L'agonia della Luce.

di Makil_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo - Racconti ormai perduti ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo - Avvertimenti sconosciuti. ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo - L'assedio. ***



Capitolo 1
*** Capitolo Primo - Racconti ormai perduti ***



Sulla collina di una valle delle montagne grigie a Selvor, al terminare del lungo e lucente fiume Aranel, s’innalzava, nel pieno del suo enorme splendore, Darlas la città del vento. Il regno parzialmente costruito in legno si divideva in ben quattro differenti livelli, ciascuno dei quali situato ad altezze ben precise. Il primo piano della città ospitava esclusivamente la grande recinzione muraria, edificata in legno e pietra. Sul bastione che s’affacciava sul vasto campo irrigato dall’Aranel s’apriva, incluso tra due enormi torrioni dal tetto in legno, un arco che chiuso da due pilastri formava il portone; unica via d’accesso alla cittadella. Maestoso ed imponente delimitava il regno ben protetto dal resto della regione, e sul dorso aveva impresso lo stemma della città; uno scudo circondato da fiamme e frecce, dipinto in rosso sgargiante. La cinta muraria si slanciava fin oltre il secondo livello e, di tanto in tanto, era sormontata da torri di guardia e pontili traballanti. Il secondo ed il terzo piano di Darlas erano coperti per lo più dalle abitazioni dei cittadini che avevano quasi sempre un tetto in paglia e pareti in granito. Nell’ultimo livello, non per nulla di minor importanza, erano situati i luoghi più celebri della città. Il Palazzo d’oro del Re, che veniva tramandato di padre in figlio, era la dimora del sovrano, la base delle guardie, la sede del Consiglio Reale, e la casa di moltissime altre mansioni. Il portone del magnifco Palazzo s’apriva sulla piazza principale e di fronte la statua del primo Re di Darlas – nonché fondatore della città stessa – Galioph il Salvatore. Tutt’intorno il quarto livello era inghirlandato da altre mura interne, precedute da innumerevoli viali che conducevano al secondo portone, in ferro battuto, di fianco all’entrata della piazza. In diagonale e lateralmente alla statua del fondatore, una torre più alta delle altre, con finestre e portone, era l’abitazione del telanor protettore di Darlas; la torre smeraldo, il cui colore variava nel tempo in base a chi vi risiedeva. Tutti i livelli erano raggiungibili attraverso lucide scale in marmo che ruotavano attorno alla città. I Polfinger, una casata di antiche origini, vivevano a Darlas da molto tempo. Isaac Polfinger risiedeva, in tempi abbastanza remoti, nell’antica cittadella ormai distrutta di Veranis. Il ventiduesimo anno del quarto eplogo, una burrascosa tempesta si abbatté sulla città, ma l’uomo e sua moglie resistettero al disastro mentre la loro casa, e quella di molti altri, venivano rase al suolo. Il giorno seguente Isaac non si lasciò prendere dallo sconforto e, appoggiato dal supporto conferitogli dalla moglie Camlie, chiese asilo alla città di Nendir dove riuscì ad addentrarsi attraverso la conoscenza di un amico che occupava il ruolo di guardia del Re. Infatti era impossibile oltrepassare il confine del regno di Nendir, perché il sovrano Fentos richiedeva un comune ed atroce pedaggio che consisteva nel taglio di una parte di lingua. I coniugi sfuggirono, quindi, alla tirannia del Re Pazzo che in quel tempo aleggiava in Nendir. Ma l’era della gloria non era ancora giunta. Alla morte della buona vecchia guardia, amico dei Polfinger che li aveva fatti entrare di soppiatto, infatti, Isaac e Camlie vennero cacciati via dal regno di Fentos e feriti gravemente durante la carica alla loro abitazione. Nel viaggio di ricerca di un luogo in cui poter vivere tranquilli gli anni di vita che gli restavano, s’imbatterono in qualcosa di migliore; un vecchio uomo di nome Galioph che, con il valoroso ausilio offertogli dai giganti, aveva intenzione di creare una fortezza per quelli che, come loro, avevano smarrito ogni speranza. La città prese il nome di Darlas – suggerito da uno dei giganti che terminò la fortezza – e venne presidiata da Re Galioph il Buono. Isaac e Camlie concepirono, nel frattempo, un figlio e lo chiamarono Damien. Egli condusse il cognome della sua stirpe fin oltre il quinto eplogo. L’uomo e la moglie Fàmir ebbero ben tre figli; Pletino, Wally e Jorin. Il primo, raggiunta una veneranda età, lasciò il continente di Anvea per raggiungere, nel sesto eplogo, le terre perdute di Fàzira, dove sposò una mutapelle. Wally fuggì via da Darlas, nel quinto eplogo stesso, in cerca di un regno migliore in cui abitare. Per quanto riguarda l’ultimo dei tre, Jorin, egli rimase sempre fedele alla sua terra; Darlas, ed anche dopo la morte del padre continuò a vivere nel regno. Successivamente Jorin sposò Iranis Melin e morì qualche mese prima della nascita del figlio, Oswald - nel sesto eplogo – lasciando la casa e la vita del piccolo fanciullo nelle mani della moglie. Erano passati esattamente sedici anni da quando Oswald era nato. Alla città erano state apportate poche modifiche durante il corso del tempo, ma questa aveva continuato a crescere sia fuori che dentro di sé.

« Oswald! » lo accolse la madre Iranis mentre che il ragazzo chiudeva la porta alla sue spalle «Dove sei stato? » La donna balzò dalla poltrona e corse in direzione del figlio. Iranis aveva una pelle molto chiara e curata, i capelli castani attraversati da sfumature di grigio, ed occhi chiari inseriti in un volto ossuto e rovinato dalla maternità, ma straordinariamente bello. Ella era una donna austera ed ambiziosa, giusta e d’onore; molto protettiva e che spesso preferiva seguire il suo cuore piuttosto che la sua testa. In quel momento indossava un lungo abito nero attraversato da una linea verticale di porpora all’altezza del petto e sul quale s’intrecciavano parecchi lacci.
« Madre, sono stato trattenuto in piazza » iniziò Oswald tutto d’un fiato; non voleva rivelare ogni particolare « Ma ero con il figlio di Palgolin! Alais … lo conosci! »
« Quel buon ragazzo di cui mi hai tanto parlato? » chiese Iranis.
« Esattamente » confermò lui « E con noi c’erano anche i due figli di Javanne e suo nipote »
« E cosa facevate tutti in piazza? » troncò la madre inarcando le sopracciglia.
Oswald avrebbe preferito non sentire quella domanda, non voleva dire nulla in riguardo. Poi sbuffò e mormorò lentamente:
« Vintarige, quel buono a nulla, vuole far demolire la statua di Galioph » spiegò Oswald.
« Demolire la statua del buon Galioph? » esclamò lei « E per quale arcano motivo? »
« Non ne ho proprio idea … pensa di essere tante volte più importante del Fondatore » precisò « Quanta arroganza per un così piccolo ometto, lo spedirei dritto fuori dalle mura! Ma non dimentichiamo che lui ci governa e sarebbe meglio evitare di metterselo contro » enunciò deciso e svelto Oswald.
« Avere una corona in testa e sedere su un trono non significa governare » urlò lei « e Vintarige non è un Re, soltanto uno stolto che cerca di impadronirsi della vita dei suoi cittadini »
« Già, proprio così … »
« Ma puoi starne certo, Oswald, questo fannullone non ha lunga vita nel nostro regno; prima o poi qualcuno gli si rivolterà contro con delle buone, buonissime, maniere! »
« Ah sì! Speriamo tanto! » biasimò Oswald che cercava di mettere un punto all’argomento e desiderava, nel contempo, non aver mai detto nulla della statua. Era quasi mezzodì e lo stomaco di Oswald iniziò a brontolare dalla fame.
« … e se qualcuno non lo farà, allora questa statua non durerà molto. Te lo assicuro Oswald, nessuno nel regno riesce più a sostenere le sue idee. E’ diventato più arrogante di quanto lo era da bambino. Temo proprio che il potere gli abbia stravolto l’esistenza, ricordo ancora quando costringeva le persone a baciargli i piedi doloranti e sudati … il fanciullo esigente lo osavano chiamare. Che nome ridicolo, quasi fin troppo per uno come lui! »
« Lo capisco, madre, ne sono a conoscenza ». Poi stentò qualche minuto « Quando si pranza, madre? »

La domanda si rivelò subito un diversivo; la madre adesso parlava di altro.
« Questa mattina mi hanno portato alcuni polli dalla fattoria di Gregor, ho intenzione di cucinare un buon brodo con questi » illustrò indicando i pennuti stecchiti sul davanzale della finestra.
« Magnifico! » esclamò Oswald con la pancia che iniziava a brontolare sempre più « Mi ci voleva proprio! »
Iranis sorrise. Oswald era ancora accigliato sull’uscio della porta d’ingresso, la casacca sporca tra le mani. Attaccò il fardello sulla trave ed entrò in cucina. Subito venne irradiato dalla luce del sole che penetrava nella sala da pranzo attraverso la finestra aperta sul viale. Il suo sporco volto esile s’illuminò, così come la sua lucente zazzera color biondo scuro. Egli era slanciato e magro, con un naso abbastanza paffuto impresso sul volto e gli occhi grigi. Era nobile, più di qualsiasi altro ragazzo, ed era un ottimo pescatore. Tutte queste virtù lo portavano ad essere apprezzato anche dagli adulti; per i quali nutriva profondo rispetto. Casa Polfinger era sempre molto ordinata, sistemata e pulita. L’abitazione, come tutte le altre a Darlas, era costruita in legno e questo rendeva l’ambiente ancor più caloroso. Il salotto e la sala da pranzo erano un tutt’uno, ed era presente una sola porta che conduceva alla camera da letto. La camera di Oswald era situata in una piccola anticamera quadrata e stretta, situata a breve distanza dal salotto e subito alla destra del tavolo. Iranis stava cuocendo il brodo di fronte ad Oswald che, seduto sulla sedia, attendeva con impazienza e tirava sguardi fugaci fuori dalla finestra; nel viale su cui s’affacciava la casa. Contemplava con ammirazione gli uccelli che volteggiavano nel cielo e che, cinguettando, animavano lo splendore della calda atmosfera a Darlas. Ma il suo sguardo perse d’un tratto lo stupore per la scena; le sue orecchie avevano avvertito qualcosa di meglio a cui badare … qualcosa di maggiormente interessante.
« … certo cara bambina! Con un bel gruzzolo di monete posso adempiere ogni tuo più profondo desiderio! » esclamò una voce rauca.
« E puoi anche parlare con chi non è più sulla terra? » chiese una voce che aveva lo stesso timbro del cigolio degli uccelli che, poco prima, stava osservando. Oswald spinse il suo viso fuori dalla finestra per osservare meglio. Di fronte al viale si trovava una bancarella con il tetto di tela, scuro, rattoppato e in alcuni punti strappato. Dentro il capanno si trovava un uomo del quale si scorgeva soltanto il brutto volto che, imbrunito e lacero, gi forniva un’aria poco sana e affidabile. La fronte, su cui posavano capelli arruffati coloro oro, era sporgente e deforme ed il suo naso appiattito e piccolo. Una folla esterrefatta, per lo più formata solamente da bambini e ragazzini, ammirava la scena.
« Vorrei tanto poter sentire ancora una volta la voce della mia dolce nonna... » suggerì la bambina con voce sottile ed acuta.
« Certo! » urlò l’uomo con la solita voce debole « Dammi solo qualche moneta e riuscirò a metterti in contatto con lei »
La bambina allungò la mano e posò sul banco quattro monete luccicanti. L’uomo sembrò aguzzare la vista, guardare il denaro che la bambina aveva poggiato e fare una smorfia. La tranquillità ora invadeva la strada, tutti osservavano insospettiti l’uomo sotto il tendone che, con gli occhi chiusi, restava immobile e silenzioso. Anche Oswald era stranito. Poi, ad un certo punto, l’uomo sbaragliò gli occhi e li spalancò come le finestra di una casa aperte per permettere il passaggio dell’aria fresca. Poi la voce dell’uomo sembrò diversa quando parlò:
« Bambina mia! » urlava con voce possente gonfiando il petto ed allungando la testa storpia verso la fanciulla « Sono la nonna! Parla con me! »
« Nonna! Da quanto tempo, come stai? » domandò la bambina con gli occhi lucidi.
Ma sopravvenne ancora una volta il silenzio e l’uomo calò le palpebre.
« Nonna … nonna … nonna … rispondimi ti prego …» mormorò la bambina, poi cambiò « Signore … mi scusi signore … »
La brutta faccia dell’uomo si avvicina sempre più alla quella della bambina, mantenendo però lo sguardo serrato; d’un tratto, ormai arrivato vicino al suo naso adunco, li spalancò e la bambina balzò dallo spavento urlando come se non ci fosse un domani.
« La tua nonnina desidera un altro paio di monete, dolce bambina » disse l’ometto con il tono di voce straziato e sottile, come se stesse ripetendo quella frase da ore ma nessuno lo aveva capito. Ma la bambina non lo ascolta più, fuggiva e girovagava in corsa lungo il viale schiamazzando come una vecchia gallinaccia intorpidita. « Oh, che bambocciona! » esclamò lui « Chi vuole vedere le mie doti di drago? Sì miei cari spettatori! Io emano fuoco dall’interno » disse mettendosi dritto e colpendo il suo petto con un pugno.
Una miriade di bambini si scombussolò ed iniziò ad urlare all’unisono. Nella confusione Oswald comprese chiaramente le intenzioni dell’uomo che stava architettando il progetto per riuscire ad emanare fuoco. Infatti, lo vide tirar fuori dal banchetto un fiammifero che, acceso, posizionò sotto il banchetto stringendolo con la mano sinistra. « Bambini, mettete le vostre monete qui! » suggerì poi indicando il piatto di ceramica alla sua sinistra. Tutti obbedirono come se comandati da una forza sconosciuta, ed il piattino ben presto risultò essere stracolmo di monetine.
« Bene, osservate! » urlò rendendo la sua voce robusta e grossolana; poi soffiò il fiammifero – che nessuno aveva notato – e sembrò che zampillasse di fuoco e fiamme dalla bocca. Tutti applaudirono ancor più meravigliati di prima.
« Come ci sei riuscito? » urlano un gruppetto di ragazzini di fronte al banchetto.
« Ahh, tutto merito delle mie prestazioni! Dentro sono per metà drago … cari miei! »
La folla spalancò gli occhi come se avesse visto un morto camminare e urlò dallo stupore.
« Bene, per oggi lo spettacolo finisce qui! » annunciò con continuo tono teatrale che non gli si addiceva per nulla « Ci rivediamo domani, stessa ora, stesso luogo … diverse magie e nuove, splendenti, monete! »
« Oh, Vergar Lewin, io non ne sarei così convinto! » sibilò una voce alla sue spalle, proveniente da un uomo che scendeva lentamente la scalinata « Piccolo furfante! » Oswald riconobbe subito la figura coperta dal bianco mantello e la rossa veste. Era Liffàr, il telanor di Darlas, dominatore dell’aria. Avanzava deciso verso il banchetto, i grigi capelli trasandati sventolanti sul capo e la folta barba nera sul volto. Il resto del viso era coperto da rigogliose sopracciglia che gli attribuivano un aspetto di indiscutibile severità. Ma Oswald lo sapeva benissimo che era tutto il contrario, quanto il suo animo fosse d’oro e buono; egli si batteva per il bene comune – anche senza ricorrere ai poteri da telanor in eventuali casi – e quanto fosse amato lungo tutti i vicoli di Darlas.
« Oh … emh … Liffàr caro vecchio amico mio, vuoi qualche moneta anche tu? » esclamò l’uomo seduto ancora al banchetto, ma sudato e terrorizzato « Prendi pure; non esitare! » continuò con un falso sorrisetto stampato sul sudicio viso inutilmente contorto.
« Ti avevo già informato giorni fa, ti avevo avvertito Vergar! Non dovevi continuare a rubare! » precisò allarmato il telanor.
« Rubare!? » ripeté lui esilarato « Vergar Lewin non ruba! »
« Convincimi a credere che ti siano cadute dal cielo allora! » ribatté Liffàr.
« Non farneticare! Io … me li hanno regalati loro. ‘Sta mattina un mucchio di ragazzini è giunto qui alla buon ora e mi ha detto di prenderle tutte, io non volevo … ma hanno insistito! » piagnucolò Vergar.
« Bene, allora li riporterò a chi di proprietà, ne sarai felice suppongo» disse Liffàr.
« NO! » urlò l’ometto « No, per favore! »
Frignava come un bambino e ad Oswald scappò una fragorosa risata.
« Vergar Lewin, non insistere ubriacone! » gridò Liffàr.
« Comportati da misericordioso, amico! » insistette ancora Vergar.
« Il tuo è furto Vergar, ed io non lo tollererò un’altra volta! » sbraitò Liffàr. Poi afferrò la moltitudine di monete con le mani, facendone cadere anche qualcuna per terra.
« NO! » urlò ancora Vergar «Tu non puoi privarmi dei miei guadagni»
« Smettila Vergar … » mormorò scocciato il telanor.
« No! » gli gridò ancora l’ometto.
« Non provocarmi! »
Allora vi fu un trambusto, il capanno crollò per terra spinto dalla forza bruta di Vergar che scese, nel contempo, dallo sgabello. Oswald non aveva mai visto il furfante, era deforme, con gambe corte , occhi storti, aveva un passo goffo ed era quasi gobbo. A differenza degli altri cittadini, e di Liffàr stesso, era molto basso. Corse, poi, sopra il suo stesso capanno in legno ed avanzò in direzione del telanor roteando le mani per colpirlo con i suoi pugni fermi.

« Ora ti ricorderai di Vergar Lewin come Vergar pugnidiferro! »
Oswald riconobbe con riluttanza che se Vergar avesse comunque raggiunto Liffàr e gli avesse sferrato un destro, sarebbe arrivato a malapena a colpire la pancia dell’uomo. Ma Liffàr non si fece attaccare, cercò di sfuggirgli girando in tondo con l’ometto alle calcagna che continuava a barcollare scalciando ed urlando. « Vecchio sbruffone! Fermati qui! »
Oswald era molto divertito, si era quasi dimenticato di avere fame e rideva come non mai. Ma per sua gioia, quando Vergar fu abbastanza vicino a Liffàr, questi sferzò l’aria con la mano e, gettando un’ ondata d’aria, lo scaraventò contro il muro.
« Siate maledetto Liffàr, padrone dell’aria; signore dei cieli … io vi maledico! » borbottava Vergar con le mani tra i capelli per massaggiare il capo. Oswald notò spavento nel suo tono, e constatò che aveva cambiato modo di rivolgersi al telanor.
« Non sono né il padrone né il signore di nulla » ribatté Liffàr che era un uomo molto umile « E poi, sicuro che non ti serva del denaro per maledirmi, folletto? » Oswald capì solo dopo, avendo sentito la frase di Liffàr, che Vergar era un folletto. La statura che possedeva era simbolo dell’appartenenza a quella razza; i folletti, poco diversi dagli uomini nei lineamenti e nella conformazione fisica, ma tanto diversi in altezza. Liffàr voltò l’angolo lasciando Vergar steso al suolo, immerso in una delle sue strazianti grida.
Oswald pensò all’istante che forse era meglio entrare, ma prima che ebbe messo in pratica la sua riflessione si sentì sgridare.
« Razza d’idiota! Cosa guardi!? Non hai nulla di meglio da fare? »
Vergar lo fissava rabbioso ed Oswald non rispose, non voleva infastidirlo ancora.
« Vuoi per caso assaggiare la mia furia? » continuò lui ancora steso per terra.
« No, oh, mi perdoni signore … non volevo turbarla! »
Poi chiuse in fretta la finestra, pressandola con forza sulla parete. Quando si voltò avvertì all’istante l’odore del brodo di pollo che aleggiava tutt’intorno alla sala da pranzo e che la madre stava preparando con minuziosa cura.
« Cos’è successo là fuori, Oswald? » domandò incuriosita dalle urla la madre.
« Oh » rise Oswald « Un folletto di nome Vergar si è appena scontrato con il vecchio Liffàr »
« Fortunatamente abbiamo sempre Liffàr … » bisbigliò Iranis.
« Già, chissà come faremo quando lui non ci sarà più! » disse Oswald.
« In quel caso avremo qualcun altro e nel frattempo eviteremo di farcelo scappare! » sorrise la madre.

Il pomeriggio non tardò ad arrivare quel giorno, Oswald era stanco ed annichilito e così decise di andare a riposare per qualche ora. Iranis, nel frattempo, stava leggendo un antico manuale dal titolo “La scoperta di Zàfira” seduta sulla poltrona della sala da pranzo. Non passò molto tempo nella serena e pacata tranquillità, Oswald, che venne disturbato dal rumore della porta di casa che qualcuno, dall’esterno, s’apprestava a picchiettare con il pugno.

« Oswald apri! » annunciò la voce da dietro la porta « Sono Alais! »
Oswald percorse correndo la sala da pranzo e con un gesto netto tirò a sé la porta e l’aprì.
« Oh Alais! » iniziò Oswlad.
« Ciao Oswald » mormorò lui.
Alais aveva un volto allungato, carnagione chiara, bocca sottile e capelli castani e corti. Era snello e prominente; di grande prestanza fisica, buono e finanche socievole.
« Come mai qui? » chiese Oswald insospettito.
« Volevo andare un po’ al fiume per passare del tempo pescando qualcosa … » iniziò Alais « Pensi di potermi seguire? »
Oswald si prese un attimo per poter riflettere, poi annuì.
« Bene, allora ti attendo qui! » disse Alais entusiasta.
« Siamo soltanto io e te? » domandò Oswald.
« Sì »
« Perché non vai a chiamare Imelda e Dalan? Anche a loro potrebbe fare piacere … » propose Oswald.
« Certo; perché non ci avevo pensato prima? » si domandò per conto suo Alais.
« Ma non ci hai pensato neanche adesso … te l’ho suggerito io! »
« E’ vero! »
Entrambi scoppiarono in una lieta risata.
« Allora vado, ci vediamo dopo al portone » lo salutò Alais, poi si congedò correndo lungo il viale e voltando l’angolo. Oswald richiuse la porta ed entrò in casa.

