e, annuendo, lasciò la presa.

«Eriksson non potrebbe avere di meglio, come caposquadra di noi sbandati.»

Dom ridacchiò a quel commento e, nel ritirare il vassoio, chiosò: «Sbandati che io adoro... e che ho scelto personalmente. Non credi che abbia avuto buon gusto, forse?»

«No, no, ne hai avuto molto» assentì lei, sorridendogli.

Tornando serio, Domenic aggiunse: «Non c'è niente che non farei, per voi.»

«Lo so» sussurrò Yuki, guardandolo uscire dalla sua stanza senza più dire nulla.

Quando fu certa che non fosse più a portata d'orecchio, però, aggiunse: «Vorrei solo essere speciale, per te, non soltanto una tra tanti.»

 
§§§

Il passo elegante di Nobu venne incrinato per un attimo, quando i suoi occhi scuri si posarono sul viso tumefatto di Byron.

Immediatamente, però, riprese il controllo di se stesso e, dopo aver tirato un poco di fumo dalla sua sigaretta, mormorò: «Avrei dovuto farla seguire, invece di fidarmi di lei. Non avevo davvero idea che si fosse messa in testa di imparare il ninjutsu. Ha sempre preso le lezioni di papà come un gioco.»

«E' dannatamente brava, anche se immagino che quel colpo di pistola a tradimento l'abbia parecchio debilitata. Non credo di averle rotto nulla, comunque. Riusciva sempre a rintuzzare i miei colpi, pur se all'ultimo momento» gli spiegò Byron, osservando con disprezzo il livido bluastro che aveva sull'avambraccio.

Non avrebbe dimenticato quella sconfitta molto alla svelta, e avrebbe trovato il modo di vendicarsi.

«Il luogo è pulito?» si informò Nobu, avvicinandosi alla finestra per osservare Tokyo la mattina, frenetica di attività e di persone.

Sembravano così piccole, da quella prospettiva rialzata! Così semplice, schiacciarle con un solo dito! Così vulnerabili e senza protezione!

No, non avrebbe permesso che Asclepio vedesse la luce. Lo avrebbe distrutto.

E così avrebbe fatto con tutti coloro che si erano messi contro di lui, a partire da sua sorella.

«Ripulito alla perfezione. Se anche qualche poliziotto zelante si chiedesse il perché dei danni alla palestra, non troverebbe nulla di riconducibile a noi.»

Nobu tornò ad annuire, pensieroso e, nello spegnere la sigaretta, tornò a guardare il suo amante.

Gli si avvicinò, allungando una mano per sfiorare il livido che aveva sul viso, e si accigliò.

«Non fa molto male. E' più il morale, a sentirsi ferito» ironizzò Byron. «Sconfitto da una ragazza. Che umiliazione!»

«Non ti aspettavi da lei che conoscesse simili tecniche di difesa. Va detto anche questo. Anche il guerriero più indomito può essere sorpreso, se non sa contro chi sta combattendo. E, da quel che mi hai detto, aveva degli alleati.»

Annuendo, Byron asserì torvo.

«A parte Van Berger, che si è dimostrato parecchio ostico, per essere solo un damerino americano, c'erano almeno altre due persone. Un uomo e una donna. Non sono riuscito a vederli, a causa della scarsa luce, ma potrei ricorrere alla scansione vocale per riconoscere almeno la ragazza. L'uomo non ha parlato a voce alta, e dubito che i sensori del mio registratore abbiano captato la sua voce, ma posso sempre tentare anche con lui.»

Nobu sorrise soddisfatto, annuendo.

«Il tuo vizio di registrare tutto, eh?»

L'inglese si limitò a scrollare le spalle.

«Mi è capitato più di una volta di dover ricorrere a simili espedienti, per riconoscere un nemico. Stavolta, pare sia una di quelle occasioni.»

Annuendo, Nobu si sedette sul bordo del letto e iniziò a carezzare distrattamente il braccio robusto e sodo di Byron, tracciando lente carezze su quella pelle chiara.

I peli ruvidi e corti sotto i suoi polpastrelli lo portarono a sorridere – amava sentirli su tutto il corpo – e, pensieroso, mormorò: «Quello che mi sorprende, è la rapidità con cui li hanno trovati. Il nostro informatore ci aveva detto che avremmo avuto tempo sufficiente per rintracciare Yuki-chan e neutralizzarla.»

«E' quello che mi sono chiesto anch'io. Evidentemente, anche tra le fila della nostra cara gola profonda, qualcosa è andato storto.»

«Quel che mi chiedo ora, però, è un’altra cosa…» mormorò Nobu, osservando l’amante con una vena di preoccupazione negli occhi scuri.

L’inglese annuì, lasciando che parlasse.

«Perché Yuki-chan ha addosso un localizzatore satellitare?»

Byron non seppe che rispondere e, reclinando il capo sul cuscino, lasciò che i suoi pensieri andassero a ruota libera.

Tre mesi addietro, quando Nickolas aveva proposto alla Tashida di testare un nuovo programma farmaceutico, sia Nobu che suo padre non avevano avuto nulla da ridire.

La collaborazione con la V.B. 3000 era sempre stata fruttuosa, e andava avanti da più di un ventennio.

Quel che li aveva stupiti era stato ricevere, poco tempo dopo, file criptati sul contenuto di Asclepio, il programma ideato da Domenic Van Berger.

Quando Nobu aveva letto quei files, e aveva scoperto cosa il programma fosse in grado di fare, ne aveva visto sia le potenzialità che i danni, per l’industria farmaceutica.

Un’intelligenza artificiale in grado di debellare qualsiasi male.

Questo avrebbe portato sul lastrico ben più di una compagnia; non avrebbero più potuto contare sui farmaci antitumorali o per le malattie croniche, per creare mercato a lungo termine.

Poterlo sfruttare per fini di lucro, invece, sarebbe stato tutt’altro affare.

La gola profonda, che si era messa in contatto con Nobu, aveva dato prova della sua affidabilità offrendo loro dati sensibili che nessuno, oltre a qualcuno di ben informato, avrebbe potuto avere.

Un dipendente della V.B. 3000 aveva tradito? Più che probabile, visto ciò che aveva fatto sapere loro.

Ma questo non spiegava il segnalatore di Yuki.

Era un mistero, e forse avrebbe potuto creare loro più guai di quanto, la ragazza stessa, non avesse già causato con il suo colpo di testa.

Ma, in quel momento, era vitale trovare i fuggitivi.

Al resto, avrebbero pensato a tempo debito.

«Non appena la troveremo, andrò a prenderla personalmente» gli assicurò Byron, torvo in viso. «E le chiederò cosa diavolo è quel segnalatore.»

«So che vuoi vendetta, ma non mi fido molto di quegli americani.»

«Mi si può imbrogliare una volta, ma non due. Lasciami andare, Nobu-san

Nobu allora si chinò per baciarlo sulla fronte, il naso e le labbra e, annuendo, mormorò sulla sua bocca: «Sai che non ti negherei nulla.»

 
§§§

Domenic discese le scale con i capelli scompigliati e l'aria di non aver dormito molto ma, quando udì dei colpi ritmati e la voce in sottofondo di suo fratello, si immobilizzò.

In piedi sulla scala, guardò dabbasso e, con aria a metà tra lo sconcertato e l'esasperato, si chiese chi avrebbe ceduto prima; se Cam, o le sue guardie del corpo.

Dopo aver improvvisato un dojo nel bel mezzo del salone open space, Cameron stava fornendo le indicazioni di base a un paio di agenti perché imparassero il karate.

«Che ci fa una palestra giapponese nel bel mezzo dell'Alaska?» mugugnò dietro di lui Yuki, sbadigliando sonoramente un attimo dopo.

Dom si volse a mezzo, le sorrise e trovò che quella massa arruffata di capelli neri, che incorniciavano un viso eburneo e ancora assonnato, fosse la cosa più bella al mondo.

Ma ovviamente non glielo disse.

Non voleva complicare le cose ancor più di così, e già da anni non si intrometteva nella sfera privata di Yuki.

«Cam ha pensato di trovare un sistema alternativo per non impazzire...» ironizzò Domenic, indicando il fratello. «... cioè, far impazzire i nostri agenti di scorta.»

Yuki ridacchiò a quel commento ma, prima ancora di poter dire alcunché, Minami uscì dalla sua stanza, li vide nel corridoio e balzò fuori pimpante e allegra.

Come facesse, era un mistero.

Era rimasta alzata fino alle quattro del mattino assieme a loro, per controllare tutti i dati raccolti dalla Tashida, eppure sembrava appena uscita da una SPA.

Dom e Yuki la fissarono vagamente irritati mentre, con passo balzellante, scendeva gli scalini per raggiungere il pianterreno.

«Cos'ha da essere così giocosa e chiassosa, di prima mattina?» brontolò alle loro spalle Phie, giungendo con passo strascicato e sonnolento.

I capelli lunghi e bruni erano stati legati grossolanamente in una coda di cavallo, e il lungo pigiama di flanella che indossava pencolava un po' su una spalla.

Domenic le sorrise e, quando le fu al fianco, la baciò su una guancia, mormorando: «Buongiorno, Phie.»

«Ciao, Dom» mugugnò lei, abbracciandolo a mo' di koala perché la accompagnasse al piano inferiore.

Il giovane ridacchiò, ben più che abituato a quel suo comportamento infantile.

Quando voleva essere confortata, Phie si comportava a quel modo, e Domenic sapeva bene perché.

Pur con tutta la buona volontà del mondo, non ci si poteva dimenticare che non erano lì in vacanza.

E che la ragazza, con sprezzo del pericolo, si era andata a infilare in una potenziale situazione mortale.

Non era da tutti sopportare così stoicamente una situazione simile, e ci stava che Phie desiderasse un po' di conforto.

Scendendo le scale poco alla volta, Sophie ancorata a lui come una cozza allo scoglio, gli occhi chiusi e il viso stanco, Dom le baciò i capelli, tenendola stretta a sé per non farla cadere.

Yuki, dietro di loro, li seguì a un passo di distanza, osservando la scena con una punta di invidia.

Sapeva perfettamente che il comportamento di Domenic era del tutto fraterno, e che anche Cameron non avrebbe avuto nulla da ridire a vederli così avvinghiati.

Ma le spiacque che fosse solo Phie a beneficiare di quel trattamento.

Quando infine raggiunsero il pianterreno, la giovane si staccò dall'amico, gli diede un rapido bacio sulla guancia e andò ad afferrare il fidanzato che, ridacchiando, la strinse a sé tutto sorridente.

«Ehi, dormigliona! Ti sei svegliata, finalmente!» ironizzò Cameron, dichiarando chiuso l'allenamento con un inchino e un sorriso.

Gli agenti tornarono a indossare le loro giacche, coprendo così le armi che portavano addosso e, chi per un verso, chi per l'altro, tornarono alle loro postazioni.

Non vedendo Bryce, Domenic immaginò fosse all'esterno della casa.

Dirigendosi con Yuki verso la cucina – Minami era già lì, assieme a Cam e Phie – Dom chiese all'amica: «Sei riuscita a dormire almeno un po'?»

«Ho chiuso occhio non appena ho poggiato la testa sul cuscino, ma risento parecchio del jet-leg. E questa penombra perenne non aiuta.»

Il cellulare di Domenic scelse quel momento per suonare e, scusatosi con Yuki, rispose alla chiamata.

«Ehi, figliolo. Ciao! Siete in piedi, vero? Non vi ho svegliato, spero.»

La voce di Nickolas Van Berger giunse squillante e stentorea e Domenic, guardando l'orario, si disse che il padre doveva essere al lavoro da almeno un'ora.

«Ciao, papà. Sì, siamo tutti più o meno svegli. Minami-chan e Cameron sembrano due molle stracariche, mentre io, Phie e Yuki-necchan siamo vagamente più in coma.»

Il padre ridacchiò. «Yuki-chan sta meglio?»

«Le toglieranno le graffette stamattina. Se vuoi, te la passo.»

«Non c'è problema, figliolo. Non voglio rubarti del tempo, visto che so quello che devi fare.»

Fu il turno di Domenic per ridacchiare.

«Credimi, papà, ogni tanto mi fermo anche io. E ora, penso mi farò la classica colazione da campioni. Ieri notte, abbiamo lavorato fino a tardi, e adesso ho fame.»

«Non strafare, ragazzo. Hai già dato molto, in questi giorni e, io immagino, anche negli anni passati.»

Ora, il tono di Nick si fece pensoso e sì, preoccupato.

Dom sospirò e, nel sedersi sul vicino divano, asserì: «Sentivo di dover mettere le mie doti al servizio di qualcosa di importante e, quando mi contattarono quelli della CIA, capii che volevo provare.»

«Desidero solo che tu sia felice, Dom. E, se questo ti rende felice, o ti da soddisfazioni sufficienti, per me va bene.»

Il giovane sorrise, immaginando cosa suo padre non gli stesse dicendo.

«Guarda che anche lavorare alla V.B. 3000, mi piace. Non devi pensare che quello non fosse sufficiente, papà. Solo, volevo che quello che so fare aiutasse il maggior numero possibile di persone. E ho pensato che, lavorando per il Governo, questo fosse fattibile.»

«Ed è così?»

«A volte sì, a volte no. Ma mi è servito per maturare, per capire che non si può ottenere tutto quello che si vuole, che certe volte bisogna accettare dei no, come risposta.»

«Sai che io e la mamma siamo orgogliosi di voi, vero?»

Domenic rise sommessamente e, pur sapendo che non poteva vederlo, annuì.

«Sì, papà, lo sappiamo entrambi. Non temere. Ti passo Cam... vedo che si sta sbracciando per farsi notare.»

«D'accordo. A presto, Dom, e riguardati.»

«Lo farò» assentì il figlio, levandosi poi in piedi per passare il cellulare al gemello. Lui, iniziò subito a parlare a raffica, tempestando il padre di informazioni su come fosse il loro alloggio, o cosa non stessero facendo a causa degli agenti di scorta.

Questi ultimi sorrisero indulgenti, e Cam strizzò loro l'occhio con fare complice.

Domenic ne fu lieto.

A quanto pareva, il gemello si era già adattato alla situazione.

Lasciando il fratello alla sua telefonata, si avvicino alla consolle centrale della cucina, e lì Yuki gli allungò un toast imburrato e della marmellata di mirtilli.

«Grazie.»

«Se non ricordo male, ti piaceva» si limitò a dire lei, scrollando le spalle.

«Com'è che conosci le abitudini alimentari di Domenic-kun?» si interessò Minami, impegnata a sbocconcellare dei biscotti al miele.

Lanciando un'occhiata a Domenic, Yuki si lasciò andare ai ricordi della loro infanzia e raccontò alla ragazza di come si fossero conosciuti.

Le sue parole profumarono di nostalgia e Dom, nell'osservarla assorto mentre la giovane si lasciava trasportare dal racconto, desiderò per un momento tornare a quegli istanti spensierati.

Non ne aveva ancora parlato con il gemello, ma temeva che Cam fosse rimasto colpito nel profondo dal tradimento di Noboru.

Per lo meno, molto più di lui.

Se Domenic era sempre stato più affezionato – e legato – alla madre di Yuki, Cam lo era stato di Noboru e, da lui, aveva imparato i rudimenti del bushido.

Non faticava a immaginare quanto, quel voltafaccia, gli pesasse.

Quasi quanto a Yuki, pensò.

 
§§§

La neve stava cadendo silenziosa e fredda dal cielo scuro e, quando Cameron andò a sedersi accanto al gemello, nella veranda chiusa della casa protetta, disse sommessamente: «C'è qualcosa che non ti posso nascondere?»

«Ben poco, credo.»

Vagamente piccato, allora Cam replicò: «E perché tu ci riesci, invece? Non avevo davvero idea che facessi questo, nel tempo libero.»

«Nel tempo libero, vado in barca, nuoto e corro. E' ben diverso» ribatté sorridente il gemello.

«Non spaccare il capello in quattro, fratellone.»

Domenic allora sospirò, si lasciò andare lungo la sdraio dove si era sistemato e, le mani strette dietro la nuca, mormorò: «Tu sei sempre stato espansivo, Cam. Una vera forza della natura, sempre pronto a sperimentare cose nuove. Ma eri anche un cristallo purissimo, ai miei occhi. Riuscivo a vedere tutto, in te, perché tu non volevi nascondermi nulla.»

«E tu, invece?»

«Ti ho sempre, e solo, tenuto nascosto questo mondo, ma per proteggere te, mamma e papà.»

«E la faccenda di Yuki-necchan, allora?» ritorse Cameron, accigliandosi.

«Lei è... è complicato, Cam. E' legata a doppio filo con quello che faccio, perciò non ho mai aperto bocca. Troppi problemi.»

Domenic sospirò, interrompendosi, ma Cameron, non contento, proseguì nelle domande.

«Posso capire, e accettare, che tu abbia tenuto segreto il tuo coinvolgimento con la CIA, per gli ovvi motivi che sappiamo... ma Yuki-necchan? Perché non mi hai detto di lei?»

Il suo tono suonò quasi ferito, e Dom lo fissò spiacente, temendo di aver deluso il fratello.

«Scusa. Ho sbagliato.»

Cameron crollò in avanti, andando a poggiare il capo sulla spalla del gemello.

Esasperato, borbottò: «Non voglio che ti scusi. Voglio che mi parli. Parlami, Dom... dimmi quello che pensi, che provi. Ho sempre l'impressione che io, per te, non faccia mai abbastanza. Lasciati aiutare, consolare,... lascia che io sia, per te, ciò che tu sei per me.»

A quel punto, Domenic balzò a sedere, costernato e scioccato da quell'ammissione, ed esalò: «Ma lo sei, Cam! Che diavolo ti salta in mente?!»

Imperturbabile nella sua convinzione, Cameron scosse il capo e replicò: «No che non lo sono. Io non ho mai fatto le stesse cose che tu hai fatto per me!»

Il gemello sorrise indulgente, afferrò il viso di Cam tra le mani e mormorò: «Solo perché non ho bisogno delle stesse cose, o nello stesso modo. Ma tu sei la mia spalla, Cameron. Non dubitarne mai. Quando ho scoperto che eri in pericolo, mi sono sentito perso, vuoto. Non sapevo cosa fare.»

«Non mi pare» replicò il gemello, guardando Domenic sorridere in risposta.

«Credimi, ero terrorizzato. E mi sono sentito tranquillo solo quando ho saputo di poter contare su Bryce, perché altrimenti non avrei combinato nulla.»

Domenic lasciò cadere le mani, sospirò e tornò a guardare la neve che cadeva leggera e silenziosa.

«Tu ci sei stato nei momenti giusti, Cam. Quando mi sentivo solo, o spaesato, o spaventato da qualcosa, mi bastava guardarti. E allora sapevo che non mi sarebbe mai successo nulla. Che, se avessi avuto bisogno di un aiuto, o di una mano a cui aggrapparmi, tu ci saresti stato.»

«Non è la stessa cosa, Dom.»

«E' la stessa, identica cosa. Solo, io ho un modo diverso di chiedere il tuo aiuto.»

Cameron ci pensò su per un momento, e alla fine annuì, ma si sentì in dovere di dire: «Andando avanti, però, ogni tanto, chiedimi davvero una mano. Non pensare soltanto che te la darò sempre e comunque.»

«Andata» assentì Domenic. «E ora... vuoi parlarmi un po' di Noboru-san

«Quando me l'hai chiesto, poco fa, per poco non mi è venuto un coccolone» brontolò il gemello, sdraiandosi con fare scocciato.

«Immaginavo fosse una cosa rimasta in sospeso. Ne hai parlato un po' con Yuki-necchan

«Poco, e malvolentieri. Entrambi, siamo rimasti molto colpiti da ciò che ha fatto. Anche se sono propenso a dare ragione a Yuki-necchan. E' tutta opera di Nobu-san, e suo padre ne è rimasto invischiato.»

Annuendo, Domenic pensò la stessa cosa.

«Non so che pensare, Dom. Sono così poco bravo a capire le persone?»

«Fratellino... se neppure Yuki-necchan ha compreso subito cosa stava succedendo, come potevi sperare di riuscirvi tu, che lo vedevi, e sentivi, molto meno di lei? Inoltre, Noboru-san è sempre stata una persona molto ermetica, chiusa. Non fa specie che nessuno si sia accorto di cosa stava facendo. O di cosa stesse macchinando Nobu-san

Cameron rimase in silenzio così a lungo che, per un momento, il gemello pensò non avrebbe risposto alle sue affermazioni.

Quando però lo vide volgere lo sguardo verso di lui, fremette.

Le mani si chiusero a pugno e, senza dire nulla, Dom strinse a sé il fratello e lasciò che il suo calore lo cingesse, lo fortificasse, lo proteggesse dall'immenso dolore che aveva letto nel suo sguardo.

Non gli importava nulla di Asclepio, né del fatto che avessero tentato di rubarlo.

Era questo a farlo star male, a farlo fremere di rabbia a stento controllata.

Il fatto che avessero ferito le due persone che più amava.








Note: Sarà veramente un dipendente della V. B. 3000, ad aver tradito la fiducia di Domenic? O ci sarà dell'altro? Come faceva, questa fantomatica gola profonda, a conoscere l'esistenza del segnalatore di Yuki?
Vi lascio con queste domande e, nel ringraziarvi per avermi seguita fino a qui, vi auguro buona giornata.

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Capitolo 15
*** XV Truth ***


 
XV. Truth.
 
 
 
 

Yuki attese che Cameron si avviasse verso la sua stanza, prima di entrare nella veranda coperta, dove sapeva trovarsi Domenic.

Lo trovò in osservazione del profilo seghettato delle montagne, imbiancate da metri e metri di neve.

Tutto era uniformemente bianco, e solo poche sfumature di grigio e azzurro lasciavano intravedere le forme di ciò che li circondava.

Non era come nell'Hokkaido, ma anche quel luogo così lontano da casa, aveva bellezza e fascino.

E c'era Domenic, lì.

Il giovane, udendo i suoi passi leggeri, si volse a mezzo e, sorridendole spontaneamente, le domandò: «Ciao. Avevi bisogno di me?»

Lei scosse il capo e, dopo averlo raggiunto alla vetrata blindata, si mise a sua volta in osservazione del paesaggio.

Le mani strette sulle braccia – ricoperte da un leggero maglione a fantasie geometriche – Yuki ristette al suo fianco senza dire nulla, assaporando solo la sensazione della sua vicinanza.

Quei giorni erano stati così convulsi, così pieni e frenetici che, anche volendo, non avrebbe avuto la forza e la volontà di provare paura.

Ma ora ne aveva, perché l'adrenalina era del tutto scomparsa dal suo sangue, e iniziava a scorgere la portata di ciò che aveva fatto.

Non si era limitata a mettersi contro la sua famiglia, ma aveva scatenato uno tsunami di tale portata che, presto o tardi, le sarebbe piombato addosso con virulenza.

In tutta onestà, però, non se l'era sentita di ignorare ciò che aveva letto per puro caso tra i messaggi privati di Nobu.

Lei e la sua curiosità.

Come addetta alla sicurezza dell’hardware aziendale, badare a che nessuno entrasse nei database dell'azienda, era compito suo.

Ma non avrebbe voluto dire controllare anche la corrispondenza privata.

Questo, però, aveva salvato la vita a Cameron, pur se non alle sue due guardie del corpo.

La mano di Domenic si poggiò leggera sulla sua spalla, sorprendendola e, nell'attirarla dolcemente a sé, il giovane le disse: «Non devi pensare che mostrare la tua paura sia un difetto, Yuki-necchan. Credo che nessuno, qui dentro, ne sia esente. Neppure gli agenti.»

Lei gli avvolse la vita con disinvoltura, come quella mattina aveva fatto Phie e, con un mezzo sorriso, replicò: «Quando comincerai a mostrare la tua, allora ti seguirò.»

Dom rise sommessamente, annuendo.

«Deve essere la giornata delle richieste. Cam mi ha appena domandato di aprirmi maggiormente con lui.»

«Chiediti perché. Io, lui, penso anche Sophie-chan... o i ragazzi del gruppo... tutti ti vediamo come una roccia inamovibile. Shield. Il nostro scudo. Nessun nickname sarebbe stato più adatto, per te.»

Gli sorrise dal basso, mentre Domenic faceva finta di nulla, ammiccando però con gli occhi.

«Non hai mai avuto un cedimento, mai un dubbio. Ma posso immaginare che non sempre sia così.»

Dom la fissò con occhi dichiaratamente sorpresi e lei, sorridendo dolcemente, si stupì nuovamente delle sue reazioni.

Possibile che non se ne fosse mai reso conto?

«Sono tutto tranne che una roccia, credimi, Yuki-necchan. Ho una marea di dubbi, ho sempre il terrore di sbagliare, e ogni volta che Cam ha un raffreddore, temo sempre possa peggiorare in qualcosa di orribile.»

Lo disse con così tanta onestà nel tono di voce, che Yuki non poté esimersi dal ridere.

«Non si direbbe, davvero. Per questo, tuo fratello vorrebbe più apertura da parte tua. Me lo disse anche durante la nostra fuga. Avrebbe voluto aiutarti, starti più accanto.»

Il giovane allora sorrise e, nel tornare a osservare l'orizzonte, asserì: «Me l'ha detto, e cercherò di accontentarlo, ma io non funziono così. Mi basta sapervi vicini, sapere che, se mai mi servisse una mano, o una parola, vi avrei accanto a me.»

L'essere annoverata nella cerchia di coloro che Domenic desiderava avere accanto, la riscaldò, portandola a sorridere.

«A volte, non basta pensare. A volte, bisogna agire. Non tutti sappiamo leggere bene l'animo delle persone.»

«Già» assentì Domenic, poggiando il capo contro il vetro blindato, come se le sue forze fossero venute meno all'improvviso.

Subito, Yuki si preoccupò e, accentuando la stretta sulla vita di lui, mormorò: «Domenic-kun... non ti senti bene?»

Lui fece un sorriso sghembo, la scrutò da sopra una spalla e ammise: «Sto cercando di capire come chiederti una cosa, senza però apparire impiccione. O idiota.»

«Come? Chiedimela e basta» esalò lei, strabiliata.

«Potrebbe farti soffrire. E non voglio. Ma desidero sapere... aiutarti

Yuki allora comprese e, trattenendo a stento le lacrime, reclinò il viso e mormorò: «Vuoi sapere come mi sento? Per via di mio padre e di Nobu-chan

«Solo se vuoi parlarne.»

«Ne hai parlato anche con Cameron-kun? Aveva un'aria piuttosto sbattuta, quando è uscito di qui.»

«Ci hai visti?» esalò sorpreso Dom.

«Ti cercavo.»

Ammetterlo la fece arrossire, e Domenic le disse: «Potevi entrare. Nessuno dei due avrebbe detto nulla.»

«Era un momento di intimità tra voi due. E so che entrambi ne avevate bisogno.»

Il giovane, allora, si scostò da lei, le sollevò il viso con una mano e, nel carezzarle una guancia con il pollice, sorrise dolcemente.

«Ci hai sempre capiti al primo sguardo, fin da piccola. Anche se ci vedevamo poco, e per brevissimi periodi, era come se non ci separassimo mai. Un po' come con Phie. Ma, in qualche modo, diverso.»

Quelle profondità oceaniche che la stavano scrutando, la portarono a perdere il dono della parola.

Come faceva a rimanere a pensare anche solo di dire qualcosa, di fronte a quegli occhi?

«Vi volevo bene.»

«E noi a te. Forse, perché eri nostra coetanea, chissà...»

Rise, e si scostò da lei per passarsi una mano tra i capelli, divertito.

«Ricordo quella volta che ci sgridasti perché ti chiamammo Yuki-chan, invece di Yuki-necchan. Volesti a tutti i costi sottolineare che avevi un anno più di noi, e che perciò eri legittimata a comandarci, essendo la nostra sorellona

A quel commento, Yuki avvampò in viso e distolse lo sguardo, esalando: «Dio! Non ricordarmelo! Ero così presuntuosa, all'epoca!»

«Avevi otto anni. E avevi tutto il diritto di fare la presuntuosa, visto che noi eravamo più pestiferi di quanto mi piaccia ricordare.»

Lo disse sorridendo, forse perso in qualche ricordo in particolare.

Quel sorriso la fece capitolare.

Le lacrime iniziarono a scendere lente e calde lungo le sue gote e Domenic, senza dire altro, la avvolse in un abbraccio consolatorio.

Yuki, allora, si strinse a lui come timorosa di affogare nel suo stesso dolore e, con voce incrinata dal pianto, gettò fuori la sua rabbia, il suo risentimento, la sua pena.

Parlò in tono accorato e affranto di suo padre, lasciando per Nobu solo poche parole risentite.

Dom non se ne stupì. Tra i due fratelli non c'era mai stato amore, perciò il suo tradimento doveva sembrarle meno inaspettato, più prevedibile.

Il problema, come nel caso di Cameron, si rivelò essere Noboru.

Se, per il gemello, il signor Tashida aveva rappresentato il mentore illuminato da cui imparare le discipline orientali, per Yuki aveva rappresentato la colonna portante della sua vita.

Certo, la giovane amava la madre, ma non l'aveva mai portata in palmo di mano come con Noboru.

Lui era sempre stato l'essere inarrivabile, il traguardo da raggiungere.

Quello scorno doveva pesarle più di qualsiasi altra cosa.

Ekaterina era sempre stata un'amica, per la figlia, mentre il padre le era sempre apparso distante, pur se affettuoso.

Dargli tutto il suo amore, e vederselo restituire apertamente, aveva sempre rappresentato una sfida, per Yuki.

Sapere di essere stata tradita proprio da lui, aveva rappresentato un autentico fallimento.

Quando infine le lacrime ebbero un termine, Yuki ristette col capo poggiato contro il torace solido di Domenic, ascoltando il tamburellare quieto del suo cuore.

Avrebbe potuto assopirsi appagata, al suono tenue di quella melodia ritmata.

La mano del giovane, per tutto il tempo impegnata a massaggiarle la schiena, prese a carezzarle i capelli scuri e dai riflessi purpurei, mentre la guancia poggiava lieve sul suo capo.

«Va meglio?» le sussurrò, inspirando il dolce profumo di miele della sua pelle, di tutta quanta lei.

Doveva allontanarsi alla svelta, o avrebbe ceduto a istinti ben più bassi di quell'innocente scambio di premure.

«Sì, abbastanza. Anche se ti ho inzuppato la maglia» mormorò lei in risposta, lasciandosi sfuggire una risatina.

Lui si scostò, ammirò la macchia scura sul fondo color Blu di Prussia del maglioncino a coste e, ammiccando, dichiarò: «Dovrai testimoniare che non è stata colpa mia.»

«Nessun problema» assentì, levandosi spontaneamente in punta di piedi per dargli un casto bacio su una guancia. «Grazie, Domenic-kun

Dom non poté esimersi dall'irrigidirsi, a quel tocco delicato, e la giovane se ne accorse immediatamente.

Scostatasi di un passo, lo fissò spiacente in viso, temendo di averlo offeso, pur non sapendo come.

Domenic, in compenso, distolse in fretta il viso e andò ad accomodarsi su una delle sdraio imbottite, tenendo le mani strette a pugno sulle cosce.

«Domenic-kun... scusa. Non volevo...»

Yuki si bloccò a metà della frase quando lui trovò il coraggio di guardarla.

Non c'era affatto offesa, nei suoi occhi turbinanti.

C'era... desiderio.

«Vattene, Yuki-necchan, prima che faccia, o dica, qualcosa di cui entrambi potremmo pentirci.»

Lei non lo ascoltò minimamente e, inginocchiatasi accanto a lui - che si astenne dal toccarla in alcun modo - replicò seria: «Cosa non vuoi dirmi?»

«Ci sono troppe complicazioni, Yuki-necchan. E ora non ne abbiamo davvero bisogno.»

La giovane poggiò le mani sui suoi pugni, li sentì fremere, vide il suo volto tendersi, distogliere lo sguardo da lei e, all'improvviso, questo la rese forte.

La rese padrona della situazione.

E la spinse verso il baratro.

Allungandosi verso di lui, mormorò: «A volte, sei davvero tardo, Domenic-kun

Senza dargli il tempo di scappare, poggiò le sue labbra a cuore su quelle sorprese di Dom che, sobbalzando, indietreggiò un attimo, prima di perdere completamente la battaglia contro i suoi stessi sentimenti.

Scivolò via dalle mani di Yuki, le afferrò la nuca e la attirò a sé, schiacciandole le labbra per un bacio più profondo, quasi disperato.