« Madre, io vado al fiume con Alais! » annunciò Oswald alla madre che era ancora immersa in una profonda lettura.
« Va bene, ma vedi di tornare prima di cena … »
« Certo! »
Poi afferrò la canna da pesca poggiata di fianco alla credenza e colse al volo la casacca ancora fradicia e sporca. La strada era semi deserta, il sole illuminava e riscaldava il viale; splendente e remoto nell’alto candido cielo. Oswald corse lungo la stradina e svoltò a destra, poi scese la lunga scala che si snodava lungo tutto il perimetro di Darlas, e nel camminare lungo la scalinata scorse Vergar, del tutto innocuo e del tutto tranquillo, intento a fischiettare libero come un usignolo. Quando arrivò al bastione principale s’avvicinò al piccolo casale del guardiano proprio accanto al portone principale della cittadella. Zacharias, il guardiano, era un uomo anziano e lugubre, con lunghi capelli marroni ed una molto corta sul volto ossuto, su cui splendevano due occhi neri situati in un lobo incavato. « Buondì, dovrei passare! » spiegò Oswald al vecchio guardiano.
« Sicuramente giovane, non tardare però, oggi serriamo prima di notte » illustrò Zacharias.
« Non lo farò; può starne certo! »
Zacharias allora tirò una lunga leva e mise in funzione una serie di cigolanti ingranaggi che, in continuo movimento, aprirono il portone principale.
« Oswald! » urlò una voce alle sue spalle che infranse il rumore ancora profondo degli ingranaggi in metallo. In effetti Oswald si era perfettamente dimenticato di Alais, che correva verso la sua direzione.
« Alais! » sbraitò Oswald « Pensavo fossi già arrivato al fiume! »
« Eh no, ti avevo detto di attendermi qui! » disse lui.
« Ma Imelda e Dalan? » domandò Oswald mentre oltrepassavano il portone ed uscivano da Darlas.
« Non c’è nessuno in casa loro … »
« Oh capisco … andremo da soli allora »
Quando i due amici giunsero al fiume si sedettero per terra e insieme iniziarono a pescare, immersi comunque in un continuo e lungo chiacchierio. Le acque gelide dell’Aranel erano attraversate da una luce sfavillante che il fiume, come fosse una sfera di cristallo, rifletteva.
« … e poi lui si alzò e cercò di sferrare qualche pugno, si divincolarono a vicenda ma Ziffàr fu scaltro e lo schiantò a muro … » si sbellicò dalle risate Oswald raccontando di Vergar all’amico.
« Sì, è così quel folletto … un po’ strano effettivamente; mi costa ammetterlo » dichiarò Alais che stava tirando nuovamente l’amo in acqua.
« Anzi, lo è proprio » riprese « Vergar è un uomo dotato di un’intelligenza e di una perspicacia molto acute, l’ho notato l’altra sera, è abile ed astuto … tutti i suoi piani di furto colpiscono il segno! E comunque, sono capacità straordinarie per lui che è un folletto »
« Ah davvero? » chiese Oswald « E’ strepitoso! »
« Sì, l’ho visto accigliato sul tetto di una casa con un bel paio di monete d’oro tra le mani; dovevi vederlo … camminava nei tetti ed agile come un gatto era! » spiegò Alais che aveva appena preso tra le mani un grosso pesce e lo infilava nel cesto in vimini alle sue spalle. Oswald parve concentrarsi poco sulla pesca; non riusciva ad agguantare neanche un misero stivale.
« Ma ci sono altri come lui ad Anvea? Voglio dire … altri folletti? » chiese curioso Oswald all’amico.
« Oh sì, qualcuno sì, come Vergar! Ma sono estranei a questo tipo di territorio; dei veri e propri viandanti. Migrano qui in cerca di cibo e monete, suppongo, ma vivono in famiglie sotto la protezione di Sir Deniavor nella sua grande dimora – la fortezza del Giorno Splendente – lontano oltre il mare nell’isolotto Primavera » « Ma allora godono di ogni minima indispensabile cosa, non è così? » domandò senza riflettere Oswald « Perché mai dovrebbero voler trasferirsi qui? » « Gran bella domanda Oswald, me lo ha spiegato mio nonno … dice che loro desiderano più di ogni cosa essere indipendenti, sono leggermente arroganti e presuntuosi!» spiegò Alais inserendo un altro pesce nel cesto « Forse proprio perché vorrebbero dimostrarsi più esperti ed abili di noi uomini; da cui, ammettiamolo, sono poco tollerati »
« E’ vero » concordò Oswald che finalmente aveva afferrato un pesce e lo stava mettendo nel cesto.
« Io li ammiro personalmente » concluse esaustivo Alais.
« Anch’io penso di ammirarli in fondo … molto in fondo! » precisò Oswald scattando in un’immensa risata con l’amico. Oswald riteneva Alais una guida, forse perché aveva qualche anno in più di lui e sapeva rispondere ad ogni sua domanda e far trasparire dettagliatamente ogni suo dubbio ed ascoltarlo. Il sole tramontò in fretta quel magnifico pomeriggio, ed Oswald alzò gli occhi per osservare il cielo splendente sopra i loro capi. Ecco che questo sembrava, all’istante, aver perso lucentezza e pareva solcato da grossi e grandi nuvoloni neri che ne oscuravano il suo colore.
« Alais, proporrei di tornare … finiremo per inzupparci dalla testa ai piedi »

« Sì, hai ragione, torniamo al regno » rispose Alais che stava guardando oltre le Montagne Grigie, a ovest. I due allora afferrarono i loro oggetti; canne da pesca, cesti e casacche.
« Il pesce te lo porto dopo io! » illustrò Alais che sembrava aver fretta di andare a rifugiarsi dentro le mura di Darlas, e che, ovviamente, temeva di non aver tempo per dividere il pescato in modo equo.
« Va bene! » sbraitò Oswald.
Poi entrambi udirono l’avvicinarsi di un acquazzone preannunciato da un frastornato boato al quale seguì l’avvio del potente temporale. Tutto fu istantaneamente inondato dal fiume che straboccò dal letto e si infranse sulla piana. « Sbrighiamoci! » urlò Alais .
Ma Oswald sembrò non sentire le gelide parole dell’amico, qualcosa di meraviglioso era piombato sotto il suo sguardo, qualcosa di splendido stava sfavillando come stelle nel cielo, come il sole al tramonto, come luce non ancora decomposta. Era una strana pietra disadorna in superficie ma variopinta, di strana forma perfettamente ovale, che luccicava e splendeva di luce propria e che sembrava variare in base all’angolazione dalla quale la si osservava, e splendeva attorno al fango e l’acqua scura. Oswald mai aveva visto qualcosa di simile in vita sua, mai qualcosa di meglio, emanava uno splendore paragonabile a poche, pochissime bellezze. “Cos’è questo splendido gioiello?”, “E se lo portassi a casa … che guadagni potrei ricavarne vendendolo?”, “E se, invece, lo tenessi per me; potrei autonominarmi un giovane fortunato e ricco? “ … molti pensieri gli sobbalzarono in mente. Ma poi il suo nobile animo prevalse, non poteva lasciare lì un simile splendore … ma non poteva farsi condizionare da tanta maliziosa bellezza. Pertanto, immerso nel cumulo dei suoi irascibili pensieri, persuaso dalla voglia di afferrare la pietra, protese il braccio e iniziò a scavare, ripulendola dal fango. “E se la pietra fosse appartenuta ad una dama che, lì di passaggio, l’avesse persa per distrazione … egli avrebbe avuto il diritto di impossessarsene?”, continuò a scavare nonostante la pioggia continuava ad infrangersi sul suo volto che umido e bagnato era adesso irriconoscibile. Ma fu proprio sterrando che notò qualcosa che non aveva ancora riconosciuto, quello splendido artefatto era grande quanto masso rotondo, non era affatto delle dimensioni di un mero ciottolo fluviale, dunque non poteva essere appartenuto alla tiara di una dama, al ciondolo di una regina, né tantomeno all’amuleto di qualche anziana. “Lo porterò a mia madre, saprà sicuramente cosa farne” pensò nella sua testa, “Sì, farò così!”. Ora che la terra era stata scostata e scrostata dalla mistica pietra, Oswald la afferrò e la portò, con un gesto netto della mano, accanto alla casacca su cui scivolando vi entrò immediatamente. La casacca ora ancora più umida che mai, doveva sopportare anche il fastidioso peso del monile e traballava ciondolando dal petto di Oswald.
« Sono qui! » rispose Oswald alzando lo sguardo dal fradicio terreno molle, ma egli non vedeva bene l’amico un po’ perché, forse, lontano dalla sua traiettoria, un po’ perché meravigliato dallo splendore del gioiello ed ancora un po’ perché straziato ed inebetito dal frastuono generale che produceva il temporale all’orlo della sua potenza. Quando Oswald fu arrivato al portone notò che Alais lo stava attendendo sotto un arcata, al riparo dalla pioggia, quasi sotto il tetto in legno di una delle tante torrette di guardia.
« Dov’eri finito? » domandò curioso l’amico che lo accolse sotto l’arcata, facendosi spazio tra la fanghiglia.
Oswald stava per spiegare il vero motivo del suo ritardo, voleva tanto raccontargli della pietra che poco prima gli aveva fatto illuminare lo sguardo, voleva mostrargli il frutto di tanto splendore, ma preferì in quel momento non parlarne con l’amico, non perché non riponeva fiducia in lui ma perché non aveva voglia di duplicare la voglia di possedere quella meraviglia.
« Il temporale mi ha offuscato la vista, non riuscivo a trovare la via per la porta! » rispose Oswald insicuro di ciò che stava farneticando.
Tuttavia, Alais parve non riconoscere l’essenza di bugia che si celava all’interno di quelle povere parole e così non replicò ne chiese altre informazioni in riguardo.
« Zacharias! » chiamò tre volte Alais, ma nessuno rispose. Per qualche momento intorno ai due amici librava soltanto il silenzio infranto, periodicamente, dal frastuono dell’acqua che ricadeva sul terreno. Allora la sentinella che risiedeva nella prima torre della cinta muraria, all’udire delle urla, s’affacciò sporgendo il suo volto esile dal bastione.
« Cos’è che volete ragazzi? » chiese l’uomo irriconoscibile in volto a causa del burrascoso temporale.
« Potrebbe aprire il portone? Dovremo tornare a casa per cena … » spiegò Alais.
« Io no, ma … ZACHARIAS! » urlò poi « APRA LA CHIUSA! »
« Cosa!? Emh … io … umh » mormorò irrequieto Zacharias il nullafacente « Perdonatemi devo essermi assopito » La sentinella sbuffò e gemette forte, poi borbottò qualcosa e rientrò nella torre.
« Ah, come se non si potesse dormire tranquilli! » si lagnò Zacharias « Vorrei vedere se loro in quegli alti torrioni non dormono mai! Oh certo, tanto chi deve vederli là sopra!? ». Oswald notò del rossore nel volto umiliato del vecchio.
« Non si preoccupi … ma la prego, apra questa porta! » urlò Oswald che, insieme all’amico, si trovava proprio sotto la pioggia.
« Sì » rispose nervoso Zacharias, come fosse indaffarato nel sistemare o cercare qualcosa all’interno del suo piccolo capanno. Qualche secondo dopo Oswald si ritrovò a correre lungo il viale buio e inumidito a ritroso, lungo la rotta per la sua casa. Aveva lasciato Alais al secondo livello ed ora, rapido sugli scalini di marmo, percorreva il lucido scalone in direzione del terzo. Era esilarato, vagabondava nella sua mente in cerca di un’idea su qualcosa da dire o fare per mostrare, in un modo migliore, il gioiello alla madre, cui Oswald non sapeva se avesse approvato a pieno. Era immerso in un indescrivibile e meraviglioso pensiero quando, fermato da un cruento colpo al petto, rantolò sul lastricato stroncato al suolo, il viso sgocciolante e i pensieri che vagavano nell’aria e s’infrangevano come rugiada che straborda dalle foglie durante una fresca mattinata grigia. Tutto quel che conteneva la casacca, e perfino questa, era sparso per terra e canna da pesca stava ancora vorticando sul viale buio.
« Mio caro ragazzo! Stupido cerebroleso, dove corri a quest’ora? » chiese una voce gelida di fronte a lui. Oswald non riuscì a riconoscere la voce fredda del suo accusatore né l’aspetto o il volto curvilineo. Ma quando questi si fu spostato abbastanza dall’oscurità che lo imprigionava, e si posizionò accanto alla luce proveniente dalla vetrata di una casa, Oswald riconobbe il viso corrucciato dell’uomo. E ora che lo aveva ben inquadrato, se non lo avesse riconosciuto al momento gli sarebbe parso un mostro o qualcosa di simile. Aveva il volto rigido e squadrato, la fronte bassa e schiacciata, i capelli neri e unti e gli occhi grigi ridotti a fessure, colmati di un enorme espressione cupa e severa. L’uomo basso e tozzo, indossava una sgargiante e luccicante veste smeraldo che gli copriva i piedi e rendeva il suo passo altezzoso, ma allo stesso tempo gli intralciava il cammino. Fissava il corpo annichilito di Oswald con un’aria tremendamente irata Vintarige lo sciocco, sovrintendente al trono di Darlas.
« Mi perdoni Sire, io non volevo … devo non averla vista! » spiegò Oswald nel frattempo che il temporalesco acquazzone incombeva su di lui.
« Devi non avermi visto? » fece lui imitando la voce di Oswald « Lo splendore del Re è come un faro nel regno! Non mentire, povero Oswald figlio di Jorin! »
Il sovrano, da tempo ormai, si era montato la testa; credeva di essere un dio e pertanto come tale voleva essere venerato dai suoi cittadini. Ma non riusciva a vedere che in città gli unici che lo appoggiavano erano i suoi due guardiani, cieco per com’era pensava solo a sottomettere il regno alla sua indiscutibile volontà. Il popolo dunque non poteva far altro che augurarli la morte, il trono era suo di dovere, spettava a lui per eredità. Ma egli era tremendamente fissato con le lusinghe e l’ammirazione che credeva ricevere da ogni poro di qualsivoglia cittadino, ma che certamente nessuno gli avrebbe mai potuto o voluto donare. La sua voce odiosa aleggiava nell’aria e pareva lo squittio di un topo dolorante.
« Mi perdoni … » enunciò Oswald spazientito cercando di mettere un punto a questa discussione, senza capo né piedi, utile esclusivamente a fargli perdere ulteriore tempo.
« Mi perdoni!? » squittì Vintarige come se stesse imitando il verso di un roditore « Stai cercando di abbindolarmi forse? Non lo trovo affatto divertente sai? » Oswald finì per non rispondergli, era stanco e scocciato. Odiava tanto Vintarige, il cui aspetto fisico gli lasciava pensare ad uomo del quale potersi fidare assolutamente ed il suo carattere; avido e spietato, ingordo ed egoista, non era certamente da meno. Oswald ansimò come una vaporiera in fuga.
« Non sbuffare ragazzino! » lo sgridò Vintarige « Vi conosco fin troppo bene Polfinger! »
« Stupido verme » mormorò Oswald, ma Vintarige probabilmente non lo sentì. Il temporale s’intensificava sempre più.
« Cos’è questa? » chiese ad Oswald afferrando la pietra caduta dal suo fardello e mostrandola al ragazzo. Oswald notò le tozze dita del Re reggere il sasso ed indietreggiò quando questi gli avvicinò con violenza la mano al volto. A cavalcioni ancora sdraiato per terra, con l’acqua che ormai gli colava ovunque, rispose: « Non tocchi quella pietra! »
« Oh … per caso non dovrei? E per quale motivo? »
« E’ un vecchio talismano di mia nonna; ci sono affezionato! » buttò lì Oswald, che adesso pareva terrorizzato.
« Umh, sarebbe proprio una grave perdita se questo talismano » pronunciò con veemenza « per errore cadesse in mani sbagliate, non trovi?»
Oswald ritornò impassibile e muto come una foglia. Poi Vintarige scagliò la pietra con noncuranza per terra, voltò le spalle e agitando la rilucente veste s’allontanò inghiottito dall’oscurità. Oswald racimolò ogni sua cosa, poi si alzò e riprese a correre lungo il viale in direzione, ormai certa, della sua casa. “Quanto allegra è la città di giorno! Quanto triste è, ahimé, la notte!” rifletté Oswald. Effettivamente non gli capitava tanto spesso di tornare a casa così tardi, quando il cielo era così buio e la tempesta così attanagliante. In quel silenzioso attimo, ricoperto dalla notte, scrutava ogni cosa; le case stagliate contro il cielo nero, vuote e zitte. La strada su cui correva non sembrava essere terra, ma scura macchia nera ed oleosa che fluiva sotto i suoi piedi. Non si vedeva nulla di ciò che poteva capitargli sotto i piedi, qualsiasi misero oggetto più comune avrebbe potuto farlo inciampare da un momento all’altro; il regno tanto bello di giorno, era squallido ed agghiacciante la notte. Quando Oswald arrivò a casa si sentì risollevato e rassicurato, era sfuggito finalmente al temporale. La madre lo accolse lieta e, con un pizzico di ira sul volto, lo fece accomodare in una sedia accanto alle fiamme brulicanti che scoppiettavano dentro il caminetto.
« Oswald … saresti dovuto entrare prima! » gli ripeteva Iranis.
« Mi sono fermato sotto il temporale per una buona causa, madre, aspettate di vedere e ci crederete! »
« Nessuna causa è buona, così tanto, da farmi cambiare idea! Non avresti dovuto attendere che il temporale ti riducesse in queste condizioni! » sbraitò la madre. « Aspetta e vedrai! »
« Quale sarebbe questa buona causa? » domandò curiosa.
Oswald tirò a sé la casacca fradicia e ne estrasse il meraviglioso tesoro luccicante che abbagliò ancora una volta i suoi occhi.
« Ecco qui madre! Un gioiello di tanto valore adesso è nelle nostre mani! Cosa potremo farcene? » chiese con non poca ilarità sulla punta della lingua. Iranis non parlava, i suoi occhi non erano dilatati e grandi come globi vitrei, al pari del figlio, ella era allibita quasi spaventata e sembrava aver appena visto un morto parlare, un oggetto muoversi o il sole tramontare per sempre.
« Dove hai preso quella? » domandò con gli occhi vuoti e neri.
« L’ho trovata all’Aranel »
« Gettala via! » mormorò « Gettala via, Oswald! »
« Prego? »
« Quella non è una semplice pietra Oswald … »
« Infatti, proprio per questo motivo l’ho portata qui! » spiegò lui.
« No Oswald, quella lì è probabilmente la causa della morte di tuo padre! »
Oswald gemette e sobbalzò dalla sedia.
« Che significa? » domandò intimorito. « Più volte ti ho raccontato come morì tuo padre … Oswald! Ma ora che ti ho qui davanti, ora che tu mi hai presa impreparata, io non riesco a continuare a mentirti »
« Madre!? Garmagan uccise mio padre, egli era un guerriero valoroso e andò fino a Neralguna per combatterlo! Non è forse così? »
« Quasi per poco » rispose Iranis.
Oswald era sconcertato, aveva sempre pensato a suo padre come un eroe, sacrificatosi per concedere una vita migliore a suo figlio, vincitore su Garmagan, paladino di Darlas sconfitto dal male.
Eppure, adesso, ogni sua ipotetica identificazione del padre stava crollando, non riusciva in quel momento a stereotiparlo nella figura di un guerriero; nella figura di un valoroso campione.
« Vedi Oswald, correva il Quarto Eplogo quando tutto ciò che sto per rivelarti, accadeva. Anvea, il nostro tanto splendido continente Prima del Mare, era invaso e finanche devastato dalle oscure forze di Neralguna. In quel tempo era il solo Garmagan l’Invincibile a dettare il Fato; a proclamare il Destino della nostra terra. I suoi invincibili Gurak – creature dal tenebroso animo ed aspetto – assediavano ogni regno e ne scandivano il susseguirsi dei giorni … questo probabilmente è un piccolo particolare che non ti ho mai rivelato, senza il quale non hai mai potuto comprendere a pieno quel che avevi pensato di sapere » Oswald, però, al momento non riusciva a capire. Egli era ancora posizionato davanti al fuoco, che scoppiettava e si legava al rumore della pioggia che ticchettava sui vetri. Le fiamme stringevano la stanza contornandola di sfumature rossastre.
« Morgael era una giovane donna in quel tempo. Ti starai sicuramente chiedendo perché mai questa sconosciuta debba essere menzionata all’interno del racconto della gloria di tuo padre, posso risponderti che è, probabilmente, la protagonista più importante dopo Jorin.
« Ella era una viaggiatrice errante, le piaceva molto scoprire nuovi luoghi sui quali stanziare o mettere in pratica le sue ricerche; ma non sapeva, quel giorno di mezz’estate, d’essersi inoltrata in un territorio a lei piuttosto sconosciuto; superate le intemperie del viaggio, non credeva di essersi spinta fin troppo oltre, all’interno di Neralguna. Come ben sai, Neralguna non era e non è un regno conosciuto per il suo splendore … bensì per il male che da tempo produceva e continua a sfornare. Dopo la sconfitta di Alcazar, signore dei tempi, nel Terzo Eplogo, Anvea conobbe lo sviluppo; per anni, per un eplogo intero la terra non venne più cosparsa di sangue umano, per tantissimo tempo Anvea non vide il male incombere sui suoi domini. Ma poi, come un fiore sbucato dal terreno, l’oscurità tornò a gravare sul continente; questa volta dominata da qualcuno di più forte, Garmagan il Magnifico »
Per un attimo nella stanza non si udirono altre voci, né altri rumori fastidiosi, la tempesta parve per un misero secondo aver smesso di ticchettare sulla vetrata poi, come se chiamata, riprese il suo monotono andamento.
« Morgael, figlia di Tamandie, dominava l’aria come un aquila. Difatti, conosceva ogni segreto del cielo e, come un vero e proprio rondone, sorvolava i regni su una nuvola di vapore. Questa è forse una sciocchezza, ma è anche per ciò che si era aggiudicata la sua notorietà in ogni zona di Anvea. Dopo essere giunta ai confini di Neralguna, Morgael vi si addentrò completamente ignara di ciò che l’attendeva. Quando vi fu uscita, illesa probabilmente come se fosse appena nata, portava in mano una grande sfera luminescente, a cui affidò il nome di Qesitay. Ecco ciò che recita il manuale de “ Il Male confinato a Neralguna” - “Or che giungendo sta Morgael, signora dei fumi, sguainando il monile del Magnifico, le fiamme alle sue spalle richiamano l’agonia del Signore che ha perduto il suo ultimo gingillo, or che emanando giustizia incosciente ella risplende di luce impropria, il chiaro del bianco riacquista la purezza della luce e le fiamme sembrano buio al suo cospetto. Ma ella non è a conoscenza del fervido aspetto che nasconde la gemma, Qesitay lo han chiamato – Qesi; luce di Anvea, prima Stella della luna calante, ne sarà ammaliato – allietante è divenuto il suo nome in terra. Così ora i giustizieri del potere svanito sapranno ancora una volta riconoscere ciò che hanno perduto, ciò che è sfuggito al loro tatto, ciò che Garmagan Signore dei Sire ha smarrito lungo il percorso dalla sua misera vita” »
Oswald non pareva ancora del tutto consapevole ci ciò che le sue orecchie stavano ascoltando, ma continuava ad annuire. « Il tempo, che tutto divora, passò in fretta per Morgael. La donna venne richiamata nel Sesto Eplogo, dopo lunghi anni di assenza dalla vita da telanor, a protezione del regno di Darlas. Ma benché gli anni fossero passati da quel fatidico giorno, Morgael continuò a custodire con gelosia la sua preziosa gemma e la portò con sé quando promise di difendere il nostro regno.
« Ma lei non era più giovane come una volta, non sapeva bene cosa poteva scatenare il suo ritorno alla vita. Garmagan era ancora vivo e cercava disperatamente il suo gioiello, così dopo anni di preparazione decise di affrontare Morgael con il suo esercito oscuro. La donna non poteva vincere, era certo questo; lei era sola, loro molto più di mille. Così quando il giorno della grande guerra per il Qesitay arrivò, Morgael condusse inconsapevolmente la furia del Signore sul regno di Darlas. L’imponente fortezza, costruita dai giganti, fu nuovamente scenario di battaglia ed il suo fertile terreno venne ancora innaffiato con del sangue impuro. Tutto ciò ebbe ripercussioni sui suoi abitanti e sulla stessa roccaforte. La battaglia ebbe inizio quel secondo anno del sesto eplogo, qui a Darlas. Per ben tre giorni le armate oscure di Garmagan combatterono con fragore, spazzando via ogni cosa, spezzando lance e scudi come argilla. I paladini di Darlas opponevano resistenza, insieme ai loro alleati provenienti da Arsalan. Durante quel tempo Aglarend sovrano di Darlas – padre di Vintarige - venne sconfitto, così come Morgael che fu spazzata via dall’ira di Garmagan stesso. Ma ella era tanto astuta e non lasciò il Qesitay allo scoperto, anche se di questo nessuno ne seppe più nulla, se oggi non fosse giunto nelle tue mani aggiungerei » « Ma Garmagan fu poi sconfitto? E’ forse esatto il contrario? » domandò Oswald terrorizzato.
« Certo che sì, Garmagan fu sconfitto, e fu tuo padre a sconfiggerlo »
Gli occhi di Oswald s’illuminarono come se stesse tornando a guardare il Qesitay.
« Devi sapere che Garmagan non attaccò Darlas soltanto con la potenza dalla maestosa armata di Gurak, portava con sé un grande alleato; una bestia sputa fuoco, poco diversa dai draghi ma non uguale, perché tante volte peggio. Kairos si chiamava, ed era feroce tanto quanto il suo padrone. Io ti portavo in grembo da pochissimi mesi, tuo padre non avrebbe permesso a Garmagan, né ai suoi Gurak o al suo animale, di spazzarci via come foglie al vento, pertanto osò preservare la nostra incolumità abbandonandoci nel forte accanto al palazzo d’oro. Poi corse fuori dalle mura con in mano la sua spada, e nel petto il suo docile cuore che batteva al ritmo del suo nobile valoroso coraggio.
« Così Jorin Polfinger iniziò a demolire armate di Gurak, accanto ai voraci paladini di Darlas ed al suo ormai certo amico Eriglion, re di Arsalan. Combattevano come se non ci fosse un domani, perché sapevano entrambi che questo non ci sarebbe stato, sfidavano le fiamme di Kairos e respingevano il potere oscuro di Garmagan. Prima che il sole del quarto giorno tramontasse Eriglion di Arsalan, fu divorato ed inghiottito da Kairos. Jorin non resistette, aveva la bestia di fronte al suo corpo, così si lanciò verso il mostro e, con una forza pari a quella di un potente animale, mozzò con destrezza la coda di Kairos. Furia e fiamme presero il sopravvento, la creatura moribonda riversò il suo alito cocente su tutta la piana, ed espulse la sua agonia sfracellando incontrollatamente, per gli ultimi attimi di vita, ogni cosa. La vampata di fuoco avvolse una miriade di Gurak, cui fuggirono lungo la rotta per Calengol, divampò su Garmagan e ne lasciò solo la cenere. Ma, ahimè, questi non fu l’unico a lasciare Anvea per sempre. Jorin Polfinger, ormai divenuto paladino di Darlas, venne schiantato al suo e ricoperto dalle macerie che crollavano dalle mura di Darlas, poi Kairos la bestia vi si accasciò di sopra stecchito e rattrappito come un sasso rimasto troppo a lungo sotto il sole e gettato di colpo in uno stagno » Oswald era ora sbalordito, sua madre non aveva mai osato spingersi fin oltre, non aveva mai raccontato così in fondo la vera storia di suo padre, che egli aveva sempre ritenuto un eroe. Ma adesso che conosceva il vero significato ed il vero valore della guerra di Darlas, riconsiderò l’idea che si era fatta di suo padre e lo osannò come fosse quasi un dio.
« Cosa ne fu del Qesitay, madre? »
« Ottima domanda questa, Oswald » bisbigliò la madre « Posso ben affermarti che del Qesitay nessuno seppe più nulla! Qualcuno pensa che la gemma venne sconfitta con Morgael, il cimelio venne divorato da Kairos il malvagio. Altri sostengono, invece, che la gemma venne rubata da un Gurak prima di fuggire via dal campo di battaglia. Pertanto, sono molte le voci che si sentono in riguardo al monile, tutte potrebbero essere vere quanto potrebbero essere false. Il fatto che davvero conta, è che il Qesitay si sia ripresentato, ancora una volta, a Darlas, ancora una volta, tra le mani di un innocente Polfinger » « Che possiamo farcene allora? » domandò irrequieto Oswald « Non penso sia il caso di abbandonarlo … potrebbe capitare in mani sbagliate »
« Ritieni che le tue mani siano quelle esatte invece? »
« No, certo che no. Ma possiamo comunque tenerlo qui, al sicuro, nessuno saprà nulla di questo … "ritrovamento"»
« Il suo arrivo qui non è affatto gradito, Oswald, liberatene! »
« Ma madre … »
« Quel piccolo gingillo ha causato troppo dolore nel regno, infinito nel mio cuore. Davvero pensi che tenerlo qui, nascosto, sarebbe qualcosa allietante? »
« No, affatto. Ma sempre e comunque tante volte meglio che lasciarlo in mani sprovviste di un certo criterio »
« Se pensi che poterlo tenere ti conferisca criterio … stai sbagliando di grosso! Liberatene Oswald! » urlò irata Iranis.
« A proposito madre, che ne fu del male; davvero venne sconfitto? » tagliò corto Oswald, in cerca di una frase su cui poter ribattere per convincere la madre.
« Il male? Ah, ti sbagli se pensi che il male sia stato sconfitto! Garmagan probabilmente lasciò la terra, ma prima che questi divenisse polvere qualcosa di strano avvenne nell’aria. Coloro che riuscirono a vedere questo strano avvenimento osano ricordarlo come ascesa del male … una nube nera s’accostò dinanzi al defunto Signore, il suo voltò si deteriorò e il nugolo nero venuta dall’alto si mischiò al tenue velo, grigio, fuoriuscito dal corpo dell’Invincibile. Poi il fumo sparì, e spazzato si trasmutò in buio, successivamente disintegrato dal bene, trasfigurato in luce. Ahimè, non è nella natura del male accettare la sconfitta, egli avrà sempre a che vedere con i mortali, sempre a che fare con la terra; non muore, si rigenera ovviamente, senza dover mai lasciare veramente il mondo »
« Quindi, come possiamo permetterci di abbandonare la gemma!? »
Iranis si fermò a riflettere, avviluppata nel suo scialle rosso accanto al fuoco.
« Promettimi di non mostrarlo a nessuno! Di non proferire mai parola con altrettanti! Oswald, un solo mero passo errato potrebbe causare distruzione! »
« Madre … non dubitare, lo terrò al sicuro, qui in casa, nessuno ne saprà nulla »
« Questa è una promessa, Oswald? »
« Certo che sì! »
Oswald decise di tenere per sé il Qesitay, adesso poteva con esattezza affermare di conoscere la storia di ciò che aveva tra le mani, ma soprattutto di quel che il suo eroico padre aveva combattuto con onore per lui.
« Madre … per quale motivo adesso pensi che io abbia trovato il Qesitay lungo l’Aranel? » domandò Oswald non avendo ancora capito in fondo per quale motivo la gemma si trovasse ancora tra i confini di Darlas, lungo il perimetro del rilucente Aranel. Era entrambi seduti, accostati al tavolo, e mangiavano con vigore. Iranis non fiatò; per qualche secondo parve non aver sentito la domanda del figlio, per un attimo nella sala da pranzo s’avvertirono soltanto gli scricchioli delle mandibole che masticavano il cibo.
« Non ho alcuna idea sul come questo artefatto » pronunciò indicando la gemma posizionata sul tavolo « … possa essere giunto qui … »