Lei lo lasciò fare, preda della stessa rabbia cieca, dello stesso impetuoso desiderio di smascherare entrambi.

Domenic la baciò ancora e ancora, ansando contro la sua bocca, le sue gote arrossate, il suo collo sinuoso, mentre le mani di Yuki esploravano quel viso, quei capelli che l'avevano sempre attratta.

Fu il trillo del telefono del giovane a farli fermare, spaventandoli a morte.

E rendendoli consapevoli di essersi completamente distesi sulla sdraio, con gli abiti in disordine e i volti tumidi di baci.

«Sarà meglio che risponda... e mi calmi» ridacchiò imbarazzato Domenic.

Yuki assentì, sedendogli accanto con un sorrisino tronfio in viso.

Lui le fece la lingua, cosa che di solito non faceva mai, e la giovane gongolò.

«Pronto! Sono Dom.»

«Tesoruccio, ciao! Sono Berry! Scusami se sfrutto questo telefono, ma quel debosciato di mio figlio non ha la minima intenzione di accendere il suo, perciò mi sono vista costretta a sfruttare quello dei tuoi genitori.»

La voce trillante di Berenike Preston Kendall inondò il padiglione auricolare di Domenic, facendolo scoppiare a ridere.

Yuki ascoltò incuriosita la filippica della donna, circa le manchevolezze del figlio e, assorta, si appoggiò a Dom che, con naturalezza, le avvolse le spalle con un braccio.

Silenzioso e paziente, Domenic ascoltò ogni parola, annuendo ogni tanto e, quando finalmente Berry si dichiarò soddisfatta, ringraziò e lasciò la palla ai Van Berger.

Ne scaturì subito dopo la voce possente di Andrea, e Dom si ritrovò a sorridere.

«Ciao, nonno! Ehi, come va, lì? Helena non sta ammattendo, vero?»

«Mi sta guardando malissimo, nipote, perché sa che sono una lingua lunga, e che finirò per occupare troppo spazio alla nostra conversazione, rubandone a lei.»

La voce della seconda moglie di Andrea giunse vagamente stizzita, e Dom ridacchiò.

Li adorava entrambi.

«Dille di non preoccuparsi. Se vuole, possiamo tenere per noi due un'intera telefonata, la prossima volta.»

«Non glielo suggerirò, perché altrimenti non si schioderà più da qui, e non voglio che Hannah e Nick pensino che vogliamo mettere radici in casa.»

Le risate dei suoi genitori giunsero attraverso l'apparecchio, riscaldandolo.

«Dubito potrebbero aversene a male, ma lascerò a te la decisione. Ha nevicato, per caso? Altrimenti, ve ne mandiamo qualche tonnellata. Qui, ce n'è in abbondanza.»

«Quest'anno ci ha graziato. Benedetti cambi climatici! Ancora un po', e vedremo i pinguini lungo la Ocean Boulevard... oppure le gazzelle. Chi ci capisce è bravo.»

Domenic rise sommessamente, e così pure Yuki, accanto a lui.

«Ohhh, risata femminile... e non è Phie. Ti ho disturbato, nipote?»

«Nonno... qui con me c'è Yuki-necchan, e non ci hai disturbati. Stavamo... parlando.»

Ammiccò alla ragazza al suo fianco, e lei si tappò la bocca per non scoppiare in una risata sguaiata.

«Sì, come no. Come la volta che ho pizzicato tuo padre e tua madre, in ufficio, mentre tentavano di capire come sfruttare...»

«PAPA'!!» urlarono in coro i due interpellati, facendo scoppiare a ridere tutti i presenti.

«Nonno, ti prego... so come nascono i bambini e tutto il resto, ma preferisco non pensare ai miei genitori in quel frangente.»

«Perché? Tu e Cam pensate di essere nati sotto un cavolo?»

Domenic si passò una mano sul viso, sempre più imbarazzato, ed esalò: «Vado a cercarti Cameron, così stresserai lui con questi argomenti spinti.»

«Giovani d'oggi. E dire che dovreste essere più disinibiti di così.»

Se solo il nonno avesse potuto vederlo, avrebbe capito benissimo perché non aveva bisogno di pensarci.

Yuki ridacchiò e Dom, notando dove – e cosa – stesse guardando, si imbarazzò parecchio e bofonchiò: «Ti lascio un istante con Yuki-necchan, mentre io cerco Cam. Ciao, nonno!»

Ciò detto, lasciò il telefono nelle mani della giovane, le stampò un bacio sulla fronte e uscì praticamente di corsa dalla stanza, seguito a ruota dalla risata di lei.

Ma dove diavolo era, Cameron, quando serviva?!

 
§§§

Se aveva pensato che la telefonata del nonno fosse stata imbarazzante, dovette ricredersi alla svelta.

Distratto come poche volte era stato in vita sua, Dom non fece caso all'ovvio, e si riversò nella camera del fratello senza bussare.

Mai idea fu più malsana.

Phie strillò spaventata, volgendosi completamente verso il muro mentre Cam, irritato come una biscia, lanciò un'imprecazione prima di allacciarsi frettolosamente i pantaloni.

Il tentativo di nascondere la sua erezione, ovviamente, fu vano.

Ops.

Domenic si affrettò ad avvampare – quanto a scusarsi profusamente – e, con tono piuttosto imbarazzato, chiese al gemello di raggiungere la veranda per parlare col nonno.

Un'occhiata di Cam al suo viso, però, bastò a metterlo sull'attenti e, con un ghigno, gli passò a fianco e mormorò: «Mi sa che dovremo parlare d'altro, oltre che della tua inopportuna entrata in scena, eh?»

«Pare di sì» ammise Dom, ammiccando.

«Bene. Sono contento per te. Solo per questo, non ti spacco la faccia a pugni» replicò il fratello, dandogli una pacca sulla spalla nell’uscire dalla stanza.

Domenic se ne uscì con una risata sgangherata e, dopo essersi scusato ancora una volta con il fratello e Phie, fece per uscire.

Sophie, però, lo bloccò con un sorriso e una richiesta e al giovane, nonostante tutto, non restò che fermarsi, pur sentendosi ancora un po’ in imbarazzo.

Avvoltolata in un panno di lana, Phie si sedette sul letto mentre Dom, con cautela, scelse di appoggiarsi a una cassettiera.

Lo sguardo di Sophie la diceva lunga, su quali domande le stessero ronzando per la mente, e Domenic non era sicuro di voler rispondere a tutte.

Ma, avendo disturbato la sua intimità e quella del fratello, qualche spiegazione era d’obbligo.

«Ebbene? Hai sbattuto contro un muro con la faccia, Dom, o hai baciato qualcuno piuttosto intensamente?» ironizzò la ragazza, sdraiandosi su un fianco in una posa piuttosto maliziosa.

Ghignando, Domenic scrollò le spalle e replicò: «Se ti dicessi che ho mangiato qualcosa a cui sono allergico, mi credersti?»

«Neanche morta» sottolineò drastica lei, sollevando l’angolo della bocca a cuore.

Al giovane non restò altro che essere onesto e, lasciando scivolare la tensione che irrigidiva il suo corpo, mormorò: «Ho baciato Yuki-necchan

«Ohhh…» sospirò Phie, illuminandosi in viso. «Allora non mi ero sbagliata!»

«Come, prego?» brontolò Dom, fissandola accigliato.

Ridacchiando divertita, Sophie gli propinò il suo miglior sguardo da saccente e asserì serafica: «Dio, ti prego, Dom… non sottovalutarmi. Dopotutto, stai parlando con una donna.»

«Donna che sta per mostrarmi più di quanto vorrei» sottolineò il giovane, sogghignando. «Attenta a quella camiciola, Phie… stai scoprendoti il seno, stando in quella posizione.»

Immediatamente, la ragazza lanciò uno sguardo sotto di sé e, borbottando un’imprecazione, abbottonò un paio di bottoni prima di ringhiare: «Tuo fratello è un mago nell’aprirmi la camicietta.»

«Spero sia bravo anche nel resto.»

Phie allora arrossì appena, ma assentì.

«Sa essere molto… creativo

Fu il turno di Domenic, per arrossire. Grattandosi la nuca, mormorò: «Non voglio sapere i particolari, credimi. Mi basta non essere piombato qui nel bel mezzo del… del…»

«Dell’azione?» ironizzò Phie, compiacendosi nel vedere l’amico d’infanzia farsi purpureo in viso. «Sei adorabile, quando ti imbarazzi tanto.»

«E tu sei più pestifera del solito.»

«Lo so. E non credere che abbia scordato quello che hai detto prima. Hai baciato Yuki… e io dico – finalmente! – ma la domanda sorge spontanea. Perché non l’hai fatto prima?»

«Per citare Yuki-necchan, perché a volte sono un po’ tardo?» le propose Domenic, sogghignando.

«Uomini» sospirò con eccessiva afflizione Phie, passandosi una mano sul viso. «Come hai fatto a non capire che lei stravedeva per te? Per me era evidente.»

«Hai intenzione di rigirare il coltello nella piaga, zus

«Adoro quando parli in olandese…» ridacchiò Phie, mettendosi a sedere a gambe incrociate. Una posa sicuramente più in tono con il suo carattere.

Anche Domenic si rilassò nuovamente, nonostante il fuoco incrociato delle domande dell’amica e, scrollando le spalle, ammise: «Avevo una marea di cose a cui pensare, e i molteplici legami che avevo con Yuki-necchan mi hanno fatto perdere di vista… l’essenziale.»

«Immaginavo che anche il tuo cervello, per quanto superdotato, potesse avere dei limiti» asserì Phie, sorridendogli gentilmente. «Ma sono felice che, alla fine, ci sia arrivato. Mi piacete molto, assieme.»

«E detto dalla mia sorellina onoraria…beh, grazie.»

«Zus mi piace di più…e prego, non c’è di che» ammiccò la ragazza, prima di tornare seria. «Ho già commesso io quell’errore a suo tempo, Domenic. Non lasciare che la paura o i dubbi ti tengano lontano da lei. La ami. E’ solo questo che importa.»

«Già. La amo» sussurrò Domenic, annuendo.

Era forse la prima volta che lo ammetteva ad alta voce, e con qualcun altro che non fosse se stesso.

Con un sorriso, si avvicinò a letto e, dopo aver deposto un bacio sulla fronte dell’amica, mormorò: «State sempre attenti, vero?»

«Se ti dicessi che mia madre mi ha regalato una scatola di profilattici prima di partire, che diresti?»

Lo sconcerto prese presto il sopravvento sul volto di Domenic che, scoppiando a ridere di gusto, si lasciò cadere a sedere sul letto accanto a Phie.

Passandosi una mano sul viso, esalò divertito: «Solo Rena avrebbe potuto pensare a una cosa del genere, e in un momento simile!»

Scrollando le spalle, l’amica ammise: «Beh, ha dato per scontato che, lontani da casa, inchiodati dentro quattro mura e tutto il resto, sarebbero state poche le occasioni in cui io e Cam non avremmo pensato a… beh, a consumare il contenuto della scatola.»

Dom rise ancora, di fronte al candore con cui Phie gli stava parlando e, dandole un altro bacio sulla guancia, si rialzò e disse: «Sei la creatura più luminosa che io conosca, Phie, e sono orgoglioso di essere tuo amico.»

«E mio fratello onorario» sottolineò lei. «Sai che con me puoi parlare di tutto, come io so che con te posso dire tutto quello che mi balza alla mente. Non avrò mai paura di aprirmi a te, Dom. E lo stesso deve valere per te.»

«E’ così. Sarà sempre così» assentì Domenic.

Aprendosi in un sorriso malizioso, lei allora domandò: «Per cui…»

«No» disse lapidario Domenic. «Non qui. Non ora.»

Phie si morse un labbro, forse delusa, ma annuì. «Sì, hai ragione. E’ proprio il posto sbagliato. Ma è stato bello sapere che hai pensato a una cosa simile. E’ stato molto dolce da parte tua.»

Domenic storse la bocca e, allontanandosi per raggiungere la porta, borbottò: «Prima che tu mi dica qualcosa di peggio, me ne vado.»

«Potrei dirti che devi usare di più il tuo lato femminile!» rise allora Phie, vedendolo sgattaiolare fuori di corsa. «Maschi… di’ loro che si comportano con un minimo di dolcezza, e subito pensano che li stai offendendo. Neanche fosse una cosa poco virile, pensare al momento giusto in cui fare…»

L’arrivo di Cam la bloccò a metà della sua filippica e, sorridendogli maliziosa, asserì: «Hai incrociato tuo fratello?»

«Sì, e sembrava piuttosto imbarazzato. Che gli hai fatto?» ridacchiò Cameron, togliendosi la camicia.

«Oh, niente di che. Ho solo dimostrato che le donne sono più intelligenti degli uomini» replicò lei, accogliendolo con un bacio piuttosto impegnato.

Cam la liberò della coperta e, riprendendo da dove si era interrotto, ribatté: «Non mi avventurerò in una discussione del genere con te, piccola. So già che perderei.»

«Dimostri di essere saggio.»

Liberati i seni di Phie dal reggiseno, Cam ridacchiò e, nel baciarle la pelle sericea e priva di imperfezioni, asserì serafico: «Previdente, piccola. Previdente.»

Phie non riuscì a ribattere. 





 

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Capitolo 16
*** XVI Working ***


XVI. Working.
 
 
 
 
 
La struttura 3D dei file da decrittare era tutt'attorno a loro, simile alla distesa infinita di stelle presente nella Via Lattea.

Luminosi, i dati galleggiavano attorno a Domenic e Yuki, piccole navi disperse in un mare oscuro e turbinante.

Con dita leggere, i due li sommovevano leggermente con i guanti per la realtà virtuale, come a volerli incastrare in un puzzle tridimensionale ancora senza forma.

Nella stanza buia, l'effetto era a dir poco elettrizzante; peccato non si trattasse di un gioco.

Minami, seduta a terra a gambe intrecciate, inseriva dati a raffica con mani veloci e, al tempo stesso, la struttura tridimensionale mutava, si ridimensionava, si contorceva.

«Riprova con il passo tre, Minami-chan. Sembrava aver funzionato. Penso si debba partire da lì» mormorò Dom, il tono di voce basso, roco e vagamente stanco.

Sfiorando uno dei dati con il guanto sinaptico, che gli permetteva di intervenire direttamente sul programma, pur non essendo alla tastiera, la struttura mutò ancora forma.

Minami annuì, leggendo a video i cambiamenti apportati dalla nuova manovra di Domenic e, dopo aver represso a stento uno sbadiglio, biascicò: «Ottima mossa. Ora provo a intervenire io.»

Yuki e Dom osservarono i cambiamenti nello schema e, come se fosse esplosa una supernova nel cielo, un intero blocco svaporò, lasciando libera parte della stanza.

I due giovani batterono tra loro le mani, soddisfatti e Minami, sollevando allegra il pollice, si stiracchiò le braccia e mugugnò: «Un blocco è stato decrittato. Ora ne rimangono quanti... trenta, quaranta?»

Domenic si guardò intorno, pensieroso, ma alla fine annuì.

«Direi trentadue, a occhio e croce.»

Minami ghignò, lanciando un'occhiata divertita a Yuki, e commentò: «Dieci dollari che ci ha preso, Yuki-necchan

«Non scommetto. So già che perderei» ridacchiò la giovane, sfiorando con una mano il braccio di Domenic, che stava sorridendo divertito per la loro scommessa.

«Aaah, non c'è gusto! Ora vado a nanna, così non diventerò cieca a guardarvi mentre vi sbaciucchiate» ridacchiò la ragazza, vedendoli arrossire mentre il morphing 3D svaniva dinanzi a loro.

Minami strizzò l'occhio in direzione di Yuki e, dopo essere uscita di gran carriera, urlò da dietro la porta: «Buonanotte, piccioncini!»

Domenic scoppiò a ridere e Yuki, scuotendo il capo con aria esasperata, sbottò: «Quella ragazza! E' incorreggibile! Temo che il suo alter ego le si sia impresso nel DNA, ormai.»

«E' un sistema come un altro per non impazzire. Dopotutto, siamo rinchiusi qui da due settimane, e stiamo lavorando accanto a questi dati da un sacco di tempo, ottenendo risultati minimi. La capisco.»

Yuki annuì e, nel poggiare il proprio corpo contro quello di Dom, sospirò.

Lui la avvolse delicatamente con un braccio, limitandosi a deporre un bacio sui suoi capelli.

Era stato strano parlare dei loro rispettivi sentimenti in una situazione del genere e, soprattutto, scoprire quanto si fossero reciprocamente ingannati.

Cameron li aveva debitamente presi in giro, per questo, mentre Phie si era dimostrata più romantica, e aveva passato un sacco di tempo a parlare con Yuki.

Bryce si era limitato a un 'era ora', facendo arrossire entrambi gli interessati, e ridere i restanti.

«Perché non vai a riposare un po' anche tu, Yuki-necchan? Sei stanca.»

Lei levò i suoi fumosi occhi chiari a scrutarlo in viso – un velo di barba solcava le sue gote – e, storcendo la bocca, mormorò: «Perché, tu no?»

Domenic si limitò a sorridere, ma non rispose.

«Non devi fare tutto da solo e, se tu rimarrai in piedi, io resterò qui con te. E' la mia famiglia, che ci ha messi in questo guaio.»

Il giovane aggrottò la fronte e, dopo aver deposto un bacio sulla fronte della ragazza, si allontanò per raggiungere il portatile che Minami aveva lasciato sul pavimento.

Raccoltolo, lo posò sulla scrivania e afferrò una poltroncina a levitazione per rimettersi al lavoro.

Yuki non mollò la presa.

Si avvicinò a lui, gli avvolse le braccia attorno al collo e sussurrò: «Non devi proteggermi, Domenic-kun. So già che hanno commesso crimini orrendi. Non pensi che la morte delle guardie del corpo di Cameron-kun mi sia bastata per capire che persone sono?»

Lui si volse, facendo oscillare la poltroncina e, nell'incrociare i suoi occhi oceanici con le perlacee profondità di quelli di Yuki, mormorò con veemenza: «Come puoi chiedermi di non proteggerti?! Proprio sapendo quello che hanno già fatto?!»

La giovane sorrise, si chinò per baciare quelle labbra contratte e, subito, Domenic sospirò, avvolgendole la vita per attrarla a sé.

Accomodata sulle cosce di lui, Yuki gli avvolse le braccia attorno a collo e, mordicchiandogli il contorno della mascella, sussurrò: «Farò di tutto, per tirarti fuori di qui. Hai bisogno anche tu di riposare.»

Dom ridacchiò e, nel lasciare che lei lo baciasse anche sul collo, replicò: «Se continui così, non riposerò in ogni caso. E neppure tu.»

Yuki allora scoppiò a ridere, si fermò per abbracciarlo strettamente e, contro la sua spalla, ansò: «Non voglio che la nostra prima volta insieme sia legata a questo posto. Ma ti desidero così tanto

«Non hai idea di quanto io ti capisca... e condivido. Non voglio ripensare a questo luogo un giorno più del necessario, ma lo farei, se succedesse

Yuki sbuffò, si scostò per scrutarlo in viso, in quei profondi occhi che ora brillavano di desiderio per lei, e chiosò: «Che gran scocciatura.»

«Siamo due romanticoni senza speranza» annuì lui, ridendo sommessamente nell'alzarsi.

Senza lasciarla andare, la tenne tra le braccia nonostante le sue deboli proteste e, dopo averle deposto un bacetto sul naso, uscì dalla stanza per avviarsi con lei verso le camere da letto.

L'agente Myers, vedendoli, sorrise ammiccante e Domenic, arrossendo suo malgrado, borbottò: «Non pensare subito male, Bob.»

«E chi pensa male?» ghignò lui, strizzando l'occhio a Yuki prima di tornare a controllare gli schermi delle telecamere esterne.

Yuki ridacchiò, mentre Domenic scuoteva il capo per l'esasperazione.

«Cosa dovrebbe pensare, vedendoti portarmi in braccio come se fossi una principessina?» ironizzò Yuki, pur apprezzando il gesto.

Domenic era molto vecchio stile, in questo. Molto modesto, pieno di cortesie e, a volte, fin troppo educato.

Forse dipendeva dal suo carattere solitamente schivo, oppure gli piaceva comportarsi da cavaliere, chissà.

Avrebbe dovuto chiedere a Phie, in merito.

Quando Dom aprì la porta della stanza di Yuki, la condusse dentro fino a deporla sul letto e lì, nel baciarla con un certo trasporto, le disse subito dopo: «Tu sei una principessa, Yuki-necchan. Non dimenticarlo mai.»

Lei si limitò a sorridergli e Domenic, nel darle la buonanotte, si appoggiò allo stipite della porta per sussurrare: «Meriti petali di ciliegio a profumare le lenzuola, il canto degli uccelli come sottofondo musicale e il caldo sole primaverile ad accarezzare il tuo corpo. E ti darò tutto questo, te lo prometto. Solo, non ora.»

«Domenic-kun...» mormorò la giovane, commossa.

Dom allora sorrise allegro, cercando di smorzare l'atmosfera un po' melodrammatica che aveva involontariamente creato.

Nell'azionare il dispositivo di apertura della porta, chiosò: «Per lo meno, ci proverò. Di solito, riesco bene, quando mi programmo di fare qualcosa.»

«Lo so.»

Lui allargò il suo sorriso, la salutò un'ultima volta e, con passo stanco, si diresse verso la sua stanza.

Myers cercò di non ridere, nel vederlo passare, ma Dom non ci fece caso.

Era troppo stanco anche solo per pensare una replica ai suoi pensieri sconci, figurarsi per parlare.

Quando infine raggiunge la porta di camera sua, vi entrò e, a sorpresa, trovò ad attenderlo Cam, seduto a gambe incrociate sul letto.

«Ehi, finalmente sei arrivato!» esclamò il gemello, balzando giù con aria sveglia e attenta.

Domenic non lo degnò di una risposta e, a peso morto, crollò sulle lenzuola, lungo disteso sul letto come se fosse stato deposto lì per l'eterno riposo.

Cam allora ridacchiò, gli tolse le scarpe e, ironico, chiosò: «Povero fratellino... quanto sei stravolto?»

«Cameron, perché non sei a letto con Phie? Non hai niente di meglio da fare, che rompermi le scatole alle...» Dom controllò l'orario della sveglia e imprecò. «Cristo! Sono le tre e mezza di mattina! Che ci fai qui?!»

Il gemello neppure lo ascoltò e, accomodatosi sul bordo del letto, disse: «Phie sta dormendo della grossa. E non dirle che ho detto così, sennò mi strozza. Nessuna ragazza dorme 'della grossa'

Domenic si ritrovò a ghignare, e il fratello seppe di averlo alla sua mercé.

«Bene, vedo che sei tornato in te. Allora, come procedono le cose?»

Dom sfruttò le sue energie residue per mettersi supino e, intrecciate le mani dietro la nuca, fissò il fratello per alcuni attimi prima di parlare.

«Abbiamo decrittato circa il trentacinque percento di tutti i file che ho estrapolato, ma sono ancora informazioni così slegate tra loro da non avere quasi nessun senso. Abbiamo solo capito che, di mezzo, non ci sono Shunsuke-chan o Kaneda-chan. Per lo meno, loro sono puliti. Pare che non c'entri neppure Ekaterina, anche se non ho mai nutrito molti dubbi, in merito. E' slegata dalla Tashida da troppi anni, perché sia coinvolta anche in modo marginale.»

Cameron annuì, ora del tutto serio e attento.

«Pare che il  motivo principale dell'aggressione fosse rubare Asclepio, ma non sappiamo ancora chi altri vi sia coinvolto, oltre a Nobu-san e Noboru-san. Né sappiamo cosa intendessero farne. Se distruggerlo, o venderlo al miglior offerente. Inoltre, manca l’anello di congiunzione con chi ha materialmente fornito loro le informazioni su Asclepio. Ho addirittura pensato a una falla nella V.B. 3000; papà sta controllando tutti i database dell’azienda e i filmati interni.»

«Chi avrebbe potuto acquistare quel programma, visto che solo noi sapevamo che esisteva?» replicò Cam, dubbioso. Non voleva neppure pensare che vi fosse una talpa nella società dei genitori.

«Il mercato nero pullula di richieste. Come un tempo c'era il mercato degli organi umani, ora c'è per le tecnologie d'avanguardia. E chi non vorrebbe un medico personale che risolve ogni cosa?» ironizzò caustico Domenic, adombrandosi.

Cameron annuì, borbottando: «Già... e quanto potresti farti pagare le sue parcelle, se potessi usufruirne solo tu?»
«Appunto. Resta solo da capire quanto fosse ramificato l'interesse per Asclepio, e in quanti sapessero.»

Ciò detto, sospirò e aggiunse: «Ma c'è un'altra cosa che mi preoccupa.»

«E cioè?»

«Come facevano a sapere esattamente dove trovarvi? Come sono arrivati alla scuola?»

Sulle prime, Cameron non se l'era chiesto e, subito dopo, con il viaggio di ritorno verso Tokyo, il ferimento di Yuki e il loro trasferimento ad Anchorage, la domanda era rimasta in sospeso.

Ma non poté che dare ragione al gemello. Come avevano fatto a trovarli così facilmente?

«Non dubito sulle tue capacità di depistaggio. Sai guidare molto meglio di tante persone che conosco, con le automobili su gomma, e sono sicuro che tu abbia fatto il tutto e per tutto per percorrere strade il più possibile intricate, per far perdere le tue tracce.»

Cameron annuì.

«La domanda, quindi, mi sorge lecita. Come sapevano?»

«Pensi a un’altra spia? A una falla nel sistema della CIA? Qualcuno può aver seguito il segnale di Yuki-necchan?» si preoccupò immediatamente Cam, accigliandosi.

Dom assentì, chiudendo un momento gli occhi per meglio concentrarsi.

«Poche persone erano al corrente della missione, visto che è stata congegnata in fretta e furia. E, tolti gli agenti che erano a casa di mamma e papà – e che non sapevano esattamente cosa stesse succedendo in Giappone – rimangono fuori pochi nomi, dalla lista.»

«Ipotesi?»

«Un paio, ma non ho neppure il coraggio di metterli a voce, tanto l'idea mi disgusta. Ma, visti i precedenti, non me la sento di escludere nessuno. E questo spiegherebbe tutto. Asclepio, il tuo agguato all’albergo, il vostro ritrovamento. Tutto.»

Il pensiero di Cameron corse subito a Phie, addormentata nella sua stanza e, timoroso, mormorò: «Pensi a qualcuno che è qui?»

«No, altrimenti avrei già preso Bryce e l'avrei avvertito. Il problema è fuori da queste quattro mura, ma non è meno impellente solo perché è lontano. Sono convinto che, una volta decrittati tutti i dati, capirò anche chi ci ha traditi, ma ora non ho prove sufficienti per accusare nessuno.»

«E non puoi semplicemente usare la tua influenza per mettere al corrente qualcuno?» gli domandò per contro Cameron, frustrato.

Domenic rise sardonico, scuotendo il capo.

«Sono alla base della piramide, Cam, non un pezzo grosso. Mi usano perché sono bravo in quel che faccio e, alcuni di coloro per cui lavoro, sono anche orgogliosi di quel che combino coi computer. La maggioranza di loro, però, è lì per il fantomatico stipendio, non gli interessa nulla che io ci sia o meno.»

«Dopo tutto quello che hai fatto per loro?!» sbottò il gemello, contrariato.

«Io non lo faccio per loro, lo faccio perché sento di doverlo fare... per dare una mano. Tutto qui. Alcuni lo capiscono, altri no. E ho imparato che il mondo non è così pulito e ordinato come vorrei, o come credevo che fosse.»

Nel dirlo, rise di se stesso.

Era stato così idealista, all'inizio, così desideroso di cambiare le cose!

Però, si era trovato a scontrarsi, giorno dopo giorno, con le solite ipocrisie, i preconcetti, la burocrazia infinita, le restrizioni, l'abuso di potere e l'ostruzionismo dei vertici.

In pochi avevano creduto nel progetto del Dottor Eriksson, padre del loro attuale supervisore, e Domenic ne aveva subito in prima persona le ripercussioni.

Quanti ragazzi non era riuscito a riportare sulla retta via, e solo perché si era ritrovato dei 'no' stampigliati sulle sue richieste, senza alcuna ragionevole scusa a riguardo?

A chi avevano pestato i piedi? Quali colossi intoccabili avevano attaccato, perché gli venisse rifiutato l'arruolamento?

Quante menti brillanti avevano perso, a quel modo?

«Pensi di continuare, allora? Con la collaborazione, intendo» si informò a quel punto Cameron, forse comprendendo la frustrazione del fratello.

«Devo pensarci, fratellino, ma mi spiacerebbe rinunciare solo a causa di qualche mela marcia. Il sistema, in sé, non è male, però...»

«Però non sai se può andar bene per te e per le tue idee.»

Cam sorrise al fratello, gli diede una pacca sulla gamba e si alzò. «Dormi, ora, è meglio.»

Quando Domenic vide il fratello in prossimità della porta, mormorò: «Ehi, Cam...»

«Sì, fratellone?»

«E' sempre bello parlare con te.»

Cameron sorrise lieto, ridacchiò imbarazzato e, con un 'buonanotte' bofonchiato, uscì dalla stanza del fratello per tornarsene nella sua.

Lì, trovò Phie sveglia e insonnolita, ancora rosea dei suoi baci e, con tenerezza, si infilò nel letto per raggiungerla dopo essersi spogliato.

«Sei andato da Dom?» borbottò lei, sbadigliando.

Lui annuì, se la strinse al fianco e, dopo averle dato un bacio tra i capelli, sussurrò: «Dormi. Ti racconterò tutto domattina.»

«E' già mattina. Semmai, più tardi.»

«Precisina...» si burlò Cameron, massaggiandole il fianco, ricoperto dal leggero tessuto del pigiama. «Perché ti sei rivestita?»

«Avevo freddo, senza di te, e non mi andava di azionare il condizionatore.»

Chiuse gli occhi, gli diede la buonanotte e si volse.

Cameron, sospirando, si rassegnò a dormire e, dopo qualche attimo, si assopì.

 
§§§

«Ancora nulla. E' davvero frustrante possedere tutti questi dati, e non poterli sfruttare al meglio. Nient'altro, dal nostro contatto?» sbottò contrariato Nobu, scrutando accigliato la rete globale di GPS, in quel momento attivata per rintracciare un unico, singolo segnale.

Che, a quanto pareva, era assai latitante.

«Dice di non potersi sbilanciare più di così, che già a questo modo ha messo a rischio la sua copertura.»

Nobu sbuffò.

Per quanto ne sapeva, con tutti i soldi che avevano sborsato per ottenere quelle informazioni, la loro talpa avrebbe potuto sopravvivere agiatamente per i prossimi trent'anni... e sulle Colonie Lunari!

Peccato vi fossero solo scienziati, lassù, ma forse, ungendo le persone giuste, avrebbero potuto ottenere un posticino anche per...

Nobu lasciò perdere quel pensiero inutile, preferendo concentrarsi su affari più impellenti.

«Niente, dalla traccia audio?»

«Sembra scomparsa nel nulla. Non un solo scanner audio ha rintracciato la sua voce. Così, ho pensato di lavorare diversamente» lo mise al corrente Byron, volgendosi sulla sua poltrona a levitazione.

«Parla.»

Nobu, gli si avvicinò, sfiorando la sericea consistenza dei suoi biondi capelli. Byron apprezzò.

«Ho consegnato la traccia audio ai tuoi tecnici, perché la cercassero all'interno della rete. Dubito fortemente che qualcuno, al tempo d'oggi, non abbia neppure una registrazione audio online. Che sia voluta, o fortuita, ma deve esserci

«Ottima idea. Forse, trovando la fonte di quella voce, potremo indirizzare meglio le nostre ricerche.»

«Tre settimane, e Van Berger ancora dichiara alla stampa di non avere notizie del figlio. Sarà vero? O avrà già scoperto tutto?» mormorò quasi tra sé Byron, poggiando i gomiti sulle cosce.

Nobu si adombrò, a quel pensiero.

Sapeva bene quanto, il padre, fosse stato restio a colpire direttamente il giovane Cameron.

Aveva sempre provato un certo affetto per il giovane rampollo dei Van Berger, e l'idea di fargli del male lo aveva non poco angustiato.

Solo con la promessa di catturarlo – e non ucciderlo – Nobu era riuscito a convincerlo, ma l'intera faccenda era sfuggita loro di mano con l'intervento di Yuki.

Quella sciocca, che lui superficialmente non aveva tenuto d'occhio nel corso degli anni, si era messa in mezzo nel momento sbagliato, facendo naufragare tutto.

E ora, non solo non avevano Asclepio, ma l'attenzione dei media e dei Van Berger era fissa su di loro.

Perché solo loro erano stati a conoscenza della visita di Cameron in Giappone, e solo dalle loro fila poteva essere partita ogni cosa.

Già il fatto che il ragazzo fosse sparito assieme ad Asclepio, di cui nessuno di loro – in teoria – conosceva nulla, deponeva a loro sfavore.

Se poi Yuki fosse riuscita a parlare con i Van Berger, tutto sarebbe venuto a galla.

Se tutto si fosse risolto come previsto – guardie del corpo morte e Cameron in ostaggio – avrebbero potuto far passare la cosa come una mossa della yakuza.

Un imprenditore straniero veniva sequestrato a scopo di riscatto.

Nessuno avrebbe pensato a loro, né alla scomparsa del programma Asclepio dalle tasche del giovane Van Berger.

Così, invece, dovevano preoccuparsi di mantenere una facciata di doveroso e dolente rimorso, e trovare nel frattempo un capro espiatorio da dare in pasto a stampa e polizia.

Yuki l'avrebbe pagata cara, anche a costo di strangolarla con le sue stesse mani.

«Molto bene. Aspetteremo di avere notizie dai tecnici e, nel frattempo, continueremo con la ricerca del segnalatore di Yuki-chan

Byron annuì, ma disse: «C'è un'altra cosa. Ekaterina-san è stata qui, l'altro giorno. Voleva avere notizie di Yuki-chan. Io mi sono limitato a dirle che era in viaggio di piacere, da qualche parte nel Sud America... sai, in giro per le Ande, dove le piace andare di solito per fare scalate.»

Nobu assentì e sospirò. Avrebbe dovuto pensare che, presto o tardi, la loro madre avrebbe chiesto informazioni direttamente alla fonte.

Non osava neppure immaginare quante chiamate avesse fatto alla figlia.

«Hai fatto bene. Così, hai giustificato anche la mancanza di segnale del suo cellulare. In quelle valli impervie, anche il miglior ricevitore satellitare può essere latitante. Ed è pur vero che, tra le destinazioni di Yuki-chan per le prossime vacanze, era presente il Cerro Torre.»

«Hai controllato la sua agenda privata?» ironizzò Byron, divertito all'idea che il serioso Nobu si fosse abbassato a curiosare nel palmare della sorella.

Anche l'uomo accennò un sorrisino, immaginando senza problemi cosa stesse pensando l'inglese.

«Sì, lo so, avrei potuto farlo fare a chiunque altro, ma ero curioso di capire un po' meglio la mia cara sorellina. E sai cos'altro ho trovato?»

Ora curioso, Byron intrecciò le mani e lo fissò interessato.

«No, dimmi.»

«A quanto pare, la cara Yuki-chan ha una cotta niente meno che per il giovane Van Berger. Ho trovato una sua fotografia, sul palmare.»

«Oh... pensi sia intervenuta per questo?»

«E' possibile. Anche se mi stupisce che Yuki-chan si faccia prendere così la mano. E' sempre stata una ragazza molto controllata, anche se amante degli sport estremi. Non ce la vedo ad avere una sbandata per un tipo come Cameron Van Berger. Lei se li sceglie più … intellettuali.»

Accigliandosi un poco, Byron mormorò: «Sei sicuro che fosse proprio Cameron-chan, e non Domenic-chan? Quei due si somigliano come gocce d'acqua e, se ci pensi bene, Yuki-chan e Domenic-chan hanno molte più cose in comune e, se non ricordo male, sono sempre andati molto d'accordo

«Potresti avere ragione. Non ho badato al colore degli occhi, in effetti. Ma, ora che mi ci fai pensare...»

Sorrise, al ricordo di quella particolare vacanza a Hokkaido, dove aveva finalmente fatto capitolare Byron.

E dove, in occasione delle festività natalizie, erano stati presenti anche i Van Berger ed Ekaterina, assieme alla sua ultima fiamma.

Nonostante tutto, lei e Noboru erano rimasti amici e, per permetterle di vedere i figli, l’ex marito non di rado aveva organizzato eventi simili.

Byron parve seguire quel filo particolare dei pensieri e, sorridendo malizioso, asserì: «Forse, eri troppo impegnato a cercare di farmi cadere tra le tue braccia, per notarlo, ma allora il giovane Domenic-chan mostrava i chiari segni di una bella cotta con la C maiuscola, per la cara Yuki-chan. E, anche se all'epoca la ragazza era impegnata con quel Moroazaki-san, era evidente che, anche a lei, il ragazzo interessava. E molto.»

«Sei stato più attento di me, questo è sicuro.»

«Mi paghi bene, per essere i tuoi occhi e le tue orecchie.»

Nobu sorrise.

Byron si era dimostrato fin da subito un'ottima guardia del corpo ma anche, e soprattutto, un collaboratore attento e molto intuitivo.

Non ci aveva messo molto per comprenderne le potenzialità, rendendolo a tutti gli effetti un socio all'interno dell'azienda, e non solo il suo bodyguard.

«Quindi, pensi che Yuki-chan abbia agito per salvare il fratello del suo innamorato?»

Scuotendo il capo, Byron replicò: «Non credo. Penso avrebbe agito indipendentemente da questo. Sai quanto è nobile d'animo.»

Nel dirlo, ridacchiò.

«Ma penso che si sia fatta aiutare da Domenic-chan che, come sai, è un mostro nel campo dei computer. Non a caso, ha creato Asclepio

«Quindi, se troviamo lui, possiamo mettere all'angolo Yuki-chan

«Di sicuro, le faremo passare un brutto quarto d'ora.»

«Focalizzandoci su tre cardini di ricerca diversi, dovremmo riuscire a ottenere qualcosa, a questo punto. Se anche non fossero insieme, potremo usare uno dei tre per ottenere gli altri, visto che ormai li voglio tutti

«Mai lasciare il lavoro a metà, ovvio» assentì Byron, più che d'accordo con il suo capo.
 







Note: Nobu e  Byron, parlando degli eventi dell'Hokkaido, si riferiscono alla OS che ho postato recentemente nella cartella Honey's World, intitolata Decisioni. Per chi non l'avesse letta, consiglio di darle un'occhiata, così per avere le idee più chiare.

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Capitolo 17
*** XVII Error ***


 
XVII. Error.
 
 
 
 
L'aurora boreale splendeva incerta e sinuosa, nel cielo notturno sgombro di nubi e Phie, sorridendo melanconica a un assonnato Cameron, mormorò: «Sarebbe bellissimo poter uscire per una passeggiata al chiaro di luna, con questo spettacolo nel cielo.»

«Sai che ci gambizzerebbero, prima di poter mettere piede fuori» brontolò il fidanzato, lanciando un'occhiata indispettita all'agente Regina Johnson.

L'amazzone color cioccolato ricambiò lo sguardo e sorrise leggermente, chiosando: «Paura di confrontarti con una che ti può stendere?»

I ricordi di Cam corsero a qualche giorno addietro, quando aveva sfidato l'agente a un duello di kenpo... non sapendo che quest'ultima fosse cintura nera della specialità.

La donna non solo aveva accettato, ma l'aveva anche illuso di potercela fare a vincere.

Con un sogghigno e un colpo da maestro, però, lei lo aveva steso a terra e, naso contro naso, l'agente gli aveva ricordato che nessuno di loro era un novellino.

Specialmente nel corpo a corpo.

Cameron rabbrividì e, scuotendo il capo, esalò: «Non mi cimenterò mai più in una diatriba cheek-to-cheek con lei, agente, promesso.»

Regina scoppiò a ridere brevemente, prima di azionare il suo microfono da polso,  parlando poi brevemente con uno dei suoi colleghi.

Forse lo stesso Bryce, che si trovava all'esterno, in quel momento.

Un attimo dopo, la donna sorrise alla coppia dinanzi alla finestra del patio e disse: «Potete uscire. Per una ventina di minuti, non di più. Chiaro?»

Cameron e Phie sgranarono gli occhi, stupiti di fronte a una simile concessione.

Dopo un rapido scambio di sguardi, i due giovani corsero dagli altri compagni di reclusione, più che mai decisi ad approfittare del piccolo break.

Quasi senza prendere fiato, Cam si presentò nella stanza dei computer, dove sapeva trovarsi il fratello e Yuki.

Incurante di tutto, si buttò in mezzo allo schema 3D dei file da decrittare, facendolo fluttuare come un'onda di risacca e, eccitato, esclamò: «Si esce in giardino! Forza, toglietevi quei diavolo di caschi per la realtà virtuale e venite fuori!»

Domenic e Yuki, sobbalzando per l'entrata in scena a sorpresa di Cam, lo fissarono per un istante senza capire.

Quando, però, la sua novità riuscì a penetrare nei loro cervelli sovraesposti a bit di informazioni, sorrisero entrambi e, senza tanti giri di parole, si tolsero caschi e guanti per seguirlo.

Nel corridoio trovarono Phie e Minami, già debitamente attrezzate entrambe con piumini light e cuffie in testa.

Domenic fu lesto a imitarle, e così pure Cam e Yuki.

Nel giro di un paio di minuti, eccitati come scolaretti, si presentarono di fronte alla porta del patio, pronti per sfruttare fino all’ultimo quell’uscita insperata.

Lì Regina, dopo averli attentamente controllati, ordinò perentoria: «Venti minuti. Non uno di più. Non possiamo sapere chi possa trovarsi al di là del bosco, dove terminano i sensori di controllo.»

«E' il tempo che impiegherebbero delle persone in motoslitta per raggiungere la villa, vero?» ipotizzò Domenic, ghignando all'agente.

Lei lo fissò malissimo, ma annuì.

«Esci fuori, cervellone, e raffredda le meningi. Coraggio!»

Ridendo, Dom fece come le disse la donna e, assieme ai suoi amici, uscì nel giardino ricoperto di neve, gli occhi rivolti verso l'alto per ammirare lo spettacolo offerto dalla natura.

Le onde verdi e blu dell’aurora boreale si altalenavano nel cielo, alternando pigmenti più forti, come il rosso e l'arancione.

L'aria era gelida, probabilmente erano a parecchi gradi sottozero, ma a nessuno interessò.

Era la prima, vera uscita all'esterno che compivano da quando erano giunti lì, tre settimane addietro.

Il programma di decrittazione era a buon punto, e il settanta percento dei file erano stati inviati a Quantico, perché iniziassero a ricomporli in uno schema preciso.

Restava ancora da capire quanto fossero credibili le allusioni di Domenic, riguardo a una talpa all'interno della squadra, se non addirittura della V.B. 3000.

Ma sarebbero arrivati anche a quello, a suo tempo.

Mano nella mano con Yuki, Dom le sorrise sereno e mormorò: «Non è bellissimo?»

«Stupendo. Non avevo mai assistito a uno spettacolo simile.»

«Mai? Eppure, viaggi moltissimo» esalò sorpreso il giovane.

Lei gli sorrise, deliziata suo malgrado all'idea che Domenic sapesse così tanto sul suo conto.

Dimostrava interesse, un interesse che lei non aveva mai neppure sospettato.

Era stato strano, ma liberatorio, ammettere con lui i suoi sentimenti, ed eccitante scoprire quanto anche Domenic fosse preso da lei.

Certo, continuava ancora a chiamarla con quello stupido nomignolo, 'sorellona'1, ma erano ancora così freschi di scoperta, che poteva passarci sopra senza problemi.

Era una vita che lui la chiamava così. Probabilmente, non se ne rendeva neppure conto.

E a lei, in quel momento, non interessava che lui la chiamasse così.

Era vitale stare al suo fianco, aiutarlo, spalleggiarlo... amarlo.

Solo questo contava.

«Ho sempre puntato sulle cime classiche, quando volevo scalare, e non mi è mai venuto in mente, per esempio, di venire a scalare Denali.»

«Quando tutto sarà finito, potrei anche seguirti.»

Yuki si aprì in un sorriso eccitato – sapeva bene che Domenic era un ottimo marinaio,  e che prediligeva le gite in barca – e, annuendo, dichiarò: «Ti insegnerò tutti i trucchi del mestiere.»

«Mi piace imparare» mormorò lui, chinandosi per darle un bacio.

Lei lo accettò con piacere ma, un attimo dopo, si ritrovò a imprecare per il freddo, quando una palla di neve centrò il suo volto e quello di Domenic.

Anche il giovane si lasciò andare a una discreta sequela di insulti, mentre Cameron e Phie se la ridevano divertiti.
«E' così, eh?» ghignò Dom, lanciando un'occhiata divertita a Yuki.

Afferratala a una mano, si andò a nascondere nei pressi di un cespuglio ricoperto di neve e, a gran voce, esclamò: «Ve la siete cercata! Ora vi massacreremo!»

«E' tutto da vedersi! Sai che io e Phie siamo in combutta da anni!» rispose per contro il gemello, ridendosela di gusto.

«Anche io e Yuki-necchan, se è per questo! Solo, in modo diverso.»

«Vale di più il mio!»

«Dimostriamo loro il contrario?» propose Domenic a Yuki, sorridendole sbarazzino.

Lei non poté che assentire. Era così raro vederlo sorridere a quel modo, come se nessun pensiero lo potesse scalfire.

Sapeva che non era così, che parte della sua mente era ancora al lavoro su quanto avevano appena abbandonato, ma in quel momento era... libero. Felice.

«Li distruggeremo» assentì Yuki, più determinata che mai.

Ne seguì un'autentica battaglia di palle di neve, condita da tante allegre risate.

Bryce osservò il tutto dal patio, in compagnia di Regina, mentre il resto degli agenti pattugliava il perimetro o controllava i sensori di movimento, posizionati nel bosco.

«Spero di non aver sbagliato, a chiederti di farli uscire. Ormai, credo fossero pronti per un ammutinamento.»

«No, hai fatto bene. Erano fin troppo nervosi. Questa situazione metterebbe a dura prova chiunque, visto chi li sta cercando. Un break non può far loro che bene.»

Regina annuì pensierosa, lanciando un'occhiata intorno a sé.

Tutto appariva tranquillo, eppure sapeva che i loro nemici non avevano mai smesso di cercarli. Se lo sentiva nelle ossa.

Si concesse ugualmente il lusso di sorridere, quando Yuki sbaragliò la concorrenza muovendosi come un'ombra tra le ombre, veloce e rapida quanto il morso di un serpente.

Non aveva dimestichezza con quel genere di arte marziale, ma apprezzava la bravura di chi la praticava.

E Yuki Tashida era davvero maestra, nel ninjutsu.

«Non è valido!» esclamò Cameron, colpito in pieno viso da un assalto proditorio della giovane giapponese.

Minami rise e, da bravo giudice di gara, replicò: «Il colpo è andato a segno, perciò sei squalificato, Cameron-san

«Mi appello, giudice. Usava armi improprie!»

«E quali, scusa?» esalò Yuki, sull'orlo del pianto per il troppo ridere.

Anche Domenic fissò il fratello in cerca di spiegazioni, e Cameron, ghignante, dichiarò: «E' troppo brava!»

Tutti risero a quel commento e Phie, battendo le mani con Yuki, disse: «Ora maschi contro femmine!»

«Traditrice! Vai con i vincitori?!»

«Ovvio» ammiccò Phie, prendendo sottobraccio la ragazza. Un attimo dopo, lanciò un'occhiata serafica a Domenic, aggiungendo: «Prego... vai pure dall'altro lato del campo.»

«Dispotica» sbuffò il giovane, pur sorridendole.

«Mi amate anche per questo, no?» ironizzò lei, mettendosi in posizione dietro il riparo offerto dal cespuglio.

Yuki, tutta ridacchiante, mormorò: «Li metti in riga senza problemi, eh?»

«Che ci vuoi fare. Tutta pratica.»

 
§§§

Byron fu svegliato dal bip continuo e fastidioso del suo palmare.

Al suo fianco, il corpo nudo e fresco di Nobu giaceva prono, addormentato e soddisfatto.

Durante il corso della giornata erano stati più che impegnati perciò, a pomeriggio inoltrato, si erano recati nel suo appartamento per un breve interludio rilassante.

La sera stava ormai calando, e il cielo aveva già iniziato a prendere tinte fosche e cupe.

Il profilo della Tokyo Tower si vedeva appena, da lì, ma a lui poco interessava.

Preferiva altri panorami, a quello.

Afferrato il palmare per capire chi lo stesse disturbando, Byron sgranò di colpo gli occhi quando capì cosa vi fosse di così urgente.

Sorrise. Sorrise come poche altre volte aveva fatto.

Lesto, si levò da letto per vestirsi, ma questo movimento improvviso fece destare Nobu che, nell'ammirarlo nudo e bellissimo alla luce diafana del sole morente, mormorò: «Dove pensi di andare?»

Byron gli rivolse uno sguardo pieno di desiderio, ma non tornò a letto.

Voleva battere il ferro finché era caldo.

«C'è un segnale attivo, per quanto riguarda Yuki-chan

Un secondo bip attirò l'attenzione di entrambi e, aprendosi in un sorriso maggiore, l'inglese asserì: «Bingo. Hanno trovato anche Ignoto1. La voce è stata riconosciuta.»

«E a chi appartiene?» si interessò Nobu, levandosi in piedi per poi drappeggiarsi una vestaglia di seta addosso.

Byron non approvò, ma lasciò correre.

Lo preferiva di gran lunga nudo e asservito al suo piacere, ma tant’era.

Dovevano occuparsi di quel problema e, una volta messi in campo gli uomini necessari, avrebbero potuto tornare a godere l’uno dell’altro.

«Niente meno che Sophie Shaw. Il mondo è piccolo, a quanto pare» ghignò l’inglese, mostrando la foto del palmare all’amante.

Nobu aggrottò la fronte e, nel ripensare ai giorni del tentativo di sequestro, qualcosa non gli tornò.

L'inglese, nel frattempo, continuò a osservare i dati inerenti il segnalatore della sorella di Nobu.

«La cosa curiosa è l'ubicazione del segnale di Yuki-chan. Si trova a sessantuno gradi Nord, e centoquarantove gradi ovest.»

Il giapponese rispose meccanicamente, ancora preso dal precedente pensiero.

«Alaska. Probabilmente Anchorage, ma potrei sbagliarmi. Che ci fa così lontano da casa? E, soprattutto, come ha fatto ad arrivare lì

«Forse, dovremmo chiedere lumi al nostro contatto. Così, potrebbe finalmente spiegarci chi c’è dietro al salvataggio di Cameron-chan, e perché Yuki-chan ha addosso un localizzatore satellitare. Dubito che si sia messa a giocare al dottore con i gemelli Van Berger, arrivando a farsi impiantare uno dei loro chip di localizzazione sottopelle ma, da quei tre, potrei aspettarmi di tutto.»

Scosse il capo e, proseguendo nel suo pensiero ad alta voce, aggiunse: «Inoltre, non credo che la famiglia Van Berger, per quanto importante, avrebbe potuto smobilitare un'intera base Americana per supportare il salvataggio di fortuna del loro rampollo e dei suoi soci. Ci deve essere qualcuno di più grosso, e potente, dietro. Qualcuno di cui, la nostra talpa, non ci ha parlato. Possibile che ci sia qualcuno che ci controlla, mentre noi controlliamo Yuki-chan

Quando avevano ricevuto notizie in merito all’ultimo contatto di Yuki, nei pressi della Base Americana di Zama a Tokyo, la loro confusione era stata totale.

Da lì in poi, ogni segnale era svanito come nel nulla e, per settimane intere, non avevano più saputo nulla di lei e della sua ubicazione.

E ora questi nuovi dati. Come interpretarli, però?

«Il dubbio che mi viene, ora, è un altro» asserì Nobu, lanciando un'occhiata dubbiosa al suo amante. «Se Sophie Shaw si trovava nella palestra dove avete trovato Yuki-chan e Van Berger... come faceva a essere, contemporaneamente, all'ambasciata americana

Byron comprese immediatamente a cosa stesse facendo riferimento Nobu, e assentì torvo, rammentando a sua volta quel particolare.

«La giovane in lacrime, quella che era al fianco di Brandon Van Berger, corrisponde alle foto che abbiamo noi, e ricordo abbastanza bene la ragazza, per dire che era lei. Pensi che qualcuno l’abbia sostituita?»
Nobu annuì, sempre più torvo in viso.

«Devono aver ingaggiato qualcuno per prenderne il posto, ma mi domando come abbiano fatto a ingannare i viewscan. Le reti nazionali ne hanno diversi, incorporati nelle telecamere, proprio per evitare che siano degli impostori, a parlare. Come, dunque?»

«Chi è così potente da potersi muovere con così tanta solerzia, possedere soluzioni all'avanguardia per ingannare i viewscan e, al tempo stesso, disporre di potere sufficiente per tirare in ballo anche una Base Militare Americana?»

«Ben pochi enti, temo» asserì torvo Nobu, passandosi una mano tra i corti capelli.

«E' arrivato il momento di capire con chi sia invischiata Yuki-chan» dichiarò lapidario Byron, ormai pronto a tutto.

Si erano spinti troppo in là, per fermarsi e anche loro, dopotutto, avevano amici potenti.

 
§§§

Il telefono continuò a squillare, ma non era più il tempo di parlare con i Tashida.

Lui aveva fornito la pistola fumante con cui far crollare ciò che più detestava, ma non sarebbe più intervenuto nella faccenda.

Aveva già rischiato troppo, e la sua pensione era stata messa più che in pericolo.

Se qualcuno fosse riuscito a risalire a lui, tutto sarebbe andato in fumo, e questo non poteva permetterlo.

Se i Tashida fossero stati più abili nel gestire la situazione, tutto quel caos non sarebbe mai nato.

Quel pensiero gli fece tornare alla mente Yuki Tashida, colei che aveva mandato in malora tutto il piano.

E chi mai avrebbe pensato che si sarebbe intromessa negli affari di famiglia, smascherando il loro piano di rapire il giovane Van Berger?

Avrebbe dovuto tenerla maggiormente sotto controllo, a suo tempo, ma si era fidato dei buoni, cari, vecchi valori famigliari.

Aveva pensato che questi potessero bastare a tenerla lontano dalla verità.

Invece, come tutti quelli come lei, aveva voluto ficcare il naso.

E, come quella specie di cavaliere senza macchia quale era Domenic Van Berger, si era infilata proprio dove non avrebbe dovuto.

Era troppo vecchio per portare avanti missioni del genere, non ce la faceva più.

Ma i soldi dei Tashida gli facevano comodo, visto quanto misera era la paga di un dipendente statale.

Anche uno statale che, per decenni interi, aveva dato tutto se stesso per il proprio Paese.

Aveva dovuto accettare che il suo ruolo, un tempo primario e importante, venisse scavalcato, soppiantato da ragazzini imberbi e veloci di mano.

No, tutto ciò era semplicemente inaccettabile, e lui lo avrebbe fatto capire a tutti. In un modo o nell'altro.

Quel nuovo sistema si sarebbe frantumato, implodendo su se stesso, un gigante dalle gambe d’argilla a cui bastava bagnare i piedi, perché crollasse.

Ne avrebbe riso una volta arrivato alle isole Kaiman, lontano da qualsiasi richiesta di estradizione, godendosi cocktail in riva al mare e donne compiacenti.

Sì, sarebbe stata una bella vita, e avrebbe riso del fallimento di Eriksson e Van Berger.

 
§§§

«A quanto pare, il nostro contatto si è defilato. Pensi di cercarlo, o puntiamo direttamente a Nord?» mormorò Byron, sfilandosi il bluetooth dall'orecchio.

«Abbiamo abbastanza uomini per fare entrambe le cose. La sua traccia vocale è già stata inserita a computer, visto che è stato così sciocco da non contraffarla. Sarà un gioco da ragazzi trovarlo.»

«Avverto il laboratorio. E vado a prendermi una giacca a vento nuova» sogghignò Byron, passandogli accanto per uscire dall'ufficio.

Nobu lo fermò a un polso, lo fece volgere a mezzo e mormorò: «Starai attento, vero?»

«Non sapendo contro chi dobbiamo scontrarci, per forza. Tua sorella mi ha già gabbato una volta, e non voglio succeda una seconda. Visto che ha un segnalatore sottopelle, deve essere implicata in qualcosa di grosso, perciò terrò gli occhi aperti e la mano pronta sul grilletto della pistola.»

«Bene» assentì l'orientale.

L'inglese, allora, si chinò su di lui per dargli un bacio leggero e, sulle sue labbra, aggiunse: «Tornerò da te, cascasse il mondo.»

«Lo distruggerò, il mondo, se non tornerai.»

Byron sorrise, annuì e lo salutò con un cenno della mano, uscendo di gran carriera dallo studio all'ultimo piano della Tashida Group.

Rimasto solo, Nobu si lasciò andare contro lo schienale della sua poltrona biodinamica, che si conformò immediatamente alle caratteristiche del suo corpo.

Lì, chiusi gli occhi, cercò di immaginare come poter vendicarsi della sorella, ma l'arrivo di suo padre lo strappò a quei piacevoli pensieri.

Senza discostarsi dalla poltrona, che stava massaggiando i suoi muscoli tesi, Nobu salutò sommessamente suo padre.

L'uomo, all'apparenza stanco e tirato, imitò il figlio e si accomodò su una poltrona simile, domandandogli senza tanti preamboli: «Avete trovato Yuki-chan

«A quanto pare, è in gita in Alaska.»

Noboru parve piuttosto sorpreso dalla notizia, ma non domandò oltre.

«Quanto tempo ancora pensi di tenere quell'uomo qui alla ditta... e nel tuo letto?! Non pensi alla reputazione di Midori-san? E' tua moglie!»

Lo sguardo di Nobu divenne gelido come le raffiche di vento all’esterno, che sfregiavano i vetri della torre di carbo-cristallo della Tashida.

«E' mia moglie solo perché conveniva alle nostre famiglie. Pensi che lei non sappia di Byron? Allora stai invecchiando, padre, perché il tuo acume sembra essere sparito. Midori-san ne è quasi sollevata, credimi, perché così non deve più avermi intorno perché io la metta incinta! Stiamo bene così. Lei con il suo denaro e i suoi vizi, io con l'uomo che amo. Punto. Non deve interessarti altro.»

«La famiglia Nakamura...»

Il figlio interruppe la filippica del padre con un gesto secco e fermo della mano.

«Abbiamo avuto due figli, che Midori-san adora, e anch'io se è per questo. Abbiamo portato a termine quello che voi volevate, perciò non venirmi a dire come devo vivere la mia vita, adesso. Da quel che vedo, Midori-san non ha nessunissima intenzione di trovarsi un amante e, anche se lo facesse, non sarebbe un problema. E' una donna che è stata sfruttata dalla sua famiglia per i propri interessi. Esattamente come hai fatto tu con i tuoi figli.»

Rise sarcastico, si accese la sua sigaretta elettronica e, dopo aver inspirato il dolciastro aroma alla vaniglia, aggiunse: «E' solo un caso, se Shunsuke-chan e Kaneda-chan abbiano trovato la felicità, nel loro matrimonio. Non è merito tuo, ricordatelo.»

«Ciò non toglie che il buon nome della famiglia vada mantenuto, e tu ti stai comportando come un depravato!»

Incurante dell'insulto, Nobu si levò dalla poltrona e si avvicinò alle vetrate.

All’esterno, le luci si erano accese un po’ ovunque e le strade pullulavano di vita, minuscoli esserini che, come tante formiche, correvano qua e là, inconsapevoli.

Avrebbe tanto voluto essere senza pensieri come loro, privarsi del peso che sentiva gravargli sulle spalle.

Questo, però, avrebbe voluto dire perdere il prestigio che tanto aveva faticato a ottenere.

E lui viveva anche di questo, non solo dei frutti dell’amore per Byron.

Intessere tanti e tali contatti con il mondo sommerso in cui era visto come un dio, godere del rispetto e del timore dei suoi sottoposti.

Queste erano droghe ben più forti della cocaina, del crack delle altre porcherie sintetiche vendute ai tossici.

Neppure suo padre, pur essendo inserito in quel tessuto così complesso, sembrava goderne quanto lui.

Un vero peccato, almeno per suo padre.

«Io so questo, padre. Midori-san non si è mai lamentata con me. I nostri figli crescono sani, forti e intelligenti, io sto bene con Byron-san e tu non hai merito in nessuna di queste cose.»

Si allontanò dalle vetrate con movimenti armonosi e, nel portarsi accanto alla sua scrivania, aggiunse: «Oh, e un'altra cosa. La tua adorata Yuki-chan ti ha tradito più di tutti noi messi assieme, a quanto pare. Non soltanto liberando Cameron-chan, ma in mille altri modi che ancora dobbiamo scoprire fino in fondo.»







Note: Il cerchio si sta stringendo, e la minaccia rappresentata da Nobu e Byron si fa sempre più vicina ai ragazzi. Ora che sanno dove trovarli, non esiteranno a muoversi. Direi che, ormai, si comincia a capire chi abbia tradito i ragazzi, ma lascerò il dubbio ancora per un po'. Se volete, potere dirmi chi pensate possa essere, comunque.
Grazie a chi ha letto e/o commentato, e alla prossima!

 

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Capitolo 18
*** XVIII Danger ***


Note: in questo capitolo, ci sono delle scene piuttosto cruente, perciò ho preferito avvisarvi, perché foste preparate. Non ci andrò tanto per il sottile, perché Byron non è uno che ci va tanto per il sottile...
 








XVIII. Danger.
 
 
 
 
 
«Evviva!» esclamò Minami, lanciando in aria un pugno per la soddisfazione.

Domenic e Yuki si abbracciarono giocondi e, nel mezzo della stanza dei computer, si accesero tutti i file fino a quel momento rimasti opachi e senza luce.

Fu come trovarsi nel bel mezzo della nascita dell'Universo.

Alzatasi in piedi, Minami si unì all'abbraccio e, insieme, danzarono giocosi nel mezzo della stanza, incuranti di avere ancora addosso guanti e caschi per la realtà virtuale.

Quando Phie aprì la porta per controllare cosa stesse succedendo, visto il loro cacofonico esultare, li fissò strabiliata per un momento, prima di chiedere: «Ehi, che succede?»

«Abbiamo concluso la decrittazione!» esclamò eccitato Domenic.

Sophie si aprì subito in un sorriso esaltato e, senza attendere oltre, gli corse incontro per abbracciarlo con foga.

Dom la sollevò tra le braccia, le fece fare un mezzo giro in aria prima di riporla a terra e, tutto contento, se la strinse al petto.

«Ce l'abbiamo fatta, Phie! Ce l'abbiamo fatta!»

Un attimo dopo, Cameron giunse a sua volta nella stanza e, nello scorgere tutta quell'allegria, sorrise speranzoso e domandò a sua volta: «Ce l'avete fatta? E' tutto finito?»

Yuki e Minami annuirono e, mentre Phie si scostava da Domenic per sorridere al fidanzato, le sirene del rifugio iniziarono a suonare come banshee furiose.

Tutta l'allegria per il successo appena ottenuto, venne subito cancellata da qualcosa che nessuno di loro si era aspettato.

I segnali del collegamento satellitare saltarono in quel medesimo istante, impedendo di fatto l'invio degli ultimi dati al centro di Quantico.

Le luci principali caddero, facendo scattare in automatico quelle di emergenza e, per i corridoi e le scale, la corsa degli agenti di sicurezza parve il rimbombo di una salva di cannoni.

Bryce fu il primo a piombare nella stanza, la pistola già in mano e l'aria di uno che aveva appena visto un fantasma.

«Ehi! Tutto bene?!»

Domenic, la mano stretta a quella di Yuki, annuì, ma disse torvo: «Il segnale con Quantico è saltato. Che sta succedendo?»

«Qualcuno ha manomesso la centralina esterna e, a quanto pare, ha colpito la parabola satellitare sul tetto. Non so come, ma c'è riuscito. Un colpo da maestro, mi viene da dire.»

«Sono qui. Ma come hanno fatto?» esalò Yuki, preoccupata.

Dom la strinse a sé, protettivo e, rivolgendosi a Bryce, gli domandò: «Cosa dobbiamo fare?»

«C'è un bunker, nel seminterrato. Ora, voi ci andrete e aspetterete lì. Noi penseremo a tutto.»

Domenic si limitò ad annuire, ma Cameron non fu di quell'avviso.

«Non ci puoi tagliare fuori, Bryce. Possiamo dare una mano anche noi!»