« E se non se ne fosse mai andato? »
« Deliri, in quel caso Oswald. Pensi davvero che tutti se lo siano fatto sfuggire avendolo sotto il naso? Ritieni che nessuno abbia osato mettere mani sulla pietra, che così splendente e rilucente avrebbe potuto abbagliare qualsiasi tortuoso cammino? »
« No, è vero! »
« In tal caso, naturalmente, non doveva essere da molto al fiume! » Oswald annuì, era certo che la gemma non poteva essere lì da tanto, effettivamente, la sua fortuna sfacciata era frutto meticoloso del destino, null’altro. Chiunque fosse passato di lì, quel giorno, avrebbe potuto afferrare il gioiello.
« Lascia chi chiarisca una cosa Oswald » mormorò Iranis alla vista dello sguardo vuoto e vacuo del figlio « E’ inutile rammentare i fantasmi del passato! Quel che conta, figliolo, non è tanto ciò che è stato … bensì ciò che sarà. Pertanto ricorda; forgia e preserva il presente »
La madre mai gli aveva raccontato fino in fondo le peripezie di Darlas, l’arrivo del flagello, la guerra e la morte del padre. Sicuramente non lo riteneva pronto per poter ascoltare tali racconti, ma adesso che finalmente gli aveva rivelato tutto ciò, Oswald si sentì molto fiero di sé. Finalmente, allora, lo aveva considerato abbastanza maturo da comprendere a pieno. Toccò per tutta la serata la gemma, la girò e rigirò tra le mani, ma oltre al freddo che questa emanava, al vorticare dei colori sgargianti nel suo nucleo marmoreo, egli non notò alcun potere. Perché un grande come Garmagan, Signore dei Sire, avrebbe mai voluto così tanto il Qesitay?
Questa fu la domanda cruciale che tormentò Oswald per tutta l’oscura notte ed anche il giorno successivo, quando il burrascoso temporale cessò di perseguitare i cittadini del regno, quando il sole, luccicante, tornò a rischiarire la facciata di Darlas e l’aura mattutina si levò ad ovest. Tutto era tornato come sempre; ancora una volta.


-- Angolo d'autore -- Ecco il primo capitolo della storia "Le cronache della Luce". Per prima cosa, ringrazio chi ha letto fino in fondo questo primo capitolo che, comprendo pienamente, è stato sicuramente difficile da leggere. Volevo, dunque, rendere limpido il significato di alcune particolari parole: -Eplogo/ghi: terminate utilizzato per indicare il tempo - c'è una leggenda particolare in riguardo che pubblicherò successivamente. -Telanor: uomo/donna che riesce ad utilizzare e sfruttare i poteri degli elementi principali della natura; fuoco, acqua, aria, terra. Ancora grazie per aver letto il mio primo capitolo, spero solo che siate così buoni da lasciare una recensione o una critica [purché costruttiva], sotto.

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Capitolo 2
*** Capitolo Secondo - Avvertimenti sconosciuti. ***