L'amico non perse tempo a essere gentile, e si limitò a ringhiare furioso: «Noi siamo dei professionisti, Cam. Voi, no. Fine della partita. Ora, scendi con gli altri e fammi il piacere di calmare i bollenti spiriti. Non ho bisogno di teste calde, adesso.»

Ciò detto, defilò fuori per raggiungere i colleghi, ma Minami lo rincorse nel corridoio fino ad afferrarlo a un braccio.

Furiosa in viso quanto terrorizzata, gli intimò: «Vedi di non morire. Mi devi ancora dire perché sei diventato un agente, Kendall-san

Lui le sorrise a mezzo, le diede un buffetto sulla guancia e, annuendo, le promise: «Quando ne usciremo, ti dirò tutto, va bene? Ma ora, vai.»

La ragazza annuì, guardandolo correre verso il pianterreno, dove si trovavano gli altri agenti di scorta.

Phie e Yuki la raggiunsero e, nel prenderla per mano, la accompagnarono dabbasso, dove si trovava il bunker.

Dietro di loro, Cameron e Domenic camminarono più lentamente, come studiando la situazione da molteplici angolazioni.

Sfiorarono con lo sguardo ogni più piccola parte della casa, memorizzando la posizione di ogni cosa, dopodiché annuirono tra loro.

Se c'era una cosa in cui entrambi erano sempre stati bravi, era la memoria eidetica.

«E' ovvio che non farò neppure lontanamente quello che ha detto Bryce. Spero sia chiaro» mormorò Cameron al fratello.

«Naturale. Pensavi davvero credessi il contrario?» ironizzò Domenic, ammiccando.

Cam sogghignò, e batté pugno contro pugno con il gemello.

Rinchiudersi dentro un bunker non era la soluzione. Se i loro agenti fossero stati sopraffatti numericamente, nessuno di loro sarebbe stato al sicuro.

Il problema principale di un bunker, è il ricircolo dell'aria: bloccato quello, l'interno in cemento armato diventa una enorme bara.

Meglio combattere, piuttosto.

Non appena ebbero raggiunto il seminterrato, videro le luci spegnersi al piano superiore, segno che gli agenti avevano escluso anche i neon di emergenza per operare nella semioscurità.

Domenic accese per un istante il suo cellulare, lasciando che quella difana luce illuminasse tutti loro e, lanciata un’occhiata alla porta in acciaio temprato del bunker, mormorò: «Bene, ragazze... pronte per l'ammutinamento?»

Le dirette interessate lo fissarono basite, ma non certo il gemello, che si mosse come in risposta a un comando silenzioso.

Cameron aprì il portone del bunker l’attimo seguente e, dopo aver contato dieci secondi, lo richiuse con un gran rimbombo.

A quel punto, mimò l'atto di stare in silenzio, indicò a tutti di spostarsi nel sottoscala e, a bassa voce, mormorò a sua volta: «Io e Dom non ne vogliamo neppure sentir parlare, di rinchiuderci lì dentro. Se deve andare male, preferisco menare un po' le mani.»

Yuki fissò vagamente sorpresa Domenic, che annuì determinato e la giovane, turbata, asserì: «Non è un gioco, per l'amor di Dio! Cameron-kun, non cominciare, per favore!»

Quest'ultimo aggrottò la fronte e replicò: «So benissimo che non è un gioco. Se i nostri ce la fanno, bene, ci sobbarcheremo i loro insulti ma, se vengono sopraffatti per inferiorità numerica, il nostro contributo sarà vitale. Gli uomini di tuo padre non commetteranno due volte lo stesso errore, Yuki-necchan, e ci manderanno addosso gente preparata. Tanta gente preparata.»

«Proprio per questo dobbiamo nasconderci!» protestò lei, non riuscendo a impedire che la paura le facesse tremare la voce.

No, era davvero troppo. Non sarebbero sopravvissuti, se si fossero lanciati allo sbaraglio in mezzo alla mischia. Non questa volta.

Fu Domenic a intervenire, a quel punto.

«La prima cosa che faranno sarà bloccare qualsiasi condotto esterno... ivi compresi quelli dell'aria. Il bunker ha un depuratore che si collega con l'esterno, per espellere l'anidride carbonica prodotta dalla respirazione umana. Bloccato quello, noi saremmo spacciati.»

Yuki aggrottò la fronte e, fissandolo torva, mormorò: «Hai studiato la casa?»

Domenic sorrise per un attimo al gemello, replicando poi alla ragazza: «Lo ha fatto Cam. Si stava annoiando.»

Di fronte alle espressioni sconcertate delle tre ragazze, questi esalò un po' piccato: «Ehi, dico! Un po' di cervello c'è l'ho pure io! Mica lo ha avuto in regalo solo lui!»

Quel commento strappò loro un sorriso ironico, oltre al risolino a stento controllato di Minami.

A quel punto, sbuffando, Yuki sussurrò: «Okay, diamo per scontato che il bunker sia vulnerabile. Cosa facciamo? Due di noi non sanno di sicuro come difendersi.»

Nel dirlo, fissò a turno Domenic e Minami.

La ragazza sollevò le mani e dichiarò: «Non pretendete la luna. Queste dita lavorano sulle tastiere, non su altro.»

Domenic, però, lanciò un’occhiata ironica all’amata e disse per contro: «Forse, dimentichi che ho seguito anch'io le lezioni di tuo padre... e a casa ho avuto il miglior istruttore che potesse esserci. Inoltre, al training camp organizzato dalla CIA, ho seguito tutti i corsi di autodifesa, oltre che le lezioni al tiro a segno.»

Ancora, Dom sorrise al gemello, che sogghignò.

«Stai tranquilla, Yuki-necchan. Quel che so io, lo sa anche lui. Magari non sarà altrettanto bravo, però se la cava.»

Il fratello gli diede di gomito e Cameron, ridacchiando, proseguì.

«Domenic si occuperà di Minami assieme a Phie, e noi due saremo i centravanti da sfondamento, okay?»

«Ci limiteremo alla difesa» precisò Domenic, mettendo a freno la foga di suo fratello, che sbuffò ma annuì.

«Va bene. Ma non qui sotto. Siamo davvero chiusi in trappola, nel seminterrato.»

«Di sopra si vede a malapena. L’unica luce è fornita dalla luna, che è assai poca. Si vedranno sì e no le ombre, al pianterreno» sottolineò contrariata Minami, guardandosi intorno con aria ansiosa.

I due gemelli assentirono divertiti e, all’unisono, dissero: «Girare di notte fa bene alla salute.»

Phie ridacchiò, a quel punto e, annuendo, spiegò alle altre ragazze il motivo di quella frase apparentemente assurda.

«Non ci ho fatto caso perché, per me, è normale vederglielo fare. Non avete notato che, in queste settimane, girovagavano per casa senza accendere le luci?»

«E io che mi chiedevo se vi divertiste a sbattere i piedi contro gli spigoli» esalò Minami, sconcertata.

«Abbiamo imparato il perimetro della casa, giusto per necessità. Lo abbiamo sempre fatto, anche se all'epoca era solo per gioco...»

«… e per rientrare di soppiatto a casa...» ironizzò Cameron, strizzando l'occhio.

«Vero» assentì il gemello, sorprendendo non poco Yuki. «Ehi, … mi credevi solo un topo da laboratorio?»

La ragazza si limitò a scuotere il capo, incredula.

Scrollando le spalle, Dom mormorò: «Dovrò renderti edotta sui miei trascorsi universitari, ho già capito.»

«Direi di sì» annuì la giovane, divertita da quel lato goliardico di Domenic, che davvero non conosceva.

Solo dopo alcuni attimi, capì cosa stesse facendo.

Tutta quella messa inscena, quel tentativo di rendere divertente una situazione potenzialmente esplosiva... stavano tentando di alleggerire i loro animi, di non spaventarle.

Cosa aveva detto loro, Phie, poche settimane addietro?

Quando i gemelli erano arrabbiati, o preoccupati, lavoravano assieme in sincrono.

Che fosse in cucina, o accanto a un computer, oppure su qualsiasi altra cosa, ma lavoravano insieme, come le due parti separate di un tutto.

Ed era quello che stavano facendo in quel momento, e con una sinergia a dir poco preoccupante.

Non potevano essersi preparati le battute in anticipo, lo sapeva bene, eppure il loro dialogo era quasi ritmico, come due attori su un palco.

Sì, i gemelli erano davvero in ansia, se riuscivano a lavorare così in sincrono senza essersi preparati in precedenza un plot, ma preferì non dirlo ad alta voce.

Era toccante ciò che stavano tentando di fare, perciò non volle rovinare ogni cosa, mettendo a voce i suoi pensieri.

Meglio dar loro man forte, per proteggere Minami e Phie.

 
§§§

Raggiungere Anchorage non era stato difficile.

Dopo aver assoldato abbastanza uomini per sbaragliare un piccolo battaglione, si erano sparpagliati nel bosco per accerchiare il sito.

Grazie ai sofisticati giocattoli del reparto tecnologico della Tashida, erano poi riusciti a escludere i sensori nel bosco, riuscendo così a passare il primo scoglio.

Perché vi fossero, era un problema che, al momento, Byron non voleva porsi. La sua preda era là davanti, e solo questo contava.

Eliminare gli allacci di luce e telefono era stato il secondo passaggio, assieme col bloccare le condutture dell’aria della villa.

Il terzo, isolarli dal mondo eliminando anche il fattore rete satellitare.

Il colpo del suo cecchino migliore era stato magistrale, non poteva negarlo; aveva distrutto la parabola sul tetto al primo colpo.

Con trenta uomini a disposizione, a quel punto, sarebbe stato un gioco da ragazzi, eliminarli.

Tolti i protagonisti principali della commedia, nessuno avrebbe potuto ricollegare i fatti alla Tashida, vista la mancanza di prove.

E anzi, dopo aver trovato il loro contatto, avrebbero fatto in modo di far ricadere ogni colpa su di lui.

Dopo averlo azzittito per sempre.

I morti non possono difendersi dalle accuse, ma possono tornare utili per un sacco di cose.

Byron osservò la sagoma scura del rifugio a tre piani che, a poco meno di duecento metri da loro, deteneva coloro che lui desiderava uccidere più di tutti.

Cameron Van Berger e Yuki Tashida, in primis.

Non solo lo avevano gabbato come se fosse stato un novellino, ma avevano innescato una serie di problemi a catena, che avevano rischiato di mandare all'aria ogni cosa.

Potevano ancora salvarsi dall'abisso, ma tutto dipendeva da come avrebbero risolto quell'annosa questione.

Non voleva tornare da Nobu con un risultato negativo in tasca.

La sconfitta non era contemplata.

Lo scanner ottico mostrò diverse fonti di calore, all'esterno – ne contò cinque – e, sorridendo divertito all'idea di avere molti più uomini a disposizione, mormorò nel suo interfono: «Procedete con lo schema a tenaglia.»

Gli uomini, in tenuta mimetica invernale, avanzarono silenziosi sulla coltre di neve, nel cielo rade nubi e un pallido spicchio di luna color ghiaccio.

Byron sorrise.

Sarebbe stato quasi poetico spargere il sangue di Yuki su quella coltre candida. Degno di un dipinto in stile surimono1.

Stringendo la mano guantata sulla sua Sig Sauer nichelata, pregustò l'idea di piantarle in corpo almeno un paio di proiettili, prima di dirle quanto la detestava.

Il suo sorriso si fece luminoso al solo pensiero.

 
§§§

«Come immaginavo... sono usciti con le tute biomimetiche» mormorò Domenic, scandagliando l'armadio dove sapeva trovarsi l'equipaggiamento di sicurezza degli agenti di scorta.

«Che intendi dire?» sussurrò a sua volta Phie, la mano ben allacciata a quella di Cam.

Il buio nella baita era quasi totale, e l'unica lieve luminescenza era data dal riflesso della luna sulla neve, all'esterno.

«Servono a mascherare il calore corporeo. In caso di attacchi notturni, c'è il novantacinque percento di possibilità che il nemico usi occhiali termo-ottici. Con queste tute, si riesce a ingannare il sensore che registra la temperatura corporea. Si diventa come invisibili.»

Nel dirlo, estrasse le ultime due e le fornì a Cameron e Yuki.

«Siete i nostri centravanti da sfondamento, no? Dovete essere i più protetti» spiegò loro, richiudendo l'armadio dopo aver estratto tre pistole e altrettanti caricatori.

Cameron storse il naso, replicando: «Preferirei darla a chi è più indifeso, se permetti.»

«Sei libero di scegliere, ma preferirei la usassi» asserì per contro Domenic, battendogli una mano sulla spalla.

Cam allora sospirò, sorrise e mormorò: «Fratellone, a chi vuoi darla a bere? Lo so che  vuoi soltanto tentare di difendermi.»

Domenic non disse nulla, limitandosi a scrollare le spalle con noncuranza.

I gemelli si scrutarono in viso per alcuni istanti, limitandosi a lanciarsi occhiate significative nella quasi totale oscurità.

Alla fine, Cam si volse verso Minami, le offrì la tuta e mormorò: «Indossala, per favore.»

La giovane orientale storse il naso e borbottò: «Così mi fai sentire veramente una palla al piede.»

«Beh, Miss-Palla-Al-Piede, che io sappia, sei stata tu a consentire alla mia fidanzata e a Bryce di venire a salvarci, e hai dato una mano a mio fratello e a Yuki-necchan per risolvere l'intricato sistema di file crittati che avete rubato alla Tashida. Se permetti, sei un tantino più importante di una palla al piede, per i miei gusti.»

Minami afferrò la tuta con mani tremanti e, aiutata da Phie, la indossò brontolando come una pentola di fagioli.

Sophie, allora, le diede un affettuoso bacio sulla guancia, replicando: «Ci sentiremo tutti più tranquilli, davvero.»

«E io mi sentirò in colpa.»

«La colpa si supera» motteggiò Cameron, infilandosi la pistola nel retro dei pantaloni. «Andiamo in cucina a prendere i coltelli. Ne avremo bisogno.»

«Quanto vorrei avere le mie armi, qui con me» si lagnò Yuki, sfiorando il muro per procedere a tentoni davanti a sé.

«Ci sono diversi punteruoli da ghiaccio, nel set da bar che c'è in soggiorno. Potresti usarli al posto degli spiedi» le comunicò Domenic, trascinandola via con sé.

Aggrappata al suo braccio, Yuki mormorò: «Ma come fai a non sbattere da nessuna parte?»

«Io e Cam siamo bravi a ricordarci dei particolari. Prima di scendere, quando ancora si vedeva qualcosa, abbiamo studiato un'ultima volta la pianta, giusto per non dimenticarci nulla sulla disposizione dei mobili.»

Un sospiro soddisfatto, e Dom si chinò su un ginocchio.

«Ecco il mobile del bar e...» mormorò lui, scandagliando con le mani nei vari stipetti. «... ecco quello che cercavo. Quattro punteruoli in acciaio satinato.»

Li passò a Yuki, che li sistemò nella tasca posteriore dei jeans, mormorando un ringraziamento.

Dalla cucina, la voce ovattata di Cameron comunicò loro che si erano armati di coltelli fino ai denti.

Domenic, allora, dichiarò: «Nel disimpegno della porta d'ingresso. C'è la possibilità di rinchiudersi nello stipetto delle giacche e, al tempo stesso, scappare fuori in caso di necessità. Inoltre, è l’unica porta che si apre con le impronte digitali. Solo noi o gli agenti, possiamo aprirla.»

Procedendo il più silenziosamente possibile, il gruppetto di giovani si avviò verso la porta quando, all'esterno, iniziarono i primi rumori di lotta.

Acquattandosi, Domenic procedette assieme a Yuki fin verso la porta, da cui si intravedeva a malapena la bianca distesa di neve all'esterno.

E, poco più in là, i movimenti di diversi uomini armati.

I primi colpi ovattati dei fucili silenziati iniziarono a vibrare nella foresta e tutti, accucciati ai due lati del disimpegno, ascoltarono trepidanti l'evolversi della situazione.

Non era più il tempo delle risate, delle battute di spirito e dei vani tentativi di non pensare alla morte.

Quest’ultima era alla porta, in quel momento, e bussava con ferocia.

Si udì un tonfo contro uno dei vetri del soggiorno, e Minami sobbalzò silenziosa.

«Probabile tentativo di sfondare i vetri. Forse, per gettare dentro dei lacrimogeni.»

Domenic parlò pacatamente, ma la mano che teneva stretta a quella di Yuki, tremò.

Gli spari continuarono per alcuni minuti, finché la porta sulla veranda – a giudicare dalla provenienza del rumore – non venne aperta.

O uno degli agenti era rientrato per controllare la situazione, oppure...

Oppure qualcuno aveva prelevato i comandi per sbloccare le porte, dopo aver presumibilmente ucciso – o ferito gravemente – uno degli agenti di scorta.

«Yuki-chan, coraggio, vieni fuori! Non vorrai davvero che metta a soqquadro la casa, per prenderti. Sai che posso farlo, ma preferirei un po’ di collaborazione.»

Quella voce raggelò sia Cameron che Yuki, e quest'ultima sussurrò all'orecchio di Domenic: «E' la guardia del corpo di Nobu-san. E' un ex militare delle forze speciali inglesi.»

All'esterno, il combattimento era ancora in atto e Byron, camminando guardingo nella casa, proseguì nel suo monologo.

«Ingegnosa, l'idea delle tute biomimetiche. I vostri angioletti custodi hanno ucciso sei dei miei, prima che ci rendessimo conto di aver male interpretato il campo di battaglia. Ma ora va meglio. Molto meglio

Domenic fremette, ma Yuki lo trattenne. Sapeva bene che Byron era uno specialista, nelle battaglie psicologiche.

Aveva letto più di una volta il suo curriculum, e ne era rimasta non poco sconcertata.

Il fatto che fosse stato espulso dal corpo con disonore, e tutto per aver ceduto alla rabbia con un suo superiore, non aveva minimamente preoccupato Nobu.

Anzi, forse lo aveva scelto proprio per questo.

«E' stato un piacere sistemare quello sbarbatello che ci ha ingannati in Giappone. Mi ci è voluto un po', ma alla fine ho riconosciuto la sua voce.»

Minami si lasciò andare a un singulto, e Phie si tappò la bocca per non imitarla.

Byron sogghignò, e indirizzò il suo volto in direzione del suono che aveva appena percepito.

«Aaah, a quanto pare, c'è qualcuno molto dispiaciuto per la morte di quell'agente. Chi abbiamo, qui dentro? Anche la sua amante, forse? Ma come, …si è portato dietro il suo giocattolo, invece di pensare al lavoro?»

Il suo tono derisorio fece perdere la pazienza a Cameron che, pistola già alla mano, fece l'atto di alzarsi per cercarlo.

Fu Phie a fermarlo, le lacrime agli occhi e le mani ben serrate sulle sue braccia.

Il suo 'no' appena sussurrato, niente più di un alito sulla guancia del giovane, lo convinse a bloccarsi, ma non a smettere di tremare per l'ira.

Cosa avrebbero detto a Berry e Todd, una volta tornati a casa? Se mai fossero tornati, a questo punto.

Come avrebbero potuto spiegare la morte di Bryce?

E loro, come sarebbero sopravvissuti a un tale dolore, sapendo di esserne i responsabili?

Byron avanzò ancora di un paio di passi, tenendosi al riparo dietro una colonna di cemento armato e, con tono sprezzante, dichiarò: «Pensi davvero che servirà a qualcosa, rimanere nascosta? Vi ucciderò tutti, Yuki-chan, e porterò la testa del tuo Domenic-chan a Nobu-san, come regalo per il suo compleanno. A proposito, gli hai dedicato davvero delle belle poesie, sul tuo palmare. Non ti facevo così romantica!»

Sapeva che era sbagliato, sapeva che era esattamente ciò che Byron voleva, sapeva di comportarsi da stupida, ma non ce la fece a reggere.

L'idea che avessero violato l'intimità dei suoi segreti, e del suo amore per Domenic, le fece perdere di vista ogni pensiero cosciente e ragionevole.

Sgusciò dalla stretta di Dom con relativa facilità e, muovendosi acquattata, si diresse senza indugio verso la provenienza della voce di Byron.

Minami si gettò lesta su Domenic, sbilanciandolo prima che potesse partire alla carica e Byron, nell'udire quel suono, fremette di impazienza.

Si guardò intorno, cercando anche il minimo appiglio visivo ma, quando si sentì atterrare con forza da un corpo estraneo, seppe di aver raggiunto il suo scopo.

Yuki era caduta nella trappola.

Senza provare a fermare la progressione verso terra, atterrò agevolmente sulla schiena e, con tutta la forza che trovò in corpo, scaraventò via Yuki, mandandola a sbattere contro il muro.

Il suo soffio di rabbia gli confermò di averla colpita con efficacia e, in fretta, si rialzò, mentre alle sue spalle si udivano le voci concitate degli altri.

Peccato che loro non avessero i visori notturni per inquadrarlo.

«Yuki!» gridò una giovane, forse Sophie Shaw. Gli sembrò di riconoscere la voce.

Byron, per diretta conseguenza, sparò un paio di colpi a casaccio dietro di lui, per tenerli buoni, dopodiché si rivolse a Yuki.

«Sei ancora più stupida di quanto pensassi, ragazza.»

«Non toccherai nessuno di loro» ringhiò la giovane, mettendosi in posizione di difesa.

Gli occhi si erano ormai abituati all'oscurità, ma era difficile capire esattamente dove fosse Byron.

Doveva affidarsi solo ai suoni che avvertiva nell'aria, e agire di conseguenza.

La spalla, però, le doleva in modo indicibile, impedendole di muoversi con la consueta scioltezza.

Un bel guaio. Ma ci era finita dritta dritta, e tutta da sola.

«A quanto non vedo, indossi anche tu una tuta biomimetica. Poco male, dovrò fare affidamento alla fortuna» ironizzò Byron, elevando il tono della voce perché potessero sentirlo bene tutti quanti.

Ciò detto, estrasse la mitraglietta e, in barba al senso di cavalleria, sparò una raffica di proiettili ad altezza gambe.

Non voleva ucciderla, solo ferirla.

Voleva soggiogarla alla sua maniera, e questo richiedeva pazienza e tanto, tanto tempo a disposizione.

Impreparata a quell'aggressione violenta, Yuki non poté che urlare di dolore quando tre proiettili la centrarono alla rotula destra e alle parti inferiori delle gambe.

Crollò a terra, preda di fitte e spasmi tremendi, dopodiché fu il caos.

Domenic si svincolò da Minami per correre verso la ragazza ferita, mentre Cameron, terrorizzato all'idea che il gemello finisse ammazzato, gli corse dietro per tutta risposta.

Phie, a quel punto, rimase accanto a Minami e mormorò: «Resta qui, e non ti muovere. Sai sparare?»

La giovane assentì pur tremando così Sophie, determinata, scarrellò per portare un colpo in canna e asserì: «Spara solo se necessario. Noi ti chiameremo per nome, quando ci avvicineremo, d'accordo?»

«Sì.»

Un attimo dopo, Phie scomparve alla sua vista.

In quel mentre, Domenic urlò il nome di Yuki e Byron, non volendo ulteriori distrazioni, scaricò un'altra doccia di piombo attorno a sé, stavolta per uccidere.

Yuki e lui avevano un conto in sospeso, e voleva godersela fino in fondo.

Si udirono dei vetri rotti, il suono sordo del legno spezzato e il tonfo di tre corpi, caduti a terra malamente.

Soddisfatto, Byron attese di udire altri rumori, ma nulla giunse al suo orecchio.

Morti sul colpo? Forse.

O talmente spaventati da non riuscire a muoversi.

Dopotutto, chiunque avesse un minimo di sale in zucca, sarebbe stato ben lontano dalla bocca di una mitraglietta Uzi di ultima generazione.

I suoi proiettili, oltre a viaggiare più velocemente dei modelli precedenti, venivano scagliati all’esterno con traiettorie ricurve, rendendo impossibile a chiunque comprenderne il tracciato.

Non che con quell’oscurità servisse, ma quell’arma gli era sempre piaciuta.

L'inglese, a quel punto, si avvicinò alla fonte dei lamenti che stavano eccitando il suo animo e, nel piegarsi su un ginocchio, allungò una mano per tastare il corpo scuro dinanzi a sé.

Trovato il viso, lo accarezzò quasi gentilmente prima di afferrare una ciocca di capelli, e tirare.

Yuki gridò ancora.

«Brava, ragazza, urla. E pensa che hai appena ammazzato il tuo tesoruccio.»

Le sue lacrime bagnarono il guanto di Byron e l'uomo, nel sentirla singhiozzare, sogghignò.

Erano questi, i momenti per cui viveva.

Soggiogare la vittima, renderla inerme e sconfitta, distrutta fisicamente e psicologicamente.

Per questo, era stato scacciato dall’esercito. I suoi metodi erano troppo diretti, troppo feroci.

Non sarebbero mai andati bene per un esercito e, soprattutto, se utilizzati sul proprio ufficiale superiore per estorcergli verità scomode.

No, quei metodi andavano bene per un mondo più in linea con i suoi ideali, dove lui e la vittima erano soli, senza giudice e giuria a controllare.

Aprendosi in un sorriso vittorioso, Byron si chinò per mormorarle contro il viso: «Se mi piacessero le donne, ti scoperei qui, giusto per spregio, ma proprio non mi va di toccarti a quel modo. Penso che opterò per qualcos'altro.»

Ciò detto, mise mano alla tuta e, con uno strattone, la aprì.

Yuki inspirò con violenza, non sapendo cosa aspettarsi.

Il dolore alle gambe era tremendo, e il terrore le immobilizzava le membra.

Niente l'aveva preparata a qualcosa di simile.

Inoltre, c’era la possibilità che la sua caparbietà avesse ucciso Domenic e gli altri.

Solo per questo, meritava di morire nel modo peggiore.

Byron le tolse in fretta la tuta, indugiando con le dita sui fori di proiettile che sputavano sangue.

Premette sulle ferite, facendola nuovamente urlare, e sorrise.

Ah, se solo Nobu fosse stato presente! Ne avrebbe goduto a sua volta.

Con gesti veloci, mise mano al cardigan della ragazza, strappando letteralmente i bottoni dalla maglia.

Yuki tentò di difendersi, ma Byron la schiaffeggiò con violenza, mettendo a tacere le sue inutili proteste.

«Non amo le vittime riottose, Yuki-chan, ricordalo. Stai buona, e forse potrebbe persino piacerti.»

Strappò la camicia, lasciando il reggiseno in vista, dopodiché puntò ai pantaloni, che iniziò a slacciare con lentezza esasperante.

L'inglese sorrise nel carezzarle con un dito l'ombelico e la zona pubica e, ghignante, sussurrò: «Ci sono mille modi per venire stuprati, lo sapevi?»

 
 


_______________________________
1 surimono: tipico genere giapponese di disegno su seta o su carta di riso.

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Capitolo 19
*** XIX Traitors ***


XIX. Traitors.
 
 
 
 
 
 
Yuki strinse i denti, già pronta a sopportare stoicamente il dolore, quando un tonfo giunse a sfiorare le sue orecchie, e il corpo di Byron si scostò di colpo da lei.

Ne seguì una breve colluttazione e la ragazza, rattrappendosi contro il muro come a rendersi invisibile, cercò di capire cosa stesse succedendo attorno a lei.

Udì due voci simili – forse, Cameron e Domenic? – e il suono di corpi che rotolavano a terra.

Un colpo di pistola riverberò nella stanza, ma la lotta continuò, segno che nessuno era stato colpito.

Tremante, si strinse le braccia attorno al corpo, in ansia per ciò che stava accadendo e combattuta tra lo scappare e l'intervenire.

Due mani, in quel mente, la sfiorarono all'improvviso, bloccando ogni suo pensiero.

Urlando istintivamente, fece per scostare quelle dita sconosciute, ma la voce di Phie la mise subito in allerta.

«Sst... sono io. Vieni con me.»

Yuki fu lesta ad azzittirsi e, praticamente sostenuta da Sophie, risalì le scale per allontanarsi dalla colluttazione in atto.

Non faticò a comprendere che la giovane stava piangendo e, con tutta probabilità, non per una qualche ferita riportata nella sparatoria di prima.

Phie era in ansia non meno di lei, per le sorti dei giovani che loro amavano.

Altri due spari, e un grugnito.

Nessuna delle due ragazze seppe dire chi dei due giovani fosse stato colpito, ma fu chiaro a entrambe che Domenic o Cameron erano stati feriti.

Come se avessero reciso i fili che sostenevano entrambe, Phie e Yuki crollarono a sedere sui gradini, circa a metà strada dal primo piano.

Tappandosi la bocca per non urlare, Phie mormorò contro le sue mani: «Dio, ti prego, no, ti prego, ti prego, ti prego...»

Yuki, a quel punto, si strappò di dosso la camicia, la fece a brandelli con gesti nevrotici delle mani e ringhiò: «Aiutami con le fasciature. Io torno giù.»

«Non te lo lascerò fare!» protestò con veemenza Phie, bloccandola per le spalle. «Dom mi ha detto di tenerti al sicuro, e io lo farò.»

«Phie, ti prego...»

Lei scosse il capo e, con voce a stento controllata, esalò: «E' mio fratello, Yuki-necchan. Se non di sangue, nel mio cuore lo è con certezza. E lui mi ha chiesto quest'unica cosa, nel corso della nostra vita. Tu non scenderai da qui

Yuki capì immediatamente che la ragazza non le avrebbe dato tregua, perciò desistette.

E si volse verso quel lago di oscurità che si stendeva sotto di loro, in cui riuscivano a scorgere solo ombre confuse, e da cui provenivano ancora rumori di lotta.

Fu dopo neppure trenta secondi che giunse un altro sparo, e tutto si bloccò.

Yuki e Phie si strinsero l'un l'altra, finché la voce di Cameron, affannata e stanca, asserì: «Tutto bene?»

Sophie scoppiò immediatamente a piangere, e Yuki con lei.

Domenic, un attimo dopo, esalò: «Yuki-necchan? Phie? Minami-chan

«Okay! Siamo okay!» gridarono quasi in coro le tre ragazze.

Già pronte a scendere, una voce proveniente dalla veranda – rimasta aperta dall’entrata in scena di Byron – , fece irrigidire tutti per alcuni attimi.

Cameron, in piedi accanto al corpo di Byron, puntò immediatamente la pistola verso l'origine di quella voce, ma si impose di non sparare non appena capì di chi si trattava.

«Ma non vi avevo detto di rinchiudervi nel rifugio?!» sbottò Bryce, facendo scattare il salvavita, ripristinando così le luci nella baita.

Quell'improvvisa luminescenza, portò tutti a coprirsi gli occhi per un attimo.

Bryce avanzò zoppicante, la testa visibilmente sanguinante e la gamba destra martoriata da un brutto taglio sulla coscia.

La tuta biomimetica appariva lacerata in più punti e, all’altezza dello stinco destro, lo scarponcino era tagliato di netto.

«Parlare con voi Van Berger, è come parlare al muro.»

«Temevamo potessero bloccare gli aeratori del bunker» si scusò Domenic, lasciandosi aiutare dal gemello a rialzarsi.

Il fianco bruciava come l'inferno, ma non sembrava essere una ferita grave.

Bryce fece per protestare, ma Minami lo sorprese catapultandosi contro di lui per abbracciarlo.

In lacrime, la ragazza affondò il viso contro il suo petto e lui, sorreggendola, mormorò: «Ehi, piccola... tutto bene?»

«Ci aveva detto... che eri... che eri morto...» pianse disperata, apparentemente inconsolabile.

Bryce le carezzò i capelli, lanciò un'occhiata all'uomo morto dinanzi a lui e aggrottò la fronte.

«E' l'uomo del Giappone. L'ex militare.»

«Era la guardia del corpo di mio fratello Nobu-chan» asserì dolorante Yuki, scendendo dalle scale assieme all'aiuto di Phie.

Recava evidenti fasciature di fortuna alle gambe e Bryce, accigliandosi, dichiarò: «Abbiamo tutti bisogno di cure immediate, o ci dissangueremo.»

«Fuori, come siete messi?» si informò Cameron, preoccupato.

«Situazione sotto controllo. Nemico eliminato e/o bloccato. Penso passeranno una nottataccia, legati agli abeti contro cui li abbiamo sistemati. Non c'è molto caldo, là fuori» ghignò Bryce, prima di accigliarsi, passarsi una mano sul viso e borbottare un'imprecazione.

«Vado a prendere i kit di pronto soccorso» mormorò Minami, passandosi le mani sulle gote bagnate di lacrime.

Un attimo dopo, corse via e Bryce, sorridendo sghembo, mormorò: «Che nottataccia.»

 
§§§

Gli occhi ancora gonfi per il pianto, Minami si occupò comunque dei feriti con un'efficienza quasi marziale.

Curò gli agenti feriti, e disse una preghiera sentita per i due uomini che non ce la fecero a superare la notte.

Nel corso delle ore seguenti a quell'aggressione inaspettata, Bryce riuscì a contattare Quantico con il cellulare di Dom, chiedendo supporto medico e tecnico.

Quello che gli dissero durante la telefonata, lo sorprese non poco e, quando tornò da Domenic per restituirgli il telefono, dichiarò torvo: «Siamo stati traditi.»

«Che cosa?» esalò il giovane, facendo tanto d'occhi.

La fasciatura al fianco stringeva da matti, procurandogli un sordo dolore a ogni respiro, ma Dom non vi badò affatto, quando sentì quelle parole.

Si levò in piedi come se lo avessero punzonato e, fissando l'amico in cerca di spiegazioni, si sentì dire: «Quel bastardo di Tyler ha venduto i nostri segreti ai Tashida.  Per questo, la missione è partita in ritardo, per questo sono riusciti a trovare Yuki con precisione chirurgica, per questo ci hanno smascherati anche qui. Non appena Yuki è uscita dalla protezione offerta dagli schermi radar assorbenti della baita, è stata rintracciata.»

«Ma... e l'aeroporto...la strada fino a qui?» domandò Cameron, sorpreso dalle parole dell’amico.

Bryce scosse il capo, replicando: «Sia gli aerei che le auto, erano protette. Non ha fatto un solo metro senza schermo protettivo. Ma, quando siete usciti in giardino...»

Il giovane si passò una mano tra i capelli, guardò Regina – che stava piangendo in silenzio da ore, dopo aver chiuso gli occhi personalmente a un loro collega – e sospirò.

«Ci siamo concessi un lusso che non avremmo dovuto permetterci, e questo è stato il risultato. Una leggerezza che è quasi costata le vostre vite. Scusami, Dom. Scusatemi, ragazzi.»

Come si era alzato, così Domenic crollò sulla poltrona e si prese la testa tra le mani, incredulo.

«E’ così che hanno saputo di Asclepio, di ciò che era in grado di fare. Parte del progetto, l’ho sviluppato nella sede distaccata di Los Angeles della CIA, e Tyler ne era informato. Gli avevo raccontato ogni cosa.»

Quel pensiero, quasi strangolò il giovane.

Bryce gli carezzò la spalla, consolatorio, e asserì: «Tra la documentazione che avevate inviato prima del blackout, sono riusciti a trovare il suo server IP. Aveva usato un proxy piuttosto datato, per camuffare il segnale, così non hanno impiegato molto a rintracciarlo.»

Nel dirlo, fu sprezzante.

«Perché? Perché

«Stanno andando a prelevarlo proprio in questi minuti, perciò potranno chiederglielo direttamente. A quanto pare, la sua gita alle Isole Caiman, è saltata.»

«I Tashida?» si informò allora Domenic, la voce strozzata e la gola secca.

Com'era possibile che uno dei loro avesse tradito?

«Ci sono abbastanza prove per incriminarli. Stanno emettendo proprio ora un mandato d'arresto internazionale per farli estradare negli Stati Uniti, così che possano essere processati qui. Dopotutto, hanno colpito un cittadino americano.»

«Torniamo a casa, allora...» sussurrò, stremato e ormai privo di forze.

«Sì, amico mio. Torniamo a casa.»

Domenic pianse in silenzio, a quel punto, e Bryce lasciò che si sfogasse.

Il giovane agente capiva benissimo come si sentiva. Era la seconda volta che lui affrontava un simile tradimento, perciò comprendeva l’amico con assoluta sicurezza.

Certe cose potevano far crollare anche la tempra più dura.

 
§§§

«Mamma, davvero, non ho niente. E' solo una ferita superficiale al fianco» protestò Domenic, quando Hannah controllò per la centesima volta la sua cartella clinica.

L'intero gruppo era stato trasferito a Los Angeles per cure più specifiche, dopo che i paramedici di Anchorage avevano stabilizzato la situazione in loco.

Agenti della CIA pattugliavano l'intero piano dell'ospedale dove si trovavano i ricoverati, ma  le probabilità che vi fossero ulteriori attacchi era pressoché inesistente.

Hannah lanciò un'occhiata gelida al figlio, steso sul letto d'ospedale con la flebo al braccio e replicò: «Qui si parla anche di una commozione celebrale.»

«Leggera, mamma, leggera. Ho preso il calcio di una pistola sul collo. Ma non sono né svenuto, né altro, okay?» sospirò il giovane, reclinando indietro il capo, e lagnandosi un attimo dopo per il bernoccolo che doleva da matti.

In quelle prime ore, con la concitazione del momento e la necessità di curare i feriti più gravi, non si era reso conto del dolore al collo.

Questo, però, si era palesato quando l'adrenalina era scemata nel suo corpo ormai stanco.

Come molti altri, era stato spedito in ospedale per accertamenti, e ora doveva subire l'inquisizione della madre e le cure di infermieri e dottori.

Cameron, per fortuna, se l'era cavata con alcune escoriazioni, diversi lividi e poco altro.

Phie e Minami ne erano uscite illese, pur se spaventate, mentre Yuki era stata operata per ricostruire la rotula, frantumata da uno dei proiettili esplosi da Byron.

Le due ferite ai polpacci erano state suturate già ad Anchorage, prima di partire per Los Angeles.

Bryce si era ritrovato con un taglio nella zona occipitale, lungo più o meno dieci centimetri, che proprio in quel momento stavano eliminando con la chirurgia estetica.

Le gambe, invece, avevano subito danni maggiori.

Il perone destro si era spezzato in due punti, e questo aveva necessitato l'uso di un'ingente quantità di nanobot per la ricostruzione ossea, e un'imbracatura in carbonio per sostenere l'arto.

La coscia, invece, era stata suturata con cura e, quando il dottore aveva visto lo squarcio, aveva sorriso a Bryce, dicendogli quanto fosse stato fortunato.

Pochi centimetri più alto, e il coltello di Byron avrebbe reciso l’arteria femorale, mandandolo all’altro mondo.

Berenike e il marito si erano recati in ospedale, non appena messi al corrente dell'accaduto, e non erano più usciti dalla stanza del figlio.

Nickolas entrò in quel mentre nella stanza di Domenic, Cam al fianco – che mostrava un evidente bendaggio a un dito – e, salutata la moglie con un bacio, si rivolse infine al figlio.

«Devo portarla via, Dom?» ironizzò il padre, dandogli una pacca sulla spalla.

Il suo sorriso toccava quasi le orecchie, ma erano gli occhi a tradire la sua emozione e il suo orgoglio più puri.

Domenic sentì quasi la necessità di arrossire, sotto quello sguardo.

«La capisco, in fondo. E' stata una situazione allucinante per tutti» replicò accomodante Dom, lanciando un'occhiata divertita alla madre e al fratello.

«Ho rischiato di perdere entrambi i miei figli. Non pretenderete di certo che possa starmene tranquilla e beata?!» protestò Hannah, pur sorridendo.

Cameron le avvolse le spalle con un braccio, consolatorio, e disse: «Hai super ragione, mamma, ma Domenic sta bene, io sto bene... stiamo tutti bene. Pensiamo alle famiglie dei due agenti morti, piuttosto. Si sono battuti per salvarci, dopotutto.»

Hannah assentì, chetandosi subito.

«Credo dovremmo come minimo andare a ringraziarli, e scoprire se hanno bisogno di qualcosa. Anche se non potremo restituire loro i propri affetti.»

Nickolas, allora, prese sottobraccio la moglie e, nel salutare il figlio con una strizzatina d'occhio, uscì con la sua famiglia per lasciare a Dom un po' di tempo per se stesso.

Nick sapeva bene quanto Hannah potesse diventare ansiosa, se uno dei figli stava male, e quella era davvero una situazione ai limiti.

Ma ormai, Dom stava bene, e così pure Cam, perciò Nickolas poteva permettersi di lasciare il figlio solo coi suoi pensieri.

Ben presto, sarebbe uscito dall'ospedale, e tutto avrebbe potuto dirsi più o meno concluso.

 
§§§

Se entrare nella sede della CIA, a Quantico, fu abbastanza semplice, non lo fu sopportare ore e ore di interrogatorio.

Come vittime dell'agguato alla casa protetta, furono ascoltati dapprima dagli agenti incaricati di seguire il caso, e in seguito dai droidi deputati a studiarne le reazioni inconsapevoli.

I Kinesics Droids, o più comunemente chiamati KD, erano preposti all'analisi celebrale e visiva dei sottoposti a esame, così da scoprire eventuali falle nella deposizione.

O errori umani inconsapevoli, dipesi da un'errata interpretazione dell'agente preposto a prendere le deposizioni.

Nessuna bugia sarebbe sfuggita al loro controllo. Neppure il più abile truffatore, avrebbe potuto passare il loro esame.

Ma sapere di essere del tutto innocenti, non rese più semplice l'esame.

Fu semplicemente esasperante.

Quando infine, nel tardo pomeriggio, l'intero gruppo venne convocato dal Supervisore Eriksson, nessuno aveva molta voglia di parlare.

Cameron e Phie si accomodarono su un divano mentre Minami, Domenic e Yuki presero posto su tre poltrone.

Bryce e Regina, che erano stati chiamati a loro volta a testimoniare, rimasero in piedi, dinanzi alla scrivania in vetro opaco di Eriksson.

I vetri si oscurarono un poco per filtrare la luce morente del sole e, nel contempo, si opacizzarono, rendendo così impossibile a chiunque la visione all'interno dell'ufficio.

Eriksson, le mani intrecciate sotto il mento e i chiari occhi azzurri fissi sui suoi agenti, asserì: «Un mezzo disastro tramutatosi in un successo. Ben pochi possono dire una cosa simile.»

«E' stata una leggerezza, farli uscire, e me ne assumo tutta la responsabilità, capo.»

Bryce fu lapidario, nella sua dichiarazione, pur se Regina tentò con uno sguardo di bloccarne l'uscita.

«Vero. Ma va anche detto che il compito di guidare gli uomini - e le donne - del gruppo, spettava a te, che sei praticamente un neofita nel giro, e questo avrebbe dovuto insospettirci. O, per lo meno, avrebbe dovuto insospettire me

Eriksson si rilassò contro la poltrona a sensori biometrici, e sospirò.

«Quando ho preso l'incarico di guidare la squadra di Domenic dalle mani di Tyler, avrei dovuto chiedermi perché proprio uno dei nostri agenti più giovani fosse stato messo a capo di una situazione così spinosa. Ma avevo così tante cose a cui pensare, con il passaggio di consegne e la fuga di Cameron e Yuki dal Giappone, che proprio non ho badato al problema. Perciò, io sono da biasimare, Kendall, non certo tu. I ragazzi sono vivi, con solo due agenti morti, contro una squadra di trenta assassini matricolati; può definirsi un successo.»

Bryce non disse nulla, limitandosi ad annuire.

«L'intera missione è partita con il piede sbagliato e, lo ammetto, sottovalutata da molti dei nostri superiori» ironizzò con tono caustico Eriksson. «Nessuno pensava che sarebbero nati tanti problemi, o che la Tashida Group fosse così profondamente coinvolta. Su entrambi i fronti, tra l'altro.»

Il supervisore sorrise a Yuki, che ricambiò.

«In tutta onestà, non me la sento di scrivere nessuna nota di demerito sui vostri curricula, visto come ve la siete cavata in una situazione di pericolo. L'unico dubbio mi è sorto sul mancato utilizzo del bunker. Come mai questa scelta?»

Bryce lanciò un'occhiata ironica all'indirizzo di Domenic, che ghignò in risposta.

«Bryce ci aveva detto di usarlo, ma abbiamo ritenuto pericoloso entrarvi. Come avevano fatto saltare le linee elettriche e satellitari, così avrebbero potuto rendere inutili i dispositivi di filtraggio dell'aria, che si trovano fuori dalla casa protetta.»

Quando avevano controllato l'effettivo stato del bunker, Bryce non aveva potuto irritarsi ulteriormente con Domenic e Cameron.

Come avevano temuto i suoi amici, l'impianto di filtraggio dell'aria era stato bloccato dall'esterno, rendendolo inutilizzabile.

«I ragazzi hanno avuto un'ottima intuizione, vista la manomissione ai danni dei filtri dell'aria. Sarebbero morti per le esalazioni di anidride carbonica nel giro di pochissimo tempo» dichiarò Regina, parlando per la prima volta.

Eriksson annuì, lanciò un'altra occhiata a quell’eterogeneo gruppo di giovani, e sorrise.

«In molti non compresero cosa spinse mio padre a creare, all'interno di un'istituzione chiusa e, a mio dire, retrograda come la CIA, un gruppo ufficiale come quello guidato da Domenic. Tyler era uno di questi. Fu un errore inserirlo tra i supervisori delle squadre di tecnici informatici ma, purtroppo, non sempre le alte sfere sono lungimiranti.»

Più di un volto si incupì, ma Eriksson continuò prima che potessero sorgere domande, o richieste.

«Ciò che le menti di Domenic, Yuki, Minami, Yu e molti altri giovani hanno saputo fare, e creare, ci spinge a rileggere il mondo con occhi nuovi. Il viewscan si è dimostrato essere inefficace, e le falle al suo interno più grandi di quanto non si potesse immaginare. La sicurezza non potrà mai essere totale, ma non si può neppure pensare di delegarla alla mera tecnologia. Il sistema spionistico non potrà mai venire meno, ma dovrà essere supportato, e sempre di più, da persone in grado di agire all'interno della rete. Nei decenni, questo fatto è diventato sempre più incontrovertibile e se, in passato, queste cose erano relegate a pochi, miseri elementi, ora non può più essere così.»

Levandosi in piedi, il supervisore raggiunse la poltrona dove si trovava Domenic e, nel poggiare una mano sulla sua spalla, asserì: «Quello che hai fatto per trovare Yuki e tuo fratello, dimostra le potenzialità del tuo gruppo, e la sinergia con cui si può muovere dentro e fuori la rete, anche in un caso di massima emergenza come è stato questo.»

Ciò detto, sorrise a Minami, che ammiccò.

Nell'osservare Cameron Van Berger e Sophie Shaw, il supervisore sospirò e aggiunse: «E' superfluo dire che, qualsiasi cosa direte su quanto è avvenuto in queste settimane, verrà smentito categoricamente dall'Intelligence. Naturalmente, speriamo che tutto ciò non avvenga.»

I due giovani si guardarono vicendevolmente, prima di rispondere quasi in coro: «E' successo qualcosa?»

Eriksson si lasciò andare a un sorriso divertito.

«Ufficialmente, Cameron, sarai ritrovato nei pressi del quartiere di Shinju-ku, a Tokyo e, naturalmente, Mr Van Berger e Miss Shaw saranno all'ambasciata americana ad attenderti. Per il mondo, voi non siete mai usciti dal Giappone.»

I due giovani sospirarono affranti, disgustati all'idea di un altro viaggio in aereo, ma l'uomo non vi fece caso.

Si rivolse nuovamente a Domenic e aggiunse: «Quanto alla tua richiesta di poter parlare con Tyler, è stata accolta, così come quella di Yuki. L'agente Sommers, qui fuori, vi accompagnerà da lui.»

La coppia si alzò in fretta e, nel salutare i compagni, si defilò alla svelta per parlare con colui che, per primo, aveva innescato quella bomba sulle loro teste.

Era stato sciocco lavorare su Asclepio nella sede della CIA, era stato sciocco pensare che fosse il luogo più sicuro in cui operare, era stato sciocco fidarsi di un uomo come Tyler.

E, più di tutto, era stato sciocco affidargli i suoi segreti.

Mai, però, avrebbe pensato che avrebbe venduto le informazioni in suo possesso, e alle persone più vicine alla sua famiglia.

Né avrebbe pensato che avrebbe messo in pericolo i membri della sua stessa squadra, e solo per avere un conto in banca più cospicuo.

Messi al corrente delle potenzialità di Asclepio, i Tashida avevano accettato le richieste di Tyler, e questo li aveva spinti nel baratro in cui tutti loro erano caduti.

Si era fidato come uno stupido pensando che nessuno, meglio di un agente della CIA, potesse mantenere simili segreti.

Invece, lui li aveva venduti, aveva venduto suo fratello Cameron al miglior offerente, e aveva rischiato di far uccidere tutti loro, per mettere a tacere il suo segreto.

No, non gliel'avrebbe mai perdonata.

«Non è colpa tua, Domenic-kun... non pensarlo neppure» mormorò al suo fianco Yuki, prendendolo per mano.

Lui le sorrise mesto e, nello scuotere il capo, replicò: «Non ho saputo comprendere l'uomo che mi stava di fronte, Yuki-necchan

«Nessuno di noi ne è stato in grado. Siamo stati tutti ingannati, ma abbiamo vinto ugualmente.»

«A che prezzo, però?» sospirò Domenic, sconfortato.

Yuki assentì, senza più dire nulla.

Le guardie del corpo di Cameron erano morte, due agenti della CIA avevano perso la vita per difenderli. No, era già stato versato troppo sangue, per i suoi gusti.

Quando infine raggiunsero la stanza detentiva dove si trovava Tyler, Yuki e Domenic entrarono e, al suo interno, trovarono l'uomo ammanettato e due droidi di servizio a controllarlo.

Armati entrambi, i droidi sondarono le loro retine per il riconoscimento e, in coro, dichiararono con voci metalliche: «Autorizzati allo stazionamento in loco.»

L'agente rimase accanto alla coppia, muto spettatore della loro giusta rabbia e Domenic, nel sedersi di fronte a Tyler – a dividerli un tavolo metallico – disse gelido: «I miei complimenti, coordinatore.»

L'uomo non disse nulla, si limitò a diventare paonazzo in viso, ma non esternò la sua rabbia.

Con tono serafico e vagamente sprezzante, Dom proseguì.

«Ha davvero orchestrato un piano complesso, per guadagnare dei soldi. Non avrebbe fatto meglio a vendere segreti militari ai nord-coreani, o alla Cina?»

Sogghignò, e Tyler replicò piccato: «Non sono i soldi ad avermi spinto! E poi, tu che ne sai, che navighi nell'oro da quando sei nato?!»

Imperturbabile, Domenic ribatté pacato alle sue accuse.

«Il fatto che io sia nato in una famiglia benestante, non significa nulla. Mettere a rischio la vita di mio fratello, di Yuki-necchan, delle guardie del corpo di Cameron, degli agenti speciali coinvolti... questo che ha un significato.»

«Se quella stupida ragazzina non si fosse messa in mezzo, nessuno si sarebbe fatto male!» protestò l'uomo, fissando accigliato Yuki, che era in piedi alle spalle di Domenic.

Il giovane si adombrò a quel commento, e asserì per contro: «Gli uomini della scorta di mio fratello sono morti. Non definirei ottimale il lavoro degli sgherri di Nobu-san, a parer mio, se il vostro intento era 'non fare male a nessuno'

Tyler fissò il ragazzo con aria irritata e Yuki, parlando per la prima volta, esclamò: «Noi eravamo i suoi protetti. Se lo è forse dimenticato?!»

«Siete solo degli stupidi ragazzini che giocano con la tastiera di un computer e, solo grazie a quello stupido progetto portato avanti da Eriksson, non siete in galera per i crimini commessi. Ai miei tempi, questo non sarebbe mai successo!» sbottò Tyler, gonfiandosi come un pavone.

Strattonò le manette che lo tenevano legato alla sedia e, più infervorato che mai, continuò nel suo soliloquio.

«E' stato sciocco far entrare nella CIA dei sociopatici come voi, che pensano di vivere dentro una macchina, invece che nel mondo reale. Solo gli agenti come me sanno cosa vuol dire lottare sul campo, ogni giorno, per difendere il proprio paese! E' il nostro sangue che ha fatto vincere le guerre, non le vostre stupide macchine!»

Domenic e Yuki si fissarono vicendevolmente per un istante. Erano increduli.

«I Tashida erano già collusi con personaggi non proprio limpidi... erano la preda ideale per i miei intenti, visto soprattutto quanto erano legati alla tua famiglia, Van Berger. Avrei colto due piccioni con una fava» sogghignò Tyler, sorprendendoli non poco. «Oh... non lo sapevi, ragazzina, che tuo fratello Nobu aveva le mani in pasta nel traffico di armi con il Medio Oriente?»

Yuki aggrottò la fronte, ma rimase in silenzio.

Tyler allora sghignazzò, gli occhi spiritati e feroci.

«Erano anni che lo tenevo d'occhio, pronto a dimostrare ai miei capi quanto le buone, care, vecchie indagini fossero superiori ai vostri marchingegni da strapazzo, quando Asclepio mi diede un'idea più efficace per dimostrare le mie idee. E darvi personalmente una lezione.»

Rise delirante, prima di riprendere a parlare.

«Avrei dato loro la possibilità di distruggere Asclepio, o rivenderlo al miglior offerente, e avrei dimostrato che, primo, Viewscan è un progetto inutile, secondo, è possibile farla in barba anche a dei mostri dell'informatica come voi e terzo, che il caro Domenic Van Berger non è così infallibile come pensa di essere. Tu, il generoso e geniale figlio dei Van Berger, per quanto bravo e intelligente, non avresti mai messo in dubbio la lealtà della famiglia Tashida, vero? La famiglia della tua Yuki…»

Ghignò, godendo dell’aria irritata di Domenic, prima di rivolgersi a Yuki con aria di sfida.

«E tu, piccola sfacciata, avresti smesso di camminarmi davanti con il tuo maledetto muso giallo. Avremmo dovuto ridurre in cenere tutto il Giappone, durante la Seconda Guerra Mondiale, non limitarci a bombardare solo Hiroshima e Nagasaki. Tutto! Dovevamo radere al suolo tutto!»

Tyler si agitò ancora di più, nel tentativo di liberarsi dalle manette, ma nulla servì allo scopo. Iniziò a urlare insulti più o meno velati, a ingiuriare i suoi superiori e chiunque gli venisse in mente.

Domenic non volle ascoltare altro.

Prese per mano Yuki e, dopo essersi scusato con l'agente di sicurezza, uscì dalla stanza per prendere una boccata d'aria.

Nel corridoio, si appoggiò al muro e prese tra le braccia la ragazza al suo fianco, chetando i suoi tremori e il suo principio di pianto.

«Non... non lo sapevo... non lo sapevo... oddio...» singhiozzò Yuki, nascondendo il viso nel petto di Domenic.

«Non è colpa tua, Yuki-necchan... non è mai stata colpa tua...» mormorò accorato lui, avvolgendola completamente per proteggerla dai demoni di un passato che aveva appena scoperto.

Non aveva mai usato il suo intelletto per scavare così a fondo nella famiglia Tashida, forse proprio per proteggere se stesso e Yuki da quello che avrebbe potuto eventualmente trovare.

Avrebbe dovuto aspettarsi qualcosa del genere, avendo sempre avuto delle sensazioni negative su Nobu-san, ma non aveva indagato a fondo, o per tempo.

Né negli anni addietro, né tanto meno quando erano tornati dall'Alaska.

Tutto si era succeduto così in fretta che non aveva perso tempo a conoscere meglio il campo di battaglia.

E questo aveva prodotto mostri.

Mostri che ora tentavano di divorare Yuki con i loro denti affilati, cercando di dilaniarla pezzo dopo pezzo.

Il pianto di Yuki divenne silenzioso, ma non meno straziante.

Domenic le baciò il capo più e più volte, asserendo: «Tyler è un folle accecato dalla rabbia, Yuki-necchan. E tuo fratello è altrettanto folle, ma questo non ha nulla a che vedere con te. E' chiaro?»

«Che razza di sangue mi scorre nelle vene?» esalò la giovane, sconvolta.

«Tu. Non. Sei. Loro.»

Dom sottolineò ogni parola con tono veemente.

Scostata la giovane da sé per guardarla in viso, la baciò con passione per alcuni istanti prima di scostarsi nuovamente e asserire: «Tu sei Yuki Tashida, e io ti amo. Punto. Non devi sapere altro. E a me non serve sapere altro.»

Lei annuì tremante e Dom, con i pollici, le cancellò le lacrime dal viso, sorridendole.

«Torniamo dagli altri. Torniamo a casa.»

 
§§§

Quando l'auto entrò nella proprietà dei Van Berger, Cameron disinserì la levitazione magnetica e lasciò che la Mercedes si adagiasse sui magneti presenti in garage.

Le luci si accesero in automatico nel locale, illuminando tutto con una tenue tinta azzurrata.

Non appena il motore fu spento, il computer dell'auto si connetté alla rete per i controlli alla centralina e all'impianto frenante e, nello scendere, Cameron borbottò: «Una volta o l'altra, scommetto che mi si rivolterà contro perché vuole guidare da sola.»

«Lo sai benissimo che non lo farà mai, se non sei tu a dirglielo» replicò bonario Domenic, un braccio drappeggiato sulle spalle di Yuki.

«Non si può mai sapere... mai visto film sulla ribellione delle macchine e quant'altro?» ironizzò il gemello, prendendo per mano Phie.

Minami e Bryce si accodarono al gruppo ma, una volta giunti in cortile, la ragazza fermò a un braccio il giovane e dichiarò torva: «Mi devi una spiegazione. O te lo sei dimenticato?»

Dom e Cam si volsero a mezzo, incuriositi dal loro improvviso stop, ma Bryce fece loro segno di avviarsi verso casa.

Rimasti dunque soli, i due si diressero verso il giardino, da cui si poteva scorgere l'oceano in lontananza e la scogliera dabbasso.

Da lì, c'erano più di venti metri di strapiombo.

Le acque sciabordavano con violenza, in quel pomeriggio inoltrato di inizio marzo, e l'aria profumava di sale e di un principio di primavera.

Le mani in tasca e lo sguardo perso in lontananza, Bryce mormorò: «Quando ero all'università, appartenevo a una confraternita. Come molti, a dirla tutta.»

Minami annuì, silenziosa.

«Ci divertivamo, pensavamo ben poco agli studi e molto di più alle ragazze...» Rise, come se fosse trascorsa una vita, quando invece erano passati solo cinque anni.

Un sospiro, e riprese il racconto.

«Nel dormitorio con me c'era un ragazzo. Del Maine, se non ricordo male. Si chiamava Cody Malligan. Era spiritoso, sempre aperto con tutti, una vera forza della natura. E, tra le altre cose,... un terrorista.»

La ragazza spalancò occhi e bocca e, coprendo quest'ultima con le mani, represse a stento un urlo sconcertato.

«Lo beccai una sera mentre, tutto soddisfatto, si accordava con altri tizi come lui per far esplodere, simultaneamente, almeno una ventina di studentati in tutti gli Stati Uniti. La chiamarono Pulizia Preventiva. Eliminare una nuova, potenziale classe dirigenziale americana, puntando alle università in cui venivano sfornate le nuove menti del domani.»

Lo disse con ironia, ma Minami non faticò a percepire il rammarico e la rabbia nella sua voce.

Istintivamente, gli carezzò un braccio, e Bryce le sorrise.

Lui scrollò le spalle, e terminò il racconto.

«Non si accorse della mia presenza, così potei defilare indisturbato per chiamare la polizia. La mia chiamata fece innescare una catena di eventi, che portarono all'arresto di trentacinque estremisti di destra in metà degli Stati Uniti.»

«Diventasti un eroe» asserì Minami, sorridendogli timida.

«Mi diedero una targhetta con il mio nome e i ringraziamenti dell'Università e del Presidente, ma a me non importò nulla. Quello che mi diede fastidio fu non essermi accorto della sua doppiezza, del suo essere malato dentro

«Questo ti spinse verso la CIA?»

«Sapevo già investigare di mio, visto che ho imparato più che bene dalla mamma e dal nonno...» sorrise divertito Bryce. «... ma volevo qualcosa di più. E dove avrei potuto trovarlo, se non nella sezione investigativa migliore del Paese? Feci domanda,  partecipai ai relativi corsi e iniziai con le prime missioni nel giro di un anno. Fu lì che scoprii che qualcun altro aveva avuto la mia stessa idea, e prima di me.»

«Domenic-san» ipotizzò Minami, sorridente.

Lui annuì.

«Mi tirò fuori da un brutto casino in Messico, un paio d’anni fa, così venni a sapere del vostro gruppo, dei vostri soprannomi e tutto il resto.»

«Il tradimento di Tyler, perciò, riapre una ferita che speravi di aver lasciato nel dimenticatoio» mormorò l’amica, tornando seria.

«Più o meno. In realtà, Tyler non mi è mai piaciuto, ma non avrei mai immaginato che fosse un traditore. Penso faccia più male a Domenic, che a lui aveva confidato ogni cosa, di Asclepio. Per quanto non lo trovasse simpatico, lo rispettava. E si fidava di lui.»

Minami sospirò, infilò le tasche nella sua felpa col cappuccio e mormorò: «Ci sono fin troppe persone che hanno sofferto per un tradimento.»

«Speriamo sia finita qui, allora» dichiarò a quel punto Bryce. «C'è altro che mi vuoi chiedere, Minami-chan

«No, Kendall-san. Sono a posto. Grazie per avermelo detto» gli sorrise lei, incamminandosi con il giovane per entrare in casa. «Ora che tutto è finito, penso dovrò rientrare a...»

Bloccandosi a metà della frase quando vide il gruppo di amici fermi come statue, e nel bel mezzo del vestibolo della villa, esalò: «Ehi, ma che vi prende?»

Anche Bryce si irrigidì e, mettendo a voce lo stupore di tutti, gracchiò: «Ekaterina?»









Note: spero di aver tranquillizzato tutte coloro che erano in pensiero per Yuki, dopo il precedente capitolo. Tyler è stato finalmente smascherato, ma i nostri nemici non sono ancora del tutto placati. Una volta che Nobu saprà la verità su Byron, quale sarà la sua reazione? E perché Ekaterina, la madre di Yuki, si trova a casa Van Berger? Cosa vorrà?
Per il momento, grazie a tutti/e coloro che mi hanno seguito fino a quei e grazie a chi ha commentato. Fa sempre piacere sapere i vostri pareri.
Alla prossima!

 

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Capitolo 20
*** XX Confessions ***


XX. Confessions.
 
 
 
 
 
Quando Nickolas si era trovato ad affrontare il volto serioso di Ekaterina Stanislovska, la sua sorpresa era stata massima.

Ricordava molto bene quegli occhi di un gelido color ghiaccio, così in contrasto con quelli caldi e morbidi della moglie, che pure avevano la stessa tonalità di colore.

Ekaterina era una donna provata nell’animo da un'infanzia difficile, così come da dolorosi trascorsi adolescenziali, eppure aveva sempre trovato la forza di andare avanti.

Di essere vincente.

Il matrimonio con Noboru Tashida l'aveva elevata socialmente, le aveva fatto toccare vette di eleganza e stile che mai si sarebbe immaginata di poter raggiungere.

Noboru, invece, aveva avuto al suo fianco una donna splendida, intelligente, fedele e madre devota dei suoi quattro figli.

Gli anni, e la consapevolezza di non poter più vivere assieme, però, aveva gradualmente allontanato Ekaterina e Noboru, alla fine, l'aveva lasciata libera.

Con un appannaggio degno di una regina, la donna aveva però rinunciato a qualsiasi coinvolgimento con l'azienda del marito.

Non erano quelli i suoi interessi.

Di comune accordo, lei avrebbe avuto la possibilità di vedere i figli in qualunque momento, e questo era bastato perché si lasciassero da amici.

Negli anni, la loro era divenuta una gradevole convivenza e, più di una volta, Noboru aveva invitato l'ex moglie e i suoi compagni per le feste in famiglia.

Questo, però, non era bastato a tenere Nobu lontano dal lato oscuro del potere, che una famiglia come i Tashida aveva detenuto quasi per diritto di nascita.

Quando Nickolas aveva fatto entrare la donna e i suoi due figli minori – Kaneda e Shunsuke – era stato per ricevere delle scuse per l'uso maldestro di quel potere.

Ekaterina aveva anche provato a inginocchiarsi a terra, al pari dei suoi figli, ma sia Nickolas che Hannah li avevano bloccati sul nascere.

Invitatili a entrare in salotto, avevano poi chiesto spiegazioni circa la loro presenza a Los Angeles.