Il  giorno successivo Oswald ed Alais ritrovarono ad oziare in piazza, e fu così anche per gli altri due giorni che seguirono. Oswald non raccontò nulla all’amico in riguardo al Qesitay, né, come promesso, a nessun altro. Teneva la pietra nascosta dagli occhi estranei, all’interno del cassetto della credenza scura della sua camera, all’oscuro dalla luce, cui non mancava di produrre.
Il sole, quel giorno, irradiava la piazza e splendeva alto nel cielo tra le candide nuvole. La superficie della Torre Smerlando proiettava riflessi verdi sulla statua di Galioph e fungeva da caleidoscopio. Il tetto rilucente del Palazzo d’oro sembrava una delle stelle alte del cielo notturno, ed era illuminato e splendente. La panca su cui erano seduti Oswald ed Alais, li aveva ospitati per giorni. Liffàr era indaffarato alle loro spalle ad aprire il portone in legno cigolante della sua mistica torre, con in mano alcune lettere ed un bastone da passaggio dal nero legno d’ebano intarsiato.                                                                                                                                        
« No Oswald, sul serio, non pensavo di trovarti qui già di presto mattino! » disse Alais incrociando le gambe e portandole vicino alla panca, cercando di sovrastare le urla che provenivano dalla piazza « Devo ammettere che quest’oggi mi hai sorpreso! »                                
« Mia madre mi ha spinto a scendere al mercato per comprarle alcune cose … ma solo dopo averle portate a casa, ho deciso di restare qui in piazza »    
« Ah, anch’io sono andato al mercato ieri mattino! Un miscuglio di confusione ed urla, ancor più di quelle che vi son qui adesso! » urlò Alais nel frattempo che le grida delle genti s’intensificavano con il susseguirsi dei secondi. Oswald non ebbe il tempo di aggiungere qualcos’altro; in quel preciso istante le porte del Palazzo d’oro s’erano completamente spalancate di fronte ai loro occhi e dinanzi a quelli di tutte gli altri popolani. Immerso nel suo solito lungo abito smeraldo dalle larghe maniche, uscì furioso Vintarige lo sciocco. Il suo volto malconcio, ed i lineamenti irrigiditi formularono in Oswald una strana idea; doveva aver fatto i conti con qualcuno. Due grandi e grosse guardie, coperte di elmi e ferri da tutte le angolazione, dal capo ai piedi, lo seguivano affannate. Quello più grosso ed alto, con una larga cicatrice sul volto e con lunghi capelli era Garmold, il custode del regno. Era molto conosciuto fino al Mar Stretto dal momento che suo padre – Elledor - aveva, in tempi addietro, condotto delle armate in battaglia per scacciare Fentos dal regno di Nendir, cavalcano il suo nobile destriero a tutto spiano e portando luce ove era rimasto a lungo soltanto terrore. Ma per quanti elogi potevano essere attribuiti al buon Elledor grazie i servigi resi, non solo al regno di Nendir certamente, su egli persisteva una larga e profonda critica. Perché mai era padre di quel suino con le gambe? Il modo di fare di Garmold era tutt’altro differente da quello del padre, ed egli era senza un briciolo di cervello, ma solo muscoli e cicatrici. Probabilmente, e come tanti credevano ormai nel regno di Darlas, il cervello doveva averlo perduto insieme al suo orecchio, del quale, pur se costantemente coperto dall’elmetto, era rimasto soltanto un foro. L’altra guardia sconosciuta, corazzata dalla liscia e rigida armatura non era mai capitata sotto lo sguardo di Oswald o Alais, cui non fiatava e non mormorava. Ma era strano questo dettaglio, dato che era impossibile non averlo sotto il naso, l’adipe dell’uomo fuoriusciva addirittura dall’armatura, ed i suoi rotoloni a fatica riuscivano ad essere coperti. Entrambi reggevano uno strano vecchio uomo, e lo trascinavano lungo la scia del loro inutile Sire. Quando arrivarono dinanzi alla statua di Galioph, e le urla si erano del tutto spente all’arrivo di Vintarige, Oswald osservò il vecchio. Era Affard l’unico scalpellino della città, e sgorgava di lacrime – che scivolavano lungo i suoi zigomi rossi – da ogni poro.                                                                              
Con stupore di tutti i cittadini,  Vintarige spalancò la bocca ed urlò contro il vecchio Affard:                                                                                                              
« Mi dica! Questa le sembra una statua proporzionata alla mia grandezza!? Le ricorda forse una statua sontuosa e gradevole da tenere nel mio regno? »            
Oswald ed Alais scattarono via dalla panca e s’avvicinarono ai quattro uomini, ormai circondati da tantissime genti.                                                                        
« Io non volevo dire questo … » cominciò l’uomo anziano con un timbro di voce secco e spaventato « Ma Galioph è il nostro Fondatore, il creatore del luogo in cui risediamo! E’ nostro dovere portargli rispetto … come al tempo stesso dobbiamo fare con i suoi successori. Non è assolutamente corretto rimuoverlo dai nostri pensieri deturpando la sua statua, sarebbe un vero insulto alla sua figura! ». Tremava dalla paura e scuoteva addirittura le braccia delle due guardie che stringevano i suoi fragili polsi.Oswald guardò Alais e bisbigliò:                                                                              
« Ha ancora a che fare con questa storia? Potrebbe pensare a tante altre cose per rendere docile il suo animo! »                                                                            
Ma Alais annuiva senza alcun senso, cercava soltanto di tenere lo sguardo puntato sulla scena, e di tanto in tanto anche verso l’alto.                                              
« Io sono il sovrano! Io devo godere del suo posto su questo piedistallo … Galioph cos’è? Lascia che ti risponda, il Fondatore … come lo definite … non è nulla! » insistette Vintarige nel mentre che il pubblico rimaneva silente, il cui boato era rimasto bloccato in gola per la paura « Basterà soltanto rimuovere questa statua e non ci saranno ulteriori disturbi! Sradicarla dalla base sarà una delle migliori soluzioni! »                                                                                                                            
« Io … io … io non posso farlo Signore! Chiami un altro scalpellino, non ho voglia di macchiare il mio sangue umile con questo gesto ignobile! »                                
« Non ci sono altri come te qui Affard, vecchio vuoi che forse te lo ricordi? »                                                                                                                      
L’anziano signore evitò il suo sguardo per un millesimo di secondo, poi voltò di nuovo il volto.                                                                                                          
« Lui rappresenta il mio passato! Il passato di tutte queste persone! » disse indicando le genti attorno a loro.                                                                                    
« Passato!? No! Il passato non esiste. E’ stato forgiato da chi era troppo debole per affrontare il presente, ed eliminato da chi troppo forte per ascoltarlo. Ora esiste soltanto il presente, e me, Vintarige di Darlas, intento a forgiare un perfetto futuro! »                                                                                                                        
Il vecchio era adesso ancor più impaurito e si mordeva con furia le labbra, poi Vintarige ordinò di gettarlo ai suoi piedi, e l’uomo cadde sulle sottili ginocchia bianche.                                                                                                  
Un uomo dai larghi baffoni e dalla lunghe basette bianche avanzò uscendo dalla folla. Indossava una strana veste di cuoio marrone, ed era anch’egli era molto esile.                                                                                             
« Stolto! Ti auguro che un giorno anche il tuo perfetto futuro diventi troppo debole da essere udito! Ma lo sarà ben prima che possa essere definito passato »               
« Come osi tu!? Nessuno mi si rivolge così! Neppure un garzone del tuo livello; va’ a mungere quelle tue vacche … razza di idiota! » gridò Vintarige.                                                                                                                   
L’uomo impallidì e si voltò umiliato.                                                                                                                            
« Avete sentito tutti voi? » urlò Vintarige rivolgendosi a tutti gli spettatori che stavano osservando allibiti quasi quanto Oswald la scena « Questo regno appartiene a me, a me soltanto! »                                                                                     
Oswald sentì mormorare Alais “Razza d’idiota” e le genti scombussolarsi di fronte a loro.                                                                                               
« E ora, scalpellino, io ti ordino di rimuovere questo sporco peso dal suo piedistallo! » urlò indicando con il tozzo dito la statua « Ti comando di obbedirmi! »                 
« Mio signore, anche volendolo sarebbe impossibile! » mormorò Affard ancora genuflesso « Sarebbe un lavoro troppo faticoso! ». L’anziano scalpellino stava ancora tentando di persuadere Vintarige a cambiare idea, proponendo, ogni volta che poteva farlo, delle giustificazioni. Ma Oswald sapeva che Affard, era noto per aver scolpito grandi cose. Sicuramente, se lo avesse voluto, avrebbe fatto di Vintarige un monumento in pochi giorni … ma era imparziale e giusto; non così stupido da sottostare ai suoi ordini.                                                              
« Oh è vero! Come darti torto … » annunciò Vintarige con un pizzico di veemenza sulla lingua, stupendo così ogni suo cittadino che lo identificò convinto.                   
« Come vede, anche lei concorda con me, è normale! » squittì Affard osservandolo con gli occhi lucidi di un bambino terrorizzato.                                                    
« Sì » riprese Vintarige immerso nei suoi pensieri, tornando al mondo « Sì, rimuoveremo soltanto la sua testa. Basterà mozzarla dal corpo come si rimuovono le erbacce secche dai giardini, solamente che a farlo non sarà una cesoia, bensì una lama. A quel punto, scolpirai soltanto il mio viso … lo sostituiremo a quello del vostro Galioph! Il fisico è quasi simile, pertanto è deciso » disse Vintarige sbalordendo nuovamente tutti, tranne Oswald che aveva capito le sue intenzioni sin dall’inizio.                                                                                                      
« Sire … altro arduo lavoro questo! Rovinare una lama per distruggere una statua. Non sia mai! Chi forgia ormai delle lame così robuste e forti!? Dove andrà a prenderne una nuova? » domandò Affard.                                                                                                                                                                                          
Vintarige però parve non udire le sue parole e prese a girare intorno alla statua. Poi urlò:                                                                                          
« Garmold! »                                                                                                                                               
Uno delle due guardie, quello posizionato sulla destra mollò la presa dal polso di Affard e si avvicinò al suo Sire sguainando la sua spada lucente dal fodero. Poi si avvicinò al monumento del Fondatore ed issò la lama verso il cielo, e, con un fendente, stoccò l’aria. Ma prima che il grosso Garmold avesse finito di portare a termine il suo compito, nell’aria s’udì un urlo.                                                                                        
« Viscido minuscolo uomo! » gridò Vintarige alzando lo sguardo al cielo, proprio in direzione del tetto del suo palazzo. Garmold tirò a sé la lama ed ebbe giusto il tempo di scaraventarsi per terra che Vergar, il folletto, si catapultò giù dal tetto d’oro del Palazzo, atterrando dritto sul dorso di Vintarige afferrandolo per il collo. L’uomo iniziò a divincolarsi, tra le urla di Vergar e quelle delle guardie che correvano dietro di lui. Le genti vennero sommerse dai boati e dai latrati che da sole provocavano all’unisono. Tutt’intorno era un subbuglio di colori e voci. Vintarige correva e strillava con ancor Vergar sul dorso:                    
« Toglietemelo di dosso! Staccatelo ora! Credo di non respirare, sta per arrestare il mio fiato! »                                                                                                      
Ma nulla, le guardie erano troppo grasse per stare al passo di Vintarige che non si fermava un attimo.                                                                       
« Sei un folle, Vergar! » sbraitò strozzato Vintarige.                                         
Il garzone che prima era stato deriso uscì ancora dalla folla irrequieta e, a sua volta, rise di Vintarige:                                                                                       
« Re Inutile, lui non è un folle … è un folletto! »                                                                                                             
Oswald ed Alais corsero seguendo il tratto di Vintarige per poter osservare bene la scena, erano entrambi spaventati per la sorte del folletto. Ma questi non sembrava temere nulla, scalciava lungo la schiena di Vintarige e prendeva a pugni il suo duro cranio.                                                                     
« Non … hai … alcun diritto ... di … di … rimuovere Galioph! » mormorò a denti stretti mentre che batteva la mano nel suo collo irsuto.                                              
« GARMOLD, BUONO A NULLA! TOGLIMELO DI DOSSO! » gridò Vintarige ormai stremato stravaccandosi per terra. La presa del folletto rimase però salda, e Garmold non riuscì neppure ora a staccargli le mani dal collo del Sire. Ma proprio quando stava per colpire con un ulteriore pugno il capo di Vintarige, la sua forza venne probabilmente meno e questa cedette alla furia di Garmold che lo sollevò per la casacca, lasciandolo a piedi nell’aria.                                                               
« Prova ancora una volta a toccare Sir Vintarige, e mi nutrirò dei tuoi arti … nano! » sputacchiò la guardia sul volto di Vergar.                                            
« Non sono un nano, grosso leccapiedi, io sono un folletto! Capita la differenza? » bisbigliò Vergar                                                                                            
« Non c’è differenza! »                                                                                             
« Idiota, uno come te non dovrebbe nemmeno adempiere i lavori di guardia reale! »                                                                                                              
« Io non sono idiota » disse Garmold con un secco suono gutturale.                                                                                                                         
« Non fa alcuna differenza! » esclamò Vergar.                                                                                     
« Cambio di programma » urlò Vintarige ancora con a gola secca, affannato più che mai, sistemandosi la lunga veste smeraldo e rialzandosi da terra. All’istante fermò ancora l’attenzione su di sé « Io lo condanno a morte! La testa la tagliamo al folletto »                                                                                                              
Alais balzò all’aria, Oswald si sentì ferire profondamente e nella sua testa una voce urlò: “no!”                                                                                                
« Dunque tu, vecchio, ti rifiuti di lavorare per me! Ecco la sorte che ti spetta; sono io il re, io comando! Prendete anche lo scalpellino, sono sicuro che troveremo un alloggio perfetto per lui giù nelle segrete » urlò contro Affard ancora accasciato per terra, l’uomo era intorpidito. Vintarige si avvicinò alla statua ed urlando, con un gesto impulsivo e netto, assestò un destro contro la pietra. Dalla sua bocca sfuggì un latrato di dolore, simile a quello di un bambino bruciatosi con il fuoco. Si era appena conficcato uno degli speroni che fuoriuscivano dallo stivale di Galioph nel polso.                                                                                             
« Lei … lei non può farlo! » sbraitò Affard che veniva sollevato da terra dall’altra guardia « Io ho famiglia, ho dei figli da sfamare! »                               
« In quel caso sono sicuro che troveremo un posto nelle segrete anche per loro! Vi sfamerete là dentro, o meglio, il cibo mancherà e voi sarete costretti a soffrire per non mangiarvi a vicenda! »                                                        
« NO! » urlò lo scalpellino che veniva trascinato da terra verso il palazzo d’oro « Non toccate la mia famiglia! »                                                                                
Il suo straziante grido fu lacerato dall’aria, lo scalpellino venne trainato con forza aldilà della piazza, lontano, dagli sguardi esilarati di Alasi e Oswald. Da dietro, probabilmente avvertito dalle urla dei paesani, arrivò scortato del suo imponente bastone di legno, Liffàr, arrancando con addosso una lunga e sinuosa veste di seta grigia.                                                                 
« Liffàr faccia qualcosa! » gli ordinò Alais « La prego! »                                                  
Ma Liffàr sembrava paralizzato, teneva la bocca semiaperta, ed i suoi occhi erano ridotti in fessure vuote che osservavano con impeto la scena che si svolgeva sotto i suoi occhi: Vintarige aveva afferrato Vergar per le spalle e lo stava bloccando con entrambe le mani. Garmold invece punta il collo chino di Vergar con una lussureggiante spada di acciaio, puntata nuovamente in direzione del cielo.                                               
« Non ho paura di te, Vintarige! » sbottò Vergar « Né dei tuoi stupidi modi di fare! »                                                                                                   
« Udiremo i tuoi urli di dolore quando sarai ormai andato, quando il tuo corpo sarà fatto deteriorare e seccare sotto il sole » momorò Vintarige con lo sguardo puntato sul folletto, tagliente come una lama.                                                                                                                            
« Sire, cos’è che succede? » domandò Liffàr facendosi spazio tra la folla accanita, pencolante e logoro.                                                                                  
Oswald ed Alais guardarono sospetti, lo sguardo vitreo e perplesso.                                                                                                                                              
« Ci mancavi soltanto tu! » commentò furioso Vergar.                                                        
« Taci » gli urlò Garmold.                                                                                                
« Liffàr, come vedi qui qualcuno merita una, non poco sbagliata, sistemazione! Un tempo i folletti se stavano nella loro inutile baia a Giorno Splendente, non venivano ad Anvea per nessun motivo. Adesso esigono anche di meglio, aggrediscono il loro Sovrano. Dovrò fare una chiacchierata con il loro Sire … Deniavor di Primavera, voglio proprio vedere cos’avrebbe da dire in riguardo! »                                                                                                                                                          
Liffàr stava guardando Vintarige con lo stesso sguardo che si rivolge a qualcuno che non si tollera. Nel frattempo, Vergar latrava di dolore, preso a schiaffi dalle roventi mani di Garmold.                                                                                                            
« Ti consiglio di pensare bene a questa decisione, mio signore » s’intromise Liffàr che forse non sapeva proprio cosa dire.                                
« Ucciderò questo folletto di mano mia, proprio come lui ha ferito il mio corpo! » sbraitò Vintarige.                                                                                                    
« La migliore delle giustizie, maestà! » approvò Garmold intento a schiaffeggiare Vergar.                                                                                                         
« Vintarige … temo … » dichiarò Liffàr « Temo che questa non sia una soluzione da attuare! »                                                                                              
Vintarige parve schifato, guardò sospetto l’uomo dal basso verso l’alto.                                                                                                                                      
« Voglio dire … deve meritarsi una morte tante volte più dolorosa di questa! Il taglio della testa non lo farà soffrire per nulla, gemerà sì, ma senza mai soffrire per davvero. Invece si potrebbe lasciare in un buio stanzino oscuro, i topi lo rosicchieranno e ne mangeranno i suoi resti! » illustrò Liffàr sotto gli occhi allibiti di Alais e Oswald « Non vale molto più di un topo! »                                                                                                                                                                                     
« Mi ha mancato di rispetto di fronte al mio regno, è ciò che si merita» mormorò Vintarige guardando il folletto in modo sospetto.                         
« Facciate come dico, ne ricaverà ancor più piacere nel vederlo soffrire, maestà! »                                                                                                           
« Ammiro il tuo essere spietato Liffàr, a volte riesci a stupirmi più di quanto tu riesca a credere! »                                                                                                    
« Il folletto ha più fegato di quanto possiate immaginare, lord Garmold. Io porgerei non poca attenzione! » sorrise Liffàr alla guardia intenta a schiaffeggiare Vergar. Poi il telanor, si girò svelto lasciando alle sue spalle soltanto lo strascico della sua lunga veste seta. Si fece strada tra la folla, percorrendola dritto, e sì fermò solo quando vide Oswald.                                                                                                      
« La Torre Alta si trova giusto al finir delle celle del primo corridoio, su una rampa di scale » bisbigliò svelto ammiccando verso la sua direzione, poi pencolante arrancò verso la Torre Smeraldo. Oswald ebbe giusto il tempo di udire le parole, soavi, che il Liffàr gli aveva riferito, senza coglierne alcun significato.                                    
« Lo ritenevo più giusto, quel vecchio telanor! » si lagnò Vergar senza però smettere di farsi schiaffeggiare.                                                                                            
« Bene » esclamò Vintarige ergendosi sopra la figura del folletto annichilito « Conducilo nelle segrete! »                                                                              
Garmolod il grosso, iniziò a marciare verso il Palazzo D’oro, con ancor in pugno la sudicia casacca in cuoio di Vergar, tenuta con forza nella mano destra che lo sollevava da terra e lo lasciava in bilico a mezz’aria. Liffàr, che aveva appena voltato le spalle anche alla sua Torre, stava tornando con velocità al Palazzo D’oro, e quando le porte si furono chiuse, egli v’era già finito dentro.                                                            
« Andate voi! » ordinò Vintarige indietreggiando dalla piazza, in direzione, anch’egli, della sua dimora.
Quando tutta la folla si congedò, Oswald ed Alais s’avvicinarono furtivi e lemmi lemmi al Palazzo del Re. I due posarono le loro orecchie proprio sul maestoso ed imponente portone d’oro del Palazzo.                                                                                                                                    
« Se qualcuno dovesse scoprirci ad origliare, Oswald, saremo nei guai! » lo avvertì Alais terrorizzato dall’idea.                                                                                
« Lo so Alais, ma voglio sentire cos’è che hanno da dirsi! Hai sentito Liffàr prima? »                                                                                                                        
« No, certo che no. Che ha detto? »                                                                                                     
« Mi ha suggerito di andare nelle segrete, era plausibile! »                                      
Provenivano dal Palazzo d’oro e la piazza ne era inondata. Urla e latrati di dolore scaturivano dalle bocche di Affard lo scalpellino che stava, certamente, ricevendo un trattamento non molto affascinante.              
« Per favore, non fatelo per favore! »                                                                                             
Nel contempo Oswald pensò che Vergar doveva già essere stato scortato, come da ordine, all’interno della cella di prigionia; ma una voce smentì questa sua idea: il trattamento era stato adoperato anche su di lui.                                                                                                                
« Continuate pure, stolti! Non ho paura di questi ciottoli, non ho paura di voi! »                                                                                                                                
Il folletto non pareva affatto scosso, qualsiasi cosa gli stavano facendo egli rimaneva un uomo d’onore.                                                                                          
« Questo è quel che vuoi farci credere! » abbaiò Garmold, la cui voce era assolutamente riconoscibile.                                                                                              
« Non esattamente » rispose altezzoso Vergar.                                                                                   
« Le celle sono piene, Sire! » esclamò una quarta voce, appartenente a Liffàr.                                                                                                                                
« Le abbiamo già terminate!? Uh, devo proprio iniziare a sgomberarle da quegli inutili scatoloni! » esclamò Vintarige.                                                                          
« Proprio così. Le consiglierei di farlo al più presto, maestà, non abbiamo molte altre stanze da adibire alla prigionia. Dunque, propongo di utilizzare la Torre Alta, dovrebbe esserci un’anticamera utile al nostro intento lì sopra! » suggerì Liffàr.                                                                                                
« Quale delle tre? » domandò Vintarige « La Torre Alta dell’ultimo è troppo lontana! Troppo poco sorvegliabile durante ogni ora del giorno e della notte »                      
« Non quella torre, maestà. Utilizziamo la Torre Alta del Palazzo, sarebbe impossibile fuggire da là su, sarebbe tante altre volte improbabile che qualcuno percorra i Corridoi dopo il trono, sire. E se dovessero farlo, a nessuno verrebbe in mente di recarsi nell’ Alta Torre dilaniata ed abbandonata. Sarà sotto il controllo e la supervisione di voi, maestà. Non gli occorre altro »                                                      
« Io non sorveglierò nessuno, da solo, in quella torre diroccata … maestà » enunciò Garmold. Oswald sapeva bene il perché, lungo il regno si mormorava che la Torre Alta del palazzo d’oro, raggiungibile dai corridoi sotterranei del Palazzo, ma non edificata su questo, era stata, in tempi addietro, folgorata e bruciata da un fulmine dalle enormi dimensioni. Ogni cittadino aveva paura di recarsi un quel meandro oscuro, ed aveva altrettanta paura di restarvi, solo e senza protezione, poiché si diceva che il fulmine non se ne fosse mai andato, e che, manovrato da uno dei molti déi, avrebbe colpito ancora una volta la Torre, nel momento di meno attivo soccorso.  
Vintarige non ascoltò le parole di Garmold, e lo sovrastò con le sue:                                           
« Sarà fatto, Liffàr, grazie del tuo servizio. Sarai ricompensato appena mi sarò liberato di questo peso alla caviglia! »                                                                        
« Vostro onore » lo salutò Liffàr, poi il suo passo delicato ed altezzoso fu avvertito lungo tutto il perimetro del Palazzo, che né aumentava il suono, vuoto e cupo, nell’eco della sala del Re. Pochi secondi dopo, il portone d’oro s’aprì, ed Alais ed Oswald, colti alla sprovvista, ebbero giusto il tempo di fuggire e nascondersi sotto una delle tante nicchie incavate nel prospetto del Palazzo. Liffàr procedeva nuovamente scattante in direzione della sua torre. Ma poco. prima che vi fu arrivato vicino, Oswald balzò fuori dal luogo che lo celava e si contrappose tra il telanor e la sua dimora.                                                                                                                
« Liffàr, signore! » lo accentò.                                                                                            
« Ragazzi … fossi in voi per prima cosa saluterei con dovere, e ancor prima, mi schiarirei forte la voce! » disse Liffàr avvistando anche Alais alle spalle di Oswald « Dunque, ditemi! »                                                                      
« Cosa gli faranno? » domandò Alais attanagliato dal nervosismo evidente, non badando alle precedenti parole del vecchio « Che faranno al folletto? »                        
« Quel che si merita, ahimè, nulla di meraviglioso! Ma questi particolari non sono indirizzati alle vostre orecchie, né tantomeno alle mie » farfugliò il telanor, in procinto di fuga.                                                               
« Lei non può permettere tutto ciò! La consideravo una persona giusta! » abbaiò Alais.                                                                                                 
« Ho fatto il possibile. Forse è arrivato il momento che io mi ritiri! »                               
« No » lo fermò Oswald « Cos’è che mi ha suggerito qualche momento fa, in piazza? »                                                                                                                  
« Di continuare ciò che ho iniziato io » disse Liffàr.                                                                                          
Alais iniziò a discutere con Liffàr, sosteneva che Vergar non aveva mai osato attaccare qualcuno, e doveva esserci riuscito poiché intimorito. Ma ad ogni accusa Liffàr giustificava Vintarige, ricordando che lui governava, e dicendo che nessun motivo era valido, abbastanza, da concedergli il diritto di prendere a pugni un suo superiore; il suo Re. Oswald ripensò alle parole del Telanor, quelle pronunciategli di fretta e furia, durante la presa di Vergar ed dello scalpellino Affard. “La Torre Alta si trova giusto al finir delle celle del primo corridoio, su una rampa di scale”; cos’è che veramente il Telanor voleva far intendere?                                                        
Interrompendo il dialogo tra Liffàr e Alais, Oswald sormontò le loro voci aizzandosi al loro cospetto, poi prese fiato e domandò:                                                          
« La Torre Alta è il luogo in cui porteranno Vergar, non è così? »                                        
Liffàr fissò il vuoto per qualche secondo e s’accarezzò l’irta barba nera, le labbra gelide e secche ed il volto greve. A quel punto, Liffàr si voltò senza discutere oltre, e proseguì in direzione della Torre Smeraldo, ancora una volta.                                                                                       
« Che intenzioni hai, Oswald? » chiese l’amico insospettito, lievemente tramortito, ancora incosciente di ciò che Oswald stava pensando.                                          
« Dobbiamo andare da Vergar, quest’oggi, al calar del sole! E’ l’ora in cui il Palazzo è quasi per lo più vuoto. Liffàr ci ha dato un chiaro ammonimento! Il folletto si trova sulla Torre Alta, e desidera che sia io che tu, cerchiamo di arrivare da lui » spiegò Oswald cercando di racimolare tutte le idee, tutte le informazioni, che fin ora gli erano state concesse.                                                                                                                                                                                               
« Ma non ti rendi conto di quale pericolo corriamo? » domandò Alais incredulo « Ci sarà sempre qualcuno al Palazzo, non lo lasciano mai vuoto. Tu non sai cosa si cela dentro quell’edificio, Oswald, oltre il trono e la Sala d’Oro. Le sue gallerie sono infinite, i suoi corridoi attraversano tutte le cavità interne di Darlas, giungono e scorrono sotto ogni casa, diramate tanto in profondità; come radici di enormi alberi secolari. Metteresti anche la tua famiglia in pericolo! »                                              
Oswald si prese un secondo per riflettere. Certamente non poteva costringere Alais a seguirlo, né poteva però rimettere la pelle per essersi insediato all’interno di luoghi cui non doveva vedere. Ma non poteva abbandonare il folletto nelle mani di quelle genti, lo avrebbero massacrato, con più di quanto il suo corpo avrebbe potuto sopportare. Per un attimo si rifiutò di ascoltare Alais, l’amico da cui ricavava conoscenza, e che più gli era sincero e fedele. E poi, lui stesso gli aveva detto di nutrire profonda ammirazione per il folletto Vergar, perché adesso voleva rinnegare ciò?                                                                                                                    
Oswald sorrise, un sorriso asimmetrico che gli coprì l’intero volto, mostrando tutti i suoi trentadue denti, ma che assolutamente non era un ghigno.                            
« Non preoccuparti Alais, andrò da solo! » disse Oswald « Dopotutto è una mia idea, e non voglio che tu ci finisca di mezzo! »                                                          
« Per quanto tu possa trovarmi coraggioso Oswald, io non lo sono affatto » mormorò Alais.                                                                                                            
« Non è così, io ti trovo coraggioso perché tu lo sei! Tu sai utilizzare una spada, meglio di chiunque altro qui in città probabilmente! O magari al pari di una guardia reale»                                                                        
« Oh, certo, maneggio con destrezza le spade, ma ho imparato a farlo con il tempo. Qui la questione è nettamente diversa; nessuno può imparare ad essere coraggioso come s’impara ad aizzare una lama, l’audacia nasce con l’uomo coraggioso; e questi, non a tutti i costi è un guerriero »                                                                                                                                                                               
La storia di Vergar, fu ripetuta così molto nei giorni successivi nel regno che – Oswald ne era ormai convito – presto sarebbe divenuto tutt’altro che una leggenda. Il tempo passò a Darlas, dopo quella grigia mattinata, del folletto non si udirono più voci né lamenti. « La prigionia sta facendo effetto! » questo si mormorava in piazza, tra un’anziana e l’altra, questo giungeva alle orecchie dei cittadini. E per un lasso di tempo non molto ristretto, si pensò addirittura a Liffàr come un mostro, uno spietato servitore del Re Inutile. Quanto al vecchio Affard, egli fu scarcerato e riportato tra le braccia della sua famiglia. Ma più passavano i giorni e più nel regno si vociferava di un processo, di un boia e di un’ascia, che insieme dovevano tornare utili per qualcosa riguardante il folletto. Oswald non mise più in atto il suo piano, non diede più orecchio alle parole di Liffàr, che risultavano ormai essere remote e perdute. Iranis, sua madre, aveva accolto l’idea non molto bene quando Oswald decise di parlargliene, e di raccontargli per filo e per segno l’accaduto. Più che una donna posseduto dall’ira, ad Oswald, quel giorno, sembrò l’ira fatta donna. Aveva cercato di persuadere la folle idea del figlio, che consisteva nell’intrufolarsi segretamente all’interno del Palazzo D’oro e aiutare Vergar nella fuga, giorno per giorni, senza finire per stancarsi nemmeno una volta. Ogni momento della giornata era ottimo per rifilargli quanto più poteva dire su storie e leggende riguardanti il Palazzo. Gli raccontò addirittura che le mura del palazzo d’oro erano un continuo scintillio di trappole mortali, al cui interno era conservato il sangue dei nemici uccisi, di quelli che, ancor prima di lui, avevano avuto la sua stessa delirante idea. Gli raccontò che le vie sotterranee conducevano ad inconsueti rifugi, a luoghi oscuri e bui, le cui strade non portavano mai più alla luce. Diceva che perdersi all’interno di uno di questi cunicoli lo avrebbe condotto inconsapevolmente alla, misteriosa e recondita, fucina di Darlas, un luogo di culto delle sei religioni, un posto ambiguo nel quale si riunivano alcuni stregoni oscuri e formavano sette e strane congreghe. Ma tutto ciò ad Oswald non faceva alcun peso, non badava alle storie che cercava di raccontargli sua madre, storie sicuramente inventate denotate da una mente ben organizzata, di cui Iranis disponeva certamente. Ed ella lo notava. Riusciva a vedere che le sue storie non scalfino in alcun modo la mente del figlio, e non lo inducevano a cambiare la sua idea. Così un giorno mentre erano entrambi seduti sul loro tavolo, intenti a degustare il cibo preparato per il pranzo, Iranis afferrò una mela da uno dei vassoi posizionati a centro tavola. Afferrando uno dei coltelli adagiati sul vassoio, solcò il frutto con la sua lama e ne fece uscire l’altra estremità dalla parte opposta. « Ecco cosa potrebbe succederti se Vintarige dovesse scoprirti! Bada a quel che ti dico, non pensare più a questa storia! Che lo liberi Liffàr quel dannato folletto! » gridò quel giorno, ed Oswald non poté fare a meno di ricordare alla madre che lui non era né una mela né un idiota. Ma questo continuò a non bastare, Iranis non era una donna dalle maniere facile, soprattutto quando si trattava della sua famiglia. La madre gli proibì, allora, di uscire di casa fino alla fine della stagione, ed Oswald, non riuscì più a ribattere o a distogliere dalla sua mente questo parere. Ma anche il suo anormale castigo passò in fretta, il destino stava forse aiutando Vergar, e Oswald. Una fresca mattina, di qualche settimana dopo, venne rispedito a comprare la frutta al mercato, nel frattempo che la madre, dolorante e sfinita a causa di un malore, era costretta a restare sotto le coperte del suo soffice letto. A dire la verità, Oswald non aveva più pensato a Vergar, dopo l’accaduto, forse a causa del tempo che ormai era passato dal quel giorno. Ma quella mattina, dopo essere passato dal mercato, sempre situato al quarto livello, non riuscì a non guardare il magnificente Palazzo D’oro, e i ricordi, che mai erano stati celati, gli tornarono freschi in mente. La porta del palazzo era costantemente aperta durante le ore mattutine, ed Oswald riflettendo decise di provare ad entrare, decise di provare a non ascoltare sua madre, e decise che ella avrebbe potuto attendere il suo ritorno. Ma allo stesso tempo una strana sensazione lo folgorò, stava per fare il contrario di quello che sua madre gli aveva suggerito, si stava prendendo gioco di lei che era troppo debole per ghermirlo ancora una volta, ed una parte di sé iniziò a voler credere a ciò che gli era stato raccontato. Mentre che l’altra parte, quella più ardita e temeraria, avanzava oltre le porte del palazzo. Mai i suoi occhi erano stati condotti fin là dentro, non c’era mai stato tale bisogno. Ciò che osservò lo abbagliò come la luce del Qesitay, al cui non aveva più pensato dopo così tanto tempo passato a cercare di persuadere la madre. Erano giorni che non stava nella pelle in attesa di questo momento, si sentiva come bruciare dentro, come se in certo qual modo fosse responsabile di ciò che Vergar aveva, fin ora, subito; perché non aveva da subito messo in pratica il volere di Liffàr. Ma pensò pure che il telanor aveva, magari, risolto già ogni cosa, e che il regno ne era rimasto inconsapevole.
Il palazzo d’oro era magnifico, il nome affibbiatogli gli si addiceva completamente. Era composto da tre differenti navate, lungo le due corsie sulla destra e la sinistra ciondolavano dei luccicanti candelabri, sei su ogni lato. Ed al centro, nella navata principale, si calava un grosso lampadario d’oro tempestato di rossi rubini. Oswald per un momento si chiese da dove era stato ricavato così tanto oro, e pensò che Galioph il Creatore, doveva essere proprio una persona coi controfiocchi. Un palchetto in legno si levava al finir della navata, e su questo poggiava un trono d’oro, che sembrava un sedile di materiale fuso, dato che questo si intersecava su di se stesso, la cui strana forma era simile alle corna di un cerbiatto. Ma questo era vuoto, e freddo, Vintarige al momento doveva non essere al palazzo. Com’era suo solito, d'altronde, non occuparsi di ascoltare le genti … ma starsene a discutere per farsi ascoltare da queste, e troneggiare senza un trono; su garzoni e villani, più torreggiante di un vero Re. Iniziò a proseguire lungo il corridoio del palazzo, un brivido pervadeva la sua schiena, un brivido gelido, eppure non aveva paura.                                        
Sapeva in cuor suo di non star facendo nulla di giusto, né nulla di sbagliato d’altra parte, e si ripeteva: “ La Torre Alta si trova giusto al finir delle celle del primo corridoio, su una rampa di scale”. Ma dov’erano le celle del primo corridoio?                                                                       
Le sue memorie si perdevano all’interno di quel luogo, tutto era così angusto, perfino le pareti erano ricoperte da strati di oro puro, e sul pavimento vi erano incastonati alcuni frammenti di quel materiale. Tutto lo spazio era suadente, immerso in un comune e silenzioso senso di pace e tranquillità. Oswald arrancò verso il trono, osservandosi più volte le spalle, controllando che non vi fosse nessuno né sulla destra, né sulla sinistra. Ma non vi era nemmeno la traccia di un uomo, e, notò con poca felicità Oswald, neanche quella di una porta, o di una piccola entrata, scavata nel soffice oro. Controllò ogni zona e non trovò alcuna porta. Soltanto nella prima navata, proprio accanto al tempio dedicato al Dio Qesi, vi era una porta in legno foderata da alcune striature di vecchio e malandata ferro. Ma Oswald non provò nemmeno ad addentrarvisi, qualcosa lo turbava, quella porta così vicino al luogo di culto di Qesi non prometteva nulla di buono, ed era anche restio ad avvicinarvisi; forse le storie sulle strane congreghe di sua madre avevano avuto fin troppo effetto. La statua di Qesi, il dio della Luce, sembrava che lo stesse fissando, lo sguardo vuoto ed incosciente, incapace, in quanto realizzato in fine marmo, di esprimere qualsiasi impressione. A Darlas, uno degli dèi a cui era riservato il culto era proprio Qesi, conosciuto anche dalle tribù nomadi, e da alcuni popoli del settentrione, come Stella della Luna Calante. Si narrava che egli avesse formulato agli albori, la luce, e che, ancor meglio, l’avesse rappresentata totalmente. Non era affatto strano trovarlo all’interno del Palazzo d’oro – benché comunque lo si trovava menzionato in ogni ponderoso volume risalente ad anni assai precedenti – forse perché la luce del Dio, era sinonimo dello splendore emanato dal Palazzo. Da qualche parte, due navate più in là, una spessa parete s’aprì emanando un fastidioso cigolio metallico, all’orecchio, ma frutto dell’oro.                                                                                             
« Maestà » chiamò quel grosso omone che ne era sbucato. Le sue parole librarono lugubri nell’aria, e rimasero sospese nel Palazzo, l’eco poi ne aumentò il volume. Oswald, terrorizzato, corse via dal fianco della statua, ed arrancò verso il Trono. Era l’unico spazio in cui potersi celare alla vista di quel grosso tizio. Salì lentamente i gradini in legno che conducevano al trono, poi si fermò per un lungo momento dinanzi a questo. L’omone era voltato verso la vetrata, in ginocchio, ma completamente solo. La luce che proveniva dall’esterno, filtrata dal vetro, abbagliava il suo capo calvo. E, di spalle, sembrava avesse una fisarmonica di rotoli di adipe sulla pancia, che gli pendevano a cascata, giungendo addirittura al di fuori della rossa veste a larghe maniche. Oswald, pur dubitante della sua memoria in quell’attimo tremolante, riconobbe di non aver memoria di quell’uomo. Oswald si raddrizzò. Aveva paura. Poi, si nascose dietro al sontuosissimo trono d’oro.                                      
Quando l’uomo si fu alzato da terra, girò il suo capo guardingo, doveva aver udito qualcosa. Oswald strinse le palpebre, sempre più convinto di aver fatto un errore entrando in quel posto. Poi, quando osservò ancora una volta la base della grande vetrata, egli era sparito, e la parete da cui era fuoriuscito stava cigolando nuovamente, accompagnata da un tonfo alla chiusura. Preferì rimanere eclissato dietro al trono, ancora un per un po’ magari, il sudore grondante dalla fronte, gelido e agghiacciato quasi quanto Oswald stesso. Era accovacciato accanto da una strana porta d’ebano scuro, proprio dietro al trono. Qualcosa nella sua testa lo fece riflettere, qualcosa gli disse che forse quella era la porta corretta; in quell’istante l’unica cosa che provò a fare fu cercare di rammentare le parole di Liffàr e Vintarige, origliate tempo prima. Ricordò dei suggerimenti nella parole del telanor; “Improbabile che qualcuno percorra i Corridoi dopo il trono” e poi aggiunse “La Torre Alta si trova giusto al finir delle celle del primo corridoio, su una rampa di scale" . Era tutto lì a portata di mano, Liffàr gli aveva dato dei limpidi suggerimenti, ed egli, adesso che li aveva compresi fin in fondo, doveva soltanto attuare il suo piano. Allungò il braccio e spinse la porta, alzandosi dal pavimento. Il clangore metallico, simile a quello di due lame l’una sbattuta contro l’altra, era assordante, e riecheggiava nella Sala Reale.   
Dentro l’aria del lugubre corridoio era gelida, Oswald ne ispirò una profonda boccata, facendo sì che il freddo lo invadesse. Poi, barcollando più volte, prese a scendere una ripida scalinata di pietra, ed era molto difficile percorrerla;  i gradini erano stretti e corti. La scala s’ingarbugliò all’interno della sua stessa architettura, s’intrecciò sempre più in fondo, ed iniziò a percorrere le profonde cavità terrene. Per un lungo momento Oswald, rabbrividì ancora una volta. Poi, meravigliato per l’improvvisa conclusione della rampa di scalini, percorse un’altrettanto stretto corridoio oscuro, ai cui lati s’aprivano alcune celle, rimpinzate da soli scatoloni e bauli di legno. Percorse moltissimi metri nella buia oscurità che lo attanagliava, solo ed esanime, in cerca del punto in cui la via finisse. Più camminava più il luogo da cui era sceso si allontanava da lui, sopra la sua testa non giaceva più il Palazzo d’oro, adesso stava attraversando le viscere sotterranee del regno, passando magari anche sotto la sua stessa casa.
Era ancora in piedi, per sua fortuna, quando arrivò al termine del corridoio. Alcuni pilastri di pietra s’ergevano di fronte a lui, proiettando sottili ombre lunghe sul suo corpo, stranamente lunghe e contorte, per quanto poca luce le riusciva a produrre. Attonito scorse una strana rampa di scale, curva, nera, stretta e distrutta. Non c’erano altre vie attorno a lui, se fin ora il fato - del quale non si era mai fidato - lo aveva accompagnato fin lì, allora quella doveva essere l’esatta via da percorrere. Salì la ripida serie di scalini posti sotto i suoi piedi esitanti reggendosi sulle tante scanalature presenti sulla roccia corvina, incerto e timoroso. Più saliva tanto più l’aria si faceva rarefatta, e luce intensa e penetrante. Poco dopo, ancora aggrappato ai solchi sulla parete rocciosa e nera, il suo volto venne abbagliato, non più dalla luce delle torce ardenti, ma da quella del sole del cielo turchino. Quando la rampa si fu conclusa, Oswald giunse nell’Alta Torre. Come ben sapeva, la Torre era stata folgorata in passato da un fulmine dall’abnorme potenza, difatti le pareti dell’edificio erano incenerite, increspate completamente di nero, anche se in alcuni punti si scorgeva ancora il grigio del remoto passato. La torre era scoperta, le mancava tutto il tetto, e la parte superiore era radicalmente crollata, lasciando soltanto qualche pietra, poi levigata con gli anni, dinanzi alla sommità del cielo.  Dal suo pavimento sbucavano dei pilastri, appartenenti ad antiche costruzioni giacenti sul torrione, ma adesso, erano spenti e vuoti. Tra due cavità, chiuso da una strana inferriata di ferro e piombo, giaceva accigliato tra le scartoffie ammassate, le polveri, i residui di granito ed i ciottoli non ancora smorzati, Vergar Lewin, il folletto delle Isola della Primavera. 
Oswald corse in direzione dello strano giaciglio in cui era rinchiuso Vergar, prese un respiro di sollievo alla vista del folletto; finalmente era riuscito a trovarlo.
« Vergar … » mormorò Oswald stagliato fin troppo vicino alla prigione del folletto.                                                                                                                             
« Non gradisco né cibo né acqua, da voi, servi dell’inutile » farfugliò Vergar rivolgendo le spalle ad Oswald « Potete andarvene ora, avverto il vostro respiro affannato lungo la mia schiena! Avete davvero paura di venire a trovarmi qui sopra!? Che gli déi mi perdonino per quello che sto per dire; che il Gran Fulmine vi folgori per davvero! »                                                                                                                                                                                                                                   
« Vergar, non sono nessuna delle guardie … mi chiamo Oswald … Oswald Polfinger, guardami » tentò Oswald.                                                                                 
Il folletto si girò lentamente in direzione del ragazzo, ma non voltò l’intero busto, solamente il capo e gli occhi che gli erano d’ausilio per osservare. Oswald riconobbe a stento Vergar, il suo volto era annichilito, ossuto e scarno, le sue labbra violacee e sottili, ed i suoi occhi quasi incavati. Era anche sporco di cenere e polvere, ferito ovunque lo si guardasse.                               
« Conosci il mio nome? Come? »                                                                                     
« Davvero pensi che nel regno la notizia non si sia propagata? »                                     
Vergar lo squadrò, lo sguardo spento e buio.                                                                                                                                    
« Quante volte al giorno ti portano da mangiare? » chiese Oswald.                                                            
« Una o due, alla settimana … mai al giorno! » rispose Vergar che, pur avendo perso la sua carne ed il cibo, non aveva smarrito il suo tono di voce rasserenante, e la sua dignità, il suo valore morale e la sua onorabilità « Dimmi … ci conosciamo? »                                                                        
« Non ancora » rispose Oswald « Cos’è che ti ha ridotto in questo modo? »                                                                                                                                     
« Oh, vuoi dire queste ferite? Devi sapere che le guardie di Vintarige, e forse anche lui stesso dato che spesso non riesco a vedere chi mi ferisce la notte, hanno una strana passione per il tiro del calcinaccio, cui qui non smette mai di mancare! Si divertono talmente tanto che potrebbero anche morire asfissiati dalle frastornati risa quando lo fanno, devi proprio vederli! Anzi suppongo che le loro sghignazzate echeggino per tutto il regno, la notte, non occorre vederli per capire ciò di cui ti sto narrando »                                                                                        
Oswald rabbrividiva al solo pensiero, ed era frastornato dalla sola idea.                                                                                                                                            
« Devi ringraziare Liffàr per la mia presenza qui, questa mattina! Mi è stato d’aiuto, mi ha suggerito come arrivare a te! »                                                                    
« Liffàr … spero tu stia scherzando! Anche lui si è rivelato il mostro che è sempre stato! Un codardo. Non è che tu stai cercando di aiutarlo? Oh, non dirmi ragazzo, forse anche tu fai parte della sua squadra? »                                                                                                                             
« Liffàr non è un mostro, fidati, lui mi ha aiutato ed ha aiutato anche te. E … » le parole gli fuggirono quasi alla bocca, non sapeva cos’altro aggiungere « Ed io non sto aiutando nessuno! O meglio, forse soltanto te! »                                                                                                                                             
Vergar lo squadrò dalla testa ai piedi. Oswald non lo aveva mai avuto così vicino da quanto lo aveva conosciuto, quel giorno, sulla strada, ed era veramente molto disarmonico e sproporzionato.                                                 
« Ho qui qualcosa per te » aggiunse Oswald afferrando il fardello che consuetamente legava al petto; ne estrasse una decina di mele comprate qualche ora prima per sua madre, che stava ancora attendendo il suo ritorno « Prendile e mangiane alcune! Non ti consiglio di mangiarle tutte di fretta, conservale e nutriti a porzioni, non ti arriverà altro cibo nei prossimi giorni! »                                                                 
« Non prendo nulla, affatto! » mormorò Vergar « Voglio prima assicurarmi che tu non voglia uccidermi! Mangiane metà per me! La mela la scelgo io »                          
« Davvero non ti fidi della mia parola? E sia! »                                                                            
Vergar gli mostrò la mela ed Oswald l’addentò bruscamente, il rumore della sua mandibola in procinto di frantumazione era assordante in quella gelida torre scoperta.   
« Ecco fatto, sano proprio come la mela che ho appena ingoiato! »                                                                                                             
Vergar gli rivolse ancora un altro sguardo rammaricato ma piano di ilarità. Poi allungò il suo braccio corto e tirò a sé, una ad una, le mele.                                           
« Questi ciottoli non mi indeboliscono, non preoccuparti » mormorò Vergar afferrando l’ultima mela « Al contrario, più continueranno a scagliarmene, più avrò in mano la situazione. Lo fanno da ubriachi, quei monchi, la notte, te l’ho già detto, non si accorgono di nulla. Come ben sai tutti temono il peggio su questa torre, sono allo sbando!»                                                          
« Io penso che Liffàr ti abbia agevolato, come vedi … è una buona persona! »                                                                                                                                
« Se mi avesse agevolato di certo non starei qui. Bada ben a quel che dici, giovane Polfinger »                                                                                              
Oswald si limitò a fissarlo con uno strano sguardo cupo che non era da lui, non aveva altro d’aggiungere per il momento. Ma poi aprì nuovamente la bocca:                  
« Per quale motivo ti sei rivoltato contro Vintarige!? Dovresti riconoscere che Liffàr non poteva farci nulla alla fine! Ma tu non avresti dovuto farlo! »                            
« Ah ecco, tu sei uno di loro! Stai difendendo Vintarige, l’Inutile Re » mormorò il folletto a denti stretti.                                                                                
« Oh no, non intendevo affatto questo, Vergar » si corresse Oswald « Voglio dire, perché lo hai fatto? Non dovevi tirarti in ballo all’interno di quella discussione! »         
« Voleva demolire Galioph, e ferire lo scalpellino. Quando sbarcai lungo le coste di Anvea, anni fa, ero più barbuto che mai, più irsuto e scarno d’adesso! Il primo luogo in cui mi diressi fu Arsalan, al Forte del Drago, ma Eriglion, Lord del Forte, non accettava la presenza di mezz’uomini e bestie nel suo castello. Così fui cacciato, e per giorni, forse settimane, vagai per le terre in cerca di luoghi in cui dormire e mangiare. E poi, giungendo al nocciolo, arrivai lungo la sponda dell’Aranel, qui giù, a Darlas. Galioph con il suo regno mi offrì protezione, Aglarend con il suo buon dominio, mi offrì una casa. Tutto l’opposto di quel che ora mi sta giungendo da Vintarige, suo figlio! » sbraitò Vergar, in un piagnucoloso urlo straziante « E Galioph mi ricorda molto Sir Deniavor, il Signore di Giorno Splendente, il mio Lord »                      
Oswald era molto commosso dalla storia, notò che, proprio come aveva detto Alais, i folletti non erano molto tollerati nei regni degli uomini. « Mi spiace davvero tanto »
« Oh, non devi dispiacerti! » disse Vergar « Non importa »                                                                 
Oswald osservò il cielo sopra al suo capo, il sole era ancora stagliato sull’azzurro.                                                                                                                           
« E’ proprio ora che io torni a casa, mia madre non vorrebbe che io stessi così vicino a Vintarige »                                                                                 
« Ammiro tua madre! » lo bloccò Vergar.                                                                                       
« Devo proprio lasciarti ora, Vergar, continua a resistere! Troverai il modo di uscire da qui, Liffàr ti aiuterà ancora … ne sono sicuro. Nel contempo bada bene alle mele che ti ritrovi, fattele bastare per un po’, temo che non ci rivedremo ancora! Che i tuoi ed i miei déi sappiano proteggerti »                                                          
Vergar spinse il suo corpo in avanti barcollando lievemente, e si inchinò al cospetto di Oswald, in segno d’onore e saluto. Prima di girare le spalle Oswald lasciò cadere una boraccia marrone, stracolma di acqua fresca che poco prima gli ciondolava sul petto, giù, nel gelido pavimento imbrunito.                                                                            
Il trono del Re, era ancora luccicante e vuoto quando Oswald sbucò fuori dalla porta in ebano scuro, percorrendo la via a ritroso, dalla quale era arrivato alla Torre Alta. Stava per percorrere in corsa l’Atrio del Palazzo, la Sala del Trono, quando le sue gambe ancora in movimento ricevettero l’ordine di fermarsi bruscamente. Per un attimo ansimò vapore da ogni poro, si sentì pervaso da un forte senso di impotenza e di spavento. Di fronte alle porte del Palazzo D’oro, adesso chiuse momentaneamente, discutevano animatamente Liffàr e Vintarige, entrambi scarlatti in volto.                                                                                                             
« Maestà, questo è un inutile ragionamento! » deglutì Liffàr cercando di mantenere un tono di inferiorità « Posso parlare con franchezza? »                              
Vitarige agitò la mano come a scacciare invisibili moscerini che tentavano di raggirarlo.                                                                                                                    
« Tutto ciò è una pazzia, volete davvero che Darlas attraversi ancora un volta l’orlo della distruzione? » domandò corrucciato Liffàr.                                       
Vintarige non rispose, si limitò a corrugare la fronte, visibilmente a disagio.                                                                                                                                     
« La paura vi avrà offuscato il cervello Sire, lasciatevi persuadere dalle mie parole, vi prego! »                                                                                                          
« No, sbagli Liffàr. Io non sono spaventato. Sono impaziente, attendo le forze di Neralguna più di ogni altra cosa, sono pronto ad inchinarmi al loro cospetto, se è tornato io sono pronto a servire le schiere. Ne ricaveremo vantaggi, vecchio uomo del vento, saremo posti nell’avanguardia! »                                                                       
« A meno che » riprese Liffàr tornando a fissare Vintarige negli occhi « essi non abbiano ulteriori piani, da voi sconosciuti maestà! »                            
« Vi state mettendo al suo stesso imparagonabile livello, maestà, al suo stesso piano di crudeltà! »                                                                                                 
« Parlare con franchezza non significa insulare il tuo Re, Liffàr! Ora basta, è deciso, non aggiungo altro. La parola del Re è parola divina, non si contesta; non si mette in discussione. I saggi consiglieri mi hanno giustamente suggerito il giusto, e questa sarà la strada che seguirò. Nessuno, e sottolineo, nessuno, oserà interporsi tra me ed il mio piano di gloria, o lo estirperò con le mia mani.                                                        
Per qualche minuto, nella sala incombette il silenzio. Liffàr si accarezzava la fronte dolorante, una vena gli pulsava sulla pelle, probabilmente, anzi sicuramente, non sapeva cos’altro dire.                                                     
Oswald, si scostò leggermente dal trono, intento a scrutare meglio la situazione, sempre in cerca di un modo per fuggire. Nel tremore che lo invadeva, una mano grassoccia gli scivolò giù per la spalla, tirando a sé anche la veste in cui erano imbavagliata; una setoso abito giallo a larghe maniche.                                              
« Maestà, questo ragazzo stavo origliando! » urlò il grasso uomo, lo stesso che qualche ora prima Oswald aveva visto uscire da una parete della Sala. Gli occhi di Vintarige si scaldarono, così come il sangue che circolava nel suo cervello, d’un tratto corse in direzione del suo trono.                                                                      
« Un intruso! » gridò Vintarige acchiappando Oswald e lasciandolo scivolare dalla mano del grosso tizio « Come ti dicevo, vecchio Liffàr, questi tipi non meritano di stare nel mio regno! »                                                                                                                                                                         
L’ omone si avvicinò al Re, coperto dalla sontuosa ed elegante veste gialla « Stava origliando, mio signore, probabilmente da non poco tempo! »                                
« Cos’hai sentito!? Parla se non vuoi che ti tagli la lingua, miserabile »         
Oswald, in quella frazione di secondo, ripensò agli avvertimenti di sua madre, ad Alais ed a Liffàr. Non avrebbe dovuto trovarsi lì, senza alcuna protezione, solo e morente come un pesce nella giungla.                                    
« Maestà, io … » mormorò Oswald in cerca di una risposta da fornire.                                     
« Era con me! » sbraitò velocemente Liffàr « E’ colpa mia se si trova qui, ed ancor più se era dietro al trono. Dev’essersi perso quando voi mi avete detto di seguirla, sire. Le Sale del Re sono immense e confusionarie, lo avete detto voi stesso poco prima »                                                                                         
Liffàr afferrò Oswald e lo avviluppò nel suo manto grigio, respingendolo da sguardi troppo severi.                                                                                                    
« Personalmente, maestà, non ricordo di aver visto entrare il fanciullo a corte, questa mattina » s’intromise l’uomo grasso.                                                                
« Allora ti consiglio di aprire quegli occhi che ti ritrovi, non sono lì per restare serrati anche di giorno » sibilò Liffàr costringendo il grasso ad abbassare lo sguardo sul pavimento, lasciando il vista soltanto la testa spoglia.                                                                                                                                    
Poi trainò Oswald lontano dalla Sala, avanzando con fatica in direzione del portone, lasciando alle sue spalle gli sguardi interrogativi e perplessi di Vintarige e del suo consigliere.                                                            
« Ne verrò a capo Liffàr, non prenderti gioco di me, abbi solo pazienza! Basterà poco tempo ed anche tu ti ritroverai in un grande, grandissimo dilemma »                     
« Tempo che tu stesso stai perdendo! » sottolineò Liffàr, rivolgendosi al suo Re con un altro tono, e chiudendo alle sue spalle le porte del Palazzo.                              
Il sole allungava i suoi raggi lucenti, come dita del polso di una mano, all’interno del regno, contornando case ed abitanti, alcuni sereni altri tesi, ma mai quanto Oswald.
« Liffàr, signore! » schiarì Oswald « La ringrazio ancora, una volta, ha fatto tanto e troppo per Vergar! »                                                                                    
« Non parlare di queste questioni qui, ragazzo, forse è meglio che tu fugga a casa, su, non perdere altro tempo! »                                                                  
Oswald prese alla lettera gli ordini del telanor, e corse, caotico e tutt’altro che quieto, verso casa. Sapeva cosa lo attendeva, il calore della sua casa. O meglio, non c’era soltanto il calore della sua dimora ad attenderlo. C’era l’ardore dell’alloggio e sua madre.                                                                                         
Era esattamente mezzo giorno, quando Oswald posò frutta comprata al mercato sul tavolo, pulito e lucido, della sala da pranzo. Sua madre si era leggermente ripresa, e adesso era immersa nel sistemare i punti del suo ricamo, di nuovo.                                                                                               
« Dove sei stato Oswald? » chiese tutt’un fiato senza neppure guardalo entrare.                                                                                                      
« Al mercato, ovviamente » mentì lui, che sapeva di farlo per una buona causa. Se avesse saputo la verità, si sarebbe irata come non mai. La madre lo squadrò dalla testa ai piedi, gli zigomi perfettamente scolpiti dalla cipria sul suo volto vellutato.                                 
« Per tutti gli déi, è già ora di pranzo! » esclamò Iranis gettando a terra i punti del suo ricamo, ora che forse aveva creduto alla farsa di Oswald. Per la prima volta, in vita sua, era riuscito ad ingannare sua madre. Ma si sentiva pervaso nel suo profondo da uno strano senso di rammaricato disprezzo, come se anche lei lo avesse imbrogliato.                                                            
« Ah, Oswald, stamane mi hanno portato delle lettere … ce n’è una indirizzata a te! » mormorò la madre « Non mi sono presa la briga di leggerla, prova un po’ a vedere». 
Gli indicò con le lunghe dita della sua mano, una serie di buste avorio sulla mensola, accanto ad una teiera.                                                                                   
« E’ quello strano rotolo di pergamena! »                                                                                                                        
Oswald prese il sottile foglio arrotolato su sé stesso, cingendolo tra le sue mani. Lo strano messaggio, incognito, era chiuso da uno strano lucchetto in ceralacca viola, smaltata da alcune sfumature di nero. Staccare il lucchetto non fu un impresa facile, cercava di non rovinare la stesura del foglio color avorio, e ci riuscì. Ciò che lesse lo meravigliò così tanto, da fargli sbaragliare ancora una volta i lucidi occhi:                                                                                                                          