Controllati a vista dall'unico agente CIA rimasto in villa – Matthew Perkins – avevano ascoltato la confessione della donna.

Le mani strette in grembo e il volto percorso dallo sconforto, Ekaterina aveva parlato loro dei suoi primi dubbi, della paura di aver perso il controllo su qualcosa di vitale.

Era stato in quel momento che l'auto di Cameron e gli altri era giunta in villa, e l'intero gruppo si era spostato nell'atrio per attenderli.

E ora, di fronte a tutti loro – sorpresi da quelle presenze inaspettate – l'orgogliosa Ekaterina fece ciò per cui era giunta in America.

Prima che chiunque dei presenti potesse fermarla, si inginocchiò a terra, mani e fronte poggiate sul pavimento in espressione penitente, e mormorò: «Ti devo tutte le scuse di questo mondo, Cameron. Non avrei dovuto permettere che mio figlio arrivasse a tanto!»

Se trovare la famiglia Tashida nell'atrio della villa, lo aveva sbalordito, il gesto della donna risvegliò Cam dal torpore in cui era caduto.

Si affrettò perciò a piegarsi su un ginocchio e, afferrata una delle mani di Ekaterina, la riportò gentilmente in piedi e replicò: «Non puoi farti carico degli errori degli altri, Ekaterina. Solo Nobu-san è responsabile per ciò che ha fatto. Così come Noboru-san

A quell'accenno, Kaneda e Shunsuke reclinarono mesti il capo e quest'ultimo, torvo in viso, mormorò: «Se mamma è da scusare perché non era in azienda, noi non lo siamo altrettanto, Cameron-chan. Avremmo dovuto accorgerci che nostro fratello e nostro padre complottavano qualcosa. Avremmo dovuto capire che stava succedendo qualcosa di losco.»

Lasciato da parte il temporaneo stordimento, fu la stessa Yuki a parlare.

Dopo aver sorriso a Domenic, lasciando il suo fianco, si avvicinò ai fratelli e replicò: «Io stessa ho faticato ad accettare ciò che avevo scoperto. E non crediate sia stato facile fare quello che ho fatto.»

«Ma tu l'hai scoperto! E hai agito di conseguenza!» ribatté Kaneda, lanciando un'occhiata sconfortata a tutti i presenti.

Fu Domenic a rispondere, a quel punto.

Le mani in tasca e l'espressione stanca, mormorò: «Ci sono stati molti tradimenti in questa storia, Kaneda-chan, ma non ha senso rimuginare sul passato. Non può essere cancellato. Si può solo tentare di rimediare agli errori commessi da altri, sperando che questo basti a risolvere le cose.»

Ekaterina annuì, ora più sicura di sé e, dopo un attimo di tentennamento, dichiarò: «E' per questo che siamo qui. Per riportare a casa Yuki-chan e ricominciare tutto daccapo.»

La giovane e Domenic sobbalzarono per la sorpresa e lo sgomento, guardandosi vicendevolmente con espressione preoccupata.

Subito, Yuki cercò la mano del ragazzo che, lesto, si avvicinò a lei per stringerla a sé, protettivo.

Questo gesto colse di sorpresa non poche persone, e portò Nickolas a dire pensieroso: «Credo che qualcuno debba dirci qualcosa. E non è proprio il caso di parlare nel bel mezzo dell'atrio di casa.»

 
§§§

Di tutti gli scenari che si era prefissato nella mente, quello proprio non lo aveva considerato.

Aveva immaginato di dire a sua madre e suo padre che, da molto tempo, il suo cuore batteva solo per Yuki.

Ma, di certo, non aveva pensato di farlo di fronte a quella che, per numero, pareva più la platea in un auditorium.

Seduti sul divano, l'uno accanto all'altra e le mani intrecciate nel mezzo, i due giovani oggetto del contendere stavano osservando i membri delle loro famiglie senza sapere bene cosa dire.

O da dove iniziare.

Come spiegare tutto ciò che li legava, senza confessare la loro commistione con la CIA?

C'erano già fin troppe persone che sapevano di Domenic. Non era necessario che sapessero anche di Yuki.

«Yuki-chan, io capisco bene che, in un momento di sconforto – vista la situazione di pericolo – tu ti sia avvicinata a Domenic-chan che, di sicuro, è un bravo ragazzo e un amico di vecchia data. Ma non credi che la tua decisione di rimanere qui con lui sia un po' affrettata?» le domandò Ekaterina, il tono di voce calmo e assertivo.

La giovane storse il naso nel sentirsi trattare come una bambina, ma comprese perfettamente anche le motivazioni della madre.

Dopo quello che era successo, desiderava solo tenere al sicuro i suoi figli, anche se erano già adulti e indipendenti.

Voleva salvare quel po' di famiglia che le era rimasta.

«Mamma, senti, con tutto il rispetto, ma non credi che sia abbastanza grande per decidere di me stessa? Pensi davvero che rimarrei qui solo perché Domenic-kun ha un bel faccino e ha una famiglia ricca che potrebbe mantenermi? Pensavo avessi un'opinione un po' più alta di tua figlia.»

Quel commento fece sorgere un sorrisino sul viso di molti e, Dom, dandole di gomito, asserì: «Grazie per il bel faccino

Lei storse le labbra e borbottò: «Dammi una mano, piuttosto!»

Il giovane le sorrise bonario e, nel lanciare un'occhiata curiosa in direzione dei genitori, li vide entrambi rilassati e con un divertito sorriso stampato in viso.

Evidentemente, quella scena li stava divertendo un mondo.

O forse, erano semplicemente felici per lui. Chissà.

Di sicuro, doveva trovare il modo per non dire tutto sulla loro interconnessione, e spiegare al tempo stesso quanto si conoscessero nonostante la distanza che li aveva sempre separati.

Almeno in apparenza.

Lappandosi le labbra per prepararsi a parlare, Domenic iniziò col dire: «Ekaterina... potrebbe rassicurarti sapere che amo tua figlia, e che ne sono innamorato da quando avevo diciassette anni?»

Quella confessione sorprese molti, e fece sospirare sia Phie che Minami, che ricevettero per diretta conseguenza uguali occhiatacce da parte di Cameron e Bryce.

Non era il momento di fare le svenevoli.

Ekaterina, però, non badò loro e, come colta da un'intuizione, mormorò: «Il Capodanno nell'Hokkaido, vero?»

Domenic assentì, sorridendole.

«E hai taciuto ogni cosa perché la nostra Yuki-chan, all'epoca, era impegnata.»

Il giovane assentì nuovamente, imperturbabile.

«Non mi sarei mai messo in mezzo. Sarebbe stato poco... onorevole. Ma questo non vuol dire che io non sia rimasto in contatto con Yuki-chan, negli anni.»

La ragazza si volse immediatamente nel sentire il proprio nome e, sorridendogli con affetto, poggiò un momento il capo contro la sua spalla prima di rimettersi diritta.

Aveva colto perfettamente il senso di quel cambiamento.

«Mi sono accorto solo ora quanto fosse stupido continuare a chiamarti Yuki-necchan. Perdonami. Davvero non ti vedo più come una sorellona, poco ma sicuro» ironizzò il giovane, occhi negli occhi con lei.

«Speravo te ne accorgessi...» sorrise divertita lei, scostando lo sguardo da quel volto tanto amato per affrontare gli occhi inquisitori di sua madre. «Io e Domenic-chan siamo rimasti in contatto per anni, mamma, e questo ha fatto crescere il legame tra di noi. Non devi pensare che io stia agendo spinta da un qualsiasi genere di impulso del momento.»

Sorrise a Domenic, e scrollò le spalle.

Visto che lui aveva cambiato suffisso, poteva farlo anche lei.

«Lo spererei, visto quanto la nostra famiglia ha già fatto soffrire i nostri amici» replicò lapidaria Ekaterina, richiamando così la sua attenzione.

Shunsuke, a quel punto, sorrise alla sorella minore e asserì: «Visto come stringi la mano di Domenic-chan, temo che dovremmo tagliartela, per riportarti a casa.»

Lei assentì, rispondendo con calore al sorriso del fratello.

Fra di loro, c'erano poco meno di due anni di differenza ma, da sempre, non c’era mai stata molta affinità.

Vederlo così preoccupato per lei e sì, interessato alla sua felicità, le diede però la speranza di poter creare un rapporto con lui, ora che erano entrambi adulti.

Il lavoro all’estero lo aveva tenuto spesso lontano da casa, ma vederlo così coinvolto e partecipe del suo futuro, le scaldò il cuore.

Dopotutto, anche lei aveva una famiglia amorevole. Per lo meno, una parte di essa.

«So quanto sia importante stare uniti, dopo un evento del genere, ma non voglio abbandonare il fianco di Domenic-chan. Cercate di capirmi. Non sto agendo d'impulso.»

Kaneda allora rise sommessamente e replicò: «Un po' lo vorrei, in effetti. Sei sempre stata così morigerata, nei sentimenti! Ma è pur vero che compensavi con gli sport estremi, a dirla tutta.»

Il tono volutamente leggero del giovane giapponese smorzò, e di molto, la tensione tra madre e figlia, e portò l'intero gruppo a ridere spensieratamente.

«E va bene, ho capito! Non stai agendo dissennatamente, o in risposta a un evento traumatico. Ma cerca di capire anche me, tesoro... io ho sempre dato per scontato che due persone dovessero conoscersi e frequentarsi in carne e ossa, prima di innamorarsi.»

Ekaterina le sorrise benevola, e Yuki la ringraziò con lo sguardo.

Non poteva dire a sua madre che, effettivamente, lei e Domenic si erano visti più negli ultimi due anni, che nei precedenti quindici, e tutto grazie alla CIA.

Quello, sarebbe rimasto un segreto tutto loro.

«Dovresti esserne contenta, invece, Ekaterina, perché questo dimostra che, prima di tutto, è la nostra mente a essere importante, e non il corpo» ironizzò Domenic, facendo arrossire un poco Yuki.

«Domenic-chan, non cercare di indorarmi la pillola, per favore. Non voglio neppure sapere cosa combinate, coi vostri computer, ma dubito servano solo per pigiare dei tasti» lo redarguì bonariamente la donna, facendo scoppiare a ridere tutti.
Yuki si coprì il viso, imbarazzata, esalando: «Dio, ti prego, mamma!»

La donna finalmente si unì alla risata e, nel dare una pacca sulla spalla alla figlia, asserì: «Cerca solo di non farlo scappare, cara.»

«Mi impegnerò al massimo, te lo prometto» replicò allora la giovane, tornando a guardarla con un sorriso sincero e pieno di aspettative.

Ekaterina assentì e, nello spegnere la propria risata, mormorò preoccupata: «C'è solo una cosa che mi rimane da dirvi, e di certo non è bella come la notizia che mia figlia pare aver trovato il grande amore.»

Domenic avvolse impulsivamente le spalle di Yuki, come presagendo ulteriori guai.

Un attimo dopo, fu Kaneda a parlare, torvo in viso non meno della madre.

«Nobu-san risulta latitante. La polizia non è riuscita a trovarlo e, dopo aver arrestato nostro padre, ha spiccato un mandato di cattura internazionale nella speranza di coinvolgere anche altri Stati nella sua ricerca, nel caso in cui fosse riuscito a scappare all'estero.»

La gaia ilarità dei presenti si spense all'istante e Bryce, ligio al suo dovere, domandò: «Si sa dove sia stato visto l'ultima volta?»

«Sappiamo soltanto ciò che ci ha detto sua moglie, Midori-san» asserì Shunsuke, spiacente. «Ci ha riferito che, circa sei giorni fa, è uscito dal suo studio come se fosse stato inseguito dai leoni. Pareva spiritato, e non le ha dato alcuna spiegazione in merito. E' uscito di casa, ha preso l'auto e, da quel momento, non si è più saputo nulla di lui.»

Domenic fu il primo a parlare.

«Sei giorni fa eravamo in Alaska.»

«Byron» asserì in un sussurro Yuki, comprendendo cosa potesse essere successo.

In qualche modo, Nobu era venuto a sapere della morte dell'amato, e questo l'aveva fatto impazzire di dolore.

Guardando preoccupata Dom, la giovane esalò: «Se scopre che tu e Cameron avete...»

Yuki preferì non proseguire, essendo ancora presenti tutti i loro familiari, ma Domenic comprese subito cosa non avesse potuto dire in quel momento.

Se Nobu avesse scoperto che loro avevano ucciso Byron, nessun posto sarebbe stato troppo sicuro, per loro.

Rimasto immobile fino a quel momento, l'agente Perkins lanciò un'occhiata significativa a Domenic e, un attimo dopo, uscì dalla stanza.

Dopotutto, non era finita.

E cercare una scheggia impazzita, in un pianeta di oltre sette miliardi di persone, avrebbe potuto essere difficile persino per uno come Domenic.

 
§§§

Dopo aver parlato fittamente con Perkins, Domenic tornò assieme alla famiglia e, scrollando le spalle, disse: «Eriksson ha già fatto partire una squadra di agenti per far circondare nuovamente la villa. Pare che dovrete sopportarli in giro ancora per un po'. Mi spiace.»

«Fosse solo questo, il problema!» sbottò Hannah, poggiando le mani sui fianchi con espressione irritata.

Cameron si sfregò le mani e dichiarò: «Che venga pure. Lo stenderò a mani nude!»

Il 'Cameron!' che seguì la sua dichiarazione bellicosa lo portò a storcere il naso, imitare la posa della madre e replicare: «Sono stanco di accucciarmi come un gattino, in attesa che mi colpiscano. Ora basta!»

«Non ne hai molto del gattino, credimi» asserì ironica Phie, carezzandogli un braccio per chetarlo.

«E' inutile andare a nascondersi. Tanto vale aspettarlo al varco, pronti a colpirlo prima di essere colpiti. Ha ragione Cam» dichiarò a quel punto Domenic, sorprendendo tutti, e ricevendo il plauso del gemello.

«Stai diventando troppo bellicoso. Prima, l'ammutinamento alla villa, ora questo» protestò Yuki, bonaria.

Lui le sorrise sornione, replicando: «Agisco sempre nel modo più sensato. Entrare nel bunker sarebbe stato un errore, e gli eventi ci hanno dato ragione. Allo stesso modo, tornare in una casa protetta e attendere che Nobu-san ci trovi, mi sembra stupido. Perderemmo del tempo prezioso, nascondendoci come topolini impauriti, ed è esattamente ciò che non siamo.»

«Abbiamo tirato su due teste calde. Pensavo che solo Cameron avesse prurito alle mani, ma invece...» esalò Nickolas, scoppiando a ridere.

Perkins ghignò e, rivolto un sorriso a Domenic, dichiarò: «Il ragazzo ha ragione. Meno tempo impieghiamo a stanare Mr Tashida, meno tempo passerete voi in stato di assedio.»

«Tua madre e i tuoi fratelli?» si informò a quel punto Dom, osservando la fidanzata.

Yuki scrollò le spalle, asserendo: «Ho preferito rispedirli a casa. Meno persone sono coinvolte nella follia di Nobu-san, meglio è.»

Tutti assentirono e Hannah, con un sospiro, disse: «Basta che non mi distruggiate il giardino.»

Perkins allora si mise sull'attenti e replicò: «Signorsì, signora. Saremo delicati.»

«Lo spero» mormorò la donna, prendendo sottobraccio Yuki per poi dirle: «Vieni con me. Vediamo di sistemarti nella camera degli ospiti, per il momento.»

«Grazie, Hannah» le sorrise la giovane, andandosene con lei.

Phie si accodò a loro un attimo dopo.

Quando non furono più a portata d'orecchio, Nickolas dichiarò: «Vostra madre è un asso nel capire quando creare un diversivo.»

«Contavo su questo, in effetti» annuì Domenic, lanciando un'occhiata a Perkins.

Quest'ultimo assentì e disse: «Gli ultimi aggiornamenti ci dicono che Nobu Tashida è stato visto sulle Isole Curili, presumibilmente giunto lì in barca. Un Viewscan lo ha inquadrato nei pressi del porto. Da lì in poi, se ne sono perse le tracce.»

Dom annuì, pensieroso. «Tyler ha accennato a una collusione di Nobu-san con i militanti del Medio Oriente, ma può essere in contatto anche con altre cellule illegali. Separatisti mongoli, o nordcoreani. Forse, addirittura pasdaran afghani.»

«Non dimenticarti i tong cinesi. Dalle Isole Curili, può benissimo sbarcare sia in Russia che in Cina, e da lì dirigersi indisturbato praticamente ovunque. Lì ci sono migliaia di chilometri quadrati di territorio sprovvisto di Viewscan, perciò avrebbe campo libero… e tempo per raccimolare un mezzo esercito.»

Assentendo a Bryce, che aveva esposto quell'ultimo problema logistico, Domenic dichiarò: «Non passerebbe mai lo Stretto di Bering, per infiltrarsi poi dal Canada. Troppo pericoloso. Cina e Russia sono le uniche vie di fuga possibili. E da lì, raggiungere le cellule con cui è in contatto per la vendita illegali di armi, gli risulterà facile.»

«Come la mettiamo con i soldi? Per muoversi nell'ombra, avrà bisogno di parecchio denaro contante» fece notare Bryce.

Fu Perkins a rispondere. «Blue sta già lavorando sui suoi conti bancari. Avremo la risposta nel giro di un'ora. Velvet, invece, sta controllando gli ultimi scambi commerciali dal conto cifrato in Svizzera.»

«Se mi dai un PC, mi metto all'opera anch'io, Domenic-san» dichiarò determinata Minami.

Lui annuì, ringraziandola, e disse: «Cam, accompagna Minami-chan nella mia stanza nel seminterrato. Io arriverò tra breve.»

La giovane lo ringraziò con un sorriso eccitato e tallonò dappresso il ragazzo. Insieme, scomparvero oltre il profilo del corridoio.

«Spiegami un po', ragazzo. Lei sì, e per noi ci vuole il permesso scritto?» ironizzò Nickolas, cercando di alleggerire l'atmosfera.

Domenic scoppiò a ridere e, scrollando le spalle, dichiarò: «Lei è un'addetta ai lavori, papà.»

 
§§§

Veder parlare a raffica Minami mentre, con le mani, digitava dati su dati, era uno spettacolo.

Il suo interlocutore, Yu, altresì detto Blue, era di fronte alla webcam del suo PC, a Portland, in uno degli uffici della CIA, e stava discorrendo dei suoi risultati assieme alla connazionale.

Domenic, dopo essersi sincerato che tutto si stesse svolgendo nel modo giusto, si avviò per tornare al piano superiore ma, a metà strada, trovò ad attenderlo Yuki.

Sorridente e con le braccia conserte, lo osservò con aria inquisitoria e il giovane, ghignando spudoratamente, dichiarò: «Chi ha parlato?»

«Ho torturato Cameron-kun

«Dovevo saperlo che non sarebbe stato zitto. Non può resistere, di fronte agli occhi di una donna» scosse il capo il ragazzo, ridacchiando.

Lei lo raggiunse, sospingendolo contro il muro e, puntatogli un dito sotto il mento, Yuki replicò: «Non voglio mai più che tu mi tenga nascosto qualcosa, Domenic-chan, altrimenti la nostra storia finirà alla svelta. Per quanto brutta, io voglio sapere tutta la verità.»

Lui annuì, reclinò il capo fino a poggiare la fronte contro quella della giovane e mormorò: «Te l'avrei detto... ma volevo capirci qualcosa, prima. Hai già sofferto anche troppo, a causa di Nobu-san

«E tu no?» ribatté sardonica Yuki.

«Posso sopportare contraccolpi per entrambi» sussurrò lui, tappandole la bocca con una mano prima che lei potesse replicare. «Ti voglio attenta e lucida, perché ho intenzione di fare una cosa, di per sé, piuttosto pericolosa.»

«Cosa?» esalò lei, non appena Dom la liberò dalla sua mano.

Più determinato che mai, Domenic le spiegò ogni cosa.

«Non permetterò mai a Nobu-san  di avvicinarsi alla mia famiglia, e la villa di Malibù è troppo esposta. Tre lati su quattro sono rivolti verso la scogliera che, per quanto impervia, può però essere attaccata comodamente sia dal cielo che dal mare.»
Yuki assentì, ora completamente presa dalle parole di Dom.

«Nobu-san ha sicuramente ancora i dati del tuo segnalatore, e seguirà te, per ottenere entrambi noi. Ormai sa che siamo insieme, perciò vorrà colpire uno per ferire l'altro. Dopotutto, gli abbiamo strappato il suo amore, no?»

«Già» annuì la giovane, le mani poggiate sul torace del ragazzo. Il suo cuore batteva lentamente, non lasciando trasparire la minima traccia di ansia.

«Bryce e Perkins sanno già tutto. Perkins si occuperà di tenere bloccata la mia famiglia, in modo tale che non ci seguano, mentre Bryce seguirà noi in separata sede, quando ci allontaneremo da qui.»

«Per questo, hai fatto smobilitare un mezzo esercito per tenere sotto controllo la villa. Non per difenderli, ma per tenere dentro i tuoi!» esalò Yuki, a bocca spalancata per la sorpresa.

Lui assentì, scrollando una spalla.

«Entrambe le cose, per la verità. Non posso dare del tutto per scontato che Nobu-san seguirà solo noi. Devo comunque difenderli, ti pare?»

Yuki, a quel punto, sorrise divertita e ammise: «D'accordo, hai messo in piedi quella messinscena per tranquillizzare la tua famiglia, eh?»

«Esatto. Li ho resi partecipi, escludendo di proposito te, per far credere loro che saremmo rimasti tutti qui, e che io avrei protetto te dalla verità.»

«Cominci a farmi paura, sai, Domenic-chan?» ironizzò la giovane.

«Difetto del sistema. Se stai con lo zoppo, impari a zoppicare» scrollò le spalle il giovane, ammiccando.

«Quando si parte?»

«Stanotte. Ho già fatto preparare un'auto a schermatura totale. Non voglio che Nobu-san possa colpirci durante il tragitto. Ci troverà solo quando lo vorrò io.»

«Posso sapere la destinazione, però?»

Domenic allora sorrise e, nel darle un bacio sul naso, sussurrò: «Andremo nello chalet di famiglia, sul lago Tahoe.»

«Mi è sempre piaciuto, quel posto.»







Note: Per quante di voi non l'avessero letto, vi rimando alla OS 'Decisioni', per sapere cos'è avvenuto il Capodanno nell'Hokkaido di sei anni addietro, quando Domenic ha dato voce per la prima volta ai suoi sentimenti per Yuki.
Per quanto riguarda la storia attuale, invece, direi che ci aspetta la fatidica battaglia all'ultimo sangue. Nobu non lascerà nulla di intentato per colpire coloro che gli hanno rubato la sua unica ragione di vita, e Domenic lo sa, per questo deve allontanarsi con Yuki da Los Angeles.
Resta da vedere chi sorprenderà chi, e in che modo.
Per ora, ci salutiamo. Riprenderò con gli aggiornamenti i primi giorni di Agosto, perciò colgo l'occasione per augurare buone ferie a chi mi imiterà o a chi mi ha già preceduto.
Grazie per avermi seguita fino a qui!

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Capitolo 21
*** XXI Love/Hate ***


XXI. Love/Hate.
 
 
 
 
 
Il sole li raggiunse quando oltrepassarono Sacramento.

I pallidi raggi, schermati da alcune nubi stratiformi, imbiondirono le montagne a cui si stavano avvicinando ad andatura di crociera.

La muscle car, che la CIA aveva messo a disposizione di Dom, poteva contare su un motore di prim'ordine, sistema letivo-magnetico di ultima generazione... ed era zeppa di armi.

Non che prevedessero di usarle.

Finché non fossero scesi al cottage, sarebbero stati irrintracciabili da qualsiasi satellite, ma Eriksson non aveva voluto correre rischi.

Era inconcepibile che due tecnici rischiassero di persona la vita, quando degli agenti scelti avrebbero dovuto essere al loro posto.

Ugualmente, messo alle strette, Eriksson si era visto costretto ad accettare quel compromesso.

Bryce era stato l'unico ad aver ricevuto il consenso per seguirli da vicino, e proprio per non insospettire la loro preda.

Domenic si era detto certo che Nobu avrebbe agito in solitaria, e Yuki era stata d'accordo con lui.

Pur non volendo, Eriksson si era fidato delle loro deduzioni ma, per ogni evenienza, aveva predisposto una squadra di supporto, pronta a intervenire nel giro di cinque minuti.

Sarebbe stato Bryce a decidere se ricorrere a un simile intervento, o meno.

Ora, con il fare del mattino, Domenic si volse per un attimo a scrutare il profilo dormiente di Yuki e pregò di non aver commesso un errore madornale.

Era stato spinto dalla rabbia, lo sapeva, e dal desiderio di tenere al sicuro suo fratello e la sua famiglia.

Ma sapeva anche, e fin troppo bene, che i motivi principali erano due, e non avevano a che fare con Cam, papà o mamma.

Lui voleva vendicarsi, e voleva altresì che Yuki potesse ottenere rivalsa sul fratello.

E la vendetta non era mai il sentimento giusto, per muoversi in azioni spericolate come quelle.

Le palpebre pallide di Yuki si mossero e, quando il sole colpì le superfici argentee dei suoi occhi, lei borbottò: «Oh, dai... non mi hai svegliata! Dovevo darti il cambio!»

Domenic sorrise, scrollò le spalle e replicò: «Dormivi così bene... ed è stato un privilegio poterti lasciare riposare.»

«Cosa devo fare con te, Domenic-chan? Lascerai mai che ti aiuti veramente?» sospirò lei, lanciandogli un sorriso che sapeva di amore ed esasperazione.

«Conto su di te in ogni momento, Yuki-chan e credimi, se non avessi fiducia in te e non volessi il tuo aiuto, non ti avrei mai coinvolta in una missione così pericolosa.»

«Sapevi che entrambi ne avevamo bisogno. Per questo, ti sei spinto a chiedere a Eriksson il permesso per questa follia.»

Lo disse sorridendo, e Dom annuì.

«Siamo gli unici a poter stanare Nobu-san, e il rischio è calcolato. Ho studiato attentamente la sua scheda, i filmati su di lui – non pensavo che Tyler avesse fatto un lavoro così accurato, tra l'altro.»

Il solo dirlo, gli fece rivoltare lo stomaco.

Dovette comunque ammettere che quel traditore aveva svolto bene il suo ruolo e aveva trovato, negli anni, così tante prove a sostegno delle sue tesi, da farlo preoccupare.

Quanti e quali contatti aveva, Nobu? Con chi si era andato a invischiare?

Yuki assentì, dichiarando convinta: «Nobu-san non si è mai fatto aiutare da nessuno, neppure una volta, se non da Byron. E, proprio per onorare la sua morte, non avrà al suo fianco che la sua rabbia e il suo dolore.»

«Due sentimenti pericolosi, che possono far commettere follie a chiunque» asserì Domenic, adombrandosi in viso.

«Conto proprio su questo. Nobu-san non è mai stato emotivo, e questi sentimenti disturbanti potrebbero portarlo a commettere un errore fatale. E io sarò pronta al varco, ben decisa a sfruttarlo.»

Il tono di Yuki fu lapidario, e Domenic non se la sentì di smorzare la sua determinazione. La provava anche lui.

Nobu-san aveva fatto uccidere due suoi amici, perché Sebastian e Leon erano state molto più che due semplici guardie del corpo, per lui e Cam.

Aveva minacciato suo fratello e, nel tentativo di recuperare Asclepio, due agenti che lui conosceva bene erano morti per proteggerli.

No, l'avrebbe pagata cara. A ogni costo.

 
§§§

La brezza portava con sé il profumo dei pini resinosi, dell'umidore del lago montano e dei primi fiori primaverili che, coraggiosi, avevano spezzato la coltre nevosa.

Perduravano, qua e là, macchie biancastre di neve, ma ormai il bosco era verdeggiante e ricco di vita e, quando Domenic sistemò l'auto nel cortile, sorrise.

Non vedeva il cottage sul lago da quasi un anno, e non poté nascondere quanto gli fosse mancato.

Per quanto gli piacesse abitare coi genitori, a Malibù, quel luogo così isolato e tranquillo era più nelle sue corde.

Lì aveva passato tanti splendidi momenti, in compagnia del fratello, di Sophie e di Yuki.

Con un sorriso, accompagnò all'interno dell'abitato a due piani la sua compagna e, non senza una certa soddisfazione, disse: «La nostra oasi di pace.»

Yuki si guardò intorno, ammirando la struttura lignea della costruzione, i colori caldi di arredamento e suppellettili, la bella stufa sospesa nel mezzo del salone e, sospirando, mormorò: «E' bellissimo come sempre. Un luogo pacifico e molto piacevole.»

«Ti accompagno di sopra.»

Sospingendola leggermente verso le scale, Domenic ristette dietro di lei mentre percorrevano la scalinata lignea.

Adorava il modo in cui aveva tinto i suoi capelli.

Il nero della sua chioma, color ala di corvo, si sposava alla perfezione con quella morbida onda purpurea, che ne tingeva le punte diritte.

Nel carezzargliene una ciocca, asserì: «Ti stanno veramente bene, Yuki-chan

«Grazie» sussurrò lei, raggiungendo il ballatoio del piano superiore.

Si volse a mezzo, gli sorrise da sopra una spalla e Domenic, lasciate andare le loro sacche da viaggio, mandò al diavolo tutto e la sospinse contro il muro in legno.

Il bacio con cui la aggredì sorprese anche lui, ma il desiderio di assaporare quelle labbra passò sopra a tutto.

Sopra alle buone maniere, alla pazienza, al pericolo.

C'era solo Yuki, lì con lui. Il resto non contava.

La giovane restituì il bacio con eccitata sorpresa e, afferrato il maglioncino di cotone del ragazzo, lo strattonò per sollevarlo e sfiorare, così, la pelle calda e i muscoli tonici dell'addome.

Domenic ansò al suo semplice tocco, e la ragazza sorrise fiera sulla bocca di lui.

Proseguì perciò nelle carezze, lasciando che lui le divorasse la bocca, il viso, il collo.

Non le importava di attendere i fiori di ciliegio, o l'atmosfera romantica promessa da Domenic.

Lo voleva. Con tutta se stessa, pienamente, e non avrebbe aspettato un attimo di più.

«Yuki-chan... aspetta... aspetta...» ansò a fatica Domenic, restio ad allontanarsi da lei, ma ben deciso a non prenderla nel bel mezzo del corridoio.

Lei mugugnò una protesta e, per diretta conseguenza, il giovane rise.

Per sedarne le smanie, la sollevò a sorpresa tra le braccia e lei, fissandolo malissimo, ringhiò indispettita: «Non puoi raffreddare in questo modo le mie...»

Non terminò mai la frase.

A grandi passi, Domenic aveva raggiunto una porta, che poi aveva aperto con un colpo leggero della spalla.

Dinanzi agli occhi meravigliati di Yuki, si aprì lo scenario da sogno tanto sperato - pur se in segreto - dalla ragazza.

Il pavimento era quello tipico delle case giapponesi del secolo precedente, con passamaneria in seta di un tenue color verde foglia.

Un bel paravento in carta di riso riportava dei magnifici dipinti surimono, raffiguranti bei sakura in fiore su una scogliera a perpendicolo sul mare.

Il letto, basso e ampio, era in legno di ciliegio e, sopra i cuscini, erano stati stesi due rami fioriti e profumati della stessa pianta.

Depostala a terra, Domenic emise un leggero fischio e, un attimo dopo, una debole melodia si diffuse nell'aria, portando con sé il cinguettio degli uccelli di bosco.

Yuki avanzò di un passo, si guardò intorno ammirata, studiando i particolari della stanza con occhi lucidi.

Un paio di candele profumate, pur se spente, diffondevano nell'aria un penetrante profumo di gelsomino.

Sulla testiera del letto, liscia e profonda, erano stati sistemati un paio di maneki neko1 in ceramica colorata, e una singola rosa rossa riposava in un bel vaso di cristallo boemo.

Incredula, Yuki si volse a guardare Domenic che, sorridente, mormorò: «Spero di non aver sbagliato. Sono impazzito, nel fare la lista al mio drone domestico, ma pensavo che avresti...»

La giovane non lo lasciò terminare.

Gli gettò le braccia al collo, e lo ringraziò con un generoso bacio sulla bocca.

Domenic rise della sua reazione, ma la foga con cui Yuki continuò a baciarlo lo fece incespicare, mandandolo lungo riverso sul letto morbido e profumato.