                                                                                                                                                                                               Calengol, Selvor.
                                                                                                                                                                        Diciassettesimo anno del S(es).E.
Caro Oswal Polfinger,                                                                                                                          
 
ti invio questo messaggio dal Gorgoglio. Non mi aspetto che tu abbia memoria di me, ma tua madre dovrebbe riconoscermi. Iranis Melin era una mia amica di vecchia data, prima ancor che conoscesse suo marito Jorin. Bando alla ciance, ho saputo che qualcosa ha suscitato il tuo interesse qualche mese fa, qualcosa il cui nome è andato perduto con gli eploghi. Lo chiamano Qesitay, la gemma della luce, un qualcosa che tua madre dovrebbe saper’essere tanto pericolosa. Rammento te che si tratta di un gingillo dell’oscuro dio, il Signore dei Sire, suppongo già tu sappia tutto ciò. Se ti sto scrivendo, ignora la fretta che sto porgendo nel formulare queste parole, sappi che ho bisogno di parlarti faccia a faccia. Ci incontreremo al Gorgoglio, questa sera, sono sicuro che saprai riconoscermi; sono un lepricauno del Reame Verde di Calengol.                                                                                              
P.S. Probabilmente il destino e l’avvenire di molte cose, potranno dipendere da questa conversazione, ti prego di non mancare.                    
Con la speranza che, dopo aver letto ciò, continui a stare bene,                                                                                  

                                                                                                                                                           Il vecchio mercante Oliver Barbatuil.


Oswald era confuso e spiazzato, non riusciva a comprendere una sola parola. La scrittura fine ed esule, curata e sottile, gli sembrava un intersecarsi di rami di un albero, e ciò rendeva ancor più temeraria l’impresa. Porse la lettera anche alla madre, che, scioccata, parve leggerla in attimi istantanei. Anche perché, nell’ultimo mese, aveva tentato di badare alla gemma.                                                                                                                                                                                   
« Oliver Barbatuil » mormorò « Se non sbaglio era quello strano ometto che portava il miele lepricauno da Calengol, anni fa. Lo conosci sicuramente! Ricordi che ti faceva salire sul dorso del suo grande bestione, e tu scalciavi? Eri ancora piccolo, me ne rendo conto … »                                                                              
Oswald non pareva ricordare nulla di quei momenti, gli sembrava che la madre stesse parlando di qualcosa a lui estraneo.                                        
« Io ti avevo tenuto in guardia, figliolo » piagnucolò Iranis « Quel mostruoso artefatto non è prodotto per stare tra i vivi! Siano maledetti gli inferi e Garmagan! »
Oswald aveva uno sguardo vuoto e perso nelle parole della madre, sconcertate e terrorizzate.                                                                                                        
« Devo farlo? » domandò « Questa sera devo andare da lui, pensi che sia prudente? »                                                                                                                     
« Non so più cosa sia quella parola, Oswald. Non andrai solo, verrò con te. Devi imparare a non fidarti delle altre persone, specie se sconosciute, quando chiedono la tua presenza » illustrò la madre « Non avere paura, non potrà accaderci nulla, occorre fiducia però. E’ la sola cura conosciuta contro la paura, figliolo »                                                                                                                                             
Il loro passo era tortuoso quella sera, lungo i viali del regno. Iranis indossava un lungo abito turchese a larghe maniche, molto elegante. I suoi capelli erano stretti in una treccia ramata che le pendeva dall capo fino al petto. Il suo volto era imbavagliato da un cappuccio di soffice tulle bluastro. Oswald aveva con sé la sua consueta casacca ed un giaccone porpora cinto alle spalle, camminava dietro la gonna della madre, come fosse terrorizzato dal solo pensiero, come un bambino che cerca protezione nelle orme dei genitori. La strada che stravano percorrendo era buia, e si trovava al terzo livello del regno. Stagliato contro il cielo della notte, uno strano locale costruito in legno si ergeva di fronte a loro. Il volto di Iranis era accarezzato dalla leggiadra forza del freddo notturno, proveniente da est. L’edificio era illuminato da alcuni speroni con delle torce accese, dal suo interno, sul viale si riversavano vocii e urla. La gente dentro si stava divertendo, sicuramente, a differenza sua che avrebbe addirittura preferito non aprire la porta della locanda per addentrarvisi. Il Gorgolio, la locanda più prestigiosa di tutta Selvor e dintorni, era un locale caldo ed accogliente. Sulla soglia dell’edificio, ciondolante dall’alto, ricadeva verso il basso un insegna. Vi era un grosso pentolone gorgogliante impresso, ed una scritta sottile e rossa: “Buono l’amico, buono il parente; triste la locanda in cui non si trova niente.”
 Urla in festa immersero immediatamente Oswald e sua madre nel bailamme comune, ogni cosa era tirata da una parte all’altra della locanda, piatti, mortai, calici e tazze. Tutto era immerso in un vocio persistente, Oswald e sua madre riuscivano a comunicare esclusivamente con gli occhi, tirandosi di tanto in tanto sguardi fugaci di ammirazione e risentimento. La locanda era spaziosa e dimessa, ma offriva ad i suoi avventori un lieta accoglienza ed una atipica atmosfera da taverna. Ivi erano tre zone all’interno dell’edificio, tutte separate da arcate circolari ben rifinite. Le finestre sulla parete erano tonde come delle lune, a bifora, e tale era la luce che proiettavano fuori. Al centro della locanda, sedeva il gestore Brop, un uomo addentrato nel cuore dell’età, grande e grosso, con folte basette grigie. Sulla destra pendeva alcune scale a chiocciola che conducevano alle stanze per gli ospiti, e sulla sinistra vi erano i camini e le tavolate per le cerimonie. Tutta la sala centrale era piastrellata di tavoli rotondi, con tre o più sedie, a seconda della necessità. Iranis si avvicinò a Brop, poggiando le lunghe dita sul bancone sporco della locanda.                                       
« ‘Sera, signore » lo salutò educatamente « Potrei chied … » iniziò, ma venne fermata dall’omone.                                                                                                    
« A lei, donna, carissima avventrice della nostra locanda. Dopo la pioggia dello scorso mese i cavoli, freschi e vegeti, sono bel lieto di annunciarle, hanno avuto una rapida crescita! Pertanto, il vostro Brop vi offre una sostanziosa cenetta. Paste fredda con saporitissimo cavolo ben cotto e speziato, come primo piatto; spezzatino con funghi e cavoli o pancetta cotta alla brace con contorno di cavoli aromatizzati, per il secondo piatto; e per finire in bellezza dei cavoletti sott’olio. Il tutto accompagnato da una pinta di fresca e deliziosa birra! » annunciò Brop esilarato e sorridente.                                                                              
« Temo … » riprese la madre « temo di aver sviluppato una precoce intolleranza al cavolo, signore ». Ad Oswald sfuggì una risata, il faccione curvo di Brop si era squadrato completamente, e pareva essere incuriosito dalla donna.                                                                                          
« Brutta cosa, tanto! » mormorò « Oh, attenzione! ». Un calice di vetro gli sfiorò il volto per pochissimo, gli trapassò perfettamente il lo zigomo infrangendosi contro la parete. Sotto gli occhi tramortiti della donna, Brop urlò:                                                                                                    
« Mannagia, Falae! »                                                                                                                          
Un uomo, completamente fradicio, ballava sopra una delle tante tavolate accanto ai caminetti, nella sala sulla sinitra. Falae l’ubriaco, danzava spiegando le gambe e saltellando, e vociava.                                                                                                                                                              
Oswald e sua madre si allontanarono dal bancone di Brop, ma prima che ebbe voltato il suo volto, un successivo uomo s’avvicinò al gestore.                                      
« ‘Sera signore » lo salutò Brop.                                                                                                            
« Jorah Marrister, è il mio nome » sottolineò l’uomo sui cinquant’anni.                                                                                                                                         
Poi Oswald si girò completamente dall’altra parte. Sua madre correva lungo tutta la locanda, a gambe levate, sotto la gonna turchese. Poi si fermò completamente, osservando con stupore ogni singola gente. Un uomo tarchiato, trasandato e stanco in volto, sedeva su uno sgabello di legno, le gambe incrociate sotto il tavolo e gli stivali rovinati terminanti con una punta affusolata.                                                                                                                                       
« … zaffiro di zaffiro,                                                                                                                                                                                            
speranza in ogni dove;         
nel docile clangore,                                                                                                                                                                      
zaffiro di zaffiro »   
                                                                                                                                            