Lei allora rise al suo pari e, nel rimanere sopra di lui, naso contro naso, mormorò: «Non avresti potuto regalarmi momento più bello.»

«So che non è proprio ciò che ti avevo promesso, però...»

La giovane scosse il capo, tornò seria e, nel deporre un bacio leggero sul mento di lui, sussurrò roca: «E' più di quanto speravo.»

Domenic allora si rialzò a sedere, tenendola a cavalcioni su di lui e, lentamente, sfilò la maglia scura che Yuki indossava, lasciandola col solo reggiseno di pizzo.

Sospirò, alla vista di quella pelle di pesca e, deponendo un bacio sull'incavo della gola, disse sommessamente: «Volevo darti un momento di pace, in tutto questo caos.»

«Mi basta starti accanto. Ho sempre e solo voluto questo, fin da quando mi sono unita al tuo gruppo. Desideravo che tu mi vedessi

Lui le sorrise, sfilandosi dalla testa il maglioncino, e replicò: «Ti ho sempre vista, e lo sai. Non mentivo, l'altro giorno, con Ekaterina.»

Yuki rise piano e, con dite leggermente malferme, tolse la camicia a Domenic con gesti attenti, misurati.

Il giovane rimase immobile sotto il suo tocco.

L’unico elemento traditore alla sua ansia fu il respiro affrettato, che Yuki apprezzò.

Ammirava il sangue freddo di Domenic, ma voleva vederlo crollare, con lei.

Lo sospinse delicatamente verso il letto, e lui la lasciò fare.

Allora, Yuki si chinò per baciare la sua pelle calda, soffiò sulla leggera peluria del suo torace – facendolo ridacchiare – e, con tono ricco di promesse, sussurrò: «Non permetterò che tu dimentichi questo momento. Mai.»

«E io lo prometto a te» replicò lui, afferrandola gentilmente alle braccia per avvicinarla a sé.

La baciò, lentamente e con meticolosità, divorandola un pezzo alla volta e Yuki, fremente d'impazienza, scalciò via le scarpe per potersi liberare dei jeans.

Non contenta, mise mano a quelli di Domenic ma lui, con un risolino, capovolse la situazione e la stese sul letto, bellissima e accaldata nel suo completo di pizzo.

«Stupenda.»

Fu un semplice mormorio, ma Yuki tremò tutta, di fronte alla forza insita in quella semplice parola.

I suoi occhi, color dell'oceano più profondo, la stavano divorando e, in quel momento, Yuki seppre che neppure lei avrebbe dimenticato.

Domenic tornò a baciarla e, al tempo stesso, si liberò di scarpe e pantaloni, aiutato dalle mani frenetiche della ragazza.

Si stese su di lei un attimo dopo essersi liberato di tutto quanto e Yuki, con un sospiro tremulo, lo accarezzò con mani e gambe, sentendolo fremere in risposta.

Dom la liberò del reggiseno, carezzandola con mani lievi e bocca rovente, mentre il corpo della ragazza andava in fiamme, divorata da sensazioni mai provate.

Domenic poteva anche essere un ragazzo controllato e apparentemente freddo, all'esterno, ma Yuki scoprì quanto questo fosse solo un mascheramento.

Una mera impressione.

La incendiò, mordendola leggermente sulla pelle calda, scendendo pian piano in lunghe scie di baci dolenti e, nel frattempo, non smise mai di accarezzarla, di parlarle con tono adorante.

Quando infine la penetrò, Yuki piegò all'indietro il capo, affondando nelle coltri al profumo di rosa.

Sussurrò il suo nome come un'invocazione e Domenic approfondì la loro unione, intensificando il contatto.

Lei si ancorò alle sue spalle, graffiandolo, e ansò: «Ti prego...»

Fu allora che Dom si esibì in un mascolino sorriso di esultanza e, con movimenti lenti e morbidi, la accompagnò lentamente verso l'apice, dandole baci sulle guance, tra i capelli, sulla bocca socchiusa.

Il tutto senza mai smettere di guardarla adorante, pieno d'amore per lei.

Perché aveva pensato che lui non l'avesse mai realmente guardata?

Quegli occhi l'avevano sempre sfiorata con reverenza, con affetto incondizionato e meraviglia.

Solo, lei aveva sempre dato per scontato che Domenic avesse sempre guardato tutti a quel modo.

Perché lui era così.

Amava. Incondizionatamente, con forza, e si batteva per coloro che aveva nel cuore.

Solo ora, però, capiva che, per lei, questo amore era stato spinto al limite, oltre un confine che Yuki pensava non potesse esistere.

Raggiunse l'acme urlando il suo nome, sapendo finalmente quanto Domenic l'amasse, quanto l'avesse amata fin da quel lontano giorno di sette anni prima.

Quanto l’avrebbe amata fino alla fine dei suoi giorni.

 
§§§

«Non voglio neppure sapere perché hai spento il cellulare e hai blindato la casa, Dom, ma almeno ricordati che ci sono, nelle vicinanze» brontolò Bryce, sistemato scomodamente nel suo nascondiglio di fortuna. «Vederti gironzolare per casa mezzo nudo, non è uno spettacolo piacevole. Sappilo.»

«E tu non guardare» replicò bonario Domenic, seduto sul divano del salone, lo sguardo puntato verso il bosco, dove sapeva trovarsi Bryce, in tenuta mimetica e armato fino ai denti.

«E' il mio compito guardare, razza di disgraziato. E, anche se mi piacerebbe chiederti come va, capisco dal tuo sorrisone che le cose procedono bene.»

Domenic allargò ancora di più il suo sorriso, salutò con la mano a nessuno in particolare e disse: «Ho tolto la schermatura al cottage tre ore fa. Quando pensi che riceveremo visite?»

«Se è già in California, cosa di cui non dubito più di tanto, visti i contatti che ha, potrebbe essere qui già stanotte, o nella prima mattinata di domani.»

Brontolò un'imprecazione, poi aggiunse: «Mi sta sulle scatole aver dovuto usare la documentazione raccolta da Tyler ma... cavoli! Così, almeno, abbiamo una mezza idea di come potrebbe penetrare illegalmente negli States.»

«Pensi che userà la linea dei trafficanti messicani?»

«Uno dei tunnel della droga che finiscono in Texas? Quasi sicuramente. Da lì alla California, sarà una bazzecola. E, se intercetterà il segnale, potrà anche evitarsi il traffico dell'ora di punta sulla Motorway 1.»

La sua ironia graffiante fece ghignare Domenic, che comprese subito l'ansia dell'amico.

Quella missione era rischiosa sotto molti punti di vista, ma tutti loro si erano trovati d'accordo nell'allontanare Nobu da Los Angeles.

La villa era un bersaglio troppo facile e poco difendibile.

Il cottage, immerso com'era nei boschi, in un luogo isolato e piuttosto lontano dalle vie di comunicazione principali, permetteva un maggiore controllo del perimetro.

Controllando il monitor del suo PC, che si trovava sulle sue cosce, Dom spostò con un dito alcune icone e andò ad aprire quella del comando dei satelliti geostazionari.

Ne scelse uno in particolare e, dopo aver digitato i codici di accesso, mormorò: «Traffico regolare e, stando alla spettrometria digitale, su nessuna auto sono presenti armi o oggetti atti a offendere.»

«Riesci anche a vedere la marca del dentifricio di chi sta guidanto?» ironizzò Bryce.

Domenic storse il naso, fece scomparire la schermata passando una mano davanti allo schermo e, modulando il tono della voce, oscurò i vetri della casa.

«E dai, piantala, Dom! Lo sai che devo controllarti a vista

Il giovane si alzò, sorrise a Yuki – che si trovava sull'ultimo gradino delle scale – e ripeté la parola, togliendo la schermatura.

Avviandosi verso di lei, Domenic disse lapidario: «Guai a te se guardi al primo piano...»

«Vai al diavolo, Domenic!» borbottò Bryce, chiudendo la comunicazione.

Ridendo sommessamente, Dom si infilò il cellulare nella tasca posteriore dei pantaloni che indossava – non aveva rimesso la camicia – e, nel raggiungere Yuki, la baciò sul collo.

«Tutto bene?»

«Voglio una doccia coi soffioni uguale identica a quella che c'è di sopra. Quasi quasi, ci rimanevo dentro» ironizzò lei, sfiorandolo alla nuca con una mano per trattenerlo accanto a sé.

Dom la abbracciò, cullandola contro di sé e baciandole i capelli.

Quello che aveva condiviso con Yuki era stato importante, unico e, per il tempo passato assieme, aveva effettivamente dimenticato ciò che li attendeva al varco.

Ma ora non poteva più permettersi di perdere il controllo su se stesso.

«Sei preoccupato per Bryce?»

Lui rise sommessamente, annuendo contro la sua spalla.

«Non leggermi così bene, ti prego, mi fai quasi paura.»

Yuki allora lo carezzò sui capelli morbidi e leggermente ondulati, trovandoli magnifici.

Ci aveva giocato a lungo, nelle ultime ore, e sapeva che non avrebbe mai smesso di farlo.

Se fossero riusciti a vincere, ovviamente.

Domenic avvertì immediatamente il suo leggero irrigidirsi e, nello scostarsi da lei, le carezzò il viso con il dorso della mano e mormorò: «Mostrami le tue armi, Yuki-chan. Penso sia arrivato il momento di fare sul serio.»

Annuendo, lei lo prese per mano, riconducendolo al piano superiore e, dopo essere entrati nella stanza di Domenic, raccolse la sua sacca da terra e la gettò sul letto.

In silenzio, Dom attese che la ragazza estraesse le sue armi e, una dopo l’altra, queste finirono sul morbido materasso.

Yuki non disse nulla, non sapendo bene come Domenic avrebbe reagito di fronte a quell’arsenale bellicco.

Ma, come sempre, lui seppe stupirla.

Si avvicinò, prese in mano un sai per soppesarlo sulla mano, lucente acciaio su cui era stato inciso il suo nome e, nel rigirarlo con attenzione, le sorrise.

«Carino. Hai dato il mio nome al tuo sai

Lei si limitò a scrollare le spalle.

Dom allora le diede un bacio sul naso, risistemò il sai nella sua custodia di pelle e, afferrata la mano della ragazza, ne baciò con delicatezza il palmo.

«Avrei dovuto essere con te, invece di costringerti a imparare le arti delle ombre.»

«Non era il tempo, Domenic-chan, per nessuno dei due. E non mi spiace aver imparato a difendermi da sola.»

Ugualmente, Yuki apprezzò il suo pensiero.

Lui levò lo sguardo a scrutare i suoi occhi chiari, occhi che riflettevano paure, speranze, sogni e incubi.

La strinse in abbraccio soffocante, quasi volesse fonderla nel proprio corpo, e disse con veemenza: «In un modo o nell’altro, porremo la parola fine sui conti che abbiamo col passato. Tyler, Nobu-san, tutto quanto.»

Annuendo, Yuki affondò il viso nel suo torace, aspirò quel profumo che le era rimasto dentro come un memento dolce e persistente, e dichiarò veemente: «Se vogliamo cominciare qualcosa assieme, dobbiamo cancellare ogni scheletro dall’armadio.»

«E così faremo» le promise lui, scostandosi dalla ragazza per sorriderle.

Lei gli rispose con uno altrettanto caloroso prima di guardare le armi, sfiorare uno dei kunai e domandargli: «Qual è la tua specialità?»

 
§§§

Conosceva a menadito le leggi della fisica riguardanti la dinamica dei corpi, la velocità e l'inerzia.

Ma, un conto era pensare in termini teorici, un altro era l'idea di lanciare un kunai contro una persona con l'intento di ferire. O uccidere.

Perché, a conti fatti, di questo si trattava.

Quando Eriksson aveva accettato la sua idea, aveva anche avallato la possibilità che lui – e, a questo punto, anche Yuki – potesse commettere un omicidio.

In quanto tecnici esterni all'Intelligence, non avrebbero mai potuto avere il bene placido per un'azione del genere, almeno in teoria.

Stanare Nobu, però, sarebbe stato compito loro e trovandosi, almeno all'apparenza, senza difese, avrebbero avuto bisogno di difendersi.

E, eventualmente, uccidere senza rischiare riflessi penali.

Perché, per quanto sia lui che Yuki si fidassero di Bryce, quella missione aveva margini di rischio davvero alti.

Ma Domenic non avrebbe mai più accettato che un pericolo così alto si avvicinasse alla sua famiglia.

Aveva rischiato già una volta di perdere il fratello. Non l'avrebbe accettato una seconda.

Né avrebbe permesso che Yuki vivesse con l’incubo di Nobu per tutta la vita. Le doveva la possibilità di avere la sua vendetta e, per quanto temesse per lei, doveva darle massima fiducia.

 
§§§

Emily Roth, agente CIA armata fino ai denti e con un lieve segno di colluttazione sul viso, riportò Hannah in casa sotto la minaccia di una pistola.

Un tic nervoso le fece vibrare la guancia quando, nell'inserire nuovamente nella fondina la sua pistola taser, ringhiò all'agente Perkins: «Tienila a bada, per l'amor di Dio! Abbiamo dovuto intervenire in tre per placcarla, e non farle male è stato un dramma.»

L'agente anziano guardò colpevole la sua collega, prima di rivolgere uno sguardo di biasimo alla padrona di casa.

Hannah, per tutta risposta, intrecciò le braccia e si accomodò sul divano con fare sfrontato, mentre suo marito entrava in salotto con l'aria confusa.

«Cos'è stato, quel baccano là...» Nickolas si bloccò, scorse gli abiti e i capelli scarmigliati della moglie, la ferita sul viso dell'agente e, aggiunse: «... Hannah? Che hai fatto?»

«Sua moglie ha cercato di uscire di casa senza permesso, Mr Van Berger, e le agenti sono dovute intervenire per bloccarla» gli spiegò succintamente Perkins, torvo in viso. «Hannah, lei mi sta molto simpatica, ma gli ordini sono tassativi. Lei e la sua famiglia dovete rimanere qui!»

Levando stizzita il mento, la donna replicò: «Non potete pretendere che io accetti passivamente di rimanere qui, quando so che uno dei miei figli è in pericolo!»

«Mamma, per favore...» intervenne a quel punto Cameron, facendo la sua comparsa nel salone.

L'aria smunta era ben evidente sul suo volto pallido, così come la sua ansia.

Ugualmente, disse: «L'agente Perkins ha ragione. Se Dom ha voluto così, avrà avuto le sue buone ragioni. Si è fatto in quattro per tirarmi fuori dal Giappone, e non vanificherò i suoi sforzi mettendo a rischio la sua missione. Tu dovresti fare la stessa cosa.»

Nick gli batté una mano sulla spalla, sapendo bene quanto gli costassero quelle parole.

Era sempre stato Cameron l'uomo d'azione, e Domenic quello più calmo e posato.

Veder ribaltarsi le posizioni, aveva reso nervosi tutti e, a distanza di così tante ore dalla sparizione di Yuki e Dom, l'ansia non era scemata neppure un po'.

Era stato scioccante scoprire, al loro risveglio, che sia Yuki che Domenic erano scomparsi dalle rispettive stanze.

Come lo era stato scoprire di non poter mettere piede fuori dalla proprietà, dietro tassativo ordine del supervisore di Domenic, l'agente Eriksson.

Il giorno era passato lento e snervante e, data la totale mancanza di informazioni, il nervosismo di tutti loro era cresciuto di pari passo con il passare delle ore.

Al reclinare del sole all'orizzonte, tutto era peggiorato.

Nell'osservare l'orologio digitale al muro, Nick si chiese dove fossero ora i due giovani. Erano le dieci passate.

Nickolas raggiunse Hannah assieme al figlio e, accomodatosi accanto a lei, che ora tremava per la reazione nervosa, asserì: «Ci siamo fidati fino a ora, honey. Proviamo a farlo ancora per un po'.»

«Ma lui non è un agente! Non è addestrato a fare le cose che... che fanno loro!» sbottò la donna, passandosi le mano tra i capelli in un gesto di esasperazione.

Cameron le afferrò una mano, la tenne stretta nelle sue e, serio in viso, replicò: «Mamma, Dom è perfettamente in grado di gestire lo stress e la situazione in cui si è infilato. Credimi, lassù in Alaska si è comportato alla grande e, quando ci siamo battuti contro il tizio che ci aveva spedito contro Nobu-san, non si è fatto prendere dal panico. Sa il fatto suo.»

«Cam...»

Il giovane la baciò su una guancia, le sorrise e aggiunse: «So cosa può fare, perché si è allenato con me per un sacco di tempo. E so perché ha preferito andarsene. Non lo biasimo per aver pensato a noi, prima che a se stesso. L'avrei fatto anch'io.»

«Avremmo potuto aiutarlo. Siamo la sua famiglia...»

«Sarebbe stato in pensiero per noi per tutto il tempo. Così, ci sa al sicuro e protetti. Inoltre, sa bene che il vero obiettivo di Nobu-san è Yuki-necchan, perciò...»

«Eriksson non avrebbe mai approvato una simile missione, se non avesse avuto la certezza che i suoi uomini possono farcela» si intromise Perkins, sicuro di sé. «E, anche se Domenic è un consulente, sa come difendersi. Niente è stato lasciato al caso, Mrs Van Berger. Niente.»

 
§§§

Di tutto quello che avrebbe potuto succedere, nessuno si sarebbe aspettato una mossa simile.

Concentrato sui movimenti nei pressi – e all'interno – del cottage, Bryce identificò troppo tardi l'ombra che uscì da una villetta in fondo alla via.

Quando il suo visore notturno inquadrò l'immagine dinanzi a lui, a mezzo miglio di distanza, imprecò e disse: «Dom, mi senti?! E' arrivato!»

«Molto bene. E' da solo? Riesci a intercettarlo?»

«C'è un problema, Domenic.»

«Cosa?» chiese subito, ombroso.

«Ha un ostaggio. Ha con sé una bambina» ringhiò furioso Bryce, lasciandosi cadere su un letto di aghi di pino e terra.

Era del tutto impazzito? E la famiglia da cui era stata prelevata? Era viva o...

«Sezione due, emergenza di livello sei. Inviate una squadra di tre uomini a controllare il civico in fondo alla strada. Possibile strage familiare. Il sospetto ha con sé una bambina e, se non vedo male, le ha messo addosso una cintura di esplosivo.»

Bryce imprecò una seconda volta e, la donna che ricevette il messaggio, lo imitò.

«Okay, Kendall, inviamo subito gli uomini che hai chiesto. Hai bisogno di rinforzi, lì?»

«No, aspettate. Non vorrei che, al minimo cenno di pericolo, facesse scattare il detonatore. Non so davvero cosa abbia in mente, a questo punto.»

Passandosi le mani tra i capelli, proseguì dicendo: «Dom, ora sta aprendo il cancelletto d'ingresso. Dieci metri da voi, lato sud.»

Grazie ai sensori presenti all'esterno della casa, Bryce iniziò a percepire nel suo auricolare il piagnucolio agitato della bambina.

Il suo primo desiderio fu di correre là, afferrare la bambina e piantare una pallottola in fronte a Nobu.

Ma sapeva bene che era un rischio che non poteva correre.

Con tutta probabilità, Nobu immaginava che Domenic e Yuki non fossero lì da soli.

La bambina serviva a questo. A tenere buona la cavalleria.

Pur se un tiratore scelto – o lui stesso – avesse centrato Nobu, il rischio che il detonatore venisse azionato era troppo alto.

Nobu non voleva spettatori. Voleva portare a termine la sua vendetta senza intralci di alcun genere, ed era passato alle vie di fatto nel modo più meschino.

La porta del cottage si aprì e Yuki fece la sua comparsa. Aveva le mani aperte e rivolte in avanti, a dimostrazione che era disarmata.

Nobu continuò ad avanzare in silenzio e la sorella, dopo essersi scostata dalla porta, lo fece entrare.

Per un attimo, ella volse lo sguardo verso la foresta, poi entrò a sua volta.

A Bryce non restò altro che stare a guardare.

All'interno, Domenic guardò con gelida cortesia il loro ospite e, nel notare la bambina in lacrime, dichiarò: «Non ti sembra che un'innocente imbottita di esplosivo sia un biglietto da visita troppo esagerato, per presentarti qui?»

Nobu sogghignò, replicando con tono roco: «Per la mia vendetta, tutto è lecito.»

Yuki tornò in fretta al fianco di Domenic e, speranzosa, disse: «Ora sei qui, hai ottenuto quello che volevi. Averci insieme, nello stesso posto. Lascia andare la bambina, fratello.»

Nobu si accigliò e, nervoso, le ringhiò contro tutto il suo disappunto.

«Non chiamarmi fratello con quel tono ampolloso, maledetta! Hai rovinato tutto, tutto! Se non fosse stato per te, Byron non sarebbe morto!»

Le sue mani si mossero nervose e Yuki, temendo potesse far esplodere la carica, esalò: «Nobu-san, ti prego!»

Lui la fissò sadico, sogghignò e infine disse: «Oh, non ti preoccupare. Non morirai. Non subito, per lo meno. Prima, mi guarderai mentre uccido il tuo amante. Occhio per occhio, sorellina. Occhio per occhio

Imperturbabile, Domenic si intromise tra i due.

«Mi sembra del tutto superfluo che loro rimangano, Nobu-san. E' con me che devi avercela, non con Yuki-chan o quella bambina. Sono io che ho ucciso Byron, perciò è con me che hai un conto in sospeso. E, se vogliamo proprio spaccare il capello in quattro, devi avercela con me anche per tutto il resto. Yuki-chan lavora per me da anni, ormai, ed è la CIA la società presso cui entrambi prestiamo servizio.»

Domenic sorrise nonostante lo stupore sul viso di Yuki, e la rabbia su quello di Nobu. «Il localizzatore che hai usato per trovarci, grazie ai buoni uffici dell'agente Tyler – è stato arrestato, tra l'altro – è un gentile dono dell'Intelligence, contro cui tu ti sei messo. Avresti dovuto prestare maggiore attenzione a chi ti forniva le dritte.»

«Yuki-chan... un agente CIA? Chi vuoi prendere in giro?» lo sbeffeggiò Nobu, pur stando sul chi vive.

«Non ho mai detto che è un agente. Lavora come consulente tecnico, tutto qui. E, fra i suoi compiti, c'è sempre stato quello di seguire piste spionistiche. E' così che è arrivata a voi, … solo perché io le ho detto di farlo.»

«Domenic-chan, tu...»

Dom azzittì Yuki con un'occhiata, preferendo proseguire con il suo piano.

Voleva che Nobu se la prendesse con una persona sola, non con tutt'e tre loro.

Yuki e la bambina sarebbero uscite dal cottage sane e salve.

«Non ti credo!» ringhiò allora Nobu, fissando astioso sia il giovane che la sorella.

«Credi a questo. E' stata questa mano a sparare al tuo Byron. Nessun'altra mano se non questa» sottolineò Domenic, levando la mano destra come se, ancora, reggesse la pistola che aveva posto fine alla vita dell'amante di Nobu.

Gli occhi scuri dell'uomo si ridussero a due fessure, fessure che sprizzarono odio e fiamme vendicative.

Yuki, terrorizzata da quello che stava facendo Domenic – far ricadere la colpa solo su di sé – tentò di convincerlo con lo sguardo a cedere, ma il giovane non le badò.

Si mise di proposito dinanzi a Yuki e proseguì dicendo: «Non hai bisogno di loro, ma di me

Ora, gli occhi di Nobu erano solo per lui.

«Yuki-chan, togli la cintura alla bambina e vai fuori di qui. Io e Nobu-san dobbiamo parlare da soli, da uomo a uomo» ordinò a quel punto Dom, gli occhi negli occhi con il suo avversario.

Il giapponese non disse nulla, anzi, sogghignò, e a Yuki non restò che fare come dettole.

Si affrettò a liberare la bambina in lacrime, prendendola poi in braccio prima che Nobu ci ripensasse.

Fatto ciò, lanciò un'occhiata al profilo di Domenic e, pur desiderando rimanere con lui, si avviò verso la porta quasi correndo.

Ne uscì di corsa, saltando i tre gradini per fare prima e, non appena fu all'esterno, toccò il suo auricolare per metterlo in funzione ed esclamò: «Nobu-san è dentro con Domenic-chan. Ha una cintura esplosiva. Presumibilmente, esplosivo al plastico ad alto potenziale! Dovrebbero essere all’incirca tre chili.»

«Ricevuto, Yuki-chan. Allontanati e raggiungi il rendez-vous come stabilito. Troverai l'agente Torrence ad attenderti. Io mi avvicino al cottege» dichiarò Bryce, scostandosi dalla sua postazione di vedetta.

«Kendall, qui è tutto regolare. La famiglia è stata addormentata con del sonnifero. Ci sono residui di gas narcotizzante e una bomboletta aperta, proprio nei pressi di una finestra rotta» intervenne uno degli agenti, avvertendo il gruppo degli sviluppi.

«Ha avuto un minimo di pietà, allora...» sibilò Bryce, scendendo dall'erta il più silenziosamente possibile.

«Stiamo facendo sopraggiungere un'unità medica perché controllino il loro stato di salute. Dobbiamo spostarci lì?»

«Negativo. La situazione potrebbe precipitare da un momento all'altro, e meno gente c'è in giro, meglio è.»

«Restiamo in attesa di ordini» chiuse la comunicazione l'agente.

Bryce continuò la sua discesa, sperando che, all'interno, le cose non degenerassero di colpo.

 
§§§

La cintura esplosiva in grembo e il dito puntato sul detonatore, Nobu fissò Domenic mentre, apparentemente tranquillo, si versava da bere al piano bar.

«Sicuro di non volere nulla, Nobu-san?» gli domandò il giovane, sorseggiando un po' di vermouth con del ghiaccio.

Il giapponese lo fissò con aria derisoria. «Se pensi di spacciarti a grande eroe, non mi inganni. Pensi davvero che io creda a questa pantomima? Che non sappia quanto hai paura di morire?»

«Sarei sciocco a pensare il contrario. So che non sei stupido, Nobu-san. Ma trovo stupido che tu voglia gettare al vento la tua vita. Ai tuoi figli non pensi?» replicò Domenic, appoggiandosi contro una delle colonne che sostenevano il ballatoio del primo piano.

La sua posa, in apparenza, era del tutto rilassata.

«Ci penserà Midori-san, a loro. E' sempre stata una brava madre.»

Lo disse con sincerità, e Dom lo notò senza difficoltà alcuna.

C'era rispetto, nelle sue parole, pur se non l'amore che ci si sarebbe potuti aspettare tra coniugi.

Annuendo, Domenic terminò il suo drink e ammise: «Sì, Midori-san è sempre stata una donna gentile e premurosa.»

Un attimo dopo, si lasciò scivolare a terra, sedendosi sul parquet liscio.

Poggiato il bicchiere a terra, Dom si strinse le ginocchia al petto, con posa apparentemente timorosa e stanca, e aggiunse: «Perché, Nobu-san? Perché si è arrivati a questo?»

«Quando abbiamo scoperto cos'era Asclepio, la risposta è venuta da sé. Sai quanti danni avresti fatto, all'industria farmaceutica? Quanti soldi avremmo perso?»

«Asclepio serviva a far guarire le persone. Ma le medicine per curare queste persone, avreste dovuto comunque farle voi.»

«Non sarebbe stata la stessa cosa. La scomparsa delle malattie croniche avrebbe eliminato una fetta di mercato enorme, con perdite inimmaginabili.»

Domenic sospirò, scosse il capo e mormorò: «E alla vita umana non pensasti mai, quando congegnasti di rapire Cameron e rubargli il programma?»

Nobu non rispose alla sua domanda. Si limitò a dire: «Hai tolto una vita anche tu. E non mi sembri turbato.»

«La sua vita mi peserà sulle spalle per tutta la mia esistenza... ma lui ha cercato di uccidere Yuki-chan, e questo non potevo permetterlo» ammise con sincerità Domenic.

Non c'era stato tempo per metabolizzare ciò che aveva fatto in Alaska, poiché il ritmo degli eventi era stato fin troppo incalzante.

Sapeva benissimo che, se mai fosse sopravvissuto, i ricordi di quei momenti lo avrebbero tormentato per molto tempo a venire.

Ma non poteva pensarci ora.

«Quindi, a quanto pare, avevi ragione, prima. Do ut des. Tu per Byron» sorrise a quel punto Nobu, lasciandosi andare contro lo schienale del divano. «E che Dio assista entrambi, Domenic-chan

Chiuse gli occhi e, un attimo dopo, pigiò il pulsante del detonatore.

Domenic non perse tempo. Nel breve battito di ciglia che impiegò il circuito a connettersi, lui si spostò dietro la colonna e, il più accovacciato possibile, attese l'inevitabile.

La deflagrazione arrivò un decimo di secondo dopo.

L'aria compressa sollevò i mobili, mentre l'esplosivo compiva la sua opera distruttiva.

Ma a Domenic non restò il tempo di comprendere cosa stesse succedendo intorno a lui.

Tutto fu buio in un attimo e, grazie al cielo, lui perse i sensi.







Note: Eccomi di ritorno con il proseguo della storia. La resa dei conti è infine giunta, e Nobu ha giocato una carta che nessuno si aspettava. Questo ha portato alle conseguenze che ormai avete letto, e che lascerà degli strascichi a lungo termine su tutti i protagonisti della storia. Vi ringrazio per avermi seguita fino a qui e, chiedendovi di fidarvi di me ancora una volta, vi saluto! Alla prossima!

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Capitolo 22
*** XXII Resign ***


XXII. Resign.
 
 
 
 
 
Stralci di voci, di conversazioni, si alternarono a intere eternità di silenzio.

Domenic non seppe dire per quanto tempo, quella sensazione di estraniamento, perdurò intorno a lui.

Seppe solo che, quando riaprì gli occhi, si ritrovò a fissare la lampada alogena color azzurro scuro di quello che, all'apparenza, era il soffitto di una camera d'ospedale.

Erano tutte uguali. Non avevano usato la minima fantasia, nel fabbricarle.

Mosse un poco il capo e, subitaneo, un dolore sordo si diramò dal collo fino al coccige, dipanandosi alle gambe e ai piedi.

Si lagnò, e una voce impastata borbottò: «Ehi... ben svegliato, eh?»

«Cam?» biascicò Domenic. La gola era riarsa, e sapeva di acido da batteria.

O comunque, di qualcosa di veramente sgradevole.

Un attimo dopo, ciò che aveva nello stomaco pensò bene di trovare la via più veloce per uscire e, lesto, un drone infermiere fu da lui per aiutarlo.

«Anestesia. Io ho dato di stomaco poco fa» disse ancora Cameron, in un punto imprecisato della stanza.

Con la testa che martellava all'inverosimile, Domenic riuscì finalmente a spostare lo sguardo alla sua destra e lì, steso su un letto, trovò il fratello.

Pareva reduce da una lunga battaglia, pallido e smorto com'era.

«Che è... successo?» gracchiò il giovane, subito aiutato dal drone.

L'androide lo sollevò gentilmente per farlo bere e il giovane, dopo averlo ringraziato, lo pregò di sollevare un poco lo schienale perché potesse rimanere seduto.

Il drone lo accontentò e, al tempo stesso, inviò al dottore l'esito positivo del suo decorso operatorio.

Domenic si guardò attorno, i macchinari accesi lanciavano indicazioni a raffica sulle loro condizioni attuali e, confuso più che mai, domandò ancora: «Che ci facciamo qui?»

Cameron ghignò e, nel sistemarsi meglio contro i cuscini, gli domandò: «Dunque; partiamo dal tuo gesto idiota, o dalla fine?»

Dom rispose al ghigno con uno uguale, e il gemello fece spallucce.

«Alloooora... da quel che sappiamo, quando la bomba è esplosa, si è scatenato il parapiglia. Yuki ha dato di matto, e sono serviti sei agenti per impedirle di venire a cercarti in mezzo alle macerie. Il primo a intervenire è stato Bryce, che è stato solo scalfito leggermente dalla deflagrazione. Se l'è cavata con un taglietto sulla faccia.»

Domenic annuì, premurandosi di rammentare di chiedere scusa a Yuki per lo spavento preso.

«Per quel che riguarda Nobu-san, l'esplosione lo ha ridotto in pezzi, così come il cottage, del resto. Tu sei stato trovato, miracolosamente vivo, sotto la travatura di sostegno della casa.»

«Di miracoloso c'è stato poco. Mi trovavo lì di proposito. Sapevo benissimo che quella trave sosteneva il cottage e che, in caso di esplosione, mi avrebbe protetto egregiamente» replicò Domenic, tastandosi il fianco dolorante. «Che mi è successo, quindi?»