« Che splendido cantico, signore! » sbraitò la donna che contemplava l’uomo « Da dove proviene questa idilliaca musica? »                                                              
« Direttamente dai Reami Verdi di Calengol, mia lady »                                      
Gli occhi della donna luccicarono, forse non quando quelli di Iranis.      
« E’ quello Oswald, va’ da lui! » gli bisbigliò.                                                                 
« E tu? Tu non vuoi ascoltare cos’ha da dirmi? »                                                      
« Non occorre, me ne parlerai quando tutto sarà finito. Mi apposto di là, non badare a me »                                                                                                
Oswald si limitò ad annuire e proseguì, lasciando sua madre alle spalle, in direzione del lepricauno. Era uno strano ometto, quello, della stess’altezza di Vergar. Sembrava sprizzare gioia e felicità da ogni poro, rideva e beveva boccali di birra, era tipico di lepricauni essere completamente, in ogni momento, contenti ed appagati. Avvicinandosi sempre più, quando la donna dai capelli biondi ebbe lasciato il posto vuoto di fronte all’ometto, Oswald avvertì uno strano odore sgradevole, di quello che emanano gli oggetti tarchiati ed antichi, come quello di Brop, ma riassunto in un corpo più piccolo. Sicuramente era trasandato per il viaggio, dato che da Calengol fino a Darlas la strana non era poca, ma neanche molta. Portava ancora con se i segni di una lunga e ardita cavalcata. Il suo volto era completamente ricoperto dai segni di una vita vissuta, da una folta e lussureggiante barba grigia che scendeva in grandi ciocche oltre le ginocchia, come una cascata di peluria. I suoi occhi erano piccoli e luminescenti, come frammenti cobalto di gioielli incastonanti in un piccolo volto. Le guance rubiconde potevano a mala pena essere scorte, attanagliate dalla barba. Oswald prese posto accanto all’uomo, impassibile di fronte ad ogni suo movimento.                                                                        
« Oliver Barbatuil? » chiese sempre all’erta.                                                                                                                         
« Ecco giungere Oswald Polfinger » sbraitò radiante « il giovane dai mezzi termini! »                                                                                                             
Oswald parve rasserenato, e sospirò profondamente.                                                                            
« Temevo che non fossi mai arrivato, stentavo a credere che fossi giunto a me, senza conoscermi, senza aver fiducia » puntualizzò.                                                
« La fiducia è l’unica cura conosciuta contro la paura » disse Oswald, rammentando le parole della madre.                                                                                        
« Come darti torto, mio caro Oswald! » mormorò il lepricauno                       
« Dovrei presentarmi, sono Oliver Barbatuil, di Calengol. Vecchio mercante dei regni di Selvor, non hai memoria di me, non è così? »                            
« No, affatto »                                                                                                                                                                                                                            
« Ecco, come temevo. Gradisci una calda tazza di tè? » domandò Oliver.                                                                                                                            
Oswald annuì leggermente.                                                                                          
« Allora sono due » disse afferrando il gomito di uno dei camerieri « due tazze di tè! »                                                                                                          
Oswald cercò con degli sguardi veloci e fugaci l’ombra di sua madre, desiderava che anche lei lo stesse guardando. In quel momento la sua supervisione era ciò che gli occorreva, più di ogni altra misera cosa. Era seduta appena dopo qualche tavolo più in là, e beveva qualcosa da una tazza di strano avorio contorto, simile ad una zanna di elefante levigata e sgusciata. I suoi occhi, profondi e cupi, erano riversati attentamente sul figlio, le sue orecchie non si lasciavano sfuggire un solo movimento.                                                                                                                                   
« Dove hai lasciato quella buona donna di tua madre? » domandò Oliver.                                                                                                                         
« Oh, ha preferito restare a casa »                                                                                                     
Oliver lo fissò con uno sguardo tagliente, poi riprese:                                 
« Ti starai chiedendo per quale motivo ti ho convocato qui … temo che tu abbia capito ben poco dalla lettera, anzi, lo credo proprio dato che non ho potuto scrivere con la dovuta calma necessaria. Conosco il tuo nome, perché ovviamente come ti avrà detto tua madre, ti conosco da quando eri poco più piccolo di così! » gesticolò mettendo le mani una sopra l’altra, a distanza di una trentina di centimetri.            
« Ogni informazione di cui sono provvisto, mi viene concessa dall’anima del bosco di Calengol, egli conosce ogni cosa di Selvor, e le sue sono notizie certe. Ma tutto ciò non ci interessa in questo istante. Qualcosa, mesi fa, è venuto tra le tue mani, che lo hanno accolto inconsapevolmente! Per il dio dei boschi, Oswald, Iranis non ti ha avvertito? Perché  non hai scagliato via quel Qesitay!? » domandò Oliver.                                                                                                                                  
Il cuore di Oswald pulsava all’impazzata, ma non sapeva cosa rispondere.                                                                                                                                      
« Sono qui per avvertirti, Oswald, l’anima di Calengol, l’essere superiore a noi, mi ha obbligato a farlo! Come ti sarà ben noto, Darlas non è mai stato un regno ove pace e tranquillità hanno saputo regnare sovrani, la fortezza è più volte venuta meno al suo duplice intento. Lo si può ben costatare … » disse Oliver afferrando i due calici d’avorio dalla mani del cameriere e porgendone uno ad Oswald, che non bevette « in una della battaglia ormai più menzionate dell’ultimo eplogo. Quella che vide fronteggiarsi le armate dei Gurak di Garmagan e dei paladini di Darlas. Poi sai sicuramente il modo in cui si concluse. Tuo padre, Jorin Polfinger, fece quello che era giusto fare e mozzò la battaglia »                                                                                                               
Oswald annuiva furioso, senza parlare.                                                                                                                  
« Ma le armate di Neralguna non combatterono per gloria, lo fecero per quella gemma; il Qesitay. Garmagan pur avendola sotto le sue grinfie, pur ghermendola giorno dopo giorno, fino all’arrivo di Morgael, non ebbe mai la sfrontatezza di percepire il potere che il monile emanava. Non riuscì a scoprirne le sue forze. Ma ora, una nuova minaccia incombe sul territorio, Neralguna sprigiona nuove forze, generate da Marbag l’abominevole, che per conto mio di abominevole ha soltanto il nome, cerca ciò che apparteneva a suo padre. E’ disposto a fare ogni cosa pur di riaverlo indietro, pur di riuscire a riportarlo con sé »                                                                         
« Non si conoscono effettivamente i poteri del gioiello di Garmagan, è quindi impossibile spiegarne le conseguenze che potrebbero essere causate. Le mie impassibili informazioni mi costringono, giovane Polfinger, a riferirti che Darlas è in grave pericolo. La minaccia di un attacco al regno è ora sempre più di vicina, tutti i possibili aiuti saranno ben accetti, posso essere necessari tanto quanto un’arma »         « Se ti sto dicendo ciò è per una un semplice motivo, ci occorrono difese, i Gurak si preparano all’attacco. Orde di queste creature stanno marciando al confine di Selvor, lo spirito dei boschi me lo ha riferito con chiarezza, spietati come non mai stanno tornando per riprendesi ciò che è di proprietà del loro padrone. Infidi mostri putrefatti accorreranno in migliaia, in schiere con altrettanti servitori di Marbag »                 
« Ecco ciò che ti propongo; Il tuo compito è quello di riuscire ad ingannarli tutti, di non permettergli di posare le loro mani sulla gemma. Se non fallirai saremo un passo in meno dalla sconfitta, un passo in più dal perdere la speranza di una vita serena e compiaciuta. Oswald Polfinger, tu rimarrai a Darlas durante l’assedio, attenderli e poi fuggire, soltanto dopo, con me.                                                                            
« Fuggire? » pensò ad alta voce Oswald.                                                                                           
« E’ quel che ti ho detto, fuggire. Mi sono preso la briga di informare Lord Tomard di Forte del Drago, troverete rifugio nel suo castello ad Arsalan, vi ospiterà nella sua roccaforte. Ma ciò che più mi interessa riferirti è che tua madre, Iranis Melin, dovrà fuggire prima di tutti, prima dell’assedio »                                                             
« Mia madre? » domandò a ancora una volta.                                                                                                  
« Ancora esatto! » esclamò Oliver « I Gurak conoscono fin troppo bene la moglie di colui che ha assassinato il loro precedente sovrano, non avranno scrupoli con lei. Ella deve fuggire prima del loro arrivo, ne sarà informata personalmente, potrà soltanto così nasconderti dalle loro grinfie »                                                                 
« Ma allora loro conoscono anche me » sbraitò Oswald.                                           
« Oh no, tu sei cambiato dall’ultima volta che ti ho visto, non avranno alcun timore di sterminare qualsiasi ragazzo, è normale ciò, ma non sapranno che tu sei Oswald Polfinger. Tua madre non è variata di una virgola, il suo bel volto è ancora appeso sulle sue spalle. Guardala, è proprio laggiù! » indicò Oliver che doveva averla vista mentre Iranis abbassava lo sguardo velocemente « Stanca di restare in casa, forse?»                                                                                                                  
Poi riprese a parlare:                                                                                                                                                                                                                    
« Meno sapranno chi è Oswald, meno possibilità avranno di acciuffarlo. Ahimè, giunge noi un piccolo imprevisto, qualcuno, come ben puoi sospettare dal loro arrivo, cui hai già mostrato la gemma oltre tua madre, ha informato Marbag. E’ irrimediabile questo piccolo dettaglio, ma confondibile sicuramente »                                            
« Se anch’io scappassi, prima dell’arrivo dei Gurak, non sarebbe meglio? »                                                                                                                                   
« Sì, sarebbe meglio per quei pochi attimi che ti rimarrebbero di vita. Le truppe di Marbag ti daranno comunque la caccia, pur se tu fuggissi fin dopo il Mar Stretto. E scaglieresti in questo modo, la minaccia non soltanto su di te e su Darlas, ma sull’intero continente di Anvea. Sarai costretto ad abbandonare quindi, tutto, la tua casa per prima, i tuoi interessi per seconda. Pensa che almeno, non dovrai abbandonare la tua vita » continuò toccandosi l’irta barba grigia.                                               
« Come puoi esserne sicuro? Tu hai mai abbandonato qualcosa? » chiese in tono arrogante Oswald.                                                                                
« Io no, ma … » la sua voce venne sovrastata da quella di Oswald.                                
« Come posso fidarmi di una persona che nemmeno conosco!? »                                                           
« Oswald, ragiona, non puoi rispondermi così! Qui non rimarrà nulla. Porterai tua madre con te, dovresti esserne felice, andrete al riparo »                                        
« Come si può essere al riparo se si è lontani da casa »                                                          
« A volte le parole sono celate dietro ad altre, e forniscono spiegazioni che non dovrebbero fornire in quel modo »                                                            
« Chi mi assicura di star parlando con un uomo giusto, con un uomo che non ha intenzione di mettere le sue mani sul Qesitay? »                                             
« Io » rispose una voce tonante alle sue spalle, gli occhi di Oliver balzarono sopra la testa di Oswald. Egli si girò si scatto e vide, con immensa gioia, la sagoma di Liffàr stagliata nella penombra. Era incappucciato anche lui come sua madre, da un soffice e tenue velo grigio.                                                                                          
« Non ho potuto fare a meno di ascoltare le vostre voci, fossi in lei, mastro Barbatuil, mi riferirei ad Oswald con un tono tanto più lieve, se non preferisce che tutto il regno sia messo al corrente come me »       
« Oh » bisbigliò Oliver bloccando uno sbadiglio con il palmo della mano.                                                                                                                         
« Ecco Oswald, ogni parola di Oliver è semplice verità filtrata, pura come la acqua di una sorgente. Vedi, so per certo che Vintarige è più pronto che mai ad accogliere i Gurak di Marbag, me lo ha riferito egli stesso questa mattina, quando tu ci hai visti ed uditi parlare. Egli è a conoscenza di ogni cosa, brama come al solito all’accrescimento del suo potere, più di ogni altra cosa, vuole assecondare tutto ciò. Marbag l’Oscuro, gli avrà promesso la gloria eterna in cambio della gemma, ed egli, cieco per com’è, non si è disturbato a rifiutare. Ma Marbag è troppo spietato per frazionare il potere, non ne ricaverà nulla, soltanto distruzione! Io penso che la colpa sia di Vintarige, ma non ne sono altamente certo, potrebbe avermi detto queste poche cose per trarmi in inganno, è diabolico quell’uomo »                                      
Oswald era ammaliato dalle parole di Liffàr, “allora” pensò “deve essere vero”.                                                                                                        
« Hai capito Oswald  » chiese Liffàr « Ascolta i consigli di Oliver, segui ciò che ha darti e non contraddirlo »                                                                                    
« Va bene » disse Oswald abbassando il capo.                                                             
« Ottimo » riprese Oliver « Mio caro fanciullo, è tardi adesso, tua madre sarà stanca. Puoi anche tornare a casa, ti scriverò e mi farò vivo io per spiegarti come proseguire, le armate stanno arrivando, non abbiamo ancora moltissimo tempo. Prima d’allora, suppongo, che non ci vedremo mai più » poi si rivolse a Liffàr sgranando gli occhi « Tienilo sotto custodia, lui e sua madre, non mancarli di vista per un solo attimo. E tu Oswald, conserva bene la gemma »                                                  
« Li proteggerò fino all’arrivo ad Arsalan, mastro Barbatuil, stanne certo! Proteggeremo il Qesitay? »                                                                                                 
« Scegli tu come agire adesso, Oswald »                                                                 
« Agirò per il meglio, Oliver » rispose Oswald ritornando a mantenere il suo autocontrollo, cui spesso veniva meno.                                                                     
Oliver si voltò, si chiuse nel suo manto marrone e si rintanò in un buio angolo scaldato dalla luce del camino, come una bambino addolcito, iniziò a contemplare le fiamme. Liffàr salutò Oswald con una stretta mano e fuggì via dalla locanda, quasi deserta. Iranis era rimasta retta come un soldato, sulla seggiola, la taverna, senza poter sentire le parole di Oliver né quelle di Oswald o Liffàr, poiché troppo lontana dai loro flebili bisbigli. Quando Oswald arrancò verso sua madre questa si alzò, ancora inglobata nel suo soffice vestito turchese, poi si rimise in testa il tenue tulle bluastro, e camminò senza proferir parola verso l’uscita. Brop, dormiva stravaccato nel bancone, con un cuscino porpora sotto il mento e le braccia conserte.
Quando madre e figlio uscirono dalla locanda, ansimanti e meno nervosi di quando vi erano entrati, la luce che fuoriuscì dalla taverna proiettò nel viale le loro lunghe ombre unite in una sola. Per qualche momento, Iranis Melin ed Oswald Polfinger, insieme, furono più prominenti di un Sovrano. Di un vero sovrano, perché mai di Vintarige, di quello lo erano anche senza dover ricorrere ai giochi delle ombre.

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Capitolo 3
*** Capitolo Terzo - L'assedio. ***


« … e pertanto io dovrei abbandonarti così! Dovrei lasciare la mia casa per seguire una rotta sconosciuta! Dovrei lasciare in mano al destino la vita del mio unico figlio! Oh no Oswald, questo non è nemmeno delirio, non sia mai! »                                                                            
La madre urlava con voracità, era molto scossa dalla notizia portatagli dal figlio; non aveva alcuna intenzione di assecondare la sua idea. Iranis Melin, quel giorno, sembrava invecchiata d’almeno vent’anni, i suoi lunghi capelli ramati erano aggrovigliati ed arruffati.                                                                                                
« Ma madre … » insistette Oswald.                                                                                            
« Non andrò da nessuna parte! »                                                                                          
« Davvero ti ostini a non capire? »                                                                                                                      
« Avevo detto che non era del tutto opportuno lasciarti tenere quella maledetta gemma! Ho già tollerato troppo! » disse balzando dalla sedia e incrociando le braccia al petto.                                                                                
« Ma questo non conta … » mormorò Oswald « E’ importante che tu abbandoni il regno per preservare me, per assicurare che io rimanga sano e vegeto »                  
« Non mi è del tutto chiaro questo piano, io sono sicura che … »                                        
« Pensavo che Liffàr ti avesse convinta l’altra sera! » la fermò Oswald. Proprio così, Liffàr era giunto in casa loro in prima mattinata, cercando di mettere in chiaro la situazione. Iranis però non aveva ritenuto le sue parole tanto convincenti da farsi abbindolare, e non era facile raggirare lei. Pur se qualche notte addietro aveva visto la figura di Liffàr al Gorgoglio, ella non ne aveva udito i discorsi, ed era restia a fuggire « Il parere di Liffàr non conta più molto ormai »                                                  
« Ti rifiuti perché ti preoccupi della mia incolumità mi sembra di aver capito, non è forse così?» domandò Oswald.                                                                            
« Proprio così »                                                                                                    
« Te lo avrò ripetuto decine di volte allora, è per questo che devi fuggire; per mettermi in salvo! »                                                                                        
« Senza di me sarai salvo? Per tutti gli dèi, Oswald, no! »                                                                                                                                                            
« Ti ho spiegato anche questo, un centinaio di volte forse … i Gurak conoscono la moglie di colui che ha ucciso e diffamato il loro Dio. Conosco la donna che ha condiviso gran parte della sua vita con Jorin, avranno un motivo in più per avvicinarsi a me. Ma se tu fuggissi loro mi riterrebbero un ragazzo qualsiasi, di certo mi daranno la caccia come faranno con tutti, ma non sarò il loro solo ed unico bersaglio »                                                                                                                  
« Come sarebbe a dire!? » sbraitò Iranis « Cambierebbe forse qualcosa? Se stanno per recarsi qui, forse tu non hai compreso che, probabilmente, qualcuno gli avrà detto della gemma. E tu pensi che quel qualcuno non ha ben specificato chi fosse il suo possessore? » domandò la madre. Effettivamente Oswald non ci aveva pensato; “Perché mai i Gurak si stavano avvicinando?”, “Davvero Vintarige aveva detto loro della gemma?”, “Ma in particolare sapevano di lui?”. Per non tollerare le idee della madre e tentare di seguire ciò che aveva ordinato lui Oliver, insistette ancora:                                                                                              
« Io … io ho ascoltato le parole di Oliver, non ha detto nulla in riguardo! »                                                                                                                            
« Ed è proprio questo il dramma! Oh quell’errante Barbatuil … lo ritenevo un mercante con i controfiocchi! Non ha mai accennato nulla su tutto ciò, non è così? »        
« Ci staremo sbagliando probabilmente, madre »                                                                  
« Oswald non capisci … io non posso farlo! E’ dovere di ogni madre proteggere il proprio figlio, io non voglio affidarti al caso, non voglio fuggire quando il mio primogenito è tirato nel mezzo di una sanguinosa battaglia senza capo né piedi!»                                                                                                                            
« Madre, ma se tu non fuggirai i problemi saranno tanti altri! E’ importante che tu vada via da Darlas! Ascoltami! » farfugliò con la bocca asciutta « Mi proteggerai fuggendo via! »                                            
Iranis continuò a girare attorno al tavolo della sala da pranzo, più irrequieta che mai, sventolando il suo capo come il vessillo del più nobile castello.                            
« E come posso proteggere mio figlio se non sono con lui? »                                                                    
Oswald lasciò al tempo le parole, non avevo altro da aggiungere.                                                                                                     
Per quell’intera mattinata, casa Polfinger fu tremendamente invasa dalle urla di Iranis e dalle frasi di Oswald concentrato a ribattere ed a controbattere, intento a far capire un po’ meglio la situazione alla madre. Egli era consapevole che se avesse accettato per lei, madre di un figlio, sarebbe stato straziante mettere in atto questa scelta; ma era ciò che gli aveva consigliato Oliver e quindi andava fatto. La discussione venne momentaneamente fermata da qualcuno che con forza bussò, quella mattina, alla porta. Quando Oswald vi si avvicinò per aprire, i suoi occhi luccicarono alla vista del telanor Liffàr.                              
« Liffàr » sbraitò Oswald « Proprio quel che cercavo! ».                                                                                              
Iranis si avvicinò furtiva, come un predatore che scrutava la sua preda.                                                                                                                                
« Abbassa la voce! » bisbigliò entrando velocemente dentro casa.                                    
« Che succede Liffàr? » domandò Iranis che era sbucata fuori dalla sala da pranzo.                                                                                                                        
« Sono stato scoperto, qualcuno ha informato Vintarige … penso che stia tramando qualcosa! »                                                                                              
« Ma com’è possibile!? » chiese confuso Oswald.                                                              
« C’è una spia a Darlas, dovevo capirlo fin da prima »                                                                  
« Ecco vedi! Oswald hai sentito!? » urlò la madre « Sapranno della mia fuga come hanno saputo di tutto il resto, ne sono certa! »                                                      
« No Iranis, non lo sapranno, ho qualcosa per voi! ».                                        
Liffàr estrasse dal suo lungo manto rosso una serie di lettere e le consegnò ad Oswald.                                                                                                                    
« Accomodati su! » insistette Iranis scrutando Liffàr ancora dinanzi alla porta « Potremo parlare meglio »                                                                                     
« Oh no mia cara Iranis, non posso proprio al momento, per tale motivo devo proprio andare adesso » mormorò il telanor osservando ciò che accadeva alle sue spalle, scrutando ogni minimo rumore.                                                                                                                                            
« Prendetele, troverete quanto necessario » bisbigliò poi-«Arrivedervi! »                                                                                                                            
Entrambi salutarono Liffàr che uscì dalla casa quatto come un gatto, poi Oswald si girò e posò tutte le sue lettere – consegnategli da Liffàr - sul tavolo, ricoprendolo di carta come la base di un albero in autunno, coperta di foglie secche.                                                                                                                                            
« Com’è strano quell’uomo ultimamente … » bisbigliò la madre.                                                                                                                                          
« Sta cercando di aiutarci, in un modo o nell’altro, ma senza farsi notare da Vintarige … anche se già il suo stupido naso adunco s’è infiltrato anche in questa questione! ».                                                                                                                                                                                                                        « Pensi che Liffàr tema Vintarige? »                                                                                            
« No madre, ma forse cerca ti mantenere alta la sua reputazione! »              
« Potrebbe essere … »                                                                                                                                                                                                  
Poi Oswald iniziò a lanciare ogni lettera sull’altra parte del tavolo, man mano che gli capitavano in pugno. Non notava nulla di interessante in quei pezzi di carta quadrati; perlomeno nulla che potesse essere collegata alle vicende che stavano succedendo.                                                                                                      
« Tutte lettere per te, madre … » mormorò a denti stretti « Ecco prendine una! »                                                                                                                            
« Tutte inutili lettere da parte dei tuoi parenti scomparsi! Non si fanno vivi da anni e cercano consolazione ora! » sbraitò la madre leggendo alcune carte sul tavolo « Non interessano neanche a me! »                                                                                          
« Oh, questa potrebbe interessarci » bisbigliò Oswald reggendo una busta color grigio scuro. Quando l’ebbe aperta capì subito, dalla grafia, che si trattava di una lettere di Oliver, ancora una volta, scritta per lui; doveva essere la risposta al suo precedente messaggio.                                                                                                                                                                                     
                                                                                     
 
                                                                                                              Il Gorgoglio
Diciassettesimo anno del S.E.
Giovane Oswald,                                                                                                                                                                                                                      
ho ricevuto la tua lettera alcune sera fa (qui le consegna Brop, il locandiere, e data la sua sottile mente contorta, spesso dimentica di distribuirle). Possiamo comunicare solo attraverso le lettere, potremo essere – in caso contrario – visti da qualcuno. Ho constatato che ci sono alcuni piccoli dubbi che ti attanagliano. Per tale motivo, abbastanza valido direi, avrei alcune notizie importanti da riferirti. Per prima cosa, come ben puoi notare dall’intestazione della lettera, mi trovo al Gorgoglio. Proprio così, ultimamente alloggio  qui attendendo l’arrivo delle armate del Dio Nero. Mi raccomando, ancora una volta, ti obbligo a non parlare con nessuno, ma soprattutto a non venire a cercarmi per nessunissima ragione. Quando arriverà il momento, dopo che avremo atteso il giungere del caos nel regno, io e tu dovremo fuggire di soppiatto; capirai meglio dopo magari. Le mie attuali informazioni confermano ancora una volta che i Gurak sono in migliaia e stanno per giungere al regno. Pertanto, suppongo che l’attacco alla città avverrà direttamente questa notte. Dunque, dobbiamo immediatamente far partire tua madre, come da quanto pattuito, ella deve sparire prima del loro arrivo. Ho un piano anche per questo! La disponibilità di Liffàr  si è rivelata estremamente utile in questo caso. Sarà lui ad accompagnare tua madre ad Arsalan, questo pomeriggio, perché è importante che fugga prima di notte, per poter arrivare al forte del drago senza truppe alle calcagna, ma in particolare modo senza essere vista. Vedetevi al fosso in pietra, fuori dalle mura, prima di pranzo. Oswald, evita di sgarrare in qualcosa … tieniti lontano da qualsiasi persona fino all’arrivo delle armate, cerca di seguire al meglio le mie indicazioni.                                                                                                   
Con la speranza che tu stia bene,
                                                                                                                          Oliver Barbatuil.



                                                                                                                                                          
Quando Oswald smise di leggere, mostrò lieto la lettera alla madre che con curiosità iniziò a leggerla, scrutando ogni minima riga d’inchiostri, all’erta con i suoi occhi vitrei inglobati nei suoi rilucenti zigomi perfettamente scolpiti.                                                                                                                                                          
« Umh … » bisbigliò concludendo la lettura.                                                                                                                                                                        
« Chiaro adesso? »                                                                                                                                                          
« D’accordo Oswald, fuggirò » biasimò la madre che nel frattempo veniva attraversato da un brivido di gelo lungo l’intera schiena.                                                    
« Benissimo! »                                                                                                                          
« Promettimi che non ti accadrà nulla però »                                                                
« Questo non posso farlo, ma se tu fuggirai sarò un passo in più dal potertelo promettere, madre »                                                                                          
« Ho capito. Bene, allora, come intendi procedere? »                                                                                              
« Non sono mai stato a Forte del Drago, dov’è che si trova con precisione? » domandò Oswald alla madre.                                                            
« Lontano, molto lontano da Darlas, vi si arriva camminando ad est »     « Oltre il Mare Corto? » domandò scioccato Oswald.                                        
« Oh no, per capirci … un po’ prima del Mare Corto! » mormorò a denti stretti Iranis.                                                                                                        
« Madre, ti servirebbe preparare ogni cosa, come vedi dalla lettera dovrai partire

Iranis preparò un grosso baule e lo infarcì con quanti più possibili indumenti, copri abiti e oggetti che poteva inserirvi. Oswald rimase seduto, fino all’ora di pranzo, accanto al tavolo della cucina, e la vide addirittura afferrare un piccolo pugnale d’acciaio dalla cassettiera. Contemplava i suoi piedi, che tremavano come due bambini nudi in pieno inverno, e si girava i pollici tra le mani. La madre era indaffarata come non mai, correva lungo tutta la casa afferrando ogni minimo indispensabile oggetto, e trainava e osservava ogni cosa … tanto che ad Oswald parve una ruspa in azione. Fu soltanto quando arrivò l’ora di pranzo che Oswald ed Iranis uscirono fuori di casa, sommersi da bauli e sacche. La madre indossava un leggero tulle salmone e portava tra le braccia alcune casacche.                                                              
« Non pensi di aver portato troppo, madre? »                                                                                      
« Il minimo, figliolo »                                                                                                                                  
Attraversarono spediti il regno, tutti gli sguardi erano indotti su di loro, ma per fortuna non persero tempo con persone inutili come Vintarige o l’intrattenitore Zacharias. Difatti il portone lo trovarono spalancato, e riuscirono a varcarlo senza dover ricorrere all’aiuto di nessuno. Il fosso in pietra si trovava vicino al quinto torrione di guardia di Darlas, a est, accostato alle mura del regno ma lontano da fugaci sguardi indiscreti.
Quando arrivarono nel luogo previsto per l’incontro, furono entrambi stupiti nel non vedere Liffàr. Il fosso in pietra, era un antico punto di ritrovo di alcuni giganti durante la costruzione di Darlas, difatti era simile ad un enorme anfiteatro, interamente costruito in pietra liscia.                                                                            
« Dov’è Liffàr? » domandò Iranis al figlio.                                                                                          
« Non ne ho idea, doveva essere qui … magari sta ritardando! »                                                                  
« Non era forse questo il luogo dell’appuntamento? »                                                                                  
« Aspetta! » rispose Oswald tirando fuori dalle tasche la lettera, ora stropicciata e piegata più volte, di Oliver. Rilesse con cura le ultime righe; “Vedetevi al fosso in pietra, fuori dalle mura, prima di pranzo!”.      « Noi abbiamo seguito le indicazioni, madre … » spiegò Oswald indicando le righe da leggere ad Iranis. Entrambi erano rimasti per una decina di minuti sotto il cocente sole che abbagliava il fosso, avevano quasi perso la voglia di stare in quel luogo. Ma ad un tratto, come apparso dal nulla, comparve Liffàr, in groppa ad un nero cavallo.                                                                                                                           
« Perdonatemi, sono stato fermato troppo a lungo! »                                                          
« E’ successo qualcosa? » domandò Iranis accogliendo al fosso « Ci hanno forse scoperto? »                                                                                          « Oh no, nulla di simile, soltanto questioni di corte! » illustrò il telanor.                                                                                                                                            
« Allora, quando dobbiamo partire? »                                                                         
« Quando sarai pronta! »                                                                              
« Prima fuggiremo, prima al mio cuore verrà recato ulteriore fastidio!»                                                                                                      
Iranis si girò a guardare il figlio, aveva gli occhi lucidi e gonfi.                            
« Non è un addio madre! »                                                                                
« Potrebbe esserlo però, e se non fossi più convinta di farlo? »                                    
« Fare cosa? » s’intromise Liffàr.                                                                            
« Abbandonare mio figlio » rispose lei.                                                                              
« Ma non lo stai abbandonando … arriveremo tutti, tra qualche giorno, sani e salvi! Le truppe Marbag non sono molto potenti ora che Oswald ha rapito il loro gioiello »
« Promettimi che lo proteggerai; riportarmelo vivo Liffàr! »                        
« E’ una promessa la mia, lo farò certamente » rispose con tono austero il telanor  «Adesso va’ Iranis Melin, il tempo di Darlas è giunto al termine! »                          
« Tu non verrai? »                                                                                                  
« No, non verrò »                                                                                                                
Iranis lo apostrofò con lo sguardo, Oswald invece parve sconsolarsi.                      
« Che significa Liffàr? Oliver ha ben specificato nella lettera che tu l’avresti accompagnata! »                                                                                          
« Avrei dovuto farlo, proprio così, ma Oliver mi ha detto proprio qualche momento fa che non occorre più »                                                              
« Non occorre più? »  chiesero all’unisono entrambi.                                                                  
« Esattamente. La sacerdotessa ed i Gurak sono ormai giunti vicino Calengol, perderei troppo tempo, io devo restare qui; sono ordini dettati da Oliver. Stiamo tutti seguendo il suo piano perfetto, siamo nella sue mani. Ora Iranis, fuggi via, va’ o sarà troppo tardi! »                                                                            
Iranis era irrequieta, lo si vedeva dallo sguardo vacuo che portava impresso sul volto, i boccoli ramati le scendevano sul viso e gli sobbalzavano sulle guance a ritmo del vento. A quel punto Liffàr scese dal cavallo e lasciò salire Iranis.                                                                                                                                    
« Non so cavalcare un cavallo! » disse lei « Non arriverò mai ad Arsalan! »                                                                                                                    
« Non occorre saperlo fare, Findel ti guiderà fino  ai domini di Re Tomard e della Regina Septa. Cavalcherà fino al gelido cancello, da lì, percorri la via verso est … tra i macigni innevati e le valli. Dovresti giungere al Forte. Loro sono già informati del tuo arrivo! Quel che ti auguro è un buon viaggio, Iranis, che i tuoi dèi veglino su di te! » la salutò Liffàr.                                                                                                        
Iranis appoggiò il baule sul dorso di Findel - il cavallo nero - posò ogni  cosa sul suo manto ed avvolse poi le casacche al collo della bestia; questa partì senza indugiare un secondo. La madre salutò Oswald con gli occhi in lacrime, aveva ancora qualcosa da dire … Oswald ne era certo, il cavallo corse più veloce delle sue parole ed ella si limitò a guardare a nord, scomparendo tra le fertili valli ad est.                                                                                
« Fugge Iranis Melin, benché d’animo estremamente impetuoso , nobile ed audace, ella non regge il duro colpo che inflitto fu a Darlas! La sua famiglia è più, tanto più, estremamente importante! »  canticchiò Liffàr.                                                                                                  
Oswald era stremato adesso, non pareva aver riconosciuto quanto poteva essere straziante la fuga di sua madre in quel momento, proprio ora che gli serviva qualcuno con cui poter parlare e relazionarsi, proprio ora che gli serviva un appoggio morale. Chi altri avrebbe avuto prima che tutto questo sarebbe finito? Una miriade di pensieri gli sbucarono in mente; Vergar era ancora in trappola, i Gurak stavano per attaccare il loro regno, la madre lo aveva abbandonato e lui aveva tra le mani una stupida gemma di nome Qeisitay che era la causa di tutte queste rovine.                                            
« Andiamo Oswald, non c’è tempo, sono vicini! » urlò Liffàr.                                                                                                                                            
Il telanor tirò Oswald per un braccio ed iniziò ad arrancare in direzione del portone, aveva un passo talmente spedito che arrivarono al regno in pochissimi minuti.        
« Che succede Liffàr? »                                                                                  
« Abbiamo sbagliato qualcosa di fondamentale … i Gurak sono arrivati; non so se tua madre giungerà sana e salva ad Arsalan! »  mormorò Liffàr « Mi spiace Oswald! »
Oswald era affannato e intimorito, temeva il peggio per sua madre ed ora avrebbe preferito non averla costretta a fuggire.                                                                  
« Dove stiamo andando? » chiese Oswald che era ancora trainato da Liffàr, questa volta in un’altra direzione.                                                                    
« Al Gorgoglio, devo vedere Oliver! »                                                                                                                                                                                            
« Ma Oliver mi ha scritto che non dobbiamo contattarlo per nessunissimo motivo »                                                                                            
« Si cambia strategia Oswald! ».                                                                                          

Corsero per un’infinità di secondi prima di ritrovarsi di fronte alla locanda, sempre e comunque illuminata da una moltitudine di luci. All’interno Brop stava pulendo alcuni calici, strofinandoli con un vecchio bianco panno.                                                                                            
« Dobbiamo vedere il signor Barbatuil! » urlò Liffàr senza nemmeno essere giunto di fronte al bancone, era molto scosso e nervoso.                                  
« Oh oh oh, calma mio caro amico! » lo sgridò Brop il bruto.                              
« Ascolta, non è assoluatamente il momento di … »                                                                                              
« Che cosa ti assilla? »                                                                                            
« Falla finita una buona volta, Brop! Dove diamine si trova Oliver Barbatuil? »                                                                                                                      
« Sono qui, Liffàr! » disse Oliver scendendo le scale che portavano al piano superiore della locanda.                                                                                  
« Tan ta ta tan! » gridò Brop con fare teatrale.                                                                                                                            
« Oliver » disse Liffàr spingendo Oliver su una sedia « I Gurak sono arrivati, il cielo si è annerito, che dobbiamo fare? »                                      
« Lo so Liffàr! Dobbiamo procedere con la resistenza; informa i paladini di Darlas, chiedi ausilio agli arcieri; raduna un esercito in pochi secondi … non parlare assolutamente con Vintarige »                                                                                          
Poi un tuono al ciel sereno rimbombò lungo ogni viale di Darlas.                                                                      
« Mi occorre tempo per radunare un esercito! » rispose Liffàr cercando si sovrastare il rumore causato dal boato.                                                              
« Tempo!? » lo apostrofò Oliver « Non abbiamo tempo, sta avvenendo tutto troppo in fretta, vai e fa’ come ti dico! Baderò io ad Oswald! »                                        
« Non penso di poterlo fare! Bisognerà prima informare tutte le genti di Darlas, i bambini … le donne … gli anziani, tutti devono essere avvertiti e protetti! »                  
« Non abbiamo tempo, cercheremo di resistere! Ma se tutto andrà bene dovremo riuscire a fuggire prima della fine di ogni cosa » poi prese fiato e chiuse le palpebre sospirando « Devi riuscirci! Liffàr, corri! ».                                                                                                                                  
Liffàr si congedò dalla locanda senza mormorare oltre, con passo spedito, allacciandosi la sua sontuosa veste rossa al petto.                                        
« Oliver! Cos’è quello? » chiese Oswald spaventato indicando il cielo incupito e nero al di fuori della finestra.                                                                  
« Quello è un simbolo mio caro; la guerra sta per avere inizio ».                                                          
Corsero entrambi fuori dalla locanda, Oswald aveva nel petto un cuore che batteva all’impazzata, la paura corrodeva il suo animo nobile e la sua mente navigava oltre.
« Oswald, stammi dietro! Quando sarà il momento fuggiremo anche noi! » spiegò Oswald che non ebbe il tempo di rispondere.
Il cielo divenne subito ancor più buio nel tardo pomeriggio, anche se quel giorno non pioveva né tuonava, ma tutt’intorno era spento ed il sole scomparso.                    
« Dobbiamo scendere al primo livello Oswald, Gripa, la mia forte bestia da carro ci sta attendendo, fuggiremo sulla sua groppa! »                                                
« Va bene Oliver! Ti starò dietro! » farfugliò Oswald.                                
Così imboccarono la lunga scalinata di marmo e la percorsero finché non giunsero inquieti al primo livello del regno di Darlas. Ma lì, oltre a trovare Gripa, un grosso maiale con la scura pelliccia stracolma si sacche e roba varia, udirono qualcosa nel cielo tuonante e rimbombante. Una voce di donna, chiara e nitida, sottile e delicata, ma forte e robusta allo stesso tempo.

 “ Déi Neri, Dio della Morte, Abominevole Marbag, preservate la nostra vita ora e sempre, nella vostra immensa e gloriosa voce. La voce che è simbolo di tortura e proferisce paura. Via dalla luce, illuminaci con il sangue, bevi il loro. Abbagliaci del tuo terrore, riforniscici della tua temerarietà! O déi neri, Dio dell’ombra e del Fuoco, noi siamo vostri. Tutto s’oscura e si frantuma, la gloria delle tenebre giunge nel cielo, cade in terra e diviene sangue. Dio vero, unico e solo, proteggici dai loro culti, accendi il nostro animo rovente, pulisci il nostro spirito, purificalo con il sangue ed il fuoco. Così l’oscuro, così la notte, così l’ignoto! Forniscici tu la via grata, o signore dei cieli, purifica la terra con il loro sangue ed il loro corpo! ” 
                                                                                                                              

Oswald e Oliver si guardarono perplessi ed intimoriti. Poi un’ altra strana voce li fece voltare, alle loro spalle un’orda di Gurak si stava dirigendo verso il portone aperto della città.                                                                        
« Arrivano! Fuggiamo via! » urlò Oliver.                                                          
Oswald iniziò a correre a gambe levate, barcollò ed ansimò più volte, con al suo fianco Oliver che cerca di reggerlo. Da alcune torrette sbucarono fuori degli arcieri che spararono frecce alla cieca, quando li ebbero a tiro. I Gurak erano creature strane, il loro aspetto era associabile soltanto a mostri oscuri, cui si apprestavano ad imitare perfettamente. Erano tutti molto sporchi, indossavano armature di ferro ricoperti da manti neri che gli pendevano come due ganci dal capo. Il loro volto putrefatto e quasi tinto di verde era mascherato da una ossatura di ferro ben rifinita con scanalature e corna che, coprendo occhi, naso e fronte, lasciava in vista soltanto la scura bocca coperta da cicatrici e sangue. I denti erano aculei, paragonabili a stalagmiti gialli ed aguzzi, pendenti da una caverna marcia.                                                            
« Non osare scoccare una sola freccia contro di noi, arciere! » lo rimproverò un Gurak un po’ più grosso degli altri che marciava con in mano un’ascia a doppia lama « Altrimenti salterai in aria come un petardo! ».                                                                                                  
L’arciere parve non udirlo e continuò a schioccare inutili frecce che rimbalzavano nelle loro armature, lasciando le creature del tutto illese.                                          
« Schifoso verme! » urlò lo stesso Gurak estraendo un pugnale dal fodero e scagliando contro il petto dell’alto arciere, che scivolando dalla torre piombò sul terreno fuori da Darlas.                                                                                                                                  
« Combattete! » gridò il Gurak, e l’esercito si scagliò contro la città.
 Un attimo dopo Darlas era invasa ed assediata da centinai di Gurak, stavano distruggendo ogni cosa, tutto era un pandemonio. Oswald e Oliver correvano all’impazzata e cercavano di non farsi afferrare. Ovunque s’udivano pianti e lamenti, grida e urla strazianti, i cittadini erano terrorizzati e tramortiti. Le oscure creature avevano istillato paura lungo tutto il perimetro del regno.                                                                                    
« Oswald! » gridò Alais svoltando l’angolo, brandiva in mano una grande spada d’acciaio, regalatagli dal suo nonno materno il quale, in passato, era stato un ottimo cavaliere  « Combatti con me! Forza! »                                                                  
« Oswald … » mormorò Oliver « Andiamo! »                                                                                                              
« Non posso Alais, mi spiace! Tu fuggi via, non restare qui! » gli gridò Oswald affannato.                                                                                                        
« Oswald … » mormorò ancora Oliver « Tu va’ a prendere la gemma, fuggiremo quanto prima possibile. Ci occorre il Qesitay, ora! »                                                  
« Va bene! »                                                                                                  
« Vengo con te, Oswald! » gridò Alais.                                                        
Oswald avrebbe voluto dirgli molto, più di quanto un uomo potesse spiegare in un’ora … addirittura in un anno; ma quando aprì la bocca si limitò a bisbigliare qualcosa, che nella sua mente venne dedotto come “Non venire, non voglio che tu venga con me, siamo in pericolo!” ma che invece risultò essere:                                          
« Corriamo Alais! »                                                                                            
Così entrambi iniziarono a trottare in direzione della casa dei Polfinger. Quando furono arrivati al secondo livello, Oswald fu tremendamente scosso dal vedere Oliver, che a quanto pare era arrivato prima di loro, che ergendosi di fronte ad un gruppo di uomini e donne li frustava e li intimoriva. Al suo fianco, un Gurak stava schiaffeggiando alcuni bambini legati alle caviglie, ed Oliver pareva trarre piacere da tutto ciò che lo circondava. Ma ciò che attirò l’attenzione di Oswald non fu tanto la scena, il contesto, o il soggetto … che parvero lasciarlo allibito … piuttosto il suo occhio guardingo cadde sulle vesti del lepricauno, che non erano più di cuoio marrone; ma viola come un livido recente e azzurre come il cielo al mattino.                                                                                                
« Oliver!? » urlò « Cosa stai facendo? NON TOCCARLI! »                                                                    
Oliver Barbatuil si girò, il volto macchiato di sangue e la maglia tinta di sporco e polvere.                                                                                                                
« Cosa ci fai qui Oswald? » domandò scostandosi dai corpi feriti, e posizionandosi accanto al Gurak.                                                                                              
« Mi hai detto tu di andare a prendere la gemma! »                                                                                      
« Ah la gemma! Sì, capisco, perché non andiamo insieme? » ghignò Oliver scagliando la frusta per terra.                                                                                    
Alais tirò Oswald per la maglia.                                                                        
« Non farlo Osw … è un traditore! Guarda cos’ha fatto! »                                                              
Oswald si voltò per rispondere all’amico:                                                                          
« Ma lui non è cattivo! » mormorò, ma quando si fu voltato in direzione di Oliver questi era sparito. Al suo posto c’era adesso un altro Gurak.                                
« Alais!? Lo avevi visto anche tu? »                                                                                            
« C … c … erto che sì! » rispose intimorito Alais.                                          
Poi altre schiere di Gurak si avvicinarono ed i due amici furono costretti a fuggire.

Quando giunsero accanto alla casa, Oswald aprì con forza la porta e vi si piombò dentro in cerca del Qesitay.                                                                            
Mise in subbuglio l’intero casale, non ricordava dove lo aveva messo ed aveva tanta, tantissima, fretta.                                                                  
Mobili, cassettoni, mensole, comodini … nulla. Soltanto dopo cinque minuti di arguta ricerca, solo quando altre urla ricoprirono il viale, egli riuscì a trovarlo dentro al cassetto di una credenza in cucina, sua madre doveva averla spostata.                                                                                                                                            
« Corriamo da Oliver, Alais! »                                                                                    
« Lui è qui! »                                                                                                                              
Oliver stava correndo seguito da tantissimi Gurak e cercava di sovrastarli prendendoli a pugni sul petto.                                                            
« Fatevi avanti! Su, prego! » urlava scalciando sui loro volti.                                              
« Oliver! » lo chiamò Oswald « Vieni qui! »                                                                      
Ma Oliver era troppo intento a combattere, non avvertiva nulla. Alais andò in suo aiuto sguainando e brandendo la spada verso l’alto. Quando fu vicino abbatté molti Gurak urlando “Questo è per mio padre, questo per mia madre, questo per Darlas … ” mentre  teste volavano via dai corpi delle creature e queste s’accasciavano per terra.                                                                                                                                    
« Fatevi avant … »                                                                                                                                                                                                                
Ma quando cercò di concludere la frase un Gurak lanciò un ascetta contro l’alta fronte di Alais. Vi si conficcò fino in fondo, nella profondità della carne, giù oltre le ossa del cranio. Questi cadde stremato al suolo, gelido, con gli occhi ancora accesi da una fiamma di speranza. Il Gurak grondante di sangue corse via, lasciando il cuore di Oswald stremato. Stava per correre dietro a quel viscido mostro quando qualcosa lo frenò.                                                                                                            
« ALAIS! » urlò, ma Oliver lo tirò così forte che le lacrime gli volarono via dal volto mentre che si liberava dai Gurak e fuggiva via. Oswald però aveva molta paura di Oliver al momento – le cui vesti erano tornato di un marrone cuoio fulgido - non riusciva a credere di averlo visto prima uccidere degli uomini, ed ora che lo aveva di fronte non riusciva a parlargli per paura che potesse ucciderlo.                                                                                                                
« Oswald, non fermarti, corri! » urlò Oliver che scalciava e prendeva a pugni di tanto in tanto qualche Gurak. Ma la voce di questi mostri era penetrante e quasi metallica, lo stavano confondendo, s’accasciò per terra stremato quasi quanto l’amico morto. Tra le schiere di Gurak che si avvicinavo verso di loro Oswald avvertì più volte il suo nome. Oliver fu catturato e schiaffeggiato, ed uno strano Gurak più grosso ed alto si avvicinò ad Oswald.                                                                      
« Garnashaik è il mio nome! Oswald il tuo! Consegnami il Qesitay e nessuno si farà del male! »                                                       Ecco il peggio, avevano conosciuto Oswald, proprio come aveva detto Iranis, proprio ciò che temeva lui stesso.                                                                              
« Hai sentito!? Dove lo tieni? » domandò ancora più esasperato.                                                                                                                              
Oswald non fiatava, aveva il volto del Gurak di fianco al suo, e quello di molti altri attorno.                                                                                        « Da morto è meglio che vivo, uccidetelo! ».                                                                                        
Decine di Gurak sfilarono i loro pugnali e puntarono Oswald. Mulinavano con forza le loro armi, le brandivano con entrambi le mani. Ma ben prima che uno di loro potesse scagliarsi su Oswald, caddero a terra, uno dopo l’altro, come in un circuito di domino. Garnashaik s’arrampicò vorticosamente sul tetto di una casa. Alcune armate di Darlas, per lo più formate da cittadini ed arcieri, stavano sguainando le loro spade e trafiggendo quante più bestie possibili. Dietro di loro c’era Liffàr con in mano una spada ed in testa un elmo di ferro.                                                                                                                                                
« Liffàr! » urlò Oliver che era rimasto per terra accanto ai Gurak senza testa. L’orda di uomini, seguita dal timbro tonante del suono del corno del regno, iniziò a cantare: 




“ Giurate, giurate, miei uomini dell'ovest! Il sangue purifichi il nostro legame, noi siamo uno, loro cento!"                                                    