«Una delle travi del soffitto si è sfondata, durante il crollo, e le sue schegge ti hanno perforato il fegato. Quando ti hanno trovato, eri in fin di vita. Mi hanno chiamato d'urgenza per un trapianto parziale, così sono partito per raggiungere Sacramento il prima possibile.»

Domenic fece tanto d'occhi, a quella notizia, e fissò spiacente il fratello.

«Non era esattamente così che intendevo finisse. Pensavo di aver calcolato meglio i potenziali danni di un crollo della struttura.»

«Perché, scusa, li avresti calcolati?» gracchiò il gemello, adombrandosi.

«Per la verità, li avevo calcolati tempo fa, in caso di terremoto. Così, per gioco» ammise Dom, sorridendo contrito.
Cameron lo fissò esasperato e, nel rilasciare il capo contro i cuscini, esalò: «Non ho parole... devi uscire di più, fratello, poco ma sicuro.»

«Visto che siamo entrambi vivi, direi che è andato tutto bene, no?» ironizzò a quel punto Domenic.

«Solo fortuna. Un po' più su, e non avremmo potuto fare nulla, contro un cuore squarciato» lo rabberciò il gemello, senza più alcuna voglia di fare dell'ironia. «Mi hanno tolto solo una porzione minima di fegato e, grazie ai nanobot, si sta ricostruendo a tempo di record. Già da dopodomani potranno toglierti da quei macchinari ma... porco schifo, Dom! Potevi rimetterci la pelle!»

Domenic sospirò, annuendo spiacente.

«Non potevo permettere a Nobu-san di avvicinarsi nuovamente alla nostra famiglia. Ho rischiato di perderti una volta. Non avrei permesso succedesse una seconda. Inoltre, dovevo a Yuki-chan la sua giusta vendetta, anche se il gesto di suo fratello ha vanificato qualsiasi mio intento.»

Il tono di Domenic uscì lapidario dalle sue labbra piegate in una smorfia volitiva, e parte della rabbia del gemello scemò.

«L'ho capito, e ti rispetto. L'avrei fatto anch'io, al posto tuo. Ma ora basta. Basta. Esci da quel programma, da tutto. Rivoglio mio fratello. Non potrai essere che mio. E di mamma e papà, ovvio.» Ci pensò su un attimo, e aggiunse: «E di Yuki-necchan  e Phie, d'accordo. Ma di nessun altro. La CIA se lo può scordare che tu presti ancora il tuo genio per i suoi loschi affari. La tua carriera finisce oggi, è chiaro?!»

Il fratello lo guardò con affetto, non avendo nulla da ridire sul suo discorso.

«E' un ultimatum?»

«Sì.» E Cameron non poté nascondere le lacrime dietro quell'ordine.

«D'accordo, allora. Quando uscirò da qui, andrò da Eriksson e rassegnerò le mie dimissioni. Promesso.»

«E non mi nasconderai più nulla?»

«Promesso» assentì ancora Domenic.

«Allora, posso lasciarti in pasto a mamma con il cuore sereno. Buonanotte» dichiarò Cameron, ghignando al suo indirizzo prima di chiudere gli occhi.

Un attimo dopo, il suo respiro si fece lungo e pesante, pur se Domenic sapeva bene che stava facendo finta.

Storcendo la bocca, borbottò: «Fifone.»

«Previdente» sussurrò a mezza voce il gemello.

 
§§§

Non si era reso conto di essersi addormentato nuovamente.

Era evidente quanto, nonostante l'affabile disamina del fratello, l'operazione fosse stata difficile.

Percepiva senza sforzo l'abile lavorio dei nanobot dentro di lui e, pur se ne conosceva la natura, quella sensazione gli diede fastidio.

Il desiderio di eliminarli dal suo corpo era davvero forte, pur se sapeva che si trovavano lì per uno scopo piuttosto importante.

Sapeva che era stupido – gli stavano salvando la vita – ma sentirli lavorare lo angustiava.

E gli rendeva più chiaro che mai quanto avesse rischiato.

Nella sua testa, tutto era stato chiaro, limpido.

Nobu-san sarebbe stato facile da aggirare, ferito nel profondo com'era.

Sarebbe bastato dargli un unico fulcro contro cui scagliarsi, lui, eliminando dall'equazione Yuki e dandole così la possibilità di agire indisturbata.

Di compiere la sua vendetta senza problemi.

Tutti i suoi calcoli, però, non lo avevano preparato alla bomba con cui si era avvicinato alla casa.

E così aveva dovuto rivedere il suo piano, allontanare fisicamente Yuki da sé, dal pericolo.

Scaricandolo, di fatto, solo sulle sue spalle. E quello era stato il risultato.

Si guardò attorno, la bocca arida e bisognosa di liquidi, quando Yuki fece la sua apparizione sulla porta.

Domenic le sorrise per un attimo, prima di rendersi conto dei segni del dolore sul suo viso.

Storse la bocca, sospirò e, allungando una mano verso di lei, esalò: «Gomennasai. Scusami, Yuki-chan

Gli occhi, rossi di pianto, si strinsero per un istante, come a voler scacciare altre lacrime e, a grandi passi, la ragazza fu da lui.

Afferrò quella mano tesa e la strinse nelle proprie, portandosele al petto.

Di getto, senza prendere fiato, si allungò per baciarlo sulla bocca, premendo con forza, quasi volesse marchiarlo a fuoco.

Quando infine si scostò, la giovane sussurrò roca: «Non mandarmi mai più via. Non accetterò una seconda volta che tu mi allontani da te.»

«Non succederà più... mai più. Ho smesso per sempre di cacciarmi nei guai.»

Yuki lo guardò confusa e lui, pregandola di sedersi, le disse: «Ho promesso a Cam che abbandonerò il mio ruolo all'interno della CIA. Niente più rischi. Ma lo avrei fatto comunque. Per te, per la mia famiglia. Non voglio rischiare che le mie azioni vi mettano in pericolo un’altra volta.»

«Domenic-chan...»

Gli baciò la mano che ancora teneva tra le sue e, pur a fatica, mormorò: «Devi volerlo per te stesso, non per me. So quanto hai sempre tenuto a ciò che facevamo.»

«Altri agiranno al posto mio, Yuki-chan. Io ho dato quasi sette anni della mia vita, all'Intelligence. Penso di aver posto le basi per la creazione di una squadra più che compatta ed efficace. Se la caveranno anche senza di me, ora che hanno Eriksson a guidarli.»

«Senza di noi. Dove vai tu, vado io» replicò allora Yuki, sorridendogli.

«Al momento, vorrei scappare da qui. Sai se mia madre è nelle vicinanze?» ironizzò il giovane, guardandosi intorno con aria da cospiratore.

La ragazza ridacchiò e, nel depositargli un bacio sulla fronte, asserì: «Ancora sotterfugi, Domenic-chan? Non ne hai avuto abbastanza?»

«Questa si chiama sopravvivenza, cara. Tu non hai mai visto mia madre veramente furiosa. Io sì.»

Fissandolo scettica, lei scosse una mano con noncuranza. «Oh, andiamo, tua madre non potrebbe essere terrificante neppure se...»

Un ticchettio di tacchi a spillo li portò a volgere il viso verso la porta e lì, simile a un angelo vendicatore, scorsero la figura imperiosa di Hannah Van Berger.

Yuki fece tanto d'occhi e, come una molla, balzò dalla sedia, fissò spiacente Domenic e mormorò: «Penso che andrò a vedere come sta Cameron-kun. Non ti spiace, vero?»

Domenic la fissò malissimo. «Fifona. Esattamente come mio fratello.»

Ed esattamente come Cameron, Yuki replicò: «Previdente. A dopo, caro.»

Balzellando via, la giovane salutò in fretta Hannah e la donna, dopo averla vista sgattaiolare fuori, chiuse la porta alle sue spalle e si avvicinò al letto del figlio.

Deglutendo a fatica, Domenic si preparò alla sua paternale, ma la donna si limitò ad accomodarsi, prendere una mano tra le sue e domandargli: «Come ti senti, caro?»

«Aaah... malandato. Come se mi avessero calpestato dei bisonti.»

Hannah annuì, emise un sospiro tremulo e infine gli chiese: «Cam mi ha detto che ti ha imposto di mollare tutto. E' vero?»

«Sì, e io ho accettato» le sorrise lui, sperando così di farla felice.

La madre, però, scosse il capo e replicò: «Non desidero che tu lo faccia.»

«Come? Scusa, ma perché? Pensavo che...»

Lei lo interruppe con un'occhiata più che significativa e Domenic, subito, si azzittì.

«Vorrei soltanto che tu facessi ciò che desideri. Certo, se fosse per me, infilerei te e tuo fratello sotto una campana dorata e piena d'ovatta, ma sarebbe stupido. Siete adulti, fate le vostre scelte autonomamente. Tu, lo fai da molto più tempo di quanto noi tutti non pensassimo.»

Sorrise, e gli carezzò una guancia.

A Domenic venne voglia di piangere. Avrebbe dato tutte le sue conoscenze e la sua intelligenza, pur di non rivedere mai più quello sguardo colmo di dolore negli occhi della madre.

«Desidero davvero smettere, mamma. Non solo per Cam, Yuki-chan o voi. Non ho più niente da dare, e i ragazzi che sono nella mia squadra possono continuare senza di me. Inoltre, ci saranno sempre personaggi come me, che desiderano partecipare al progetto messo in piedi dal Dottor Eriksson. Ho dimostrato quello che volevo dimostrare, e ora posso occuparmi di qualcos'altro.»

«Di Yuki-chan, per esempio?» gli sorrise allora la madre, vedendolo arrossire leggermente.

Lui annuì, mormorando: «Voglio prendermi cura di lei, amarla come merita.»

«E sei sicuro che sia lei la persona adatta a te?»

Domenic, allora, sorrise divertito.

«Hai timore che non la conosca a sufficienza?»

«Non vi siete visti spesso, in effetti.»

«Conosco Yuki-chan fin da quando è piccola, e ho conosciuto Sakura in rete, il suo alter ego digitale. Quando lei è entrata a far parte della squadra, l'ho conosciuta anche come collega. Molti dei viaggi in cui mi imbarcavo, non erano di piacere. Mi recavo spesso in Giappone, per parlare con Yuki-chan o gli altri membri giapponesi della squadra. C'erano cose che non si potevano dire neppure per telefono, o tramite web.»

Levando le mani in segno di resa, Hannah allora replicò: «D'accordo, mi vuoi far capire che, quanto hai detto a Ekaterina, non è una storiella per bambini. Lei non sa della vostra partecipazione al progetto della CIA, vero?»

«No, per questo ho omesso alcuni particolari.»

«Come, a quanto pare, li ha omessi tuo fratello riguardo a Phie» ironizzò Hannah, facendolo sorridere.

«Devo aspettarmi rappresaglie, in merito alle nostre bugie?»

«Vedremo...»

«Mamma.»

«Dimmi, tesoro.»

«Scusa, per il cottage. Non è rimasto granché, vero?»

Lei scrollò le spalle, limitandosi a dire: «Lo ricostruiremo. Così come Ekaterina e i suoi figli ricostruiranno la Tashida Group.»

«Ci sono notizie, su quanto sta succedendo?» si informò a quel punto il giovane.

Hannah gli sorrise, si levò per dargli un bacio e mormorò: «Avremo tempo per parlarne a casa. Tutti insieme.»

 
§§§

Una mano poggiata sul braccio del padre, Domenic sorrise nel volgersi a mezzo per scrutare la sagoma longilinea dell'ospedale.

La sua struttura in carbocristallo e leghe metalliche era un autentico capolavoro e, dal punto di vista ingegneristico, era uno spettacolo a vedersi.

Ma ne aveva davvero abbastanza di stare lì dentro.

Era rimasto al suo interno per cinque giorni e, finalmente, gli avevano dato il via libera per andarsene.

Non sarebbe rimasto lì neppure un minuto di più anche se, una volta giunto a casa, si sarebbe divertito a studiarne i progetti strutturali.

In fondo, il lupo perdeva il pelo ma non il vizio.

Ancora un po' malfermo sulle gambe – i lividi pulsavano da impazzire – si avviò verso l'auto ibrida del padre e, nel sorridergli, disse: «Pensavo avremmo fatto un giretto sulla tua nuova Lamborghini a idrogeno.»

Nickolas ghignò, limitandosi a celiare: «Non ne hai avuto abbastanza, di scossoni?»

«Forse.»

Insieme, salirono sull'auto e, quando Domenic si accomodò sui morbidi sedili posteriori, sospirò, lasciandosi cadere su un fianco.

«Bellissimo. Dormirò qui per i prossimi due anni.»

Nickolas scoppiò a ridere a quel commento e mise in moto, immettendosi con calma nel traffico cittadino.

La metropolitana soprelevata, con le sue carrozze a levitazione, sfrecciò sopra di loro, silenziosa e ricolma di gente, mentre le auto si incuneavano sulle strade, simili a formichine operose.

Raggiungere la villa non avrebbe portato via molto tempo, ma Nickolas decise di sfruttarlo al meglio.

«Pensavo a una cosa, ragazzo.»

«Sono tutto orecchi» assentì Domenic, ancora sdraiato sui sedili dell'auto.

Nickolas ghignò, e disse: «Sai, visto che il cottage è andato distrutto, pensavo che potremmo farne costruire un altro, ma da un'altra parte. Hai qualche idea in merito?»

«Non saprei... ci sono un sacco di posti bellissimi dove poter acquistare un po' di terra.»

«Ti andrebbe bene... l'Hokkaido?»

Domenic balzò a sedere, afferrò con entrambe le mani il sedile del padre e, sporgendosi in avanti per guardarlo meglio, gracchiò: «Cos'hai detto?!»

Ora sorridendogli gentilmente, Nick proseguì nel suo dire.

«A tutti noi piace quella zona. Non sarebbe un cattivo investimento ma, soprattutto, permetterebbe a Yuki-chan di vedere più spesso la sua terra, di avere una scusa in più per tornarci.»

«Papà...»

«Fa parte della famiglia, ormai, e per la famiglia farei questo e altro. Inoltre, ha salvato Cameron... e ama te. Mi sembrano motivazioni sufficienti.»

Gli occhi brillanti e un sorriso accecante, Domenic annuì. «Sarebbe un'idea splendida.»

«Meno male, visto che ho già preso casa.»

Dom allora scoppiò a ridere, e Nickolas si unì alla sua ilarità. Gli era mancato quel suono, negli ultimi anni, e ora ne conosceva i motivi.

Era orgoglioso di ciò che il figlio aveva fatto, e costruito, ma vederlo così sereno e felice, era più importante di tutti i risultati egregi del mondo.

Quando infine raggiunsero la villa, trovarono Yuki e Phie ad attenderli nel cortile.

Sophie fu la prima a raggiungere l'auto per abbracciare Domenic.

Lo strinse con forza, dandogli un sonoro bacio sulle labbra prima di dire: «Ora che siete entrambi a casa, mi sento meglio.»

«Anch'io, onestamente» le confessò, dandole un buffetto sul naso con affetto.

Lei rise, si scostò da lui e prese sottobraccio Nickolas per rientrare in casa, lasciando soli Yuki e Dom.

La giapponese guardò per un istante la coppia, prima di dedicare completamente la sua attenzione all'amato.

Lo aveva aspettato paziente, si era detta di poter sopportare che, a portarlo a casa, fosse il padre, ma l'attesa era stata straziante.

Ora era lì, dinanzi a lei, nuovamente saldo sulle gambe. Vivo.

Nonostante fosse passata una settimana dagli eventi che tanto l'avevano sconvolta, non riusciva ancora a dormire senza svegliarsi con i postumi di un incubo.

E, ogni volta, Domenic era morente tra le sue braccia.

Si avvicinò perciò a lui, volendo sincerarsi che fosse veramente lì, e non fosse solo il frutto della sua immaginazione.

Dom la strinse nel suo abbraccio consolatorio e Yuki, con un sospiro, avvolse le sue braccia attorno a lui, mormorando: «Bentornato.»

«Mi sei mancata.»

Lei sorrise, replicando: «Sono venuta tutti i giorni.»

«Non mi bastava» ribatté con un risolino Dom, scrollando indolente le spalle.

«Sicuro che, avendomi tra i piedi tutti i giorni, non finirai con lo stancarti di me?»

«Questo è impossibile» la liquidò lui, guardandosi intorno con espressione assorta.

Una volta individuato ciò che desiderava, sorrise e la prese per mano, dicendole: «Chiudi gli occhi e seguimi.»

La giovane fece quanto dettole e, ridacchiando, lo seguì.

Domenic, facendo molta attenzione a dove metteva i piedi, si avventurò nel giardino dietro la villa e, una volta raggiunto il ciliegio, lo osservò ammirato e si sistemò con lei sotto le sue fronde.

A quel punto, sussurrò all'orecchio di Yuki: «Apri gli occhi.»

Lei obbedì e, aprendosi in un sorriso, esalò: «Si sono schiusi!»

«I miei sakura per te. Come ti avevo detto.»

Cingendogli il collo con le braccia, Yuki lo attirò a sé per un bacio e, sulle sue labbra, mormorò: «Sapevo che avresti mantenuto la promessa.»

Lui le sorrise e, stringendole la vita con le braccia, la tenne così, sotto l'ombra dei sakura sbocciati proprio quella mattina.

«Papà ti ha detto dell'Hokkaido?»

«Me ne ha accennato. Ma è davvero troppo, onestamente.»

«Sei parte della famiglia, ormai. E noi Van Berger ci coccoliamo vicendevolmente» replicò il giovane, sorridendole malizioso.

Sollevando un sopracciglio con ironia, Yuki mormorò: «Ho idea che tu abbia in mente un genere di coccole che nessun altro, a parte te, potrà farmi. O sbaglio?»

«L'ho sempre detto che sei geniale» ridacchiò lui, tornando ad abbracciarla per un momento. «Torniamo dentro, prima che vengano a prelevarci.»

«Sarà meglio, anche perché c'è tutta la tua famiglia...»

«Nostra» sottolineò lui, facendola ridere sommessamente.

«D'accordo. La nostra famiglia riunita, e dovrai passare il loro terzo grado prima di poterti dire sano e salvo.»

«Resisterò. Ho te, qui con me.»

«Ti difenderò io, promesso.»

«Non avevo dubbi, in merito.»

La baciò prima di entrare in casa e, mano nella mano, si lasciarono avvolgere dal calore della loro famiglia finalmente riunita.

Cameron e Phie, seduti stretti l’un l’altra, Beau e Rena, bellissimi accanto alla finestra che dava sul giardino, i nonni, Phill e Bran, assieme al loro figlio Eric.

Domenic sorrise a tutti loro, prima di veder comparire Kyle, Sarah e Keath, di ritorno dalla cucina e ricolmi di vassoi carichi di cibo.

Michael e Cecille sarebbero giunti quello stesso pomeriggio, per festeggiare.

Christoffer e sua moglie Angie, di ritorno da Roma, avrebbero fatto tappa a Los Angeles solo il giorno seguente.

Aaron e Sylvia, invece, sarebbero giunti di lì a breve, dopo essere passati in visita dal padre di lei.

Pavel e Glenn, emergendo a loro volta dalla cucina con le bevande, sorrisero ai due ultimi arrivi e quest’ultima, allungandosi per abbracciare il nipote, mormorò: «Il mio povero cuore ha tremato, tesoro. Vedi di non farmi mai più uno scherzo simile, è chiaro?»

«Promesso, nonna. Sarò più cauto» le sorrise lui, lanciando poi uno sguardo d’insieme a tutta la sua famiglia.

Bryce, Berry e Todd sarebbero rimasti a casa, quel giorno.

L’amico aveva espresso con loro il desiderio di starsene un po’ per conto proprio, godendosi un po’ i genitori.

Domenic lo aveva compreso benissimo, visto quanto avevano dovuto rischiare in quei pochi mesi.

Tutto si era susseguito con un ritmo convulso, niente era parso andare per il verso giusto e, sul finire della loro avventura, avevano rischiato di perdere.

Ma ora erano lì, insieme, sani e salvi.

E…

Ghignando all’indirizzo del fratello, che si stava servendo con tartine ai gamberi e succo di frutta, Dom disse: «Sai, fratellino, pensavo a una cosa…»

Cam levò il viso a scrutarlo, il dubbio ben evidente nei suoi occhi di colomba.

«Ho quasi paura a chiedertelo. Che cosa hai pensato?»

Con fare noncurante, Domenic si andò a sedere su una poltrona, prendendo in grembo Yuki e, sorridendo al gemello, asserì: «Ho idea che tu abbia dimenticato una cosuccia da nulla.»

«E cioè?» esalò Cameron, impallidendo leggeremente.

Yuki, a quel punto, scoppiò in una risatina ilare mentre il resto della famiglia, dubbiosa, li fissò in cerca di spiegazioni.

Levando ironico le sopracciglia, Domenic aggiunse: «Non hai forse dimenticato che domani devi prendere un aereo assieme a zio Bran e Phie per tornare a Tokyo? Tu, ufficialmente, non sei ancora stato trovato.»

«Ehi, no, aspetta!» sbottò Cam, accigliandosi immediatamente. «Sono stato in ospedale con te, fratellone, quindi…»

«… quindi, quello era un ospedale militare, perciò tutto è stato secretato per ovvi motivi. Tu sei ancora disperso.»

«Oh, no, dai! Non è possibile!» sbottò il giovane Van Berger, facendo scoppiare a ridere tutti.

Imperturbabile di fronte all’irritazione del gemello, Dom dichiarò: «Pensi davvero che ti lascerebbero qui, tranquillo e sereno, mentre la CIA sta lavorando per chiudere la cosa nel migliore dei modi… e senza scandali ulteriori

«Sarebbe meglio se la faccenda della polizia collusa saltasse fuori, invece! Perché dovremmo dar loro una mano, scusa?!» brontolò per contro Cameron, accigliandosi.

Scrollando le spalle, Dom replicò: «Il Governo Giapponese farà quanto dovuto per eliminare le mele marce, ma è ancora troppo presto perché il programma Viewscan venga tacciato di inadeguatezza. Il progetto non è ancora terminato, e non vorrai davvero che Yu-chan, Minami-chan e gli altri si interrompano a metà, vero? Avrebbero lavorato per nulla, in tutti questi anni.»

Cameron sbuffò, si levò in piedi e, puntandogli un dito contro, ringhiò: «In cucina, ora! Ho voglia di preparare una torta.»

«Andata» ammiccò Domenic, scostando da sé Yuki e regalandole un sorriso tutto contento.

Cam grugnì, quando il gemello lo affiancò e, sparendo oltre l’angolo del corridoio, la famiglia sentì solo i borbottii di uno e le risatine dell’altro.

Phie, scrollando le spalle, celiò: «E dire che gliel’avevo ricordato proprio ieri, che avremmo dovuto ripartire.»

Sorridendo alla figlia, Beau replicò: «E’ sicuro lasciare quei due in un luogo chiuso e pieno di coltelli? Cam mi sembrava piuttosto irritato da quest’ultima noia.»

Fu Yuki a rispondere e, sorridendo ai genitori di Domenic e Cameron, asserì: «E’ il loro modo di fare pace, di sbollire la rabbia. Non si faranno male.»

Hannah annuì e Nickolas, dando una pacca sul braccio alla giovane, mormorò: «Credo, comunque, che la tua compagnia e quella di Phie sarebbe loro gradita.»

Yuki allora sorrise complice all’amica e, assieme, raggiunsero i due ragazzi, lasciando alle loro spalle il calore benefico della famiglia.

Phie, presala sottobraccio, ammiccò e le domandò: «Pronta a sopportare tutti quei ficcanaso nell’altra stanza?»

«Per Domenic-chan? Come non mai!»

Sophie rise, annuì e, con un gran sorrisone, aprì la porta della cucina e trascinò con sé l’amica.

Sarebbe stato uno spasso, da quel momento in poi.








Note: Siamo ormai alla fine, poiché manca solo l'epilogo a terminare questa storia sui gemelli Van Berger. Spero di aver creato un mondo abbastanza credibile, visto che si tratta del nostro prossimo futuro, e che la lettura sia stata piacevole.
Con questa storia, chiudo la trilogia della famiglia Van Berger e, se mai mi verrà in mente qualcosa, aggiungerò qualche OS nella cartella Honey's World, ma con le storie a puntate ho terminato, per quanto riguarda questi personaggi.
Ringrazio tutti/e coloro che mi hanno seguita fino a qui, hanno pazientato di arrivare al termine di ogni avventura e si sono imbarcati con me in un'altra, sempre nuova.
Ogni commento, ogni domanda è servita a migliorare ogni storia, perciò è anche grazie a voi se queste avventure vengono narrate. Grazie!
E, come sempre, alla prossima!
Mary

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Capitolo 23
*** Epilogo ***


Epilogo
 
 
 
 

«Di tutte le cose strambe che potevate inventarvi, questa le batte tutte, lo ammetto» celiò Domenic, guardando dabbasso, dove si poteva intravedere la fitta vegetazione boschiva dell’Hokkaido.

Erano a circa tremilacinquecento metri di altezza, su un biplano affittato proprio per poter sorvolare la zona.

E per lanciarsi col paracadute.

Non che la zona lo permettesse, visti i fitti boschi e le stradine montane sparse come come capelli tra la vegetazione, ma tant’era.

Quando, una cosa simile, avrebbe fermato un Van Berger?

Sophie e Yuki ridacchiarono, mentre Cameron dava una pacca sulla spalla al fratello.

«Ti pareva possibile che noi potessimo fare qualcosa di normale

«Sciocco io ad averlo pensato» ammise Dom, scuotendo il capo per l’esasperazione.

«Ecco, bravo. Dillo che anche tu, ogni tanto, sbagli.»

Dom ghignò all'indirizzo del fratello e, nel sistemargli il colletto della tuta, replicò serafico: «Solo perché penso sempre che, prima o poi, uno di voi ritroverà la sanità mentale.»

«Ammetti che ti stai divertendo anche tu, e piantala di fare il noioso» replicò Cam, imitando le movenze del gemello.

Yuki, strizzando l'occhio a Phie, esalò: «Ma fanno sempre così?»

«Se così non fosse, probabilmente Cameron si sarebbe già schiantato contro una montagna. Dom deve dargli una regolata, ogni tanto, sennò Cam perde il senso della misura.»

«Grazie, tesoro, sempre molto gentile» borbottò il diretto interessato, fissandola di straforo mentre il pilota virava per portarli in posizione di lancio.

«Beh, io vi lascio ai vostri battibecchi. A dopo!» li sorprese tutti Domenic, lanciandosi per primo.

«Ehi!» esclamò Yuki, buttandosi subito dietro a lui.

Sghignazzando, Cam puntò i pugni contro i fianchi e dichiarò: «Lo sapevo che l'idea gli era piaciuta fin dall'inizio.»

«Siete gemelli. Che ti aspettavi?» ironizzò Phie, afferrandolo a una mano per attirarlo verso il portellone ancora aperto.

«Pronta per il grande passo?»

«Sì» disse soltanto Sophie, attirandolo con sé nel vuoto.

Cameron gridò estasiato mentre, sotto di lui, la terra si avvicinava sempre più velocemente.

Phie si staccò per maggiore sicurezza mentre, sotto di loro, Domenic e Yuki aprivano i loro paracadute.

Con il vento sulla faccia e l'aria fresca e umida che lo circondava come un mantello, Cameron gridò il suo amore a Phie prima di aprire, a sua volta, il paracadute.

Lei lo imitò un attimo dopo mentre, sotto di loro, iniziavano a prendere forma le sagome di diversi gazebo bianchi, sistemati nel bel mezzo dell’enorme giardino della villa sotto di loro.

Quando Nickolas li aveva condotti lì, la prima volta, per Domenic e Cameron era stato chiaro tutto, immediatamente.

La loro proposta era giunta per diretta conseguenza, e né Phie né Yuki si erano tirate di indietro, di fronte a quella sfida degna di loro.

Sorridendo, Sophie ammirò ancora un momento le linee slanciate e ricurve dei tetti grigi, le scalinate coperte da lunghe tettoie, il bel giardino in stile retrò.

Nulla era stato lasciato al caso, nel creare quella villa in stile giapponese, ma dai confort del tutto attuali.

Come una pista di atterraggio per elicotteri, poco distante dal laghetto dove diverse carpe koi1 stavano nuotando placide, e del tutto ignare di quello che stava succedendo sopra le loro teste.

Scrutando la pista – e sperando di non sbagliare mira – Phie gridò con allegria e aspettativa e tirò le corde del suo paracadute.

Sotto di lei, a una ventina di metri di distanza, Cam stava atterrando. Dom e Yuki avevano già raccolto i propri paracadute e li stavano attendendo ai lati della pista.

Presto sarebbero stati da loro.

Beh, da loro…  e da tutti gli altri invitati all’evento.

Con un ultimo strattone alle corde, Phie toccò infine terra, mentre la tela del paracadute si sgonfiava, accompagnata dal battere di mani dei presenti.

Tutto era andato come previsto, niente era andato storto.

E, in tutta onestà, un po' di quiete dopo quei lunghi mesi di concitato nervosismo, se l’erano anche meritata.

Il processo a Noboru Tashida e Jason Tyler aveva scatenato l'opinione pubblica e, per mesi, Cameron e tutta la sua famiglia erano stati impegnati con avvocati e tribunali.

Molto di ciò che la CIA sapeva era stato secretato, così come il coinvolgimento effettivo di tutti loro.

La Tashida Group aveva subito un tracollo, e molte affiliate erano state vendute per coprire i costi esorbitanti derivanti dal processo.

Nonostante tutto, però, Ekaterina e i suoi figli avevano tenuto duro e, con il sostegno della stessa V.B. 3000, si era evitato il fallimento.

Era passato più di un anno, da quando Cameron e Domenic erano stati dimessi dall’ospedale, e Dom aveva lasciato la CIA assieme a Yuki.

Phie sorrise al suo fratellone, scacciando per l’ennesima volta il terrore che aveva provato al pensiero di perderlo e, nel prendere la mano di Cam, si avviò verso i padiglioni.

Ora, tutto poteva dirsi concluso, chiuso per sempre alle loro spalle.

Nessuno avrebbe più tentato di far loro del male e, da quel momento in poi, solo loro sarebbero stati i fautori del destino che li attendeva.

Sorridendo lieta quando Cam si scostò da lei per abbracciare il fratello, Phie si avvicinò a Yuki per prenderla sottobraccio.

Chi poteva contare su una sorella come lei? Ben poche persone, da dir la verità.

Nel frattempo, un po' sorpreso da quel gesto impulsivo, Domenic restituì l'abbraccio del gemello e mormorò: «Ehi, fratellino, tutto bene?»

«Sì, va tutto meravigliosamente bene.»

Nickolas, da uno dei gazebo, fece loro segno di sbrigarsi e, ridente, esclamò: «Ragazzi, non vorrete arrivare in ritardo proprio oggi, spero?!»

Strizzando l'occhio al gemello, Dom celiò: «E far aspettare tutti? Neanche per idea. Tu che dici?»

«Che non mi passa neanche per l'anticamera del cervello. A chi arriva primo?»

«Ci sto.»

Ridendo, i due gemelli iniziarono a correre il camminamento in pietra, identici sorrisi a illuminare i loro volti, come identica la missione che si erano prefissati per quel giorno.

Sposare le loro anime gemelle.

Nessuno li avrebbe fermati, nessuno si sarebbe più messo dinanzi a loro, nessuno avrebbe tentato di ostacolare il loro amore.

Il loro momento era infine giunto.

 






Note: Qui si conclude ogni cosa. Spero che la scelta di dare un taglio leggermente spionistico a questa avventura vi sia piaciuto. Volevo variare un po' sul tema, visti i precedenti due racconti su Hannah e Rena. Come preannunciato, non mi dedicherò ad altre avventure a lungo termine, sulla famiglia Van Berger ma, occasionalmente, se l'ispirazione o i vostri consigli me lo permetteranno, aggiungerò qualche OS alla cartella di 'Honey's World'
Ora mi dedicherò completamente alla serie sui fratelli mac Lir, di cui sto raccontando le gesta nella raccolta 'Saga dei Fomoriani'. Per chi non la stesse seguendo, e fosse incuriosito, può iniziare con 'The Story of a Dolphin', che è la prima storia di questa nuova tetralogia.
Cosa dirvi, ora, se non grazie, e ancora grazie? E' per merito vostro se questi racconti prendono forma e vita, perciò è giusto tributarvi il giusto ringraziamento.

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