Così ebbe inizio la vera guerra di Darlas, e vide schierati uomini contro Gurak. Liffàr combatteva accanto al Gorgoglio con la sua spada, Oliver scalciava e prendeva a pugni tantissimi altri Gurak, frecce volavano, pugnali venivano scagliati in aria con fervore. Oswald non sapeva combattere, stava soltanto a guardare. Poi uno Gurak che stava combattendo con Liffàr, ferì questo alla gamba ed il telanor cadde per terra. Il mostro afferrò la sua spada e pronunciò alcune parole prima di puntarlo:        
« Addio figlio di Tamandie, il tuo viaggio nel mondo, mai stato glorificato da Marbag, è giunto al termine! ».                                                                        
Ma prima che ebbe calato la spada fino al petto, uno strano ometto si lanciò  in picchiata su di lui. Oswald riconobbe Vergar Lewin il folletto, colpire con uno scudo di legno il volto del Gurak e lasciarlo tremante a terra. Oswald era stupito, Vergar si era forse liberato dalla quella lugubre prigionia, e adesso stava combattendo al loro fianco. Ma lo stupore non durò per molto nei suoi occhi, infatti, venne agguantato da una donna dai sontuosissimi capelli biondo platino attorcigliati in uno strano chignon con alcune ciocche lunghe pendenti oltre le spalle. Ella lo trascinò via da quello scenario. Il suo volto era scarno, i suoi occhi erano spenti e circondati da un ombra nera, le sue labbra,invece, erano grigie. Nei suoi capelli s’intersecava una tiara d’argento, al cui centro vi era incastonato un grosso rubino rosso. Aveva uno strano incarnato chiarissimo, molto curato, sormontato da un una veste a collo alto, fatto di pelle di drago squamata nera. Roteava con in mano una daga, stretta nelle sue lunghe dita, ed uccideva uomini come mosche.                                                                                                
« Dammi il gioiello Polfinger! » sbraitò lei con gli occhi rosso fuoco mentre era ancora intenta ad uccidere donne e uomini girovagando a tutto tondo, ma che comunque riusciva a tenerlo saldo per il polso.
Camminarono a lungo per i viali di Darlas fino ad arrivare in un vecchio mercato abbandonato e distrutto, e lei, tenendo sempre il suo polso nella sua dura presa, con una forza tale a quella di un uomo lo scaraventò per terra.                                                                                                                  
« Lasciami andare!» farfugliò Oswald mentre cercava rialzarsi da terra.                                                                                                                
« Così l’oscuro, così la notte, così l’ignoto! » gridò alzando le braccia.                                                  
« Dammi il gioiello, è un ordine! » urlò ancora « Il Qesitay appartiene al mio Signore! »                                                                                                          
« Per quale scopo? » domandò Oswald irrequieto.                                                  
« Certamente scopi che non riguardano un ragazzino della tua età, avente un cervello tante volte meno capace del normale. Consegnami la gemma di Qesi e a nessuno verrà torto un capello! »   sentenziò in tono austero la donna, la sua lunga veste s’inzuppava sempre più di sangue che dilagava da ogni dove; il nero del grande mantello che la stringeva stava per trasmutarsi in un rosso accesso.                                                                                                                        
« Non ti ho mai vista da queste parti … mi hanno insegnato a non discutere con gli sconosciuti! Com’è che ti chiamano? » gli gridò Oswald.                                      
« E’ così necessario, mio dolce ragazzo … rivelarti il mio nome? Se fossi in te non chiederei l’età ad un donna né tanto meno come s’apprestano a chiamarla, potrebbe sconcertati. Tu come vorresti che mi chiamassi? »                                                                                                      
« Com’è che ti hanno chiamato fino a questo giorno? » domandò Oswald « Non hai ancora risposto alla mia domanda! »                                                    
« Io sono colei che guida il reame di Neralguna! Diecimila uomini ho conquistato nel campo di battaglia, altrettanti Re ho fatto chinare al mio cospetto. Dovunque, nel mio reame coppe vengono levate in mio onore, sangue viene versato per ammaliare il mio animo, schiave tessono per me fulgide vesti! Io sono colei che uccide con il veleno, e che è dama a capo del Consiglio. Comprenderai, mio caro, che posizionarti di fronte a me, bloccare il mio passaggio e le mie idee non sarebbe una delle migliori soluzioni! Questa daga ha tagliato milioni di teste, spazzato ed usurpato milioni di uomini; vorresti essere il prossimo!? »                                                    
La donna cominciò a ridere istericamente, la sua veste ancor più rossa di prima.                                                                                                          
« A quanto pare sì, allora; non posso far altro che pensare che il tuo silenzio sia sinonimo di assenso … coraggio, temerarietà e ardimento scorrono nelle vene di voi Polfinger, non è forse così? Audace è il cavaliere, robusta la spada; questo ciò che amate dirvi. Eppure, mio piccolo ragazzo, tuo padre morì da miserabile ... e tu, adesso, temi il peggio e palpiti con una cadenza simile a quella del tuo cuore. Agalesie, Signora delle tenebre, Lady di Neralguna, Eschis, Tohsya, Sacerdotessa Nera, Donna dei tre déi neri … tanti sono i nomi che mi sono stati attribuiti lungo la mia strada! Ma ciò non importa! » ghignò ancora « Almeno finché tu non mi avrai ridato ciò che mi appartiene! »                                                                                                            
Oswald indietreggiò e si alzò, ella era troppo intenta a concludere il suo discorso; la spinse con forza per terra. Così, cadde come un ramoscello secco e quando si fu rialzata le fu nuovamente addosso. La daga grondante di sangue scuro era puntata nel suo volto, e Oswald avvertiva appieno il suo affannoso respiro  sulla fronte.      
« Lasciami andare! » gridò Oswald che cercava di divincolarsi.                                        
« Hai sangue traditore nel tuo corpo, lascia che te lo estirpi! » sibilò Agalesie ancora accovacciata sul suo corpo.                                                                          
« Lasciami! » urlò Oswald urtandola contro la parete e scagliandoli contro un sasso che ella schivò con estrema facilità.                                                
« Povero piccolo, così puro ed innocente » canticchiò la donna sistemandosi il rosso vestito e mollando dalla sua prese il ragazzo. A quel punto allora alzò le mani al cielo ed afferrò con la mano sinistra una grossa pietra rossa, dall’interno della sua lunga vesta nobile, come il sangue che ancora pareva colare dalla daga. Ella la strinse così forte nella mano che questa pareva che stesse per esplodere, poi tutto tremò, compresa Agalesie che stava pronunciando alcune sottili parole che, pur se nella sua lingua, Oswald non comprese. Invocava degli dei, alcuni spiriti e delle ombre, ma ciò non lo stupì.                            
La Tohysa aveva ancora un ammaliante ghigno impresso sul suo volto quando la città prese fuoco come se su di questa fosse stata scagliata un enorme bomba; tutto esplose ed iniziò a vorticare simile ad una città esposta ad un tornado.                                                                                      
« La volontà di Marbag è conosciuta, il suo potere è reale! Ditemi, quello dei vostri dei è simile? »                                                                              
Tutto vorticava in un bagliore rosso.                                                                                                                                                                      
Un potere sconosciuto era davanti ai meravigliati occhi di Oswald. Egli si rimise in piedi in pochi secondi e fece appena in tempo a poggiare i piedi per terra che la donna gli venne incontro, ancora una volta, la sua daga tra le mani, dato che ora la sfera rossa era completamente scomparsa dal suo pugno. Ma prima che potesse arrivare di fronte ad Oswald, una valanga di pietre si posizionò tra lui e lei e questa perdette la sua arma. Oswald afferrò la daga di Agalesie, senza vederne l’impugnatura né la lama e senza constatarne il suo possente peso, ma fuggì via in cerca di riparo. Un grande ammasso di pietra lo stava raggiungendo, grandi macerie che volavano ovunque stavano per scagliarsi sul suo esile corpo. All’istante però sentì buttare giù dalla scalinata con un colpo netto, come se fosse inciampato su qualcosa. Per quanto forte e possente poteva sembrare lui in quel momento - si sentiva infatti di poter sputare fuoco - volò via come un moscerino scacciato dalla forza bruta del vento chiamato da Liffàr che si trovava al secondo livello, e che cercava di salvarlo dalle macerie in caduta, avendolo avvistato durante un secondo di tregua. In fondo ci era riuscito perfettamente, ma gli aveva appena donato alcune nuove ferite sulle ginocchia. Poi s’avvicinò ad Oswald correndo verso di lui. Avanzava con passo goffo, come se portasse un fagotto sulle spalle.                                                                
« Mi hai salvato la vita! » lo ringraziò Oswald alla vista del telanor                  
« Tutto merito di Vergar che è riuscito a vederti! » disse Liffàr che indicò lieto il folletto che teneva sulla schiena « Allora grazie mille Vergar, mi hai salvato la vita! » ripeté Oswald.                                                                                    
« Un meritato inchino per colui che ha fatto più di questo; colui che me ne ha ridato una nuova! » disse Vergar che aveva il visto sporco di sangue.                        
Poi i tre si divisero di nuovo, non potevano attendere molto; non potevano sprecare tempo inutilmente.                                                                                
Quando il vento di Liffàr ,che proteggeva i passanti, s’insinuava tra i vicoli lugubri della città questi tintinnavano come campane a vento. La donna con i biondi capelli agitava ancora le mani, distesa per terra e uomini donne e bambini vorticavano nell’aria insieme a pezzi di edifici, spade e oggetti.
Oswald prese a scendere la scala di marmo che quasi crollava sotto i suoi piedi, ma venne bloccato alla vista di Vintarige e Garnashaik. Si nascose quindi dietro un barile per non essere visto, in procinto costante di fuga.                                                                                                                                  
« E voi che ne sapete? Io lo adoro come allo stesso modo in cui voi lo adorate! »                                                                                                                        
« No stupido idiota, lui sorveglia dall’alto! Lui sa chi gli è devoto e chi no »                                                                                                                          
« Allora io come potrò aiutarvi ? » domandò furioso Vintarige.                                                                                                                    
« Tu, uomo, vorresti forse aiutarci ? » ghignò Garnashaik « Non essere sciocco! »                                                                                                                  
« Erano i patti, forse non ricordi … io vi avrei fatti entrare nella città, permesso di distruggerla, in cambio di un minimo di gloria! Io vi ho chiamato qui, soltanto io ho il dovere di poter godere di tali riconoscimenti! »                                                                                                  
« Pensavo stessi scherzando Vintarige! » lo rimproverò alzando il tono della voce il Gurak « Non ci si diverte con ciò che riguarda l’alto dio! »                              
« Io ho ciò che voglio qui, sono il sovrano, porto un peso più importante del tuo! Quindi non alzare contro di me, nel mio regno,  il tono della tua voce! Potrebbe essere l’ultima cosa che tu faccia»                                                                                        
« Io potrei sviscerarti stupido uomo! »                                                                                                                              
« Come ti permetti! Viscida creatura! Dov’è l’Eschis? Voglio parlarne con lei! »                                                                                                              
« Parlarne con lei? Non sei così importante da poterlo fare! »                                                                                                  
« COSA!? » urlò con gli occhi fuori dalle orbite « Io … io … io vi esilio dal mio regno, sì! FUORI DA DARLAS! » gridò ancora conficcandogli il dito paffuto sull’armatura che copriva il volto.                                                              
Il Gurak ghignò con vigore e sfilò una lama d’acciaio dal fodero nero.            
« Abbassa quell’arma Garnashaik! » lo intimorì Vintarige  « Non ho paura di te! »                                                                                                            
« Fossi in te ti consiglierei di averne, e non poca »                                                                                          
« GARMOLD! » chiamò Vintarige in cerca di aiuto da parte della sua guardia.                                                                                                                                
« Come dici? » urlò Garnashaik puntandolo con il pugnale « Vuoi davvero rimetterci la pelle? »                                                                                        
« Questa è una minaccia!? E’ UNA MINACCIA NEL MIO REGNO!? » gridò Vintarige.                                                                                                                      
« No, certo che no. Se parli ti uccido; questa è una minaccia »                                
« Dunque un’orda di Gurak vorrebbe prendere il mio posto da Re al trono di Darlas! E’ così che vanno le cose! Tutto adesso torna. Il vostro incarico è quello di strapparmi il regno di mano, divenire padroni di una terra in più … vi avrebbe fatto male di certo. Darlas è collocata in un punto strategico, eh?» mormorò Vintarige        
« Peccato che non più voglia di aiutarvi! Fuori di qui, non intendo ripeterlo! Statevene al vostro posto »                                                                      
Allora Vintarige reggendo il lungo abito smeraldo gli voltò le spalle e prese a scendere la scalinata. Oswald si spostò leggermente dal barile in legno, avvertendone il suo dorso scheggiato. Non aveva voglia di fuggire ora, era troppo intento a spiare la conversazione.                          
Ma Garnashaik seguì Vintarige, reggendo sempre la lama tra le sue mani, e continuò ad intimorirlo. D’un tratto gli balzò di fronte e lo puntò al volto con il pugnale.
« Mi chiedevo se … » iniziò Garnashaik con la saliva sgocciolante dalle labbra putride, leccandosi le labbra « … se questa lama fosse più tagliente della tua lingua biforcuta! Tu cosa dici? Direi di testarla sul soggetto stesso! Sai, molte voci dicono che qui nel tuo ragno, vi sia una dolce fanciulla dalla veneranda età, la chiamano Lady di lingua di rosa, chissà se tu riporti il suo stesso veleno nelle vene … o nella lingua ». Il Gurak faceva scorrere la lama tagliente come un rasoio tra le mani, ma questa non scalfiva minimamente la sua pelle putrefatta. Vintarige aveva ancora la bocca aperta per ribattere quando Garnashaik lo tirò per i capelli e, con un gesto netto, gli fece volar via il capo del corpo. Il volto irsuto del Re Inutile volteggiò lungo la strada e rotolò giungendo vicino ai piedi di Oswald, in una chiazza di rosso sangue luccicante.                                                                                                                    
« Vintarige è ora morto, che i capi dei signori si chinino alla grazia del solo vero Marbag l’abominevole, dio dei tre, oscurità della luce, ombra del fuoco! Chinatevi al suo volere, da quest’oggi Darlas non è più un regno » bisbigliò il Gurak rinfoderando la lama.                                                                                                    
Poi si girò indietro a guardare che le sue armate fossero in battaglia, e assottigliando le labbra notò ancora una volta il giovane Oswald.  Il Gurak si voltò prontamente con gli occhi ridotti a fessura, innalzando al cielo il suo pugnale, nuovamente sfilato ed ancora ricoperto di freddo sangue scuro. Le sue parole riecheggiarono nel buio e nell’ombra, rivelandogli per un misero momento la veridicità racchiusa in quell’avvertimento:                                                                                                
« Non ho voglia di sprecare altro fiato! Oswald Polfinger,  consegnami il Qesitay o assaggia la distruzione »                                                                                
Tra le fiamme cobalto ed il silenzio, Garnashaik saltò al collo di Oswald, che era solo immerso nel buio. Il Gurak lo fece schiantare per terra e lo stritolò afferrandolo per il collo, il Qesitay gli scivolò di mano e rimbalzò per terra. Ma quando la belva allungò il braccio per afferrare il cimelio, dall’altra parte della strada s’udì un grosso e potente grugnito, la grossa bestia di Oliver, da lui cavalcata, Gripa s’avvicinava correndo verso di lui. Oliver lo afferrò per il braccio e lo tirò sul dorso della bestia che continuava a trottare nel viale buio. La gemma non era più per terra e Garnashaik era fuggito via a gambe levate. Poi si avviò per il lastricato, Oswald sopra il dorso del grosso cinghiale peloso, e s’immerse nella cupa oscurità.                                  
« Quanti di noi vedranno l’alba domani? » domandò Oswald.                                                                                                      
« Non molti; soltanto i più temerari » rispose Oliver.                                                                                  
« Dobbiamo andare via da qui, sei in grave pericolo, ti hanno scoperto! »                                                                                                                
« E’ stato Vintarige! Liffàr aveva ragione » disse Oswald.                                                                                    
« Immaginavo! Maledetto uomo! » commentò Oliver che si teneva stretto al dorso di Gripa; questi era tonnellate più grande di lui.                                
« Ah Oliver, prima … quando mi hai chiesto di cercare il Qeistay … » lo rimproverò Oswald « Ti ho incontrato di fronte alla mia casa; stavi uccidendo degli uomini! Perché lo hai fatto? »                                                                    
« Che cosa? Io ho ucciso degli uomini? » chiese perplesso Oliver.                                                      
« Eri tu! Ti ho visto! C’era anche Alais con me! » spiegò Oswald con gli occhi in lacrime  « Senza il tuo strano cappotto però »                                                          
« Sei sicuro di quel che stai affermando? »                                                                        
« Certo che sì Oliver! Avevi una daga in mano e stavi decapitando alcuni uomini! Come hai potuto? Ho anche Alais che potrebbe … » ma poi si fermò con gli occhi in lacrime, la sua mente aveva visto così tante scene allarmanti susseguirsi l’una dopo l’altra che si era addirittura dimenticata di aver perso il ricordo di Alais.                
« Ma non ero io! Davvero non capisci? » chiese Oliver « Non so come sia possibile … e dimmi dopo cos’è successo? »                                              
« Mi sono voltato giusto un secondo e … e tu non c’eri più! Ma a quel punto, al tuo posto, ho visto un Gurak! »                                                                
« Umh … » bisbigliò Oliver « Indagherò su tutto ciò … stai certo che quel mostro non ero io, per il momento evitiamo di fidarci troppo di chiunque. Del resto ho già una mia idea, suppongo che tu abbia visto un … »                                                                                                                                                                      
Il grosso animale correva molto velocemente pur possedendo una mastodontica taglia. Ma purtroppo il suo veloce passo venne bloccato da un Gurak incappucciato che balzò giù da un bastione. La bestia corse nella loro direzione e, gettandosi su Gripa, lo afferrò per la zampa. Poco dopo, dall’alto, scese anche un bambino che con una frusta ed una fionda stava cercando di ferire il Gurak. Oliver e Oswald volarono giù dalla groppa di Gripa, vorticarono nell’aria,  e questo cadde per terra. Nel frattempo il fanciullo attirò l’attenzione della creatura che si mise a correre alle sue calcagna, sbavando e demolendo ogni cosa. Darlas continuava e tremare, vi fu una forte e turbolente scossa, la terrà vibrò ed un enorme abisso si spalancò dividendo il regno in due. Il frastuono ed il fumo provenienti dal cratere si dissolsero nel cielo, ogni cittadino ne fu allora molto scosso. Tutto stava crollando attorno ai loro occhi; case, torri, il palazzo d’oro, la statua di Galioph; tutto quel che è stato un tempo importante a Darlas, stava per essere distrutto.                                                                                                                                        
« Non c’è altro tempo da perdere Oswald, afferra questo e va’ a chiamare Liffàr! » gli spiegò Oliver lanciandogli un pugnale « Io vi attenderò qui, nel mentre cercherò di curare la ferita di Gripa »                                              
« Arrivo subito allora! » mormorò Oswald, poi iniziò a correre per i viali distrutti di Darlas in cerca di Liffàr; ma senza un’esatta meta.
Corse a lungo per Darlas, non poté fare a meno di notare, nel suo percorso, tutti i tremanti e straziati uomini che giacevano per terra stremati. Tra i tanti riconobbe Palgolin padre di Alais, che probabilmente non sapeva ancora della morte del figlio, Brop il locandiere accovacciato accanto ad una lunga veste viola, Gregor il fattore con sua moglie Allien, Affard lo scalpellino folgorato dai pianti, insieme ai suoi figli, ed anche alcuni consiglieri di Vintarige.
 Perquisì con cura il primo ed il secondo livello, ma di Liffàr non c’era alcuna traccia; scampò per miracolo alla pugnalata di un Gurak al terzo livello e raggiunse il quarto solo dopo dieci minuti. Galioph il fondatore era in frantumi, il palazzo diroccato e la torre di Liffàr rasa al suolo. Accanto alle macerie del palazzo d’oro due Gurak stavano duellando contro il vecchio telanor, la cui aria era deteriorata e sfinita.                                                                                                                  
« Sei proprio legato a questa vita, uomo! » lo schernì uno dei due.                                                            
« A differenza vostra, direi proprio di sì! » ribatté Liffàr che stava brandendo una spada nella mano destra ed una bastone da passeggio nella mano sinistra, muovendosi lateralmente a passi corti. Le sue mani tremavano dalla paura, le cui parole riuscivano a nascondere perfettamente, ed i Gurak paravano ogni suo fendente. Nel mentre cercava di avanzare o arretrare in base alla posizione delle creature.                                                                                                                              
« Soffrirai e morirai per questo! » gridò uno dei due Gurak, quando lo disarmò e lo afferrò per il collo « Adesso! »                                                                          
« Non credo proprio! » urlò Oswald correndo in direzione del Gurak che cingeva il collo di Liffàr, urtandolo con il peso del suo corpo. Il mostro cadde per terra sulle ginocchia, Liffàr calò la sua spada oltre la fredda armatura che ricopriva il suo capo; si sentiva in debito con lui. Il telanor vacillò e tagliò, con un gesto netto, le gambe del secondo Gurak.                                                                                                            
« Va tutto bene Oswald? » domandò Liffàr il cui volto venne rischiarato dalla luce della luna. Era pieno di graffi e tanto sangue colava dalla sua testa, la barba nera era adesso tinta di rosso.                                                        
« Potrei farti la stessa domanda Liffàr! »                                                                      
« Sì, hai ragione … ma sto bene! »                                                                      
« Oliver è in pericolo, dobbiamo fuggire Liffàr! Mi ha detto di chiamarti! »                                                                                                        
« Io non posso fuggire Oswald, devo rispettare i miei giuramenti da telanor, il regno è sotto assedio, soltanto io posso difenderlo! »                                    
« Ma Liffàr, è importante che tu vada ad aiutare Oliver » farneticò Oswald « Vuole vederti immediatamente »                                                                          
« Questo posso farlo! Andiamo allora, la strada è libera adesso! »                                    
I due iniziarono a correre in direzione del primo livello, Liffàr si teneva con la mano destra la lunga veste rossa che era quasi un tutt’uno con il sangue che aveva impressa. Dalla sua spada il sangue sgocciolava come se provenisse da una fonte, impregnò infatti il suo fodero di un ormai inconfondibile color bordeaux.      
« Hai visto Vergar per caso? » domandò Liffàr mentre stavano scendendo la scalinata a tratti crollata e saltavano per evitare le macerie e i corpi defunt
« Sì, poco fa » rispose Oswald scavalcando un Gurak morto nelle scale « Ma era con te Liffàr »                                                                                          
« Adesso non sai dove si trova? » chiese Liffàr.                                                                                                            
« No, non lo so » rispose Oswald.                                                                        
Poi continuarono a camminare immersi nelle urla dei paesani che venivano seguiti correndo da alcuni Gurak.                                                
Per un momento s’udirono i lamenti delle genti e le urla dei loro assassini.                                                                                                                    
Continuarono a correre accanto alle mura, diversamente dall’ultimo livello il primo era pieno zeppo di morti.                                                                
« Vintarige è stato ucciso … » disse Oswald ansimante a Liffàr, ricordandolo dopo aver visto un altro uomo senza il capo sul collo.                                                
« Ah sì? Bé, non lo sapevo, ma lo sospettavo! Questa è la ricompensa per i suoi inutili sforzi! »                                                                                            
« Ci ha messi in pericolo per poi lasciarci … ha abbandonato il regno senza dover soffrire »                                                                                                    
Un Gurak lanciò un pugnale verso Liffàr, ma questi lo schivò e l’arma lo colpì nella veste. L’altro mostro invece ferì Oswald con una freccia al polpaccio e poi venne spazzato via dal vento di Liffàr. Correndo giunsero in un punto meno sospetto, più buio e lugubre, ma molto meno caotico.                                                  
« Tutto bene? » domandò lui Liffàr.                                                                          
« Sì, non preoccuparti, è solo una lieve ferita » rispose Oswald cercando di evitare che il sangue colasse dal polpaccio. Stavano per arrivare altri Gurak in quella strada, non era molto sicuro restare oltre lì, così entrambi girarono ancora in un ulteriore in un viale oscuro.                                                                                            
Lì, in un vicolo cieco, giaceva Oliver accanto alla sua enorme bestia, e su una casetta della frutta sedeva Vergar il folletto.                                                        
« Oh eccovi! » urlò Oliver alla vista dei due.                                                    
« Finalmente, stavamo per spazientirci! » ribatté Vergar sorridendo.                                            
« Suvvia, non esagerare Vergar, è il minimo questo! »                                              
« Io ho affrontato da solo un’orda di Gurak, pensi che sia il peggio? Ed oltretutto ne ho ucciso uno con un solo scudo di legno. Estremamente scaltri ed ossequiosi, sarebbero quasi del tutto invisibili se non continuassero a ripetere “così l’oscuro, così la notte, così l’ignoto … bla bla bla” »                                                    
« Da solo? Se la memoria non m’inganna un bambino ti ha dato una mano! » s’intromise Oliver.                                                                                            
Vergar lo squadrò per bene.                                                                                                  
In quel minuto la guerra sembrava non esserci mai stata, quell’angolo riservato del regno, era restato intatto.                                                                        
« Allora! Dobbiamo metterci in salvo … hanno scoperto Oswald e non possiamo lasciare che prendano il Qesitay » iniziò Oliver.                                                      
« Possiamo andare via … dobbiamo fuggire! » disse Vergar che aveva assunto un espressione seria.                                                                            
« Io non posso, almeno finché tutto non sarà finito! Sono legato al regno! » spiegò Liffàr « Devo difenderlo, è il mio compito da telanor. I giuramenti che ho prestato al regno restano fedeli, sempre »                      
« Ci fosse un regno! » urlò Vergar.                                                                              
« Liffàr, rinuncia a tutto ciò! Non esiste più nulla ormai! » propose Oliver che sembrava intimorito nel pronunciare quelle parole.                                    
Liffàr era dubitante, il suo volto era pieno di crepe e la sua espressione era rammaricata e desolata.                                                                                      
« Il tuo Gripa come sta? » tagliò corto Oswald rivolto ad Oliver, lasciando riflettere Liffàr.                                                                              
« E’ solo un piccolo taglio, potrà camminare ma non correre … pertanto dobbiamo affrettarci! »                                                                      
« Dobbiamo proteggere noi stessi! » gridò Vergar.                                                      
« C’è una guerra alle porte! » asserì Liffàr.                                                                              
« La guerra è per tutti Liffàr, noi non possiamo attendere! Vintarige si è dimostrato abile nel fuggire al momento opportuno! »                                
« Vintarige è stato ucciso! » disse Liffàr « Avresti voluto fare la sua stessa fine forse? »                                                                                            
« Non proprio … ma avrei preferito ucciderlo io! »                                          
« Basta! Non è il momento di discutere! » s’intromise Oliver                
« Dobbiamo partire adesso! Non è rimasto altro tempo, mi spiace! »  
« Io rimarrò qui, vi raggiungerò dopo allora! »                                                        
Ma in quell’istante vi fu un successivo trambusto; la terra tremò ancor più forte di quanto potesse farla tremare un terremoto. Gripa che si era appena rimesso in sesto barcollò e cadde sopra Vergar, Liffàr si tenette forte al bastone per evitare di crollare e Oswald s’appoggiò alla parete sorretto, in gran parte, da Oliver.  Poi un boato richiamò a sé ogni cosa ... parole scorse Oswald all’interno del fastidioso rumore semi metallico:                                                                                                                          
“ Color che il sangue han perduto,                                                                                                                                
ma che la morte non han assaporato;                                                                          
riteniate sublime il fato,                                                                                   
non vi hanno, le truppe di Marbag, abbattuto.                                                                              
Il cimelio non è ancora nelle mani dell’errante                                        
presto Qesitay tornerà nella sua terra natia,                                                                                            
bensì color che han smarrito, ‘sta notte, la via                                                                                                    
avranno nel petto un cuore perennemente sanguinante.                                    
Chi per mia volontà ha saputo combattere,                                                                                                                      
sarà lieto di tornare da noi;                                                                                                                             
ancora una volta gli uomini verranno attaccati,                                                   
e soggiogati verranno abbindolati.                                                               
Ma questa notte ciò non avverrà;                                                                
attenderemo che un nuovo sole sorga,                                                                     
che la luna l’ovest raggiunga,                                                                                                 
e che all’alba il nostro imperò si rinnovi!”
       
                                        
Poi vi furono alcune grida, un forte schiamazzo; e nel frastuono i Gurak corsero via dalla città, mentre alcuni ancora venivano uccisi dai pochi uomini rimasti in vita, seguiti dalla sacerdotessa altezzosa e bionda.                                                                                  
« Il richiamo … » mormorò Oliver.                                                                                              
« Chi ha parlato? » domandò Oswald.                                                                    
« Devi sapere che quando più Gurak emettono le stesse parole il suono si propaga amplificandosi» rispose Liffàr.                                                            
« Si ritirano … sono accorsi in pochi questa notte » mormorò Vergar.                                                                                           « A quanto pare … ma avranno un altro piano! Perché il Qesitay lo tieni tu, non è così? » domandò Liffàr a sua volta.                                              
« Ovviamente » rispose Oswald toccando la casacca per farsi convinto della sua risposta.                                                                                    
« Ora che ci siamo liberati di questo peso, Liffàr potrai scappare? » domandò Vergar tornando a sedersi sulla cassa.                                                            
« Sì, posso farlo adesso! » mormorò Liffàr « Ma dobbiamo portare anche tutti i restanti cittadini ormai stremati, ci sono donne, molti uomini anziani e bambini indifesi »
« Certamente! » esclamò Oliver « Avevo concordato anche questo con Tomard di Arsalan! »                                                                                                          
« Quindi ci trasferiremo ad Arsalan … con decine e decine di famigliole distrutte; come pensate di portarli? Sul dorso di un drago? O … forse con Gripa! » annunciò Vergar sbattendo la sua mano sul dorso della bestia, che grugnì energicamente.                                                                                                            
« Ci sarebbe qualche cavallo alla fattoria di Gregor! » disse Liffàr che si spremeva le meningi in cerca di una soluzione migliore « Ma non così molti da poter essere cavalcati da ogni persona! Gli animali sono stati sterminati, quasi tutti. »                                                                            
« No Liffàr … neanche quei pochi! Tutti morti! Alcuni sono stati scuoiati, altri puntualmente decapitati » sbraitò Vergar.                                            
« Arsalan è molto distante vero? » chiese Oswald.                                                                          
Tutti si voltarono a guardarlo.                                                                                          
« Ci vorranno alcuni giorni a cavallo » rispose Liffàr.                                                                                  
« In groppa ad un comunissimo destriero impiegheremmo sei giorni, a piedi ci si potrebbe mettere un massimo di dodici dì »                                                
« A piedi! » esultò Oswald « Perché non andare a piedi? »                                      
« Spero tu stia scherzando giovane ragazzo! » farfugliò il folletto « E’ impossibile camminare per giorni senza una misera sosta … »                                    
« Oh, nessuno ha detto che non ci saranno soste! » commentò Liffàr.  « Magnifica idea» esultò Oliver « A piedi è più che ottimo, potremo accampare ovunque lungo il viaggio e non dovremo preoccuparci delle bestie »                                                                                                                                                            
« Per ma va bene » disse Liffàr                                                                  
«  Ma se Vergar è indisposto a camminare sono disposto ad offrirgli il dorso di Gripa! Sono assolutamente sicuro che a lui non dispiacerà affatto » disse Oliver « e che per entrambi sia un’ ottima soluzione »                                                                            
« Adoro Gripa! » esclamò Vergar accarezzando il rozzo musone della bestia.                                                                                                                                
« Vergar e Liffàr, andate a chiamare tutti i restanti … conduceteli al  portone! Ricordate di fargli prendere quanti più indumenti possibili ... il freddo è di casa a Forte del Drago, la casa di Tomard e Septa di Arsalan. Ci vedremo all’entrata non appena avrete finito! Non tardate poiché partiremo quando il sole sorgerà e l’alba recherà una nuova speranza! » spiegò Oliver.                                                                
Oswald allora aveva capito il motivo per cui sua madre s’era trascinata via tutti quei bagagli prima della partenza, in effetti conosceva bene il luogo in cui stava per dirigersi, era consapevole delle condizione climatiche. Sia il folleto che il telanor annuirono e, svelti, si recarono lontani. Vergar s’aggrappò allora alla veste di Liffàr come se questa fosse un saldo macigno e, scrutando l’ancor tenebroso cielo, s’insinuò nell’ombra.                                                                                        
« Cosa faremo noi? » domandò Oswald ad Oliver.                                      
« Semplice, attenderemo il loro arrivo al bastione! »                                        
Oliver afferrò Gripa per una delle tante corde che pendevano dal suo grosso e possente muso e lo tirò oltre, accompagnato dal sottile passo di Oswald al suo fianco. La guerra era conclusa e l’abominevole non era riuscito a scorgere il Qesitay; ma tanti erano stati i morti ed Oswald era tanto rammaricato per Alais, il cui pensiero gli provoca una lussureggiante pioggia acida agli occhi.                                                    
Quando l’angolo scrutarono un’anziana signora accovacciata per terra lungo il sentiero.                                                                                          
« Ce l’abbiamo fatta » mormorò « E’ finita! »                                                                                
Questa fu probabilmente l’ultima frase che la donna bisbigliò, prima di accasciarsi sulla spalla trasandata del marito per poi ,sfinita e morente, chiudere gli occhi.
« Sì, mia donna, è finita! » rispose l’uomo « Siamo salvi! »                                                        
Ma per quanto profonde poterono essere le sue umili parole, la donna non poteva più ascoltarlo; ormai il suo animo non era più in terra.                                                                  
   



--- Angolo d'autore --- Eccoci finalmente giunti al terzo capitolo del romanzo! Eh sì, Vintarige è andato! Proporrei un brindisi per questo meraviglioso evento, non trovate? Spero vi sia piaciuto, da adesso inizierà il vero viaggio e, per questo, la vera storia. Al prossimo aggiornamento! :) 

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